Reductio disp 13-14 - Università degli studi di Bergamo

Teorie dell’argomentazione
Modulo 1: reductio ad absurdum
a.a. 2013-14
primo semestre
Richard Davies
Indicazioni di lettura
per frequentanti
e per non-frequentanti
Indice
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
3
(1)
Obblighi comuni
3
(2)
Obblighi per i frequentanti
3
(3)
Obblighi per i non-frequentanti
4
Seminario di supporto: Il guscio della filosofia
4
Programma delle lezioni del semestre
6
Testi (in ordine cronologico)
Platone, Teeteto, 169-72
8
Platone, Parmenide, 130-33
13
Aristotele, Protrettico, fr. 2
21
Aristotele, Sull’interpretazione, ix
23
Aristotele, Metafisica, IV, iii-iv (fino a 1006a28)
27
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 39-41
30
Sant’Agostino, Confessioni, XI, 12-18
34
Sant’Anselmo, Proslogion, 2-4
40
San Tommaso, Somma Theologica, I, qu. 2
44
Renato Cartesio, Meditazioni, I-III
51
David Hume, Dialoghi sulla religione naturale, IV
75
Bernard Bolzano, Dottrina della scienza, §§ 30-3
81
F. Nietzsche, ‘Verità e bugie …’
89
J.M’T.E M’Taggart, ‘L’irrealtà del tempo’
101
Letture autonome
Percorsi di approfondimento
119
Strumenti di consultazione
121
Introduzioni generali alla filosofia
122
Prontuario per la stesura di una tesina
123
2
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi
universitari [CFU])
Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con le prime tre parti (pp. 9-193) di:
P.G. Odifreddi Il diavolo in cattedra. Einaudi, Torino, 2001 prime tre parti;
– gli studenti del corso 10617 sono tenuti a familiarizzarsi con tutti i capitoli inclusi quelli
contrassegnati dall’autore stesso un asterisco (*: capitoli ix, x, xi, xiv, xv)
– gli studenti del corso 24099 possono permettersi di ommettere i capitoli ix, x, xi, xiv, xv in
quanto relativamente tecnici
E
i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-113
(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)
Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo.
L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula in connessione con i testi di cui sopra
(‘Obblighi comuni’).
In aggiunta all’interrogazione prevista dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre
modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.
La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una
scelta di tre domande delle sei proposte riguardanti il contenuto delle lezioni.
La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina
in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una
tesina’, pp. 123-30). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i nonfrequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 119-21) o proporre un percorso personale
inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle
letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti
universitari (CFU).
3
(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)
I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli
approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 119-21). Per la
preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione
orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.
Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare
una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di
una tesina’ pp. 123-30) o su uno degli argomenti proposti tra i ‘Percorsi di approfondimento’ o
proponendo un progetto personale inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente
consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale
5 crediti formativi universitari (CFU)
Seminario di supporto: Il guscio della filosofia
30 ore: 3 ore la settimana nel primo semestre
A sostegno non solo del corso di Teorie dell’argomentazione dello stesso docente ma anche di
quelli dei professori Bottani (Filosofia teoretica) e Paternoster (Filosofia del linguaggio), il
laboratorio si prefigge di illustrare ed esaminare alcuni dei concetti e delle tecniche basilari della
logica formale e simbolica.
Mentre per Aristotele, la teoria del ragionamento (analitica) era uno strumento non solo per la
filosofia ma anche per le scienze più in generale, per gli antichi stoici, lo studio delle
argomentazioni (dialettica) stava alle altre discipline filosofiche (fisica ed etica) come il guscio di
un uovo sta all’albume e al tuorlo (vedi il testo di Diogene Laerzio più giù a pp. 29-32).
Partendo dagli elementi delle inferenze, come la distinzione tra premessa/e e conclusione, si
distinguono i vari rapporti che possono istaurarsi all’interno di un discorso argomentativo,
individuando ed esemplificando le tre grandi famiglie di deduzioni, induzioni e abduzioni. Poiché
le induzioni e le abduzioni non si prestano a trattamento propriamente formale, la tradizione di
studi logici ha dedicato loro relativamente poco interesse, mentre le deduzioni, ossia i
ragionamenti in cui, poste certe cose, qualcosa d’altro ne consegue di necessità e in virtù di esse,
sono state teorizzate in modo sistematico. La nozione di ‘conseguire di necessità’, di ‘trasmettere
la verità’ o di ‘validità’ sta, dunque, al cuore dell’elaborazione dei vari sistemi deduttivi. Questa
4
nozione viene esemplificata attraverso una riconstruzione della ‘analitica’ aristotelica, ossia la
teoria del sillogismo.
Anche se Aristotele stesso non la esplicita, il suo operato dipende da una distinzione tra le
costanti logiche e le variabili; nel suo caso, questa si esprime nella differenza tra termini come
‘tutti’ e ‘qualche’ da un lato e i nomi di proprietà come ‘essere uomo’ e ‘essere mortale’
dall’altro. Un sistema logico è formale nella misura in cui le sue costanti determinano rapporti di
inferenza valida a prescindere dalle sostituzioni delle variabili.
A partire degli ultimi decenni dell’Ottocento, la logica ha preso una svolta decisamente
simbolica, sostituendo per espressioni comunissime del linguaggio ordinario, come ‘non’, ‘e’,
‘se’, ‘ogni’, ‘il/la’ ‘deve’ ecc., dei segni grafici di non immediata interpretabilità, ma con
definizioni molto precise e univoche. Tali simboli sono stati adottati nella filosofia di stampo
analitico, non solo per l’elaborazione di sistemi che generalizzano e integrano la teoria del
sillogismo aristotelica, ma anche per l’espressione di ragionamenti e tesi propriamente filosofici.
Nell’esporre e indagare questi sviluppi si discuterà anche la questione di ‘traduzione’ tra
linguaggi naturali e simbolismi artificiali.
Non essendo contemplati crediti formativi universitari per la frequenza del seminario, non si
prevede valutazione formale, ma gli studenti sono incoraggiati a partecipare attivamente alla
discussione e agli esercizi in classe.
Alcune letture pertinenti:
F. Berto: Logica da zero a Gödel, Laterza, Bari-Roma, 2007 (capp. 1-3, con esercizi a fine
capitolo)
S. Galvan, Logica, La Scuola, Brescia, 2012 (“Introduzione” storica e primo capitolo sulla natura
e applicabilità della logica)
A. Iacona: L’argomentazione, Einaudi, Torino, 20102 (capp. 1 e 2, con esercizi a fine sezione)
D. Palladino: Corso di logica, Carocci, Roma, 2004 (con esercizi a fine capitolo)
A. Varzi (et al.): Logica, McGraw-Hill, Milano, 2004 (capp. 1-7, con esercizi a fine sezione)
5
Programma delle lezioni del semestre
N°
Argomento trattato
Testo di riferimento
1
Materiali e modalità del corso
– la logica come il “guscio della filosofia”
Diogene Laerzio, Vite,
VII, 39-41
2
Un ragionamento dilemmatico contro il non- Aristotele, Protrettico,
filosofare
2
3
Due reductiones classiche in matematica
4
Il paradosso di Russell e l’insostenibilità della
nozione “ingenua” di classe o insieme
– pillole di autoreferenzialità
5
Si annidano paradossi anche all’interno delle Nietzsche, ‘Verità e
nozioni di linguaggio e verità?
bugie...’
6
La metafora delle metafore e lo scivolo Nietzsche, ‘Verità e
relativista
bugie...’
7
La dottrina di Protagora: ‘l’uomo è la misura di Platone, Teeteto, 169tutte le cose’
72
8
Le risorse del relativismo
9
La
sconfitta
autoconfutazione
10
Il posto del Principio di Non-Contraddizione Aristotele, Metafisica,
(PNC) nel pensiero aristotelico
IV, iii
11
La difesa “confutatoria” del PNC
Aristotele, Metafisica,
IV, iv
12
L’ineliminabilità della nozione di verità
Bolzano, Dottrina
della scienza, 30-3
13
Rapporti tra il PNC con la Legge del Terzo
Escluso (LTE)
14
Eccezioni alla LTE: vaghezza, passati remoti e Aristotele, Sull’
futuri contingenti?
interpretazione, ix
15
Cosa sappiamo del passato e del futuro?
16
I tratti basilari della durata
lezione
del
relativismo
per Platone, Teeteto, 16972
Agostino, Confessioni,
XI, 12-18
6
17
Due concezioni dei rapporti temporali: M’Taggart,
tentativo di derivare un risultato da un dilemma ‘L’irrealtà...’
18
Tempo e cambiamento: perchè la B-Serie non M’Taggart,
basta per la temporalità
‘L’irrealtà...’
19
Tempo e passaggio: obiezioni alla A-Serie
20
Regressi all’infinito: viziosi e innocui
21
Il Ragionamento del Terzo Uomo
22
Può il mondo essere del tutto diverso da come
la concepiamo?
23
Ciò che si può revocare in dubbio e lo scivolo Cartesio, Meditazioni,
scettico
I
24
Di cosa è capace il dèmone maligno?
25
Il dèmone non può farmi dubitare della mia Cartesio, Meditazioni,
propria esistenza
II
26
La negazione di Dio porta in contraddizione?
27
Varie
formulazioni
“ontologico”
28
Dipendenze causali e modelli esplicativi
Hume, Dialoghi, VII
29
Alcune vie per dimostrare l’esistenza di un Dio
Tommaso, Somma, I,
2, 3
30
Sinossi delle tappe percorse
del
M’Taggart,
‘L’irrealtà...’
Platone, Parmenide,
130-3
Cartesio, Meditazioni,
I
Cartesio, Meditazioni,
III
ragionamento Anselmo, Proslogion,
2-5
7
Platone di Atene (427-347 a.C.)
Teeteto
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578
tr. it. G. Giardini, Bompiani, Milano, 2001
[Stephanus, vol. I, p. 169]
[Socrate sta discutendo la natura della scienza e prende in esame la dottrina di Protagora secondo
cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’]
La dottrina di Protagora1
SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e
consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che
presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza. Ma
Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni si
distinguono di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?
TEODORO: Sì.
SOCRATE: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece
dovuto ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di riprendere la
questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe giudicarci senza diritto di
fare questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa migliore concordare in maniera
più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che cambi poco se a cosa sta così o in
maniera diversa.
TEODORO: È vero.
SOCRATE: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel modo
più breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso.
TEODORO: Come?
1
I titoletti in grassetto non appaiono nel testo originale, ma sono una possibile guida per scandire
le tappe del ragionamento
8
SOCRATE: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale pare?
TEODORO: Lo dice, sì.
L’apparente esclusione dell’opinione falsa
SOCRATE: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di
tutti gli uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non consideri
se stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri migliori di sé, e
che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre e malattie, al mare in
tempesta, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di queste circostanze
hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono diversi in altro da loro, se
non per il sapere. E ogni condizione umana è piena di persone alla ricerca dei maestri e
comandanti o per sé o per altri esseri viventi, o per iniziative che intendono compiere, ma lo è
di individui che ritengono di essere capaci di insegnare e di esserlo altrettanto a comandare. E
in questi atteggiamenti cosa diremo, se non che gli stessi uomini pensano che esista, in loro,
sapienza e ignoranza?
TEODORO: Niente altro.
SOCRATE: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza opinione
falsa?
TEODORO: Ebbene?
Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice?
SOCRATE: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli
uomini nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne viene
che non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false. Considera infatti tu stesso,
Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con forza che
nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?
TEODORO: Ma è incredibile, Socrate.
SOCRATE: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le cose.
TEODORO: E come?
SOCRATE: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su
quella stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà vero,
9
ma per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre giudicare
che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni volta si contrastano
pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.
TEODORO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice Omero, che
mi cagionano ogni sorta di difficoltà.
SOCRATE: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false
per tutte queste migliaia di uomini?
TEODORO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.
SOCRATE: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto che
l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la
pensano neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag. 171] che egli delineò
non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza degli
uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto a quelli
cui non pare, tanto più che essa non è rispetto a quelìa che è.
TEODORO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.
La verità per il relativista della tesi anti-relativista
SOCRATE: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto alla
sua opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini, riconosce
che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al suo e per il quale pensano
che egli abbia affermato il falso.
TEODORO: Proprio così.
SOCRATE: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che
riconosce come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?
TEODORO: Necessariamente.
SOCRATE: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.
TEODORO: Certamente no.
SOCRATE: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione in
conseguenza di ciò che ha scritto.
TEODORO: Pare.
10
SOCRATE: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un dilemma:
ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo può nutrire
una opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né un cane, né il primo
uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia imparato. Non è così?
TEODORO: È così.
SOCRATE: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di
Protagora può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso.
TEODORO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio.
Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora
SOCRATE: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile però,
che lui, dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui, all’improvviso,
balzasse fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da dire contro di me che
vado disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi, calandosi giù di nuovo, se ne
andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io penso, servirci di noi stessi, così
come siamo e ribattere il nostro modo di pensare, sempre alla stessa maniera. E, anche ora,
cos’altro possiamo dire che chiunque riconosce questo, cioè che uno è più sapiente di un altro,
e un altro più ignorante?
TEODORO: A me pare così.
SOCRATE: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo punto
che noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose, le calde,
le aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per ciascuno.
Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual differenza tra l’una e l’altra, come
quello che è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere che non ogni
donnetta, o ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi, conoscendo bene ciò che è
giovevole alla loro salute, ma proprio in queste faccende, se pure in altre mai, c’è differenza
tra l’uno e l’altro.
TEODORO: A me pare così. [pag. 172]
SOCRATE: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e il non
santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo beneficio; ed
in queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di cittadino, né città di città.
11
Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo caso Protagora, se in
altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità tra consigliere e consigliere, tra una
città e l’altra nella loro valutazione del vero e non avrà certo il coraggio di sostenere che quei
provvedimenti che una città vara, ritenendoli utili a sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi.
Ma a proposito di quello di cui parlavo, del giusto e dell’ingiusto, del santo e del non santo,
chi segue Protagora si ostina ad affermare che non c’è in natura nessuna di queste cose che
abbia una sua essenza, ma che la valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera,
proprio allora mentre pare valida e per tutto il tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in
maniera assoluta il ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a poco
così. Ma da un ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più
piccolo, un altro più grande.
12
Platone di Atene (427–347 a.C.)
Parmenide
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578
tr. it. M. Migliori e C. Moreschini, Rusconi, Milano 1994
Stephanus vol. III p. 130
[Socrate ha appena esposto la teoria secondo cui le cose somiglianti tra di loro si assomigliano
per partecipazione all’Idea di Somiglianza]
Esistono Idee di tutti gli oggetti?2
Pitodoro raccontava che, mentre Socrate parlava così, egli si aspettava a ogni osservazione di
vedere Parmenide e Zenone adirarsi; al contrario quelli prestavano grande attenzione a Socrate e
spesso, scambiandosi un’occhiata, sorridevano, come se fossero ammirati di lui. Quando poi
quello ebbe finito di parlare, Parmenide disse
«Socrate, sei degno di essere ammirato per lo slancio che metti nei discorsi. Ma dimmi: tu
davvero, per un tuo convincimento, le poni separate, come dici, da una parte le Idee in sé,
dall’altra le cose che di esse partecipano? E ti sembra veramente che ci sia una somiglianza in sé
separata da quella che è in noi, e che questo valga anche per l’unità, la molteplicità e per tutte
quelle determinazioni che hai ascoltato or ora da Zenone?».
«A me sembra di sì» disse Socrate.
«E anche per realtà come l’Idea in sé di giusto – chiese Parmenide – di bello, di buono e così
via?».
«Sì» rispose.
«E che anche l’Idea di uomo separata da noi e tutti quanti noi siamo, l’Idea in sé di uomo o di
fusa o di acqua?».
«Spesso mi sono trovato in difficoltà – rispose – a proposito di questi dati, se bisogna
considerarli come quelli precedenti o no».
2
I titoletti in grassetto non sono nel testo originale, ma possono aiutare a scandire gli argomenti
trattati.
13
«E allora, Socrate, sei incerto anche a proposito quelle realtà che sembrano ridicole, come
capelli, fango, sporcizia o altro, che è privo di importanza e valore, se cioè bisogna o non bisogna
ammettere per ognuna di queste un’Idea separata, diversa da quanta noi trattiamo con le mani?».
«No! – ribatté Socrate –. Io credo invece che quel le cose che vediamo esistano così come le
vediamo mentre mi sembra un po’ assurdo credere che vi si una qualche Idea di queste. In verità
a volte mi ha turbato il pensiero se questo discorso non fosse applicabile a tutte le realtà. Quando
però mi sofferma su questa opinione, subito me ne allontano per il timore di perdermi cadendo in
un abisso senza fondo di chiacchiere. Allora, rifugiatomi tra le realtà di cui prima dicevamo
esistere le idee, lavoro impegnandomi su queste».
«Certo, Socrate, sei ancora giovane, – disse Parmenide – e la filosofia non ti ha ancora preso
come, a mi avviso, ti prenderà il giorno in cui non disprezzerai più nessuna di queste realtà. Ora
invece, a causa della tu età, tieni in considerazione le opinioni degli uomini»
Puo l’Idea essere separata da sé o divisa in parti?
«Ma dunque, rispondimi. Ti sembra, come dici, che vi siano alcune Idee, di cui tutte le altre reali
partecipano e da cui traggono il nome, per cui, a esempio, partecipando alla somiglianza [p. 131]
divengono simile alla grandezza grandi, alla giustizia ed alla bellezza giuste e belle?».
«Certo» disse Socrate.
«Dunque, ciascuna realtà che partecipa, partecipa di tutta l’Idea o solo di una parte? O c’è un
qualche altro modo di partecipare diverso da questi due?».
«E come potrebbe esserci?» rispose.
«L’intera Idea ti pare dunque presente in ciascuno dei molti, rimanendo una, o come altro?».
«In effetti, Parmenide, che cosa impedisce – disse Socrate – che sia una?».
«Sarà dunque una e identica nei molti, presente nella sua integrità nello stesso tempo in realtà
molteplici e separate: ma così sarà separata da se stessa»,
«Non è così – ribatté –. Basta che, come il giorno che, essendo uno e identico, è presente
contemporaneamente in molti luoghi e non è affatto separato da sé, così anche ciascuna delle Idee
sia una e identica nello stesso tempo in tutte le cose».
«Socrate – riprese –, tu poni tranquillamente una stessa unità insieme in più luoghi, come se,
avendo coperti con un velo molti uomini dicessi che è uno intero sui molti: non è forse questo che
volevi dire?»
14
«Può darsi» egli ammise.
«Il velo, dunque, sarà intero su ciascuno, o sarà una parte su uno e un’altra parte su un altro?».
«Una parte».
«Allora. Socrate, le Idee stesse sono divisibili e cose che ne partecipano partecipano di una
parte, e in ogni oggetto non ci sarà più un’intera Idea, ma una parte»,
«Così appare».
«Accetterai quindi, Socrate, di dire che l’Idea, che è una, sarà per noi veramente divisibile e
che sarà tuttavia una?».
«Assolutamente no» rispose.
«Osserva, infatti – disse –. Se dividi la grandezza stessa in parti e se ciascuna delle molte cose
grandi grande per una parte di grandezza più piccola del grandezza in sé, allora tutto questo non
apparirà assurdo?».
«Senz’altro» affermò.
«E allora ogni cosa, che riceva una parte piccola dell’uguaglianza, sarà uguale a qualcosa
d’altro per il possesso di una parte che è minore della stessa uguaglianza?».
«Impossibile».
«Ma supponiamo che qualcuno di noi abbia una parte della piccolezza: questa, in quanto tale,
sarà più grande della sua parte; così la piccolezza in sé sarà più grande. Inoltre, se questa parte
tolta alla piccolezza la aggiungiamo a qualcosa, questo diverti più piccolo non più grande di
prima».
«Questo non può avvenire» disse.
«Allora, secondo te, Socrate, come partecipano delle Idee le altre realtà, se non possono
partecipare né per una parte né per l’intero?».
«Per Zeus! – esclamò –. Non mi sembra facile de finirlo in qualche modo».
Può l’Idea essere infinitamente molteplice?
«E poi, che cosa pensi di quest’altro problema?».
«Quale?».
[p. 132] «Io credo che tu sia giunto a pensare l’Idea una e singola per un ragionamento di
questo tipo: quando ti sembra che vi sia una molteplicità di oggetti grandi, se li guardi tutti
insieme pare che una qualche Idea sia unica e identica in tutti ugualmente; così credi che la
15
grandezza sia una».
«E vero» disse.
«E se con l’anima guardi allo stesso modo tutte queste realtà, la stessa grandezza e le altre
cose grandi, non ti apparirà ancora una qualche grandezza, per la qual è necessario che tutte
queste ti appaiano grandi»
«Sembrerebbe così».
«Emergerà cosi un’altra Idea di grandezza, accanto alla grandezza in sé e alle cose che ne
partecipano, e rispetto a tutte queste ancora un’altra, per la quale tutte saranno grandi. Ma allora
ogni Idea non sarà più una, ma infinita molteplicità»’.
Può l’Idea essere intesa come un pensiero?
«A meno che, Parmenide, – obiettò Socrate – ciascuna delle Idee non sia un pensiero e non possa
nascere in nessun altro luogo se non nelle nostre anime; così infatti sarebbe una e singola e non
potrebbe subire più le difficoltà che prima erano poste».
«E che? – disse –. Ciascuno di questi pensieri è Uno, ma è pensiero di nulla?».
«Ma questo è impossibile» rispose.
«Allora di qualcosa?».
«Sì».
«Qualcosa che è o che non è?».
«Di qualcosa che è».
«Non forse di qualcosa di unitario, che il pensiero pensa singolarmente presente in tutte le
cose, di cui costituisce una caratteristica comune?».
«Si».
«Allora, non sarà Idea questo, che è pensato come Uno, sempre identico in tutte le cose?».
«Anche questa conclusione è necessaria».
«E allora? – riprese Parmenide –. Se dici che le altre cose partecipano delle Idee, non è
necessario che tu ammetta che ogni cosa è formata da pensieri e tutto pensa, oppure che tutto è
pensato ed è privo di pensiero?».
Può l’Idea essere intesa come modello?
«Ma, Parmenide, nemmeno questa – disse – è una soluzione logica, mentre mi sembra preferibile
16
assumere che le Idee stanno nella realtà come modelli e gli altri oggetti assomigliano ad esse e
sono copie. La partecipazione alle Idee delle altre cose non consiste in altro che nell’essere fatte a
immagine di quelle».
«Se dunque qualcosa assomiglia all’Idea – sostenne Parmenide – è possibile che questa Idea
non sia simile alla sua immagine, visto che essa le assomiglia? O c’è un qualche espediente per
cui il simile può non essere simile al simile?»
«Non c’è».
«Non è forse assolutamente necessario che il simile partecipi con il simile di un’Idea identica
per entrambi?».
«Necessario».
«Non è la stessa Idea in sé ciò per cui i simili, Partecipandone, sono simili?».
«Assolutamente».
«Allora, non è possibile che qualcosa sia simile all’Idea, né che l’Idea sia simile ad altro,
altrimenti sempre sorgerà oltre l’Idea una nuova Idea [p. 133] e, se anche questa sarà simile a
qualcosa, un’altra ancora, né mai finirà di aggiungersi una nuova Idea, se l’Idea è simile a ciò che
ne partecipa».
«È verissimo».
«Non è dunque per somiglianza che le altre realtà partecipano delle Idee, ma bisogna cercare
qualche altro modo di partecipazione».
«Così sembra».
«Vedi, Socrate – concluse –, quale difficoltà sorge se stabilisce che le Idee esistono separare e
in sé?».
«Certo».
Può l’uomo conoscere le Idee?
«Devi però sapere – disse – che, per così dire, non hai ancora colto quanto grave è la difficoltà, se
vorrai porre ciascuna Idea delle cose esistenti sempre come una e in qualche modo distinta».
«Quale?» chiese.
«Ce ne sono molte e diverse tra loro – disse – ma la più grave è questa. Supponiamo che
qualcuno dica che non è possibile conoscere le Idee, se sono come noi diciamo debbano essere. A
chi sostiene queste affermazioni, nessuno potrebbe dimostrare che sbaglia, a meno che non si
17
tratti di un interlocutore dotato di molta esperienza, non privo di doti, capace inoltre di seguire
una dimostrazione complessa e dedotta laboriosamente da premesse remote; in caso contrario
sarebbe convincente la posizione di colui che sostiene che le Idee sono inconoscibili».
«Perché, Parmenide?» domandò Socrate.
«Perché, Socrate, penso che chiunque creda, come te, all’esistenza in sé di una qualche realtà
per ciascun oggetto, dovrebbe riconoscere in primo luogo che nessuna di queste è in noi».
«Infatti, altrimenti come potrebbe questa essere esistente in sé?» rispose Scierete.
«Dici bene. Dunque – riprese – anche le Idee, che sono quello che sono nelle loro relazioni
reciproche, hanno il loro essere in questo rapporto, ma non nelle relazioni con le realtè, siano esse
copie o qualche altra cosa, che sono presso di noi e di cui noi partecipiamo dando a ciascuna il
proprio nome. Queste realtà, poi, che sono presso di noi e che hanno lo stesso nome di quelle,
sono anch’esse quello che sono nella loro relazione reciproca e non in relazione alle Idee, e
traggono il nome da se stesse e non da quelle Idee».
«In che senso?» chiese Socrate.
«In questo – rispose Parmenide –. Se uno di noi è padrone o servo, non è certo servo dei
padrone in sé di dò che è in sé padrone, né il padrone è padrone del servo in sé, di ciò che è in sé
servo, ma, essendo uomo, è l’uno o l’altro rispetto a un uomo. Invece l’essere padrone in sé è ciò
che è in relazione all’essere servo in sé, e a sua volta l’essere servo è tale in relazione allo stesso
essere padrone, mentre le cose che sono presso di noi non hanno alcun potere su quelle né quelle
sulle nostre. [p. 134] Ma, come dico, quelle sono in sé e in rapporto a se stesse, come anche
queste nostre in rapporto a loro stesse. O non capisci quello che voglio dire?».
«Capisco perfettamente» disse Socrate.
«Dunque — riprese — anche la stessa scienza, quelli che è in quanto scienza, sarà scienza di
quella stessi verità che è in quanto verità?».
«Senz’altro».
«Invece ciascuna delle scienze, per quanto è in sé, sarà scienza di ciascuno degli esseri, per
quanto è ciascuno in sé, oppure no?».
«Sì».
«E la scienza presso di noi non sarà forse scienza della verità che è presso di noi, e ciascuna
delle scienze che sono presso di noi non sarà forse scienza d ciascuno degli esseri che sono presso
di noi?».
18
«Necessariamento».
«Ma le Idee in sé, come tu stesso ammetti, non sono né possono essere presso di noi».
«No, infatti».
«E gli stessi generi, nella loro singolarità, non sono forse conosciuti in qualche modo da
un’Idea in sé, quella di scienza?».
«Si».
«Che noi però non abbiamo».
«No».
«Quindi, nessuna delle Idee è conosciuta da noi, poiché non partecipiamo della scienza in sé».
«Sembra di no».
«Sarà quindi inconoscibile per noi lo stesso bello in quanto è tale, e il bene e tutte quelle che
noi ammettiamo esistere come Idee in sé».
«Potrebbe essere vero».
Può Dio avere la scienza in sé e non conoscere la realtà umana?
«Guarda che c’è una conseguenza anche peggiore».
«Quale?».
«Se esiste l’Idea di scienza in sé, dovresti dire, o no, che è molto più perfetta della scienza che
è presso di noi, e lo stesso della bellezza e di tutte le altre realtà?».
«Sì».
«Dunque, se qualcun altro partecipa della scienza in sé. non pensi di dovere attribuire a Dio
più che ad ogni altro la scienza più perfetta?»
«Necessariamente».
«Allora, ti pare possibile che Dio, possedendo la scienza in sé, conosca le cose che sono
presso di noi?».
«Infatti, perché no?».
«Perché – disse Parmenide – abbiamo già ammesso, Socrate, che né quelle Idee hanno sulle
realtà presso di noi il loro potere, né queste su quelle, ma solo tra loro nel proprio ambito».
«L’abbiamo ammesso, infatti».
«Dunque, se presso la Divinità è lo stesso potere assolute e la stessa scienza assoluta, né il
potere degli dèl dominerà su noi, né la loro scienza conoscerà noi o qualcosa presso di noi.
19
Analogamente noi non possiamo dominarli con il nostro potere e non conosciamo nulla del
divino con la nostra scienza; così anche quelli né sono i nostri padroni né conoscono le cose
umane, pur essendo dèi».
«Ma temo – ribatté Serrate – che sia un discorso ben strano, il privare la Divinità del sapere».
20
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Protrettico
lingua originale: greco
edizione di riferimento: W.D. Ross Aristotelis fragmenta selecta, Oxford, 1955
tr. it. G. Giannantoni, in Opere (4 voll.) a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari-Roma, 1973
Frammento 2 [= 2 Walzer; 51 Rose]
1. ALEX. APHROD. In Aristot. top. [C.A.G. II 2] p. 149, 9-17.
Vi sono casi nei quali, qualunque interpretazione sia assunta, è possibile, sulla base di essa,
confutare l’asserzione di partenza. Ad esempio, se uno dicesse che non si deve filosofare. E
poiché per filosofare si intende sia il ricercare proprio questo, e cioè se si deve filosofare oppure
no – come disse Aristotele nel Protreptico –, sia il seguire una teoria filosofica, mostrando che
l’una o l’altra di queste cose è propria dell’uomo, in ogni caso avremo confutato l’asserzione di
partenza. In questo caso è possibile provare l’asserzione di partenza secondo l’una o l’altra delle
due considerazioni, ma negli esempi prima citati non è possibile né da tutte le considerazioni né o
dall’una o dall’altra, bensì soltanto da una o da più.
2. SCHOL. IN ARISTOT. An. pr. cod. Paris. 2064 f. 263 a.
Di tal genere è anche il ragionamento di Aristotele nel Protreptico: sia che si debba filosofare, sia
che non si debba filosofare, si deve filosofare; ma o si deve filosofare o non si deve filosofare:
dunque in ogni caso si deve filosofare.
3. OLYMPIOD. In Plat. Alcib. p. 144 Creuzer.
E Aristotele nel Protreptico disse che, sia che si debba filosofare, si deve filosofare; sia che non
si debba filosofare, si deve filosofare; ma allora in ogni caso si deve filosofare.
4. ELIAS In Porphyr. isag. [C.A.G. XVIII 1] p. 3, 17-23.
Oppure, come dice Aristotele nell’opera intitolata Protreptico, nella quale esorta i giovani alla
filosofia; dice dunque così: se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si
deve filosofare: in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo
21
certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo
caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal
momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia.
5. DAVID Prol. philos. [C.A.G. XVIII 2] p. 9, 2-12.
E Aristotele in un suo scritto protreptico, in cui esorta i giovani alla filosofia, dice che sia nel
caso che non si debba filosofare, si deve filosofare, sia nel caso che si debba filosofare, si deve
filosofare, e che quindi in ogni caso si deve filosofare. Ciò vuol dire che sia nel caso in cui uno
dica che non vi è filosofia, fa uso di dimostrazioni con le quali nega la filosofia: e se fa uso di
dimostrazioni, è chiaro che filosofeggia (la filosofia è infatti madre delle dimostrazioni); sia nel
caso che uno dica che vi è filosofia, ancora una volta filosofeggia; si serve infatti di
dimostrazioni, con le quali fa vedere che essa esiste. In ogni caso dunque filosofeggia tanto colui
che nega la filosofia quanto colui che non la nega; l’uno e l’altro infatti fanno uso di
dimostrazioni con le quali rendere credibile quel che dicono; e se fanno uso di dimostrazioni è
evidente che filosofeggiano: la filosofia è infatti madre delle dimostrazioni.
6. LACTANT. Div. inst. III 16, 9.
L’Ortensio di Cicerone, disputando contro la filosofia, finisce per cadere in una conclusione del
tutto evidente, perché nel momento in cui asserisce che non si deve filosofare, non di meno,
all’apparenza, fa filosofia, perché è proprio del filosofo discutere cosa si deve e cosa non si deve
fare nella vita. Noi siamo immuni e liberi da questa accusa, noi che facciamo alta stima della
filosofia, perché è una scoperta della riflessione umana, difendiamo la sapienza, perché è
tradizione divina, e testimoniamo dell’opportunità che tutti ne diventino partecipi.
7. CLEM. ALEX. Strom. VI, XVIII 162, 5.
E a me sembra che sia ben fondato il ragionamento: se si deve filosofare, si deve filosofare. E
questo ne consegue: ma anche se non si deve filosofare; nessuno infatti potrebbe avere
un’opinione di qualcosa se non sa prima questo: dunque bisogna filosofare.
22
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Sull’interpretazione
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Colli, in Opere (4 voll.) a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari-Roma, 1973)
Capitolo ix [Bekker pagina 18a]
Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra l’affermazione
e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa: si avrà sempre un giudizio vero contrapposto
ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma universale, sia
riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.
Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò non
risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti singolari
che saranno, le cose si presentano diversamente. In effetti, se tra affermazione e negazione, in
ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresì necessario che ogni
determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza, quando una
persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa attribuzione, è chiaro
che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si ammette che ogni
affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non potranno infatti appartenere
simultaneamente a tali oggetti.
In realtà, se è vero [pag. 18b] dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso sarà
necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è bianco, oppure
non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la determinazione non
appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro canto, se chi attribuisce la
determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene all’oggetto. In tal caso
è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa.
Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità indifferenti, e nulla potrà essere o
non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate per necessità, e non sussiste alcuna
indifferenza tra due possibilità (in effetti, la verità è detta o da chi afferma o da chi nega), poiché
altrimenti qualcosa potrebbe indifferentemente prodursi oppure non prodursi: ciò che può
23
accadere in due modi indifferenti non è infatti, né sarà, in una certa situazione piuttosto che nella
situazione contrapposta.
Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi stato
bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto prodottosi, che
sarebbe poi stato. E così, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o sarebbe poi stato, non è
possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che non è possibile, d’altro canto,
che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto; inoltre, ciò che è impossibile che
non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per tutti gli oggetti che sarebbero poi stati, è
dunque necessario che si siano prodotti. Di conseguenza, nulla potrà essere secondo due
possibilità indifferenti, o per caso: se un qualcosa avvenisse infatti per caso, non sarebbe più
determinato per necessità. Neppure certo si può dire che vera non è né l’affermazione né la
negazione, sostenendo ad esempio che un qualcosa né sarà né non sarà. In tal caso risulterebbe
anzitutto necessario che la negazione non sia vera, quando l’affermazione è falsa, e che
l’affeimazione non sia vera, quando la negazione è falsa.
Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario che
entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire che tali
determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani necessariamente.
Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere in due modi
indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi: si dovrebbe dire, in effetti,
che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.
Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si vuol
sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi queste ad
oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari –, che uno dei due
giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuoi dire che nulla tra
ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che piuttosto tutte le cose sono e
divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni,
né che ci sforzassimo laboriosamente, con la convinzione che compiendo una determinata azione
si verificherà un determinato fatto, e che non compiendo invece una determinata azione non si
verificherà un determinato fatto.
Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di diecimila anni la realtà di un fatto, e
che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà necessariamente quella
24
delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era vero dire. Né certo ha
alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o meno due giudizi contraddittori: in
realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo non ha affermato qualcosa ed
un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza di essere stato negato, oppure
affermato, [pag. 19a] che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo
diecimila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo.
Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero
esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia
prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per necessità.
Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si produca; del pari,
rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.
Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo
infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e che in linea
generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o di
non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere, cosicché
risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano evidentemente
a questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir tagliato in due,
eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello sussiste poi ugualmente
la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non risulterebbe consunto in precedenza,
se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di
tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un cosiffatto potere.
E dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire,
piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui
l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una
delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche la
seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.
Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo necessario;
non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In effetti, l’essere
per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità, assolutamente, di
tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari, lo stesso discorso vale per i giudizi
contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o non è, come pure, sarà o non
25
sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose, separata dall’altra. Con ciò intendo
dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una battaglia navale, oppure non vi sarà,
ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una battaglia navale, né d’altra parte è
necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò che invece risulta necessario, è che
domani avvenga o non avvenga una battaglia navale.
Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli
oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente
in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà
necessariamente in maniera simile. E appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono
sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle
due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è tuttavia necessario che una
determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un’indifferenza tra due possibilità, e
quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise
sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza, che non sempre [pag. 19b], riguardo ad
un’affermazione e ad una negazione contrapposte, sarà necessario che una di esse sia vera e
l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli oggetti che sono non vale allo stesso modo per
quelli che non sono ed hanno la possibilità di essere o di non essere. Le cose stanno piuttosto
come si è detto.
26
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Metafisica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993
Libro IV (G), capitolo iii [Bekker pag. 1005a]
Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti, studiare
quelli che in matematica sono detti «assiomi» e anche la sostanza. Orbene, è evidente che
l’indagine di questi «assiomi» rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del
filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di qualche
genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di questi assiomi,
perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è essere. Ciascuno,
però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura in cui si estende il genere
intorno al quale vertono le sue dimostrazioni. Di conseguenza, poiché è evidente che gli assiomi
appartengono a tutte le cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è, infatti, ciò che è comune a
tutto), competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche lo studio di questi assiomi.
Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte dell’essere, si
preoccupa di dire qualcosa intorno agli assiomi, se siano veri o no: non il geometra e non il
matematico. Ne parlarono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a ragione: infatti, essi ritenevano
di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e dell’essere.
D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è
solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui che studia l’universale e la sostanza prima,
competerà anche lo studio degli assiomi. [pag. 1005b] La fisica è, sì, una sapienza, ma non è la
prima sapienza.
Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che trattano della verità, di
determinare a quale condizione si debba accogliere qualcosa come vero, bisogna dire che essi
nascono dall’ignoranza degli Analitici; perciò, occorre che i miei uditori abbiano una preliminare
conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre ascoltano queste
lezioni.
27
È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza tutta
e alla natura di essa, far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi. Colui che, in qualsiasi
genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i
principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che possiede la
conoscenza degli esseri io in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti
gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è
impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti
cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Infatti,
quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non
può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere
qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. E evidente,
dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti.
Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa cosa, ad
un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si
aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare
difficoltà di indole dialettica ). E questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso, infatti, possiede quei
caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e
non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno
ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un
identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che
è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un
tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non
esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie.
Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima, perché essa, per
sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri assiomi.
.
Capitolo iv
Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere,
e, anche, che in questo modo si può pensare. [pag. 1006a] Ragionano in tale modo anche molti
dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso
28
tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro
di tutti i principi.
Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato:
infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali,
invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto:
in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe affatto
dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, io essi non
potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione.
Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via dí
confutazione: a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Se, invece, l’avversario non dice
nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in
quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad un vegetale. E la
differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste
in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio;
invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di
dimostrazione.
Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che
qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già un
ammettere ciò che si vuol provare) ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per
gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non
potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l’avversario
concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di
determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che
provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di
un ragionamento.
Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche indipendentemente
dalla dimostrazione.
29
Diogene Laerzio (prima metà III sec. d.C.)
Le vite dei filosofi
lingua originale: greco
edizione di riferimento: H. Frobenius, Basilea, 1533
tr. it. M. Gigante, TEA, Milano, 1991
Libro VII (Vita di Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo)
[36] Dei molti discepoli di Zenone uno dei più famosi fu Perseo figlio di Demetrio nato a
Cizio, che secondo alcuni fu alunno ed amico, secondo altri uno dei domestici mandatigli da
Antigono per il servizio bibliografico: egli era stato istruttore di Alcioneo, figlio di Antigono.
Una volta Antigono volle metterlo alla prova e gli fece annunziare la falsa notizia che i suoi
campi erano stati saccheggiati dai nemici. Perseo divenne scuro in volto e Antigono: «Vedi? La
ricchezza non è cosa indifferente».
Gli si attribuiscono le seguenti opere: Del regno, La costituzione degli Spartani, Delle nozze,
Dell’empietà, Tieste, Degli amori, Protrettici, Diatribe <in quattro libri>, Aneddoti, in quattro
libri; Commentari, Sulle « Leggi» di Platone, in sette libri.
[37] Altri discepoli illustri furono: Aristone figlio di Milziade, nato a Chio, che introdusse la
dottrina dell’indifferenza. Erillo di Calcedonia che definì fine la scienza. Dionisio detto
l’Apostata che si fece sostenitore della teoria edonistica, perché per la sua grave malattia agli
occhi non ebbe più la forza di affermare che il dolore è cosa indifferente. Dionisio era nato ad
Eraclea. Sfro del Bosforo. Cleante figlio di Fania nato ad Asso che fu successore nello scolarcato.
Zenone era solito paragonarlo a quelle tavolette spalmate di dura cera su cui è faticoso scrivere,
ma che conservano a lungo quel che v’è stato scritto. Sfero fu poi alunno di Cleante, dopo la
morte di Zenone; e di lui parleremo nella seguente Vita di Cleante.
[38] Ippoboto cataloga fra i suoi alunni anche Filonide di Tebe Callippo di Corinto, Posidonio
di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.
In questa Vita di Zenone mi è parso opportuno dare un resoconto generale di tutta insieme la
dottrina stoica, per il fatto che Zenone fu il fondatore della scuola stoica. Abbiamo già dato la
lista dei suoi numerosi scritti, in cui parlò come nessun altro stoico. Le opinioni comuni a tutti gli
Stoici sono queste: esponiamole sommariamente, attuando il medesimo solito criterio che
30
abbiamo applicato agli altri filosofi. Gli Stoici dividono la filosofia in tre parti: Fisica, Etica,
Logica.
[39] Questa distinzione fece per primo Zenone di Cizio nel libro Sulla Logica, poi Crisippo nel
primo libro Sulla Logica e nel primo libro Sulla Fisica e Apollodoro l’Efelo nel primo libro
dell’Introduzione alla dottrina ed Eudromo nell’Esposizione dei principi elementari di Etica e
Diogene di Babilonia e Posidonio.
Queste parti Apollodoro chiama luoghi, Crisippo ed Eudromo specie, altri chiamano generi.
[40] Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi corrisponde
la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad un uovo: la
parte esterna, il guscio (ektos), è la Logica, la parte seguente, l’albume, è l’Etica, la parte più
interna (esotatos), il tuorlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe
esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una
città ben munita di mura e razionalmente amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra,
come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche
l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri danno il primo
posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla
Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed Eudromo.
[41] Diogene di Tolemaide a sua volta comincia dall’Etica, Apollodoro pone al secondo posto
l’Etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, come afferma Fania, discepolo di Posidono,
nel primo libro delle Lezioni di Posidonio. Cleante poi distingue sei parti: Dialettica, Retorica,
Etica, Politica, Fisica, Teologia. Altri riferiscono questa partizione non alla Logica, ma alla stessa
filosofia. Così per esempio Zenone di Tarso. Alcuni distinguono la parte logica del sistema in due
scienze: Retorica e Dialettica; altri le attribuiscono l’ufficio di definire e di fornire canoni e
criteri; altri tuttavia le eliminano l’officio della definizione.
[42] Si servono dei canoni e criteri per trovare la verità perché in essa stabiliscono le regole
per la distinzione delle rappresentazioni, ed analogamente si servono delle definizioni per
riconoscere la verità, perché la realtà si apprende per mezzo di concetti. Definiscono la Retorica
la scienza di dire bene su argomenti pianamente ed unitariamente esposti, e la Dialettica la
scienza di discutere rettamente su argomenti per domanda e risposta. Perciò danno anche
quest’altra definizione: la scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso, e di ciò che non è né vero
né falso.
31
Dividono la Retorica in tre parti: deliberativa, forense, encomiastica
[43] La Retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro
espressione in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso retorico
le seguenti parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte avversa e
l’epilogo.
La Dialettica abbraccia due campi: l’uno delle cose significate e l’altro dell’espressione o
parola.
Il campo delle cose significate comprende da una parte la dottrina della loro viva
rappresentazione e dall’altra la dottrina degli elementi che la costituiscono, proposizioni
enunciate sia indipendenti sia semplici predicati, e termini simili attivi o passivi, generi e specie,
e così pure parole, tropi, sillogismi e sofismi determinati dal linguaggio o dall’argomento.
[44] Le varie specie di sofismi sono: il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite e simili a
questo, il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, l’utide (il nessuno), il
mietitore.
Abbiamo or ora detto che l’altro particolare campo della Dialettica riguarda la dottrina della
lingua stessa. Questa dottrina si occupa della parola rappresentata in lettere, studia quali siano le
parti del discorso e tratta del solecismo, del barbarismo, della dizione poetica, delle anfibolie,
dell’eufonia e della musica e, secondo alcuni, anche delle definizioni, delle divisioni e degli stili.
[45] Gli Stoici affermano che è straordinariamente utile lo studio della teoria dei sillogismi.
Questa insegna il metodo dimostrativo, che molto contribuisce alla formulazione corretta dei
giudizi, alla loro disposizione e al loro ricordo, ed insegna altresì a possedere con salda sicurezza
le cognizioni scientifiche.
Il ragionamento stesso consiste di premesse e conclusione: il sillogismo è un ragionamento
conclusivo fondato su questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che per mezzo di
nozioni più chiare spiega nozioni meno chiare su ogni argomento.
La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un termine
proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che l’anello col sigillo
imprime nella cera.
[46] Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una (comprensiva) che coglie immediatamente la
realtà, l’altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione. La prima,
che essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall’esistente , conforme all’esistente
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stesso ed è impressa e stampata nell’anima. L’altra non è determinata dall’esistente oppure se
procede dall’esistente non è determinata conforme all’esistente stesso: non è quindi né chiara né
distinta.
Essi dicono che la Dialettica stessa è necessaria ed è una virtù che abbraccia altre virtù speciali
o particolari: la tempestività ci insegna con scientifica sicurezza il momento in cui dobbiamo dare
o negare il nostro assenso; la cautela è la forza della ragione contro la semplice verisimiglianza,
così da non cedere ad essa; [47] l’inconfutabilità è il vigore nel ragionamento così da non
lasciarci trarre da esso al contrario; la serietà o assenza di leggerezza è la capacità di riportare le
rappresentazioni alla retta ragione.
La stessa scienza essi definiscono o una comprensione sicura (apprensione) oppure una facoltà
di ricevere le rappresentazioni, che non può essere scossa dalla ragione. Solo con lo studio della
Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo della Dialettica si
distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è espresso ambiguamente.
Inoltre senza la Dialettica non è possibile interrogare e rispondere metodicamente.
[48] La precipitosa temerità nelle affermazioni estende il suo effetto anche su ciò che accade
nella realtà, sì che coloro che non hanno rappresentazioni bene disciplinate cadono nel disordine
e nell’irriflessione. Non altrimenti il sapiente apparirà acuto e perspicace e soprattutto abile nelle
argomentazioni. Ché è proprio del sapiente rettamente parlare e rettamente pensare, discutere le
questioni proposte e rispondere alle domande: tutti questi requisiti possiede chi è scaltrito nella
Dialettica.
Questi sommariamente esposti sono i princìpi fondamentali della logica stoica.
33
Sant’Agostino di Ippona (354-430)
Confessioni (396-8)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: i padri Maurini, Parigi, 1679-1700
tr. it. C. Vitali, Rizzoli, Milano, 1999
Libro XI
Capitolo xii: IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE
Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la
terra?». Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la difficoltà della
domanda, disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo».
Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta. Preferirei
dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa una domanda
profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.
Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se con le
parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente: «Prima di creare il
cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva essere se
non una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre nozioni che sarei contento di
conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non esisteva alcuna creatura!
Capitolo xiii: IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE
Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si maraviglia
che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra, ti sii astenuto
per secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra bene gli occhi e si
convinca che la sua maraviglia manca di base.
Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non
avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da Te?
Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?
Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del cielo
e della terra, come sí può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né
potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il tempo
34
non esisteva, a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo il tempo, non
esisteva nemmeno un «allora».
E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti i
tempi. Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente, domini tutto
il futuro, il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu rimani lo stesso, i
tuoi anni non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri vanno e vengono, perché
vengano tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né quelli che passano sono
spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i nostri saranno tutti quando non saranno più.
Gli anni tuoi sono un giorno solo, e il tuo giorno non è l’ogni giorno, ma l’oggi, perché il tuo
oggi non si annulla nel domani, come non succede ad un ieri. Il tuo oggi è l’eternità, e quindi
coeterno generasti colui a cui hai detto: «Io ti ho generato oggi». Tu hai creato tutti i tempi e tutti
li precedi: non si può parlar--.: di tempo quando il tempo non esisteva.
Capitolo xiv: NATURA DEL TEMPO
Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo l’hai
creato Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi, se
permanessero, non sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne una
breve e facile definizione? Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da poterne poi far parola?
Ed invece, vi ha una nozione più familiare, più nota, nel parlare comune, del tempo? Certo,
quando ne parliamo, sappiamo che cosa intendiamo, e lo sappiamo anche quando ne sentiamo
parlare gli altri.
Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne
chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non
esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se nulla esistesse, non
vi sarebbe un presente.
Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non
esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre
presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente,
perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua
condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in tanto il
tempo esiste in quanto tende a non esistere?
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Capitolo xv: MISURAZIONE DEL TEMPO
Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al passato e al
futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni; come diciamo lungo un
tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo, quello di dieci giorni fa, e così
per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che non è? Il passato non è più, il futuro
non è ancora. Non si dica più dunque: «È lungo»; ma si dica: «Fu lungo», per il passato, e: «Sarà
lungo», per il futuro.
O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un tempo
passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora presente?
perché non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che potesse essere lunga:
ma il passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere lungo.
Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente che
fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece: «fu lungo
quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora passato al non
essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di essere lungo, avendo
cessato di esistere.
Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai ricevuto
infatti il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai? Cento anni presenti
son forse un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento anni. Se sta passando
il primo di essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non esistono
ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è presente, tutti gli altri futuri.
Così è per tutti gli anni intermedi; qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli passati,
dall’altra i futuri. Dunque cento anni non possono essere presenti.
Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel primo
mese, tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri nel futuro.
Neanche dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è presente tutto,
l’anno non è presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in corso è presente; gli
altri sono passati o futuri.
Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente: presente è un
giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se intermedio, tra passati e futuri.
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Ed ecco: quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è ridotto alla
durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché neanche di un
giorno si può dire’ che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte, di ventiquattro ore:
per la prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono passate, per l’intermedia un
po’ sono passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in istanti fuggitivi; quello volato via è
passato, quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può
chiamare presente che non si può più suddividere in particelle, per quanto piccolissime: ma anche
quel punto trasvola così rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di durata.
Ché, se l’avesse, sarebbe divisibile in passato e in futuro: il presente invece non ammette
estensione.
Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi
usiamo tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo, invece:
«Sarà lungo». Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non esiste ancora
quello che dovrebbe essere «lungo». O quando dal futuro — che non è ancora — ha incominciato
e sia diventato presente? Da quanto si è detto sopra, il presente proclama di non poter essere un
tempo lungo.
Capitolo xvi: SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE
Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e
diciamo che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel tempo
sia più lungo o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo semplice o tanto
quanto quello. Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione
che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non esiste
ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il non esistente. Dunque si
può aver la percezione e misurare il tempo quando sta passando, ma quando è passato non è
possibile, perché non esiste.
Capitolo xvii: PASSATO E FUTURO ESISTONO
Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando:, o mio Dio, assistimi, sorreggimi.
C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo imparato da
fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il futuro, ma che
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solo il presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse esistono anch’essi, e il
tempo, quando da futuro diventa presente esce da qualche occulto recesso, per ritirarsi in qualche
occulto recesso quando da presente diventa passato? E quelli che hanno preannunziato
avvenimenti futuri dove li videro se non esistevano ancora? Quello che non c’è, non si può certo
vedere. E quelli che narrano avvenimenti passati non racconterebbero cose vere, se non le
vedessero con la loro mente: e non potrebbero assolutamente essere viste, se non esistessero.
Esistono dunque anche il passato e il futuro.
Capitolo xviii: CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL FUTURO
Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in questo
mio proposito io non mi lasci sviare.
Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so però
che, dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se anche là
sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi, dovunque
siano, comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si raccontano
avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se stessi, ma
espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme nell’animo per
mezzo dei sensi. Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non
esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è
ancora nella mia memoria.
Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il
fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti siano
presentate come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni future; che
codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non esiste ancora,
perché futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto avevamo pensato,
quell’azione non sarà più futura, allora, ma presente.
In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si può
vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò quando si
dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono
forse cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro, dunque, ma il presente appare alla nostra
vista, e grazie ad esso possono venire preannunziate cose future, concepite con lo spirito: forme
38
concepite che già esistono, e chi predice il futuro le intravede come presenti.
Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti. Io vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole:
ciò che vedo è presente, ciò che preannuncio è futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il
suo sorgere, che è futuro; sorgere però che io, se non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei
certo predire. Ma nemmeno l’aurora che vedo in cielo è il sorgere del sole, quantunque lo
preceda, e nemmeno lo è l’immagine del mio animo: ambedue sono visti nel presente perché si
possa preannunciare, il futuro. Il futuro dunque non c’è ancora; se non c’è ancora, non esiste; se
non esiste, non si può assolutamente vedere; ma si può preannunciarlo dai segni presenti che già
esistono e si possono vedere.
39
Sant’Anselmo (1033-1109)
Proslogion (1077-8)
lingua originale. latino
edizione di riferimento: F.S. Schmitt, Seckau, 1938
tr. it. I. Sciuto, Rusconi, Milano, 2001
Proemio
Dopo aver pubblicato, per le pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo come esempio
di meditazione sulla razionalità della fede, mettendomi nella posizione di chi, ragionando
silenziosamente dentro di sé, ricerca ciò che non conosce, considerando che quell’opuscolo era
costruito con la concatenazione di molti argomenti, ho cominciato a chiedermi se per caso fosse
possibile trovare un argomento unico, tale che per essere dimostrato non avesse bisogno di altro,
ma solo di se stesse e che fosse da solo sufficiente a stabilire che Dio esiste veramente, che è il
sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui tutte le cose hanno bisogno per essere e per benessere, e tutto ciò che crediamo della divina sostanza.
Rivolgevo spesso e con impegno il mio pensiero su questo punto e talvolta mi sembrava di
poter già afferrare quanto cercavo, talvolta invece sfuggiva del tutto all’acume della mia mente;
alla fine, privo di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava impossibile trovare.
Ma quando volevo escludere completamente da me quel pensiero, affinché non impedisse alla
mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri pensieri nei quali potessi fare
progressi, proprio allora quel pensiero cominciò sempre più ad imporsi, con una certa
importunità, a me che non lo volevo e lo respingevo. Mentre dunque, un giorno, fortemente mi
affaticavo nel resistere alla sua insistenza, nel conflitto stesso dei pensieri mi si presentò ciò di
cui avevo disperato, sì da farmi applicare con passione a quel pensiero che mi ero preoccupato di
respingere.
Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a
qualche lettore, su questo e su altri argomenti ho scritto il seguente opuscolo, mettendomi nella
posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di comprendere ciò che
crede. E poiché giudicavo che né questo opuscolo né quello che sopra ho ricordato fossero degni
del nome di libro o di portare il nome dell’autore, ma pensavo tuttavia che non si dovessero
pubblicare senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla lettura, in qualche modo, colui nelle
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cui mani fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo titolo, chiamando il primo Esempio di
meditazione sulla ragione della fede e il successivo La fede che cerca l’intelletto.
Ma quando l’uno e l’altro erano già stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi
sollecitarono (specialmente il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugo, legato apostolico in
Gallia, che me l’ordinò con autorità apostolica») a scrivere il mio nome su di essi. Per fare ciò più
adeguatamente, ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion, cioè soliloquio, e questo
invece Proslogion, cioè colloquio.
Parte prima DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO
-–ooOoo–2. Dio esiste veramente.
Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai
che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamo.
E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O
forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma
certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si
può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo
intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia
nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima pensa a
ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende
ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha
già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che,
almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché
quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.
Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo
intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che
è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello
stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma
evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste,
senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.
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3. Non si può pensare che Dio non esista.
Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può
pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò
che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere
pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si
può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorion. Dunque ciò di cui non si può pensare il
maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente.
E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che
non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente
potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e
sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è,
all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e
perciò massimo, rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e,
quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste»,
quando è così evidente ad una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se
non perché è stolto e insipiente?
4. In che modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non si può pensare.
Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che modo
non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel cuore e
pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor suo, sia
non lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice nel cuore o
si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la
significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo, pertanto, si
può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il quale
comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste parole,
non dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non si può
pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende certamente che egli esiste in modo
tale che neppure nel pensiero può non essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non può
pensare che egli non esista.
Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora
42
per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non
potrei non comprenderlo.
43
S. Tommaso d’Aquino (1225-74)
Somma teologica (1265-73)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: ‘Leonina’ emendata dalle Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988
tr. it., i padri domenicani italiani (34 voll.), ESD, Bologna, 1984
Parte I, Questione 2
Proemio
Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma
anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole, come appare
dal già detto; nell'intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo: I - di Dio (I Parte); II - del
movimento della creatura razionale verso Dio (II Parte, divisa in I-II e II-II); III - del Cristo, il quale,
in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio (III Parte). L'indagine intorno a Dio comprenderà
tre parti. Considereremo: primo, le questioni spettanti alla divina Essenza; secondo, quelle riguardanti
la distinzione delle Persone; terzo, quelle che riguardano la derivazione delle creature da Dio. Intorno
all'Essenza divina poi dobbiamo considerare: 1. Se Dio esista; 2. Come egli sia o meglio come non
sia; 3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la
potenza. Sul primo membro di questa divisione si pongono tre quesiti: 1. Se sia di per sé evidente che
Dio esiste; 2. Se sia dimostrabile; 3. Se Dio esista.
Articolo 1 Se sia di per sé evidente che Dio esiste
SEMBRA che sia di per sé evidente che Dio esiste. Infatti: 1. Noi diciamo evidenti di per sé quelle
cose, delle quali abbiamo naturalmente insita la cognizione, com'è dei primi principi. Ora, come
assicura il Damasceno "la conoscenza dell'esistenza di Dio è in tutti naturalmente insita". Quindi
l'esistenza di Dio è di per sé evidente.
2. Evidente di per sé è ciò che subito s'intende, appena ne abbiamo percepito i termini; e questo
Aristotele lo attribuisce ai primi principi della dimostrazione: conoscendo infatti che cosa è il tutto e
che cosa è la parte, subito s'intende che il tutto è maggiore della sua parte. Ora, inteso che cosa
significhi la parola Dio, all'istante si capisce che Dio esiste. Si indica infatti con questo nome un
essere di cui non si può indicare uno maggiore: ora è maggiore ciò che esiste al tempo stesso nella
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mente e nella realtà che quanto esiste soltanto nella mente: onde, siccome appena si è inteso questo
nome Dio, subito viene alla nostra mente (di concepire) la sua esistenza, ne segue che esista anche
nella realtà. Dunque che Dio esista è di per sé evidente.
3. È di per sé evidente che esiste la verità; perché chi nega esistere la verità, ammette che esiste una
verità; infatti se la verità non esiste sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualche cosa di
vero, bisogna che esista la verità. Ora, Iddio è la Verità. "Io sono la via, la verità e la vita". Dunque
che Dio esista è di per sé evidente.
IN CONTRARIO: Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è di per sé evidente, come spiega
Aristotele riguardo ai primi principi della dimostrazione. Ora, si può pensare l'opposto
dell'enunciato: Dio esiste, secondo il detto del Salmo: "Lo stolto dice in cuor suo "Iddio non c'è"".
Dunque che Dio esista non è di per sé evidente.
RISPONDO: Una cosa può essere di per sé evidente in due maniere: primo, in se stessa, ma non per
noi; secondo, in se stessa e anche per noi. E invero, una proposizione è di per sé evidente dal fatto
che il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come questa: l'uomo é un animale; infatti
animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del
soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi principi di
dimostrazione, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il
tutto e la parte, ecc. Ma se per qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la
proposizione sarà evidente in se stessa, non già per coloro che ignorano il predicato ed il soggetto
della proposizione. E così accade, come nota Boezio, che alcuni concetti sono comuni ed evidenti
solo per i dotti, questo, p. es.: "le cose immateriali non occupano uno spazio". Dico dunque che
questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato s'identifica col
soggetto; Dio infatti, come vedremo in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo
l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose
che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. È vero che noi abbiamo da natura una conoscenza generale
e confusa dell'esistenza di Dio, in quanto cioè Dio è la felicità dell'uomo; perché l'uomo desidera
naturalmente la felicità, e quel che naturalmente desidera, anche naturalmente conosce. Ma questo
non è propriamente un conoscere che Dio esiste, come non è conoscere Pietro il vedere che qualcuno
viene, sebbene chi viene sia proprio Pietro: molti infatti pensano che il bene perfetto dell'uomo, la
felicità, consista nelle ricchezze, altri nei piaceri, altri in qualche altra cosa.
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2. Può anche darsi che colui che sente questa parola Dio non capisca che si vuol significare con essa
un essere di cui non si può pensare il maggiore, dal momento che alcuni hanno creduto che Dio
fosse corpo. Ma dato pure che tutti col termine Dio intendano significare quello che si dice, cioè un
essere di cui non si può pensare il maggiore, da ciò non segue però la persuasione che l'essere
espresso da tale nome esista nella realtà delle cose; ma soltanto nella percezione dell'intelletto. Né si
può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è una cosa di cui non si
può pensare una maggiore: ciò che non si concede da coloro che dicono che Dio non esiste.
3. Che esista la verità in generale è di per sé evidente; ma che vi sia una prima Verità non è per noi
altrettanto evidente.
Articolo 2 Se [l’esistenza di Dio] sia dimostrabile
SEMBRA non sia dimostrabile che Dio esiste. Infatti: 1. Che Dio esista è un articolo di fede.
Ora, le cose di fede non si possono dimostrare, perché la dimostrazione ingenera la scienza,
mentre la fede è soltanto delle cose non evidenti, come assicura l'Apostolo. Dunque non si può
dimostrare che Dio esiste.
2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ora, di Dio noi non
possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è, come nota il Damasceno. Dunque non
possiamo dimostrare che Dio esiste.
3. Se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò non sarebbe che mediante i suoi effetti. Ma questi
effetti non sono a lui proporzionati, essendo egli infinito, ed essi finiti; infatti tra il finito e
l'infinito non vi è proporzione. Non potendosi allora dimostrare una causa mediante un effetto
sproporzionato, ne segue che non si possa dimostrare l'esistenza di Dio.
IN CONTRARIO: Dice l'Apostolo: "le perfezioni invisibili di Dio comprendendosi dalle cose
fatte, si rendono visibili", Ora, questo non avverrebbe, se mediante le cose create non si potesse
dimostrare l'esistenza di Dio; poiché la prima cosa che bisogna conoscere intorno ad un dato
soggetto è se esso esista.
RISPONDO: Vi è una duplice dimostrazione: L'una, procede dalla (cognizione della) causa, ed è
chiamata propter quid, e questa muove da ciò che di suo ha una priorità ontologica. L'altra, parte
dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che hanno una priorità soltanto
rispetto a noi: ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per
conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché
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gli effetti siano per noi più noti della causa); perché dipendendo ogni effetto dalla sua causa,
posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Dunque l'esistenza di Dio, non essendo rispetto
a noi evidente, si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'esistenza di Dio ed altre verità che riguardo a Dio si
possono conoscere con la ragione naturale, non sono, al dire di S. Paolo, articoli di fede, ma
preliminari agli articoli di fede: difatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia
presuppone la natura, come (in generale) la perfezione presuppone il perfettibile. Però nulla
impedisce che una cosa, la quale è di suo oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata
come oggetto di fede da chi non arriva a capirne la dimostrazione.
2. Quando si vuol dimostrare una causa mediante l'effetto, è necessario servirsi dell'effetto in
luogo della definizione (o natura) della causa, per dimostrare che questa esiste; e ciò vale
specialmente nei riguardi di Dio. Per provare infatti che una cosa esiste, è necessario prendere
per termine medio la sua definizione nominale, non già la definizione reale, poiché la questione
riguardo all'essenza di una cosa viene dopo quella riguardante la sua esistenza. Ora, i nomi di
Dio provengono dai suoi effetti, come vedremo in seguito: perciò nel dimostrare l'esistenza di
Dio mediante gli effetti, possiamo prendere per termine medio quello che significa il nome Dio.
3. Da effetti non proporzionati alla causa non si può avere di questa una cognizione perfetta;
tuttavia da qualsiasi effetto noi possiamo avere manifestamente la dimostrazione che la causa
esiste, come si è detto. E così dagli effetti di Dio si può dimostrare che Dio esiste, sebbene non si
possa avere per mezzo di essi una conoscenza perfetta della di lui essenza
Articolo 3 Se Dio esista
SEMBRA che Dio non esista. Infatti: 1. Se di due contrari uno è infinito, l'altro resta
completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s'intende affermato un bene infinito. Dunque, se
Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c'è il male. Dunque Dio
non esiste.
2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba
compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero
essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si
riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana.
Nessuna necessità, quindi, dell'esistenza di Dio.
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IN CONTRARIO: Nell'Esodo si dice, in persona di Dio: "Io sono Colui che è".
RISPONDO: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella
che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si
muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia
potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto.
Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; e niente può
essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco
che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e
così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo
stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è
caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È
dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e
mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da
un altro. Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia
mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere
all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro
motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore,
come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare
ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La seconda
via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra
le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se
medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo
all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la
prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una
sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti
non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere
all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non
avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque
bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è presa dal
possibile (o contingente) e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che
possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che
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possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre
state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti in
natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se
questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad
esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che
qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è
evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà
vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua
necessità in altro essere oppure no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa
della loro necessità, non si può procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti
secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per
sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E
questo tutti dicono Dio. La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un
fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado
maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che
esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che
maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al
sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché,
come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò
che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco,
caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è
qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E
questo chiamiamo Dio. La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che
alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come
appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la
perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine.
Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere
conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche essere
intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo
Dio.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice S. Agostino: "Dio, essendo sommamente
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buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse
tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male". Sicché appartiene
all'infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni.
2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la
direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro
prima causa. Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più
alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò
che è mutevole e tutto ciò che può venir meno, deve essere ricondotto a una causa prima
immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato.
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Renato Cartesio (1596-1650)
Meditazioni di prima filosofia (1641)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery (12 voll.), Paris, 1897-1913
tr. it. basata su A. Tilgher (1928)
PRIMA MEDITAZIONE
DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO
Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una
quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così mal sicuri, non
poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere seriamente una
volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per
cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di
durevole nelle scienze. Ma poiché quest’impresa mi sembrava grandissima, ho atteso di aver
raggiunto un’età così matura, che non potessi sperarne dopo di essa un’altra più adatta; il che mi
ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore, se impiegassi
ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire.
Ora, dunque, che il mio spirito, è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro
in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di
tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono
tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già
che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono
interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il
menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v’è
bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito; ma,
poiché la rovina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell’edificio, io
attaccherò dapprima i princìpi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate.
Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi, o
per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola
di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.
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Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane,
se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le
conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una
veste da carnera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io
negare che queste mani e questo corpo sono miei ? a meno che, forse, non mi paragoni a
quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che
asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di
porpora, mentre sono nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di
vetro. Ma costoro sono pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di
dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora,
che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in
questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto?
È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che
questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di deliberato proposito io
stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come
tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato, mentre
dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che
non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere
nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da esser quasi
capace di persuadermi che io dormo.
Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità, cioè che
apriamo gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non delle false
illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano quali noi li
vediamo. Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate nel
sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere formate se non a somiglianza
di qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste cose generali, cioè degli occhi, una
testa, delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie, ma vere ed esistenti. E, a
dir vero, gli stessi pittori, anche quando si sforzano con il maggior artificio di rappresentare
Sirene e Satiri in forme bizzarre e straordinarie, non possono tuttavia attribuire loro forme e
nature interamente nuove, ma fanno soltanto una certa mescolanza e composizione delle membra
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di diversi animali; ovvero, se per avventura la loro immaginazione è abbastanza stravagante da
inventare qualche cosa di così nuovo, che mai noi non abbiamo visto niente di simile, in modo
tale che la loro opera ci rappresenti una cosa puramente finta ed assolutamente falsa, certo
almeno i colori di cui la compongono debbono, essi, essere veri.
E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e
simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose ancora più
semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle quali, né più né
meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle cose, che risiedono
nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono formate. Di questo
genere di cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così pure la figura delle cose
estese, la loro quantità o grandezza, e il loro numero; come anche il luogo dove esse sono, il
tempo che misura la loro durata, e simili.
Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la
medicina e tutte le altre scienze, che dipendono dalla considerazione delle cose composte, sono
assai dubbie ed incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo, le quali
non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero se esistano
o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile. Perché, sia che io vegli o
che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il quadrato non avrà
mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così manifeste possano essere
sospettate di falsità o d’incertezza.
Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un
Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può
assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia nessuna terra, nessun cielo,
nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e che, tuttavia, io senta
tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre,
come io giudico qualche volta che gli altri s’ingannino anche nelle cose che credono di sapere
con la maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo
l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra cosa
ancora più facile, se può immaginarsi cosa più facile di questa. Ma forse Dio non ha voluto che io
fossi ingannato in tal guisa, perché di lui si dice che è sovranamente buono. Tuttavia, se ripugna
alla sua bontà l’avermi fatto tale che io m’inganni sempre, sembrerebbe esserle contrario anche il
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permettere che io m’inganni qualche volta; e tuttavia io non posso mettere in dubbio che egli lo
permetta.
Vi saranno forse qui delle persone, che preferirebbero negare l’esistenza di un Dio così
potente, piuttosto che credere incerte tutte le altre cose. Ma per adesso non resistiamo loro, e
supponiamo, in loro favore, che tutto ciò che è detto qui di Dio sia una favola. Tuttavia, in
qualunque maniera essi suppongano che io sia pervenuto allo stato e all’essere che possiedo, sia
che l’attribuiscano a qualche destino o fatalità, sia che lo riferiscano al caso, sia che sostengano
che ciò accade per un continuo concatenamento e legame delle cose, è certo che, poiché errare ed
ingannarsi è una specie d’imperfezione, quanto meno potente sarà l’autore che essi attribuiranno
alla mia origine, tanto più probabile sarà che io sia talmente imperfetto da ingannarmi sempre.
Alle quali ragioni io non ho certo nulla da rispondere, ma sono costretto a confessare che, di tutte
le opinioni che avevo altra volta accolte come vere, non ve n’è una della quale non possa ora
dubitare, non già per inconsideratezza o leggerezza, ma per ragioni fortissime e maturamente
considerate: di guisa che è necessario che io arresti e sospenda oramai il mio giudizio su questi
pensieri, e che non dia loro più credito di quel che darei a cose, che mi paressero evidentemente
false, se desidero di trovare alcunché di costante e di sicuro nelle scienze.
Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di ricordarmene;
perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel pensiero, poiché il
lungo e familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il mio volere, e di rendersi
quasi padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di aderire loro e di aver
confidenza in esse, finché le considererò quali sono in effetti, cioè in qualche modo dubbie, come
testé ho mostrato, e tuttavia probabilissime, di guisa che si ha molto più ragione di credervi che di
negarle. Ecco perché io penso di farne un uso più prudente, se, prendendo un partito contrario,
impiego tutte le mie cure ad ingannare me stesso, fingendo che tutti questi pensieri siano falsi e
immaginari; finché, avendo talmente posto in. equilibrio i miei pregiudizi, che essi non possano
fare inclinare il mio parere più da un lato che da un altro, il mio giudizio non sia più oramai
dominato da cattivi usi e distolto dal retto cammino che può condurlo alla conoscenza della
verità. Io sono sicuro, infatti, che non può esserci pericolo né errore in questa via, e che non
saprei oggi conceder troppo alla mia diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di
meditare e di conoscere.
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Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo
cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che
abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i
colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di
cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di
mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver
tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non
e in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di
sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e
preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente
ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla.
Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel
corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno d’una
libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno, teme
d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più lungamente
ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni, ed ho paura di
risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che succederebbero alla
tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella
conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti per illuminare le tenebre delle
difficoltà che sono state agitate testé.
SECONDA MEDITAZIONE
DELLA NATURA DELLO SPIRITO UMANO E CHE QUESTO È PIÙ FACILE A
CONOSCERSI CHE IL CORPO
La meditazione che feci ieri mi ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio
potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto
fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i
piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da
capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il
menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre
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per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non
m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo.
Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un
sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza
fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.
Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla
c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non
aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano
che finzioni [chimeræ] del mio spirito. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero ? Forse
niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.
Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre a quelle che testé ho giudicato incerte,
della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra
potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono
capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di
avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente
dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che
non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi
sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo ? No, certo; io esistevo senza dubbio,
se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale
ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre.
Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà
mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi
ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo,
che questa proposizione: io sono, io esisto, è di necessità vera tutte le volte che la pronuncio, o
che la concepisco nel mio spirito.
Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che sono certo di essere; di
guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere imprudentemente
qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io sostengo essere
più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto in precedenza.
Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi
ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere combattuto con le
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ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è interamente indubitabile. Che cosa,
dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma
che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo,
ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da una sola questione, cadremmo
insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed avviluppate, ed io non vorrei abusare del
poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò
piuttosto a considerare qui i pensieri, che nascevano prima da se stessi nel mio spirito, e che non
mi erano ispirati che dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio
essere. Io mi consideravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa
macchina composta d’ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che io
designavo con il nome di corpo. Io consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che camminavo, che
sentivo e che pensavo: e riportavo tutte queste azioni all’anima; ma non mi fermavo a pensare
che cosa fosse quest’anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo che essa fosse qualcosa di
estremamente rado e sottile, come un vento, una fiamma, o un’aria delicatissima, insinuata e
diffusa nelle parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo, non dubitavo per nulla
della sua natura; perché pensavo di conoscerla molto distintamente, e, se avessi voluto spiegarla
secondo le nozioni che ne avevo, l’avrei descritta in questa maniera: per corpo intendo tutto ciò
che può esser determinato in qualche figura; che può- essere compreso in qualche luogo, e
riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può essere sentito o
col tatto, o con la vista, o con l’udito, o col gusto, o con l’odorato; che può essere mosso in più
maniere, non da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva
l’impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura corporea il
privilegio d’avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario, mi stupivo
piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi.
Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se oso
dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingannarmi? Posso
io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea?
Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e
non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v’è bisogno che mi fermi a enumerarle.
Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. I
primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non
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posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire
senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno,
che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui
che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me: io sono,
io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché
forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o d’esistere.
Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar
con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali
sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. Ora, io sono una cosa vera, e
veramente esistente; ma quale cosa? L’ho detto: una cosa che pensa. E che altro? Ecciterò ancora
la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa di più. Io non sono quest’unione di
membra che si chiama il corpo umano; io non sono un’aria sottile e penetrante, diffusa in tutte
queste membra; io non sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla di tutto ciò che posso fingere
e immaginare, poiché ho supposto che tutto ciò non fosse niente; eppure, senza cambiare questa
supposizione, io continuo a essere certo che sono qualcosa.
Ma egualmente può accadere che queste stesse cose, che io suppongo non esistere, poiché mi
sono sconosciute, non siano di fatto differenti da quel me, che io conosco. Io non ne so niente;
per ora non discuto di ciò; io non posso dare il mio giudizio che sulle cose che mi sono note: io
ho riconosciuto di esistere, e ricerco chi sono io, io che ho riconosciuto di esistere. Ora è
certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non dipende
dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota, ‘né, per conseguenza, ed a più forte
ragione, da alcuna di quelle: che sono finte ed inventate dall’immaginazione. Ed anche questi
termini di fingere ed immaginare mi avvertono del mio errore: io fingerei in effetti, se
immaginassi di essere qualcosa, poiché immaginare non è se non contemplare la figura o
l’immagine d’una cosa corporea. Ora io so con certezza di esistere, e, a un tempo, che tutte quelle
immagini, e in generale tutte le cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono non essere
altro che sogni o chimere. In conseguenza di che, vedo chiaramente che avrei tanto poco ragione
dicendo: - io ecciterò la mia immaginazione per conoscere più distintamente chi sono –, che se
dicessi: – io sono adesso sveglio, e percepisco qualcosa di reale e di vero; ma, poiché non la
percepisco ancora abbastanza nettamente, m’addormenterò a bella posta, affinché i miei sogni mi
rappresentino quella stessa cosa con maggior verità cd evidenza. E, così riconosco con certezza,
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che nulla di tutto ciò che posso comprendere per mezzo dell’immaginazione appartiene a quella
conoscenza che ho di me stesso, e che è necessario richiamare e distogliere il proprio spirito da
questa maniera di concepire, affinché possa esso stesso riconoscere con la massima distinzione la
sua natura.
Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una
cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina
anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma
perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che dubito quasi di tutto,
che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed affermo quelle sole esser vere,
che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più, che non voglio essere ingannato,
che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia volontà; che molte cose sento come
se mi venissero attraverso gli organi del corpo? V’è qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero,
quanto è certo che io sono ed esisto, quand’anche dormissi sempre, e colui che m’ha dato l’essere
si servisse di tutte le sue forze per ingannarmi? V’è anche alcuno di questi attributi, che possa
essere distinto dal mio pensiero, o del quale si possa dire che esso è separato da me stesso?
Poiché è di per sé così evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non v’è
qui bisogno di aggiunger nulla per spiegarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà
d’immaginare; poiché sebbene possa accadere (come ho supposto in precedenza) che le cose che
immagino non siano vere, tuttavia questa facoltà d’immaginare non cessa d’essere realmente in
me, e fa parte del mio pensiero. Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le
cose come per mezzo degli organi dei sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il
calore. Ma mi si dirà che queste apparenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è
certissimo almeno che mi sembra di vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente quel
che in me si chiama sentire, e che, preso così precisamente, non è null’altro che pensare. Da tutto
ciò comincio a conoscere chi sono, con un po’ più di luce e di distinzione.
Ma non posso trattenermi dal credere che le cose corporee, le immagini delle quali si formano
per mezzo del mio pensiero, e che cadono sotto i sensi, non siano conosciute più distintamente di
quella non so qual parte di me stesso, che non cade sotto l’immaginazione: benché, in effetti, sia
una cosa molto strana che cose che io trovo dubbie e lontane, siano più chiaramente e più
facilmente conosciute da me di quelle che sono vere e certe, e che appartengono alla mia propria
natura. Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si compiace di smarrirsi, e non può
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contenersi ancora nei giusti limiti della verità. Abbandoniamogli, dunque, ancora una volta le
briglie, affinché, venendo dopo a ritrargliele dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente
regolarlo e condurlo.
Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere
nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. lo non intendo parlare dei corpi in
generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in
particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto
dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora
qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua
grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono.
Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo.
Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala,
l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, diventa liquido, si
riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la
cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può
negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera?
Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che
cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovano cambiate, e tuttavia la
cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele,
né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma
solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta
sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in
questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono
alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di
mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io immagino
che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una
figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di ricevere
un’infinità di simili cambiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere quest’infinità con la mia
immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per mezzo
della facoltà d’immaginare.
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Ma che cos’è questa estensione ? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si fonde
aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è interamente fusa, e molto più grande
ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa
è la cera, sé non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo
l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con
l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio
intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in
generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual’è questa cera, che non può essere concepita se
non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che
conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della
quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un’immaginazione, e non è mai stata
tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente [solius mentis
inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta,
com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e
di cui essa è composta.
Tuttavia non saprei troppo meravigliarmi, quando considero quanto il mio spirito sia debole ed
incline a scivolare insensibilmente nell’errore. Poiché, sebbene senza parlare io consideri tutto
ciò in me stesso, le parole, tuttavia, m’arrestano, e sono quasi ingannato dai termini del
linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di vedere proprio la cera, se ci è presentata, e non già di
giudicare che essa c’è, inferendolo dal colore e dalla figura: donde quasi concluderei che si
conosce la cera per mezzo della visione degli occhi, e non per la sola ispezione dello spirito, se
per caso non guardassi da una finestra degli uomini che passano nella strada, alla vista dei quali
non manco di dire che vedo degli uomini, proprio come dico di veder della cera. E, tuttavia, che
vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o
degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così
comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nel mio spirito, ciò che credevo
di vedere con i miei occhi.
Un uomo che cerca di elevare la sua conoscenza al di là del comune, deve aver vergogna di
trarre delle occasioni di dubbio dalle forme e dai termini di parlare del volgo; io preferisco passar
oltre, e considerare se concepivo con maggior evidenza e perfezione la cera, quando l’ho
dapprima percepita ed ho creduto conoscerla per mezzo dei sensi esteriori, o almeno del senso
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comune, come lo chiamano, e cioè della facoltà immaginativa, di quel che non la concepisca
adesso, dopo avere più esattamente esaminato ciò che essa è, ed in quale maniera può essere
conosciuta. Certo, sarebbe ridicolo mettere ciò in dubbio. Poiché che cosa vi era in quella prima
percezione, che fosse distinto ed evidente, e che non potesse cadere in egual guisa sotto il senso
del più piccolo fra gli animali? Ma quand’io distinguo la cera dalle sue forme esteriori, e, come se
le avessi tolto i suoi vestimenti, la considero tutta nuda, certo, benché si possa ancora incontrare
qualche errore nel mio giudizio, non la posso concepire in questa maniera se non con mente
umana.
Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso? Poiché fin qui non ammetto in me
altra cosa che uno spirito. Che pronunzierò io, dico, di me, che sembro concepire con tanta
distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me stesso, non solamente con molto maggior
verità e certezza, ma ancora con molto maggior distinzione e nettezza ? Poiché, se io giudico che
la cera è, o esiste, dal fatto ch’io la vedo, certo dal fatto ch’io la vedo segue molto più
evidentemente ch’io sono, o che esisto io stesso. Poiché può essere che ciò che io vedo non sia in
effetti cera; può anche accadere ch’io non abbia neppure degli occhi per vedere alcuna cosa; ma
non è possibile che, quando io vedo, o (ciò che non distinguo più) quando penso di vedere, io che
penso non sia qualche cosa. Egualmente, se io giudico che la cera esiste dal fatto che la tocco, ne
seguirà ancora la stessa cosa, e cioè che io sono; e se io traggo quel giudizio dal fatto che la mia
immaginazione me ne persuade, o da qualunque altra causa, concluderò sempre la stessa cosa. E
ciò che ho notato qui della cera, si può applicare a tutte le altre cose che mi sono esteriori, e che si
trovano fuori di me.
Ora, se la nozione e la conoscenza della cera sembra essere più netta e più distinta, dopo clic
essa è stata scoperta non solamente dalla vista o dal tatto, ma anche da molte altre cause, con
quanto maggior evidenza, distinzione e nettezza non debbo io conoscere me stesso, poiché tutte
le ragioni che servono a conoscere ed a concepire la natura della cera, o di qualche altro corpo,
provano molto più facilmente ed evidentemente la natura del mio spirito ? E nello spirito stesso si
trovano ancora tante altre cose, capaci di contribuire a spiegarne la natura, che quelle dipendenti
dal corpo, non meritano quasi d’essere enumerate.
Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso conosco che,
a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà d’intendere che
è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo pel fatto che li
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vediamo o li tocchiamo, ma solamente pel fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero, io
conosco evidentemente che non v’è nulla che mi sia più facile a conoscere del mio spirito. Ma,
poiché è quasi impossibile disfarsi così prontamente di un’antica opinione, sarà bene che mi
fermi un poco su questo punto, affinché, con la lunghezza della mia meditazione, imprima più
profondamente nella mia memoria questa nuova conoscenza.
TERZA MEDITAZIONE
DI DIO, CHE ESISTA
Ora chiuderò gli occhi, turerò le orecchie, escluderò tutti i sensi ed eliminerò dal mio pensiero
anche tutte le immagini delle cose corporee. Poiché questo si può fare a stento, quanto meno non
ne terrò nessun conto, come se fossero vuote e false. Parlando solo con me e guardando più in
profondità, cercherò di rendermi poco a poco più noto e familiare a me stesso. Io sono una cosa
che pensa, cioè che dubita, afferma, nega, comprende poche cose e molte ne ignora, vuole,
disvuole, ed immagina anche, e sente. Come infatti ho notato prima, sebbene quello che sento ed
immagino fuori di me forse non sia nulla, tuttavia sono certo che quei modi di pensare — che,
essendo solo dei modi di pensare, chiamo sensazioni e immaginazioni — sono in me.
Con queste poche parole ho passato in rassegna tutto quello che so realmente, o almeno quello
che ho avvertito di conoscere fino a questo momento. Ora osserverò con maggiore diligenza se,
fino ad ora, per caso vi siano altre cose presso di me che non ho ancora scorto. Sono certo di
essere una cosa che pensa. Forse dunque so anche che cosa è richiesto per essere certo di qualche
cosa? In questa prima conoscenza, dunque, non vi è null'altro fuorché una chiara e distinta
percezione di ciò che affermo; e questa certo non basterebbe per rendermi sicuro della verità della
cosa, se mai mi potesse accadere che fosse falso ciò che pure abbia percepito in maniera così
chiara e distinta; e quindi già mi sembra di poter stabilire, come regola generale, che è vero tutto
ciò che concepisco in maniera molto chiara e distinta.
Eppure ho prima ammesso come del tutto certe e manifeste delle cose che mi sono reso conto
essere dubbie. E quali sono state dunque queste cose? Certo la terra, il cielo, gli astri e tutte le
altre cose di cui mi appropriavo per mezzo dei sensi. Che cosa dunque percepivo chiaramente di
queste cose? Che le idee di tali cose, o piuttosto i pensieri, si aggiravano nella mia mente. Ma
neppure ora metto in dubbio che quelle idee siano in me. Era però qualcosa di diverso quello che
affermavo, e che anche per la consuetudine delle mie convinzioni ritenevo di scorgere
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chiaramente, ma che in realtà non percepivo; e cioè che vi fossero delle cose fuori di me dalle
quali procedevano queste idee, cose in tutto simili a loro. Era in questo che mi sbagliavo. Se poi il
mio giudizio era giusto, di sicuro ciò non mi accadeva per la forza della mia percezione.
E che? quando riguardo all’oggetto dell'aritmetica o della geometria consideravo qualcosa
sicuramente molto semplice e facile, come che due più tre fanno cinque, o cose simili, forse non
le intuivo in maniera sufficientemente netta da poter affermare che fossero vere? Evidentemente
ho giudicato di non poter dubitare di ciò solo perché mi veniva in mente che un qualche Dio
avesse potuto instillare in me una tale natura da poter essere ingannato anche riguardo a ciò che
sembrava assolutamente manifesto. Ma ogni qual volta mi viene in mente questa opinione prima
concepita sulla somma potenza di Dio, non posso non ammettere che, se solo lo volesse, sarebbe
facile per lui fare in modo che io cada in errore anche in ciò che ritengo di intuire con gli occhi
della mente nella maniera più nitida. Ogni volta che mi volgo a quelle cose che ritengo di
percepire con grande chiarezza, sono persuaso da esse in maniera così evidente che
spontaneamente mi trovo ad affermare ad alta voce e con sicurezza: “Mi inganni pure chi può,
tuttavia non farà mai in modo tale che io non sia nulla, finché penso di essere qualcosa; o che un
giorno si possa dire che non sono mai esistito, mentre è vero che io sono; o forse anche che due
più tre siano più o meno di cinque, o cose simili, cose che vedo chiaramente non poter essere
diversamente da come le concepisco”. E certo mentre non ho alcun motivo per considerare che vi
sia un qualche Dio ingannatore, e ancora non so nemmeno con sufficiente certezza se vi sia un
qualche Dio, per dubitare ho un motivo assai tenue e, per così dire, metafisico, che dipende
soltanto da quella opinione. Perché venga eliminata anche quella, non appena si presenterà
l'occasione, devo esaminare se Dio esista, e, se esiste, se possa essere un ingannatore; senza avere
una conoscenza certa di ciò, infatti, non mi sembra di poter essere completamente certo di
nessun’altra cosa.
Ma ora l'ordine delle argomentazioni sembra esigere che, per cominciare, io distribuisca tutti i
miei pensieri in generi determinati prima di ricercare in quali risieda propriamente la verità o la
falsità. Alcuni di questi pensieri sono come delle immagini di cose alle quali sole conviene
propriamente il nome di idea, come quando penso un uomo, una chimera, il cielo, un angelo o
Dio; altri poi hanno anche altre forme: quando esprimo un atto di volontà, quando temo, quando
affermo, quando nego, sempre concepisco una qualche cosa come soggetto del mio pensiero. Col
pensiero, però, abbraccio anche qualcosa che va al di là della mera corrispondenza. Tra questi
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pensieri alcuni si chiamano atti di volontà, altri affezioni e altri giudizi.
Per quanto poi riguarda le idee, se saranno viste solo per se stesse e non le riferirò a
qualcos'altro, non possono essere propriamente false perché, sia che immagini una capra o una
chimera, non è meno vero che immagino l'una come l'altra. In effetti non vi è da temere nessuna
falsità nella volontà o nelle affezioni giacché, quantunque io possa desiderare cose malvage o
cose che non esistono, tuttavia non può non essere vero che io le desidero. E quindi rimangono
solo i giudizi, nei quali mi devo guardare dallo sbagliare. D’altronde l'errore più rilevante e più
frequente che si possa trovare in essi consiste in questo, che io giudichi le idee che sono in me
simili o conformi a cose poste fuori di me. Infatti, se considerassi le stesse idee soltanto come
modalità del mio pensiero e non le riferissi a null'altro, a stento potrebbero darmi una qualche
occasione di errare.
Tra queste idee poi alcune sembrano innate, altre avventizie, altre poi prodotte da me stesso;
infatti mi sembra di non poter trarre da altro se non proprio dalla mia natura il comprendere cosa
sia una cosa, cosa sia la verità, cosa sia il pensiero: che adesso io oda un rumore, che io veda il
sole o avverta il calore del fuoco, finora ho ritenuto che questo derivasse da alcune cose poste
fuori di me. Quanto poi alle sirene, agli ippogrifi e cose simili, esse sono raffigurate da me stesso.
Forse posso anche stimarle tutte avventizie, o tutte innate, o tutte inventate da me; non ho ancora
visto chiaramente la loro vera origine.
Ma qui bisogna investigare soprattutto su quelle idee che considero desunte da cose esistenti
fuori di me: quale ragionamento mi induce a considerare tali idee corrispondenti a queste cose?
Certo in primo luogo mi sembra che la natura mi insegni così. Inoltre constato che esse non
dipendono dalla mia volontà, né da me stesso. Spesso infatti esse mi si presentano anche contro la
mia volontà: per esempio sento il calore sia che lo voglia sia che non lo voglia, e quindi ritengo
che quella sensazione o idea di calore giunga a me da una cosa diversa da me, cioè dal calore del
fuoco vicino al quale sono seduto. Niente è più ovvio di questo: io giudico che è questa cosa e
non qualcos'altro a immettere in me qualche cosa che le somiglia.
Vedrò ora se queste ragioni sono sufficientemente sicure. Quando affermo di essere
ammaestrato dalla natura, in questo modo comprendo di essere portato a crederlo solo da un
impeto spontaneo, e non che mi sia mostrato come vero da un qualche lume naturale. Ora queste
due cose sono in grande contrasto tra loro, infatti tutto ciò che mi viene mostrato da un qualche
lume naturale – ad esempio il fatto che proprio perché dubito ne consegue che io sono, e simili –
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in nessun modo può essere dubbio, perché non ci può essere nessun'altra facoltà nella quale possa
confidare come in questo lume, e che possa mostrare che tutte queste cose non sono vere; ma
quanto alle inclinazioni naturali, già da gran tempo ho giudicato più volte che sono stato spinto da
esse alla scelta peggiore quando si trattava di scegliere il bene, e non ho motivo di fidarmi ancora
di esse in qualche altra cosa.
Quindi, sebbene quelle idee non dipendano dalla mia volontà, non è evidente che esse
necessariamente procedano da cose poste fuori di me. Come infatti quelle inclinazioni di cui
parlavo poco fa, sebbene siano in me, tuttavia appaiono diverse dalla mia volontà, così forse in
me c’è anche una qualche altra facoltà non ancora da me abbastanza conosciuta, che provoca
queste idee, come fino ad ora è sempre sembrato che esse si formino in me mentre sogno, e del
tutto al di fuori di ogni contributo delle cose esterne.
Infine queste idee, per quanto procedano da cose diverse da me, non debbono essere
necessariamente simili a questi oggetti. Ché anzi, in molti casi mi sembra di aver rilevato punti di
vista molto diversi: ad esempio trovo in me due diverse idee di "sole", una come derivata dai
sensi, che più di ogni altra deve essere annoverata tra le idee che ritengo avventizie, e che mi fa
apparire il sole molto piccolo; un'altra desunta dai principi dell'astronomia, cioè derivata da
alcune nozioni che sono innate in me (o da me prodotte in qualche altro modo) e che me lo fanno
sembrare alquanto più grande della terra. Certo, non possono essere tutte e due equiparabili a quel
medesimo sole che esiste fuori di me, e la ragione mi persuade che proprio quella che sembra
essere derivata direttamente è la più difforme.
Tutto questo dimostra che sinora non in base ad un giudizio sicuro, ma soltanto per un qualche
cieco impulso, ho creduto che esistano alcune cose diverse da me, che facciano sorgere in me
delle idee o la loro immagine attraverso gli organi di senso, o in qualche altro modo.
Ma mi viene ora in mente un'altra via per ricercare se alcune delle cose di cui sono in me le
idee esistono fuori di me. Finché queste idee sono soltanto delle modalità di pensiero, non
riconosco alcuna disuguaglianza tra di loro, e mi sembrano procedere tutte allo stesso modo; ma
in quanto l'una mi rappresenta una cosa, l'altra un'altra, è chiaro che esse sono tra di loro molto
diverse. Senza alcun dubbio, infatti, quelle che mi rappresentano delle sostanze sono qualcosa di
più e, per così dire, hanno in sé più realtà oggettiva di quelle che rappresentano solo delle
modalità o accidenti. Di nuovo quell’idea attraverso la quale concepisco un qualche sommo Dio,
eterno, infinito, onnisciente, onnipotente e creatore di tutte le cose che esistono fuori di lui,
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quell’idea dico, ha certamente in sé più realtà oggettiva di quelle per mezzo delle quali vengono
rappresentate le sostanze finite.
Già secondo il lume naturale è chiaro che nella causa efficiente e totale ci deve essere almeno
tanto quanto si riscontra nel suo effetto. Infatti l'effetto da dove mai potrebbe prendere la sua
realtà, se non dalla causa? E la causa come potrebbe dargli questa realtà, se non l'avesse in sé? Da
ciò dunque consegue che nulla può essere generato dal nulla, e neppure che ciò che è più perfetto,
cioè che ha più realtà in sé, può derivare da ciò che è meno perfetto. Questo non solo è
evidentemente vero riguardo a quegli effetti la cui realtà è attuale o formale, ma anche riguardo a
quelle idee in cui si considera soltanto la realtà oggettiva. Ad esempio una pietra che prima non
esisteva non può cominciare ad esistere ora, se non è prodotta da qualcosa in cui vi sia tutto
quello che formalmente o eminentemente è già nella pietra; né il calore può essere immesso in un
soggetto che prima non era caldo se non da una cosa che sia di un ordine almeno tanto perfetto
come è il calore, e così il resto. Inoltre non vi può essere in me un’idea di calore o di pietra, se
non è posta in me da qualche causa nella quale almeno vi sia tanta realtà quanta ne concepisco
nel calore o in una pietra. Infatti, per quanto questa causa non trasfonda niente della sua realtà
attuale o formale nella mia idea, bisogna ritenere non che questa causa sia meno reale, ma che la
natura della stessa idea debba essere tale da non esigere in sé nessun'altra realtà formale oltre a
quella che viene tratta dal mio pensiero, di cui è una modalità.
Quanto poi al fatto che questa idea contenga l’una o l’altra realtà oggettiva, ciò sicuramente lo
deve derivare da qualche causa nella quale come minimo vi sia tanto di realtà formale quanto
essa ne contiene di oggettiva. Se infatti ammettiamo che nell'idea si trova qualcosa che non è
nella causa, questo "qualcosa" lo deriverebbe dal nulla. Eppure, per quanto sia imperfetto questo
modo di essere per cui la cosa esiste oggettivamente nell'intelletto per mezzo dell'idea, tuttavia
sicuramente è qualcosa, e quindi non può derivare dal nulla. Non debbo nemmeno pretendere
che, siccome la realtà che considero nelle mie idee è soltanto oggettiva, non sia necessario che la
stessa realtà sia formalmente nelle cause di queste idee: deve bastarmi che si trovi in esse anche
oggettivamente. Infatti come questo modo d’essere oggettivo appartiene alle idee secondo la loro
natura, così il modo d’essere formale appartiene alle cause delle idee, almeno alle prime e alle più
importanti, secondo la loro natura. E sebbene forse un’idea possa nascere da un'altra, tuttavia qui
non si dà un processo all'infinito, ma si deve giungere a qualche prima idea la cui causa abbia la
forza di un archetipo in cui ogni realtà che si trova nell'idea solo oggettivamente, vi sia contenuta
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anche formalmente. Cosicché per il lume naturale mi è chiarissimo che le idee sono in me come
immagini che possono facilmente decadere dalla perfezione delle cose dalle quali sono desunte,
ma certo non possono contenere qualcosa di più grande e di più perfetto.
Quanto più a lungo e con quanta maggiore curiosità esamino tutte queste cose, con tanta
maggiore chiarezza e distinzione riconosco che sono vere. Ma quale conclusione posso trarre da
tutto ciò? Certo se la realtà oggettiva di qualcuna delle mie idee è tale che io sia certo che essa
non è in me né formalmente né eminentemente (di modo che io non posso esserne la causa), da
ciò necessariamente consegue che io non sono solo nel mondo, ma che esiste anche qualche altra
cosa che è la causa di questa idea. Se invece non si trova in me nessuna idea che abbia tali
caratteristiche, non avrò certamente nessun argomento che mi renda certo dell'esistenza di
qualcosa al di là di me. Ho infatti esaminato con somma diligenza tutto, e non ho potuto trovare
fino ad ora null'altro.
Tra le mie idee poi, all'infuori di quella che mi rappresenta a me stesso, riguardo alla quale qui
non vi può essere nessuna difficoltà, un'altra è quella che rappresenta Dio, altre che rappresentano
le cose corporee e inanimate, gli angeli, gli animali, ed infine altre che rappresentano altri uomini
simili a me.
Quanto alle idee che rappresentano altri uomini, o animali, o angeli, comprendo chiaramente
che possono essere composte da quelle che ho di me stesso, delle cose corporee e di Dio, e questo
avverrebbe anche se nel mondo non vi fossero altri uomini oltre a me, né animali, né angeli.
Quanto poi alle idee delle cose corporee, non si trova nulla in esse di così grande rilievo da
non sembrare che possano derivare da me stesso; ed infatti qualora osservi con maggiore
profondità ed consideri le singole idee nel modo in cui ieri ho esaminato l'idea della cera, mi
accorgo che vi sono solo pochi aspetti che in esse percepisco in maniera chiara e distinta: cioè la
grandezza – estensione in lunghezza, larghezza e profondità; la figura, che nasce dal limite di
questa estensione; il luogo, che i corpi aventi diverse figure occupano l'uno rispetto all'altro, ed il
moto, cioè la mutazione di questo luogo; ad esse si possono aggiungere la sostanza, la durata ed il
numero; il resto poi, come la luce, i colori, i suoni, gli odori, i sapori, il caldo e il freddo, e le altre
qualità sottoposte al tatto non sono contenute nel mio pensiero se non in maniera molto confusa
ed oscura, cosicché ignoro addirittura se siano vere o false, cioè se le idee, che ho di esse, siano
idee di alcune cose o di non-cose. Sebbene infatti abbia fatto notare poco fa che la falsità
propriamente detta, o formale, non si può trovare se non nei giudizi, c'è tuttavia sicuramente una
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qualche altra falsità materiale nelle idee, quando rappresentano ciò che non esiste come se fosse
qualcosa; così, ad esempio, le idee che ho del calore e del freddo sono tanto poco chiare e
distinte, che da esse non posso sapere se il freddo sia soltanto una privazione di calore, o il caldo
una privazione del freddo, o se ambedue siano una qualità reale, o nessuna delle due. Dal
momento che non ci può essere idea se non delle cose, seppure è vero che il freddo non è
null'altro che privazione di calore, ben a ragione sarà giudicata falsa l'idea che me lo rappresenta
come qualcosa di reale e positivo,e questo vale anche per le altre idee.
Non è necessario che assegni a queste idee un autore diverso da me; infatti, se anche sono
false, e cioè non rappresentano alcuna cosa, per il lume naturale mi è noto che derivano dal nulla;
cioè che sono in me perché manca qualcosa alla mia natura, non del tutto perfetta; se poi sono
vere, poiché tuttavia mi rappresentano così poco di realtà, che non possono nemmeno essere
distinte da ciò che non esiste, non vedo perché non possano essere generate da me stesso.
Quanto alle cose che sono chiare e distinte nelle idee relative alla realtà corporea, mi sembra
che alcune posso averle derivate dall'idea di me stesso, cioè la sostanza, la durata, il numero e se
ve ne sono altre di uguale tipo. Quando penso infatti che la pietra è una sostanza – ossia una cosa
che è adatta ad esistere di per sé – e anche io sono una sostanza, sebbene comprenda che io sono
una cosa che pensa e non una cosa estesa, mentre la pietra è una cosa estesa e che non pensa, e
quindi che massima è la diversità tra l'uno e l'altro concetto, tuttavia sembrano appartenere al tipo
della sostanza. Allo stesso modo, quando comprendo che ora esisto, e mi ricordo di essere esistito
anche prima per un certo tempo; quando ho vari pensieri dei quali comprendo il numero,
acquisisco [45] le idee di durata e di numero, che poi posso applicare a qualsiasi altra cosa. Tutte
le altre cose poi dalle quali sono formate le idee della realtà corporea, cioè l'estensione, la figura,
il luogo ed il moto, non sono contenute formalmente in me, dal momento che io non sono
nient'altro che una cosa che pensa; ma poiché esse sono soltanto alcune modalità della sostanza,
ed io sono una sostanza, sembra che possano essere contenute in me eminentemente.
E quindi rimane la sola idea di Dio, nella quale si deve considerare se vi sia qualcosa che non
abbia potuto procedere da me. Col nome di Dio intendo una sostanza infinita, indipendente,
sommamente intelligente, sommamente potente, dalla quale sia io stesso, sia ogni altra cosa
esistente – se pure c'è qualcos'altro – siamo stati creati. Tutte queste cose sono tali che, quanto
più diligentemente le esamino, tanto meno mi sembrano partire da me solo. E quindi in base a ciò
che si è detto prima si deve necessariamente concludere che Dio esiste.
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Sebbene certo vi sia in me l'idea di una sostanza per il fatto stesso che sono una sostanza,
tuttavia non potrebbe esserci l'idea di una sostanza infinita, dal momento che sono finito, se non
derivasse da qualche sostanza realmente infinita.
Né debbo ritenere di concepire l'infinito non per mezzo della sua vera idea, ma soltanto dalla
negazione del finito, come percepisco la quiete e le tenebre attraverso la negazione del moto e
della luce; al contrario, comprendo chiaramente che vi è più realtà nella sostanza infinita che in
quella finita, e quindi in un certo senso la comprensione dell'infinito in me viene prima del finito,
cioè quella di Dio prima di quella di me stesso. In quale modo infatti potrei comprendere di
dubitare, di desiderare, cioè avvertire che mi manca qualcosa, e capire che io non sono del tutto
perfetto, se non ci fosse in me l'idea di un ente più perfetto, dal cui confronto potrei avvertire i
miei difetti?
Non si può nemmeno dire che questa idea di Dio sia forse falsa materialmente e che perciò
possa procedere dal nulla, come poco fa ho constatato circa le idee di calore e di freddo, e simili;
al contrario, essendo al massimo grado chiara e distinta, ed avendo più realtà oggettiva di
alcun'altra, nessuna è più vera di per sé stessa, né esiste nessuna nella quale si trovi un minore
sospetto di falsità. Questa idea di un ente sommamente perfetto ed infinito – affermo – è vera al
massimo grado; anche se si può immaginare che quest'ente non esista, tuttavia non si può
immaginare che l'idea di esso non mi rappresenti niente di reale, come ho detto prima dell'idea
del freddo. È anche sommamente chiara e distinta; infatti tutto ciò che concepisco in maniera
chiara e distinta, che è reale e vero, e che comporta in sé una qualche perfezione, è tutto
contenuto in essa. Non vi è poi un ostacolo nel fatto che io non comprenda l'infinito, o che in Dio
vi siano altre cose innumerevoli, che non posso comprendere, e forse nemmeno raggiungere in
nessun modo col pensiero; fa parte infatti della natura dell'infinito il non poter essere compreso
da me, che sono finito. È sufficiente che io comprenda proprio questa cosa, e la giudichi,: che
tutte le cose che concepisco in maniera chiara, e che comprendono – questo io so – in sé qualche
perfezione, ed anche forse altre innumerevoli perfezioni che ignoro, o formalmente o
eminentemente si trovano in Dio, perché l'idea che ho di lui sia la più vera, la più chiara e distinta
di tutte quelle che sono in me.
Ma forse io sono qualcosa di più grande di quello che io stesso comprendo, e tutte quelle
perfezioni che attribuisco a Dio, in qualche modo sono in me in potenza, anche se non si
sprigionano e non si manifestano in atto. Infatti provo la sensazione che già la mia conoscenza a
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poco a poco si ingrandisce; né vedo quale ostacolo vi sia al fatto che più e più cresca all'infinito, e
neanche perché, essendo così aumentata la mia conoscenza, non possa col suo aiuto raggiungere
tutte le altre perfezioni di Dio; né infine perché la potenza che permette di raggiungere queste
perfezioni, se già è in me, non basti a produrne l'idea.
Eppure nessuna di queste ipotesi è valida. In primo luogo, sebbene sia vero che la mia
conoscenza aumenti gradatamente, e che vi siano in me molte cose in potenza che non sono
ancora in atto, tuttavia nessuna di esse riguarda l'idea di Dio, nella quale certo nulla in nessun
modo è in potenza; ed infatti questa stessa cosa, cioè aumentare gradatamente, è una prova
certissima di imperfezione. Inoltre, sebbene la mia conoscenza aumenti sempre e sempre più,
tuttavia comprendo che mai diventerà infinita in atto, perché non arriverà mai a tal punto che non
sia capace di un maggiore accrescimento; invece giudico che Dio sia così infinito nell'atto, che
nulla si possa aggiungere alla sua perfezione. Infine comprendo che l'essere oggettivo di una idea
non deriva da un solo essere in potenza, che propriamente parlando non è nulla, ma può essere
prodotta solo da un essere attuale o formale.
Sicuramente non vi è qualcosa in tutte queste cose, che, per chi le esamini diligentemente, non
sia manifesto per lume naturale; ma poiché, quando sono meno attento, e le immagini delle cose
sensibili rendono cieco l'acume della mente, non mi ricordo così facilmente perché l'idea di un
ente più perfetto di me necessariamente proceda da qualche ente che sia realmente più perfetto e
mi piace ricercare più in profondità se io stesso che ho quell'idea potrei esistere, anche se non
esistesse in alcun modo tale ente.
Da chi dunque derivo il mio essere? Da me evidentemente, o dai miei genitori, o da
qualsivoglia altra causa meno perfetta di Dio; infatti non si può pensare o immaginare qualcosa di
più perfetto o anche di ugualmente perfetto.
Eppure, se dipendessi da me, non dubiterei, né proverei desideri, né in ogni modo mi
mancherebbe qualcosa; infatti mi darei tutte le perfezioni delle quali è in me qualche idea, e così
per me stesso sarei Dio. Né debbo ritenere che forse sia più difficile acquisire ciò che mi manca,
piuttosto che ciò che è già in me. Al contrario è chiaro quanto sia stato di gran lunga più difficile
che io, cioè una cosa o una sostanza pensante, sia emerso dal nulla, piuttosto che abbia acquisito
le conoscenze di molte cose che ignoro, le quali sono soltanto accidenti di questa sostanza. Certo,
se avessi potuto derivare da me quella cosa che è la più importante, non mi sarei privato
certamente di quelle cose che si possono avere più facilmente, e neppure alcun'altra cosa tra
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quelle che comprendo trovarsi nell'idea di Dio; poiché certo nessun'altra cosa mi sembra più
difficile a realizzarsi. Se poi alcune cose fossero più difficili a farsi, certo mi sembrerebbero
anche più difficili, se pure derivassi da me le altre qualità che possiedo, poiché proverei
sicuramente che in esse trova il suo limite la mia potenza.
E non sfuggo la forza di questi ragionamenti, se suppongo di essere sempre stato come sono
ora, come se da questo ne conseguisse che non si deve ricercare nessun autore della mia
esistenza. Ogni tempo della vita può essere diviso in parti innumerevoli, delle quali ciascuna non
dipende in nessun modo dalle altre. Quindi dal fatto che poco fa io sia esistito non ne consegue
che debba esistere ora, se non perché qualche causa mi crei quasi di nuovo in questo momento,
cioè mi conservi. È chiarissimo infatti, per chi sta attento alla natura del tempo, che c'è bisogno
assolutamente della stessa forza e azione per conservare qualsiasi sostanza per i singoli momenti
nei quali dura, che sarebbe necessaria per crearla di nuovo, se non esistesse ancora; in maniera
tale che il fatto che la conservazione differisca dalla creazione solo in base al nostro modo di
pensare, è anche una delle cose che sono manifeste secondo il lume naturale.
Ora devo interrogare me stesso, se io abbia una qualche forza per la quale possa fare in modo
che tra poco possa essere quello che sono già ora; infatti dal momento che non sono altro che una
cosa che pensa, o almeno poiché ora tratto soltanto di quella parte di me che è una cosa che
pensa, se una qualche forza di tal genere fosse in me, sarei conscio di ciò al di fuori di ogni
dubbio. Ma sono sicuro che non ve ne è nessuna, e da questo comprendo nella maniera più
evidente che debbo dipendere da qualche ente diverso da me.
Ma forse quell'ente non è Dio, e sono stato fatto o dai miei genitori, o da qualsiasi altra causa
meno perfetta di Dio. Eppure, come ho già detto, è chiarissimo che almeno tanta realtà vi deve
essere nella causa quanta c'è nell'effetto; e quindi dal momento che sono una cosa che pensa, e
che ho in me una qualche idea di Dio, qualunque causa infine venga attribuita alla mia natura,
debbo ammettere che anche essa sia una cosa pensante, e che abbia l'idea di tutte le perfezioni
che attribuisco a Dio. Di nuovo quindi si può investigare riguardo ad essa, se sia causata da se
stessa o da un'altra causa. Se è causata da sé, è evidente da ciò che abbiamo detto che essa stessa
è Dio, poiché certo, dal momento che ha la capacità di esistere di per se stessa, al di fuori di ogni
dubbio ha anche la forza di possedere in atto tutte le perfezioni di cui ha in sé l'idea, cioè tutte
quelle che concepisco essere in Dio. Qualora poi derivi da un'altra, di nuovo allo stesso modo si
investigherà su quest'altra, qualora derivi da sé, o da un'altra causa, finché alla fine si giunga alla
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causa ultima, che sarà Dio.
Infatti è abbastanza evidente che qui non si può verificare nessun progresso all'infinito,
soprattutto per il fatto che non tratto qui soltanto della causa che un tempo mi ha prodotto, ma
soprattutto anche di quella che nel tempo presente mi conserva.
E non si può immaginare che per caso delle cause parziali abbiano concorso a produrmi, e
dall'una abbia preso l'idea di una delle perfezioni che attribuisco a Dio, da un'altra l'idea di
un'altra, cosicché certo tutte quelle perfezioni si trovino in qualche altro luogo dell'universo, ma
non tutte congiunte insieme in un solo essere, che sia Dio. Infatti al contrario l'unità, la
semplicità, o piuttosto la inseparabilità di tutte quelle cose che sono in Dio, è una delle massime
perfezioni che considero essere in lui. Né certo l'idea di questa unità di tutte le sue perfezioni potè
essere posta in me da una causa diversa da quella da cui non abbia parimenti avuto anche le idee
delle altre perfezioni. Né infatti avrebbe potuto fare in modo che le comprendessi insieme
congiunte ed inseparabili, se non avesse fatto nello stesso tempo in modo che potessi capire quali
esse siano.
Quanto poi ai genitori, sebbene siano tutte vere quelle cose che mai abbia potuto pensare di
loro, tuttavia certo essi non mi conservano, né in nessun modo mi hanno fatto, in quanto cosa
pensante; ma hanno posto soltanto delle disposizioni in quella materia in cui ho giudicato che
fossi inserito io, cioè la mente: quando parlo di me, intendo proprio essa. Quindi non vi può
essere nessuna difficoltà a questo riguardo; ma bisogna ad ogni modo concludere che per il solo
fatto che esisto, e che una qualche idea di un essere perfettissimo è in me, cioè l'idea di Dio, si
può dimostrare in maniera evidentissima che anche Dio esiste.
Rimane solo da esaminare in quale modo abbia ricevuto questa idea da Dio; ed infatti non l'ho
derivata dai sensi, né mai mi è venuta senza che me lo aspettassi, come sogliono venire le idee
delle cose sensibili, quando queste cose si presentano agli organi esterni dei sensi, o sembrano
venire in mente; non è creatura della mia mente, ed infatti non è in mio potere togliervi né
aggiungervi assolutamente alcuna cosa; e quindi non può che essermi innata, allo stesso modo
che è innata in me l'idea di me stesso.
Certo non c'è da stupirsi che Dio, creandomi, mi abbia immesso quell'idea, perché fosse come
un sigillo impresso dall'artefice alla sua opera; e neanche è necessario che quel modello sia
qualcosa di diverso dalla stessa opera. Ma per il solo fatto che Dio mi ha creato, è fortemente
credibile che io in qualche modo sia stato fatto ad immagine e somiglianza di lui, e che quella
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somiglianza in cui è contenuta l'idea di Dio, sia compresa da me attraverso la stessa facoltà, con
la quale io concepisco me stesso; cioè, mentre rivolgo l'acutezza della mente verso me stesso, non
solo comprendo di essere una cosa incompleta e che dipende da un altro, e una cosa che aspira
senza fine a cose via via più grandi e migliori; ma nello stesso tempo anche comprendo che colui
dal quale dipendo ha in sé queste qualità più grandi non in maniera indefinita e soltanto in
potenza, ma in realtà le ha in sé in maniera infinita e quindi è Dio. E tutta la forza dell'argomento
consiste in questo, che mi rendo conto che non può accadere che io esista con una natura tale
quale sono, e cioè con in me l'idea di Dio, se Dio non esistesse in realtà, Dio, dico, quello stesso
di cui è in me l'idea, cioè colui che ha tutte quelle perfezioni, che io non posso comprendere, ma
posso in qualunque modo raggiungere col pensiero, e che non è passibile di nessun difetto. Da
tutte queste considerazioni è evidente che egli non può essere fallace; ed infatti è manifesto in
base al lume naturale che ogni frode ed inganno dipende da qualche difetto.
Ma prima di esaminare ciò con maggiore diligenza, e nello stesso tempo di fare ricerche su
altre verità che possono essere desunte da ciò, mi piace qui per un certo tempo fermarmi nella
contemplazione dello stesso Dio, considerare nel mio intimo i suoi attributi, e guardare, ammirare
e adorare la bellezza di questa immensa luce, perquanto lo possa sopportare l'acume del mio
ingegno che si offusca. Come infatti crediamo per fede che la somma felicità dell'altra vita
consista in questa sola contemplazione della divina maestà, così anche sperimentiamo di poter
ricevere il massimo piacere, del quale siamo capaci in questa vita, dalla stessa contemplazione,
sebbene molto meno perfetta.
74
David Hume (1711-76)
Dialoghi sulla religione naturale (postumo 1779)
lingua originale: inglese
edizione di riferimento: N. Kemp Smith, Indianapolis, 1980
tr. it., A Attanasio, Einaudi, Torino, 1997
Parte quarta
Mi sembra strano, disse CLEANTE, che voi DEMEA, cosi sincero nella difesa della religione, siate
qui a sostenere la natura misteriosa e incomprensibile della Divinità, e a insistere con tanta forza sul
fatto che essa non somigli in alcun modo alle creature umane. Sono subito pronto ad ammettere che
la Divinità possiede molti poteri e attributi che rimangono per noi incomprensibili. Ma se le nostre
idee, sia pure nei loro limiti, non sono giuste, adeguate e corrispondenti alla sua reale natura, allora
non saprei proprio cosa ci sia ancora da discutere su questo argomento. Può il nome avere una
importanza cosi rilevante, se non vi si associa alcun significato? O, come possono i MISTICI, che
sostengono l'assoluta incomprensibilità della Divinità, distinguersi dagli scettici o dagli atei, che
affermano che la causa prima del Tutto è sconosciuta e inintelligibile? La temerarietà di costoro deve
essere molto grande se, dopo aver respinto la creazione prodotta da una mente, e intendo una mente
simile a quella umana (perché non ne conosco altre), pretendano poi di indicare con certezza altre
cause specifiche e intelligibili. E la loro coscienza deve essere veramente molto scrupolosa, se
rifiutano di chiamare Dio o Divinità la causa universale sconosciuta, per poi attribuire a questa tanti
elogi sublimi e epiteti privi di significato, quanti vi piacerà richiedere.
Chi poteva immaginare, rispose DEMEA, che CLEANTE, il calmo filosofo CLEANTE, avrebbe
tentato di confutare i suoi avversari dando a ognuno di loro un soprannome e che, simile ai volgari
bigotti e inquisitori del nostro tempo, avrebbe fatto ricorso a invettive e declamazioni, invece che al
ragionamento? Non si rende conto che questi argomenti gli si possono facilmente ritorcere contro, e
che l'appellativo di antropomorfista è odioso e implica tante conseguenze pericolose, proprio come
l'epiteto di mistico di cui ci ha onorato? Riflettete CLEANTE su ciò che asserite, quando
rappresentate la Divinità simile alla mente e all'intelligenza umane. Cosa è l'anima dell'uomo? Un
insieme di varie facoltà, passioni, sentimenti, idee, unite certo in un unico io o persona, e tuttavia
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distinti l'un l'altro. Quando essa ragiona, le idee, che sono gli elementi del suo discorso, si
dispongono in una certa forma o ordine, che non resta immutato neanche un momento, perché
immediatamente dà luogo a un'altra combinazione. Nuove opinioni, nuove passioni, nuove affezioni,
nuovi sentimenti emergono, c questi continuamente diversificano la scena mentale e vi producono la
più grande varietà e la pii rapida successione immaginabile. Come è compatibile questo con quella
perfetta immutabilità e semplicità che tutti i teisti autentici attribuiscono alla Divinità? Con uno
stesso atto, dicono, essa vede il passato, il presente, e il futuro. Il suo amore e il suo odio, la sua
misericordia e la sua giustizia sono un'unica operazione. E un intero in ogni punto dello spazio, ed è
compiuta in ogni momento della sua durata. Nessuna successione, nessun cambiamento, nessuna
acquisizione, né diminuzione. Ciò che essa è non implica alcuna ombra di distinzione o diversità. E
cosa è in questo attimo lo è sempre stata e sempre lo sarà, senza alcun nuovo giudizio, sentimento o
operazione. Sta fissa in un unico, semplice, perfetto stato, né può mai dirsi, se non impropriamente,
che questo suo atto è differente da quell'altro, o che questo giudizio' o idea sono stati formati di
recente e daranno luogo, mediante successione, a qualche altro differente giudizio o idea.
Posso ammettere facilmente, disse CLEANTE, che quelli che sostengono la perfetta semplicità
dell'Essere supremo, nel significato esteso in cui voi l'avete spiegata, sono totalmente mistici e
imputabili di tutte le conseguenze che ho tratto dalle loro opinioni. Essi sono, in una parola, atei
senza saperlo. Perché, sebbene si ammetta che la Divinità possegga attributi di cui noi non abbiamo
comprensione, tuttavia non dovremmo mai riferire ad essa alcun attributo che sia assolutamente
incompatibile con quella natura intelligente, che le è essenziale. Una mente, i cui atti, sentimenti e
idee non siano distinti e successivi, pienamente semplice e totalmente immutabile, è una mente che
non ha pensiero, né ragione, né volontà, né sentimento, né amore, né odio. In una parola non è affatto
una mente. È un abuso di termini dare ad essa questo appellativo e allo stesso modo potremmo
parlare di estensione limitata senza figura o di numero senza composizione.
Vi prego, disse FILONE, di considerare contro chi state inveendo. Voi state onorando
dell'appellativo di ateo quasi tutti i teologi seri e ortodossi che hanno trattato tali argomenti, e alla
fine vi troverete ad essere, in base alla vostra stima, l'unico teista attendibile nel mondo. Ma se gli
idolatri sono atei, se, come credo sia giusto, si può dire la stessa cosa per i teologi Cristiani, cosa
succede dell'argomento, tanto celebrato, che fa derivare l'esistenza di Dio dal consenso universale
dell'umanità?
Ma so che non vi fate molto influenzare da nomi e autorità, e quindi tenterò di mostrarvi, un po'
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più distintamente, gli inconvenienti di quell'antropomorfismo che avete abbracciato, e vi proverò che
non ha fondamento supporre un piano del mondo che si formi nella mente divina, consistente di idee
distinte, differentemente composte, allo stesso modo in cui un architetto forma nella sua testa il piano
di una casa che intende realizzare.
Confesso che non è facile vedere cosa si possa guadagnare da questa supposizione, se giudichiamo
la materia mediante ragione o mediante esperienza. Saremmo sempre costretti a risalire all'indietro
per poter trovare la causa di quella causa che voi definite soddisfacente e conclusiva.
Se la ragione (intendo l'astratta ragione derivata da indagini a priori) non è allo stesso modo muta
riguardo a tutti i problemi relativi alla causa e all'effetto, almeno potrà osare affermare che un mondo
mentale, o universo di idee, richiede una causa tanto quanto il mondo materiale, o universo di oggetti,
e se ha una disposizione simile, allora deve richiedere una causa simile. Perché in questo caso
dovrebbe esserci una diversa conclusione o inferenza? Da un punto di vista astratto, i due casi sono
del tutto simili, e non c'è difficoltà derivante da una congettura, che non sia comune all'altra.
Ancora, se vogliamo necessariamente forzare l'esperienza a pronunciare qualche verdetto anche in
ambiti al di fuori della sua sfera, essa, a questo proposito, non potrebbe percepire alcuna differenza
materiale tra i due tipi di mondi, in quanto li trova governati da principi simili, dipendenti nelle loro
operazioni da una eguale varietà di cause. Abbiamo esempi in miniatura di entrambi questi mondi. La
nostra mente assomiglia all'uno, una pianta o un corpo animale all'altro. Lasciamo quindi che
l'esperienza giudichi da questi esempi. Niente appare più problematico, per quanto riguarda le sue
cause, del pensiero. E, poiché queste cause non operano mai in due persone allo stesso modo, non
troveremo mai due persone che pensano esattamente allo stesso modo. E, in verità, anche la stessa
persona non pensa mai in modo esattamente uguale in due differenti periodi di tempo. Una differenza
di età, di condizione fisica, di condizione meteorologica, di alimentazione, di compagnia, di letture,
di passioni: uno di questi particolari, o altri più minuti, è sufficiente ad alterare il preciso meccanismo
del pensiero, e comunicare ad esso movimenti e operazioni molto differenti. Per quanto possiamo
giudicare, i corpi di animali e piante non sono più problematici nei loro movimenti, o dipendenti da
una più grande varietà di cause, o da una più accurata concordanza di origini e principi.
Come potremmo allora essere soddisfatti riguardo alla causa di quell'Essere che supponete Autore
della natura o, secondo il vostro sistema di antropomorfismo, riguardo alla causa del mondo ideale
entro cui far risalire il mondo materiale? Non abbiamo forse la stessa ragione nel far risalire quel
mondo ideale a un altro mondo ideale ovvero a un nuovo principio intelligente? Ma se ci fermiamo
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qui e non andiamo avanti, perché siamo arrivati fin qui? Perché allora non fermarsi al mondo
materiale ? Come essere soddisfatti senza procedere in infinitum? E dopo tutto, quale soddisfazione
c'è in questa progressione infinita ? Ricordiamoci la storia del filosofo INDIANO e del suo elefante.
Niente sarebbe piú pertinente al nostro caso. Se il mondo materiale poggia su un mondo ideale ad
esso simile, il mondo ideale deve poggiare su qualche altro, e cosi di seguito, senza fine. Sarebbe
meglio, quindi, non guardare mai al di là del presente mondo materiale. Se supponiamo che esso
contiene in sé il principio del suo ordine, noi in realtà stiamo asserendo che esso è Dio. Prima si
arriva a quell'Essere divino e meglio è. Quando oltrepassate di un sol passo il sistema terreno voi
suscitate solo un'ansia di sapere che non è mai possibile soddisfare.
Dire che le differenti idee che compongono la ragione dell'Essere supremo trovano un ordine da se
stesse, e per loro propria natura, è in realtà parlare senza dare alcun significato preciso alle parole. Se
un significato c'è, allora mi piacerebbe sapere perché non sarebbe sensato dire che le parti del mondo
materiale trovano un ordine da se stesse, e per loro propria natura? Può una delle due opinioni essere
intelligibile, mentre l'altra non lo è?
In verità abbiamo esperienza di idee che si ordinano da se stesse, senza alcuna causa conosciuta.
Ma sono certo che molto piú ampia è la nostra esperienza di questo fenomeno nella materia, ad
esempio in tutti i casi di generazione e vegetazione, dove l'accurata analisi delle cause supera ogni
comprensione umana. Sperimentiamo anche sistemi particolari di pensiero e di materia senza ordine,
la pazzia, come esempio del primo tipo, la corruzione, come esempio del secondo. Perché allora
dovremmo pensare che l'ordine è più essenziale al pensiero che alla materia? E se l'ordine richiede
una causa nel pensiero come nella materia, che cosa ci si guadagna con il vostro sistema, facendo
risalire l'universo degli oggetti ad un universo di idee ad esso simile? Facendo il primo passo,
saremmo costretti ad andare avanti sempre. Sarebbe quindi saggio limitare tutte le nostre ricerche al
mondo presente, senza guardare oltre. Nessuna soddisfazione si potrà mai ottenere da speculazioni
che cosi tanto eccedono i limiti ristretti dell'intelletto umano.
Voi sapete, CLEANTE, che era consuetudine dei PERIPATETICI, quando si chiedeva la causa di
un fenomeno qualsiasi, far ricorso alle facoltà o qualità occulte e dire, per esempio, che il pane nutre
per le sue facoltà nutritive, e la senna purga per le sue facoltà purgative. Ma si è scoperto che quel
sotterfugio non era altro che un travestimento di ignoranza, e che quei filosofi, benché meno
ingegnosi, dicevano in realtà la stessa cosa degli scettici, o della gente comune, che confessavano
apertamente di non conoscere la causa di questi fenomeni. Allo stesso modo, quando si chiede quale
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causa produce l'ordine nelle idee dell'Essere supremo, quale ragione potete voi antropomorfisti
attribuire se non una facoltà razionale, che è la natura della Divinità? Ma, il motivo per cui una
simile risposta non fornisce una spiegazione esauriente dell'ordine del mondo, senza ricorrere ad
alcun Creatore intelligente, come voi sostenete, sarebbe difficile da determinare. C'è solo da dire che
tale è la natura degli oggetti materiali e che essi sono tutti originariamente dotati di una facoltà di
ordine e proporzione. Ma queste sono solo strade più colte e ricercate per confessare la nostra
ignoranza, dal momento che l'una ipotesi non ha un reale vantaggio sull'altra, se noti per essere molto
più conforme ai pregiudizi della gente comune.
Avete illustrato questo argomento con grande enfasi, rispose CLEANTE, e non sembrate capire
quanto facile sia rispondervi. Anche nella vita comune, FILONE, se attribuisco una causa ad un
evento, c'è qualche obiezione al fatto di non poter attribuire una causa a quella causa, e non poter
dare risposte a ogni nuovo problema che incessantemente può porsi? A quali filosofi potrebbero
sottostare ad una regola così rigida? Filosofi che confessano che le cause ultime sono totalmente
sconosciute, e che sono consapevoli che i più sofisticati principi ai quali fanno risalire i fenomeni
sono, anche per loro, tanto inesplicabili quanto questi fenomeni stessi lo sono per la gente comune.
L'ordine e la disposizione della natura, la precisa rispondenza delle cause finali, l'utilità e la funzione
manifesta in ogni parte e organo, tutto ciò indica a chiare lettere una causa o un Autore intelligente. I
cicli e la terra uniti nella stessa testimonianza. L'intero coro della natura eleva un inno di lodi al suo
Creatore. Solo voi, o quasi, disturbate questa generale armonia. Ponete dubbi astrusi, cavilli e
obiezioni. Mi Chiedete quale sia la causa di questa causa? Non la conosco, non me ne preoccupo, non
mi riguarda. lo ho trovato una Divinità e fermo qui la mia indagine. Vadano oltre i piú saggi o i più
intraprendenti.
Non ho la pretesa di essere né l'uno né l'altro, rispose FILONE, e per questa ragione non avrei
dovuto forse tentare di andare tanto avanti, specialmente perché so di dovermi accontentare di una
risposta che avrebbe potuto soddisfarmi fin dall'inizio, senza preoccupazioni ulteriori. Se debbo
restare nella più completa ignoranza delle cause, senza poter assolutamente dare spiegazione di nulla,
non considererò mai un vantaggio mettere da parte, per un momento, una difficoltà che anche voi
riconoscete mi si dovrà ripresentare subito dopo in tutta la sua forza. I naturalisti, in verità molto
giustamente, spiegano effetti particolari con cause piú generali, anche se queste cause generali
rimangono alla fine del tutto inesplicabili. Ma sicuramente mai hanno ritenuto soddisfacente spiegare
un effetto particolare con una causa particolare di cui non si possa dar conto pila dell'effetto stesso.
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Un sistema ideale, che si dispone da sé r, senza un precedente disegno, non è per nulla più spiegabile
di un sistema materiale che consegua il suo ordine nello stesso modo, né ci sono più difficoltà
nell'ultima ipotesi di quante ce ne siano nella prima.
80
Bernard Bolzano (1781-1848)
Dottrina della scienza (1837)
lingua originale: tedesco
edizione di riferimento a cura di E. Winter (et al) Stuttgart, 1969
tr. it. G. Rigamonti e L. Fossati, Bompiani, Milano 2014
§ 30.
Senso dell’affermazione che si danno verità in sé
L’espressione darsi di cui mi servo quando affermo che si danno verità in sé ha bisogno di una
spiegazione a parte per non essere fraintesa. Infatti nel suo significato proprio e usuale, quello che
ha per esempio nella proposizione «Si danno angeli», essa indica l’essere o esserci (l’esistenza) di
una cosa; qui però non possiamo prenderla in questo senso perché le verità in sé, come ho già
ricordato più volte, non hanno un esserci. Ma allora che cosa intendiamo quando diciamo che si
danno simili verità? Rispondo: nient’altro, se non che certe proposizioni hanno la proprietà di
essere verità in sé.
Tuttavia riguardo al numero di queste proposizioni, cioè se se ne dia più d’una oppure una
sola, inizialmente non ci pronunceremo, così che la nostra affermazione possa essere considerata
dimostrata anche se avessimo provato solo il darsi di un’unica verità, o – che poi è lo stesso – che
la tesi che non si danno verità è falsa.
Se mettiamo insieme questo punto con quello immediatamente precedente vediamo,
infine, che il senso della tesi che qui vogliamo illustrare può essere espresso nel modo più chiaro
così: «La proposizione che nessuna proposizione ha verità non ha a sua volta verità», o anche, più
brevemente, «Non è vero che nessuna proposizione sia vera».
§ 31.
Dimostrazione che si dà almeno una verità in sé
La chiarissima espressione alla quale abbiamo appena ricondotto (§ 30) questa asserzione è tale
che la sua dimostrazione non sfugge nemmeno ai più miopi. Infatti che nessuna proposizione
abbia verità è autocontraddittorio perché è a sua volta una proposizione e dunque se volessimo
dichiararla vera dovremmo contemporaneamente dichiararla falsa; infatti se ogni proposizione
81
fosse falsa lo sarebbe anche la stessa proposizione che ogni proposizione è falsa. Perciò non tutte
le proposizioni sono false ma si danno anche proposizioni vere; si danno anche delle verità –
almeno una.
Osservazione. Gli antichi conoscevano già benissimo il ragionamento col quale dimostro
che si dà almeno una verità. Aristotele (Metafisica, IV, 8) sottolinea l’autocontraddittorietà della
proposizione che niente è vero. Sesto Empirico (Contro i logici, II, 55) espone molto
accuratamente il nostro stesso ragionamento: «Quanto a quelli che asseriscono tutte le cose essere
false, abbiamo precedentemente mostrato che essi vengono confutati» (cioè già nel Lib. I, 390 e
398, però non in modo così serrato); «se, infatti, tutte le cose sono false, risulterà falsa anche
l’espressione “tutte le cose sono false” essendo essa una di tutte le cose. Ed essendo falsa
l’espressione “tutte le cose sono false”, risulterà vera l’espressione opposta ad essa, ossia quella
“non tutte le cose sono false”». (Avrebbe dovuto però invece di «tutte le cose», dire, in modo più
preciso, «tutte le proposizioni»). Nell’Organo di Lambert, Vol. I, §§ 258 e 262, troviamo
un’affermazione simile e similmente dimostrata; e anche Bouterweck (Idea di un’apodittica, Vol.
I, pp. 375 e 378) aveva concezioni analoghe. D’altronde questa dimostrazione si potrebbe
condurre pure in altri modi. Per esempio, per provare che qualcosa è vero non è indispensabile
servirsi proprio della proposizione che tutto è falso ma si può scegliere una qualsiasi proposizione
«A è B» e osservare che se essa è falsa l’affermazione che lo è è invece vera. E in ogni caso
potremmo far notare a chi ritiene che nulla sia vero che se questo è vero c’è almeno una
proposizione vera; se poi qualcuno continuasse a dubitare, basterebbe fargli capire che le parole
«Non ci sono proposizioni…» contengono già una proposizione, ecc. Io non credo però che simili
dimostrazioni sarebbero più evidenti.
§ 32.*
Dimostrazione che si danno più verità, anzi infinite
1) Dal § precedente risulta che si dà almeno una verità oggettiva, perché l’affermazione opposta
contraddice se stessa. Ma si dà forse una sola verità oggettiva – solo questa, che si dà una verità?
Ora per eliminare questo dubbio mostrerò che si danno più verità, anzi infinite.
2) Supponiamo infatti che qualcuno affermi che si dà una sola verità, e mi sia consentito,
comunque essa suoni, di indicare questa verità con «A è B»; mostrerò ora che accanto a essa se
ne dà almeno una seconda. Chi ammette l’opposto, infatti, deve considerare vera l’affermazione
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«A parte la verità “A è B” non si dà nessun’altra verità», ma tale affermazione è chiaramente
altra cosa da «A è B», essendo formata da parti completamente diverse. Perciò se fosse vera
sarebbe già una seconda verità; dunque non è vero che si dà una sola verità, ma se ne danno
almeno due.
3) Ma procedendo in questo modo si può dimostrare che nemmeno due verità possono
essere le sole. Comunque suonino queste due, infatti, è chiaro che l’affermazione «Niente è vero
se non le due proposizioni “A è B” e “C è D”» è una proposizione ben distinta sia da «A è B» che
da «C è D»; perciò se fosse vera questa proposizione costituirebbe immediatamente una nuova –
e quindi una terza – verità, per cui sarebbe un errore supporre che si diano solo due verità.
4) Si vede subito che questo tipo di ragionamento può proseguire all’infinito; ne segue che
si danno infinite verità perché l’ipotesi che esse formino un insieme finito comunque grande
racchiude in sé una contraddizione. Così, se supponiamo che qualcuno voglia ammettere solo n
verità, queste, comunque suonino (anche se una di esse consistesse, ove possibile,
nell’affermazione che si danno solo n verità), si possono rappresentare con le n formule A è B, C
è D … Y è Z. Ora, se l’avversario pretende che al di fuori di queste n proposizioni non possiamo
ammettere come vero assolutamente niente, affermerà qualcosa cui possiamo dare la seguente
forma, «Al di fuori delle proposizioni “A è B”, “C è D” … “Y è Z”, nessun’altra proposizione è
vera». Ma questa proposizione è fatta in modo tale che le sue parti costitutive sono, chiaramente,
del tutto diverse da quelle delle n proposizioni «A è B», «C è D» … «Y è Z», e dunque è essa
stessa una proposizione completamente diversa; perciò, in quanto la considera vera il nostro
avversario distrugge egli stesso l’affermazione che si danno solo n proposizioni vere. Questa
infatti sarebbe la (n+1)-esima.
Osservazione. Questa dimostrazione (così facile da esporre) che si danno più verità, anzi
infinite, per quanto ne so non era mai stata utilizzata finora. A quanto pare si pensava di avere già
fatto abbastanza strappando allo scettico l’ammissione che si dà almeno una verità. D’altronde
anche questo tipo di dimostrazione è suscettibile di diverse varianti; infatti si può procedere,
evitando la forma apagogica, pure così: se la proposizione «A è B» è vera anche l’affermazione
«La proposizione che A è B è vera» è a sua volta una proposizione vera, e date le sue parti
costitutive è già un’altra rispetto ad «A è B», dunque è una seconda verità, distinta dalla prima.
Inoltre da qualsiasi proposizione vera della forma «A è B» si può derivare la proposizione
«Perciò alcuni B sono A» ponendo con ciò una nuova verità, diversa da quella data; e così via.
83
§ 33.
Risposta a diverse obiezioni
Immagino che ognuno concederà senza difficoltà che si danno più verità, anzi infinite, non
appena gli saranno stati tolti tutti i dubbi sulla correttezza della dimostrazione che se ne dà
almeno una. Tuttavia, dopo lunga riflessione potrebbero nascere dubbi e perplessità in qualche
lettore che in un primo momento era rimasto soddisfatto. Perciò qui presenterò tutti quei dubbi
che riesco a farmi venire in mente e cercherò di risolverli ed eliminarli.
1) «Se», potrebbe dire un dubbioso, «mi lasciassi indurre dalla dimostrazione che ho
appena letto a rinunciare da oggi in poi ai dubbi che ho avuto finora sull’esistenza di una
qualsiasi verità, mi sembra che procederei troppo frettolosamente. Infatti (a) per lasciarmi
convincere da questa dimostrazione (o da qualsiasi altra, comunque costruita) dovrei attribuirmi
preliminarmente la facoltà di riconoscere delle verità, e perciò stesso presupporre il risultato che
qui si dovrebbe ottenere, cioè che si danno verità in sé. (b) Per farmi convincere da questa
dimostrazione dovrei presupporre innanzitutto che il tipo specifico di ragionamento che vi viene
utilizzato sia corretto; perciò dovrei dare preliminarmente per vero il dictum de omni, o
comunque vogliamo chiamare l’assioma che questo ragionamento utilizza. (c) Infine, poiché in
questa dimostrazione compare la premessa che la concatenazione di concetti espressa dalle parole
tutte le proposizioni sono false è effettivamente una proposizione, dovrei anche ammettere
preliminarmente la validità di questa premessa – e dunque già diverse verità. Ma posso farlo
senza contraddirmi?».
2) Ora intendo eliminare queste perplessità con le seguenti controosservazioni, con le
quali mostrerò al lettore che può accettare come ben fondata e senza cadere in contraddizione la
dimostrazione che gli ho fornito sopra.
a) Non è assolutamente necessario che per lasciarci convincere di una qualsiasi
conclusione da una dimostrazione (come per esempio quella esposta sopra) dobbiamo
preliminarmente attribuire a noi stessi la facoltà di distinguere la verità dall’errore,
presupponendo con ciò la proposizione che si danno verità in sé – almeno se questo significa che
dovremmo avere già proferito o accettato il giudizio «Si danno verità, e noi possiamo
riconoscerne alcune». Perché la dimostrazione data sopra ci convinca abbiamo solo bisogno di
considerare attentamente le proposizioni che vi occorrono, cosa che possiamo fare anche in una
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condizione di dubbio universale. Per il solo fatto di dirigere l’attenzione dell’anima nostra verso
queste proposizioni, ce ne sentiamo pienamente convinti e riconosciamo che si danno verità in sé;
e in quanto eleviamo questa convinzione appena nata in noi a chiara consapevolezza, cioè
accettiamo il giudizio che abbiamo tale convinzione, diventiamo anche consapevoli di essere
creature pensanti e di avere la facoltà di riconoscere la verità. È senz’altro vero, d’altronde, che
per essere convinti dalla dimostrazione data sopra è indispensabile una facoltà conoscitiva; ma
avere una facoltà conoscitiva è una cosa e dover partire dal presupposto di averla è un’altra, in
nessun modo necessaria, per cui non procediamo affatto circolarmente nella nostra
dimostrazione; e meno ancora ci si può obiettare di contraddirci. Ci sarebbe contraddizione solo
se alla fine della dimostrazione affermassimo qualcosa che all’inizio avevamo negato, ma non ce
n’è nessuna se alla fine affermiamo qualcosa che all’inizio non volevamo ancora asserire e di cui
anzi dubitavamo. Dubitare non significa ancora negare, e chi si trova in uno stato di dubbio
universale dubiterà dell’esistenza di verità oggettive e della nostra capacità di conoscerle, ma non
negherà né una cosa né l’altra. È anche vero, d’altronde, che noi non possiamo nello stesso
istante dubitare che si diano verità, nonché di avere la facoltà di conoscerle, ed essere invece
convinti di entrambe le cose; a questo arriveremo solo dopo, quando, considerando le
proposizioni che questa dimostrazione ci presenta, l’attenzione del nostro spirito sarà distolta
dalle ragioni del dubbio, che quindi la nostra coscienza perderà, e riconosceremo la verità a esso
opposta. Né ci dobbiamo preoccupare che quel dubbio ricompaia ogni volta che torniamo
retrospettivamente sulle ragioni che l’avevano prodotto all’inizio, perché ora queste ragioni le
vedremo da un punto di vista diverso e capiremo che non dimostravano ciò che avrebbero dovuto
dimostrare.
b) Come non è assolutamente necessario che noi, per restare convinti di una
dimostrazione, presupponiamo l’esistenza di verità in sé e la nostra capacità di riconoscerne
alcune, così nemmeno è indispensabile che conosciamo preventivamente la correttezza di certe
forme d’inferenza. È sì indispensabile che tali forme d’inferenza siano corrette e che noi non
dubitiamo di questa correttezza, cioè che non riteniamo che potrebbero anche essere sbagliate;
ma non si richiede assolutamente che abbiamo già accolto l’opinione opposta, cioè appunto che
siano corrette. Che le cose stiano effettivamente così deve risultare chiaro anche per il dubbioso
quando considera come egli stesso si regola nel costruire questa obiezione. Anche qui infatti egli
fa delle inferenze, cosa che gli sarebbe impossibile se ogni passo inferenziale dovesse essere
85
preceduto da un giudizio sulla correttezza del procedimento che sta alla sua base. Ciò sarebbe
possibile in un unico caso, cioè se un dubbioso tenesse presente la dimostrazione data sopra senza
restarne convinto perché dubita della correttezza dei suoi passaggi. Ma tali passaggi sono
talmente semplici, talmente normali per noi umani, che di fatto ciò non può accadere per nessuno
che non sia totalmente ottuso o pazzo. È vero che ognuno può fare l’ipotesi di dubitare; ma in
realtà nessuno che abbia una facoltà di giudizio ben sviluppata può dubitare anche un solo istante
dell’ammissibilità di inferenze di questo tipo, dato che il pensiero che potrebbe indurlo a un
simile dubbio sarebbe a sua volta un giudizio costruito in base a quello stesso genere di inferenze.
c) Per quanto riguarda infine l’affermazione che il nesso concettuale espresso dalle parole
«Ogni proposizione è falsa» è già una proposizione, è senz’altro vero che noi l’usiamo come
premessa, ma ciò non danneggia in alcun modo la forza di convinzione della nostra
dimostrazione. Infatti anche questa proposizione possiede una verità, e – per chiunque – talmente
chiara da non poterne dubitare. È bensì vero che chi concede anche questa sola verità,
fondamentalmente non dovrebbe più avere bisogno di farsi ancora dimostrare che si danno delle
verità. Ma il fatto è che non sempre noi umani ci rendiamo conto subito e da soli di quanto
manchiamo di rigore quando affermiamo che non si danno verità. Tutto il merito della
dimostrazione data sopra dovrebbe stare perciò proprio nel renderci evidente tale non rigorosità –
cosa che essa fa mettendoci davanti una di quelle verità delle quali non possiamo in nessun modo
dubitare. Ho già detto che ci sono anche molte altre verità delle quali ci si potrebbe servire a
questo scopo, ma quella che ho utilizzato qui ci si presenta nel modo più naturale. In questa
dimostrazione le inferenze sono così ovvie, e vengono percorse con tale velocità, anche dalla
persona meno esercitata, che non appena gli si dà il «via» uno nemmeno si rende conto di fare
inferenze (per l’esattezza, due) o che per poterle mettere in moto sarebbe necessario introdurre e
dare per vera una terza proposizione, cioè che la stessa affermazione che niente è vero è una
proposizione.
Osservazione. All’obiezione del n. 1 (a), si potrebbe ribattere che contraddice se stessa.
Infatti in quanto pone la domanda se le proposizioni e inferenze presenti nella nostra
dimostrazione non sembrino soltanto vere e corrette senza esserlo realmente, già presuppone che
ci sia un essere pensante e che quelle proposizioni e inferenze compaiano nella sua coscienza,
nonché la possibilità che non concordino con la verità in sé – dunque la possibilità che ci siano
verità in sé, ecc. – Questa osservazione è già stata fata anche da altri. Nella Teoria del sapere di
86
Stiedenroth, per esempio (Gottinga 1819, pp. 75-76), leggiamo che «lo scetticismo ha il suo
punto d’appoggio nell’opposizione di oggettivo e soggettivo. Perciò per costruire se stesso deve
presupporre il soggetto come cosa certa. Ma dal punto di vista filosofico per lo scettico il
soggettivo dovrebbe essere altrettanto incerto dell’oggettivo; egli dovrebbe trattare l’esistenza del
soggetto come semplice ipotesi. Ma se gli crolla la certezza di se stesso come soggetto, crolla
pure l’opposizione fra oggettivo e soggettivo e con ciò l’intero scetticismo, che senza tale
opposizione non può sostenersi». – Ma per quanto corretto, secondo me tutto questo non basta da
solo a guarire dallo scetticismo. Infatti in quanto mostriamo al dubbioso che nelle sue inferenze
egli si contraddice, gli diamo solo una nuova dimostrazione di quanto sia confuso il sistema dei
suoi pensieri, e ancor più egli dubiterà della correttezza di qualsiasi successione di inferenze, per
quanto stringente. Per risanarlo dobbiamo guidarlo invece verso inferenze che dipendano solo da
se stesse e risolvere le contraddizioni che gli si presentano; è proprio questo che ho cercato di fare
finora (con quale fortuna, lo decidano i lettori). – Negli scritti degli scettici, e in particolare in
Sesto Empirico, s’incontrano tentativi di tutti i generi di confutare la proposizione che esistono
verità o di far vedere che la loro esistenza è indimostrabile. Qui presenterò due dei più notevoli di
questi tentativi, che tuttavia non mi sembrano tali da poter nuovamente distruggere le convinzioni
acquisite di uno che non li sapesse controbattere. (a) Negli Schizzi pirroniani (II, 9), Sesto
afferma che è impossibile dimostrare che una cosa è vera perché la dimostrazione dovrebbe
presupporre appunto di essere essa stessa vera. – Rispondo che noi non ammettiamo
arbitrariamente che una dimostrazione sia vera o falsa (o meglio corretta o scorretta) e la forza di
convinzione di una dimostrazione corretta non le viene da questa arbitraria ammissione iniziale.
Perciò è falso che nel dare questa dimostrazione noi presupponiamo già, secondo l’accusa di
Sesto, che essa sia vera (o corretta). Questo lo si vede solo alla fine, dopo che l’abbiamo
ascoltata, quando ce ne sentiamo convinti. Perciò chi volesse asserire che la nostra dimostrazione
è scorretta dovrebbe mostrare che non ha prodotto questo senso di convincimento. (b) In Contro i
logici (II, 15 s.), Sesto cerca di mostrare ancora più dettagliatamente come sia impossibile
convincersi che qualcosa sia vero: «Quando qualcuno afferma che si danno delle verità, presenta
questa affermazione o senza dimostrazione o con una dimostrazione. Se senza dimostrazione,
deve essere consentito porre senza dimostrazione anche la tesi opposta, cioè che non si danno
verità. Se con una dimostrazione, chiedo: con una falsa o una vera? Se con una falsa, l’intera
affermazione non vale niente. Se con una vera, domando: con che cosa ha potuto dimostrare che
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la sua dimostrazione è vera? Con un’altra dimostrazione? Ma così ce ne vorrebbe sempre una
nuova, per cui il nostro lavoro non potrebbe mai finire». – Qui concedo tutto fino a quella che
viene tacitamente considerata l’unica risposta possibile alla domanda «Con che cosa ha potuto
dimostrare che la sua dimostrazione è vera?», cioè «Con una nuova dimostrazione». Invece di
dare questa risposta, infatti, si deve controbattere «Che una dimostrazione sia vera (o corretta)
non va a sua volta dimostrato, ma nella misura in cui essa è tale alla fine il lettore se ne sentirà
convinto, e tanto più intimamente quanto più ci ripenserà. È per questo effetto, e non per una
nuova dimostrazione, che conclude che la dimostrazione è corretta».
88
Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)
Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)
lingua originale: tedesco
edizione di riferimento: G. Colli e M. Montinari, Monaco, 1988
tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano, 1970
1
In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una
volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più
menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della
natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. – Qualcuno potrebbe inventare
una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero,
spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la
natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non
sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che
conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può
considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui. Se noi riuscissimo
a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e
si sente il centro – che vola – di questo mondo. Non vi è nulla di abbastanza spregevole e scadente
nella natura, che con un piccolo e leggero alito di quella forza del conoscere non si gonfi senz’altro
come un otre. E come ogni facchino vuole avere i suoi ammiratori, così il più orgoglioso fra gli
uomini, il filosofo, crede che da tutti i lati gli occhi dell’universo siano rivolti telescopicamente sul
suo agire e sul suo pensare.
È degno di nota che tutto ciò sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come
aiuto –agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo di trattenerli per un minuto
nell’esistenza, onde essi altrimenti, senza quell’aggiunta, avrebbero ogni motivo di sfuggire tanto
rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire, sospesa
come nebbia abbagliante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore
dell’esistenza, portando in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo effetto più
89
universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del medesimo
carattere.
L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione.
Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a
essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali
feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione raggiunge il suo culmine: qui l’illudere, l’adulare, il
mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il vivere in uno
splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la commedia dinanzi
agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità costituisce a tal
punto la regola e la legge, che nulla, si può dire, è più incomprensibile del fatto che fra gli uomini
possa sorgere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente immersi nelle
illusioni e nelle immagini del sogno, il loro occhio scivola sulla superficie delle cose, vedendo
«forme», il loro sentimento non conduce mai alla verità, ma si accontenta di ricevere stimoli e, per
così dire, di accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle cose. Oltre a ciò, di notte l’uomo si lascia
ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo sentimento morale cerchi mai di impedire ciò;
devono invece esistere uomini che con la forza di volontà hanno eliminato il russare. In senso
proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che, una volta tanto, egli sarebbe capace di percepire
compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina illuminata? Forse che la natura non gli
nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e
fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue,
dai complicati fremiti delle sue fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità
che una volta riesca a guardare attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e
che un giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato,
avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del
mondo sorgerà mai l’impulso verso la verità?
In quanto l’individuo, di fronte ad altri individui, vuole conservarsi, esso utilizza per lo più
l’intelletto, in uno stato naturale delle cose, soltanto per la finzione: ma poiché al tempo stesso
l’uomo, per bisogno o per noia, vuole esistere socialmente come in un gregge, egli è spinto a
concludere la pace, e tende a far scomparire dal suo mondo almeno il più rozzo bellum omnium
contra omnes. Questo trattato di pace porta in sé qualcosa che si presenta come il primo passo per
raggiungere quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto viene fissato ciò che in seguito
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dovrà essere la «verità»; in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente
valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità. Sorge
qui infatti, per la prima volta, il contrasto tra verità e menzogna. Il mentitore adopera le designazioni
valide, le parole, per fare apparire come reale ciò che non è reale. Egli dice per esempio: «io sono
ricco», mentre per il suo stato la designazione esatta sarebbe proprio «povero». Egli fa cattivo uso
delle salde convenzioni, scambiando arbitrariamente, o addirittura invertendo i nomi. Quando egli fa
questo in modo egoistico, che può d’altronde recare danno, la società non si fiderà più di lui e così lo
escluderà da sé. Nel far ciò gli uomini cercano di evitare, non tanto l’essere ingannati, quanto l’essere
danneggiati dall’inganno: anche su questo piano essi in fondo non odiano l’inganno, bensì le
conseguenze brutte e ostili di certe specie di inganni. In tale senso limitato, l’uomo vuole soltanto la
verità: egli desidera le conseguenze piacevoli – che preservano la vita – della verità, è indifferente di
fronte alla conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le
verità forse dannose e distruttive. Oltre a ciò come stanno le cose rispetto alle suddette convenzioni
del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza, del senso della verità, forse che le designazioni
e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è dunque l’espressione adeguata di tutte le realtà?
Solo attraverso l’oblio l’uomo può giungere a credere di possedere una «verità» nel grado sopra
designato. Quando egli non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si appaga di
gusci vuoti, baratterà sempre verità e illusioni. Che cos’è una parola? Il riflesso in suoni di uno
stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso a una causa fuori di noi è già il risultato di
una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. Se nella genesi del linguaggio la verità
fosse risultata decisiva, se nelle designazioni fosse stato decisivo unicamente il punto di vista della
certezza, come potremmo ancora dire: la pietra è dura, quasi che «duro» ci fosse noto anche
altrimenti, e non soltanto come uno stimolo del tutto soggettivo? Noi dividiamo le cose in generi,
designiamo l’albero come maschile e la pianta come femminile: quali trasposizioni arbitrarie! Che
distacco dal canone della certezza! Noi parliamo di un «serpente»: la designazione non riguarda altro
se non la tortuosità, e potrebbe quindi spettare altresì al verme. Quali delimitazioni arbitrarie, quali
preferenze unilaterali, accordate ora all’una ora all’altra proprietà di una cosa! Le diverse lingue,
poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né
un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così tante lingue. La «cosa in sé»
(la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del tutto
inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere ricercata.
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Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle più ardite metafore
per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in un’immagine: prima
metafora. L’immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora. Ogni volta si ha un
cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto differente e nuova. Si può
immaginare un uomo che sia completamente sordo e non abbia mai avuto una sensazione del suono e
della musica: allo stesso modo che costui, per esempio, si meraviglia di fronte alle figure acustiche di
Chladni, disegnate sulla sabbia, trova le loro cause nelle vibrazioni della corda ed è disposto a giurare
di sapere ormai che cosa sia ciò che gli uomini chiamano «suono», così avviene a tutti noi riguardo al
linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di
neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono
affatto alle essenze originarie. Come il suono si presenta in quanto figura nella sabbia, così
l’enigmatico x della cosa in sé ora si presenta come stimolo nervoso, ora come immagine, ora infine
come suono. In ogni caso il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, e l’intero
materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l’uomo della verità, l’indagatore, il filosofo,
proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non dall’essenza delle cose.
Soffermiamoci ancora particolarmente sulla formazione dei concetti. Ogni parola diventa
senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare
l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizzata, ma deve adattarsi al tempo
stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi
semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale. Se è certo
che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra, altrettanto certo è che il concetto di foglia si
forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali, mediante un dimenticare
l’elemento discriminante, e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori delle foglie,
esiste un qualcosa che è «foglia», quasi una forma primordiale, sul modello della quale sarebbero
tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie,
in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della
forma originale. Noi chiamiamo un uomo «onesto». Perché costui si è comportato oggi così
onestamente? – domandiamo. La nostra risposta è di solito: a causa della sua onestà. L’onestà! Ciò
significa nuovamente: la foglia è la causa delle foglie. Non sappiamo assolutamente nulla di una
qualità essenziale che si chiami l’onestà; e conosciamo invece numerose azioni individuali, e quindi
disuguali, che noi equipariamo tra loro, lasciando cadere ciò che vi è di disuguale, e che allora
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designiamo come azioni oneste. Partendo da esse formuliamo infine una qualitas occulta, con il
nome: l’onestà.
Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci
fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi
neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile. Altresì la nostra antitesi
tra individuo e genere è infatti antropomorfica e non sgorga dall’essenza delle cose, anche se non
osiamo dire che tale antitesi non corrisponde a tale essenza. Questa sarebbe infatti un’asserzione
dogmatica, e come tale altrettanto indimostrabile quanto la sua contraria.
Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve
una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state
trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le
verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e
hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese
in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Sinora noi non sappiamo onde derivi
l’impulso verso la verità; sinora infatti abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo imposto dalla
società per la sua esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore usuali. L’espressione morale
di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo di mentire secondo
una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una moltitudine, in uno stile vincolante
per tutti. Senza dubbio l’uomo si dimentica che le cose stanno a questo modo; egli mente dunque
nella maniera suddetta, incoscientemente e per una abitudine secolare, giungendo al sentimento della
verità proprio attraverso questa incoscienza, proprio attraverso questo oblio. Con il sentimento di
essere obbligati a designare una cosa come rossa, un’altra come fredda, una terza come muta, si
risveglia un sentimento morale riferentesi alla verità. Fondandosi sul contrasto dell’uomo
menzognero, di cui nessuno si fida e che tutti evitano, l’uomo dimostra a se stesso che la verità è
degna di rispetto e di fiducia, e altresì utile. Come essere razionale, egli pone ora il suo agire sotto il
controllo delle astrazioni; non ammette più di essere trascinato dalle impressioni istantanee e dalle
intuizioni, generalizza tutte queste impressioni, traendone concetti scoloriti e tiepidi, per aggiogare a
essi il carro della sua vita e della sua azione. Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da
questa capacità di sminuire le metafore intuitive in schemi, cioè di risolvere un’immagine in un
concetto. Nel campo di quegli schemi è possibile cioè qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto il
dominio delle prime impressioni intuitive: costruire un ordine piramidale, suddiviso secondo caste e
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gradi, creare un nuovo mondo di leggi, di privilegi, di subordinazioni, di delimitazioni, che si
contrapponga ormai all’altro mondo intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di più solido, di
più generale, di più noto, di più umano, e quindi come l’elemento regolatore e imperativo. Mentre
ogni metafora intuitiva è individuale e risulta senza pari, sapendo perciò sempre sfuggire a ogni
registrazione, la grande costruzione dei concetti mostra invece la rigida regolarità di un colombario
romano e manifesta nella logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi
è ispirato da questa freddezza difficilmente crederà che il concetto – osseo come un dado, spostabile
e munito di otto vertici come questo – sussista unicamente come il residuo di una metafora, e che
l’illusione del trasferimento artistico di uno stimolo nervoso in immagini, se non è la madre, sia
tuttavia l’antenata di ogni concetto. In questo concettuale giuoco di dadi si chiama peraltro «verità» il
servirsi di ogni dado secondo la sua designazione, il contare con esattezza i punti segnati su ogni
faccia, il costruire rubriche giuste e il non turbare mai l’ordinamento di caste e la serie gerarchica
delle classi. Come i Romani e gli Etruschi dividevano il cielo con rigide linee matematiche e in
ciascuna di queste caselle, come in un templum, relegavano un dio, così ogni popolo trova sopra di sé
un siffatto ciclo concettuale suddiviso matematicamente, e per esigenze della verità intende il
ricercare ogni dio concettuale unicamente nella sua sfera. Senza dubbio si può a questo proposito
ammirare l’uomo come un potente genio costruttivo, che riesce – su mobili fondamenta, e per così
dire, sull’acqua corrente – a elevare una cupola concettuale infinitamente complicata; certo, per
raggiungere una stabilità su siffatte fondamenta, occorrerà una costruzione fatta di ragnatele, tanto
tenue da non essere trascinata via dalle onde e tanto solida da non essere spazzata via al soffiare di
ogni vento. Come genio costruttivo, l’uomo si innalza a questo modo al di sopra delle api: queste
costruiscono con la cera che raccolgono ricavandola dalla natura, mentre l’uomo costruisce con la
materia assai più tenue dei concetti che egli deve fabbricarsi da sé. In ciò egli è degno di grande
ammirazione, non già tuttavia a causa del suo impulso verso la verità e la conoscenza pura delle cose.
Se qualcuno nasconde qualcosa dietro un cespuglio, se lo ricerca nuovamente là e ve lo ritrova, in
questa ricerca e in questa scoperta non vi è molto da lodare: eppure le cose stanno a questo modo
riguardo alla ricerca e alla scoperta della «verità», entro il territorio della ragione. Se io formulo la
definizione del mammifero, e in seguito, vedendo un cammello, dichiaro: «ecco un mammifero», in
tal caso viene portata alla luce senza dubbio una verità, ma quest’ultima ha un valore limitato, a mio
avviso; è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia «vero in
sé», reale e universalmente valido, a prescindere dall’uomo. L’indagatore di queste verità in fondo
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cerca soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo, si sforza di comprendere il mondo come una
cosa umana e nel caso migliore riesce a raggiungere il sentimento di una assimilazione. Allo stesso
modo in cui l’astrologo considerava le stelle al servizio degli uomini e in collegamento con la loro
felicità e con i loro dolori, così un tale indagatore considera il mondo intero come connesso con
l’uomo, come l’eco infinitamente ripercossa di un suono originario, cioè dell’uomo, come il riflesso
moltiplicato di un’immagine primordiale, cioè dell’uomo. Il suo metodo considera l’uomo come
misura di tutte le cose: nel far ciò tuttavia egli parte da un errore iniziale, credere cioè che egli abbia
queste cose immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri. Egli dimentica così che le metafore
originarie dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse.
Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa originaria
di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia umana – si
indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che questo sole, questa finestra,
questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uomo dimentica se stesso in quanto soggetto,
e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può vivere con una certa
calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscire soltanto per un attimo dalle mura segregatrici di
questa fede, la sua «autocoscienza» si dissolverebbe allora d’un tratto. Già gli costa molta fatica
l’ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto differente da quello umano, e
che la questione di determinare quale delle due percezioni del mondo sia la più giusta è del tutto
priva di senso, poiché una misura in proposito dovrebbe essere stabilita in base al criterio della
percezione esatta, cioè in base a un criterio che non esiste. In generale poi la percezione esatta – il
che significherebbe l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto – mi sembra un’assurdità
contraddittoria: in effetti tra due sfere assolutamente diverse, quali sono il soggetto e l’oggetto, non
esiste alcuna causalità, alcuna esattezza, alcuna espressione, ma tutt’al più un rapporto estetico,
intendo dire una trasposizione allusiva, una traduzione balbettata in una lingua del tutto straniera, il
che richiederebbe in ogni caso una sfera intermedia e una capacità intermedia che fossero capaci di
poetare e di inventare liberamente. La parola apparenza contiene molte tentazioni, e perciò la evito
per quanto è possibile: non è infatti vero che l’essenza delle cose appaia nel mondo empirico. Un
pittore, cui manchino le mani e che voglia esprimere con il canto l’immagine che gli sta di fronte,
lascerà indovinare, con questo scambio di sfere, più di quanto il mondo empirico non lasci indovinare
riguardo all’essenza delle cose. Persino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l’immagine prodotta
non è in sé affatto necessario: ma quando la medesima immagine viene prodotta milioni di volte e
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viene trasmessa ereditariamente attraverso molte generazioni umane, apparendo infine a tutta quanta
l’umanità ogni volta come conseguenza della medesima occasione, essa in conclusione acquista per
l’uomo il medesimo significato che le spetterebbe se fosse l’unica immagine necessaria, e se quel
rapporto fra l’originario stimolo nervoso e l’immagine prodotta fosse un rigido rapporto di causalità.
Allo stesso modo un sogno, eternamente ripetuto, sarebbe sentito e giudicato interamente come
realtà. Ma l’indurirsi e, l’irrigidirsi di una metafora non offre assolutamente alcuna garanzia per la
necessità e per l’autorità esclusiva di questa metafora.
Ogni uomo cui tali considerazioni siano familiari ha senza dubbio sentito una profonda diffidenza
verso ogni idealismo cosiffatto, ogni volta che egli si sia convinto con grande chiarezza dell’eterno
rigore, dell’onnipresenza e dell’infallibilità delle leggi naturali. Egli è giunto alla seguente
conclusione: in questo campo – sin dove possiamo giungere, verso l’altezza del mondo telescopico e
verso la profondità del mondo microscopico – tutto è sicuro, costruito, infinito, conforme a leggi e
senza lacune; la scienza potrà eternamente scavare questi pozzi con successo, e tutto ciò che sarà
trovato risulterà concordante e non contraddittorio. Tutto ciò assomiglia davvero poco a un prodotto
della fantasia: se tale fosse il caso, difatti, da qualche parte dovrebbe trasparire l’illusione e l’irrealtà.
Invece occorre dire: se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi
potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse
il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale
stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura, ma la
intenderebbe unicamente come una creazione estremamente soggettiva. Oltre a ciò, che cos’è per noi,
in generale, una legge della natura? Essa ci è nota non già in sé, bensì soltanto nei suoi effetti, cioè
nelle sue relazioni con altre leggi naturali, che a loro volta ci sono note soltanto come somme di
relazioni. Tutte queste relazioni rimandano perciò sempre l’una all’altra, e nella loro essenza
risultano per noi perfettamente incomprensibili: in tutto ciò ci è realmente noto soltanto quello che
noi stessi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, ossia rapporti di successione e numeri. Peraltro l’intero
elemento miracoloso –proprio quello che ammiriamo nelle leggi naturali –che esige una nostra
spiegazione e potrebbe indurci a diffidare dell’idealismo consiste proprio unicamente nel rigore
matematico e nell’inviolabilità delle rappresentazioni di tempo e spazio. Queste, tuttavia, noi le
produciamo in noi, traendole da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la sua tela ; se
siamo costretti a comprendere tutte le cose unicamente in base a queste forme, non c’è allora più da
meravigliarci che in tutte le cose noi possiamo appunto comprendere, propriamente, soltanto queste
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forme: tutte quante debbono infatti portare in sé le leggi del numero e il numero è appunto l’elemento
più stupefacente che esista nelle cose. Ogni conformità a leggi, la quale ci fa talmente impressione
nel corso degli astri e nei processi chimici, coincide in fondo con quelle proprietà che noi stessi
introduciamo nelle cose, cosicché siamo noi che facciamo impressione a noi stessi. Da ciò risulta
senza dubbio che quella formazione artistica di metafore, con cui comincia in noi ogni sensazione,
presuppone già quelle forme, ossia viene compiuta in esse; è soltanto la salda permanenza di- queste
forme originarie, che può spiegare la possibilità della susseguente costituzione, in base alle metafore
stesse, dell’edificio dei concetti. Tale edificio è infatti un’imitazione dei rapporti temporali, spaziali e
numerici sul terreno delle metafore.
2
Alla costruzione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in epoche
posteriori la scienza. Come l’ape costruisce le sue celle e al tempo stesso le riempie di miele, così la
scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti – cimitero delle intuizioni –
costruisce in quell’edificio piani nuovi e più alti, consolida, ripulisce, rinnova le antiche celle, e
soprattutto si sforza di riempire quella costruzione a scomparti, innalzata a un livello eccelso, e di
ordinarvi l’intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già l’uomo di azione lega la
sua vita alla ragione e ai concetti razionali, per non essere trascinato via dalla corrente e per non
perdersi, all’indagatore poi spetta addirittura di costruire la sua capanna a ridosso della torre della
scienza, per poter contribuire alla sua edificazione e per poter trovare egli stesso un riparo ai piedi del
baluardo già costruito. E di protezione egli ha bisogno, poiché esistono forze terribili che premono
continuamente su di lui, contrapponendo alla «verità» scientifica altre «verità» di natura del tutto
diversa e munite dei più svariati stemmi.
Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può
prescindere neppure per un istante, poiché in tal mòdo si prescinderebbe dall’uomo stesso, risulta in
verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i
concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come roccaforte. Tale impulso
si cerca allora un nuovo campo di azione, un altro alveo per la sua corrente, e trova tutto ciò nel mito,
e in generale nell’arte. Confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando
nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo
sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente,
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eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno. In sé, anzi, l’uomo desto trae una
chiara convinzione di essere sveglio unicamente dalla rigida e regolare ragnatela dei concetti, e
talvolta è portato a credere di sognare, appunto perché quella ragnatela concettuale in certe occasioni
viene strappata dall’arte. Pascal ha ragione quando sostiene che, se ogni notte ci si presentasse il
medesimo sogno, noi ci occuperemmo altrettanto di esso quanto delle cose che vediamo ogni-giorno:
«se un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici ore filate, di essere re, io credo allora»
dice Pascal «che egli sarebbe altrettanto felice quanto un re che sognasse tutte le notti, per dodici ore,
di essere un artigiano». La veglia di un popolo – per esempio degli antichi Greci – ispirato
miticamente risulta, a causa dei miracoli continuamente operanti quali sono accolti dal mito,
realmente più simile al sogno che non alla veglia del pensatore scientificamente disincantato. Quando
ogni albero può avere l’occasione di parlare, nascondendo una ninfa, quando sotto la figura di un toro
un dio può trascinar via le vergini, quando la stessa dea Atena viene vista improvvisamente, su un bel
cocchio, attraversare le piazze di Atene in compagnia di Pisistrato – e tutto ciò è creduto dai buoni
Ateniesi – allora in ogni momento tutto è possibile, come nel sogno, e tutta la natura si agita attorno
all’uomo, quasi fosse unicamente una mascherata degli dèi, contenti di fare uno scherzo all’uomo con
ogni specie di metamorfosi ingannevoli.
L’uomo stesso peraltro ha un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare ed è come incantato di
felicità, quando il rapsodo gli racconta come vere delle favole epiche, o quando nel dramma l’attore
fa la parte del re in modo ancora più regale di quanto sia mostrato dalla realtà. L’intelletto, maestro di
finzione, è libero e sottratto al suo normale servizio da schiavo, sintanto che può ingannare senza
recare danno, e celebra allora i suoi Saturnali. In nessun’altra occasione esso è più esuberante, più
ricco, più orgoglioso, più abile e più audace: con gusto creativo mescola le metafore e sposta i confini
dell’astrazione, cosicché per esempio designa il fiume come la mobile strada che porta l’uomo là
dove di solito egli giunge camminando. Esso ha ormai gettato via da sé il segno della soggezione: un
tempo preoccupato, con triste operosità, di mostrare la via e gli strumenti a un povero individuo che
ha un ardente desiderio di vivere, un tempo pronto a rapinare e a predare come lo è un servo per il
suo padrone, ora invece è divenuto padrone e può cancellare dal suo volto l’espressione della miseria.
Tutto ciò che fa adesso, a confronto con le sue azioni precedenti, porta in sé il segno della finzione,
così come ciò che aveva fatto in precedenza portava in sé il segno della caricatura.
Ora copia la vita umana, ma la prende come una cosa buona e sembra davvero contentarsi di essa.
Quella enorme impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale il misero uomo riesce a
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salvarsi lungo la sua vita, costituisce, per l’intelletto divenuto libero, soltanto un’armatura e un
trastullo per i suoi audaci artifici. E se manda in frantumi tutto ciò, se lo mescola, lo ricompone
ironicamente, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, con ciò esso fa vedere
di non aver bisogno di quei ripieghi della miseria e di essere ormai guidato, non già da concetti, bensì
da intuizioni. Non esiste una strada regolare, che partendo da queste intuizioni conduca nella terra
degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non è fatta per le intuizioni, e l’uomo ammutolisce
quando si trova dinanzi a esse, oppure parla unicamente con metafore proibite e con inauditi
accozzamenti di concetti, per adeguarsi creativamente – almeno con la distruzione e la derisione delle
vecchie barriere concettuali – all’impressione della possente intuizione attuale.
Vi sono epoche in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il primo
con la paura dell’intuizione, il secondo con il disprezzo per l’astrazione. Quest’ultimo è altrettanto
non razionale, quanto il primo è non artistico. Entrambi desiderano di dominare sulla vita: l’uomo
razionale, in quanto sa affrontare i più importanti e i più impellenti bisogni con la previdenza, la
prudenza e la regolarità; l’uomo intuitivo, in quanto non vede – come «eroe supremamente
giocondo» – quei bisogni e considera come reale soltanto la vita trasformata dalla finzione in
parvenza e in bellezza. Se l’uomo intuitivo – come è avvenuto nell’antica Grecia – sa usare le sue
armi più vittoriosamente e più potentemente dell’avversario, può configurarsi, in caso favorevole,
una civiltà e può fondarsi il dominio dell’arte sulla vita: quella finzione, quel rinnegamento della
miseria, quello splendore delle intuizioni metaforiche, e in generale quell’immediatezza dell’inganno
accompagnano tutte le manifestazioni di una siffatta vita. Né l’abitazione, né l’andatura, né
l’abbigliamento, né l’orcio d’argilla lasciano scorgere di essere stati inventati da un bisogno
impellente. Sembra quasi che attraverso tutte queste cose debba esprimersi una sublime felicità, una
serenità olimpica, e per così dire un giocare con ciò che è serio. Mentre l’uomo guidato dai concetti e
dalle astrazioni non riesce per mezzo loro che a respingere l’infelicità, senza riuscire egli stesso a
procurarsi la felicità dalle sue astrazioni, mentre cioè egli si sforza per quanto è possibile di liberarsi
dal dolore, l’uomo intuitivo invece, ergendosi in mezzo a una civiltà, raccoglie dalle sue intuizioni,
oltre che una difesa dal male, un’illuminazione, un rasserenamento, una redenzione, che affluiscono
incessantemente. Senza dubbio egli soffre più violentemente, quando soffre: egli soffre anzi più
spesso, poiché non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo nel medesimo pozzo in cui
era caduto una volta. Nel dolore poi è tanto irrazionale quanto nella felicità: egli grida forte e non
trova consolazione. Quanto diverso è il comportamento, di fronte a un’eguale sventura, dell’uomo
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stoico, ammaestrato dall’esperienza, il quale si domina con l’aiuto dei concetti! Lui, che altrimenti
cerca soltanto la rettitudine, la verità, la libertà dagli inganni e la difesa dalle sorprese seducenti, ora
invece, nella sventura, mette in mostra il capolavoro della dissimulazione, come quell’altro aveva
fatto nella felicità: egli non rivela un volto umano mobile e vibrante, ma per cosa dire una maschera,
con un dignitoso equilibrio nei tratti; egli non grida e non cambia nemmeno la sua voce. Se un
nuvolone temporalesco si rovescia su di lui, egli si avvolge nel suo mantello e se ne va a lento passo
sotto il temporale.
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John M’Taggart Ellis M’Taggart (1866-1925)
‘L’irrealtà del tempo’ (1908)
lingua originale: inglese
prima pubblicazione nella rivista Mind
tr. it. L. Cimino, Rizzoli, Milano, 2006
Senza dubbio sembra del tutto paradossale affermare che il tempo sia irreale e che tutte le
asserzioni che implicano la sua realtà siano errate. Asserzioni del genere comportano un
allontanamento dall'atteggiamento naturale del genere umano molto maggiore di quelle che
affermano l'irrealtà dello spazio o l'irrealtà della materia. Una frattura così decisiva con
l'atteggiamento naturale non è facile da accettare. Eppure, in ogni epoca, la credenza nell'irrealtà
del tempo si è dimostrata straordinariamente attraente.
Nella filosofia e nella religione orientali tale dottrina è d'importanza cardinale. E in
Occidente, dove filosofia e religione sono meno strettamente connesse, la medesima dottrina si
ripropone di continuo fra filosofi e teologi. La teologia non si è mai tenuta separata a lungo dal
misticismo e quasi tutte le forme di misticismo negano la realtà del tempo. In filosofia, inoltre,
il tempo viene considerato irreale da Spinoza, Kant, Hegel e Schopenhauer. Nella filosofia
attuale le due correnti più importanti (escludendo quelle finora meramente critiche) sono quelle
che si riallacciano a Hegel e al sig. Bradley. Ed entrambe rifiutano la realtà del tempo. Non si
può negare che tale consenso sia estremamente significativo – e non lo è meno perché queste
dottrine assumono forme molto diverse e sono sostenute da argomenti molto diversi.
Io credo che il tempo sia irreale. Ma lo credo per motivi che non sono stati utilizzati, penso,
da nessuno dei filosofi menzionati. La proposta è allora quella di spiegare tali motivi nel
presente articolo.
Le posizioni nel tempo, per come il tempo ci appare prima facie, sono distinte in due modi.
Ciascuna posizione è Prima di qualcuna e Dopo qualcuna delle altre posizioni. E ogni posizione
è o Presente, o Passata, o Futura. Le distinzioni della prima delle due classi sono permanenti,
mentre quelle della seconda non lo sono. Se M è per caso prima di N, lo è per sempre. Ma un
evento che è ora presente, era futuro e sarà passato.
Poiché sono permanenti, si potrebbe ritenere che le distinzioni della prima classe siano più
oggettive, e più essenziali alla natura del tempo. Io credo invece che questo sia un errore, e che
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la distinzione fra passato, presente e futuro sia tanto essenziale al tempo quanto la distinzione
fra prima e dopo, mentre in un certo senso, come vedremo, essa può essere considerata ancor
più fondamentale della distinzione fra prima e dopo. Ed è proprio perché la distinzione fra
passato, presente e futuro mi sembra essenziale al tempo che considero il tempo irreale.
Per brevità chiamerò “serie A” la serie di posizioni che vanno dal passato remoto, attraverso
il passato più prossimo, al presente, e dal presente, al futuro prossimo e al futuro più remoto. La
serie di posizioni che va dal prima al dopo la chiamerò “serie B”. I contenuti delle posizioni nel
tempo vengono detti “eventi”. Si pensa che i contenuti di una singola posizione debbano essere
propriamente considerati una pluralità di eventi (credo comunque che essi possano essere
considerati altrettanto correttamente, anche se non più correttamente, un solo evento. Tale
prospettiva non è universalmente accettata e non è necessaria al mio argomento). Una posizione
nel tempo viene chiamata un momento.
La prima questione da considerare è se sia la serie A sia la serie B siano o meno entrambe
essenziali alla realtà del tempo. Ed è chiaro, tanto per cominciare, che noi non osserviamo mai il
tempo se non come costituente entrambe le serie. Noi percepiamo gli eventi nel tempo come
presenti, e sono questi gli unici eventi a essere direttamente percepiti. Tutti gli altri eventi nel
tempo che, attraverso la memoria o l'inferenza, crediamo reali, sono considerati passati o futuri
– quelli prima del presente sono passati e quelli dopo il presente sono futuri. Gli eventi del
tempo perciò, in quanto osservati da noi, formano sia una serie A sia una serie B.
È tuttavia possibile che ciò sia qualcosa di meramente soggettivo. Può essere che la
distinzione introdotta dalla serie A fra posizioni nel tempo – la distinzione fra passato, presente
e futuro – sia semplicemente una costante illusione delle nostre menti e che la reale natura del
tempo contenga solo la distinzione relativa alla serie B – la distinzione fra prima e dopo. In tal
caso noi non potremmo percepire il tempo com'è in realtà, anche se potremmo essere in grado di
pensarlo come è in realtà.
Questa non è una prospettiva molto comune, anche se ha trovato i suoi fautori. Io credo,
d'altro canto, che essa non sia sostenibile poiché, come ho detto prima, a me sembra che la serie
A sia essenziale alla natura del tempo e che qualsiasi difficoltà relativa al modo di considerare
la realtà della serie A sia una difficoltà altrettanto relativa alla considerazione della realtà del
tempo.
Suppongo si ammetta universalmente che il tempo implica il mutamento. Una cosa
102
particolare, in effetti, può esistere, senza mutare, per una qualsiasi quantità di tempo. Ma
quando ci chiediamo cosa intendiamo nel dire che ci sono stati diversi momenti di tempo, o una
certa durata di tempo, in cui la cosa è rimasta la stessa, ci accorgiamo di intendere che essa è
rimasta la stessa mentre altre cose mutavano. Un universo in cui non mutasse nulla (inclusi i
pensieri degli esseri coscienti al suo interno) sarebbe un universo senza tempo.
Se allora una serie B senza una serie A può costituire il tempo, il mutamento deve essere
possibile senza una serie A. Supponiamo che la distinzione fra passato, presente e futuro non
riguardi la realtà. Può allora il mutamento riguardare la realtà? Che cos'è che muta?
Potremmo dire, in un tempo che formasse una serie B ma non una serie A, che il mutamento
consisterebbe nel fatto che un evento cessa di essere un evento mentre un altro evento comincia
a essere un evento? Se così fosse, avremmo certamente un mutamento.
Ma ciò è impossibile. Un evento non può mai cessare di essere un evento. Esso non può
uscire dalla serie temporale in cui è. Nel caso in cui N sia prima di O e dopo M, esso sarà
sempre prima di O ed è sempre stato dopo M, poiché le relazioni prima e dopo sono permanenti.
E poiché, secondo l'ipotesi attuale, il tempo è costituito solo dalla serie B, N avrà sempre e ha
sempre avuto una posizione in una serie temporale3. Vale a dire: sarà sempre ed è sempre stato
un evento, e non può cominciare o cessare di essere un evento.
O forse diremo che un evento M si fonde con un altro evento N mentre preserva una certa
identità grazie a un elemento che non muta, cosicché possiamo non solo dire che M è cessato e
N è cominciato, ma che è M a essere diventato N? Eppure le stesse difficoltà si ripresentano. M
e N possono avere un elemento in comune ma essi non sono lo stesso evento, altrimenti non vi
sarebbe mutamento. Se quindi M mutasse in N a un certo momento allora, in tale momento, M
avrebbe cessato di essere M, e N avrebbe cominciato a essere N. Ma si è visto che nessun
evento può cessare di essere, o cominciare a essere, se stesso, poiché come tale non può cessare
di avere un posto nella serie B. Un evento non può quindi mutare in un altro.
E neppure è possibile cercare il mutamento nei momenti numericamente differenti del tempo
assoluto, posto che tali momenti esistano. Lo stesso argomento varrà anche in tal caso. Ciascuno
3
È ugualmente vero, sebbene non interessi l'ipotesi che stiamo considerando, che qualsiasi cosa, una volta stata
in una serie A, vi è per sempre. Se una delle determinazioni passato, presente, futuro può mai riguardare N, allora
una di esse l'ha sempre riguardata e la riguarderà per sempre, anche se, naturalmente, non sempre la stessa.
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di questi momenti avrebbe il suo posto in una serie B poiché sarebbe prima o dopo ciascuno
degli altri. E poiché la serie B indica relazioni permanenti, nessun momento potrebbe cessare di
essere, né potrebbe diventare, un altro momento.
Poiché, quindi, ciò che si presenta nel tempo non comincia mai o cessa di essere, o di essere
se stesso, e poiché, ancora, se deve esserci mutamento, deve essere mutamento di ciò che
occorre nel tempo (l'atemporale non muta mai), la mia proposta è che rimanga una sola
alternativa. Il mutamento deve accadere a eventi di natura tale che il presentarsi di tali
mutamenti non impedisca agli eventi di essere eventi, gli stessi eventi, prima e dopo il
mutamento.
Ora, quali sono le caratteristiche di un evento che possono mutare ma permettono che
l'evento sia lo stesso evento? (Uso la parola «caratteristica» come termine generale per
includere sia le qualità che l'evento possiede, sia le relazioni di cui è un termine – o piuttosto il
fatto che un evento è un termine di queste relazioni.) A me sembra che vi sia una sola classe con
tali caratteristiche – vale a dire quella in cui la determinazione dell'evento in questione avviene
attraverso i termini della serie A.
Si prenda un evento – ad esempio la morte della Regina Anna – e si consideri quale
mutamento può aver luogo nelle sue caratteristiche. Che sia una morte, che sia la morte di Anna
Stuart, che abbia tali cause, che abbia tali effetti – ogni caratteristica di tal genere non muta mai.
«Prima che le stelle ben si vedessero fra loro» l'evento in questione era la morte di una Regina
inglese. All'ultimo momento del tempo – se il tempo ha un ultimo momento – l'evento in
questione sarà ancora la morte di una Regina inglese. E in ogni rispetto tranne uno esso è
ugualmente privo di mutamento. Eppure in un rispetto esso muta. È cominciato con l'essere un
evento futuro. In ogni momento è divenuto un evento del futuro più prossimo. Alla fine è stato
presente. Poi è divenuto passato e tale lo rimarrà per sempre, sebbene in ogni momento diventi
sempre più passato.
Sembra quindi si sia costretti a concludere che ogni mutamento è solo un mutamento delle
caratteristiche assegnate agli eventi dalla loro presenza in una serie A, siano tali caratteristiche
qualità o relazioni.
Se tali caratteristiche fossero qualità allora gli eventi, dobbiamo ammettere, non sarebbero
sempre gli stessi, poiché un evento le cui qualità varino non è, naturalmente, del tutto lo stesso.
Ma anche se le caratteristiche fossero relazioni gli eventi non sarebbero del tutto gli stessi, se
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appunto – come credo –la relazione di X con Y implica in X l'esistenza della qualità della sua
relazione a Y4. Allora ci troveremmo di fronte alla seguente alternativa. Potremmo ammettere
che gli eventi mutino realmente la propria natura rispetto a tali caratteristiche, sebbene non
rispetto ad altre. Non vedo alcuna difficoltà ad ammetterlo. In tal modo metteremmo le
determinazioni della serie A in una posizione del tutto unica fra le caratteristiche degli eventi,
ma in effetti in ogni teoria esse rappresenterebbero caratteristiche del tutto uniche. Si è soliti
dire, ad esempio, che un evento passato non muta mai, ma io non vedo perché non dovremmo
invece dire «che un evento passato muta solo secondo un rispetto - quello per cui esso è più
lontano dal presente di quanto non fosse prima». Per quanto comunque non veda alcuna
intrinseca difficoltà in tale prospettiva, non è questa l'alternativa che considero definitivamente
vera. Poiché se, come credo, il tempo è irreale, l'ammissione che un evento nel tempo muti
rispetto alla sua posizione nella serie A non implica che qualcosa realmente muti.
Senza la serie A, allora, non vi sarebbe mutamento, e ne segue che la serie B, per sé, non è
sufficiente perché vi sia il tempo, dato che questo implica il mutamento.
La serie B d'altro canto non può che esistere come serie temporale poiché prima e dopo, le
distinzioni di cui è composta, sono chiaramente determinazioni temporali. Ne segue così che
non vi può essere serie B laddove non vi sia serie A, dato che dove non c'è serie A non c'è
tempo.
Ma da ciò non segue che, se sottraiamo le determinazioni della serie A dal tempo, non
rimane affatto alcuna serie. Una serie del genere c'è – una serie di reciproche relazioni
permanenti di quelle realtà che nel tempo sono eventi – ed è la combinazione di questa serie con
le determinazioni A che dà il tempo. Questa ulteriore serie – chiamiamola “serie C” – non è
però temporale, perché non implica alcun mutamento bensì solo un ordine. Gli eventi hanno un
ordine. Essi sono, ad esempio, nell’ordine M, N, O, P. E non sono quindi nell’ordine M, O, N, P
o O, N, M, P o in qualsiasi altro ordine possibile. Ma il fatto che abbiano tale ordine non
implica vi sia alcun mutamento più di quanto questo sia implicato dall’ordine delle lettere
4
Non sto affermando, come ha fatto Lotze, che una relazione fra X e Y consiste di una qualità in X e di una
qualità in Y — teoria questa che considero del tutto indifendibile. Io affermo che una relazione Z fra X e Y implica
l'esistenza in X della qualità «avere la relazione Z con Y», tale che una differenza di relazioni implica sempre una
differenza di qualità, e che il mutamento di relazioni implica sempre un mutamento di qualità.
105
dell’alfabeto, o da quello dei Pari dell’albo parlamentare. Le realtà che ci appaiono come eventi
possono quindi formare tale serie senza aver titolo al nome di eventi, dato che questo nome
viene dato solo alle realtà che sono in una serie temporale. Solamente quando intervengono
mutamento e tempo le relazioni di questa serie C diventano le relazioni prima e dopo,
divenendo così una serie B.
Per la genesi di una serie B e del tempo si richiede comunque qualcosa di più che la
semplice serie C e il fatto del mutamento. Il mutamento deve essere infatti in una particolare
direzione. E la serie C, mentre determina l’ordine, non determina la direzione. Se la serie C
procede come M, N, O, P, allora la serie B, dal prima al dopo, non può procedere come M, O,
N, P, o M, P, O, N o in qualche modo diverso da i seguenti due: essa può procedere o come M,
N, O, P (così che M è il primo e P l’ultimo) o altrimenti come P, O, N, M (così che P è il primo
e N l’ultimo). E non c’è nulla o nella serie C o nel fatto del mutamento a determinare in quale
direzione procedere.
Una serie che non sia temporale non ha una sua propria direzione sebbene abbia un ordine.
Se prendiamo la serie dei numeri naturali, non possiamo mettere il 17 fra il 21 e il 26. Ma ci
manteniamo nella serie se andiamo dal 17, passando per il 21, al 26, oppure se andiamo dal 26,
passando per il 21, al 17. La prima direzione ci sembra più naturale perché questa serie ha solo
un limite, ed è in genere più conveniente avere il limite all’inizio piuttosto che alla sua
conclusione. Ma ci manteniamo all’interno della serie anche se contiamo all’indietro.
Ancora, nella serie di categorie della dialettica hegeliana, la serie ci impedisce di porre l’Idea
Assoluta fra l’Essere e la Causalità. Ma ci permette o di andare dall’Essere, attraverso la
Causalità, all’Idea Assoluta, o dall’Idea Assoluta, attraverso la Causalità, all’Essere. La prima è,
secondo Hegel, l’ordine della prova, ed è quindi in genere l’ordine più conveniente da elencare.
Ma se fosse utile elencare in direzione inversa, noi staremmo comunque rispettando la serie.
Una serie non temporale, allora, non possiede una direzione in se stessa, sebbene una
persona che la consideri possa assumere i termini in una o nell’altra direzione, a seconda di
quanto le convenga fare. Come, analogamente, una persona che contempli un ordine temporale
può contemplarlo in entrambe le direzioni. Posso seguire l’ordine degli eventi dalla Magna
Charta alla Legge per la Riforma Elettorale o da quest’ultima alla Magna Charta. Ma nell’avere
a che fare con serie temporali non abbiamo semplicemente a che fare con un mutamento nella
considerazione esterna della serie, bensì con un mutamento che appartiène alla serie stessa. E
106
questo mutamento possiede una sua propria direzione. La Magna Charta è venuta prima della
Legge per la Riforma Elettorale, mentre quest’ultima non è venuta prima della Magna Charta.
Perciò, accanto alla serie C e al mutamento – affinché si dia il tempo – occorre che il
mutamento sia in una direzione e non in un’altra. A questo punto possiamo notare che la serie
A, assieme alla C, è sufficiente perché vi sia il tempo. Per ottenere infatti il mutamento, il
mutamento in una determinata direzione, è sufficiente che una posizione nella serie C sia
Presente, ad esclusione di tutte le altre, e che tale caratteristica dell’essere presente passi lungo
la serie in modo tale che tutte le posizioni situate da un lato del Presente sono state presenti, e
tutte quelle situate dall’altro lato di esso sa ranno presenti. Quella che è stata presente è Passata,
e quella che sarà presente è Futura5. Così, alla precedente conclusione per cui non vi può essere tempo a meno che la serie A non sia vera del reale, possiamo aggiungere l’ulteriore
conclusione che, per costituire una serie temporale, non si richiedono altri elementi oltre la serie
A e la serie C.
Possiamo riassumere le relazioni che le tre serie stabiliscono nei confronti del tempo come
segue: la serie A e la serie B sono ugualmente essenziali al tempo, che deve essere distinto sia
come passato, presente e futuro sia come prima e dopo. Ma le due serie non sono ugualmente
fondamentali. Quelle della serie A sono distinzioni ultime. Non possiamo spiegare cosa si
intende per passato, presente e futuro. Possiamo, in qualche misura, descriverli, ma non
definirli. Possiamo solo mostrare il loro significato attraverso esempi. «La tua colazione di
questa mattina – possiamo dire a chi ci interroghi – è passata; questa conversazione è presente;
la tua cena di questa sera è futura.» Non possiamo fare di più.
La serie B, d’altro canto, non è una serie ultima. Poiché data una serie C di relazioni
permanenti fra termini che non è temporale, e che non è quindi una serie B, e dato l’ulteriore
fatto che i termini di questa serie C formano anche una serie A, ne risulta che i termini della
serie C diventano una serie B, con quelli che sono collocati all’inizio, nella direzione che va dal
passato al futuro, posti prima di quelli più remoti in direzione del futuro.
La serie C, d’altro canto, è una serie ultima come la serie A. Non possiamo derivarla da
nient’altro. Che le unità di tempo formino appunto una serie le cui relazioni sono permanenti è
5
Implicando un circolo vizioso, tale resoconto della natura della serie A non è valido, poiché usa «è stato» e «sarà»
per spiegare Passato e Futuro. D’altro canto, come cercherò di mostrare più avanti, il circolo vizioso è inevitabile
quando abbiamo a che fare con la serie A e costituisce la ragione per cui dobbiamo rifiutarla.
107
un fatto tanto ultimo quanto quello che ciascuna delle unità sia presente, passata o futura. E
questo fatto ultimo è essenziale al tempo. Poiché si è ammesso che è essenziale al tempo che
ciascun suo momento sia o prima o dopo ogni altro momento; e queste relazioni sono
permanenti. E questa serie – la serie B – non può derivare solo dalla serie A. Solo quando la
serie A, che fornisce mutamento e direzione, si combina con la serie C, che fornisce la
permanenza, può sorgere la serie B.
Ora, solo una parte delle conclusioni appena raggiunte è necessaria allo scopo generale del
presente lavoro. Io sto cercando di basare l’irrealtà del tempo non sul fatto che la serie A sia più
fondamentale della serie B, ma sul fatto che essa sia tanto essenziale quanto la serie B – che le
distinzioni di passato, presente e futuro siano essenziali al tempo e che, se tali distinzioni non
sono mai vere della realtà, allora la realtà non è nel tempo.
Tale prospettiva, vera o falsa che sia, non ha nulla di sorprendente. Abbiamo prima notato
che il tempo, per come lo percepiamo, presenta sempre tali distinzioni. E in generale si è
pensato che questa sia una caratteristica reale del tempo e non un’illusione dovuta al modo in
cui lo percepiamo. La maggior parte dei filosofi, creda o meno che il tempo appartenga
veramente alla realtà, ha considerato le distinzioni della serie A essenziali ad esso.
Quando è stata sostenuta la prospettiva opposta ciò è di solito avvenuto, credo, perché si è
ritenuto (correttamente, come cercherò di mostrare più avanti) che le distinzioni di passato,
presente e futuro non possono essere vere del reale e che, di conseguenza, se si vuole salvare la
realtà del tempo, si deve mostrare che gli sono inessenziali. Tale presupposto, si è pensato, è
appunto a favore della realtà del tempo, ed esso motiverebbe il nostro rifiuto della serie A come
inessenziale al tempo. Il fatto è che si tratta naturalmente solo di un presupposto. Se l’analisi del
tempo rivela che, rimuovendo la serie A, questo viene meno, tale linea argomentativa non è più
percorribile e l’irrealtà della serie A implica l’irrealtà del tempo.
Io ho tentato di mostrare che l’eliminazione della serie A annienta effettivamente il tempo.
Vi sono comunque due obiezioni a questa teoria che dobbiamo ora considerare.
La prima ha a che fare con quelle serie temporali che non sono realmente esistenti ma che
falsamente si crede lo siano, oppure che si immaginano esistenti. Si prendano ad esempio le
avventure di Don Chisciotte. La serie che le riguarda, si sostiene, non è una serie A. In questo
momento non posso giudicare se sia passata, presente o futura. In realtà so che non è nessuna
delle tre. Ciononostante, si afferma, è certamente una serie B. L’avventura dei galeotti, ad
108
esempio, è successiva all’avventura dei mulini a vento. E una serie B implica il tempo. La
conclusione che se ne trae è che la serie A non è essenziale al tempo.
Ritengo che la risposta a tale obiezione sia la seguente. Il tempo appartiene solo all’esistente.
Se una realtà è nel tempo, ciò implica che la realtà in questione esiste. E questo, immagino,
viene universalmente ammesso. Ci si può chiedere se tutto ciò che esiste sia nel tempo o anche
se qualcosa realmente esistente sia nel tempo, ma non si nega certo che, se qualcosa è nel
tempo, questa deve esistere.
Ora, cosa esiste nelle avventure di Don Chisciotte? Nulla. Poiché la storia è immaginaria.
Gli atti della mente di Cervantes quando ha inventato la storia, gli atti della mia mente quando
penso ad essa sono esistenti. Ma questi formano allora parte di una serie A. L’invenzione della
vicenda da parte di Cervantes è nel passato. Il mio pensiero della storia è nel passato, nel
presente e – confido – nel futuro.
Le avventure di Don Chisciotte possono comunque essere credute storiche da un bambino. E
nel leggerle, con uno sforzo dell’immaginazione, io stesso posso considerarle come se fossero
realmente accadute. In tal caso le avventure sarebbero credute esistenti o immaginate esistenti.
Ma allora le si crederebbero poste in una serie A o si immaginerebbero in una serie A. Il
bambino che le crede storiche crederà siano accadute nel passato. Se le immagino allora
esistenti, le immaginerò avvenute nel passato. Analogamente, chi credesse che gli eventi
riportati in News From Nowhere di Morris esistano, o li immaginasse esistenti, crederebbe che
esistono nel futuro o li immaginerebbe esistenti nel futuro. Collocare l’oggetto della nostra
credenza o immaginazione nel presente, nel passato o nel futuro dipenderà dalle caratteristiche
di tale oggetto. Ma in qualche luogo della nostra serie A esso verrà comunque collocato.
La risposta all’obiezione è allora che, nella misura in cui una cosa è nel tempo, essa è nella
serie A. Se è realmente nel tempo è realmente nella serie A. Se è creduta nel tempo, si crede sia
nella serie A. Se è immaginata nel tempo, si immagina sia nella serie A.
La seconda obiezione poggia sulla possibilità, discussa dal sig. Bradley, che nella realtà vi
siano molteplici serie temporali indipendenti. Per il sig. Bradley, a dire il vero, il tempo è solo
apparenza. Il tempo reale non c’è affatto e quindi non ci sono molteplici serie temporali. Ma
l’ipotesi è qui che nel reale vi siano molteplici, reali e indipendenti serie temporali.
L’obiezione, penso, è che le serie temporali sarebbero tutte reali, mentre la distinzione fra
passato, presente e futuro avrebbe significato solo all’interno di ciascuna serie e non potrebbe
109
quindi essere assunta come reale in senso ultimo. Vi sarebbero, ad esempio, molti presenti. Ora,
naturalmente, molti punti del tempo possono essere presenti (ciascun punto in ciascuna serie
temporale s presente una volta), ma essi devono essere presenti successivamente. E i presenti
delle diverse serie temporali non sarebbero successivi poiché non sarebbero nella stessa serie
temporale (né sarebbero simultanei, poiché questo implicherebbe ugualmente il loro essere
nello stesso tempo. Essi non starebbero in alcun tipo di relazione temporale). E presenti
differenti, a meno che non siano successivi, non potrebbero essere reali. Così le differenti serie
temporali che sono reali dovrebbero essere in grado di esistere indipendentemente dalla
distinzione fra passato, presente e futuro.
Io non posso comunque considerare valida tale obiezione. Certamente, in tal caso, nessun
presente sarebbe il presente – esso sarebbe solo il presente di un certo aspetto dell’universo. Ma
allora il tempo non sarebbe il tempo – sarebbe solo il tempo di un certo aspetto dell’universo.
Sarebbe senza dubbio una serie temporale reale, ma non vedo perché il presente sarebbe meno
reale del tempo.
Naturalmente non sto affermando che nell’esistenza di molteplici serie A distinte non vi sia
contraddizione. La mia tesi principale è che l’esistenza di qualsiasi serie A implica una
contraddizione. Quanto sto affermando è che, supposto che vi possa essere una qualsiasi serie
A, non vedo nessuna ulteriore difficoltà inclusa nel fatto che vi siano molteplici serie del genere
fra loro indipendenti, e non vedo quindi alcuna incompatibilità fra l’essenzialità della serie A al
tempo e l’esistenza di molti tempi distinti.
Dobbiamo inoltre ricordare che la teoria della pluralità delle serie temporali è una mera
ipotesi. Non è mai stata data alcuna ragione perché si debba credere nella loro esistenza. Si è
solo detto che non c’è alcuna ragione perché non si debba crederlo e che quindi esse possono
esistere. Ma se la loro esistenza dovesse essere incompatibile con qualcos’altro di cui si dà
prova evidente, allora ci sarebbe una ragione per non dover credere nella loro esistenza. Ora si
dà, come ho cercato di mostrare, una prova evidente per credere che la serie A è essenziale al
tempo. Supposto quindi che sia vero che l’esistenza di una pluralità sia incompatibile con
l’essenzialità della serie A al tempo (cosa che, per le ragioni sopra mostrate, nego), è appunto
l’ipotesi della pluralità dei tempi che dovrebbe essere rifiutata e non la nostra conclusione
riguardo alla serie A.
Passo ora alla seconda parte del mio compito. Essendo riuscito a provare, come credo, che
110
non ci può essere alcun tempo senza una serie A, rimane da provare che la serie A non può
esistere e che quindi non può esistere il tempo. Ciò implicherebbe che il tempo non è affatto
reale, poiché si ammette che l’unico modo in cui esso può essere reale è esistendo.
I termini della serie A sono caratteristiche di eventi. Degli eventi noi diciamo che sono
passati, presenti o futuri. Se momenti del tempo sono assunti come realtà separate diciamo
quindi di questi che sono passati, presenti o futuri. Una caratteristica può essere o una relazione
o una qualità. Ora, sia che si assuma i termini della serie A come relazioni di eventi (prospettiva
che a me sembra più ragionevole) sia che li si assuma come qualità di eventi, mi sembra che
essi implichino una contraddizione.
Supponiamo anzitutto che essi siano relazioni. In tal caso solo un termine di ciascuna
relazione può essere un evento o un momento. L’altro termine deve essere qualcosa al di fuori
della serie temporale6 poiché quelle della serie A sono relazioni mutevoli e la relazione che
ciascun termine di una serie temporale ha con l’altro non muta. Due eventi occupano
esattamente le stesse posizioni nella serie temporale, l’uno in relazione all’altro, un milione di
anni prima che abbiano luogo, mentre ciascuno ha luogo, e quando sono da un milione di anni
nel passato. E il medesimo è vero della relazione reciproca fra momenti. Ancora, se i momenti
del tempo devono essere distinti quali realtà separate dagli eventi che accadono in essi, la
relazione fra un evento e un momento non varia. Ogni evento è nel medesimo momento nel
futuro, nel presente e nel passato.
Le relazioni che formano la serie A, allora, devono essere relazioni di eventi e momenti
rispetto a qualcosa che non è esso stesso nella serie temporale. Cosa sia questo qualcosa può
essere difficile a dirsi. Tralasciando comunque questo punto, si fa avanti un’ancor più evidente
difficoltà.
Passato, presente e futuro sono determinazioni reciprocamente incompatibili. Ogni evento
deve essere l’una o l’altra determinazione ma nessun evento può essere più di una di esse. Ciò è
essenziale al significato dei termini. Se non fosse così la serie A sarebbe insufficiente,
combinata alla serie C, a darci come risultato il tempo. Perché il tempo, come abbiamo visto,
implica il mutamento, e l’unico mutamento che si può avere è quello che va dal futuro al
6
C’è chi ha sostenuto che il presente sia tutto ciò che è simultaneo all’asserzione del suo esser presente, che il futuro
sia qualunque cosa è successiva all’asserzione del suo esser futura e che il passato sia qualunque cosa precedente
l’asserzione del suo essere passata. Ma tale teoria implica che il tempo esiste indipendentemente dalla serie A ed è
incompatibile con i risultati già raggiunti.
111
presente e dal presente al passato.
Le caratteristiche sono quindi incompatibili. Eppure ciascun evento le possiede tutte. Se M è
passato, è stato presente e futuro. Se è futuro, sarà presente e passato. Se è presente, è stato
futuro e sarà passato. Tutti e tre i termini incompatibili sono predicabili di ciascun evento, cosa
ovviamente incoerente con il loro essere incompatibili e con il loro produrre il mutamento.
Sembra che tutto questo possa essere facilmente spiegato. E in effetti è stato impossibile
enunciare la difficoltà senza quasi fornire la spiegazione, dato che il nostro linguaggio possiede
forme verbali per il presente, il passato e il futuro, e non possiede nessuna forma che sia
comune a tutte e tre. Non è mai vero, così procede la risposta, che M è presente, passato e
futuro. Esso è presente, sarà passato ed è stato futuro. O è passato ed è stato futuro e presente
oppure, ancora, è futuro e sarà presente e passato. Tali caratteristiche sono incompatibili solo
quando sono simultanee, e il fatto che ciascun termine le possiede tutte in successione non entra
affatto in contraddizione con tale incompatibilità.
Questa spiegazione, però, implica un circolo vizioso. Dato che essa assume l’esistenza del
tempo per rendere ragione del modo in cui i momenti sono passati, presenti e futuri. Il tempo
dev’essere allora presupposto per rendere ragione della serie A. Ma si è già visto che la serie A
deve essere assunta per rendere ragione del tempo. Ne consegue che la serie A deve essere
presupposta per render ragione della serie A. E questo è chiaramente un circolo vizioso.
È insomma accaduto quanto segue – per risolvere la difficoltà per cui il mio scrivere tale
articolo ha le caratteristiche del passato, presente e futuro, diciamo che esso è presente, è stato
futuro e sarà passato. Ma «è stato» si distingue da «è» solo nell’essere un’esistenza nel passato e
non nel presente, mentre «sarà» si distingue da entrambi solo nell’essere un’esistenza nel futuro.
La nostra affermazione si riduce quindi a questo – che l’evento in questione è presente nel
presente, futuro nel passato, passato nel futuro. Ed è chiaro che c’è un circolo vizioso nel tentare
di assegnare le caratteristiche di presente, futuro e passato utilizzando come criterio le
caratteristiche di presente, passato e futuro.
La difficoltà può essere presentata in altro modo, un modo in cui la fallacia si rivela come
serie infinita viziosa anziché come circolo vizioso. Se evitiamo l’incompatibilità delle tre
caratteristiche asserendo che M è presente, è stato futuro e sarà passato, stiamo costruendo una
seconda serie A in cui cade la prima allo stesso modo in cui gli eventi cadono all’interno della
prima. Ora, si può certo dubitare che sia possibile assegnare un qualsiasi significato intelligibile
112
all’asserzione che il tempo è nel tempo. A ogni modo, comunque, la seconda serie A incontrerà
la stessa difficoltà della prima, difficoltà che può essere a sua volta rimossa ponendo al suo
interno una terza serie A. Lo stesso principio porrà la terza all’interno di una quarta, e così via
senza fine. Non ci si può mai liberare della contraddizione poiché, nell’atto di rimuoverla da ciò
che dev’essere spiegato, la si riproduce nuovamente nella spiegazione. Cosicché la spiegazione
non è valida.
Così, se della realtà si afferma la serie A considerandola come serie di relazioni, sorge una
contraddizione. Si potrebbe forse allora assumere la serie come serie di qualità, ottenendo con
ciò un risultato migliore? Si danno forse tre qualità - l’essere futuro, l’esser presente e l’esser
passato –, con gli eventi che cambiano di continuo la prima con la seconda e la seconda con la
terza?
A me sembra che ci sia ben poco da dire assumendo che i mutamenti della serie A sono
mutamenti di qualità. Senza dubbio la mia anticipazione di un’esperienza M, l’esperienza stessa
e la memoria dell’esperienza sono tre stati che possiedono qualità differenti. Ma non sono l’M
futuro, l’M presente e l’M passato a possedere queste tre differenti qualità. Le qualità sono
possedute da tre eventi distinti – l’anticipazione di M, la stessa esperienza M e la memoria di M,
ciascuno dei quali è a sua volta futuro, presente e passato. Ciò quindi non fornisce alcun
sostegno all’idea che i mutamenti della serie A sono mutamenti di qualità.
Non abbiamo comunque bisogno di procedere ulteriormente in tale questione. Se le
caratteristiche della serie A fossero qualità sorgerebbe infatti la stessa difficoltà riguardante le
relazioni. Come prima, infatti, esse non sono compatibili e, come prima, ciascun evento le
possiede tutte. E questo può essere spiegato, come prima, dicendo che ciascun evento le
possiede successivamente, commettendo così la stessa fallacia commessa nel caso precedente7.
7
Spesso si è soliti presentare il tempo attraverso la metafora del movimento spaziale. Ma si tratta di un movimento
che deve andare dal passato al futuro o dal futuro al passato? Se si assume che la serie A è formata da qualità sarà
naturale considerarlo come movimento dal passato al futuro, poiché la qualità dell’essere presente è appartenuta a
stati presenti e apparterrà a stati futuri. Se invece si assume che è formata da relazioni è possibile considerare il movi
mento in entrambe le direzioni, poiché entrambi i termini relati possono essere considerati in movimento. Se si
assume che gli eventi si muovono attraverso il punto fisso dell’essere presente, il movimento è dal futuro al passato,
poiché gli eventi futuri sono quelli che non hanno ancora passato il punto mentre i passati sono quelli che lo hanno
passato. Se l’esser presente è assunto come punto in movimento successivamente relato a ciascuno degli eventi in
serie, il movimento è dal passato al futuro. Così diciamo che gli eventi provengono dal futuro, ma diciamo anche che
noi stessi ci muoviamo verso il futuro. Ciascun uomo si identifica infatti soprattutto con il suo stato presente, rispetto
al suo futuro e al suo passato, poiché il presente è l’unico di cui abbia diretta esperienza. E così il sé, se lo si
rappresenta in movimento, viene rappresentato in moto, assieme al punto dell’esser presente, lungo la corrente di
eventi dal passato al futuro.
113
Siamo allora giunti alla conclusione che l’applicazione della serie A alla realtà implica una
contraddizione e che quindi la serie A non può essere detta vera del reale. E poiché il tempo
implica la serie A, ne consegue che il tempo non può essere vero della realtà. Ogniqualvolta
giudichiamo che qualcosa esiste nel tempo siamo in errore. E ogniqualvolta percepiamo
qualcosa come esistente nel tempo – l’unico modo in cui mai percepiamo le cose – la
percepiamo più o meno come realmente non è.
Dobbiamo considerare una possibile obiezione. La ragione per cui rifiutiamo il tempo, si
potrebbe dire, è che il tempo non può essere spiegato senza assumere il tempo. Ma questo non
potrebbe allora dimostrare non che il tempo non è effettivo, ma che è qualcosa di ultimo?
Poiché è impossibile ad esempio spiegare bontà e verità senza introdurre il termine da spiegare
quale parte della spiegazione, noi respingiamo la spiegazione come invalida. Ma non per questo
respingiamo la nozione perché erronea, accettandola come qualcosa di ultimo che, se non
ammette spiegazione, neppure la richiede.
Il fatto è che tale argomento non è applicabile al caso in questione. Una idea può valere per
la realtà sebbene non ammetta una spiegazione valida. Ma non può valere per la realtà se la sua
applicazione a quest’ultima implica una contraddizione. Ma noi abbiamo cominciato rilevando
che una tale contraddizione nel caso del tempo c’è – che le caratteristiche della serie A sono
mutuamente incompatibili e che tuttavia sono tutte vere di ciascun termine. A meno che questa
contraddizione non venga eliminata, occorre quindi respingere come errata l’idea del tempo. È
stato appunto per eliminare tale contraddizione che è stata proposta la spiegazione per cui le
caratteristiche appartengono al tempo in modo successivo. Fallita tale spiegazione perché
circolare, la contraddizione è rimasta ineliminata e l’idea del tempo dev’essere quindi rifiutata
non perché non possa essere spiegata, ma perché è la contraddizione a non poter essere
eliminata.
Se valido, quanto detto costituisce una ragione idonea per rifiutare il tempo. Possiamo
comunque aggiungere un’ulteriore considerazione. Il tempo, come visto, sta e cade con la serie
A. Ora, anche se ignoriamo la contraddizione appena scoperta nell’applicazione della serie A al
reale, c’è mai stata una qualsiasi ragione evidente del perché dovremmo supporre che la serie A
varrebbe per la realtà?
Per quale ragione crediamo che gli eventi debbano essere distinti in passati, presenti e futuri?
Io ritengo che tale credenza sorga da distinzioni interne alla nostra esperienza.
114
In ogni momento in cui ho certe percezioni ho anche memoria di certe altre percezioni ed
anticipazione di altre ancora. La stessa percezione diretta è uno stato mentale qualitativamente
differente dalla memoria o dall’anticipazione di percezioni. Su ciò si basa la credenza che la
stessa percezione abbia una certa caratteristica quando la ho, sostituita da altre caratteristiche
quando ne ho memoria o anticipazione – caratteristiche che sono chiamate esser presente, essere
passato ed essere futuro. Acquisitane l’idea, noi applichiamo tali caratteristiche ad altri eventi.
Tutto ciò che è simultaneo alla percezione diretta che ho ora, viene chiamato presente, e si
ritiene anche che non ci sarebbe presente se nessuno avesse affatto una percezione diretta.
Analogamente, atti simultanei a percezioni ricordate o anticipate sono considerati passati o
futuri, e la considerazione viene poi estesa nuovamente a eventi che non sono simultanei ad
alcuna percezione che ora ricordo o anticipo. Ma l’origine della nostra credenza nell’intera
distinzione sta nella distinzione fra percezioni e anticipazioni o memorie di percezioni.
Una percezione diretta è presente quando la ho, e altrettanto presente è ciò che è simultaneo
a essa. In primo luogo tale distinzione implica un circolo poiché le parole «quando la ho»
possono solo significare «quando è presente». Ma se noi omettessimo tali parole la definizione
sarebbe falsa, dal momento che io ho molti stati direttamente presenti alla coscienza in tempi
differenti e che non possono quindi essere tutte presenti se non successivamente. Questa è
d’altro canto la contraddizione fondamentale della serie A già considerata. Il punto che desidero
considerare ora è comunque diverso.
Le percezioni dirette che ho ora, sono quelle che ora cadono nel mio «presente manifesto».
Di quelle che sono al di là di esso posso avere solo memoria o anticipazione. Ora, il presente
manifesto varia nella durata a seconda delle circostanze, e può essere differente per due persone
nel medesimo intervallo temporale. L’evento M può essere sia simultaneo alla percezione Q di
X, sia alla percezione R di Y. Può essere che, a un certo momento, Q cessi di essere parte del
presente manifesto di X. M sarà quindi in quel momento passato. Ma nello stesso momento R
può essere ancora parte del presente manifesto di Y. M sarà quindi presente nello stesso
momento in cui esso è passato.
Ma ciò è impossibile. È pur vero che se la serie A fosse qualcosa di meramente soggettivo
non vi sarebbe alcuna difficoltà. Potremmo in tal caso dire che M era passato per X e presente
per Y, proprio come si potrebbe dire che era piacevole per X e doloroso per Y. Ma noi stiamo
considerando tentativi di assumere il tempo come reale, come qualcosa che appartiene alla
115
stessa realtà e non solo alle nostre credenze su di essa, e le cose possono stare in tal modo solo
se anche la serie A vale per la realtà. Ma se vale per la realtà, allora in qualsiasi momento M
dev’essere o presente o passato. Non può essere entrambi.
Il presente attraverso il quale gli eventi passano realmente, allora, non può essere
determinato come simultaneo al presente manifesto. Esso deve avere una durata fissata come
fatto ultimo. Tale durata non può essere la stessa di tutti i presenti manifesti, poiché tutti i
presenti manifesti non hanno la medesima durata. E quindi un evento può essere passato quando
lo esperisco presente, o presente quando lo esperisco passato. La durata del presente oggettivo
può essere la millesima parte di un secondo. O può essere un secolo, e l’ascesa al trono di
Giorgio IV e di Edoardo VII può essere parte dello stesso presente. Che ragione abbiamo allora
di credere all’esistenza di un tale presente, che certamente non osserviamo essere presente e non
ha alcuna relazione con quello che effettivamente osserviamo esser presente?
Se evitiamo tali difficoltà adottando la prospettiva, a volte assunta, che il presente nella serie
A non consiste di una durata finita ma è invece un mero punto che separa il futuro dal passato,
andremo incontro ad altre serie difficoltà. Perché in tal caso il tempo oggettivo in cui sono gli
eventi sarà qualcosa di completamente differente dal tempo in cui noi li percepiamo. Il tempo in
cui li percepiamo ha un presente di durata finita variabile che quindi, con il futuro e il passato, è
diviso in tre durate. Il tempo oggettivo ha solo due durate, separate da un presente che con il
presente dell’esperienza ha in comune solo il nome, appunto perché non è una durata ma un
punto. Ma cosa, nella nostra esperienza, offre la minima ragione per credere a un tempo del
genere?
Sembra così che, dopo tutto, la negazione della realtà del tempo non sia poi tanto
paradossale. Viene detta paradossale perché ci è sembrato contraddicesse la nostra esperienza in
modo tanto radicale – costringendoci a considerare non più di un’illusione quello che, prima
facie, sembra farci conoscere la realtà. Ma ora vediamo che la nostra esperienza del tempo –
centrata com’è sul presente manifesto – non sarebbe meno illusoria se vi fosse un tempo reale in
cui esistono le realtà che esperiamo. Il presente manifesto delle nostre osservazioni –variando
come varia da te a me – non può corrispondere al presente degli eventi osservati. Di
conseguenza il passato e il futuro delle nostre osservazioni non possono corrispondere al
passato e al futuro degli eventi osservati. Secondo entrambe le ipotesi – sia che si assuma il
tempo come reale sia che lo si assuma irreale – tutto viene osservato in un presente manifesto,
116
ma nulla, neppure le stesse osservazioni, possono mai essere in un presente manifesto. E in tal
caso non vedo come l’esperienza venga considerata molto più illusoria nel dire che nulla è mai
nel presente che non dicendo che ogni cosa passa attraverso un presente del tutto differente.
La nostra conclusione è allora che né il tempo nella sua totalità, né la serie A e la serie B,
esistono realmente. La serie A è stata rifiutata per la sua incoerenza. E il suo rifiuto implica il
rifiuto della serie B. D’altro canto non è stata trovata alcuna contraddizione nella serie C, dalla
invalidità della serie A non segue la sua mancanza di validità.
È perciò possibile che le realtà che percepiamo come eventi in una serie temporale formino
realmente una serie atemporale. È anche possibile, secondo il percorso sinora compiuto, che
esse non formino tale serie e che esse quindi non costituiscano una serie più di quanto siano
temporali. Io penso comunque –per quanto non abbia qui lo spazio sufficiente per approfondire
la questione – che la prima delle due prospettive, secondo cui appunto tali realtà formano
effettivamente una serie C, sia la più probabile.
Se ciò dovesse essere vero, ne seguirebbe che nella nostra percezione di tali realtà quali
eventi nel tempo vi è sia qualche verità sia qualche errore. Nonostante l’ingannevole forma del
tempo, noi afferriamo alcune delle loro vere relazioni. Se diciamo che gli eventi M e N sono
simultanei, diciamo che essi occupano la stessa posizione nella serie temporale. E vi sarà una
qualche verità in ciò, perché le realtà che percepiamo come M e N occupano effettivamente la
stessa posizione in una serie, per quanto non si tratti di una serie temporale.
Ancora, se asseriamo che gli eventi M, N, O sono tutti in tempi differenti, e che sono in tale
ordine, affermiamo che essi occupano posizioni differenti nella serie temporale, e che la
posizione di N è tra la posizione di M e quella di O. E sarà vero che le realtà che vediamo come
eventi saranno in una serie, sebbene non temporale, che la loro posizione in questa sarà
differente e che la posizione della realtà che percepiamo quale evento N sarà tra le posizioni
delle realtà che percepiamo come eventi M e O.
Adottando tale prospettiva il risultato sarà sin qui simile a quello raggiunto da Hegel anziché
da Kant. Hegel considerò infatti l’ordine delle serie temporali come una riflessione, per quanto
alterata, di qualcosa appartenente alla reale natura della realtà atemporale, mentre Kant non
sembra aver considerato la possibilità che una qualunque cosa nella natura del noumeno
corrisponda all’ordine temporale che appare nel fenomeno.
La questione dell’esistenza o meno di una oggettiva serie C dev’essere comunque lasciata a
117
una futura discussione. Molte altre domande si impongono, tutte inevitabilmente sollecitate
dalla negazione della realtà del tempo. Se c’è una serie C del genere accennato, le posizioni in
essa sono semplicemente fatti ultimi o sono determinate dalla varia misura in cui gli oggetti che
occupano tali posizioni possiedono una qualità a tutti comune? E se è così, qual è questa qualità,
ed è una maggiore misura del suo possesso che determina l’apparire delle cose come successive
e una minore misura che le fa apparire anteriori, o è vero l’inverso? Può essere che le nostre
speranze e paure per l’universo debbano la loro conferma o il loro rifiuto alla soluzione di tali
questioni.
E ancora, la serie delle apparenze nel tempo è di lunghezza finita o infinita? E come
dobbiamo trattare l’apparenza stessa? Se riduciamo tempo e mutamento ad apparenza, non
saranno allora ridotti a un’apparenza che muta e che è nel tempo, e non sarà allora il tempo
dopo tutto reale? Questa è senza dubbio una questione importante a cui spero di poter offrire,
dopo quanto qui detto, una risposta soddisfacente.
118
Letture autonome
Nota: nella misura del possibile, tutti i libri e articoli segnalati sono a disposizione o nella
biblioteca di Facoltà in Sant’Agostino o presso la Biblioteca Civica «Angelo Maj» in Piazza
Vecchia. In caso di difficoltà, si contatti il docente.
Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti
Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 3), ai nonfrequentanti è richiesto l’approfondimento di un tema a scelta inerente ai testi di base. In questa
sezione, indichiamo alcune letture pertinenti ad alcuni degli argomenti appropriati a tale scopo.
Per quanto riguarda i temi più storici sono indicate delle letture dette ‘primarie’, che richiedono
attento e dettagliato scrutinio, e su cui quelle ‘secondarie’ offrono commento e inquadramento.
Studenti intenzionati a proporre un percorso personale devono comunque leggere il materiale
di obbligo comune e, in base ad esso, consultare con il docente del corso prima di procedere
all’elaborazione della loro alternativa.
1. Il problema della conoscenza e la natura dello scetticismo
(a) Lo scetticismo antico (che cos’è un ‘tropo’ e come produce sospensione del giudizio?)
Testo primario: Sesto Empirico Schizzi pirroniani, libro I, capitoli i–xiii (= §§1-35) (qualsiasi
edizione o traduzione)
Testi secondari:
M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201;
E. Spinelli, ‘L’antico intrecciarsi degli scetticismi’ in M. De Caro, E. Spinelli (a cura di)
Scetticismo, Carocci, Roma, 2007, pp. 17-38.
(b) Lo scetticismo nel mondo moderno (possiamo dubitare l’esistenza del mondo fisico?)
Testo primario: Cartesio Meditazioni metafisiche, I: testo nella dispensa
Testi secondari:
R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X;
E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza Bari-Roma,
1997, pp. 3-58.
119
Anche pertinenti:
R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II;
H. Putnam, Ragione, Verità e Storia (1981), Il saggiatore, Milano, 1985, cap. 1.
2. La legge di contraddizione
(a) Si può fondare la nozione stessa di verità?)
Testo primario: il testo tratto dal libro IV della Metafisica di Aristotele nella dispensa
Testi secondari:
J. Lukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, (1910), Quodlibet, Macerata, 2003;
T.H. Irwin, I princìpi primi di Aristotele, (1988), Vita e pensiero, Milano, 1988, pp. 225-47;
F: Berto, Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma, 2006, pp. 21-46.
(b) L’attrattiva del relativismo (può tutto essere relativo?)
Testi primari: il brano dal Teeteto di Platone e il saggio ‘Verità e Menzogna’ di Nietzsche,
entrambi nella dispensa
Testi secondari:
A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, (1830/1), Adelphi, Milano, 1991, pp. 13-71;
G. Romeyer Dherbey, I sofisti, (1995), Xenia, Milano, 2000, pp. 5-23;
J.R. Searle, Occidente e multiculturalismo (1995), Sole24Ore, Milano, 2008, pp. 21-77.
3. Tempo e causalità
(a) La realtà del tempo (può il tempo essere solo un’apparenza?)
Testo primario: J. M’T. E. M’Taggart, ‘L’irrealtà del tempo’, testo nella dispensa)
Testi secondari:
L. Cimmino, ‘Introduzione’ a McTaggart, L’irrealtà del tempo, Rizzoli, Milano, 2006;
M. Dummett, ‘Una difesa della prova di McTaggart’ (1960) nel suo Verità e altri enigmi (1978)
Il saggiatore, Milano, 1996;
R. Campaner, ‘Tempo e serie temporali: il dibattito analitico contemporaneo sulla filosofia del
tempo, Rivista di filosofia, 95 (2004)
120
(b) Il tempo in rapporto al fatalismo (se il futuro è fisso dall’eternità, che scelta ho?)
Testi primari: il capitolo dal Sull’interpretazione di Aristotele e i capitoli delle Confessioni di
Sant’Agostino, entrambi nella dispensa
Testi secondari:
G. Ryle, Dilemmi, (1954) Ubaldini, Roma 1986, lezione II;
M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86 (discute sia determinismo che
fatalismo)
Film utili per l’esemplificazione del fatalismo.
The Butterfly Effect, regia di P. Howitt, (1997)
Final Destination, regia di J. Wong (2000)
Sliding Doors, regia di E. Bress e J.M. Gruber (2004);
Donnie Darko, regia di R. Kelly (2004)
Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)
Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può essere
utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.
Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei
migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra questi
possiamo segnalare:
N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori, Paravia,
Torino, 2002 (e poi rielaborato quasi annualmente per motivi grettamente economici).
Anche dello stesso Abbagnano sono:
Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione
economica nel 1995;
e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:
Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.
Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi della
Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto
Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal 2004.
Altri dizionari, quali
121
Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e
Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,
forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini
tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di
versioni italiane, vedi
Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.
Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente
riscontrabile, e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 115).
Introduzioni generali alla filosofia
A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della
disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i
problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:
B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico del
genere);
R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, (1993) Net, Milano, 2003;
S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si pubblicizza
come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)
S. Blackburn, Pensa, (1999), Il Saggiatore, Milano, 2001;
N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996
Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,
T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il Saggiatore, Milano, 1986.
122
Prontuario per la stesura di una tesina
Valore
Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).
Presentazione
La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e
consegnata con almeno quindici giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole
sostenere l’esame relativo al corso.
La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla
rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.
La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti
informazioni:
cognome e nome dello studente;
numero di matricola;
titolo del lavoro;
il titolo del modulo per cui viene presentato (con codice);
numero arrotondato delle parole; e
data prevista della sessione di esame.
Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al
materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.
Conteggio delle parole
L’indicazione (p. 4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.
Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font leggibile di
almeno 12 pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi i lati (di più a
sinistra se richiesto dalla rilegatura).
Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il
numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute (2,000
parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la capacità di
123
contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere manuale può
stimare il totale in base ad una campione del testo.
Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di
letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono incluse.
Originalità
Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da
qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico e morale, ma
anche legale) di plagio.
La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto vicina
a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo studente è
sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di sostenerla. Se lo
studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere l’esame con un
altro membro della commissione d’esame.
Citazioni
La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà
un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le parole
esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.
Esempio di parafasi8:
Nel capitolo XXVIII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace
come deterrente. Questo ragionamento dipende ...
Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero capitolo
in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta le parole
esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola ‘deterrente’ non
ci appare, ma è utile come riassunto.
Esempio di citazione:
8
Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne fanno.
Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.
124
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di
servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i
delitti’15. Questo ragionamento dipende ...
Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.
Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’), doppie
(“...”) o a lisca di pesce («...»).
Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’ nella
citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma, nella
citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con parentesi,
preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e ]) o
increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il freno’,
è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate) per indicare
l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa corsivo
(sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si aggiunge in
nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge ‘corsivo originale’.
Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno messi
con un rientro di mezzo centimetro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza
virgolette. Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più forte
contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...
Mentre, con testo intero, si ha:
Beccaria osserva come,
125
[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e
stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle
sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.
Questo ragionamento dipende...
Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi di word processing sono in grado
di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature può
raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.
Note
Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente) in
un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per commenti
ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del ragionamento
all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.
I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del
corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi primari
(ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di più autori).
Siti internet vengono citati riportando l’URL.
(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato. Ad
esempio, la paginazione, con quadrante o colonna pagine, più le righe, di Platone risale
all’edizione dello Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di
Bekker del 1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono
riportati in quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla
numerazione delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono
suddivisi in piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che sono articolati in
libri e hanno righe numerate, possono essere citati con i numeri forniti nel testo. È comunque da
segnalare quale edizione o traduzione è stata adottata.
(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo in corsivo;
126
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;
casa editrice;
città di pubblicazione;
anno di pubblicazione; e
pagina/e.
Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp.
63-4.
Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o
16 Beccaria, op. cit., p. 64.
togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o
16 Op. cit., p. 64.
Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:
8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p. 62.
9 Loc. cit..
oppure
9 Ibid..
127
Dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ (o l’italiano ‘ivi’) significa ‘lo stesso posto nel
testo’. Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una
sequenza di questo genere:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp.
63-4.
16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.
17 Beccaria, op. cit., p. 65.
O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a chi
legge.
(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo del articolo tra virgolette;
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa forma è
normale solo in Italia);
nel caso di una miscellanea, nome del curatore;
nel caso di una miscellanea, casa editrice;
nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;
nel caso di una rivista, l’anno e il numero;
anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e
pagina/e.
Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia, XLI,
(1986), p. 14.
che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:
128
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza nel
pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.
Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo stesso
saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente forma:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura di
A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2014, p. 97.
Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un
convegno, si ha:
3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisica, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 190-1.
Bibliografia
In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e
effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i nonfrequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche
bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico è
escluso dal conteggio delle parole.
L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato
corrisponde a quello delle note con poche varianti:
(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele, l’edizione
o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si citano più di un
testo, tutti vanno elencati;
(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;
(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il secondo
testo si mette un trattino sulla nuova riga;
129
(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della
casa editrice;
(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;
(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe
successive se il rimando si estende su più di una riga.
Così, abbiamo, ad esempio,
Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi,
Milano, 1992.
–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere, a cura di G. Giannantoni, (4 volumi),
Laterza, Bari-Roma, 1973.
–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,
Milano, 1993.
Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.
Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1928), appendice al suo Aristotele,
(1923) trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 557-617.
Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.
187-214.
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