CAPOLAVORI DEL 600 ITALIANO DA MADRID A ROMA

CAPOLAVORI DEL 600 ITALIANO DA MADRID A ROMA
ROMA\ aise\ - Per la prima volta in un’esposizione tornano in Italia, ovvero nel Paese in cui vennero concepiti, alcuni capolavori
del Seicento dipinti da Caravaggio, Guido Reni, Luca Giordano, Bernini, Guercino, Mattia Preti e conservati al Patrimonio
Nacional, l’istituzione pubblica spagnola che tutela e valorizza il patrimonio artistico nella disponibilità della Corona.
L’esposizione "Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna", che è stata
inaugurata giovedì 13 aprile alle Scuderie del Quirinaledal presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla presenza di Ana
PastorJulián, Presidente della Camera dei Deputati di Spagna, sarà visitabile fino al 30 luglio. Si tratta di 60 opere,
comprendenti anche dipinti di eminenti pittori spagnoli molto attivi all’epoca in Italia quali Jusepe de Ribera, Diego Velázquez
ed altri, coerentemente selezionate ed organizzate da Gonzalo Redín Michaus in un percorso che testimonia da un lato il
grande apprezzamento della nobiltà spagnola per l’arte e la cultura italiana e dall’altro il fortissimo intreccio delle relazioni
politiche, economiche e culturali intercorse tra i due Paesi nel XVIIesimo secolo. Non va dimenticato infatti che, con la
dichiarazione di pace di Cateau-Cambrésis del 1559 tra Francia e Spagna, a quest’ultima fu riconosciuta la sovranità in alcune
zone d'Italia come il Ducato di Napoli, le isole di Sicilia e Sardegna ed il Ducato di Milano. La corona spagnola riuscì anche ad
ottenere un controllo indiretto sulla Toscana e su Genova. Rimasero indipendenti solo lo Stato Pontificio e la Repubblica di
Venezia.Ma il collezionismo spagnolo d’arte italiana in realtà nasce ancora prima, nel Cinquecento, indotto dalla passione di
Carlo V per le opere d’arte e gli oggetti preziosi di cui amava contornarsi. Questa passione di Carlo V contagiò ben presto tutta
la corte spagnola. Per tutto il Seicento e fino all’inizio del Settecento ambasciatori, principi e alti dignitari di corte si esercitarono
nel difficile compito di acquistare o commissionare opere d’arte per poi inviarle ai sovrani di Spagna o utilizzarle come mezzo di
scambio per raggiungere posizioni di maggior prestigio. Questo fenomeno si intensificò per effetto anche dei governanti degli
Stati italiani che offrirono, spesso sotto forma di doni diplomatici, queste pregevolissime opere artistiche ai sovrani di Spagna
per ingraziarseli e ottenerne protezione e favori. La meravigliosa Conversione di Saulo di Guido Reni fu ad esempio donata a
Filippo IV per garantire la protezione della Corona spagnola al minuscolo Stato di Piombino. La Vocazione di sant’Andrea e san
Pietro, dipinta da Federico Barocci (1533 circa - 1612) fu invece donata a Filippo II dall’ultimo duca di Urbino, Francesco Maria
II Della Rovere. La tela ebbe grande successo in quanto Barocci era il pittore italiano più consono al gusto spagnolo del
momento, che prediligeva opere devozionali e rispettose del decoro. Altre opere, quali il bellissimo Crocifisso di Bernini
all’Escorial, vennero commissionate dagli emissari del re in Italia, ma in alcuni casi anche acquistate per le loro collezioni
personali, come la Salomè con la testa del Battista di Caravaggio che, al pari di altre tele dei cortigiani spagnoli, andò ad
arricchire le Collezioni Reali. Un altro riflesso di questo grande interesse per l’arte italiana fu l’invito a lavorare a corte rivolto ai
maestri italiani, come avvenne nel caso del napoletano Luca Giordano, che rimase e operò in Spagna per ben dieci anni, fino
all’inizio del Settecento.L’interesse spagnolo per l’arte italiana è testimoniato inoltre dai viaggi in Italia compiuti dai più
importanti maestri iberici del periodo: Jusepe de Ribera, ad esempio, che giunse prima a Roma nel 1606 e poi Napoli, dove
rimase e operò stabilmente per quasi tutto il resto della vita. Nella mostra si possono ammirare cinque capolavori di Ribera tra
cui il celebre Giacobbe e il gregge di Labano. Un altro illustre esempio è dato da Velázquez, che dal soggiorno italiano trasse
fondamentale ispirazione per l’elaborazione del suo linguaggio artistico. Tutti i capolavori presentati alle Scuderie del Quirinale
provengono da quello straordinario fondo collezionistico che oggi è il Patrimonio Nacional. La sua origine rimonta all’Ottocento:
nel 1819 il re Ferdinando VII istituisce il Museo del Prado per accogliere tutte le opere non presenti nelle residenze a
disposizione dei monarchi, i cosiddetti Reales Sitios. Successivamente, nel 1865, la regina Isabella II rinuncia alla proprietà
personale dei beni ereditati dai propri antenati e ne cede la gestione allo Stato. Il filo conduttore della mostra può essere colto
nella maniera di affrontare la creazione artistica, vuoi come aspirazione a ricercare la verità attraverso l’imitazione della natura,
di cui il Caravaggio (1571-1610) rappresenta l’esempio più eccelso e coraggioso, vuoi a superarla attraverso la sua
idealizzazione. Giova qui ricordare come nel Seicento la Chiesa utilizzò tutta la sua potentissima influenza sugli artisti del
tempo per reagire alla Riforma Protestante. Esasperando la funzione didattica che la tradizione cattolica aveva da sempre
attribuito alle immagini artistiche, la Chiesa condizionò fortemente e ridimensionò lo spazio interpretativo dell’artista, soprattutto
nei confronti dell’arte sacra, trasformando quest’ultima in un potente strumento di narrazione teologica della Controriforma. La
nuova poetica barocca abbandonò l’idea dell’arte come imitazione dell’ordine naturale: puntando sull’illusione, la finzione, il
mirabile artificio. L’arte diventava una seconda realtà. Si diffuse in ogni ambito la tendenza alla spettacolarizzazione,
all’esagerazione al fine di generare un impatto emotivo tale da veicolare meglio le idee che si volevano propagandare nella
Controriforma. Nessuna forma tipica del barocchismo si ritrova in Caravaggio. Egli ha uno svolgimento in profondità e in
chiarezza che lo riporta piuttosto presso agli artisti del Quattrocento che ai contemporanei. La rivoluzione di Caravaggio fu
spesso interpretata superficialmente dai suoi contemporanei ma oggi, a quasi quattro secoli di distanza, appare in tutta la sua
evidenza. Non è un caso infatti che nella mostra il Caravaggio sia presente soltanto con uno dei suoi dipinti, Salomè con la
testa del Battista, perché Caravaggio era troppo lontano anche dalla sensibilità e dal gusto artistico dei Reali di Spagna di
allora. Eppure, questa sola opera, esposta nella prima sala della mostra, è di per sé già sufficiente per aiutare il visitatore a
collocarsi nello spirito culturale e artistico del Seicento in quanto ne costituisce, per così dire, la cifra artistica di riferimento a
partire dalla quale poter leggere e fruire meglio, contestualizzandole, le altre opere. Bene ha fatto quindi il curatore a collocarla
nella prima sala. In Salomè con la testa del Battista Caravaggio descrive il celebre episodio biblico come se si trattasse di una
storia contemporanea e grazie alla rivoluzionaria scelta di rappresentare direttamente la realtà per quella che è e non per quella
che il potere vorrebbe che sia, dona alla scena tutta la crudezza e la verosimiglianza imposta dal soggetto. Il forte chiaroscuro
esalta la presenza delle figure che emergono dall'oscurità. La tela racconta un dramma vivo, credibile, tremendamente umano.
Proseguendo nella mostra si possono ammirare due importanti opere di Guido Reni: Santa Caterina e la Conversione di Saulo,
realizzata intorno al 1620. La prima, dipinta in epoca giovanile intorno al 1606, si avvicina in qualche modo all'opera di
Caravaggio, come evidenzia la figura di santa Caterina che emerge dall'oscurità. La santa adolescente sembra in procinto di
sospirare mentre comunica con la divinità simboleggiata dalla luce verso la quale dirige il volto. L’illuminazione proveniente
dalla fonte invisibile dona alla santa una fisicità e una verosimiglianza davvero notevole, che vengono ulteriormente esaltate dal
forte chiaroscuro caravaggesco. La figura è invece fortemente idealizzata secondo i canoni di quel classicismo che, partendo
dalla realtà ma solo per rappresentarla nella sua massima perfezione, si opponeva al "dipingere di fantasia" proprio del
manierismo, ma non per seguire Caravaggio nella rappresentazione del reale così com’è, quanto per abbracciare un'idea del
bello in qualche modo superiore a quello offerto dalla natura stessa. In questo, rifacendosi ai modelli della scultura antica e a
Raffaello. Nella seconda opera di Guido Reni presente nella mostra, la Conversione di Saulo, l'originalissima composizione dà
risalto alla natura solitaria della conversione di Saulo concentrandosi sul momento decisivo in cui il futuro santo scorge la luce
divina della Rivelazione. Oltre al grande valore artistico, colpisce anche la storia di questa tela, che fino a pochissimi anni fa era
nascosta in un locale del Palazzo Reale di Madrid ed è stata ritrovata proprio da Gonzalo Redín Michaus, il curatore della
mostra, che ha riconosciuto in Guido Reni l’autore e ne ha ricostruito il tortuoso percorso che dalla collezione di Niccolò
Ludovisi, per testamento di quest'ultimo, venne donata a Filippo IV. Soprannominato lo "Spagnoletto" per le sue origini
spagnole, Jusepe de Ribera occupa un posto di rilievo nella mostra con ben tre dei suoi capolavori ed altre opere minori. Ciò si
spiega per il fatto che Ribera fu anche il pittore più richiesto dai viceré spagnoli durante il lungo soggiorno nella città
partenopea. Giacobbe e il gregge di Labano, dipinto intorno al 1632, insieme ad un altro suo capolavoro, San Francesco
d'Assisi si getta in un roveto, mostra molto bene l'aprirsi di Ribera alla luminosità e alla gamma cromatica propria della corrente
neo veneziana. Il restauro della tela ha restituito dettagli di sorprendente naturalismo come le ciglia degli animali o il limpido
ruscello da cui si abbevera la pecora. Il soggetto, tratto dell'Antico Testamento, rappresenta Giacobbe con il gregge dello zio
Labano. Le pecore bianche e quelle pezzate, citate nel testo biblico, sono rappresentate nell'opera e molto probabilmente
rimandano al dibattito sulla purezza di sangue che imperversava nella Spagna dell'epoca. Nel San Francesco d'Assisi si getta
in un roveto, datato intorno al 1630, si richiama l'episodio miracoloso che condusse all'istituzione dell'indulgenza plenaria
conosciuta come "Perdono di Assisi". Per sfuggire alle tentazioni del demonio, San Francesco si getta nudo in un cespuglio di
rovi che all'istante si trasformano in rose. Nello stesso frangente riceve la visita di un angelo che lo esorta a chiedere al Papa
un’ indulgenza per quanti si rechino a pregare nello stesso luogo nel giorno della liberazione di San Pietro. Il terzo capolavoro
di Ribera è il San Girolamo penitente del 1638 circa. Si tratta di una delle più originali e intense rappresentazioni del Santo mai
dipinte. L'eremita, esausto, cerca di sollevarsi da terra afferrandosi alle corde che pendono dal soffitto della grotta. Accanto lui
si scorgono i libri che alludono alla sua intensa attività intellettuale di dottore della Chiesa latina, mentre il teschio è un simbolo
di penitenza. L'opera venne realizzata per la chiesa della Certosa di San Martino a Napoli.Le tuniche di Giuseppe è un
capolavoro dipinto da Diego Velázquez e datato non oltre il 1634, poco dopo il suo rientro dall’Italia. L'opera era collocata
accanto alla fucina di Vulcano nel palazzo del Buen Retiro. Il maestro sivigliano non cercava, come faceva la pittura classicista
italiana, di codificare le espressioni dell'essere umano né di fissare una bellezza ideale. Per Velasquez, fisionomia e bellezza
dovevano avere il proprio fondamento nella realtà e comunicare una verità comprensibile a tutti. Il volto attonito di Giacobbe
mostra perciò la reazione di un individuo concreto dinanzi a una notizia spiacevole, ma è anche l'incarnazione stessa della
sorpresa, come qualsiasi osservatore può constatare. Oggi come allora.Infine, a conclusione di questo, sommario e del tutto
parziale, elenco di opere di altissimo valore artistico, vale la pena di menzionare una pregevolissima sezione dedicata a
sculture di altissimo pregio tra le quali spicca per l’eccezionale bellezza e raffinatezza il Cristo Crocefisso del Bernini. Non si
comprende quindi come una scultura di tale livello venisse soltanto due anni dopo sostituita al Pantheon reale dell’Escorial dal
crocifisso di minor valore di Domenico Guidi, anch’esso esposto nella mostra, che per di più seguiva un modello del principale
rivale di Bernini, Alessandro Algardi. Un’accurata analisi della statua ha recentemente rivelato che, a differenza dei crocifissi di
Guidi e Pietro Tacca all’Escorial, questa figura non fu mai dorata e che questo potrebbe aver costituito il problema alla base del
rifiuto. Nell’esposizione si può inoltre ammirare un’altra pregevolissima scultura del Bernini che rappresenta il modello della
famosa Fontana dei quattro fiumi di piazza Navona del Bernini, inaugurata a Roma nel 1651. Moltissime altre sarebbero le
opere della mostra meritevoli di essere qui descritte o almeno menzionate, ma l’economia del discorso non consente di
proseguire oltre. Sta di fatto che l’esposizione nelle Scuderie del Quirinale di questo ragguardevole insieme di dipinti e sculture
del Seicento, un periodo la cui importanza nella storia dell’arte è stata riconosciuta dalla critica di tutta Europa soprattutto a
partire dal 1950, rappresenta un’occasione veramente unica, da non perdere, per il pubblico italiano e la critica specializzata.
(guido gallelli\aise)