Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto

Giurisprudenza
Contratti in generale
Abuso del diritto
Recesso ad nutum, buona
fede e abuso del diritto
CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106 - Pres. Varrone - Rel. Urban - P. M.
Destro - A. G. c. Renault Italia S.p.a.
I
Di fronte ad un recesso non qualificato il giudice non può esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell’atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al risarcimento per il
suo abusivo esercizio.
II
L’esercizio del potere contrattuale (di recesso) riconosciuto dall’autonomia privata deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e della correttezza (alla luce dei quali devono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale. Il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo possa sconfinare nell’arbitrio. Da ciò
il rilievo dell’abuso nell’esercizio del proprio diritto.
III
L’irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato
rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei princìpi
espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.
IV
In ipotesi di eventuale, provata disparità di forze tra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o
meno del recesso può prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli
atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
Difforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
Svolgimento del processo
Tra il 1992 ed il 1996 gli attuali ricorrenti, tutti ex concessionari della Renault Italia spa, furono revocati dalla
stessa società, sulla base della facoltà di recesso ad nutum
previsto dall’art. 12 del contratto di concessione di vendita.
Poiché in tale condotta fu ravvisato un comportamento
abusivo, e comunque illecito da parte della Renault Italia
spa, fu fondata la Associazione Concessionari Revocati,
con lo scopo di «programmare, provvedere, sviluppare,
organizzare, gestire ogni iniziativa ed attività idonea alla
tutela e difesa, nonché alla rappresentanza, dei diritti dei
Concessionari d’auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio italiano».
L’Associazione ed i concessionari revocati convenivano,
quindi, la Renault Italia spa davanti al tribunale di Ro-
I contratti 1/2010
ma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimità
del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Renault Italia spa al risarcimento dei danni
subiti per effetto dell’abusivo recesso.
Renault Italia spa si costituiva chiedendo il rigetto della
domanda, con la condanna alle spese.
Il tribunale, con sentenza in data 11 giugno 2001, rigettava la domanda compensando le spese.
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d’Appello che,
con sentenza del 13 gennaio 2005, rigettava gli appelli
proposti dall’Associazione e dai concessionari, che condannava al pagamento delle spese.
Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della Renault Italia
rendesse superfluo ogni controllo causale sull’esercizio di
tale potere.
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Hanno proposto ricorso principale per cassazione affidato
a cinque motivi illustrati da memoria i soggetti indicati
in epigrafe.
Resiste con controricorso la Renault Italia spa che ha,
anche, proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo.
Motivi della decisione
Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
Ricorso principale.
Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la
violazione e falsa applicazione dell’art. 216 c.p.c. in relazione all’art. 158 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).
Sostengono che la sentenza impugnata sia affetta da nullità per vizi relativi alla costituzione del giudice, vale a dire per «mancanza di collegialità nella decisione testimoniata dal fatto che la sentenza impugnata risulta estesa il
28 settembre 2004, ossia molto prima che fosse tenuta la
camera di consiglio del 12 ottobre 2004».
Il motivo non è fondato.
L’apposizione in calce alla sentenza della data del 28 settembre 2004, invece di quella del 12 ottobre 2004 (data
in cui si è tenuta la camera di consiglio) risulta frutto di
un semplice errore materiale, posto che - come risulta dagli atti - nella data del 28 settembre 2004 la Corte di merito si era già riunita in camera di consiglio per l’esame
dell’appello.
Peraltro, l’errore materiale commesso è stato emendato attraverso il procedimento di correzione ex artt. 287 e 288
c.p.c., con ordinanza emessa in data 25 maggio 2005 - a seguito di scioglimento della riserva adottata all’udienza collegiale del 24 maggio 2005 - del seguente tenore: «corregge la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 136 depositata il 13 gennaio 2005 nel senso che dove è scritto, alla fine della sentenza e dopo la parola Roma, “28 settembre
2004” deve intendersi scritto “12 ottobre 2004”, disponendo che la cancelleria effettui l’annotazione di rito».
La correzione così effettuata rende inammissibile la censura, posto che i ricorrenti non denunciano la correttezza
del procedimento adottato, di correzione dell’errore materiale contenuto nella sentenza impugnata.
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa
applicazione delle clausole generali della buona fede, ed
in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità
della figura dell’abuso del diritto all’esercizio del recesso
ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175
e 1375 c.c.).
Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5).
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull’agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360
c.p.c., n. 3).
Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che
si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente.
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Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le
ragioni che seguono.
Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l’esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5 marzo 2009 n.
5348; Cass. 11 giugno 2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti
del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano
del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).
I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico.
L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di
un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le
altre, Cass. 15 febbraio 2007 n. 3462).
Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di
solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del
rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza
di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il
criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od
integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia
del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così
si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede)
«richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto
riguardo all’interesse del creditore», operando, quindi,
come un criterio di reciprocità.
In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione
data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.
In questa ottica la clausola generale della buona fede ex
artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell’ambito
dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di
posizione dominante.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto
giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona
fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto.
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Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto - ricostruiti
attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono
i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo
ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio
di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la
circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto,
sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si
verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio
del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata
dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il
potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di
esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la
tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione
delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di
impedire che possano essere conseguiti o conservati i
vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di
per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da
alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo
nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in
via generale, l’abuso del diritto.
La cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l’abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo,
ma non di sanzione giuridica.
Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per
la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto - in
considerazione della grande latitudine di potere che una
clausola generale, come quella dell’abuso del diritto,
avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa,
nella stesura definitiva del codice civile italiano del
1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che
proclamava, in termini generali, che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il
quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto» (così
ponendosi l’ordinamento italiano in contrasto con altri
ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme
specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti.
Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico,
un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di
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rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità
(v. applicazioni del principio in Cass. 8 aprile 2009 n.
8481; Cass. 20 marzo 2009 n. 6800; Cass. 17 ottobre
2008 n. 29776; Cass. 4 giugno 2008 n. 14759; Cass. 11
maggio 2007 n. 10838).
Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l’esercizio del diritto di voto sotto l’aspetto dell’abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non
abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l’imposizione, nelle delibere
assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da
una clausola generale quale la correttezza e buona fede
(contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è
integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il
rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono
portatrici.
E la conseguenza è quella della invalidità della delibera,
se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di
buona fede nell’esecuzione del contratto (v. Cass. 11 giugno 2003 n. 9353).
Con il rilievo che tale canone generale non impone ai
soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma
rileva soltanto come limite esterno all’esercizio di una
pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli
opposti interessi (Cass. 12 dicembre 2005 n. 27387).
Ancora, sempre nell’ambito societario, la materia dell’abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla
qualità di socio ed all’adempimento secondo buona fede
delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione
dalla società (Cass. 19 dicembre 2008 n. 29776), ed al fenomeno dell’abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25 gennaio
2000 n. 804; Cass. 16 maggio 2007 n. 11258).
In tal caso, proprio richiamando l’abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo “disvelamento” (piercing the corporate veil).
Nell’ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375
cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca
dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente
consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del
tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21 maggio 1997 n.
4538; Cass. 14 luglio 2000 n. 9321; Cass. 21 febbario
2003 n. 2642).
E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato
ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che,
nel regolare tali rapporti, consenta all’istituto di credito
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di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei
diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in
qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli,
impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio
della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la
conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento
dei danni (Cass. 28 settembre 2005 n. 18947).
In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati
applicati, in particolare, con riferimento al contratto di
mediazione (Cass. 5 marzo 2009 n. 5348), al contratto di
sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16 ottobre 1995 n. 10805;
Cass. 26 giugno 2001 n. 8742; Cass. 22 marzo 2007 n.
6969; Cass. 8 aprile 2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1 ottobre 1999 n.
10864; Cass. 28 luglio 2004 n. 14239; Cass. 7 marzo 2007
n. 5273).
Del principio dell’abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23 ottobre 2008 nn. 30055,
30056, 30057).
Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell’abuso del
diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al
quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono
da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che,
nell’ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le
parti contrattuali adottano.
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell’abuso
del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce
dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42
Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi
assoluti.
In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una
correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita
dall’ordinamento, si avrà abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo
esercizio.
Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve,
ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata.
La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:
1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull’atto di autonomia privata;
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«2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal
contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il
sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l’esercizio del potere, perché un tale
potere rientra nella libertà di scelta dell’operatore economico in un libero mercato;
3) La Renault Italia non doveva tenere conto anche dell’interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto»;
4) la insussistenza di un’ipotesi di recesso illegittimo
comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e
1375 c.c.;
5) i principii di correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare
il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti;
6) Non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto; e
ciò perché «La sussistenza di un atto di abuso del diritto
(speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di
utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di
nuocere o di recare molestia ad altri»;
7) «Il mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l’esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d’impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da
soggetti in grado di autodeterminarsi»;
8) Alla libertà di modificare l’assetto di vendita, da parte
della Renault Italia spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, «il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste,
quindi, l’abuso»;
9) La impossibilità di ipotizzare «un potere del giudice di
controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare
tale astratta tutela», produce, come effetto, quello della
introduzione di «un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull’esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell’atto»;
10) La impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, «in
ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell’incontro delle volontà su una causa eletta
dall’ordinamento come meritevole di tutela» fa sì che
«Solo allorché ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l’esercizio di una facoltà, ma al
di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata».
Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non
sono condivisibili sotto diversi profili.
Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è
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quello che non è compito del giudice valutare le scelte
imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti
economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del
sindacato giurisdizionale.
Diversamente, quando, nell’ambito dell’attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d’impresa - gli
interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali.
In questo caso, nell’ipotesi in cui il rapporto evolva in
chiave patologica e sia richiesto l’intervento del giudice,
a quest’ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini
della ricerca della comune intenzione dei contraenti.
Ciò vuoi significare che l’atto di autonomia privata è, pur
sempre, soggetto al controllo giurisdizionale.
Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione
del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da
precludere la ricerca di una volontà diversa; con l’adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque,
di natura sussidiaria.
Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell’art. 1366 c.c. - debbono essere interpretati anche
secondo buona fede.
Non soltanto.
Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel
suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto
obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli
interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.
La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno
che ne sia derivato (v. anche S.U. 15 novembre 2007 n.
23726; Cass. 22 gennaio 2009 n. 1618; Cass. 6 giugno
2008 n. 21250; Cass. 27 ottobre 2006 n. 23273; Cass. 7
giugno 2006 n. 13345; Cass. 11 gennaio 2006 n. 264).
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in
senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale;
e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti
interessi (v. S.U. 15 novembre 2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).
Il giudice, quindi, nell’interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell’ottica dell’equilibrio
fra i detti interessi.
Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - in
particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l’eventuale diritto al risarcimento del danno per l’esercizio di tale facoltà in modo
non conforme alla correttezza ed alla buona fede.
Sotto questo profilo, pertanto, dovrà essere riesaminato il
materiale probatorio acquisito.
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In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso
non qualificato - non poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell’atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto
al risarcimento per il suo abusivo esercizio.
Anche con riferimento all’abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono essere seguite.
Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di
autonomia privata è stato pienamente riconosciuto dalla
giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità,
cui si è fatto cenno.
La conseguenza è l’irrilevanza, sotto questo aspetto, delle
considerazioni svolte in tema di libertà economica e di libero mercato.
Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato giurisdizionale,
rientrando nelle prerogative dell’imprenditore operante
nel mercato, che si assume il rischio economico delle
scelte effettuate.
Ma, in questo contesto, l’esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall’autonomia privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali quali quello appunto della buona fede oggettiva, della
lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei
quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto
soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia
portatore, possa sconfinare nell’arbitrio.
Da ciò il rilievo dell’abuso nell’esercizio del proprio diritto.
La libertà di scelta economica dell’imprenditore, pertanto, in sé e per sé, non è minimamente scalfita; ciò che è
censurato è l’abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell’atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere.
L’irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l’esercizio
della facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei
canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall’ordinamento - al fine di
evitare un abusivo esercizio del diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l’interpretazione dell’atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se
posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell’altra siano stati forieri
di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere
i fini che la parte si è prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l’atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l’atto anche in funzione del contemperamento
degli opposti interessi delle parti contrattuali.
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Contratti in generale
Erra, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi
è un’impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo che lo stesso
possa controllare l’esercizio del potere di recesso; ritenendo che, diversamente si tratterebbe di una valutazione
politica.
Il problema non è politico, ma squisitamente giuridico ed
investe i rimedi contro l’abuso dell’autonomia privata e
dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti
contemporanei, a causa dell’incremento delle situazioni
di disparità di forze fra gli operatori economici.
Al giudicante è richiesta, attraverso il controllo e l’interpretazione dell’atto di recesso - al fine di affermarne od
escluderne il suo esercizio abusivo, condotto alla luce dei
principii più volte enunciati - proprio ed esclusivamente
una valutazione giuridica.
Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di
concludere che la Corte di merito abbia errato quando ha
adottato le seguenti proposizioni argomentative:
1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di
un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità
per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall’animus nocendi;
2) che, stabilito che la Renault Italia era libera di modificare l’assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo
più conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l’insussistenza dell’abuso;
3) che, una volta che l’ordinamento abbia apprestato un
dato istituto, spetta all’autonomia delle parti utilizzarlo o
meno;
4) che non sussista la possibilità di utilizzare un giudizio
di ragionevolezza in ambito privatistico - in particolare
contrattuale - in cui i valori di riferimento non solo non
sono unitari, ma sono addirittura contrapposti;
5) che nessuna valutazione delle posizioni contrattuali
delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente
“forti” -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri nella sfera di
valutazione complessiva del Giudicante.
La Corte di merito ha affermato che l’abuso fosse configurabile in termini di volontà di nuocere, ovvero in termini di “neutralità”; nel senso cioè che, una volta che
l’ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso)
per conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto
di concessione di vendita), erano indifferenti le modalità
del suo concreto esercizio.
Ma il problema non è questo.
Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di “conflittualità”. Ovvero: posto
che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano
portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati.
Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell’esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.).
In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi
10
da un tale controllo condotto, secondo le linee guida
esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell’eventuale abuso del diritto di recesso, come operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del rinvio - se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con
modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto
a quelli consentiti.
Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce
dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l’esercizio del diritto riconosciuto.
In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra
i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o
meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può
prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non
delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.
Le conseguenze, cui condurrebbe l’interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono inaccettabili.
La esclusione della valorizzazione e valutazione della
buona fede oggettiva e della rilevanza anche dell’eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito dall’ordinamento giuridico.
Il giudice del rinvio, quindi, dovrà riesaminare la questione, tenendo conto delle indicazioni fornite e dei principii enunciati, al fine di riconoscere o meno il carattere
abusivo del recesso e l’eventuale, consequenziale diritto
al risarcimento del danni subiti.
Tutto ciò in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche
di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici.
Le conclusioni raggiunte consentono di ritenere irrilevante, e, quindi, superfluo l’esame degli ulteriori profili di
censura proposti.
I temi dell’abuso di dipendenza economica e della applicabilità analogica od estensiva della normativa in materia di subfornitura (in particolare L. 18 giugno 1998, n.
172, art. 9) non hanno costituito oggetto di specifica
censura contenuta nei motivi di ricorso.
Quanto alle analogie riscontrate dai ricorrenti fra il contratto di concessione di vendita e quella di agenzia, ai fini del riconoscimento del diritto dei concessionari a percepire una somma a titolo di indennità, poi, ad un sommario esame - il quale, peraltro, si presenterebbe superfluo ai fini che qui interessano, per le conclusioni raggiunte sui temi in precedenza trattati - si presentano di
dubbia praticabilità.
Il contratto di concessione di vendita, infatti, per la sua
struttura e la sua funzione economico-sociale, presenta
aspetti che lo avvicinano al contratto di somministrazione, ma non può, però essere inquadrato in uno schema
contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto
innominato, che si caratterizza per una complessa funzio-
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
ne di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano
strutturale, in un contratto - quadro o contratto normativo (Cass. 17 dicembre 1990, n. 11960), dal quale deriva
l’obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita,
ovvero l’obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell’accordo
iniziale (v. anche Cass. 22 febbraio 1999 n. 1469; Cass.
11 giugno 2009 n. 13568).
Proprio una tale struttura e funzione economica, che
esclude profili rilevanti di collaborazione, sembra doverlo porre al di fuori dell’area di affinità con il contratto di
agenzia (v. anche Cass. 21 luglio 1994 n. 6819).
Con il quinto motivo (subordinato) i ricorrenti principali denunciano la mancata compensazione delle spese relative al giudizio di appello da parte della Corte di merito.
Il motivo resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in
ordine ai motivi che precedono. Ricorso incidentale Con
unico motivo la resistente e ricorrente incidentale denuncia la omessa motivazione sull’appello incidentale
proposto dalla Renault Italia spa, relativamente alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado.
Anche questo motivo, in materia di spese, resta assorbito
dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi del ricorso principale che precedono.
Il giudice del rinvio, dovrà, infatti, procedere ad una nuova ed autonoma regolamentazione delle spese del processo.
Conclusivamente, va rigettato il primo motivo del ricorso principale;
vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo; vanno dichiarati assorbiti il
quinto motivo ed il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi,
come accolti, e la causa va rimessa alla Corte d’Appello
di Roma in diversa composizione.
Il giudice del rinvio si pronuncerà anche sulle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale. Accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il
quinto, nonché il ricorso incidentale. Cassa in relazione
e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
IL COMMENTO
di Giovanni D’Amico
La Nota focalizza l’attenzione sul rapporto tra controllo dell’esercizio del diritto attuato attraverso il criterio
dell’”abuso” e controllo attuato attraverso il canone della buona fede. Mentre la sentenza in commento sovrappone i due tipi di giudizio e di valutazione, l’autore avanza la tesi secondo cui “abuso del diritto” e “buona fede” rappresentano nozioni distinte, e danno vita a “tecniche” di controllo degli atti di esercizio dei diritti diverse sia sotto il profilo dei presupposti sia sotto il profilo dei rimedi.
Il fatto
Nel marzo del 1997 un rilevante numero di ex concessionari auto Renault citavano in giudizio Renault
Italia SpA esponendo che tra il 1992 e il 1996 la società convenuta aveva «inopinatamente e inaspettatamente» esercitato il recesso dai contratti di concessione di vendita intercorrenti con gli attori (e
che avevano una durata media di circa dieci anni).
In particolare gli attori (dopo aver sottolineato la situazione di “dipendenza economica” dalla controparte (argomentavano che il diritto di recedere ad
nutum attribuito contrattualmente alla Renault
(contraente forte) era stato comunque esercitato
dalla società convenuta con modalità “abusive”
(contrarie a buona fede) perché: a) la recedente
aveva, sollecitando l’effettuazione di nuovi investimenti, suscitato nei concessionari un legittimo affidamento nella continuazione del rapporto; b) pur
avendo intimato il recesso a quasi 200 concessiona-
I contratti 1/2010
ri, la rete di vendita non risultava ridotta, in quanto
molti “territori contrattuali” (zone) già serviti dai
concessionari “revocati”, erano stati inseriti in una
nuova rete di vendita, formata per lo più da ex dirigenti della Renault (da essa indotti a dimissioni
spontanee, in cambio di una “fuoriuscita morbida”
dalla struttura); c) scorrettamente la società convenuta aveva “pubblicizzato” sulla stampa locale la
cessazione del rapporto di concessione con un annuncio che rendeva nota questa cessazione alla
clientela.
Ciò premesso, gli attori - sulla base della asserita esistenza di “profonde analogie” intercorrenti tra il
contratto di concessione di vendita in esclusiva e
quello di agenzia (chiedevano che (analogamente a
quanto previsto per l’ipotesi di scioglimento di quest’ultimo contratto) venisse riconosciuto anche a loro favore il diritto ad una indennità per la perdita di
clientela oltre il risarcimento dei danni.
11
Giurisprudenza
Contratti in generale
La società convenuta replicava che: a) del tutto infondato era l’assunto della preordinazione dei recessi intimati agli attori ad una ipotetica sistemazione dei propri dipendenti dimissionari, laddove invece essi si collocavano nel quadro di una complessa e vasta ristrutturazione della rete di vendita, determinata dalla notevole flessione del mercato dell’auto, iniziata nel 1992 e
proseguita negli anni successivi; b) la detta ristrutturazione si poneva in linea con la finalità della normativa
comunitaria in materia, la quale mirava a garantire
un’adeguata assistenza alla clientela (finalità a cui era
diretta anche la ristrutturazione della rete di vendita,
attuata dalla Renault anche al fine di migliorare i servizi ai clienti); c) che era stato attribuito un congruo
termine di preavviso; d) che infondata era l’analogia
che gli attori intravvedevano con rapporti contrattuali (agenzia, franchising) che lo stesso legislatore
comunitario aveva provveduto a tenere distinti dalla concessione di vendita; e) che, in particolare, la
ratio dell’indennità di fine rapporto riconosciuta a
favore dell’agente (nel contratto di agenzia) risiede
nel riconoscere un corrispettivo per l’apporto (non
remunerato dalle provvigioni) al preponente di una
clientela fissa, apporto che non è ravvisabile nel
contratto di concessione di vendita; f) infine, anche
le richieste di risarcimento del danno per spese ed
oneri asseritamente sostenuti dai concessionari, erano infondate in quanto si trattava di esborsi effettuati nell’adempimento di precisi obblighi contrattuali.
Le decisioni dei due gradi di merito
Il Tribunale Roma decideva sulla domanda dei concessionari nel 2001, respingendola (1).
Pur riconoscendo che il concessionario è la parte
“debole” del rapporto contrattuale, destinato in via
di principio a subire i modelli pattizi dall’altro predisposti, il giudice romano osserva che i concessionari, per altro verso, «operano attraverso strutture produttive e in un tipo di mercato sufficientemente duttili ed
idonei pertanto ad assorbire i trasformismi necessari alla
conservazione dell’impresa, anche in caso di cessazione
del rapporto con l’originario produttore», come sarebbe
stato dimostrato anche nel caso di specie dalla circostanza (allegata dalla società convenuta) che molti dei concessionari revocati erano già passati alla rete di altri produttori.
Del resto, alla luce della stessa normativa comunitaria (ammesso che essa sia interpretabile come volta
a tutelare i concessionari (quali ipotetica parte “debole” del rapporto contrattuale) (2) (costituisce un
indice molto significativo, a parere del Tribunale di
Roma, da un lato la circostanza che comunque «si
12
sia ritenuto sufficiente ai fini della legittimità del recesso
del produttore il termine di preavviso di un anno,almeno
secondo il regolamento vigente nell’epoca in cui sono intervenute le revoche che hanno interessato gli attori (3),
dall’altro che non sia stato previsto a favore del concessionario revocato alcuno dei presidi che assistono la cessazione del rapporto del contraente debole in altre ben
note fattispecie negoziali, come quella di agenzia....»
(4).
Note:
(1) Cfr. Trib. Roma, Sez. III, 11 giugno 2001, n. 22540 (giud. Amedola). Trattandosi di una pronuncia inedita, abbiamo ritenuto opportuno riportare nel testo ampie citazioni tratte dalla motivazione.
(2) Cosa che il Tribunale di Roma contesta, in quanto - così si
esprime l’estensore della sentenza («ad un esame scevro da
apriorismi sembra ... che l’ottica della regolamentazione comunitaria sia più quella della razionalità della distribuzione, in vista
della salvaguardia delle esigenze del consumatore, che non
quella della tutela di un ipotetico contraente debole». Senza entrare nel merito di questo profilo - che è rimasto estraneo alla
pronuncia della Cassazione che qui si commenta -, ci limitiamo a
ricordare che il legislatore europeo disciplina il rapporto di concessione di vendita (ivi compreso l’aspetto concernente il recesso del concedente) nell’ambito di regolamenti di esenzione per
categoria ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 81 par. 3 Trattato
CE (in successione temporale, v. Regolamento della Commissione n. 123/85 del 12 dicembre 1984, in vigore sino al 30 giugno 1995; Regolamento della Commissione n. 1475/95 del 28
giugno 1995, in vigore sino al 30 settembre 2002; infine, Regolamento della Commissione n. 1400/02 del 31 luglio 2002, attualmente in vigore e la cui efficacia cesserà il 31 maggio 2010,
scadenza in vista della quale nel mese di luglio del 2009 la Commissione ha emanato una Comunicazione dal titolo «Il futuro
quadro normativo in materia di concorrenza applicabile al settore automobilistico»: v. Commissione CE, COM(2009) 388 def.,
del 22 luglio 2009). Su tale normativa si veda, con ampiezza di
analisi e di riferimenti, P. Fabbio, Note sulla terminazione dei rapporti di distribuzione automobilistica integrata, tra diritto comunitario e nazionale, in Riv. dir. comm., 2004, II, 1 (commento a Trib.
Roma 5 novembre 2003, Soc. Autofur c. Società Renault Italia).
(3) Cfr. art. 5, comma 2, del Regolamento Ce n. 123/1985, citato
nella nota precedente.
(4) Il Tribunale di Roma, nella sentenza di cui riferiamo, dal canto
suo esclude che possano applicarsi analogicamente al contratto
(atipico) di concessione di vendita, le norme relative al contratto
di franchising e, più ancora, quelle del contratto di agenzia (norme che i concessionari che avevano subito il recesso avevano
invocato ai fini di vedersi riconosciuto il diritto ad una “indennità
di clientela”). Quanto al primo, il Tribunale osserva che l’asserita
“similitudine” con il franchising - ammessane la sussistenza - resterebbe priva di effetto, perché «nel rapporto contrattuale di
franchising è inesistente il diritto all’indennità di clientela». Rispetto all’agenzia, poi, sono evidenti - sempre a giudizio del Tribunale di Roma (le differenze: nel contratto di agenzia, il diritto
dell’agente all’indennità di clientela trova il suo fondamento nella circostanza che l’attività dell’agente è indirizzata in via diretta
e immediata all’incremento degli affari del preponente; nella
concessione di vendita, invece, il concessionario agisce verso i
consumatori “in proprio”, onde resta preclusa ogni applicazione
estensiva o analogica dell’istituto dell’indennità di cessazione
del rapporto. Anche su questo profilo (marginale nella pronuncia
della Cassazione in commento (pronuncia che, peraltro - almeno
su questo punto, e in continuità con un consolidato orientamen(segue)
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
Infine, la sentenza del Tribunale di Roma respinge
anche la deduzione dei concessionari circa un (preteso) “abuso del diritto di recesso” da parte della
concedente, osservando: a) quanto alla affermazione
secondo cui l’intera operazione di ristrutturazione
della rete fosse stata posta in essere dalla concedente al solo fine di “piazzare” alcuni dei suoi ex dirigenti (che «riesce invero davvero difficile ipotizzare che
un’impresa delle dimensioni di quella della convenuta
non fosse in grado di assorbire in maniera più naturale la
cessazione del rapporto con un ristretto numero di dipendenti e avesse pertanto bisogno di ricorrere ad una scelta
così traumatica e potenzialmente destabilizzante come
una diffusa revoca dei rapporti di concessione in atto»;
b) quanto alla colpevole induzione nei concessionari dell’affidamento (ragionevole) circa la continuazione del rapporto (nonostante la notificazione del
preavviso di recesso) (che «non si vede come esso [id
est: il ragionevole affidamento] possa essere stato ingenerato dalla richiesta di adeguamento delle strutture e del
capitale investito, una volta che non viene neppure dedotto che la richiesta stessa era estranea alla normale gestione del contratto e/o che è avvenuta con modalità ex
se incompatibili - secondo una ragionevole interpretazione - con una sua interruzione a breve termine».
Proposto appello avverso la pronuncia del Tribunale, la Corte d’appello capitolina ha confermato la
sentenza impugnata (5), incentrando la propria decisione sul tema della sindacabilità del recesso alla
luce del principio che vieta l’abuso del diritto.
Mentre il Tribunale aveva (implicitamente) ammesso tale sindacabilità, pur concludendo che nel caso di
specie non potesse riscontarsi alcun esercizio abusivo
del diritto di recesso, la Corte d’appello sembrerebbe (almeno apparentemente) (6) escludere in radice
che l’atto di esercizio del diritto di recesso da parte
della società concedente potesse essere sottoposto a
sindacato da parte del giudice. «...Una volta stabilito che la Renault era titolare del diritto di recesso ad
nutum (osservano i giudici d’appello (correttamente
il Tribunale ha escluso di poter esercitare un controllo dell’atto di autonomia. Se l’autonomia privata
ha riconosciuto la possibilità di recedere dal contratto,
non è necessario alcun controllo causale circa l’esercizio
del potere....» (7).
Ragionare diversamente - aggiungono i giudici della
Corte d’appello (avviando un ragionamento, che
rappresenta la parte certamente più discutibile della
sentenza) (significherebbe «introdurre un controllo
di opportunità e di ragionevolezza sull’esercizio del
potere di recesso, (...) una valutazione politica, non
giurisdizionale», che finirebbe per intaccare «diritti
fondamentali di rilevanza costituzionale, quali la li-
I contratti 1/2010
bera iniziativa economica privata, da inquadrare
nell’autonomia privata, a cui si applica la riserva che
soltanto la legge può limitarne la libertà (artt. 13,
secondo e ult. comma, art. 14 secondo e terzo comma, art. 15 secondo comma, art. 16, art. 18 primo
comma, art. 21, terzo, quinto e sesto comma, Costituzione) (...)». La Corte d’appello, infine, così conclude: «(...) Vi è un’impossibilità di procedere ad un
giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, in ambito contrattuale (...) Solo allorché
ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l’esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la ampia libertà della autonomia privata,
che si è detto, costituisce la regola fondamentale
(...)».
La sentenza della Cassazione
Sono proprio le ultime affermazioni (riportate alla
fine del paragrafo precedente) della Corte d’appello
di Roma a formare oggetto di risoluta critica da parNote:
(continua nota 4)
to del Supremo Collegio - sembra concordare con le valutazioni
operate dai giudici di merito) (non ci soffermiamo in particolare,
limitandoci a rinviare per un sintetico quadro della questione e
per il richiamo alle principali posizioni dottrinali e giurisprudenziali, oltre che per alcuni raffronti comparatistici, a Baldi-Venezia, Il
contratto di agenzia. La concessione di vendita. Il franchising, 8a
ed., Milano, 2008, 109 ss., spec. 124 ss.
(5) App. Roma, 18 gennaio 2005, n. 136, inedita. Come per la
sentenza di primo grado, il carattere inedito della pronuncia in
esame giustifica la scelta di effettuare con una certa larghezza
citazioni testuali di brani della motivazione.
(6) Vedremo più avanti come l’affermazione dei giudici di appello che riportiamo subito infra nel testo possa, in realtà, essere interpretata in altro (e più corretto) significato, che non sia quello
di una radicale (e aprioristica) esclusione della sindacabilità in base al criterio del divieto di abuso del diritto.
(7) Il brano citato prosegue, poi, così: «....In altri termini la Renault Italia non necessariamente doveva tener conto dell’interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa
aveva alla risoluzione del rapporto. L’interesse in questione poteva anche consistere nel determinare la cessazione dei rapporti contrattuali in corso proprio al fine di realizzare una rete di vendita più razionale o più rispondente ai propri interessi (anche
quello di inserire nella vendita eventi propri dipendenti e così alleggerire gli oneri produttivi). Anche in tal caso trattasi di scelta
imprenditoriale visto che era modificato l’assetto di vendita,
scelta che non era diretta tanto a creare danno all’altro contraente quanto di ottenere un risparmio mediante la riduzione
del personale collocandolo nella rete distributiva...». Del resto, i
giudici non mancano di sottolineare, ad ogni buon conto, come il
recesso avesse riguardato un numero rilevante di concessionari
(dai 395 iniziali si era passati ai 205 attuali), il che dimostra(va)
«che si è trattato di una scelta imprenditoriale circa l’organizzazione di vendita e, quindi, il recesso non era evidentemente suscettibile della qualificazione in termini di illiceità, ai sensi degli
artt. 1343 e 1344 c.c., restando esclusa anche la configurabilità
di un atto discriminatorio».
13
Giurisprudenza
Contratti in generale
te della Cassazione, nella sentenza che qui si commenta.
I giudici del Supremo Collegio premettono che
«l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce ... un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la
cui costituzionalizzazione è ormai pacifica», e che la
rilevanza di tale obbligo «si esplica nell’imporre a
ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a
prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge» (8), sicché - prosegue la sentenza in esame (il criterio della buona fede costituisce «strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli
opposti interessi» (9).
La pronuncia si sofferma poi sui rapporti tra buona
fede e (divieto di) abuso del diritto, con una serie di
affermazioni per la verità non sempre lineari. Si asserisce, infatti, dapprima che l’abuso del diritto sarebbe un «criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva», ma poco più
avanti il rapporto (tra i due concetti) sembra invertirsi, laddove in particolare i giudici osservano che
con il divieto dell’abuso «l’ordinamento pone una
regola generale (10), nel senso di rifiutare la tutela
ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva» (con il che,
appunto, sembrerebbe, questa volta, la contrarietà del
comportamento a buona fede ad essere prospettata
quale criterio rivelatore dell’abuso del diritto) (11).
Dal richiamo, poi, alle numerose (e, in verità, alquanto eterogenee) pronunce (12) in cui la stessa
Cassazione ha negli ultimi anni fatto applicazione
del principio del (divieto di) abuso del diritto, la
sentenza in commento trae la conclusione secondo
cui sarebbe da ritenere «ormai acclarato che anche
il principio dell’abuso del diritto è uno dei criteri di
selezione, con riferimento al quale esaminare anche
i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell’ambito
della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti
contrattuali adottano».
A questo punto, e alla luce delle premesse così individuate, i giudici passano infine all’esame e alla critica della sentenza impugnata.
È bensì vero - essi osservano - che «non è compito
del giudice valutare le scelte imprenditoriali», ma
ciò non vale «quando, nell’ambito dell’attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autono-
14
mia privata», che sono (nel caso in cui sorga controversia tra le parti) sottoposti al potere di interpretazione (e dunque al controllo) del giudice.
In particolare - secondo la Cassazione −, nell’interpretare il contratto (e le clausole che lo compongono) ai sensi dell’art. 1366 c.c. (13), il giudice deve
operare nell’ottica dell’equilibrio fra gli interessi
delle parti, onde la Corte d’appello di Roma avrebbe
(potuto e) dovuto «valutare e interpretare le clausole del contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere
l’eventuale diritto al risarcimento del danno per l’esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla
correttezza e alla buona fede» (14).
Note:
(8) Si noti come, nel brano citato, la Corte in realtà modifichi (inconsapevolmente?) la corrente definizione della buona fede, che
si legge in (ormai) numerose sue precedenti pronunce: «atteggiamento di cooperazione e di solidarietà che impone a ciascuna
delle parti di tenere, al di là degli specifici obblighi scaturenti dal
vincolo contrattuale e dal dovere del neminem laedere, quei
comportamenti che senza comportare apprezzabile sacrificio a
suo carico risultino idonei a salvaguardare gli interessi dell’altra
parte» (cfr., ad es., Cass. 22 novembre 2000, n. 15066; Cass. 11
gennaio 2006, n. 264; Cass. 7 giugno 2006, n. 13345). È agevole osservare che manca, nel brano citato nel testo, l’inciso che
abbiamo evidenziato in corsivo nella “definizione” or ora riportata. Il senso della formula ne risulta alquanto modificato, e su un
profilo tutt’altro che marginale.
(9) I corsivi sono aggiunti.
(10) Qualche riga più avanti si legge, peraltro, una frase del tutto
opposta, e cioè che «nel nostro codice non esiste una norma
che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto».
(11) È probabile - comunque - che i giudici utilizzino “abuso del
diritto” e “contrarietà a buona fede” come formule equivalenti
ed interscambiabili. In un (altro) passaggio della motivazione, peraltro, si legge che «i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata, e prospettando l’abuso la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo
scopo per i quali essi sono conferiti».
(12) Nei settori più disparati dell’ordinamento: dal diritto tributario - dove il principio dell’abuso del diritto è invocato come sinonimo di una «clausola generale antielusiva» che si vorrebbe presente nel sistema (al diritto societario, dove si è molto discusso
ad es. di “abuso del voto” da parte della maggioranza ai danni
della minoranza.
(13) Poco prima - nella motivazione della pronuncia - si legge peraltro l’affermazione (che sembrerebbe in contrasto con quanto
viene detto subito dopo) secondo la quale il primo strumento di
interpretazione è costituito dal senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate, «con la conseguente preclusione del
ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà
delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una
volontà diversa...».
(14) Si noti - invero - come impropriamente la sentenza della Cassazione invochi qui, al fine di fondare il diritto al risarcimento del
danno, la regola sull’interpretazione del contratto secondo buona fede. Le regole di interpretazione (e anche quella di cui all’art.
(segue)
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
Secondo i giudici del Supremo Collegio non esiste
(contrariamente a quanto affermato dalla Corte
d’appello) alcuna impossibilità di procedere ad un
giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, né
può dirsi che una siffatta valutazione sia una “valutazione politica” e non giuridica.
Quanto, poi, agli indici rivelatori dell’abuso, la sentenza della Cassazione contesta l’idea (fatta propria dai
giudici della Corte d’appello) secondo cui per la configurabilità di un “abuso del diritto” occorre accertare
una “volontà di nuocere” (15), ed afferma che rileva
invece la «proporzionalità dei mezzi usati» (16).
La sentenza della Cassazione da ultimo ribadisce,
nella parte finale, l’inaccettabilità delle conseguenze cui (a suo dire) condurrebbe la posizione sostenuta dalla Corte d’appello di Roma: «La esclusione
della valorizzazione e valutazione della buona fede
oggettiva e della rilevanza anche dell’eventuale
esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero - concludono i giudici del Supremo Collegio (che
il recesso ad nutum si trasformi in un recesso arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito dall’ordinamento giuridico (...)».
Prime osservazioni
Non c’è dubbio che la decisione della Cassazione (di
cui abbiamo sopra riportato i passaggi essenziali)
(17) susciti più d’una perplessità con riferimento all’esito (or ora ricordato) cui essa approda (18).
Proprio questo esito sembra far riemergere, infatti, i
timori (che da sempre accompagnano, per vero, la
controversa nozione di “abuso del diritto”) che l’ammissione di un sindacato giudiziale dell’esercizio del
diritto possa finire per infliggere un vulnus alla certezza delle situazioni giuridiche (e del loro contenuto) e, in definitiva, alla certezza del diritto.
Il caso del recesso ad nutum - che è la fattispecie con
la quale si confrontavano i giudici nella vicenda in
esame (esemplifica assai bene il “rischio” di cui si
parla, al tempo stesso offrendo un terreno che consente di mettere in evidenza quali dovrebbero essere
(in una prospettiva corretta) natura e limiti del controllo dell’esercizio del diritto attraverso il criterio
(del divieto) dell’abuso (19).
È noto come, nei contratti a tempo indeterminato se pur con alcune importanti eccezioni (20) (si riNote:
(continua nota 14)
1366 c.c.), infatti, servono (solo) a ricostruire il significato delle
clausole contrattuali, e dunque a stabilire quali diritti e quali (corrispondenti) situazioni passive scaturiscano dal contratto, e con
quale contenuto. Dopodiché un eventuale risarcimento del danno che - come ipotizzano i giudici del Supremo Collegio (si ricol-
I contratti 1/2010
leghi all’esercizio di uno di tali diritti (derivanti dal contratto) in
maniera non conforme al canone di buona fede, troverà il suo
fondamento non nell’art. 1366 c.c. (che fa riferimento ad una attività - l’interpretazione - che di per sé ha natura “intellettuale”; e
ciò anche a sorvolare sulla questione di chi sia l’effettivo destinatario della regola in esame, se le parti o non piuttosto il giudice), ma semmai nell(a violazione dell’) art. 1375 c.c.
(15) Più avanti, i giudici della Cassazione osservano che «In ipotesi di eventuale, provata disparità di forza fra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso deve
essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e dalla
specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti
emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica».
(16) Oscuro è, peraltro, il brano immediatamente seguente, laddove i giudici del Supremo collegio affermano che codesta proporzionalità «esprime una certa procedimentalizzazione nell’esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di
trattative, il riconoscimento di indennità ecc.)».
(17) Per una prima valutazione della sentenza v. Macario, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese:
spunti da una recente sentenza della Cassazione, in Corr. giur.,
2009, 1577 ss., il quale si sofferma anche (in particolare nella seconda parte del contributo) su alcune problematiche che attengono specificamente al contratto di concessione di vendita quale fattispecie ascrivibile all’area del c.d. “terzo contratto”, ossia
del contratto tra imprese in situazione di diseguale potere contrattuale (cfr. AA.VV., Il terzo contratto, a cura di G. Gitti-G. Villa,
Bologna, 2008, passim). Profilo, quest’ultimo, che non verrà esaminato nel presente Commento.
(18) A ciò si aggiunga che l’iter argomentativo seguito dai giudici
appare, in diversi passaggi (alcuni dei quali già segnalati nelle pagine precedenti), poco lineare, se non addirittura confuso.
(19) Controllo che - come vedremo più avanti - deve, a nostro avviso, ammettersi in via di principio, ma delimitandone rigorosamente l’ambito e le modalità.
(20) La più rilevante di tali eccezioni è costituita dal rapporto di lavoro subordinato, dal quale il datore di lavoro non può liberamente sciogliersi unilateralmente (ossia, appunto, mediante recesso),
perché la legge richiede comunque l’esistenza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo”. Per quanto riguarda il rapporto
contrattuale che qui interessa (ossia, la concessione di vendita),
merita di essere evidenziato che il Regolamento comunitario di
esenzione n. 1400/02 del 31 luglio 2002 (attualmente vigente), innovando rispetto ai regolamenti precedenti, ha introdotto (ai fini
dell’esenzione di cui all’art. 81 par.3 Trattato CE) uno specifico
“onere” di motivazione a carico del recedente (v. art. 3 par.4 reg.
cit., il quale recita testualmente che «L’esenzione si applica a condizione che l’accordo verticale concluso con un distributore o riparatore preveda che un fornitore che intenda recedere da un accordo ne dia notifica per iscritto e specifichi i motivi particolareggiati, obiettivi e trasparenti del recesso», norma che - come si
evince dal Considerando n. 9 del Regolamento è stata introdotta
«onde evitare che un fornitore receda da un accordo perché un
distributore o riparatore tiene un comportamento atto a stimolare
la concorrenza, come ad es. ....l’attività multimarca ...»; sul punto
si veda anche l’Opuscolo esplicativo al Regolamento n. 1400/02,
predisposto dalla Direzione generale della concorrenza della
Commissione europea, dove al par. 5.3.8., ancor più esplicitamente, si legge che «questa condizione [id est: l’onere di motivazione del recesso] è stata introdotta per impedire ad un fornitore
di sciogliere un contratto perché un distributore o un riparatore
tengono comportamenti che favoriscono la concorrenza, come le
vendite attive e passive a consumatori stranieri, le vendite di marche di altri fornitori o il subappalto dei servizi di riparazione e manutenzione»). Sulla questione della idoneità delle norme dettate
con i regolamenti d’esenzione per categoria di perseguire, oltre
che obiettivi di tutela della concorrenza (per i quali tali norme sono specificamente dettate) anche finalità proprie della tutela prettamente “privatistica”, v. Fabbio, op. cit., spec. par. 3.
15
Giurisprudenza
Contratti in generale
tenga generalmente accordata alle parti la possibilità di recedere (ad nutum) dal rapporto, dando alla
controparte un congruo preavviso (21). Si tratta di
una regola che (sebbene non formulata espressamente, viene considerata implicita nel sistema, in
quanto espressione di un principio generale (di ordine pubblico) in base al quale devono considerarsi
inammissibili vincoli personali perpetui o comunque a tempo indeterminato (22).
Le disposizioni da cui si desume tale regola sono
molteplici (23), e si tratta di norme che (considerata la ratio che le ispira (sembrerebbero certamente
da considerarsi inderogabili, quanto meno nel senso
che non dovrebbe ritenersi consentito all’autonomia privata di escludere (per quanto detto) la recedibilità da un rapporto a tempo indeterminato (24).
Non può invece ritenersi preclusa all’autonomia privata la possibilità di prevedere la necessità che l’esercizio del recesso (anche da un contratto a tempo
indeterminato) sia “giustificato” (analogamente a
quanto avviene - in linea di principio - per lo scioglimento unilaterale anticipato da un contratto a termine) (25), mentre per quanto concerne il profilo
della durata del periodo di preavviso, sebbene esso
sia tendenzialmente rimesso alla volontà delle parti,
va evidenziato come non di rado il legislatore regoli
questo aspetto con previsioni (anziché di carattere
dispositivo o suppletivo) di natura imperativa (con
conseguente limitazione, ancora una volta, dell’autonomia privata) (26).
Note:
(21) Cfr. Franzoni, Degli effetti del contratto, in AA.VV., Commentario del codice civile a cura di Schlesinger, Milano, 1998,
sub art. 1373, 325-326, ove si legge che «nei rapporti a tempo
indeterminato, qualora manchi la facoltà attribuita ad una parte di
adire il giudice per la fissazione del termine, il recesso si configura come rimedio di carattere sussidiario e generale nel contempo (...) Avendo il recesso una portata generale, sarà dato
ogni qualvolta il legislatore non abbia diversamente disposto,
con il solo limite del rispetto della buona fede, che può comportare l’osservanza di un preavviso, seppure non previsto nel contratto ...» (corsivo aggiunto).
(22) È questa la giustificazione che viene solitamente prospettata in dottrina: cfr., nella letteratura sul tema dell’ultimo cinquantennio, in part., Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Milano, 1962; Galgano, Degli effetti del contratto, in Commentario
del codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993,
62 (il quale osserva che, al fine di evitare vincoli perpetui, la legge impiega le due figure del termine finale e del recesso legale);
Franzoni, Degli effetti del contratto, cit., 323 (ove si osserva
esplicitamente che «il divieto dei vincoli perpetui è espressivo di
un principio di ordine pubblico» e si giustifica in virtù dell’esistenza di detto “principio” la possibilità di attribuire portata “generale” al recesso, sebbene questo sia per altro verso un istituto che deroga alla regola dell’art. 1372 c.c. circa la forza vincolante del contratto per ciascun singolo contraente); Roselli, Il recesso dal contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da Bes-
16
sone, XIII, Il contratto in generale, 5, Torino, 2002, 268-69. In
difformità da questa opinione v. Gabrielli-Padovini, voce Recesso
(dir. priv.), in Enc. dir., XXXIX, 1988, 29 ss., i quali obiettano che
la mancanza di un termine finale non necessariamente comporta la perpetuità del vincolo, poiché «il disinteresse manifestato in
ordine alla durata del rapporto non implica affatto interesse alla
perpetuità dello stesso» (onde - secondo questi autori - l’attribuzione di un potere di recesso in mancanza di un termine finale va
spiegata diversamente, e «non corrisponde ad una valutazione
negativa del vincolo da parte dell’ordinamento»). Al che si è, tuttavia, replicato che «se manca un termine finale, il rapporto è sicuramente a tempo indeterminato», e anche quest’ultimo tipo di
rapporto «seppure in misura minore rispetto al vincolo perpetuo,
è causa di quella limitazione all’esercizio dell’autonomia privata
che i rimedi dettati in numerose disposizioni [tra cui il diritto di recesso] tendono ad evitare ...» (così Franzoni, Degli effetti del
contratto, cit., 325).
(23) Un elenco di tali disposizioni si legge in De Nova, Il recesso,
in Sacco-De Nova, Il contratto, 2, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2004, 737-738.
(24) È diffusa la tesi che configura il diritto di recesso dai contratti a tempo indeterminato come “recesso determinativo”, ossia come atto che serve a determinare l’oggetto del contratto,
delimitandolo dal punto di vista della durata della prestazione: v.
in part., Gabrielli-Padovini, Recesso, cit., 29 ss., e la letteratura
ivi citata, cui adde, ad es., Sirena, I recessi unilaterali, in Roppo,
Trattato del contratto, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Milano,
2006, 113 ss., spec. 117, 121. Al riguardo v. anche Franzoni, Degli effetti del contratto, cit., 339 (ove si legge che «il ricorso al
giudice per la fissazione di un termine o il recesso costituiscono
modalità alternative per l’integrazione del contratto, qualora il
rapporto sia di durata e manchi la previsione della scadenza»), e
340 (ove si precisa che «Nella funzione determinativa non va ...
compresa quella di rendere determinato l’oggetto della prestazione dedotto in contratto», osservandosi che nei contratti di durata «la determinabilità della prestazione non è in funzione della
possibilità di indicare un termine finale, ma della persistenza dell’interesse di almeno una parte a ricevere la prestazione continuativa», e così - ad es. - «il corrispettivo di una somministrazione deve essere pattuito a prescindere dalla durata del rapporto
che può non essere prefissata, senza che da ciò derivi una indeterminatezza dell’oggetto del contratto, da determinarsi successivamente con il recesso...»).
(25) Si può tanto prevedere che la possibilità di recesso sia collegata alla sussistenza di determinate “cause” già predeterminate, sia che essa richieda soltanto l’esistenza (generica) di “una
causa”, nel qual ultimo caso si tratterebbe più che altro di un
onere di motivazione che verrebbe posto a carico del recedente.
(26) Il profilo del preavviso (di recesso) è variamente disciplinato
dal legislatore. Ad es. l’art. 1569 c.c. statuisce che si può recedere dalla somministrazione (a tempo indeterminato) dando
preavviso entro il termine pattuito o in quello stabilito dagli usi
ovvero, in mancanza, in un “termine congruo” avuto riguardo alla natura della somministrazione. Nel contratto di agenzia a tempo indeterminato, l’art. 1750 c.c. prevede che il recesso (ad nutum) possa essere esercitato con un preavviso, la cui determinazione viene lasciata alla autonomia dei contraenti, ma questa
volta con fissazione legale di limiti “minimi” (limiti che arrivano
sino a sei mesi nel caso di contratto che duri da sei anni o più).
Nel contratto di affiliazione commerciale, la norma dell’art. 3 l. n.
129 del 2004, che regola propriamente la durata minima del contratto (disponendo che essa deve essere sufficiente all’ammortamento degli investimenti effettuati dall’affiliato, e comunque
non può essere inferiore a tre anni), consente probabilmente di
desumere (implicitamente) una regola di non recedibilità dal contratto di affiliazione commerciale (ma v. anche la nota seguente)
in ipotesi stipulato a tempo indeterminato se non siano trascorsi
almeno tre anni dall’inizio del rapporto (e salva naturalmente la
ordinaria possibilità di risoluzione del contratto per inadempimento).
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
Quel che comunque preme sottolineare è che, nei
casi in cui opera (in assenza di diversa pattuizione)
la regola (generale) della libera recedibilità (salvo
preavviso) da un rapporto a tempo indeterminato
(27), in luogo di una regola di recedibilità (che potremmo definire, per distinguerla dalla prima) “causale” (28), ciò non può che significare che il legislatore ha valutato tale forma di recesso come congrua
rispetto agli interessi (particolari e generali) rilevanti (29).
In tale situazione, ammettere un sindacato sulla
“causa” del recesso (30) - causa che, per quanto appena detto, deve in questo caso ritenersi irrilevante
(significherebbe introdurre un tipo di controllo che
in thesi è stato escluso (in tale forma di recesso) dal
legislatore (31).
La conclusione così raggiunta, e cioè l’esclusione
della possibilità (nel caso considerato) di un controllo alla stregua del criterio dell’abuso del diritto
(32), vale - sia ben chiaro - proprio (e solo) perché,
in ipotesi, ci si trova di fronte ad un recesso ad nutum, e non ad un recesso che debba essere “motivato” (o meglio: debba risultare sorretto da una determinata “causa”) (33).
Infatti, il (tipo di) controllo dell’atto di esercizio del
diritto, che il sindacato basato sullo strumento dell’abuso implica, si fonda essenzialmente - come indica una formula assai diffusa (sull’accertamento di
una deviazione dell’esercizio del diritto rispetto allo
“scopo” per il quale il diritto stesso è stato attribuito
(34). Ma lo “scopo” per il quale il diritto di recesso
ad nutum - nelle varie ipotesi in cui esso opera - viene ammesso dal legislatore (che avrebbe, in teoria,
potuto prevedere una regola opposta, di recesso
“causale”), è, appunto, non altro che quello di consentire al recedente di potersi sciogliere dal contratto (di norma, dando un preavviso alla controparte)
senza la necessità di addurre alcuna particolare motivazione (e/o alcuna causa giustificatrice). Questo “scopo”
non è, dunque, violato se il contraente recede “immotivatamente”, e pertanto non può censurarsi l’esercizio del diritto sotto il profilo della “causa” (rectius: motivo) che lo ha determinato, quale che sia
tale causa, perché così facendo (lo si ripete) si introdurrebbe ex post una (nuova) qualificazione del di-
tratto non è regolato (contratto atipico), o non contiene in sede di
disciplina legale alcuna previsione in ordine alla facoltà di recesso (l’interprete possa colmare la “lacuna” anche pervenendo in
thesi al riconoscimento sì di un potere di recesso, ma tuttavia di
un potere di recesso non libero bensì subordinato alla sussistenza di una “giustificazione”. Conclusione alla quale - oltre che dalla eventuale applicazione analogica di specifiche previsioni in tal
senso contenute nella disciplina di un contratto “simile” -, l’interprete potrebbe ritenersi legittimato a pervenire magari in applicazione del canone di buona fede. Osserviamo, tuttavia, che:
a) una recedibilità (dai rapporti a tempo indeterminato) eventualmente subordinata non solo all’onere di un (congruo) preavviso,
ma anche alla sussistenza di una “causa giustificatrice”, potrebbe non costituire attuazione (piena) del principio che vieta la costituzione e la permanenza di vincoli perpetui. Il bilanciamento
degli interessi (contrapposti) delle parti,e in particolare la tutela
del contraente che subisce il recesso, pare assicurabile piuttosto
attraverso una adeguata disciplina del profilo del “preavviso”; b)
desumere dal canone di buona fede uno specifico obbligo/onere
di motivazione del recesso presuppone che si aderisca all’indirizzo (diffuso, ma tutt’altro che pacifico) secondo cui la buona fede
- anche nel nostro ordinamento - può essere configurata come
uno strumento di controllo dell’autonomia privata, in particolare
sia nel senso di costituire un parametro di validità del contratto
e/o delle clausole contrattuali, sia nel senso di porsi come fonte
di obblighi e/o di oneri ulteriori (integrativi) rispetto a quelli previsti dall’autonomia privata. Sulla figura del recesso ad nutum cfr.,
specificamente, Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Milano, 1965.
(28) Nel senso “forte”, di recesso possibile solo in presenza di
determinate “cause” (più o meno tassativamente individuate),
ovvero nel senso “debole”, di recesso che debba essere accompagnato da una “motivazione”. V. supra, nota 25.
(29) Cfr. Roselli, op. cit., 276, dove - con riferimento alle fattispecie di recesso ad nutum (si osserva che «in tanto il legislatore
permette il recesso di questo tipo in quanto ritiene di poter attenuare la forza vincolante del contratto, senza pregiudizio di interessi particolarmente rilevanti sotto il profilo socio-economico o
addirittura tutelati a livello costituzionale».
(30) La causa (rectius: il motivo) del recesso potrebbe essere stato esplicitato dal recedente (sebbene la legge non lo richieda), o
comunque risultare dagli atti di causa.
(31) Se, infatti, non è richiesta una “causa” per recedere, non c’è
neanche un “oggetto” su cui esercitare un controllo in questa direzione; e, quand’anche, accidentalmente, il motivo (o scopo) del
recesso risultasse enunciato e/o fosse comunque individuabile
(v. la nota precedente), non per questo esso cesserebbe di essere irrilevante, né per questo diventerebbe possibile un suo sindacato.
(32) Sul problema (più generale) se vi siano figure di diritto non
suscettibili di “abuso” v. Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato1997, III, L’abuso del diritto, Padova, 1998, 5 ss., 72 ss. (e ivi
il richiamo alla distinzione tra droits discrétionnaires o non causés da un lato e droits contrôlés o droits causés dall’altro).
Note:
(33) Intendiamo dire che un controllo basato sul criterio dell’abuso del diritto sarebbe ben possibile con riferimento a fattispecie
di recesso “qualificato” (e dunque, non ad nutum), come pure più in generale (con riferimento all’esercizio di altri diritti soggettivi. In ogni caso, poi - come vedremo nel paragrafo seguente
(l’esclusione del controllo in base al criterio dell’abuso, non
esclude che anche l’esercizio del diritto di recesso ad nutum
debba avvenire in conformità al canone della buona fede.
(27) Si potrebbe osservare che dal principio (di ordine pubblico)
secondo il quale l’ordinamento non ammette (e comunque non
favorisce) l’esistenza di vincoli perpetui, deriva semplicemente
la necessità di riconoscere alla parte di un rapporto a tempo indeterminato una facoltà di “recesso”, non anche una facoltà di
recesso ad nutum, ossia immotivato. Se si accedesse a questo
ordine di idee, si aprirebbe la strada all’idea che - se un dato con-
(34) Quello indicato nel testo è, in verità, solo uno dei criteri che
vengono indicati (e sono, talora, anche “codificati” legislativamente) come indici di un esercizio “abusivo” del diritto (si veda
in proposito Breccia, L’abuso del diritto, cit., 26-27), ma è anche
quello che meglio si presta a ricomprendere (e, per così dire, ad
assorbire) gli altri (intenzione esclusiva di nuocere, inammissibile
sproporzione tra l’interesse perseguito e quello sacrificato, ecc.)
I contratti 1/2010
17
Giurisprudenza
Contratti in generale
ritto (nel senso che si trasformerebbe un diritto di
recesso ad nutum in un recesso “causale”) ad opera
del giudice.
Su questo punto, allora, va riconosciuto che la sentenza della Corte d’appello di Roma probabilmente
non merita(va) le censure che le sono state rivolte
dalla Cassazione. Quando, infatti, i giudici della
Corte d’appello scrivono - come già si è ricordato che «(...) se l’autonomia privata ha riconosciuto la possibilità di recedere dal contratto, non è necessario alcun
controllo causale circa l’esercizio del potere (…)», essi
non intendono probabilmente dire cosa diversa da
quella che abbiamo appena precisato: e cioè che va
mantenuta ferma la differenza tra un diritto di recesso per dir così qualificato (rispetto al quale si giustifica un controllo “causale” dell’atto di esercizio della
prerogativa) (35) e un diritto di recesso ad nutum
(qual era quello previsto, nella fattispecie in esame,
dal contratto a favore della Renault), il quale ultimo
invece prescinde da una “causa” giustificatrice di cui
debba accertarsi la ricorrenza in concreto.
La differenza tra il sindacato dell’esercizio
del diritto alla stregua del criterio
dell’abuso (del diritto), e il sindacato
alla stregua del canone della buona fede
Dire che, nel caso di specie, l’esercizio del diritto
(trattandosi di un recesso ad nutum (non era sindacabile alla stregua del criterio dell’abuso (del diritto)
in quanto esso sfuggiva (per il suo stesso contenuto)
ad un controllo di tipo “causale” (nel senso or ora
precisato), non significa peraltro escludere che tale
esercizio sia (fosse) sottratto come tale a qualsivoglia
(altra) forma di controllo da parte del giudice (36).
In particolare deve riconoscersi che anche l’esercizio di un diritto di recesso ad nutum, se pur sfugga
(come appena detto) ad un controllo di tipo teleologico, non si sottrae invece ad un controllo in ordine
alle modalità con le quali il recesso risulti (nelle circostanze date) esercitato. Non si sottrae, insomma,
ad un controllo in base al canone della buona fede,
che costituisce fondamentale criterio di valutazione
del comportamento delle parti nell’esecuzione del
contratto (art. 1375 c.c.) (37).
Ha dunque ragione - sul piano dell’affermazione di
principio - la Cassazione quando, nella sentenza in
commento, sostiene la sottoposizione dell’atto di
esercizio del diritto di recesso (che veniva in considerazione nel caso di specie) al criterio valutativo
della buona fede. Ma questa affermazione è, al contempo, un’affermazione che si palesa erronea nel
momento in cui i giudici che la fanno mostrano di
ritenere che tale controllo si identifichi con il con-
18
trollo alla stregua del criterio dell’abuso del diritto.
È questo il punto fondamentale sul quale intendiamo richiamare l’attenzione in queste pagine. È noto,
infatti, come una delle più recenti ed approfondite
indagini sul tema dell’”abuso del diritto”, sia pervenuta alla conclusione secondo cui tale concetto,
sebbene si sottragga alle obiezioni di contraddittorietà “logica” che da sempre vengono sollevate nei
suoi confronti, non sfugga tuttavia ad un ulteriore (e
decisivo) rilievo: quello di essere, in definitiva, un
concetto superfluo (una “superfetazione”), in quanNote:
(35) E può, pertanto, verificarsi una discrasia tra lo/gli scopo/i per
il/i quale/i il diritto di recesso è ammesso, e lo scopo concreto in
vista del quale esso è stato esercitato.
(36) Come invece sembrerebbe affermare la sentenza della Corte d’appello di Roma, che - se così fosse - sarebbe certamente
non condivisibile con riferimento a tale affermazione “di principio”.
(37) È questo un punto che può considerarsi ormai abbastanza
consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza. Quanto alla prima si veda ad es. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano,
2000, 740-741 (secondo il quale il rispetto del principio di buona
fede esige, fra l’altro, che il potere di recesso unilaterale sia
esercitato in maniera da salvaguardare l’interesse dell’altra parte
se ciò non comporti per il recedente un apprezzabile sacrificio:
«così - scrive B. - l’importanza che il rapporto può avere per la
parte, e la difficoltà di trovare un immediato rimpiazzo, possono
richiedere che l’atto di recesso sia comunicato con un congruo
preavviso»; corsivo nostro); Santoro, L’abuso del diritto di recesso ad nutum, in Contr. e impr., 1986, 766 ss. (quest’a. - che muove, peraltro, dalla identificazione tra “abuso del diritto” ed esercizio “scorretto” o di mala fede del diritto (configura l’ipotesi dell’abuso in presenza di un “affidamento” della controparte e della mancanza di una “giusta causa” che renda ragione dell’atto
abdicativo, e per parare l’obiezione secondo cui in tal modo si finisce per eliminare qualsiasi differenza tra il recesso ad nutum e
le altre ipotesi per le quali il legislatore prevede l’esistenza di una
“giusta causa”, osserva che la distinzione permarrebbe, oltre
che per la diversa distribuzione dell’onere della prova [nel caso di
recesso ad nutum spettando a chi subisce il recesso l’onere di
dimostrare il carattere “affatto inopinato del recesso”], anche
perché nel caso di recesso ad nutum l’assenza di una attendibile ragione non viene in rilievo in sé, ma solo quale indice di un
esercizio “scorretto” del diritto); C. Scognamiglio, Il nuovo diritto dei contratti: buona fede e recesso dal contratto, in AA.VV., Il
nuovo diritto dei contratti. Problemi e prospettive, a cura di F. Di
Marzio, Milano, 2001, 357 ss. Quanto alla giurisprudenza, va soprattutto menzionata quella in materia di esercizio “abusivo”
(rectius: di mala fede) del diritto di recesso della banca dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato (v., tra le ormai numerose pronunce sul punto, nell’arco di poco più di un decennio: Cass. 21 maggio 1997, n. 4538, in Giust. civ., 1998, I,
509, con nota di Costanza; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321, in Corr.
giur., 2000, 1479 ss, con nota di Di Majo, La buona fede correttiva di regole contrattuali; nonché Cass. 21 febbraio 2003, n.
2642, in Giust. civ. Mass. 2003, 375): su questa giurisprudenza
v. anche Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum
della banca, in Contr. e impr., 1998, 18 ss., Baraldi, Le “mobili
frontiere” dell’abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum dall’apertura di credito a tempo indeterminato, in Contr. e impr.,
2001, 927, e, nella più recente manualistica, D’Amico, Comportamento del creditore. Mora accipiendi, in AA.VV., Diritto civile,
III, Obbligazioni, 1, Il rapporto obbligatorio, a cura di Lipari-Rescigno, Milano, 2009, 218 ss.
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
to destinato a coprire un terreno già occupato (e a
svolgere una funzione già assolta) dal criterio della
buona fede (38).
Chi scrive ritiene invece che i due concetti (come
già si è accennato (non siano coincidenti (39). Rimane, però, ancora da assolvere (sia pur con la sinteticità che l’occasione richiede) l’onere di indicare
nel modo il più possibile chiaro in cosa il criterio
dell’abuso del diritto si differenzi da quello della
buona fede, sul terreno del controllo degli atti di
esercizio di un diritto (o, più in generale, di una
“prerogativa” soggettiva) (40).
Come in altra occasione si è avuto modo di sottolineare (41), il controllo (di tipo “causale”) che il
principio che vieta l’abuso del diritto consente rispetto agli atti di esercizio di un “diritto” mira essenzialmente a verificare che attraverso tale esercizio il
titolare del diritto non cerchi di appropriarsi di “utilità” diverse ed ulteriori rispetto a quelle che con l’attribuzione del diritto l’ordinamento intende assicurargli.
Si tratta di una situazione diversa - va subito precisato (da quella in cui il diritto sia (in ipotesi) esercitato fuori dalla ricorrenza dei presupposti ai quali l’ordinamento ricollega il suo sorgere e/o la possibilità
del suo esercizio. Anche in quest’ultimo caso (al pari di quello in cui si “abusa” del diritto di cui si è titolari), il soggetto mira ad appropriarsi di utilità che
non gli spettano; solo che (a differenza di quel che accade nel caso di “abuso” (si tratta proprio delle utilità che ineriscono (in astratto) al contenuto di quel
diritto (e non di utilità diverse e ulteriori) e che però
in concreto non sono legittimamente pretendibili,
essendo assenti (in ipotesi) i presupposti per il sorgere e/o per l’esercizio del diritto; sicché, sindacando
l’esercizio del diritto si contesta in realtà l’esistenza
stessa del diritto (42).
Quando, invece, si ragiona in termini di “abuso” la
situazione è - in un certo senso (opposta rispetto a
quella appena descritta. In ipotesi, esistono infatti,
questa volta, tutti i presupposti ai quali l’ordinamento ricollega il sorgere e/o la possibilità di esercizio
del diritto, e il soggetto è quindi pienamente legittimato ad appropriarsi delle utilità che l’attribuzione
del diritto gli assicura. Può darsi, però - come sopra
Note:
(38) Cfr. Sacco, Il diritto soggettivo. L’esercizio e l’abuso del diritto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2001,
373 (ove si legge: «....La dottrina dell’abuso non contiene contraddizioni, né errori ... Ma la dottrina dell’abuso è superflua...
Essa è in qualche caso un medio logico inutile; negli altri casi un
inutile doppione. L’inclusione di una categoria parassita non vale
ad arricchire il sistema del giurista; lo rende più confuso»); e v.
I contratti 1/2010
anche, con riferimento a questo profilo, Gentili, A proposito de
“Il diritto soggettivo”, in Riv. dir. civ., 2004, II, 367. La sovrapposizione tra buona fede e abuso del diritto è abbastanza diffusa in
dottrina (oltre che in giurisprudenza, come dimostra la sentenza
qui in commento): cfr. ad es. - volendo limitarsi a due citazioni
che si collocano rispettivamente all’inizio e alla fine dell’ultimo
cinquantennio (Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso
del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1958, 26 ss., e Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2009, 556, spec. 568 ss. (il quale intitola il cap. XV «Il dovere di buona fede e l’abuso del diritto», anche se poi quest’ultimo a. concretamente prospetta un’interferenza tra i due criteri
solo a proposito dell’esecuzione del contratto, osservando che
«la violazione del dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto può anche configurarsi come abuso del diritto», e fa l’esempio - fra l’altro - del recesso ad nutum dal contratto di apertura di credito). Riguardo a tale sovrapposizione va intanto osservato come - anche a tacere degli altri argomenti cui alludiamo
nel testo (la possibilità di fondare l’abuso sulla regola di buona fede sembra avere una sua plausibilità (ma solo, comunque, in via
di posizione astratta del problema), per quanto riguarda il nostro
ordinamento, solo in materia di diritti “relativi” e più in generale
di diritti scaturenti da un contratto: diritti per il cui esercizio, appunto, il legislatore enuncia (negli artt. 1175 e 1375 c.c.) il criterio della correttezza/buona fede (ed è, infatti, limitatamente a
questo ambito che le due nozioni vengono accostate, ad es., in
Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 225 ss.,
232; e v. anche Cattaneo, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in Riv.trim. dir. proc. civ., 1971, 634 ss.), che non trova riscontro invece (almeno esplicitamente) nella disciplina di altri diritti (ad es. il diritto di proprietà), per i quali pure si può porre un
problema di esercizio “abusivo”. Diverso è il caso di altri ordinamenti, come ad es. quello svizzero (che è, fra l’altro, uno degli ordinamenti che “codifica” espressamente il divieto di abuso del
diritto in termini generali), nel quale la norma che prevede l’abuso (art. 2 del cod. civ. svizzero: «1. Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi. (2. Il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge») istituisce uno stretto legame tra questa figura e la violazione del dovere di buona fede.
(39) Sebbene con una impostazione diversa da quella sostenuta
in queste pagine, considera indebita la sovrapposizione tra (divieto di) “abuso del diritto” e regola di buona fede anche Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007,
passim, e spec. 147 ss.
(40) Per la necessità di non escludere dall’ambito di operatività
del principio che vieta l’abuso, le libertà e più in generale l’esercizio di semplici “prerogative” accordate ad un soggetto, v. per
tutti la fondamentale indagine di Rescigno, L’abuso del diritto,
cit., 225 ss., e, più di recente, Breccia, L’abuso del diritto, cit., 69
ss. In particolare, sulla possibilità di (e sui limiti entro cui è possibile) ricondurre al principio in esame anche il c.d. «abuso della libertà contrattuale» sia consentito anche il rinvio a D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale: nozione e rimedi, Relazione svolto
all’Incontro di studio di Siena, 18 settembre 2009 sul tema “La
formazione del contratto”, in corso di pubblicazione. Per una nozione più ampia di “abuso contrattuale” (quale ipotesi comunque riconducibile allo schema dell’«abuso del diritto» v., invece,
Di Marzio, voce Abuso contrattuale, in Enc. giur., 2007, I, 1 ss.
(41) Il riferimento è a D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale:
nozione e rimedi, cit. alla nota precedente.
(42) Si pensi - per restare nel campo del diritto di recesso (all’ipotesi in cui un datore di lavoro effettui un licenziamento “in
tronco” di un lavoratore, in mancanza di una “giusta causa” di
recesso dal rapporto di lavoro. Costituisce un’ipotesi di esercizio
“illegittimo” del diritto di recesso (e non di “abuso”) anche quella in cui sia dichiarata “fittiziamente” (simulatamente) la presenza di un certa causa del licenziamento, che in realtà avviene per
motivi diversi (ad es. per “liberarsi” di un lavoratore “scomodo”,
perché impegnato sindacalmente).
19
Giurisprudenza
Contratti in generale
si accennava - che il soggetto eserciti il potere che
gli è attribuito, non per conseguire queste utilità, che
ineriscono alla situazione di vantaggio di cui è titolare, bensì (essenzialmente) per conseguire altre e diverse utilità.
La situazione descritta è presa, in verità, in considerazione dal nostro legislatore con riferimento (non
tanto all’esercizio del diritto già verificatosi, quanto
piuttosto) alla minaccia di far valere un diritto, diretta
a conseguire “vantaggi ingiusti”, ipotesi disciplinata
dall’art. 1438 c.c. (43). Questa norma rende annullabile l’atto di autonomia quando la “minaccia” di
esercitare il diritto (minaccia che, in sé considerata,
non potrebbe certo dirsi “illecita”) sia posta in essere non tanto per manifestare l’intenzione di “pretendere” le utilità che ineriscono al diritto in questione,
quanto piuttosto per esercitare una (indebita) “pressione” sull’altra parte, costringendola (o, comunque,
cercando di indurla) a concludere un contratto, alle
utilità scaturenti dal quale (diverse - com’è chiaro dalle utilità che ineriscono al diritto di cui si prospetta l’esercizio) mira evidentemente l’autore della
minaccia (44).
Si potrebbe osservare che l’ordinamento sanziona
questo comportamento con l’annullabilità del contratto, e che la situazione ipotizzata dalla norma sia perciò
quella in cui la minaccia abbia avuto effetto, e il minacciato (in cambio dell’impegno del minacciante di
astenersi (magari solo per un certo tempo) dall’esercizio
del suo diritto (45) (abbia dunque “accettato” di concludere il contratto in tal modo “estorto”. Nulla direbbe invece la norma con riferimento alla situazione
opposta, ossia alla situazione in cui il minacciato non
abbia ceduto al “ricatto”, e il minacciante abbia dato
seguito alla minaccia, esercitando il diritto.
Tuttavia (anche ammesso ciò (non c’è dubbio che, se
pur indirettamente, dall’art. 1438 c.c. si desuma una
chiara qualificazione negativa (46) del comportamento di chi attraverso l(a minaccia di) esercizio del
diritto miri a procurarsi utilità diverse e ulteriori rispetto a quelle che il contenuto del diritto garantisce.
Certo, per riprendere il ragionamento precedente,
se il tentativo fallisce e queste (diverse e ulteriori)
utilità non vengono conseguite, si può anche pensare che l’esercizio del diritto (che a quel punto sarà in
grado di procurare al suo titolare nulla più di quanto
legittimamente gli spetta) non sia (o, se si vuole: torni a non essere) soggetto a sindacato e a censura.
Ma questa conclusione (anche a volerle dare credito
nella formulazione appena riferita (non si attaglia
comunque all’ipotesi che stiamo facendo, che è diversa. L’ipotesi che consideriamo, infatti, è quella
che attraverso l’esercizio del proprio diritto (si miri
20
ad ottenere e) si ottenga effettivamente (a spese della
controparte) un’utilità non rientrante (come tale)
nel contenuto del diritto, cosicché possa senz’altro
dirsi che il diritto è stato “utilizzato” per uno scopo
diverso da quello che ne aveva giustificato l’attribuzione al suo titolare. In altre parole, il soggetto, esercitando con queste finalità il diritto, consegue bensì
le utilità che ineriscono al diritto stesso, ma consegue altresì (a spese della controparte) delle utilità
ulteriori, che costituiscono il vero motivo per il quale
il diritto è stato esercitato (47).
Ora, non sembra dubbio che, generalizzando il
“principio” che (al di là della fattispecie specifica
considerata dalla norma) si desume dall’art. 1438
c.c., un simile comportamento non possa non dirsi
riprovato dall’ordinamento, siccome comportamento che merita appunto di essere qualificato come
“abuso del diritto”, e che ricorre dunque quando l’esercizio del diritto è posto in essere essenzialmente (se
non, addirittura, unicamente) per conseguire un “risultato” diverso da quello che costituisce l’utilità garantita dall’ordinamento attraverso quel diritto (48).
Note:
(43) Per il richiamo (fra le altre) alla disposizione dell’art. 1438
c.c., nella materia dell’abuso del diritto, v. già Natoli, Note preliminari, cit., 34 ss., e, più di recente, Sacco, L’esercizio e l’abuso
del diritto, cit., 355 ss. (dove l’art. 1438 c.c. viene - riassumendo
le indicazioni provenienti dalle analisi dottrinali - individuato come uno dei momenti di emersione normativa della riprovazione
dell’abuso). Sulla fattispecie dell’art. 1438 c.c. ci permettiamo di
rinviare a D’Amico, voce Violenza (dir. priv.), in Enc. dir., XLVI,
1993, 858 ss., spec. 870 ss. (ed ivi ulteriori riferimenti).
(44) Il vantaggio “ingiusto”, di cui parla la norma in esame, è un
vantaggio non dovuto, un vantaggio che non rientra nel contenuto del diritto di cui si minaccia l’esercizio.
(45) Cfr. Del Prato, La minaccia di far valere un diritto, Padova,
1990.
(46) Tanto da assimilare il comportamento considerato a quello
di chi estorca il contratto attraverso la minaccia di un male “ingiusto” (cioè di un male che il minacciato non è tenuto a subire,
non essendoci in ipotesi un “diritto” del minacciante di infliggere tale male).
(47) Il fatto che nel testo si parli di “motivo”, non deve far pensare che ci si intenda riferire ad una componente “psicologica”
(o comunque “soggettiva”). Deve essere chiaro, infatti, che l’indagine che l’interprete deve compiere al fine di accertare l’”abuso” è un’indagine eminentemente (ed esclusivamente) “oggettiva”, volta ad accertare se dall’esercizio del diritto sia stata tratta una “utilità” diversa e ulteriore rispetto a quelle assicurate di
per sé dal contenuto del diritto, e se questa utilità sia il vero scopo (nel senso, appunto, oggettivo di “risultato”) al quale l’esercizio del diritto era diretto.
(48) La disposizione dell’art. 1438 c.c. appare così il dato normativo che forse meglio consente di enucleare i caratteri dell’abuso
del diritto. Meglio (sicuramente (dell’art. 833 c.c. (relativo alla
classica figura della aemulatio), nel quale (ad es.) appare discutibile, perché troppo restrittivo, il requisito rappresentato dalla assenza di qualsiasi utilità per l’autore dell’atto di esercizio del diritto.
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
Restando nel campo del diritto di recesso, potrebbe
ricorrere la fattispecie dell’abuso - a volere tentare
una prima “concretizzazione” della direttiva appena
enunciata (se (in presenza dei presupposti che ne
consentono l’esercizio) il recesso venga posto in essere non tanto per porre termine al rapporto, quanto piuttosto per indurre (ad es. durante il decorso del
periodo di preavviso) la controparte a “rinunciare”
(in vista di una revoca del recesso) ad alcune pretese (derivanti dal pregresso svolgimento del rapporto), o per “rinegoziare” un rinnovo del rapporto a
condizioni più vantaggiose (49) e da una posizione
di maggiore “forza” (derivante dal timore della controparte che la relazione contrattuale possa interrompersi definitivamente) (50).
Nei rapporti tra imprese, in cui una delle parti si trovi in situazione di “dipendenza economica” rispetto
all’altra, la situazione descritta potrebbe integrare
(oggi), più specificamente, gli estremi dell’abuso di
dipendenza economica (art. 9 d.lgs. n. 192 del 1998,
sulla c.d. subfornitura), che il legislatore ha previsto
possa consistere anche nella interruzione arbitraria
della relazione contrattuale (51): con la conseguenza che - ove ciò si verifichi - il rimedio non sarà
quello (generale) che normalmente consegue all’abuso del diritto (e cioè: il risarcimento del danno)
(52), ma sarà lo “speciale” rimedio “invalidatorio”
previsto dal cit. art. 9 l. n. 192 del 1998 (53).
La fattispecie dell’abuso di dipendenza economica, da
ultimo richiamata, è peraltro (è bene precisarlo (in
sé considerata, una fattispecie di abuso di una situazione di fatto, non di abuso del diritto (54): anche quanNote:
(49) È opportuno, peraltro, sottolineare che la rinegoziazione delle condizioni contrattuali, dopo aver esercitato il recesso dal rapporto, non è di per sé indice di un comportamento di “abuso”
del diritto di recesso. Può ben darsi infatti che una parte si sia riservata nel contratto la facoltà di recedere (e che l’altra parte abbia accordato tale facoltà) proprio al fine di disporre di uno strumento per potersi sciogliere dal vincolo in presenza di una mutata situazione di mercato, o, comunque, di un cambimento delle condizioni dalle quali deriva la convenienza (soggettiva) dell’operazione. In tal caso, rinegoziare con la medesima controparte
le condizioni del rapporto, al fine di pervenire (eventualmente) alla stipula di un nuovo (e più conveniente) contratto, non costituisce di per sé un comportamento che denoti l’abusività del precedente recesso.
(50) Si tratta di fattispecie che - come è agevole intuire - potrebbero, ricorrendo tutti gli altri presupposti, integrare l’ipotesi di cui
all’art. 1438 c.c. (alla quale si è sopra fatto riferimento): così ad
es. nel caso in cui la (minaccia de)l recesso sia prospettata al fine di concludere una transazione vantaggiosa, oppure per stipulare un accordo modificativo e/o novativo dei precedenti patti
(anche in questo caso, a condizioni vantaggiose per il virtuale
“recedente”). V. anche quando diciamo subito infra (nel testo e
nella nota seguente), a proposito della qualificabilità di tali fattispecie (quando ineriscano a un contratto tra imprese) anche alla
I contratti 1/2010
stregua dell’art. 9 l. subfornitura (ove ricorrano, ovviamente, tutti gli altri elementi richiesti da tale norma), con la possibilità però
in tal caso che sia diverso anche il rimedio (la nullità, anziché l’annullabilità ex art. 1438 c.c. o il mero risarcimento del danno).
(51) Va, peraltro, osservato che non sembra questo il caso della
fattispecie decisa nei tre gradi di giudizio conclusisi con la sentenza della Cassazione n. 20106/2009. In primo luogo perché, nel
caso concreto, all’epoca dei fatti (ossia all’epoca in cui era stato
esercitato il diritto di recesso) la legge 18 luglio 1998, n. 192 sulla subfornitura non era ancora stata emanata (per una fattispecie
in cui, invece, poteva - almeno astrattamente (trovare applicazione ratione temporis la disciplina dell’abuso di dipendenza economica, v. la già citata ordinanza di Trib. Roma 27-10/5-11-2003, Autofur s.r.l. c. Renault Italia S.p.a., che ha peraltro negato in concreto la ricorrenza nella specie di una ipotesi integrante gli estremi di cui all’art. 9 l. subforn. ). In secondo luogo perché,
quand’anche tale legge fosse già stata in vigore, non sembra che
il recesso concretamente esercitato dalla Renault nei confronti
dei suoi concessionari presentasse carattere “abusivo”, nel senso che abbiamo cercato di precisare nel testo (appropriazione nei confronti della controparte (di una utilità diversa e ulteriore rispetto a quelle assicurate dal contenuto del diritto).
(52) V. anche infra, nota 63.
(53) La fattispecie dell’art. 9 richiede la presenza di elementi
“specificanti” (rispetto al “generico” contesto, nel quale può verificarsi un “abuso del diritto”), che giustificano la più “specifica”
sanzione disposta dal legislatore rispetto al semplice risarcimento del danno: tra tali elementi, va ricordato in particolare quello
per cui una delle imprese contraenti deve trovarsi in una situazione di “dipendenza economica”, e cioè in una situazione che in
particolare si caratterizzi per la mancanza di una reale possibilità
di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Mentre quindi per dirla altrimenti e in maniera semplificata - un “generico” abuso del diritto di recesso dà luogo (e poteva dar luogo anche prima
della l. n. 192 del 1998) ad una reazione in termini meramente
“risarcitori”, un recesso che risulti (oggi) integrare la fattispecie
“specifica” di un abuso di dipendenza economica sarà suscettibile di implicare l’applicazione di un rimedio non solo di tipo risarcitorio, ma altresì di tipo “reale” (nullità del recesso; a meno che
si escluda che la formula di cui al 3° comma dell’art. 9 l. n. 192
del 1998 possa essere applicata, sia pure in via di interpretazione
estensiva anche ad atti unilaterali - oltre che ai “patti” (attraverso
i quali possa essersi realizzato un “abuso” di dipendenza economica). Il che dà ragione del novum introdotto, anche sotto il profilo considerato, dalla legge sulla subfornitura.
(54) Con l’abuso del diritto, l’ipotesi dell’abuso di dipendenza
economica ha in comune la circostanza che anche qui colui che
“abusa” cerca di ottenere “vantaggi” ai quali non ha “diritto”
(per la descrizione del fenomeno, e per i doverosi riferimenti bibliografici, si consentito il rinvio a D’Amico, Il terzo contratto. La
formazione, in AA.VV., Il terzo contratto a cura di G. Gitti-G. Villa,
Bologna, 2008, 61 ss.). Per la distinzione tra “abuso del diritto” e
“abuso di una situazione di fatto” v. (per una più ampia argomentazione) D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale: fattispecie e rimedi, cit. Come già accennato supra, alla nota 50, secondo peraltro un orientamento alquanto diffuso, sarebbe possibile
ricondurre al concetto e alla problematica dell’”abuso del diritto”
anche le situazioni di “abuso” del potere contrattuale (nelle varie
configurazioni che possono assumere: abuso di posizione dominante, abuso di dipendenza economica, clausole “abusive” nei
contratti dei consumatori, ecc.): cfr., ad es., oltre Di Marzio, Abuso contrattuale, già citato, Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola
generale?, in Riv. dir. civ., 2005, I, 663 ss.; Breccia, L’abuso del diritto, cit., passim e spec. 37 ss.; Sacco, L’abuso della libertà contrattuale, in Diritto privato 1997, cit., passim. Posizione questa
che è, ad un tempo, causa ed effetto (a nostro avviso (della sovrapposizione tra “abuso del diritto” e regola di “buona fede” (v.
supra, testo e nt. 38), che non a caso è fondamentalmente “assunta” (sia pure in prospettive diverse) dagli autori or ora citati.
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Giurisprudenza
Contratti in generale
do l’abuso ex art. 9 l. n. 192 del 1998 si realizzi attraverso l’esercizio “strumentale” di un diritto (55)
(ad es. di recesso), ciò che appare scriminante (ai fini della possibilità di ritenere sussistente la fattispecie in esame) è che il comportamento “abusivo”
(56) sia (stato) reso possibile non (tanto e non solo)
dalla titolarità del diritto esercitato, quanto piuttosto dalla situazione di “dipendenza economica” in
cui si trova la controparte.
Per concludere su questo punto, merita di essere infine evidenziato che il sindacato degli atti di esercizio
dei diritti attraverso la tecnica dell’abuso del diritto
(e cioè attraverso un controllo “causale”) deve ritenersi, per sua natura, idoneo a condurre alla affermazione della sussistenza dell’abuso solo in ipotesi (tendenzialmente) limitate e circoscritte. E in tal senso i criteri
che solitamente vengono valorizzati dalle dottrine
sull’abuso del diritto (l’intenzione di nuocere, e, soprattutto, la circostanza che lo scopo ulteriore che attraverso l’esercizio del diritto si persegue appaia come lo
scopo essenziale, se non l’unico, per il quale il diritto
stesso è stato esercitato) possono fornire delle utili direttive per evitare che il controllo sull’esercizio dei diritti veicoli forme di valutazione giudiziale eccessivamente ampie e, in definitiva, improprie (57).
Limitazioni alle quali si sottrae il (diverso) tipo di
“controllo” che viene posto in essere quando si valuta l’esercizio dei diritti (in particolare: dei diritti che
scaturiscono da un contratto) attraverso il canone
della buona fede in executivis, sancito dall’art. 1375
c.c.
La differenza tra le due forme di “sindacato” (per venire così al punto centrale e al contempo conclusivo
del ragionamento che, sia pur sinteticamente, si è
inteso svolgere in queste pagine (va precisamente riposta in ciò, che mentre l’applicazione della tecnica
dell’abuso del diritto implica (come già visto) un
controllo “causale” dell’atto di esercizio del diritto
(perché mira ad evitare che quest’atto di esercizio
possa ipoteticamente essere stato posto in essere per
conseguire uno scopo/risultato diverso e ulteriore rispetto alle utilità che l’ordinamento garantisce al titolare della situazione giuridica attiva), nel caso in
cui il controllo sull’esercizio del diritto viene operato attraverso il canone della buona fede non si sindaca lo “scopo” per il quale tale esercizio è avvenuto
(scopo che, in thesi, si deve immaginare corrispondente alla finalità per la quale è avvenuta l’attribuzione del diritto), ma si censurano piuttosto le modalità con le quali esso si è realizzato (58), modalità
Note:
(55) Ciò che non sempre accade, ben potendosi avere compor-
22
tamenti “abusivi” ex art. 9 L. 192/98 che non consistono in atti
di esercizio di un “diritto”.
(56) Rectius: contrario a buona fede. È il caso di ricordare che
(anche prima dell’introduzione della legge sulla subfornitura, e
senza invocare la teorica dell’abuso del diritto (la dottrina aveva
fatto ricorso al principio di buona fede come principio idoneo a
governare «il delicato intreccio di interessi provocato dalla fine
della cooperazione tra i partners» nei rapporti di distribuzione integrata (cfr. Pardolesi, voce Contratti di distribuzione, in Enc.
giur. Treccani, IX, 1988, 8 ss.; e, già prima, Id., I contratti di distribuzione, Napoli, 1979, 299 ss.). In questa prospettiva, era
stata sollevata in particolare «l’esigenza di proteggere il concessionario e gli investimenti da lui compiuti contro il pericolo di recesso unilaterale o del mancato rinnovo da parte del produttore», e - prendendo appunto a base il principio di buona fede (art.
1375 c.c.), oltre che alcune disposizioni specifiche (artt. 1671,
2237 e 1727 c.c.) (si era proposto di considerare illecito il recesso intimato dal concedente (senza giusta causa) prima che fosse
trascorso un lasso di tempo sufficiente ad accordare al concessionario una ragionevole chance di recupero degli investimenti
che lo scioglimento rende irrecuperabili, e di riconoscergli conseguentemente una tutela risarcitoria (cfr. Pardolesi, I contratti
di distribuzione, cit., 323 ss.; e v. anche Cagnasso, La concessione di vendita. Problemi di qualificazione, Milano, 1983, 118
ss.).
(57) Il pericolo è, soprattutto, che attraverso l’esigenza di reprimere gli “abusi” si finiscano per introdurre forme di controllo
che possano rimettere in discussione diritti e/o prerogative riconosciute dall’ordinamento ai soggetti. Bisogna evitare ad es. che
attraverso il controllo sull’abuso il giudice arrivi a sindacare il merito delle scelte imprenditoriali, quando queste debbano ritenersi essenzialmente libere in quanto incidenti sul rischio che l’imprenditore assume nello svolgimento della propria attività (ad
es.: esigenze di ristrutturazione della rete di vendita, che siano
poste a base del recesso; come avveniva nella vicenda di cui ci
stiamo occupando). Peraltro va osservato che l’esperienza giurisprudenziale, in un campo abbastanza emblematico qual è quello dei licenziamenti dei lavoratori subordinati, mostra come i giudici si guardino bene dal sindacare (in presenza di un giustificato
motivo “oggettivo”, e in particolare di un licenziamento per ristrutturazione aziendale) il merito delle scelte dell’imprenditore,
mostrando così consapevolezza che un tale sindacato finirebbe
per risolversi nella lesione della fondamentale libertà di iniziativa
economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost.
(58) La distinzione tra i due profili - va ammesso -, per quanto
chiara sul piano concettuale, può in concreto (e in relazione a determinate fattispecie) rivelarsi difficile da operare. Emblematico
è, ad es., il caso delle “clausole vessatorie” o “abusive” (fattispecie che a nostro avviso va inquadrata nel fenomeno dell’abuso del diritto: v. D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale nei
contratti dei consumatori, in Riv. dir. civ., 2005, I, spec. 646 ss.):
e, infatti, l’utilizzazione dello speciale “potere” di autonomia
contrattuale (che l’ordinamento accorda all’imprenditore consentendogli di adoperare “condizioni generali di contratto”) per
uno “scopo” diverso da quello per il quale quel potere è accordato (profilo che consente, appunto, di richiamare lo schema dell’abuso del diritto) si intreccia con la violazione della buona fede
(si veda la definizione di clausola vessatoria ora contenuta nell’art. 33 cod. cons., e sempre che si accetti di interpretare la
“buona fede” cui allude questa norma come buona fede in senso oggettivo, e non come buona fede in senso soggettivo). Un
esempio speculare è fornito dall’ipotesi dell’”abuso” di dipendenza economica (fattispecie che a nostro avviso non va inquadrata nel fenomeno dell’abuso del diritto), la quale pure mostra
come la violazione della buona fede possa in taluni casi emergere proprio attraverso la considerazione dello scopo del comportamento (scopo che - nell’ipotesi di “abuso” di dipendenza economica (consiste nel tentativo dell’imprenditore in posizione di
dominanza relativa di appropriarsi, in sede di svolgimento del
rapporto, di una parte dell’utile che in base al contratto spetterebbe alla controparte contrattuale).
I contratti 1/2010
Giurisprudenza
Contratti in generale
che per l’appunto possono essere tali da fare ritenere
sleale la condotta del contraente (59) (ad es.: recesso improvviso, esercitato nonostante il comportamento precedente del recedente abbia colposamente indotto nella controparte il legittimo affidamento
circa la continuazione del rapporto) (60).
Tornando alla vicenda concreta che veniva in rilievo nel caso di specie, appare chiaro allora che ciò
che i concessionari “revocati” lamentavano - assumendo che il recesso era risultato (nonostante l’avvenuta intimazione del “preavviso”) inaspettato e
sorprendente, avendo la società concedente col proprio comportamento ingenerato il legittimo affidamento circa la continuazione del rapporto - era proprio una violazione del dovere di buona fede, più
che un “abuso” del diritto (di recesso) (61).
Violazione il cui accertamento - se è vero quanto si
è cercato in queste pagine di argomentare - da un lato non è condizionato e “circoscritto” dalla necessità di riscontrare particolari circostanze “(de-)qualificanti” (ad es. il dolo, inteso come intenzione di
nuocere) (62), ma dall’altro deve limitarsi ad un
controllo di tipo esclusivamente “procedurale” (il
controllo sulle modalità dell’agire), che non può
spingersi a sindacare i motivi (o lo “scopo”) per il
quale il recesso (ad nutum) è stato posto in essere
(63).
Il non avere tenuto distinti questi (diversi) piani è
uno degli errori che possono imputarsi alla pronuncia commentata, la quale (non riuscendo a cogliere
il distinto modo di operare del criterio dell’abuso e
di quello della buona fede, e anzi realizzando una
(indebita) commistione e confusione tra queste (diverse) tecniche di controllo degli atti di esercizio dei
diritti - finisce non solo per non risolvere il problema del rapporto tra buona fede ed abuso, ma anche
per rendere più confuso il profilo teorico di ciascuno
di questi due “concetti”, che si vede attribuite caratteristiche e funzioni che non gli sono proprie e che
sono invece proprie dell’altro.
sionari era avvenuta per iniziativa di questi ultimi e non su sollecitazione della società concedente, e comunque rientrava nell’ambito dell’osservanza degli obblighi contrattuali alla quale i
concessionari erano tenuti anche in pendenza del preavviso di
recesso (della durata di un anno) e sino alla data di scioglimento
del rapporto. Attesa l’insindacabilità nel merito di queste valutazioni nel giudizio in Cassazione, i giudici del Supremo Collegio
avrebbero potuto ritenere (eventualmente) contraddittoria e/o illogica la motivazione sul punto dei giudici di merito. Essi, invece,
hanno scelto la strada di cassare (con rinvio) la sentenza impugnata, per erronea interpretazione e applicazione di principi di diritto (in particolare del principio che vieta l’abuso del diritto), rimettendo al giudice del rinvio una valutazione fattuale che in
realtà era stata già effettuata (e che evidentemente la Cassazione non ha condiviso).
(61) V. anche la nota precedente.
(62) La terminologia è quella di Sacco (op. cit., 326,341), il quale
individua (descrittivamente) l’atto “abusivo” come «l’atto reso
tale da circostanze concomitanti che lo dequalificano».
(63) Anche sul piano dei rimedi - come si è avuto modo, sia pure
incidentalmente, di accennare nel corso di questa Nota (abuso
del diritto e violazione della buona fede si pongono su piani diversi. Mentre, infatti, la violazione del dovere di buona fede (fattispecie dell’esercizio “scorretto” di un diritto in sede di esecuzione del contratto) comporta come tale un rimedio di tipo risarcitorio, l’abuso del diritto - sebbene anch’esso sanzionato tendenzialmente attraverso una forma di “responsabilità” (lascia
aperta la possibilità di una tutela (per così dire) “reale”, che si
esprima attraverso rimedi diversi dal mero risarcimento del danno (sul punto v. ad es. Breccia, L’abuso del diritto, cit., 30 ss.).
Note:
(59) È l’indicazione che si ricava dalla giurisprudenza, già sopra
citata, sul recesso ad nutum dal contratto di apertura di credito a
tempo indeterminato (v. supra, nota 37).
(60) La valutazione di questo profilo (che attiene, peraltro, ad una
tipica questione di fatto) non era mancata - come già si è avuto
modo di segnalare (nei due gradi di merito del giudizio relativo alla vicenda in esame (e soprattutto nel primo). L’esistenza di un
“legittimo affidamento” (nella prosecuzione del rapporto) era
stata, in particolare, esclusa con due argomentazioni: a) anzitutto perché il supposto “affidamento” sarebbe dovuto sorgere a
recesso già intimato (e in pendenza del termine di preavviso), il
che già di per sé indeboliva la tesi dei concessionari; b) in secondo luogo perché l’effettuazione di (ulteriori) “investimenti”
(anche, talora, con apertura di nuove sedi) da parte dei conces-
I contratti 1/2010
23
ABUSO DEL DIRITTO, BUONA FEDE,
RAGIONEVOLEZZA (VERSO UNA RISCOPERTA
DELLA PRETESA FUNZIONE CORRETTIVA
DELL’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO?)
di Claudio Scognamiglio (*)
1. La sentenza della Corte di Cassazione,
terza sezione civile, 18.9.2009, n. 20106, ha subito dato vita ad un dibattito ricco e vivace ( 1 );
né poteva essere altrimenti, alla luce della abbondanza, se non della sovrabbondanza ( 2 ), di
spunti costruttivi e di riflessione che la sentenza offre, sia dal punto di vista della metodologia stessa dell’argomentare, e del decidere, sia
con specifico riferimento ad alcuni degli snodi
di maggiore importanza della riflessione attuale sull’autonomia privata, da essa toccati, anche se non sempre in maniera pienamente consapevole ed avvertita.
Infatti, e cominciando dalle questioni afferenti alla metodologia argomentativa della sentenza, è stato subito, correttamente, rilevato
che la sentenza «è emblematica del dilagare di
un modello argomentativo in cui il giudice at-
(*) Il presente scritto riprende e rielabora il testo
della relazione presentata al Convegno Autonomia
privata, recesso e abuso del diritto, tenutosi presso la
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Siena il 20-21.11.2009 e costituisce parte di un
più ampio scritto dell’a.
( 1 ) Si segnalano, in particolare, ed allo stato, i
contributi di Macario, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da
una recente sentenza della Cassazione, in Corr. giur.,
2009, n. 12, 1577 ss.; D’Amico, Recesso ad nutum,
buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, 11;
Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, in
corso di pubblicazione, in Contratti, 2010.
( 2 ) Si intende alludere non solo alla circostanza,
che sarà tra breve più ampiamente argomentata, della presenza nella sentenza di una manifesta sproporzione argomentativa tra la reale ratio decidendi ed i
diffusi obiter dicta, ma anche al rapporto tra il contenuto decisorio della sentenza e quello delle pronunce dei giudici di merito, e segnatamente della
Corte d’appello, annullata dalla Cassazione.
NGCC 2010 - Parte seconda
tinge direttamente la soluzione del caso concreto dalla dimensione dei principi, quasi disinteressandosi della mediazione delle regole,
così condannate ad un progressivo deperimento», sottolineandosi la pericolosità di tale «egemonia dei principi... perché vestita di pretese
moralizzanti, aggravata da un uso disinvolto e
grossolano degli stessi», come tale idonea ad
incidere «negativamente sul tasso di prevedibilità delle decisioni» ed a disvelare «una deriva
che – magari sotto le mentite spoglie della giustizia contrattuale – nasconde l’arbitrio del giudice» ( 3 ).
Un’altra notazione che si impone, sempre sul
versante della tecnica argomentativa, è quella
attinente alla molteplicità di obiter dicta dai
quali la sentenza è disseminata.
Infatti, ed a fronte di una ratio decidendi che
poteva essere abbastanza agevolmente circoscritta all’affermazione, di per sé tutt’altro che
eversiva ( 4 ), della sindacabilità del recesso dal
contratto secondo buona fede, ovvero alla stregua dello strumento concettuale dell’abuso del
diritto ( 5 ), anche nelle ipotesi in cui lo stesso
non sia normativamente, o pattiziamente, an( 3 ) Così Restivo, Abuso del diritto e autonomia
privata, cit.
( 4 ) Secondo quanto risulta, del resto, dalla stessa
giurisprudenza citata da Cass., 18.9.2009, n. 20106,
(pubblicata supra, parte prima, 239) ; ci si permetta
il rinvio, sul punto, a quanto osservavamo, sul tema
del controllo secondo buona fede dell’esercizio del
diritto di recesso dai contratti di durata, nel nostro
Il nuovo diritto dei contratti: buona fede e recesso dal
contratto, in Il nuovo diritto dei contratti: problemi e
prospettive, Giuffrè, 2004, 357 ss.
( 5 ) Prescindendo, in questa sede, dalle perplessità, motivatamente sollevate da D’Amico e Restivo,
nei due scritti citati alla nota 2, sulla sovrapposizione, e confusione, che la sentenza opera tra sindacato
dell’esercizio del diritto alla stregua del criterio del139
Discussioni
corato al presupposto di una giusta causa o di
un giustificato motivo, la Corte di Cassazione
ha ritenuto di spingersi, e forse sarebbe il caso
di dire di avventurarsi, su terreni eccentrici rispetto a quello che doveva costituire il termine
di riferimento della decisione e per di più decisamente scivolosi: dalle conseguenze del compimento di un atto in violazione della regola di
buona fede ( 6 ), alla, pur molto sintetica, riproposizione di un possibile ruolo operativo, quale tecnica di controllo degli atti di autonomia
privata, della regola della funzione sociale della
proprietà, ex art. 42 Cost. ( 7 ), all’affermazione
l’abuso del diritto e sindacato alla stregua del canone della buona fede.
( 6 ) La sentenza si occupa del tema nell’ambito di
una digressione di diritto societario, osservando che
«in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società,
l’esercizio del diritto di voto sotto l’aspetto dell’abuso
di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario,
quello di non abusare dei propri diritti – con approfittamento di una posizione di supremazia – con l’imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza,
di un vincolo desunto da una clausola generale quale
la correttezza e buona fede (contrattuale)» e pervenendo appunto alla conclusione che «la conseguenza
è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta
la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo
scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli
di minoranza, in violazione del canone di buona fede
nell’esecuzione del contratto»: sotto questo profilo, è
appena il caso di notarlo, e proprio per la palese
esuberanza della digressione sul punto rispetto ai temi di causa, la sentenza pare voler apportare un sia
pure del tutto incidentale spunto critico al dibattito
sul principio di non interferenza tra regole di validità e regole di correttezza, che sembrava avere trovato una definitiva composizione con le note sentenze
della Cass., sez. un., nn. 26724/2007 e 26725/2007,
oggetto, soprattutto a seguito dell’intervento delle
Sezioni Unite, di un dibattito molto approfondito, ci
si permetta il rinvio al nostro Scognamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi e i rimedi,
in Eur. e dir. priv., 2008, 599 ss.
( 7 ) Regola che, secondo l’accenno che si legge
nella sentenza della Supr. Corte, parrebbe, dunque,
vedersi attribuire addirittura una portata generale e
tale da sporgere ben al di là della disciplina conformativa del diritto di proprietà: in termini giustamen140
di un necessario scrutinio di proporzionalità
dell’atto (nel caso di specie, il diritto di recesso) al fine (lo scioglimento del contratto di
concessione), scrutinio di proporzionalità in
grado di sfociare, secondo uno dei passaggi più
discutibili di tutta la sentenza «in una certa procedimentalizzazione nell’esercizio del diritto di
recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità)» ( 8 ), fino
all’enunciazione secondo la quale «la buona fede... serve a mantenere il rapporto giuridico nei
binari dell’equilibrio e della proporzione», che
si specifica, dall’angolo visuale dell’interpretazione del contratto (tema, a sua volta, totalmente estraneo al novero delle questioni di diritto che le parti avevano sottoposto alla Corte)
nell’enunciato secondo il quale «il criterio della
buona fede costituisce... uno strumento, per il
giudice, finalizzato al controllo – anche in senso
modificativo o integrativo – dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento
dei contrapposti interessi», al punto che «il giudice, nell’interpretazione secondo buona fede
del contratto, deve operare nell’ottica dell’equilibrio fra i detti interessi».
L’obiettiva divaricazione tra le effettive esigenze argomentative, che richiedevano le questioni devolute all’attenzione della Supr. Corte
con i motivi di ricorso, ed apparato motivazionale della sentenza risulta ancora più marcata,
ove si consideri che – come è stato puntualmente dimostrato già in sede di primo commento alla sentenza ( 9 ) – la decisione della
Corte d’appello, oggetto dell’impugnativa, pute critici, su questo passaggio, della sentenza D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede ed abuso del diritto, cit.
( 8 ) In altre parole, la Corte pare ritenere che, alla
stregua dell’oscuro, se non decisamente fumoso, criterio della proporzionalità, si potrebbe costruire, in
un contesto in cui la fonte legale o contrattuale disciplinatrice del rapporto attribuisce ad un contraente il diritto di recesso pure in difetto di giusta
causa o giustificato motivo, un obbligo di avviare
previamente (al recesso) trattative con controparte
ovvero un’obbligazione indennitaria, pur nell’assenza di qualsiasi regola, legale o pattizia, attributiva
del corrispondente diritto alla parte che abbia subito il recesso.
( 9 ) Il riferimento è al già menzionato scritto di
Macario, cit., 1579 s., nt. 4, dove si legge, appunto,
NGCC 2010 - Parte seconda
Abuso del diritto
re a sua volta caratterizzata da una certa indulgenza verso modalità argomentative sovrabbondanti, oltre che non sempre condivisibili,
recava, comunque, una motivazione, in punto
di fatto, sull’assenza di profili di abusività, o
contrarietà a buona fede, del recesso della parte convenuta in giudizio. Ed è evidente che tale
profilo motivazionale della sentenza d’appello
avrebbe consentito alla Corte di cassazione,
salvo il controllo sull’eventuale carenza o contraddittorietà della motivazione, di saltare
senz’altro tutta la parte, per così dire, ricostruttiva e teorica della propria decisione.
Sul piano del discorso relativo alle modalità,
ed alle tecniche, dell’argomentazione e della
decisione, dunque, la conclusione suggerita dal
raffronto tra la sentenza di appello e quella di
cassazione, che ha dato spunto a queste notazioni, è quella della (confermata) pericolosità
delle sentenze, che potremmo definire, manifesto, in questo caso, più che trattato: e cioè delle
sentenze che, cedendo alle suggestioni di temi
culturalmente accattivanti, quali sono quelli
del rapporto tra l’atto di autonomia privata (e
gli interessi attraverso di esso realizzati) e la valutazione che ne opera l’ordinamento, si avvolgano nelle spirali di un’impostazione fortemente ideologica di esso. E qui, infatti, ad una lettura fortemente ideologica, e per certi versi superata, del rapporto tra autonomia privata e
controllo giurisdizionale, proposta dalla Corte
d’appello (secondo le linee della motivazione
della quale si legge criticamente nella sentenza
della Supr. Corte), si è contrapposta subito una
risposta altrettanto ideologica di quest’ultima.
Le considerazioni fin qui svolte sembrerebbero dover costituire il prologo ad una riflessione sulla sentenza della cassazione in esame,
che, sfrondata senz’altro la motivazione della
stessa dalle incrostazioni degli obiter dicta, conduca al cuore del problema della sindacabilità
secondo buona fede, ovvero attraverso il prisma dell’abuso del diritto, dell’atto di esercizio
del diritto di recesso pure non condizionato
un’ampia esposizione del percorso argomentativo in
fatto prescelto dalla Corte d’appello (mentre nella
sentenza della Corte di cassazione ci si sofferma criticamente solo sugli svolgimenti in diritto della sentenza di merito).
NGCC 2010 - Parte seconda
dalla sussistenza di una giusta causa o di un
giustificato motivo.
Non è questo, tuttavia, l’approccio qui seguito, dato che le brevi considerazioni che saranno svolte saranno invece dedicate proprio
ad uno quei nuclei argomentativi della sentenza, poc’anzi assai agevolmente identificati come obiter dicta: e cioè la pretesa portata modificativa/integrativa dello statuto negoziale,
ascrivibile alla clausola di buona fede, nonché,
in particolare, l’obbligo del giudice, quando
proceda all’interpretazione secondo buona fede del contratto, di operare nell’ottica del contemperamento, ed anzi dell’equilibrio, degli interessi dei contraenti.
Né in questa impostazione deve essere ravvisata una contraddizione con l’operazione,
poc’anzi svolta, di selezione, all’interno della
motivazione della sentenza, tra ratio decidendi
ed obiter dicta: ed infatti anche un’argomentazione resa solo in via incidentale dalla Supr.
Corte, e fuori fuoco rispetto alle necessità decisorie che vengano in quel caso in considerazione, può essere in grado di assumere una valenza quanto meno suggestiva o persuasiva con riferimento ad altri casi, secondo quanto è dimostrato già dal rilievo empirico che la massimazione della sentenza, che si legge in una delle
banche dati giuridiche più consultate, esibisce
come massime anche enunciazioni rese palesemente obiter ( 10 ).
( 10 ) Si intende alludere alle massime nelle quali è
stata condensata la sentenza nella Banca dati Utet,
dove si leggono, tra le altre, queste massime: «Il
principio della buona fede oggettiva, ossia della reciproca lealtà della condotta delle parti, non solo vincola i contraenti nella fase dell’esecuzione del contratto
ed in quella della sua formazione, ma deve intendersi
riferito anche agli interessi sottostanti alla stipula del
regolamento negoziale, a tale conclusione pervenendosi sull’assunto che la clausola generale di correttezza e buona fede costituisce un autonomo potere giuridico espressione del generale dovere di solidarietà sociale e come tale è idonea ad imporre a ciascuna delle
parti del rapporto obbligatorio di agire preservando le
ragioni dell’altra» ed ancora «L’ordinamento giuridico, pur accordando al privato l’autonomia e la tutela
degli atti posti in essere per il perseguimento di interessi meritevoli, disconosce validità all’esercizio di poteri, diritti ed interessi in violazione del principio di
buona fede oggettiva. È devoluto al giudice il compito
141
Discussioni
D’altra parte, e ferma ovviamente la netta distinzione concettuale tra la ratio decidendi della
sentenza, e gli obiter dicta che a quest’ultima
possono fare corona, ben può accadere in effetti che la Corte di cassazione affidi ad enunciazioni pure non necessarie nell’economia della motivazione della singola sentenza, una sorta
di messaggio nella bottiglia: messaggio nella
bottiglia che, ove lo si ritenga latore di un pericolo per la coerenza e la funzionalità delle decisioni future, è allora opportuno intercettare e
disinnescare senz’altro nel suo dispositivo argomentativo.
2. La fisionomia che la regola di buona fede,
e le sue condizioni d’uso, paiono assumere all’interno dell’area del diritto privato europeo
dei contratti, costituiscono un primo elemento
di verifica critica dell’attendibilità della funzione che la sentenza, occasione di queste riflessioni, vorrebbe ascrivere a quella clausola generale sul piano dell’interpretazione del contratto: tanto più ove si consideri che un altro
appunto metodologico, che può muoversi alla
predetta sentenza, attiene proprio all’attenzione decisamente insufficiente, da essa riservata
ai dati di diritto privato europeo, dai quali, invece, un discorso davvero maturo, su questo,
così come sugli altri temi del diritto dei contratti, non può ormai prescindere ( 11 ).
di esaminare il regolamento negoziale posto liberamente in essere fra le parti al fine di verificare la rispondenza del contegno dei contraenti con il principio
della buona fede oggettiva»: e cioè appunto massime
che disegnano la funzione riequilibratrice e di controllo del contratto, che la buona fede, ad avviso
della sentenza, è in grado di espletare (e che costituirà, come si dirà nel testo, il termine di riferimento di
queste considerazioni).
( 11 ) È sorprendente, in particolare, che la sentenza non menzioni affatto l’unico dato normativo, che
positivizza il divieto di abuso del diritto: e cioè l’art.
II-114 della Costituzione europea, secondo il quale
«Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di
esercitare un’attività o compiere un atto che miri a
distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente Carta o a imporre a tali diritti e libertà limitazioni
più ampie di quelle previste dalla presente Carta».
Al di là della formulazione decisamente infelice dell’enunciato, lo stesso è stato comunque ritenuto ido142
Portando subito l’attenzione su uno dei testi
che costituiscono, ovviamente, il termine di riferimento di ogni discorso sul punto, e cioè i
Principi di diritto privato europeo dei contratti
(PECL), è noto che il catalogo delle norme imperative dei Principi di diritto europeo esordisce con l’art. 1:201, secondo il quale le parti
devono agire nel rispetto della buona fede e
della correttezza, essendo appunto, ed espressamente, previsto dal comma 2o del medesimo
articolo che «le parti non possono escludere o
limitare quest’obbligo».
Tuttavia, secondo un’autorevole ricostruzione del senso che la clausola di buona fede assume all’interno del sistema disegnato dai PECL,
l’imperatività della stessa non esprime la tendenza del modello di regolamentazione che ne
emerge a comprimere gli spazi di esplicazione
dell’autonomia privata, operando, invece, sul
piano di quella che potrebbe definirsi l’autointegrazione del contratto ( 12 ): con il corollario
che la stessa deve venire in considerazione, sia
quando si tratti di colmare una lacuna regolamentare dell’operazione economica in senso
conforme al progetto di razionalità intrinseco
alla medesima, sia quando occorra invece intervenire in funzione correttiva sul regolamento contrattuale, costituendo allora, il parametro della buona fede, la garanzia del fatto che la
correzione del contratto non si trasformi in
un’integrale riscrittura del medesimo, tale da
tradirne la sua essenza di atto di autonomia
privata.
Il modello di diritto privato europeo dei
contratti, costituito dai PECL, fa emergere al-
neo ad imprimere alla disciplina della Costituzione
europea in materia di autonomia privata una «robusta iniezione contenutistica», così da legittimare la
conclusione che «l’abuso del diritto, l’idea di mercato regolato ed il primato della concorrenza, il richiamo alla protezione del consumatore, costituiscono
le nuove “formule magiche” di rango costituzionale
europeo che si sovrappongono a quella della nostra
tradizione costituzionale: la funzione sociale, l’utilità
sociale etc.» (così Mazzamuto, Note minime in tema di autonomia privata alla luce della Costituzione
europea, in Eur. e dir. priv., 2005, 51 ss.).
( 12 ) Cfr., in tal senso, Castronovo, Autonomia
privata e costituzione europea, in Eur. e dir. priv.,
2005, 29 ss.
NGCC 2010 - Parte seconda
Abuso del diritto
lora l’acquisizione da parte della buona fede di
un ruolo non solo persino più pervasivo rispetto al passato ma anche qualitativamente diverso ( 13 ).
Si è detto, infatti, che il richiamo continuo
alla buona fede, nell’ambito dei Principi di diritto europeo dei contratti, non è indice di una
sorta di incondizionata disponibilità del contratto a lasciarsi impregnare da valutazioni eteronome, affidate oltre tutto – per il mezzo della
clausola generale – all’esercizio della discrezionalità giudiziale, deponendo piuttosto «nel
senso del rispetto dell’atto così come le parti
dovrebbero o avrebbero dovuto porlo in essere
nell’esercizio corretto della loro autonomia»
( 14 ).
In altre parole, ed in sede di concretizzazione della clausola generale di buona fede, «il
convincimento del giudice non attiene a ciò
che esso ritiene giusto o no, bensì a quello che
esso ritiene giusto secondo la morale sociale,
che la clausola generale ha appunto la funzione
di richiamare» ( 15 ).
Troverebbe, allora, e finalmente, coronamento all’interno del sistema dei Principi quel
processo di sublimazione della clausola generale di buona fede dalle incrostazioni di precomprensioni ideologiche che ne aveva così a lungo
compromesso la più efficace utilizzazione ( 16 ),
risultando a tale stregua restituita la buona fede ad una funzione di amministrazione razionale, e non avulsa rispetto ai piani delle parti,
del rapporto discendente dalla regola contrattuale.
Se così stanno le cose, è evidente che i Principi abbiano inteso corazzare la buona fede
con la qualificazione di imperatività: ed infatti,
se fosse stato consentito alle parti del contratto
di derogare o disapplicare, in via preventiva e
generale il canone di buona fede, sarebbe stata
preclusa, in radice, ogni possibilità di salvaguardare, o recuperare, la funzionalità di un
regolamento contrattuale lacunoso o distorto.
Siamo, dunque, ben lontani dall’idea –
espressa, sia pure non troppo chiaramente,
dalla sentenza di Cass., n. 20106/2009, come si
è visto in precedenza – di una buona fede che
serva «a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione» e che
possa essere utilizzata come «uno strumento,
per il giudice, finalizzato al controllo – anche in
senso modificativo o integrativo – dello statuto
negoziale... quale garanzia di contemperamento
degli opposti interessi»: dunque, dall’angolo visuale dell’interpretazione del contratto, come
strumento che attribuisca al giudice il compito
di operare nell’ottica dell’equilibrio tra gli interessi dei contraenti ( 17 ), dopo avere – contrad-
( 13 ) Si vedano le fondamentali considerazioni di
Castronovo, Un contratto per l’Europa, in Principi
di diritto europeo dei contratti, I e II, a cura di Castronovo, Giuffrè, 2001, XXXIII ss., nonché,
Vettori, Buona fede e diritto europeo dei contratti,
in Eur. e dir. priv., 2002, 915 ss.
( 14 ) Così, testualmente, Castronovo, op. ult.
cit., XL.
( 15 ) È, ancora una volta, il pensiero di Castronovo, op. ult. cit., XLI.
( 16 ) Si veda, se si vuole, quanto osservavamo, con
riferimento al problema dell’interpretazione secondo buona fede, nel nostro Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Cedam, 1992, 364 s.:
«il criterio di buona fede consente di svolgere tutte
le conseguenze implicite – sulla base del più volte riferito criterio di normalità e regolarità sociali – nel
regolamento negoziale posto in essere: quelle che,
sebbene non esplicitate nell’assetto di interessi quale
delineato dai contraenti, sono coessenziali, per così
dire, alla natura di esso, così come concretamente
emerge»: sul punto si avrà modo di ritornare, infra,
in sede di critica agli orientamenti dottrinali in materia di interpretazione del contratto, che sembrano
costituire il referente argomentativo della ricostruzione del problema accreditata dalla Supr. Corte.
( 17 ) Sul punto, la sentenza richiama Cass., sez.
un., 15.11.2007, n. 23726, in questa Rivista, 2008, I,
458 ss., con note di Finessi, La frazionabilità (in giudizio) del credito: il nuovo intervento delle Sezioni
Unite, nonché con nota di Cossignani, Credito unitario, unica azione; il richiamo appare, tuttavia, non
del tutto pertinente rispetto al tema dell’interpretazione del contratto, dato che la sentenza delle sez.
un., peraltro a sua volta formulando un obiter, aveva
bensì posto l’accento sull’idoneità del criterio della
buona fede a costituire «strumento per il giudice, atto a controllare anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del
giusto equilibrio degli opposti interessi», ma senza
uno specifico riferimento al piano dell’interpretazione e richiamando precedenti (quali quelli di Cass.,
nn. 3775/1994 e 10511/1999), che si attestavano sul
versante dell’esecuzione del contratto.
NGCC 2010 - Parte seconda
143
Discussioni
dittoriamente – posto l’accento sul ruolo primario, e tendenzialmente preclusivo di altri significati ascrivibili al contratto, che assumerebbe invece la regola interpretativa fondata sulla
lettera della convenzione.
Del resto, anche una prima linea ricostruttiva alternativa sviluppatasi sul punto della ricostruzione della portata operativa del concetto
di buona fede all’interno dei modelli di regolamentazione di diritto privato europeo dei contratti, e che continua ad attribuire alla buona
fede la tradizionale funzione di etero-integrazione, paventando che la stessa, difettando
adeguati referenti ordinamentali, possa costituire la valvola attraverso la quale inserire nel
regolamento predisposto dalle parti standards
mercantili, «ossia il prezzo, l’equilibrio ottenibile in un mercato comparabile... ma perfettamente concorrenziale», tanto che «a tenere il
luogo della legge tra le parti, invece della volontà, è così la prassi mercantile» e perciò «la
“giustizia”, la “morale”, che sono chiamate a
sorreggere tale correzione consistono nel rendere inderogabile il mercato» ( 18 ).
Né pare che il modello operativo della clausola generale di buona fede in sede ermeneutica, sotteso alla sentenza della Supr. Corte
qui oggetto di esame, possa rinvenire un referente argomentativo più affidante nella posizione di chi, anche di recente, proprio con riferimento alla dimensione assunta dalla buona
fede nel diritto privato europeo dei contratti,
ha ritenuto «più corretto adottare una linea
ricostruttiva che veda nella buona fede un
tramite per una più accentuata tutela delle
parti nel senso di mantenere il regolamento
contrattuale in sintonia con le posizioni ed i
comportamenti concreti delle parti, con i
principi ai quali l’ordine giuridico lega la legittimità stessa dell’agire privato», sottolineando che «proprio le nuove fortune del
( 18 ) La ricostruzione cui si fa cenno nel testo è
quella di Barcellona, La buona fede e il controllo
giudiziale del contratto, in Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di Mazzamuto,
Giappichelli, 2002, 324 s. (dal quale sono tratti i
brani tra virgolette nel testo) nonché Id., Clausole
generali e giustizia contrattuale, Giappichelli, 2006,
257 ss.; sul punto, si veda anche Id., Note minime,
cit., 53.
144
contratto, l’accresciuto suo peso economico e
sociale, ne precludono una lettura chiusa,
quasi che le parti, rinserrandosi nei suoi confini, potessero negare la loro appartenenza al
mondo» ( 19 ). Qui, infatti, ci troviamo pur
sempre, e nel solco della ben nota impostazione data dal medesimo Autore cui si è appena
fatto riferimento al tema della costruzione del
regolamento contrattuale ( 20 ), sul piano della
individuazione delle fonti che concorrono alla
composizione del medesimo e non ancora su
quello di una riscrittura o correzione del punto di equilibrio dei contrapposti interessi, così
come fissato dalle parti contraenti.
Il discorso sugli elementi di riflessione che
emergono dal diritto privato europeo dei contratti, e dal ruolo che la clausola generale di
buona fede assume all’interno di essi, con specifico riferimento all’angolo visuale dell’interpretazione del contratto, non è destinato a mutare neppure ove si consideri il frutto più recente dei progetti intervenuti in materia: e cioè
i Principles, Definitions and Model Rules of European Private Law ( 21 ). In essi, infatti, e pur
nel contesto di un’ampia attenzione dedicata
alla justice, la declinazione di questo valore (attraverso le direttive della parità di trattamento;
della preclusione a trarre vantaggio da proprie
condotte illegittime, disoneste o irragionevoli
ovvero da situazioni di debolezza particolare
dell’altra parte; della preclusione a pretese eccessive, fondate sull’inadempimento altrui, in
caso di mutamento di circostanze; dell’affermazione della responsabilità dei soggetti per le
conseguenze delle proprie azioni e della creazione dei rischi da parte loro) ( 22 ) non si spinge
fino ad attribuire ai criteri che presiedono al-
( 19 ) In questi termini, Rodotà, Le clausole generali nel tempo del diritto flessibile, in Lezioni sul contratto, raccolte da Orestano, Giappichelli, 2009,
101; in questa prospettiva, l’a. conclude nel senso
che «il diritto contrattuale europeo deve tener conto
dell’assiologia espressa dalla Carta, in particolare,
dei principi di dignità, eguaglianza e solidarietà, non
menzionati nei precedenti Trattati».
( 20 ) Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Giuffrè, 1969, ora ristampato, con integrazioni,
Giuffrè, 2004.
( 21 ) Vedine l’edizione del 2009.
( 22 ) Così l’apparato di commento che si legge in
NGCC 2010 - Parte seconda
Abuso del diritto
l’interpretazione del contratto la funzione di rimodellare il regolamento negoziale, sulla base
di criteri eteronomi ad esso. E tale conclusione
è confermata dal rilievo che l’art. II.-8:103, in
tema di interpretazione contro la parte che ha
predisposto la clausola o contro la parte sotto
la cui influenza dominante sia stata predisposta
la clausola, non abbandona l’impostazione secondo la quale soltanto in caso di dubbio sull’interpretazione di quella clausola sarà possibile privilegiare l’interpretazione della clausola
contra stipulatorem: ma qui non si tratta di attribuire all’interpretazione una funzione correttiva o di riequilibrio delle posizioni delle
parti, bensì, e semplicemente, di selezionare
uno dei possibili significati che alla clausola è
stato possibile assegnare sulla base degli altri
criteri ermeneutici.
3. Sarebbe tuttavia errato ritenere che la posizione assunta dalla Corte di cassazione sulla
funzione dell’interpretazione del contratto secondo buona fede sia del tutto stravagante o
priva di antecedenti culturali, che, tutt’al contrario, lo studioso attento ai temi dell’interpretazione del contratto non ha difficoltà ad individuare.
Vi è stata invero una lunga stagione, nell’ambito della riflessione sulla interpretazione del
contratto, durante la quale si è ritenuto di poter attribuire al procedimento ermeneutico, e
segnatamente a quello condotto sulla base del
canone di buona fede, una funzione affatto diversa rispetto a quella che gli era tradizionalmente assegnata.
È nota, in particolare, la proposta di chi ha
spostato lo specifico ambito di operatività del
canone di buona fede nel momento finale dell’attività ermeneutica, reputando possibile operare, attraverso di esso, una valutazione complessiva di rilevanza del negozio, con l’attribuzione al medesimo del significato che si impone avuto riguardo alla posizione delle parti, nel
quadro dei principi generali dell’ordinamento
giuridico ( 23 ).
Principles, Definitions and Model Rules of European
Private Law, cit., 84.
( 23 ) Cfr. Bigliazzi Geri, Note in tema di interpretazione secondo buona fede, Pacini, 1970, passim,
NGCC 2010 - Parte seconda
Si colloca in una prospettiva analoga anche il
contributo di chi ( 24 ) ha ritenuto che – attraverso l’art. 1366 cod. civ. – sarebbe possibile
attribuire rilievo in sede interpretativa ai principi generali dell’ordinamento, avuto altresì riguardo alle peculiari circostanze in cui il contratto si inserisce; così inteso, l’art. 1366 cod.
civ. consentirebbe di individuare quale tra gli
interessi dei contraenti debba essere ritenuto
preminente e di risolvere altresì il problema
della prospettiva nella quale si debba collocare
l’interprete nel prendere in esame il contratto
alla luce della disciplina dettata per il singolo
contratto e dei principi generali dell’ordinamento ( 25 ).
Il referente culturale più prossimo della lettura che la sentenza della Supr. Corte offre
quanto al tema dell’interpretazione del contratto secondo buona fede è peraltro quella che
emerge dall’impostazione ( 26 ) che pone l’accento sull’attitudine della buona fede interpretativa ad intervenire in tutti i casi in cui l’applicazione del primo gruppo di norme interpretative abbia portato all’individuazione «di un ree, in particolare, 46 s.; Id., voce «Buona fede nel diritto civile», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ.,
II, Utet, 1988, 179 s.; Id., L’interpretazione del contratto, Giuffrè, 1991, 208 s.
( 24 ) È la posizione di Rizzo, Interpretazione dei
contratti e relatività delle sue regole, Esi, 1985, 293 s.
e, in particolare, 295, dove si sottolinea che l’art.
1366 cod. civ., considerato unitariamente all’art.
1362 cod. civ., indurrebbe ad attribuire rilevanza ad
una complessiva disciplina, ben armonizzata con i
principi fondamentali dell’ordinamento.
( 25 ) Per tale conclusione, cfr. Rizzo, cit., 299 s.
( 26 ) Cfr., sul punto, Costanza, Profili dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, Giuffrè,
1989, 35 ss. Tale tesi si correla, all’evidenza, con
quella accreditata dalla medesima a. con riferimento
al tema dell’equilibrio delle prestazioni contrattuali
(Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. e impr., 1987, 432 s., in particolare,
433, dove si conclude che «al di fuori delle ipotesi
specificamente previste e disciplinate la realizzazione dell’equilibrio contrattuale rimane affidata alla
buona fede ed all’equità»; la differenza tra questi
due criteri consisterebbe, poi, in ciò che la buona fede servirebbe a modellare il contenuto negoziale secondo i canoni della correttezza e della lealtà, mentre l’equità sarebbe volta alla determinazione della
giustizia singolare).
145
Discussioni
golamento contrattuale poco equilibrato e non
giustificato dalle circostanze soggettive ed oggettive che lo accompagnano», dato che, in
questi casi, si potrebbe reputare permanere
uno stato di incertezza sul significato del contratto, superabile, appunto, attraverso l’utilizzazione del canone della buona fede e, all’occorrenza, dei successivi criteri ermeneutici. In
tale ordine di idee, la clausola di buona fede
conserverebbe, anche in sede interpretativa, la
sua peculiare attitudine a correggere le storture
del regolamento contrattuale, pur affermandosi, con un vistoso scarto di piani rispetto all’impostazione fin qui illustrata, che la buona fede
potrebbe venire anche in considerazione come
uno strumento utile per stabilire quali siano gli
interessi perseguiti col singolo, concreto contratto ovvero per cogliere le variabili individuali del contratto stesso ( 27 ).
È tuttavia possibile obiettare, a queste ricostruzioni, così come a quella accreditata dalla
sentenza oggetto delle nostre riflessioni, che il
criterio della buona fede in sede interpretativa è
quello che consente di svolgere tutte le conseguenze implicite – sulla base del più volte riferito criterio di normalità e regolarità sociali – nel
regolamento negoziale posto in essere: quelle,
cioè, che, sebbene non esplicitate, nell’assetto di
interessi, quale delineato dai contraenti, sono
coessenziali, per così dire, alla natura di esso, così come concretamente emerge. Pertanto, la specifica funzione del procedimento ermeneutico si
coglie, pur sempre, nella ricostruzione della portata della regola privata, ora attraverso schemi attenti alla concretezza ed individualità della stessa, ora per mezzo di schemi da essa più remoti,
direttamente fissati dalla norma ovvero mutuati
da standards sociali; mentre deve ritenersi ad esso tuttora estranea la funzione di adeguamento
del contratto a principi o regole eteronomi ovvero di verifica della congruità reciproca delle attribuzioni patrimoniali da realizzare con il contratto ( 28 ).
Se le argomentazioni fin qui svolte colgono nel
( 27 ) Così Costanza, Profili, cit., 130 e 133.
( 28 ) Si tratta dei risultati cui eravamo pervenuti in
L’interpretazione, in I contratti in generale, a cura di
E. Gabrielli, Utet, 2006, II, 1083 ss.: rinviamo a
quel luogo per la più ampia illustrazione dei passaggi argomentativi che conducono alla conclusione
146
segno, si conferma che il procedimento ermeneutico, anche se riferito all’area del contratto
asimmetrico o diseguale, resta strutturalmente
incompatibile, ed ontologicamente inidoneo, ad
espletare un’ipotetica funzione di controllo circa
i contenuti dell’atto di autonomia privata ovvero
di riequilibrio delle posizioni dei contraenti: funzione che resta assai più solidamente affidata agli
obblighi di informazione o alle regole di comportamento che costellano la fase di formazione
del vincolo contrattuale.
Dal canto suo, intesa nel senso fin qui tratteggiato, la buona fede si libera finalmente dai
contorni incerti, se non nebulosi, che ne avevano per lo più caratterizzato l’utilizzazione, soprattutto in materia ermeneutica, per innestarsi sul solido terreno dei criteri di ragionevolezza desunti dalla realtà dei traffici.
Qui si innesta un ultimo spunto di riflessione
circa i contenuti della sentenza, che, rileggendo criticamente gli snodi motivazionali della
sentenza d’appello, sembra ammettere, sia pure per implicito, un controllo di ragionevolezza
degli atti di autonomia privata.
Tuttavia, se si può convenire sul punto che,
dall’angolo visuale del requisito della causa del
contratto, il giudice è chiamato ad espletare un
controllo su quella che, in altra occasione, avevamo definito la razionalità minima dell’operazione economica sottesa al contratto, e, dunque, in particolare, dall’angolo visuale della
giustificazione delle vicende circolatorie della
ricchezza attuate attraverso l’operazione contrattuale ( 29 ), va pur sempre sottolineato che tale controllo si colloca pur sempre, ed appunto,
sul piano della razionalità minima dell’operazione economia realizzata e non può spingersi
fino a sindacarne, nel merito, la ragionevolezza.
Né tale esito deve apparire incompatibile
con le istanze di tutela che l’area della contrattazione disuguale sempre più palesa: tanto più
che, secondo quanto ormai da tempo è stato
chiarito in dottrina, il controllo sugli atti di ausintetizzata nel testo, che pare per molti versi affine
a quella, da ultimo, accreditata da Cataudella, I
contratti, Giappichelli, 2009, 159.
( 29 ) Ci si permetta il rinvio al nostro I problemi
della causa e del tipo, in Roppo, Trattato del contratto, II - Regolamento, a cura di Vettori, Giuffrè,
2006, 115 ss.
NGCC 2010 - Parte seconda
Abuso del diritto
tonomia privata e la stessa protezione della
parte che si trovi in posizione asimmetrica rispetto all’altra nella contrattazione diseguale si
realizza ormai sempre più sul versante del controllo contenutistico, come accade nella disciplina delle clausole abusive, ovvero dell’attribuzione ai contraenti di diritti e doveri accessori, quali quelli di recesso o di informazione;
NGCC 2010 - Parte seconda
mentre resta, come si è già visto, estranea anche ai progetti di diritto privato europeo l’idea
di una torsione dello strumento interpretativo
al raggiungimento di finalità di controllo degli
atti di autonomia privata, davvero incongruamente evocata dalla sentenza della Corte di
cassazione.
147
Aggiornamenti
GARANZIE AUTONOME, «PROVA LIQUIDA»
E INIBITORIA DI PAGAMENTO
di Mariella Cuccovillo
Sommario: 1. Garanzie autonome e provvedimenti
d’urgenza. – 2. Inibitoria di pagamento e legittimazione dell’ordinante. – 3. Exceptio doli e
«prova pronta e liquida». – 4. Gli orientamenti
della giurisprudenza: la necessità della prova documentale. – 5. Segue: la tesi della prova «precostituita». – 6. «Prova liquida» e attività istruttoria nei procedimenti d’urgenza: le pronunce più
recenti. – 7. Osservazioni conclusive.
1. Garanzie autonome e provvedimenti d’urgenza. Il contratto autonomo di garanzia rappresenta una forma di garanzia personale atipica (nel nostro ordinamento), ma,
come è noto, oramai largamente diffusa nella
prassi del commercio internazionale. I contributi sul Garantievertrag sono numerosissimi;
fondamentale rimane lo studio di Stammler,
Der Garantievertrag. Eine civilistiche Abhandlung, in Arch. civ. Prax., LXIX, 1886, 1 ss. a
cui si deve la distinzione tra i contratti di garanzia accessori ad un’obbligazione principale
e i contratti che, per espressa volontà delle
parti, sono indipendenti dal rapporto garantito e quindi fonte di un’obbligazione autonoma del promittente (i c.d. Garantieverträge),
mentre nella dottrina italiana, per tutti, Portale, Fideiussione e Garantievertrag nella
prassi bancaria, in Le operazioni bancarie, a
cura di Portale, Giuffrè, 1978, II, 1052 ss.;
Id., Nuovi sviluppi del contratto autonomo di
garanzia, in Banca, borsa, tit. cred., 1985, I,
169 ss.; Id., Le garanzie bancarie internazionali (Questioni), ivi, 1988, I, 1 ss.; Benatti, voce «Garanzia (contratto autonomo di)», nel
Noviss. Digesto it., III, Utet, 1982, 918 ss.;
Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, Giappichelli, 1989; Bonelli, Le garanzie
bancarie a prima domanda nel commercio inNGCC 2006 - Parte seconda
ternazionale, Giuffrè, 1991; Giusti, La fideiussione ed il mandato di credito, nel Trattato Cicu-Messineo, XVIII, Giuffrè, 1998, 315
ss.; Calderale, Fideiussione e contratti autonomi di garanzia, Cacucci, 1989; Id., Autonomia contrattuale e garanzie personali, Cacucci,
1999.
Nelle «garanzie autonome» è preclusa, per
principio, a fronte di una richiesta di pagamento del beneficiario che risulti conforme alle
condizioni individuate nel contratto di garanzia, la possibilità di opporre eccezioni relative
al rapporto commerciale sottostante. Nell’elisione del legame di accessorietà con il rapporto
garantito si rinviene la principale differenza tra
contratto autonomo di garanzia e garanzia fideiussoria (tra le tante, Cass., 19.6.2001, n.
8324, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, II, 654,
secondo cui la caratteristica fondamentale che
distingue il contratto autonomo di garanzia
dalla fideiussione è rappresentata dall’«assenza
dell’elemento dell’accessorietà della garanzia»
da cui consegue l’inopponibilità da parte del
garante delle eccezioni che spettano al debitore
principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dall’art. 1945 cod. civ.;
Cass., 31.7.2002, n. 11368, in Mass. Foro it.,
2002; da ultimo, Cass., 7.1.2004, n. 52, ivi,
2004; Cass., 10.2.2004, n. 2464 e Cass.,
20.4.2004, n. 7502, ibidem).
Tuttavia, la giurisprudenza, nel tentativo di
temperare l’autonomia del rapporto di garanzia in linea con la pressoché unanime dottrina,
ha da tempo riconosciuto la possibilità di paralizzare con l’exceptio doli una richiesta manifestamente abusiva o fraudolenta, consentendo
al garante e/o al debitore ordinante di ottenere
un provvedimento d’urgenza, che blocchi
l’escussione (Cass., 6.10.1989, n. 4006, in Ban103
Aggiornamenti
ca, borsa, tit. cred., 1990, II, 5 ss.; Trib. Milano, 2.3.1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 308; App.
Milano, 27.5.1994, in Banca, borsa, tit. cred.,
1995, II, 423).
Dall’esame dei casi sottoposti all’attenzione
della giurisprudenza, si ricava che la sospensione della garanzia viene concessa, non solo a
fronte di una condotta dolosa del beneficiario,
ma anche in ipotesi di scorrettezza o di mala
fede in senso oggettivo (in tal senso, Viale,
«Performance bonds» e contratto autonomo di
garanzia: il regime delle eccezioni tra astrazione
e causalità, in Foro it., 1987, I, 305; sulla distinzione tra escussione «abusiva» e «fraudolenta», Bonelli, op. cit., 92, nt. 40).
2. Inibitoria di pagamento e legittimazione dell’ordinante. Pressoché unanime è
la giurisprudenza nell’ammettere l’inibitoria di
pagamento ex art. 700 cod. proc. civ. (ex multis, Trib. Milano, 23.12.1987, in Banca, borsa,
tit. cred., 1988, II, 609; Pret. Asti, 21.10.1987,
ibidem, 610). È da escludere, invece, la possibilità per l’ordinante di ottenere il sequestro conservativo del credito del beneficiario nei confronti della banca garante, difettando l’istanza
cautelare dei necessari presupposti (v. per tutte, Trib. Bologna, ord. 10.1.1994, in Banca,
borsa, tit. cred., 1995, II, 423).
La tesi sembra aver trovato accoglimento anche presso la più consolidata opinione dottrinale che osserva «se l’ordinante nell’istanza di
sequestro dichiara che il suo credito contro il
beneficiario si fonda sull’escussione abusiva
della garanzia da parte di questo, viene necessariamente ad affermare che il beneficiario non
ha nessun credito sequestrabile verso il garante» (Portale, Le garanzie bancarie internazionali, cit., 32).
Controversa è la questione relativa alla sussistenza della legittimazione attiva dell’ordinante ad agire in via cautelare per inibire il
pagamento della banca. In proposito, una tesi
minoritaria, muovendo dalla considerazione
secondo cui l’esercizio dell’istanza cautelare
da parte dell’ordinante è finalizzata ad incidere su un rapporto contrattuale a cui risulta
estraneo, sostiene che unicamente la banca garante è legittimata ad opporre l’exceptio doli
nei confronti del beneficiario della garanzia e
ad agire in via cautelativa, mentre all’ordinan104
te è riconosciuta esclusivamente la possibilità
di usufruire della tutela cautelare per impedire il regresso della banca garante nei suoi confronti (in tal senso, tra le altre, Pret. Roma,
6.6.1986, in Banca, borsa, tit. cred., 1987, II,
58; Pret. Roma, 2.7.1986, ibidem, 59; Pret.
Lecco, 22.12.1992, ivi, 1994, II, 286; Trib.
Bologna, ord. 10.1.1994, cit.; in dottrina,
Bozzi, Le garanzie atipiche, I, Giuffrè, 1999,
153; v. anche Calderale, Fideiussione, cit.,
282 ss.).
L’opinione che riscuote maggiori consensi è,
invece, orientata a riconoscere la legittimazione a chiedere sia l’inibitoria del pagamento
delle garanzie che il regresso nei propri confronti, in capo all’ordinante, il quale, disponendo delle c.d. «prove liquide», può contraddire
in merito alla fraudolenza dell’escussione della
garanzia (sul punto, recentemente, Trib. Genova, ord. 24.9.2001, in Giur. it., 2002, 744;
da ultimo, Trib. Bologna, 20.1.2003, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II, 79, che riconosce,
nell’ambito di un rapporto quadrilatero, all’ordinante di una controgaranzia la legittimazione
a richiedere l’inibitoria del pagamento nei confronti della banca nazionale controgarante, nel
caso che l’escussione abusiva da parte della
banca garante sia dimostrata con prove liquide; in dottrina, per tutti, Bonelli, op. cit., 136
ss.).
Sotto un diverso profilo, si precisa che la legittimazione attiva dell’ordinante deriverebbe
dalla struttura stessa del contratto autonomo
di garanzia che, pur non dando luogo ad
un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra le
parti dei diversi rapporti contrattuali, configurerebbe un «rapporto contrattuale complesso»,
articolato in una pluralità di rapporti, ma «reso
unitario dallo scopo di garanzia e dalla caratteristica dell’essere la garanzia del tutto svincolata
dal rapporto sottostante» (Trib. Genova, ord.
12.9.2001, in Giur. it., 2002, 753).
3. Exceptio doli e «prova pronta e liquida». Sebbene a fronte di un’escussione
«manifestamente abusiva o fraudolenta», l’opponibilità dell’exceptio doli sia riconosciuta
dalla dottrina pressoché all’unanimità (in tal
senso, Portale, Le garanzie bancarie internazionali, cit., 19; Bonelli, op. cit., 90 ss.; Mastropaolo, op. cit., 312 ss.; Benatti, op. cit.,
NGCC 2006 - Parte seconda
Garanzie autonome, «prova liquida» e inibitoria di pagamento
922; da ultimo, Garofalo, Per un’applicazione
dell’exceptio doli generalis romana in tema di
contratto autonomo di garanzia, in Riv. dir. civ.,
1996, I, 629 ss.; contra Bozzi, Le garanzie atipiche, cit., 164) divergenze non trascurabili si
rinvengono, allorché si tenti di accertare le singole situazioni giudiziali nelle quali l’eccezione
è concretamente sollevabile.
Come si ricava agevolmente da una scorsa ai
repertori di giurisprudenza, il pericolo che un
uso disinvolto dell’exceptio doli possa condurre
ad un sostanziale svilimento dell’istituto di garanzia, essenzialmente concepito con la finalità
di assicurare al beneficiario un pagamento certo e rapido, preoccupazione condivisa con la
prevalente dottrina (v. Viale, Le garanzie bancarie, nel Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ.,
a cura di Galgano, XVIII, Cedam, 1994,
195), ha indotto la giurisprudenza a riconoscere l’operatività dell’exceptio doli, nei casi in cui
si è ritenuto ricorrere la cosiddetta «prova
pronta e liquida» del carattere abusivo o fraudolento dell’escussione (usano la locuzione
«prova pronta e liquida», tra le altre, Pret. Milano, 31.3.1983, in Banca, borsa, tit. cred.,
1985, II, 87; Pret. Milano, 6.2.1984, ibidem,
84; Trib. Milano, 23.12.1987, cit., sul concetto di «prova liquida» nella dottrina italiana e
tedesca, da ultimo, Barillà, L’abuso nell’escussione nelle garanzie «quadrangolari», in Banca,
borsa, tit. cred., 2005, II, 94, nt. 14).
La presente riflessione si propone di precisare il concetto di prova «pronta e liquida»,
muovendo dall’analisi della casistica giurisprudenziale, nel tentativo di definire il rapporto
che intercorre tra prova «liquida» (da cui si ricavi la manifesta abusività o fraudolenza dell’escussione) e prova «pronta» (intendendo per
tale, una prova precostituita, essenzialmente
documentale), per chiarire se, in ultima analisi,
i termini della locuzione vadano (e/o siano stati
effettivamente) utilizzati congiuntamente o alternativamente.
Come si ricaverà dalle principali pronunce
sul tema sono identificabili tre indirizzi interpretativi, un primo e più rigoroso orientamento che richiede la prova «documentale» del carattere abusivo o fraudolento dell’escussione,
un differente indirizzo incline a riconoscere
l’operatività dell’exceptio doli solo in presenza
di una prova «precostituita» ed un altro orienNGCC 2006 - Parte seconda
tamento più recente, sebbene allo stato minoritario, nel senso dell’ammissibilità di ogni mezzo istruttorio, compatibilmente con la natura
sommaria del procedimento d’urgenza.
4. Gli orientamenti della giurisprudenza: la necessità della prova documentale. Seguendo l’impostazione più rigorosa,
che identifica la prova liquida con la prova documentale, la giurisprudenza di merito ha negato la concessione del provvedimento di inibitoria diretto a paralizzare la richiesta di escussione fraudolenta, rilevando che la «semplice
affermazione della carenza di fondamento della
pretesa del beneficiario» non risultava, nella
specie, «confortata da alcuna documentazione»
(Pret. Milano, 6.2.1984, cit., 92).
In senso conforme, la giurisprudenza si è
espressa in materia di controgaranzie. Nella
specie, il ricorrente aveva eccepito la fraudolenza della condotta del garante che, in mancanza di qualsiasi attivazione o richiesta da
parte del beneficiario (l’autorità doganale) aveva provveduto ad escutere la garanzia (nella
specie, prestata per il pagamento dei diritti doganali), e concludeva richiedendo un provvedimento che inibisse al controgarante (un istituto
di credito italiano) il pagamento della controgaranzia a favore del garante (una banca algerina). Il giudice, tuttavia, rigettava la richiesta,
adducendo che l’assunto prospettato dal ricorrente risultava fondato «su generiche e non
comprovate dichiarazioni del Consolato Italiano, prive di qualsiasi riscontro documentale»
(Pret. Roma, ord. 15.10.1988, in Banca, borsa,
tit. cred., 1990, II, 3; sulla struttura «quadrangolare» delle garanzie indirette o controgaranzie, da ultimo, Giusti, op. cit., 359).
Assumendo una posizione più radicale, la
giurisprudenza di merito ha richiesto, talvolta,
ai fini della prova della condotta abusiva del
beneficiario, la produzione di una sentenza
passata in giudicato o alternativamente di un
lodo arbitrale divenuto esecutivo, che avessero
accertato la nullità o la risoluzione del contratto base per fatto imputabile al beneficiario (cfr.
Trib. Milano, 9.10.1986, in Banca, borsa, tit.
cred., 1987, II, 333; Trib. Milano, 1o.10.1990,
ivi, 1991, II, 627; in dottrina, nel senso della
necessità di una sentenza passata in giudicato
da cui risulti «la nullità o la caducazione» del
105
Aggiornamenti
contratto principale ai fini dell’opponibilità
dell’exceptio doli, v. Portale, Nuovi sviluppi,
cit., 181 ss.).
Spingendosi alle estreme conseguenze di tale
assunto, la giurisprudenza ha escluso, in un caso limite, il carattere abusivo dell’escussione,
concludendo per il rigetto del provvedimento
di inibitoria, pure in presenza di un lodo non
esecutivo in favore del debitore principale.
Nella specie, il lodo arbitrale, che aveva riconosciuto la responsabilità della sospensione dei
lavori esclusivamente in capo alla società appaltatrice-beneficiaria (e, dunque, l’inadempimento della società beneficiaria della garanzia
agli obblighi derivanti dal rapporto di base),
obbligandola pertanto al risarcimento del danno cagionato alla società subappaltatrice, compreso il pregiudizio derivante dalla risoluzione
del contratto che la sospensione dei lavori aveva determinato era stato impugnato per nullità
per vizi procedurali, con la conseguenza che, a
dire del collegio giudicante, mancava una «pronuncia definitivamente accertata» idonea a supportare, sul piano probatorio, la richiesta di un
provvedimento di inibitoria (cfr. Trib. Milano, 9.10.1986, cit.).
L’orientamento espresso ha trovato l’avallo
di parte della dottrina, che ha sostenuto la necessità di identificare la prova «liquida» essenzialmente con la prova «documentale». In tal
senso è orientato Grippo, La garanzia automatica in bilico tra «tecnica» e «politica»: tendenze
della giurisprudenza, in Banca, borsa. tit. cred.,
1985, II, 89, che circoscrive gli interventi del
giudice ammissivi di misure d’urgenza alle fattispecie di «frode manifesta e documentata».
In quest’ottica, si afferma che la necessità di
una prova che faccia risultare di sicura ed immediata percezione l’esistenza della frode induce ad identificare la prova «liquida» con la
prova documentale. Tra i documenti idonei a
dimostrare «chiaramente» l’escussione fraudolenta della garanzia, vengono indicati «il certificato con cui si dichiari che l’appaltatore ha
adempiuto le sue obbligazioni e il certificato di
sdoganamento attestante che le merci sono
giunte nel paese di destinazione», mentre è
esclusa la rilevanza di altri documenti «che,
pur attestando apparentemente l’adempimento del debitore, possano essere privati di un’assoluta attendibilità da altri documenti: è il caso
106
del certificato comprovante il positivo collaudo provvisorio delle opere eseguite, contraddetto da successive riserve scritte dell’appaltante» (sul punto, Calderale, Fideiussione,
cit., 306 ss.).
Sotto un diverso profilo, si sostiene che solo
le prove documentali «consentono di verificare
che la frode del beneficiario è avvenuta nell’ambito del rapporto di garanzia e non inducono il giudice ad indagare sul rapporto di garanzia, per stabilire in contraddizione con la
distribuzione dei litigation costs and risks voluta dalle parti, se l’attore è inadempiente e bloccare, in relazione a ciò, la domanda di pagamento del creditore» (così, Calderale, Autonomia contrattuale, cit., 493).
Vi è tuttavia chi rileva l’ambiguità della formula «prova liquida», inidonea a chiarire «se
debba trattarsi solo di prova documentale di sicura ed immediata interpretazione» alla quale
sarebbe equiparabile il fatto notorio oppure se,
secondo la tesi più restrittiva sia addirittura necessario che «la frode o l’abuso risulti da sentenza passata in giudicato o da provvedimento
d’urgenza “definitivo”» (così, Portale, Le garanzie bancarie internazionali, cit., 22).
5. Segue: la tesi della prova «precostituita». In altre pronunce, la giurisprudenza
ha rigettato la richiesta di provvedimenti d’urgenza, muovendo dall’assunto in base al quale
il carattere abusivo dell’escussione ovvero l’uso
«oggettivamente anormale del diritto» da parte
del beneficiario va supportato da una prova
«evidente e preesistente al processo» nel quale
l’exceptio doli è sollevata (Trib. Milano,
13.12.1990, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, II,
588). In tale prospettiva, si è ritenuta l’exceptio
doli sfornita di adeguato sostegno probatorio,
affermandosi in proposito che, ove pure si fosse consentito di sostenere l’eccezione di frode
con qualsiasi mezzo di prova, avrebbe dovuto
pur sempre trattarsi di una «prova evidente e
preesistente al processo nel quale l’exceptio doli
viene sollevata», non risultando compatibile
«con la peculiare funzione della garanzia astratta la deduzione di prove dell’eccezione che tende
a paralizzarla, da formarsi nel corso del giudizio». Nel caso di specie, la banca garante aveva
invocato l’exceptio doli, deducendo in particolare l’inadempimento del beneficiario agli obNGCC 2006 - Parte seconda
Garanzie autonome, «prova liquida» e inibitoria di pagamento
blighi discendenti dal rapporto contrattuale di
base. In particolare, secondo la prospettazione
del ricorrente, sarebbe stato eluso l’obbligo di
provvedere allo smaltimento dei rifiuti, obbligo che il beneficiario avrebbe preteso di adempiere mediante lo sversamento dei rifiuti in una
discarica abusiva. L’organo giudicante rigettava la domanda perché sfornita di adeguato sostegno probatorio, ritenendo in proposito che
la circostanza dello sversamento dei rifiuti in
una discarica abusiva (e, dunque, l’inadempimento del beneficiario agli obblighi discendenti dal rapporto di base) risultava contestata e
che nessun elemento di certezza poteva trarsi
dal fatto che, in occasione di accertamenti peritali effettuati nell’ambito di un connesso giudizio, fosse risultata la presenza della stessa sostanza tossica riscontrata nei rifiuti, circostanza
da cui si poteva dedurre «la probabilità dello
sversamento non la certezza» (cfr. sul punto
Trib. Milano, 13.12.1990, cit.).
Nell’intento di salvaguardare l’astrattezza e
l’autonomia della garanzia, il Tribunale milanese escludeva la possibilità di provare l’escussione abusiva della garanzia ricorrendo ad una
prova costituenda, come, ad esempio, una consulenza tecnica, che nel caso specifico avrebbe
consentito di superare le contestazioni e le incertezze in ordine al preteso inadempimento
del beneficiario agli obblighi derivanti dal contratto base, inadempimento – a dire del collegio giudicante – «probabile», ma non «certo».
Giova sottolineare sin d’ora che tale soluzione
appare in contrasto con la natura sommaria del
procedimento d’urgenza che si fonda sulla «verosimiglianza» piuttosto che sulla «certezza»
della pretesa.
Sulla stessa linea, si colloca un’ulteriore pronuncia che ha escluso la possibilità di paralizzare l’operatività della garanzia «a prima richiesta», sulla base di eccezioni che, lungi dall’evidenziare la manifesta scorrettezza e mala
fede del creditore garantito, «richiedano per
giunta un complesso accertamento incompatibile
con le caratteristiche ed i limiti del procedimento cautelare» (Pret. Milano, ord. 13.3.1989,
in Banca, borsa, tit. cred., 1990, II, 30).
In altri casi, senza peraltro discostarsi in modo significativo dall’orientamento appena
esposto, la giurisprudenza ha richiesto l’allegazione di «prove individuabili in modo certo ed
NGCC 2006 - Parte seconda
inconfutabile» da cui poter conseguire con
chiarezza ed evidenza, «senza bisogno di difficili ricerche, tortuose analisi, discusse interpretazioni o complesse istruttorie la fondatezza delle
contestazioni sollevate da controparte» (così,
Trib. Modena, ord. 12.8.1996, in Giur. it.,
1997, I, 2, 368, con nota sostanzialmente adesiva di Dalmotto), equiparando espressamente
la prova «liquida» alla prova di «pronta soluzione a cui accenna l’art. 648 c.p.c.» (cfr. Trib.
Modena, ord. 12.8.1996, cit., 372; in senso
conforme, richiede l’allegazione della c.d. prova «liquida» o di «pronta soluzione», Trib.
Potenza, 9.3.1999, in Giur. comm., 2000, II,
259, secondo cui, tuttavia, ai fini della concessione del provvedimento d’urgenza non è richiesta la prova documentale della condotta
abusiva nell’escussione della garanzia da parte
del garante, «essendo invece sufficiente che la
verosimiglianza dell’abuso imputabile al beneficiario possa scaturire dal coacervo delle circostanze allegate, ivi compreso il comportamento
tenuto dalle parti durante l’evoluzione della vicenda contrattuale»).
Nonostante la diversità delle tecniche argomentative, anche tale indirizzo interpretativo
appare in linea con la posizione più rigorosa di
parte della giurisprudenza e della dottrina, incline a circoscrivere la portata della «prova liquida» alla prova precostituita e dunque essenzialmente alla prova «documentale». In dottrina, nel senso dell’allegazione di prove «precostituite, cioè, in definitiva documentali, di sicura
ed immediata interpretazione», Mastropaolo,
op. cit., 307, il quale rileva: «appare eccessivo
che l’abuso debba risultare addirittura da sentenza passata in giudicato o da provvedimento
d’urgenza definitivo» ad eccezione del caso in
cui l’abuso sia «allegato non in riferimento all’adempimento, ma a fatti diversi e più complessi, il cui accertamento e la cui incidenza
circa la garanzia richiedano un provvedimento
arbitrale o giudiziale definitivo».
A tale orientamento sembra aver aderito la
United Nations Convention on independent
guarantees and stand-by letters of credit, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite
in data 11.12.1995 con l’intento di armonizzare
la disciplina dei più diffusi strumenti di garanzia (il testo della Convenzione è stato pubblicato in Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, 577 ss.).
107
Aggiornamenti
La Convenzione, che si indirizza indifferentemente alle garanzie indipendenti ed alle lettere di credito stand-by, ritenute strumenti simili
per funzione e caratteristiche, in linea con la
generalità degli ordinamenti ed al fine di temperare il carattere autonomo della garanzia indipendente, riconosce a favore dell’ordinante
la possibilità di richiedere provvedimenti di
natura cautelare avverso escussioni della garanzia che risultino prive di giustificazione, in relazione alle funzioni che l’operazione di garanzia
svolge nell’ambito dell’operazione economica
descritta nel contratto principale. L’art. 19.2
enuclea una serie di circostanze in presenza
delle quali la domanda del beneficiario non ha
alcuna «conceivable basis», mentre l’art. 20
precisa tipo, condizioni e modalità delle forme
di tutela che la disciplina uniforme riconosce
all’ordinante a fronte di escussioni fraudolente.
In particolare, l’emissione dei provvedimenti
da parte dei giudici nazionali è subordinata alla
dimostrazione della «high probability» che, in
relazione ad una domanda di escussione presentata o ancora da presentare, si verifichi una
delle circostanze specificate nell’art. 19.1 ed alla ricorrenza di una «immediately available
strong evidence». Pertanto, se da un lato, e come si ricava dall’uso dell’espressione «high probability», la Convenzione richiede un giudizio
di verosimiglianza piuttosto che di certezza
della ricorrenza di un’ipotesi di escussione
fraudolenta, dall’altro, nell’esigere l’allegazione
di prove immediatamente disponibili, pur evitando di circoscrivere la rilevanza delle prove
esclusivamente a quelle documentali, sembra
aderire alla tesi che sostiene la necessità della
«prova precostituita».
6. «Prova liquida» e attività istruttoria nei procedimenti d’urgenza: le pronunce più recenti. Può essere opportuno
ora dar conto di alcuni atteggiamenti piuttosto
recenti della giurisprudenza, dai quali traspare
l’intento di contemperare l’aspetto tecnico della soluzione giuridica adottata con ragioni di
opportunità, nella consapevolezza della rilevanza che assume la «prova liquida», in un’ottica di bilanciamento delle due contrapposte
istanze.
Tale chiave di lettura consente di comprendere l’ulteriore indirizzo interpretativo che ri108
vela una maggiore flessibilità nell’interpretazione del concetto di «prova liquida», comunque imprescindibile per la concessione di un
provvedimento di inibitoria che paralizzi
l’escussione di una garanzia manifestamente
fraudolenta o abusiva. In tale contesto, la prova della fraudolenza nell’escussione della garanzia autonoma non è necessariamente documentale e precostituita (in altri termini, non è
richiesta necessariamente «la prova pronta e liquida»). Si afferma, infatti, che il carattere
fraudolento dell’escussione possa risultare in
modo evidente «da documenti o da altri mezzi
istruttori, anche sommari nell’ambito del procedimento cautelare», riconoscendosi così la possibilità di esperire una limitata attività istruttoria in sede cautelare, compatibilmente con la
natura sommaria del procedimento (Trib. Vicenza, ord. 10.7.2001, in Giur. it., 2002, 119,
nella specie, il beneficiario aveva richiesto il
pagamento della garanzia «a prima richiesta»
nonostante il rapporto principale fosse stato
regolarmente adempiuto).
Con un approccio meno restrittivo nella individuazione delle prove ritenute idonee a sostenere la exceptio doli, talvolta eccessivamente
elastico e non del tutto condivisibile, tale
orientamento ha giustificato la concessione di
un provvedimento di inibitoria sulla base di
una perizia di parte (che, nella specie, evidenziava la presenza di difetti nella fornitura di legname il cui pagamento era stato garantito. In
tal senso, Pret. Serravalle Scrivia, ord.
13.3.1989, in Banca, borsa, tit. cred., 1990, II,
5).
In altri casi, la giurisprudenza ha fondato
l’inadempimento del beneficiario alle obbligazioni derivanti dal contratto base e dunque il
carattere fraudolento della richiesta di pagamento della garanzia avanzata dal beneficiario
su «presunzioni gravi, precise e concordanti»
(App. Milano, 27.5.1994, ivi, 1995, II, 434).
Nell’ottica del collegio giudicante, il lodo arbitrale che aveva accertato l’inadempimento del
beneficiario alle obbligazioni discendenti dal
contratto base e di cui fosse stata dichiarata la
nullità per motivi procedurali, è stato ritenuto
idoneo a provare, unitamente ad altre circostanze ed in via indiziaria, il carattere fraudolento dell’escussione.
In altre pronunce, la giurisprudenza, muoNGCC 2006 - Parte seconda
Garanzie autonome, «prova liquida» e inibitoria di pagamento
vendo dal presupposto per cui la frode o il dolo nell’escussione della garanzia sono in concreto riconosciuti in tutti i casi in cui il beneficiario chieda il pagamento della garanzia senza
averne alcun diritto in base al rapporto principale, ha precisato che tale mancanza deve risultare o da una prova certa e sostanzialmente incontestata oppure (se la prova della inesistenza
di un diritto del beneficiario nascente dal contratto principale è solo presuntiva) deve risultare provato in modo certo che il beneficiario
fa un uso distorto della garanzia, utilizzandola
a proprio vantaggio senza in realtà avere genuine contestazioni sull’adempimento del rapporto principale (cfr. Trib. Milano, ord.
14.6.1994, in Giur. it., 1996, I, 2, 59, secondo
cui «non è conforme ai principi elementari di diritto contrattuale richiedere il pagamento delle
garanzie di cui si chiede aliunde la completa nullità»; nella specie, la stessa beneficiaria aveva
affermato la nullità del contratto di appalto,
ovvero del contratto di base, nel corso di un
procedimento instaurato nel Paese d’origine).
In linea con l’opinione ora espressa, la giurisprudenza ha dedotto il carattere fraudolento
dell’escussione della garanzia dall’esistenza di
un parere di un organismo pubblico (che, nella
specie, aveva negato la possibilità di escutere la
garanzia) e dal comportamento delle parti, attribuendo rilevanza alla condotta del beneficiario, che, aveva, infatti, omesso di contestare le
circostanze documentali ritenute integranti la
«prova liquida» (cfr. Trib. Milano, ord.
2.3.1994, ibidem).
Sulla rilevanza del comportamento delle parti, v. anche: Trib. Milano, ord. 12.8.1993, ibidem, I, 2, 72, che ha fondato il carattere fraudolento dell’escussione sull’inadempimento
del beneficiario agli obblighi discendenti dal
contratto principale. Nell’ottica dell’organo
giudicante, l’inadempimento del beneficiario
era provato dalla documentazione addotta e
dalla mancata contestazione del preteso inadempimento da parte della beneficiaria.
L’orientamento sembra aver trovato conferma nelle più recenti pronunce. Il comportamento fraudolento è stato ravvisato nella volontà manifestata dal beneficiario di mantenere
l’efficacia della garanzia, definita dalle parti
advance payment bond (funzionale, pertanto,
all’obbligazione di consegna della merce comNGCC 2006 - Parte seconda
missionata), nonostante l’avvenuta consegna
dei macchinari (cfr. Trib. Verona, ord.
20.5.001, ivi, 2002, 118 e in senso conforme,
Trib. Vicenza, ord. 10.7.2001, cit.).
Nella specie, l’impegno della banca garante
infatti sarebbe scaduto con l’adempimento degli «obblighi di consegna e/o servizi» e l’ordinante aveva fornito la prova dell’avvenuto
adempimento delle obbligazioni di consegna.
Né poteva ritenersi che, nella diversa nozione
di «servizi», potessero ricomprendersi gli obblighi inerenti al buon funzionamento della
merce che la committente affermava non essere stati rispettati e su cui faceva leva per richiedere l’escussione della garanzia. In tal senso,
deponevano oltre al tenore del testo, la circostanza che a favore della committente era stata
prestata una garanzia con diverso oggetto in
relazione allo stesso contratto, ovvero un performance bond, che avrebbe dovuto garantire
la funzionalità dei beni (non avrebbe avuto alcun senso prestare due garanzie con denominazione differenti ma con lo stesso oggetto) e
la considerazione derivante dalla prassi del
commercio internazionale, secondo cui
l’advance payment bond ha lo scopo di garantire la restituzione degli acconti versati (nell’ipotesi in cui il bene acquistato non sia alla fine effettivamente consegnato) e viene meno una
volta che chi ha anticipato il pagamento abbia
ricevuto la materiale disponibilità del bene,
mentre il performance bond afferisce alla funzionalità e consistenza del bene ed esplica la
sua efficacia nel periodo successivo alla consegna. In sintesi, pure essendo certo l’avvenuto
adempimento della obbligazione di consegna,
era controverso l’oggetto della garanzia di cui
il beneficiario chiedeva l’escussione. Tuttavia
la chiara portata del testo della garanzia unitamente ad altre circostanze, come il normale
contenuto che il performance bond riveste nella
prassi del commercio internazionale, ha indotto il giudice a ritenere di «immediata evidenza»
e di «immediata percepibilità» l’insussistenza
del diritto garantito (così Trib. Verona, ord.
20.5.2001, cit.).
Sulla rilevanza dell’esame testimoniale ai fini
della concessione di un provvedimento di inibitoria finalizzato a bloccare una escussione
manifestamente abusiva, da ultimo: Trib. Bologna, 20.1.2003, cit. Con la pronuncia in esa109
Aggiornamenti
me, il giudice ha ritenuta fraudolenta la richiesta della banca garante (e nei confronti della
banca controgarante) di provvedere all’escussione dell’advance payment bond «senza avere
essa stessa adempiuto alla prestazione oggetto
della propria ed in assenza di una attuale sollecitazione da parte del beneficiario», circostanza
che risultava «dall’esame testimoniale», «nonché dalla documentazione prodotta».
7. Osservazioni conclusive. L’altalenante atteggiamento giurisprudenziale, nell’evidenziare la sussistenza di differenti indirizzi interpretativi, appare sintomatico della difficoltà
di contemperare esigenze di politica del diritto
con le ragioni più propriamente tecniche. Se
per un verso, infatti l’insensibilità del rapporto
di garanzia alle vicende del rapporto garantito
induce ad escludere l’opponibilità di qualsiasi
eccezione discendente dal rapporto base, per
l’altro, il pericolo di un abuso dello strumento
di garanzia connaturato al carattere dell’autonomia suggerisce l’opportunità di trovare degli
idonei correttivi a fronte di tentativi di escussione che si rivelino manifestamente abusivi
e/o fraudolenti. Si è già detto, in tale ottica, del
ruolo che riveste la «prova liquida» nella delicata operazione. Si osserva, in proposito, che
risulta sicuramente condivisibile la ratio sottesa
all’indirizzo più restrittivo, nel senso di evitare
che un uso disinvolto dei provvedimenti di inibitoria possa snaturare l’autonomia della garanzia e dunque svilirne la stessa funzione. È
pur vero, tuttavia, che, una volta ammessa
l’esperibilità dei provvedimenti d’urgenza a tutela delle posizioni dell’ordinante e/o del garante potrebbe apparire ingiustificata e incomprensibile una limitazione dei mezzi di prova
che il ricorrente è legittimato a produrre nei
procedimenti cautelari. Si afferma, pertanto,
che «la contraria opinione significherebbe pretendere di “correggere la legge processuale”»,
(così, Bonelli, op. cit., 107, nt. 70). In questa
ottica, non appare condivisibile l’ulteriore
obiezione, secondo cui sarebbe contraddittorio limitare, da un lato, la necessità di «prove
liquide» alla sola exceptio doli ed ammettere,
110
dall’altro, la formazione del convincimento in
sede cautelare nei limiti del consueto giudizio
di verosimiglianza fondato su prove leviores (in
questi termini, Portale, Le garanzie bancarie
internazionali, cit., 35, nt. 74, nonché 40). Non
vi sarebbe contraddizione alcuna dal momento
che «l’evidenza del dolo attiene alla fattispecie
sostanziale che legittima la sola exceptio doli
manifesti, mentre la verosimiglianza sul carattere manifesto della frode del richiedente attiene, per contro, alle condizioni di concessione
della tutela cautelare» (così, Tommaseo, Autonomia negoziale e tutela giurisdizionale nei rapporti di garanzia a prima richiesta, in Riv. dir.
civ., 1992, II, 17, nt. 69).
Si dovrebbe pertanto propendere per l’ammissibilità di tutti i mezzi istruttori, da acquisirsi compatibilmente con la natura sommaria del
procedimento (cfr. Trib. Verona, ord.
20.5.2001, cit., e Trib. Vicenza, ord. 10.7.2001,
cit.).
A tale conclusione si perviene anche per altra via, ove si consideri che la consapevolezza
dell’intrinseca pericolosità connessa ai procedimenti cautelari che non si fondano su una
piena cognizione, ma seguono la logica del giudizio di alta probabilità (cfr. Proto Pisani,
Appunti sulla tutela cautelare, in Riv. dir. civ.,
1987, I, 117 ss.; sul punto, anche Tommaseo,
voce «Provvedimenti d’urgenza», in Enc. del
dir., XXXVII, Giuffrè, 1988, 859), ed in particolare al procedimento cautelare atipico ex art.
700 cod. proc. civ., dovrebbe operare nel senso
di ridurre la superficialità della cognizione, in
modo da limitare, di fatto, la possibilità di ribaltamento del giudizio nel processo a cognizione piena. Tali preoccupazioni sono condivise da quella parte della dottrina che, al fine di
ridurre la pericolosità intrinseca del provvedimento cautelare, invita il giudice a svolgere
una cognizione il più possibile approfondita in
fatto e non solo in diritto ed a valutare comparativamente il danno che subirebbe l’istante
dalla mancata concessione del provvedimento
d’urgenza ed il danno che subirebbe la controparte dalla sua concessione (cfr. Proto Pisani, op. cit., 132 ss.).
NGCC 2006 - Parte seconda
Dibattiti
Il fondamento sistematico dell’exceptio doli
e gli obiter dicta della Cassazione
1. – Il riconoscimento dell’exceptio doli come rimedio generale in relazione
al caso deciso da Cass. n. 5273 del 2007
Un errore sistematico, o una non corretta impostazione giuridica della
controversia, forniscono talvolta l’occasione per enunciare importanti principi di diritto. È accaduto, di recente, nella sentenza n. 5273 del 2007 (1),
con la quale la Cassazione, per la prima volta dall’emanazione del codice
civile del 1942, ha espressamente sancito l’ammissibiltà dell’exceptio doli
quale rimedio di carattere generale (2).
(1) Cass., sez. I, 7 marzo 2007, n. 5273, pres. G. Losavio, rel. L. Salvato.
(2) Secondo la massima ufficiale, consultabile in Mass. Foro it., 2007, c. 417 s., « la exceptio doli generalis seu presentis indica il dolo attuale, commesso al momento in cui viene
intentata l’azione nel processo, e costituisce un rimedio di carattere generale, utilizzabile
anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate, il quale è diretto a precludere l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento, paralizzando l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte o giustificando il rigetto della domanda
giudiziale fondata sul medesimo, ogni qualvolta l’attore abbia sottaciuto situazioni sopravvenute al contratto ed aventi forza modificativa o estintiva del diritto, ovvero abbia avanzato richieste di pagamento prima facie abusive o fraudolente o ancora abbia contravvenuto al
divieto di venire contra factum proprium; tale rimedio si distingue dalla exceptio doli specialis seu preteriti, la quale indica invece il dolo commesso al tempo della conclusione dell’atto, ed è diretta a far valere (in via di azione o eccezione) l’esistenza di raggiri impiegati per
indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio, al fine di ottenerne l’annullamento, ovvero a denunziare la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, la quale assume rilievo, quale dolo incidente, nel caso in cui l’attività ingannatrice abbia influito su modalità del
negozio che la parte non avrebbe accettato, se non fosse stata fuorviata dal raggiro, e non
comporta l’invalidità del contratto, ma la responsabilità del contraente in mala fede per i
danni arrecati dal suo comportamento illecito, i quali vanno commisurati al minor vantaggio e al maggior aggravio economico subiti dalla parte che ne è rimasta vittima, salvo che
sia dimostrata l’esistenza di danni ulteriori, collegati a detto comportamento da un nesso di
consequenzialità diretta (in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato
la sentenza impugnata, la quale aveva qualificato come exceptio doli generalis l’eccezione
con cui una banca, senza far valere l’invalidità del contratto o il diritto al risarcimento dei
1370
CONTRATTO E IMPRESA
Leggendo la motivazione della pronuncia si coglie la distanza non solo cronologica, ma anche e soprattutto culturale, che separa la posizione
attuale della Cassazione dalle riflessioni svolte, agli inizi degli anni ’60
dello scorso secolo, da Giovanni Pellizzi, primo tra i giuristi positivi ad avviare, nel dopoguerra, una riflessione aperta, in nuce, a riconoscere la piena operatività dell’exceptio doli nel diritto vigente (3). È necessario però
procedere con ordine.
La pronuncia costituisce l’ultimo atto di una vicenda processuale già
oggetto di una prima sentenza di Cassazione e di un successivo giudizio
di rinvio. La questione origina dalla stipulazione, nel 1990, di un contratto di apertura di credito a favore di una società cui era collegato un mandato irrevocabile alla banca all’incasso dei crediti della propria cliente,
nonché all’utilizzo dei relativi introiti a copertura della posizione debitoria nei confronti dell’ente erogante. Meno di quattro mesi dopo la stipulazione di tale contratto la società cadeva in concordato preventivo e, nel
corso della procedura, era esercitata l’azione revocatoria nei confronti della banca per la restituzione alla massa concordataria delle somme introitate con l’incasso dei crediti.
La banca resisteva sostenendo la violazione, da parte della società, del
dovere precontrattuale di informazione per non aver reso noto, al momento della stipulazione dell’apertura di credito, la situazione di difficoltà
finanziaria in cui versava. Tuttavia la domanda non aveva ad oggetto né
l’invalidazione del contratto per dolo determinante (art. 1439 c.c.), né il risarcimento del danno per dolo incidente (art. 1440 c.c.), bensì la mera paralisi, tramite l’exceptio doli generalis, dell’azione concorsuale vòlta ad ottenere l’inefficacia dei pagamenti a favore della banca, qualificata come
contraria alla buona fede oggettiva e, quindi, in violazione del divieto di
abuso del diritto.
La pronuncia di legittimità conferma, nel dispositivo, la sentenza del-
danni, aveva dedotto la scorrettezza dell’azione proposta nei suoi confronti per ottenere la
dichiarazione di inefficacia dei pagamenti effettuati in suo favore da un’impresa ammessa
alla procedura di concordato preventivo, in quanto lesivi della par condicio creditorum) ».
(3) Ci si riferisce al ben noto studio di Pellizzi, Exceptio doli (diritto civile), in Noviss.
dig. it., VI, Torino, 1960, p. 1074 ss., in part. p. 1078, poi riedito in Id., Saggi di diritto commerciale, Milano, 1988, p. 705 ss., in cui l’a., ricostruito il sistema del diritto positivo, si interrogava sulla generale ammissibilità del rimedio ben consapevole del risvolto «lato sensu
politico » della questione, osservando che « appunto per la profondità delle radici della disputa – in un tempo che si dice di crisi del diritto, e nel dibattersi di concezioni opposte,
spesso d’ambi i lati autorevolmente rappresentate, sul tema stesso della funzione e dei limiti dell’interpretazione giuridica – non può darsi al quesito, specie in questa sede, una risposta che aspiri ad essere definitiva ».
DIBATTITI
1371
la Corte d’appello di rinvio, che nel caso di specie aveva negato la sussistenza di una violazione della buona fede e ritenuto di conseguenza
inammissibile l’exceptio doli, ma ne integra e corregge la motivazione precisando, da un lato, la distinzione sistematica tra exceptio doli specialis e
generalis e, dall’altro, esprimendo la propria posizione in ordine all’ammissibilità dell’exceptio doli come rimedio generale.
La Cassazione ritiene quindi infondato, nel caso di specie, il ricorso all’exceptio doli da parte della banca, il che rende per lo meno dubbia la
qualificazione come ratio decidendi dei principi espressi sul punto nella
sentenza (4). Tuttavia la loro stretta attinenza, sotto il profilo logico-formale, alla ratio decidendi effettiva del caso fa sì che, in termini di persuasività e di rilevanza sui futuri orientamenti della Corte, essi costituiscano in
ogni caso un vero e proprio punto di svolta nella giurisprudenza di legittimità.
2. – La distinzione tra exceptio doli specialis ed exceptio doli generalis; gli
obiter dicta in tema di responsabilità precontrattuale e dolo incidente
La necessità di correggere la motivazione della pronuncia di rinvio,
che oltre a respingere l’exceptio doli generalis aveva anche ritenuto infondata l’azione di dolo ex artt. 1439 e 1440 c.c., costituisce per la Corte l’occasione per enunciare una serie di obiter in tema di exceptio doli specialis
e, in particolare, di dolo incidente. Partendo infatti dalla distinzione romanistica tra exceptio doli specialis, inteso come « il dolo commesso al
tempo della conclusione del negozio », ed exceptio doli generalis, ovvero
« il dolo attuale, commesso al momento in cui viene intentata l’azione nel
processo », la Cassazione:
ha ribadito, seguendo la prima pronuncia di legittimità riferita al caso
in esame, che la banca convenuta non ha mai fatto valere l’invalidità del
(4) Nell’affermare ciò si prescinde, in questa sede, da ogni presa di posizione in ordine
alla distinzione sistematica tra ratio decidendi ed obiter dictum e, in particolare, se debba essere qualificata come ratio della sentenza ogni premessa o passaggio logico necessario per
la soluzione della controversia, come affermato da Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, in questa rivista, 1985, p. 701 ss., in part. p. 705, oppure ogni principio di diritto di per sé sufficiente, ma non per forza di cose necessario, a decidere il caso concreto, come ritiene Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, in
questa rivista, 1988, p. 545 ss., in part. p. 553, o come regola giuridica effettivamente impiegata quale criterio di decisione del caso, secondo quanto sostenuto da Taruffo, Giurisprudenza, in Enc. scienze sociali Treccani, IV, Roma, 1994, p. 348 ss., in part., p. 359.
Per più ampi ragguagli in materia v. anche Bin, Il precedente giudiziario, Padova, 1995,
in part. p. 141 ss.
1372
CONTRATTO E IMPRESA
contratto, di cui, all’opposto, ha sempre voluto tener fermi gli effetti. Da
qui l’erroneità della sentenza di rinvio, che aveva respinto l’eccezione di
dolo in base all’irrilevanza del mero silenzio come causa di invalidità dell’atto (5);
ha esplicitamente qualificato il dolo incidente ex art. 1440 c.c., a sua
volta impropriamente evocato dalla difesa della banca in corso di causa,
come fattispecie riconducibile alla violazione della buona fede in contrahendo ex art. 1337 c.c. (6);
ha ulteriormente riconosciuto che in tal caso il quantum risarcibile
dev’essere determinato secondo il criterio dell’integrale risarcimento del
danno, e quindi prescindendo dai limiti quantitativi implicitamente assunti dalla giurisprudenza tradizionale con il ricorso alla nozione di interesse contrattuale negativo (7).
Tali affermazioni seguono e, a loro volta, rafforzano l’orientamento
della S.C., ormai prevalente, che riconosce la continuità tra culpa in con-
(5) Ne consegue per la Corte, in punto di correzione ed integrazione della sentenza
d’Appello, l’ulteriore rilievo che « sono palesemente contraddittorie rispetto all’intento ed
all’interesse della Banca di mantenere fermo il contratto del 30 marzo 1990 – ancora ribaditi in questa sede – le deduzioni con le quali, reiteratamente, la ricorrente si duole della
mancata considerazione della circostanza che l’azione ‘fa seguito ad una condotta negoziale da dolo che ha inciso sul consenso’ . . ., ovvero si riferisce al ‘dolo commesso al tempo
della conclusione del negozio’ . . . e richiama l’art. 1337 c.c. . . . e l’art. 95, r.d.l. 12 marzo
1936, n. 375 . . ., che configurava il cd. mendacio bancario, ipotesi di truffa riconducibile,
sotto il profilo civilistico, alla figura del dolo determinante (o dolus causam dans).
Invero, siffatte deduzioni, così come sviluppate, mirano a prospettare un vizio invalidante del negozio, diretto cioè a porre nel nulla, complessivamente, gli effetti del negozio,
quindi a conseguire un risultato che l’istante ha univocamente dimostrato di non volere,
come già accertato dalla sentenza di questa Corte che ha dato luogo al giudizio di rinvio ».
(6) « La violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento
delle trattative e nella formazione del contratto, benché assuma rilievo anche, quale dolo
incidente, se il contratto concluso sia valido ma risulti pregiudizievole per la parte rimasta
vittima del comportamento scorretto, comporta infatti, secondo la disciplina stabilita dall’art. 1440 c.c., che, in questa ipotesi, la parte che si ritenga lesa può agire al fine di ottenere il risarcimento del danno che detta violazione gli abbia provocato, in quanto, in difetto,
avrebbe concluso il contratto a condizioni diverse ».
(7) « Questa figura di dolo attiene dunque alla formazione del contratto; la sua eventuale esistenza non incide sulla possibilità di far valere i diritti sorti dal medesimo, ma comporta soltanto che il contraente in mala fede è responsabile dei danni provocati dal suo
comportamento illecito ed i danni vanno commisurati al ‘minor vantaggio’, ovvero al ‘maggior aggravio economico’ prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di
buona fede, salvo che ne sia dimostrata l’esistenza di ulteriori, i quali risultino collegati a
detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto (Cass. n.
19024 del 2005; Cass. n. 9523 del 1999) ».
DIBATTITI
1373
trahendo e dolo incidente e, in coerenza con tale assunto, ammettono la
generale configurabilità di una responsabilità ex art. 1337 c.c. anche in
presenza di un contratto validamente concluso.
Per quanto concerne il rapporto tra responsabilità precontrattuale e dolo incidente vanno richiamati i precedenti di Cass. n. 10779 del 1991 (8) e
Cass. n. 2956 del 1999 (9), che si adeguano all’opinione ormai prevalente in dottrina (10). A tale corrente dottrinale fa capo, a sua volta, l’ulteriore giurisprudenza che, a partire da Cass. n. 10249 del 1998 (11), fino alla sentenza n. 19024 del 2005 (12), ha per l’appunto affermato la compatibilità, anche al di fuori dell’ipotesi testuale dell’art. 1440 c.c., tra con(8) Cass., 14 ottobre 1991, n. 10779, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 190 ss., in motivazione, in
part. c. 193.
(9) Cass., 29 marzo 1999, n. 2956, in Giust. civ., 2000, I, p. 3303 ss., e Giur. it., 2000, c.
1192 ss., con nota di Dalla Massara, Dolo incidente: quantum risarcitorio e natura della responsabilità, cui ha fatto seguito il giudizio di rinvio di App. Venezia, 31 maggio 2001, n.
724, in Corriere giur., 2001, p. 1199 ss., con nota adesiva di Dalla Massara, Sul risarcimento del danno per dolo incidente.
(10) In argomento v., per tutti, Mantovani, « Vizi incompleti » del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, in part. pp. 22 ss., 131, 255 e 289. Per una più ampia ricostruzione
del dibattito, con specifico riferimento agli aspetti qui in esame, sia consentito l’ulteriore
rinvio a Meruzzi, La trattativa maliziosa, Padova, 2002, p. 235 ss. Difende, da ultimo, la
concezione classica della responsabilità in contrahendo, che reca tra l’altro con sé il corollario secondo cui la disciplina dell’art. 1440 c.c. costituirebbe norma speciale e, comunque,
non ricollegabile alla responsabilità ex art. 1337 c.c., D’Amico, Buona fede in contrahendo,
in Riv. dir. priv., 2003, p. 335 ss., in part. p. 351 ss., che si interroga sulla stessa opportunità di
trattare la buona fede ex art. 1337 c.c. come una clausola generale.
(11) Cass., 16 ottobre 1998, n. 10249, in Contratti, 1999, p. 329 ss., con nota di Mucio,
Ritardo nella conclusione e responsabilità precontrattuale.
(12) Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, in Danno resp., 2006, p. 25 ss., con nota di Roppo - Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della Cassazione su
nullità virtuale e responsabilità precontrattuale; in Contratti, 2006, p. 446 ss., con nota di Poliani, La responsabilità precontrattuale della banca per violazione del dovere di informazione;
in Corriere giur., 2006, p. 669 ss., con nota di Genovesi, Limiti della “nullità virtuale” e contratti su strumenti finanziari; in Foro it., 2006, I, c. 1105 ss., con nota di Sconditti, Regole di
comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale; in
Giur. comm., 2006, II, p. 626 ss., con nota di Salodini, Obblighi informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del danno. La Cassazione e l’interpretazione evolutiva della responsabilità precontrattuale; in Giur. it., 2006, c. 1599 ss., con nota di Sicchiero, Un buon ripensamento della S.C. sulla asserita nullità del contratto per inadempimento; Nuova giur. civ.
comm., 2006, I, p. 897 ss., con nota di Passaro, Intermediazione finanziaria e violazione degli
obblighi informativi: validità dei contratti e natura della responsabilità risarcitoria; in Giust.
civ., 2006, I, p. 1526 ss. Su tale pronuncia v. anche gli ulteriori commenti di Franzoni, La
responsabilità precontrattuale: una nuova stagione, in Resp. civ., 2006, p. 295 ss.; Miriello,
La responsabilità precontrattuale in ipotesi di contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole,
1374
CONTRATTO E IMPRESA
tratto validamente concluso e violazione del dovere precontrattuale di
correttezza.
Proprio la configurabilità della culpa in contrahendo non nelle sole ipotesi tipizzate di stipulazione di un contratto invalido o di recesso sine causa dalle trattative, ma anche in presenza di un contratto validamente concluso e pur tuttavia condizionato, nei suoi contenuti, dalla violazione della regola di condotta sancita dall’art. 1337 c.c., apre il problema della ridefinizione dell’interesse contrattuale negativo, inteso quale criterio di commisurazione del danno distinto e contrapposto all’interesse contrattuale
positivo. Anche su tali aspetti la Cassazione si è orientata, nelle più recenti sentenze, verso l’abbandono della tesi tradizionale, che partendo dalla
formula descrittiva del danno « da occasioni perdute » commisurava l’interesse negativo in relazione al positivo, per approdare alla più corretta applicazione del criterio dell’integrale risarcimento del danno. In aggiunta ai
già citati precedenti di Cass. n. 2956 del 1999 e Cass. n. 19024 del 2005, da
cui è ripresa la formula del « minor vantaggio » o « maggior aggravio economico », va menzionata l’ulteriore sentenza n. 14539 del 2004 (13), che
anche per tale aspetto ha recepito le conclusioni sostenute ormai da tempo in dottrina (14).
in Resp. civ., 2006, p. 648 ss.; Meruzzi, La responsabilità precontrattuale tra regola di validità
e regola di condotta, in questa rivista, 2006, p. 944 ss.; Morelato, Violazione di obblighi di
informazione e responsabilità dell’intermediario finanziario, in questa rivista, 2006, p. 1616 ss.;
Maffeis, Contro l’interpretazione abrogante della disciplina preventiva del conflitto di interessi
(e di altri pericoli) nella prestazione dei servizi di investimento, in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 71 ss.
(13) Cass., 30 luglio 2004, n. 14539, in Foro it., 2004, I, c. 3009 ss., con nota di Pardolesi, Interesse negativo e responsabilità precontrattuale: di paradossi e diacronie; in Giust. civ.,
2005, I, p. 117 ss.; in Corriere giur., 2005, p. 1099 ss., con nota di Meruzzi, La quantificazione dell’interesse contrattuale negativo nella responsabilità in contrahendo ex art. 1338 c.c.; in
Nuova giur. civ. comm., 2005, I, p. 619 ss., con nota di Rocca, Conoscenza e riconoscibilità
dell’errore. Il danno emergente ed il problema del lucro cessante nella responsabilità precontrattuale.
(14) In argomento v., ex multis, Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto, cit., p. 176, nonché
Id., Diritto civile. 5. La responsabilità, Milano, 1994, in part. p. 127 s.; G. Patti, in G. PattiS. Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard, in Comm. Schlesinger (artt. 13371342), Milano, 1993, p. 88; Pinori, Il principio generale della riparazione integrale dei danni,
in questa rivista, 1998, p. 1144 ss., in part. p. 1146, ove ulteriori riferimenti; Rovelli, La responsabilità precontrattuale, in Tratt. Bessone, XIII, 2, Torino, 2000, p. 199 ss., in part. p. 431
s.; Gallo, Responsabilità precontrattuale: il quantum, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 487 ss., in
part. pp. 502, 511 s., 519, per il quale l’adozione del criterio dell’integrale risarcimento del
danno si giustifica anche in termini di efficienza economica, dato che « ogni forma di limitazione della responsabilità è inefficiente da un punto di vista economico perché fonte di
esternalità negative » (p. 519). Si applicano quindi gli ordinari criteri risarcitori previsti dagli
DIBATTITI
1375
Non è certo questa la sede per ripercorrere nel dettaglio gli argomenti
che inducono a ritenere del tutto condivisibile il mutato atteggiamento
della S.C. nei confronti di problematiche la cui soluzione è stata, per decenni, pesantemente ipotecata da una tradizione giuridica ormai non più
accettabile, in quanto maturatasi nel vigore di un contesto normativo assai lontano dall’attuale (15).
Tuttavia va segnalato che il definitivo accoglimento delle conclusioni
ribadite, sia pure in obiter, proprio con la sentenza n. 5273 del 2007 è oggetto di forte resistenza da parte degli stessi giudici di legittimità. Lo dimostra, tra l’altro, quanto statuito dalla terza sezione con i due precedenti n. 3746 del 2005 (16) e n. 16937 del 2006 (17). Il primo di essi, in tema di
interesse negativo, ribadisce, almeno formalmente, la nozione tralaticia
secondo cui il danno risarcibile sarebbe circoscritto alle spese sopportate
in vista del futuro contratto da concludersi (danno emergente) e alla perdita di occasioni per stipulare un contratto altrettanto vantaggioso (lucro
cessante) (18). Il secondo, concernente la compatibilità tra contratto vali-
artt. 1223 ss. c.c., come è stato peraltro riconosciuto espressamente da Cass., 23 febbraio
2005, in Mass. Foro it., 2005, c. 833. Denuncia da ultimo, a conclusione dell’analisi storicocomparatistica della nozione jheringhiana di interesse negativo, « l’arbitrarietà della perdurante trasposizione nel nostro ordinamento di una limitazione quantitativa del risarcimento dell’interesse negativo e, a fortiori, di una sua generalizzazione a tutte le fattispecie di
culpa in contrahendo, che abbiamo visto non operare in realtà neppure nell’ordinamento tedesco », Turco, L’interesse negativo nella culpa in contrahendo, in Riv. dir. civ., 2007, I, p.
165 ss., in part. p. 190.
(15) In argomento si consenta ancora il rinvio a Meruzzi, La trattativa maliziosa, cit., in
part. pp. 308 ss., 310 e 311, nonché Id., La quantificazione dell’interesse contrattuale negativo
nella responsabilità in contrahendo ex art. 1338 c.c., cit., in part. p. 1104 ss., per quanto concerne la nozione di interesse negativo. Con riferimento al diverso problema del rapporto tra
regole di validità e regole di condotta v. inoltre Id., La responsabilità precontrattuale tra regola di validità e regola di condotta, cit., p. 950 ss.
(16) Cass., 23 febbraio 2005, n. 3746, in Danno resp., 2006, p. 46 ss., con nota di Guerreschi, Responsabilità precontrattuale: liberi di recedere dalle trattative . . . ma fino ad un certo punto.
(17) Cass., 25 luglio 2006, n. 16937, in Contratti, 2007, p. 550 ss., con nota di Fontanella, Il problema del cumulo fra responsabilità precontrattuale e contrattuale; in Giust. civ.,
2006, I, p. 2717 ss.; in Corriere giur., 2007, p. 539 ss., con nota di Rolfi, La Cassazione e la
responsabilità precontrattuale: idee del tutto chiare?
(18) Cass., 23 febbraio 2005, n. 3746, cit., in motivazione, p. 47. L’idea che l’interesse nagativo sia strutturalmente inferiore al positivo, e comunque mai equivalente ad esso, torna
anche in Cass., 10 giugno 2005, n. 12313, in Giur. it., 2006, c. 1389 ss., di redazionale Salerno; Nuova giur. civ. comm., 2006, I, p. 349 ss., con nota di Morese, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione per recesso ingiustificato da trattative con privato e ri-
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CONTRATTO E IMPRESA
damente concluso e responsabilità in contrahendo, ripropone la tesi secondo cui una volta concluso il contratto non sarebbe più ammissibile l’azione di risarcimento danni ex art. 1337 c.c. (19).
Il problema della compatibilità tra contratto validamente concluso e
slealtà precontrattuale torna peraltro, con opposta tensione sistematica, in
Cass. n. 3683 del 2007 (20), ordinanza con cui la prima sezione della Corte,
partendo dalla materia della violazione dei doveri precontrattuali di informazione posti dalla legge a carico degli intermediari finanziari, ha rimesso
alle Sezioni unite l’asserito contrasto concernente la questione se la violazione del dovere di buona fede ex art. 1337 c.c. determini la nullità dei successivi contratti, ex art. 1418, comma 1°, c.c., o la mera risarcibilità dei danni che siano conseguenza di tale illecita condotta (21).
sarcimento del danno, e in Cass., 7 febbraio 2006, n. 2525, in Mass. Foro it., 2006, c. 165 s.,
entrambe concernenti ipotesi di responsabilità precontrattuale della P.A. Ammette invece
che il danno risarcibile possa comprendere anche la retribuzione dell’opera intellettuale,
purchè si tratti di importo già eventualmente anticipato, Cass., 27 ottobre 2006, n. 23289, in
Contratti, 2007, p. 313 ss., con nota di Cavajoni, Ingiustificato recesso dalle trattative e risarcimento del danno.
(19) Cass., 25 luglio 2006, n. 16937, cit., in part. p. 552 s., in motivazione, che dalla tesi
secondo cui la violazione della buona fede precontrattuale non è di per sé idonea a dar luogo ad un’invalidità dell’atto, deduce aprioristicamente che, una volta concluso il contratto,
le trattative « perdono ogni autonomia e ogni giuridica rilevanza, e sotto il profilo risarcitorio convergono . . . in quella struttura contrattuale che, essa si, essa sola, potrà (in ipotesi)
costituire fonte di responsabilità risarcitoria » (p. 553). Nel medesimo senso anche la più recente Cass., 5 febbraio 2007, n. 2479, in Mass. Foro it., 2007. Sull’errore logico sotteso a tale impostazione ci si è soffermati, in termini critici, in Meruzzi, La trattativa maliziosa, cit.,
p. 229 ss., cui si rinvia per più ampia trattazione.
(20) Cass., 16 febbraio 2007, n. 3683 (ord.), in Corriere giur., 2007, p. 631 ss., con nota critica di Mariconda, Regole di comportamento nella trattativa e nullità dei contratti: la criticabile ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite; in Foro it., 2007, I, c. 2093, con
nota di Sconditti, Regole di comportamento e regole di validità nei contratti su strumenti finanziari: la questione alle Sezioni unite; in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 999 ss., con nota di Salanitro, Violazione delle norme di condotta sui contratti di intermediazione finanziaria e tecniche di tutela degli investitori: la prima sezione della Cassazione non decide e rinvia
alle Sezioni unite.
(21) Per comprendere la distanza che, su tale aspetto, separa la prima sezione rispetto
alla terza va peraltro rilevanto che nell’ordinanza di rimessione, che opta esplicitamente per
l’ammissibilità dell’azione di nullità ex art. 1418 c.c. in caso di violazione della buona fede
precontrattuale, il Giudice estensore (Schirò) adduce, a sostegno di tale opinione, che « una
pluralità di indici pone in evidenza un tendenziale inserimento, in sede normativa, del
comportamento contrattuale delle parti tra i requisiti di validità del contratto » (v. p. 634).
Va tuttavia rilevato che, tra la più recente giurisprudenza, anche la Sezione lavoro, con il
precedente di Cass., 6 ottobre 2005, n. 19415, in Mass. Foro it., 2005, c. 1433, opta per la te-
DIBATTITI
1377
Si giustifica quindi, sia pure alla luce di argomenti diversi da quelli
esposti dall’estensore dell’ordinanza, la rimessione della delicata questione alle Sezioni unite. L’auspicio è che queste ultime confermino la ratio
decidendi di Cass. n. 19024 del 2005, mediando così tra le opposte spinte
da un lato alla conservazione acritica del pregresso, dall’altro all’apertura
incondizionata a tesi suggestive ma non compatibili con l’attuale assetto
normativo, oltreché di difficile gestione sotto il profilo delle conseguenze
pratiche.
3. – Il ricorso, da parte della S.C., ai propri precedenti come argomento sistematico a favore della generale ammissibilità dell’exceptio doli, intesa
come rimedio di natura oggettiva
Quanto sopra visto costituisce, in realtà, il contesto sistematico che fa
da sfondo al vero elemento di originalità della sentenza n. 5273 del 2007,
ovvero i principi ivi espressi in tema di exceptio doli generalis.
Con tale pronuncia la Cassazione fa proprie, sotto il profilo non solo
delle conclusioni sistematiche ma anche della logica argomentativa, la sostanza di quanto recentemente esposto in uno studio dedicato alla materia, con il quale si è per l’appunto dimostrata la piena ammissibilità dell’exceptio doli come rimedio di natura generale, operante anche al di fuori
delle ipotesi codificate dal legislatore (22).
Al di là del più che giustificato plauso che va reso alla presa di posizione della S.C., è qui utile ripercorrere l’iter argomentativo della sentenza, onde evidenziarne non solo i profili sistematici salienti, ma anche le
questioni irrisolte, in quanto tali aperte a futuri sviluppi.
La motivazione assume, sul punto, un andamento particolarmente
sintetico e stringente, soprattutto se si considera la complessità degli argomenti affrontati (23). Tuttavia la Corte affronta e risolve una serie di que-
si tradizionale in ordine all’irrilevanza della violazione dei doveri di correttezza e buona fede ai fini della declaratoria d’invalidità, ritenendo nel caso inammissibile l’azione di annullamento dell’atto di dimissioni rese dal lavoratore in presenza di una condotta di controparte contraria a buona fede. Viene in tal modo ribadito, sia pure per implicito, il principio
già sancito dalla cit. Cass. n. 19024 del 2005, che, pur ammettendo la risarcibilità del danno
precontrattuale in presenza di un contratto validamente concluso, ha escluso la rilevanza in
sé delle condotte precontrattuali contrarie a buona fede a fini invalidatori.
(22) Il riferimento è a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale,
Padova, 2005, cui nel corso della trattazione dovrà farsi più volte rinvio.
(23) Merita quindi riportarne per intero il testo: « la tesi sviluppata [dalla banca resistente] è, quindi, coerente con la deduzione quale motivo di appello – giusta l’indicazione contenuta nella sentenza impugnata – della exceptio doli generalis seu presentis che costituisce
1378
CONTRATTO E IMPRESA
stioni di ampio impatto sistematico, sancendo principi del tutto inediti
nella giurisprudenza di legittimità.
Partendo dal rilievo secondo cui l’exceptio doli costituisce rimedio di
carattere generale si afferma infatti, in primo luogo, che il ricorso ad esso
è finalizzato a precludere l’esercizio non solo fraudolento, ma anche sleale, dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento giuridico (24). Da
ciò discende, come espressamente riconosciuto dalla Corte, l’inefficacia
rimedio generale, diretto a precludere l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in
volta attribuiti dall’ordinamento. Siffatto istituto, soprattutto di recente, è stato utilizzato
anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate, benché sussistano opinioni non
concordi in ordine al suo fondamento ed alla collocazione sistematica. Secondo un orientamento, detta eccezione costituirebbe espressione del criterio della buona fede; un differente indirizzo l’ha invece ricondotta al divieto di abuso del diritto; un altro orientamento
rinviene il suo fondamento congiuntamente nel divieto di abuso del diritto e nella violazione del criterio di correttezza; un ulteriore indirizzo reputa che il rimedio condivida con
la buona fede oggettiva e con l’abuso del diritto la medesima esigenza di razionalizzazione
dei rapporti giuridici e di selezione degli interessi meritevoli di tutela, che giustifica e legittima il sindacato del giudice sull’esercizio discrezionale dei diritti attribuiti dall’ordinamento, allo scopo di verificarne la congruità con i valori fondamentali espressi dall’ordinamento e con le finalità insite nel loro normale esercizio.
Indipendentemente da questo contrasto di opinioni, in estrema sintesi, per quanto qui
interessa, è sufficiente osservare che il rimedio è strumentale rispetto allo scopo di paralizzare l’efficacia dell’atto o di giustificare la reiezione della domanda giudiziale fondata sul
medesimo. La sua applicazione è stata effettuata ‘in chiave di oggettivo contenimento di
azioni giudiziarie pretestuose o palesemente malevole, intraprese, cioè, all’esclusivo fine di
arrecare pregiudizio ad altri o contro ogni legittima ed incolpevole aspettativa altrui’, sottolineando l’esigenza di disancorarne gli elementi costitutivi da aspetti e valutazioni essenzialmente soggettivi, ricercando sicuri contorni di natura oggettiva (Cass. n. 15592 del
2000). Questa Corte ha quindi individuato una situazione legittimante l’exceptio doli generalis seu presentis nella circostanza che l’attore, nell’avvalersi di un diritto del quale pretende tutela giudiziale, si renda colpevole di frode, in quanto sottace, nella prospettazione della fattispecie controversa, situazioni sopravvenute alla fonte negoziale del diritto fatto valere ed aventi forza modificativa o estintiva del diritto stesso (Cass. n. 10864 del 1999), ovvero – ancora con riguardo al cd. contratto autonomo di garanzia – nel caso di richieste di pagamento risultanti prima facie abusive o fraudolente (Cass. n. 3964 del 1999; n. 3552 del
1998; n. 12341 del 1992), avendo talora fatto applicazione – sia pure non esplicita – del divieto di venire contra factum proprium, affermato mediante la regola della correttezza (Cass.
n. 5639 del 1984, in materia di contratto di assicurazione; Cass. n. 12405 del 2000, in tema di
dichiarazione di fallimento; Cass. n. 13190 del 2003, in materia di rapporti di lavoro; cfr. anche Cass. n. 15592 del 2000, anche se sembra farvi riferimento al precipuo fine di esplicitare le posizioni della dottrina), fermo restando il limite oggettivo della meritevolezza dell’interesse perseguito ».
(24) Testualmente in tal senso Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., in part. p. 451 e p. 532. Ma già in precedenza l’idea che con l’exceptio doli sia
DIBATTITI
1379
dell’atto o il rigetto, anche ex officio, della domanda giudiziale vòlta a far
valere la pretesa giuridica di cui si è formalmente titolari, ma che nella sostanza l’ordinamento non tutela (25).
Il principio reca con sé un importante corollario, ovvero quello secondo cui l’exceptio doli, proprio in quanto strumento di tutela avverso condotte anche solo sleali e non per forza fraudolente, costituisce un rimedio
avente natura oggettiva (26). Per quanto la Corte non si dilunghi sulle ricadute sistematiche di tale affermazione, ne va tratta la logica conclusione
secondo cui l’azionabilità del rimedio prescinde dalla sussistenza, in capo
al titolare del diritto vantato, di una finalità fraudolenta o dolosa, dovendosi a tal fine ritenere sufficiente la prova della mera conoscenza o della
conoscibilità, secondo diligenza, della contrarietà ai canoni della correttezza della condotta tenuta, che è a sua volta conseguenza dell’ingiustificato persistere nella propria pretesa (27).
possibile sanzionare non solo condotte fraudolente, ma anche comportamenti meramente
sleali è ben espressa, in dottrina, da Ranieri, Eccezione di dolo generale, in Digesto, disc.
priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 311 ss., in part. p. 322.
(25) Il che è conseguenza della natura sostanziale assunta dal rimedio nel diritto vigente, a differenza di quanto accadeva, in origine, nel diritto romano. In argomento v. Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 461, ove ulteriori riferimenti, nonché, con riguardo al diritto romano, Ranieri, Exceptio temporis e replicatio doli nel
diritto dell’europa continentale, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 253 ss., in part. p. 265, e Talamanca, La bona fides nei giuristi romani: ‘leerformeln’ e valori tutelati dall’ordinamento, in Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, IV, Padova, 2003, p. 1 ss., in part. p. 39 s. e p. 145. Per le varie applicazioni dell’exceptio doli nel diritto romano v. inoltre, da ultimo, i contributi raccolti in Aa.Vv., L’eccezione di dolo generale. Diritto romano e tradizione romanistica, a cura di Garofalo, Padova, 2006,
cui si rinvia.
(26) Sul punto v. Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., in
part. p. 462, ove si parla di fattispecie oggettivata. In termini analoghi si esprime, in dottrina, anche Portale, Lezioni di diritto privato comparato, Torino, 2001, p. 156, per il quale
l’exceptio doli « può essere opposta pure in base a sole circostanze oggettive, dalle quali risulta che nel caso concreto l’esercizio del diritto dà luogo a situazioni contrastanti con l’equità, a prescindere da qualsiasi elemento soggettivo ».
(27) In dottrina v. in tal senso il già cit. Pellizzi, Exceptio doli (diritto civile), p. 1077, ove
ulteriori riferimenti. In giurisprudenza va segnalata la sentenza di Cass., 11 dicembre 2000,
n. 15592, in Giust. civ., 2000, I, p. 2439 ss., con nota di Costanza, Brevi note per non abusare
dell’abuso del diritto; in Giur. it., 2001, c. 1887 ss., con note di Giusti, Impugnative di bilancio ed exceptio doli, ed di Bergamo, Abuso del diritto e impugnativa del bilancio; in Foro it.,
2001, I, c. 3274 ss.; in Riv. dir. comm., 2001, II, p. 197 ss., con nota di Astone, Impugnativa di
bilancio e divieto di venire contra factum proprium, precedente peraltro esplicitamente richiamato dalla stessa S.C., che scompone la nozione di exceptio doli nelle due direttrici del
divieto di venire contra factum proprium e della negazione di tutela giuridica « al soggetto
1380
CONTRATTO E IMPRESA
Altro principio sancito dalla Cassazione, sia pure implicitamente, attiene al fondamento dell’exceptio doli, ed è desumible dalla tecnica argomentativa utilizzata. Nella propria motivazione la Corte, infatti, analizza i precedenti giurisprudenziali in materia e desume da essi, con logica tipicamente induttiva, l’esistenza dell’exceptio doli come regola generale. Tale
modus operandi postula l’accoglimento della tesi, altrove prospettata, secondo cui l’exceptio doli costituisce una clausola generale di creazione
giurisprudenziale (28).
La Corte si astiene infatti, come meglio si vedrà nel successivo paragrafo, dal prendere espressa posizione sul fondamento sistematico dell’exceptio doli, evitando ogni riferimento non solo alle fattispecie tipizzate dal
legislatore, ma anche alle norme che codificano la clausola generale della
buona fede (29). Con logica autogiustificativa i giudici di legittimità pongono a fondamento dell’istituto unicamente la propria giurisprudenza e i
principi di diritto ivi richiamati.
L’analisi giurisprudenziale legittima tale approccio. L’esame dei precedenti conferma che i giudici fanno espresso ricorso all’exceptio doli, anche
al di fuori delle ipotesi codificate, in una serie ormai tipizzata di fattispecie quali il contratto autonomo di garanzia, il credito documentario e la fideiussione omnibus (30). A ciò si aggiunge un diffuso utilizzo del rimedio
che intenda trarre vantaggio da un suo precedente comportamento scorretto » (e non, quindi, dalla sua condotta fraudolenta o dal suo maleficio).
Va da sé che, in termini operativi, il problema investe il profilo probatorio, con riguardo al quale si rinvia, per brevità, a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 462, in part. in nota 103, ove ulteriori riferimenti bibliografici.
(28) Il riferimento è, ancora una volta, a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 460.
(29) Sulle norme riconducibili alla ratio sottesa all’istituto dell’exceptio doli v. per tutti,
in dottrina, le elencazioni fornite da Carraro, Valore attuale della massima ‘fraus omnia
corrumpit’, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, p. 782 ss., in part. p. 785 s.; Pellizzi, Exceptio doli (diritto civile), cit., p. 1079 s.; Galgano, Mancata esecuzione del ‘transfert’ ed esercizio dei
diritti sociali nel trasferimento per girata delle azioni nominative, in Riv. dir. civ., 1962, II, p.
400 ss., in part. p. 417; Torrente, Eccezione di dolo, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, p. 218
ss., in part. p. 219; Nanni, L’uso giurisprudenziale dell’exceptio doli generalis, in questa rivista,
1986, p. 197 ss., in part. p. 207 s.; Ranieri, Eccezione di dolo generale, cit., p. 322.
(30) Per la ricostruzione dei relativi orientamenti v. ancora Meruzzi, L’exceptio doli dal
diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 465 ss., ove ulteriori riferimenti. Con riferimento
al contratto autonomo di garanzia, unica tra la fattispecie tipizzate ad essere espressamente
menzionata dalla Corte, vengono richiamati i precedenti di Cass., 18 novembre 1992, n.
12341, in Giust. civ., 1993, I, p. 1535 ss., con nota di Costanza, Contratto di garanzia e diritti di regresso della banca controgarante; in Banca, borsa, tit. cred., 1994, II, p. 284 ss.; Cass., 6
aprile 1998, n. 3552, in Giur. it., 1999, c. 502 ss., con nota di Barbieri, La polizza fideiussoria
tra normativa tipica e prassi contrattuale; in Banca, borsa, tit. cred., 2001, II, p. 667 ss.;
DIBATTITI
1381
tramite la sua applicazione talora palese, più spesso occulta, anche in casi
ulteriori e diversi, soprattutto in ambito societario (31).
È proprio sulle fattispecie giurisprudenziali non tipizzate che si concentra la Cassazione quando rinvia alle sentenze n. 5639 del 1984 (32), n.
12405 del 2000 (33), n. 15592 del 2000 (34) e n. 13190 del 2003 (35).
Cass., 21 aprile 1999, n. 3964, in Arch. civ., 2000, p. 222; Cass., 1° ottobre 1999, n. 10864, in
Corriere giur., 1999, p. 1463 ss.; in Contratti, 2000, p. 139 ss., con nota di Lamanuzzi, Fideiussione e contratto autonomo di garanzia. In argomento v. da ultimo, in dottrina, Barillà, Contratto autonomo di garanzia e Garantienertrag, Frankfurt, 2004, in part. p. 109 ss.
(31) Non a caso la prima pronuncia di legittimità che, al di fuori delle fattispecie tipizzate,
riconosce esplicitamente l’ammissibilità dell’exceptio doli, sia pure in obiter, matura in ambito societario. Si tratta del precedente di Cass., 12 ottobre 1994, n. 8332, in Società, 1995, p. 175
ss., con nota di Fabrizio, Nessun limite alla richiesta di estratti del libro soci, con cui la Cassazione ha ammesso la possibilità di neutralizzare, tramite l’exceptio, il diritto ad ottenere copia
integrale della documentazione contenuta nel libro soci qualora, per le modalità di suo esercizio, integri una condotta emulativa, ovvero tale da esulare completamente dalle finalità di
informazione dei soci sottese al diritto di ispezione riconosciuto dall’art. 2422 c.c.
Per un esame delle singole ipotesi, in base alla distinzione tra applicazioni palesi ed occulte, v. Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 476 ss., nonché p. 490 ss. con riferimento alle applicazioni in materia societaria, in part. p. 491 in nota
157 per quanto concerne la sentenza n. 8332 del 1994. Una più ampia trattazione della materia, suddivisa per aree tematiche e settori ordinamentali, è ora offerta dai numerosi contributi raccolti in Aa.Vv., L’eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali e tecniche dottrinali, a cura di Garofalo, Padova, 2006.
(32) Cass., 8 novembre 1984, n. 5639, in Foro it., 1985, I, c. 2050 ss., con nota redazionale di Paganelli; in Resp. civ. prev., 1985, p. 376 ss.; in Giur. it., 1985, I, 1, c. 436 ss., che ha ammesso l’applicazione dell’art. 1460 c.c. anche alla fattispecie prevista dall’art. 1901 ult. cpv.
c.c., considerata espressione particolare dell’istituto dell’eccezione di inadempimento, con
la conseguenza che, in caso di mancato pagamento dei premi, l’assicuratore non può invocare tale disposizione in violazione della buona fede.
(33) Cass., 19 settembre 2000, n. 12405, in Foro it., 2001, I, c. 2326 ss., con nota redazionale di Silvestri, per la quale se l’insolvenza dell’impresa è determinata dall’unico suo creditore, che con la propria condotta ha impedito all’imprenditore insolvente di realizzare
quanto necessario per far fronte al debito, il creditore non è legittimato a proporre istanza
di fallimento e, se accolta, la relativa procedura dev’essere revocata.
(34) Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592, cit., riferita al ben noto tema dell’ammissibilità
dell’exceptio doli in sede di impugnativa di bilancio. Secondo la massima ufficiale la pronuncia costituisce un’applicazione negativa del divieto di venire contra factum proprium, dato che per i giudici di legittimità l’amministratore che abbia concorso ad approvare il progetto di bilancio è comunque legittimato, nella sua diversa qualità di socio, ad impugnarne
la delibera assembleare di approvazione. La ratio decidendi effettiva della sentenza va tuttavia ridimensionata, nel senso che è ivi espresso il principio per cui non costituisce di per sè
abuso del diritto, sub specie di violazione del divieto di venire contra factum proprium, il fatto che la medesima persona che ha concorso, come amministratore di una società, all’ap-
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CONTRATTO E IMPRESA
Nella logica seguita dalla Corte il richiamo a precedenti non riconducibili a fattispecie tipizzate avvalora e conferma l’idea che l’exceptio doli è
istituto la cui esistenza prescinde da ogni norma codificata. Tuttavia proprio l’assenza di un fondamento normativo solleva il problema in ordine
al presupposto della sua operatività. L’unica risposta sistematicamente accettabile a tale interrogativo consiste nell’affermarne l’esistenza quale
clausola generale di origine giurisprudenziale, che opera nel sistema a
prescindere da ogni riferimento normativo e dalle scelte operate, in materia, dal legislatore del 1942 (36). Tramite l’exceptio doli viene attribuito al
giudice un potere di sindacato sul concreto esercizio dei diritti soggettivi,
diretto a verificarne la congruità con i valori fondamentali espressi dall’ordinamento e con le finalità insite nel loro normale esercizio (37).
La conclusione non deve stupire, né a ben vedere è così eversiva come
a prima vista appare. È ormai largamente diffusa e condivisa l’idea che,
pur nel quadro di una concezione giuspositivistica del diritto, sebbene
non dogmatica, al giudice va riconosciuto un ruolo creativo analogo a
quello svolto dal legislatore (38).
provazione del bilancio di esercizio proceda poi alla sua impugnazione come socio della società medesima, qualora non sia data l’ulteriore prova della violazione, da parte sua, del criterio di correttezza; prova che, ricorrendone i presupposti, può essere sempre fornita. Per
più ampio sviluppo si rinvia a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 495 ss., in part. p. 497. In argomento v. inoltre Portale, Impugnative di bilancio ed
exceptio doli, in Giur. comm., 1982, I, p. 407 ss., in part. p. 418.
(35) Cass., sez. lav., 9 settembre 2003, n. 13190, in Guida al dir., 38/2003, p. 62 ss., per la
quale la violazione, da parte del datore di lavoro, del principio di immediatezza nella contestazione dell’addebito disciplinare a carico del dipendente comporta il venir meno della facoltà di far valere l’illecito da costui commesso, in virtù della necessità di tutelare l’affidamento del lavoratore, generato dalla situazione di inerzia, circa lo scarso rilievo dell’infrazione.
(36) Si tratta dell’ipotesi di lavoro espressamente enunciata in Meruzzi, L’exceptio doli
dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. XII.
(37) In tal senso, a conclusione dell’esame svolto, Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 460, cui si rinvia per più ampia trattazione.
(38) Il tema è già stato ampiamente sviluppato, con riguardo ai profili che qui interessano, in Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 55 ss. Tra i numerosi apporti della dottrina meritano in questa sede di essere ricordati i contributi di Bigiavi, Appunti sul Diritto giudiziario, 1933, rist., Padova, 1989, in part. p. 51 ss. e p. 135; Betti, Teoria generale della interpretazione, Milano, 1955, rist., Milano, 1990, II, in part. p. 858
ss.; Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, in part. p. 372
ss.; Galgano, Giurisdizione e giurisprudenza in materia civile, in questa rivista, 1985, p. 29
ss., in part. p. 33 s.; Marinelli, Ermeutica giudiziaria, Milano, in part. p. 183; Id., “Dire il diritto”. La formazione del giudizio, Milano, 2002; Luzzati, L’interprete e il legislatore, Milano,
1999; Taruffo, Legalità e giustificazione della creazione giudiziaria del diritto, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2001, p. 11 ss., in part. p. 11 e p. 22.
DIBATTITI
1383
Altrettanto condivisa è l’idea che nei sistemi giuridici contemporanei
gli standards valutativi, e le clausole generali in particolare, assumono un
ruolo sempre crescente come consapevole tecnica normativa e come strumento operativo per la soluzione delle controversie (39).
Nulla quindi impedisce, in tale contesto sistematico, di riconoscere
che il giudice, nella propria attività, può desumere l’esistenza, dal com-
Tra gli scritti più recenti v. inoltre Lipari, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, p. 711 ss., in part. p.
712 s.; Zaccaria, Il giudice e l’interpretazione, in Pol. dir., 2006, p. 461 ss., in part. p. 467 s.,
per il quale « il diritto giurisdizionale configura perciò senza alcun dubbio un’attività produttiva di diritto », nel senso che « tale creazione di diritto rappresenta l’esito di un’attività
riferita alle norme legislative e da esse derivata », con la conseguenza che « la creatività del
giudice rappresenta . . . uno strumento necessario per consentire alla creatività del legislatore, che si colloca su di un piano strutturalmente diverso, . . . di attuarsi sotto il profilo normativo. . . . Pretendere di eliminare surrettiziamente qualsiasi momento creativo in sede
giurisdizionale finirebbe, paradossalmente, con l’occultare quegli inevitabili interventi di
perfezionamento giudiziale della norma che occorre invece mettere pienamente in luce al
di là di qualsiasi artificio retorico, in modo da consentire un loro effettivo controllo »; Rordorf, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, in Foro it., 2006, V, c. 279 ss., in part. c. 280, ove il rilievo che è « impossibile non riconoscere anche nel nostro sistema una funzione creativa della giurisprudenza, quanto meno
– ma non solo – in tutti i campi nei quali il legislatore opera attraverso clausole generali (o
norme elastiche), per ciò stesso suggerendo che sia l’interprete a specificare di volta in volta il contenuto del precetto legale che deve essere attinto dal patrimonio dei valori sociali ».
(39) Si tratta di fenomeno ormai da tempo avvertito ed analizzato dalla dottrina, a partire dai contributi di Rodotà, Ideologie e tecniche nella riforma del diritto civile, in Riv. dir.
comm., 1967, I, p. 83 ss., in part. p. 89 s.; Id., Il tempo delle clausole generali, in Busnelli (a
cura di), Il principio di buona fede, Milano, 1987, p. 247 ss., in part. p. 253, cui adde, tra i più
recenti contributi, Confortini, Brevi note sul principio di effettività e la giurisprudenza come
fonte del diritto, in Studi in onore di P. Rescigno, I, Milano, 1998, p. 309 ss., in part. p. 314, e
Fois, Le clausole generali e l’autonomia statutaria nella riforma del sistema societario, in
Giur. comm., 2001, I, p. 421 ss., in part. p. 432. Con riguardo al ruolo delle clausole generali
nell’interpretazione v. da ultimo, in prospettiva de iure condendo, Lipari, Per una revisione
della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, cit., in part. p. 724 ss. Per
una più accurata trattazione delle varie probematiche sollevate dal ricorso a tali norme si
rinvia a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., in part. p. 31 ss.
Una conferma del ruolo crescente assunto dalle clausole generali nel diritto privato,
anche in ambito comunitario, si trae dalla lettura del Libro verde della Commissione Europea
sulla Revisione dell’acquis relativo ai consumatori, in G.U.C.E. C 61, 15 marzo 2007, p. 1 ss.,
in part. p. 7 e 11, che, nel definire le direttrici di ammodernamento e razionalizzazione della disciplina comunitaria a tutela dei consumatori, inserisce tra i quesiti oggetto di pubblica
consultazione anche quello in ordine all’opportunità o meno di prevedere una clausola generale di buona fede quale generale criterio di condotta cui attenersi in sede di conclusione
ed interpretazione del contratto.
1384
CONTRATTO E IMPRESA
plesso del sistema giuridico, non solo di principi, come ammesso espressamente dalla legge (art. 12 cpv. prel.), ma anche di clausole generali, la
cui ammissibilità ha come unico limite la loro coerenza con le norme vigenti e con gli stessi principi generali del diritto.
Le clausole generali di origine giurisprudenziale consentono al giudice, alla pari di quelle codificate, di introdurre nell’ordinamento giuridico
regole operative attinte dal complesso dei valori economico-sociali condivisi in un determinato momento storico, la cui coerenza con le norme
analitiche e con i valori fondanti del sistema è salvaguardata dalla possibilità di sindacato, da parte della Cassazione, per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex n. 3 art. 360 c.p.c., come riconosciuto dalla
stessa giurisprudenza di legittimità (40).
(40) In tal senso Cass., sez. lav., 18 gennaio 1999, n. 434, in Foro it., 1999, I, c. 1891 ss.,
con note di E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di licenziamento, e di De Cristofaro, Sindacato di legittimità sull’applicazione dei « concetti giuridici indeterminati » e decisione immediata della causa nel merito; in Giust. civ., 1999,
I, p. 667 ss., con nota di Giacalone, Dalla certezza del diritto alla « civiltà del lavoro »: un licenziamento in tronco da parte della Corte di cassazione? ; in Corriere giur., 1999, p. 718 ss.,
con nota di Recchioni, Norme “elastiche”, standards valutativi e sindacato di legittimità della Corte di cassazione; Riv. it. dir. lav., 1999, II, p. 441 ss., con nota di Bove, Il sindacato della Corte di cassazione in relazione all’applicazione del concetto di giusta causa di licenziamento; Cass., sez. lav., 22 ottobre 1998, n. 10514, in Foro it., 1999, I, c. 1891 ss., cit.; Cass., sez.
lav., 13 aprile 1999, n. 3645, in Foro it., 1999, I, c. 3558 ss., con nota di E. Fabiani, Norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, clausole generali, « standards » valutativi e principî generali dell’ordinamento; Cass., sez. lav., 22 aprile 2000, n. 5299; Cass., sez. lav., 8 maggio
2000, n. 5822; Cass., sez. lav., 21 novembre 2000, n. 15004; Cass., sez. lav., 3 agosto 2001, n.
10750; Cass., sez. lav., 15 novembre 2001, n. 14229, tutte pubblicate in Foro it., 2003, I, c.
1845 ss., con nota di E. Fabiani, Orientamenti della Cassazione sul controllo delle clausole generali, con particolare riguardo alla giusta causa di licenziamento; Cass., sez. lav., 4 maggio
2002, n. 6420, in Foro it., 2002, I, c. 2378 ss.; Cass., sez. lav., 26 luglio 2002, n. 11109, in Mass.
Foro it., 2002; Cass., sez. lav., 22 agosto 2002, n. 12414, in Mass. Foro it., 2002; Cass., sez.
lav., 3 settembre 2003, n. 12483, in Foro it., 2004, I, c. 1174 ss., con nota redazionale adesiva
di E. Fabiani; Cass., 17 agosto 2004, n. 16037, in Giust. civ., 2005, I, p. 2085 ss.; Cass., 2 novembre 2005, n. 21213, in Mass. Foro it., 2005, c. 1926 s. Con tali precedenti la giurisprudenza di legittimità accoglie le soluzioni proposte, già agli inizi degli anni ’80 dello scorso
secolo in base ad un’analisi storico-evolutiva della giurisprudenza in materia, da Roselli, Il
controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1983, passim, in part.
p. 187. In argomento v. inoltre Galgano, L’efficacia vincolante del precedente di Cassazione,
in questa rivista, 1999, p. 889 ss.; E. Fabiani, Clausole generali e sindacato della Cassazione,
Torino, 2003, in part. p. 1 ss. e 54 ss.; Id., Il sindacato della Corte di Cassazione sulle clausole generali, in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 581 ss., in part. p. 602 ss. e 610 ss.; Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., in part. p. 52 s. e p. 130 ss., cui si rinvia per
più ampia trattazione.
DIBATTITI
1385
La sentenza n. 5273 del 2007 sancisce, infine, il riconoscimento del divieto di venire contra factum proprium e la sua riconduzione nell’alveo sistematico dell’exceptio doli. Di per sé la configurabilità del divieto di venire contra factum proprium come regola implicita del diritto privato non costituisce certo una novità. La riconosce ormai da tempo la dottrina, che
negli studi più recenti si preoccupa di definirne i contorni sistematici e le
condizioni d’uso (41). Sempre più frequente è il suo uso da parte della giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, talora in forma esplicita (42),
più spesso applicandone, in forma occulta, la ratio sostanziale (43).
(41) A tale finalità sono dedicati, in particolare, i contributi di Astone, Venire contra factum proprium, Napoli, 2006, e Festi, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, Milano, 2007,
cui si rinvia per una più ampia trattazione.
(42) In particolare in ambito comunitario, come conferma la sentenza di Corte giust.
Ce, 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage Ltd c. Crehan, in Raccolta, 2001, I, p. 6297
ss.; Foro it., 2002, I, c. 75 ss., con note di Palmieri-Pardolesi, Intesa illecita e risarcimento a
favore di una parte: « chi è causa del suo mal . . . si lagni e chieda i danni », Sconditti, Danni
da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, e Gius. Rossi, «Take Courage »! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust; in Danno resp., 2001, p. 1151 ss., con nota di Bastianon,
Intesa illecita e risarcimento del danno a favore della parte debole; in Riv. dir. int., 2001, p.
1133 ss.; in Corriere giur., 2002, p. 454 ss., con nota di Colangelo, Intese obtorto collo e risarcibilità del danno: le improbabili acrobazie dell’antitrust comunitario; in Resp. civ. prev.,
2002, p. 668 ss., con nota di Tonelli, Intesa antitrust e risarcimento del danno; in Europa dir.
priv., 2002, p. 785 ss., con nota di Di Majo, Il risarcimento da inadempimento del contratto,
con cui la Corte ha esplicitamente riconosciuto che il divieto di venire contra factum proprium costituisce principio generale del diritto comunitario.
(43) Oltre alle già cit. sentenze di Cass., 8 novembre 1984, n. 5639; Cass., 19 settembre
2000, n. 12405; Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592 e Cass., sez. lav., 9 settembre 2003, n.
13190, vanno qui ricordati i precedenti di Trib. Milano, 3 gennaio 2000, in Banca, borsa, tit.
cred., 2001, II, p. 608 ss., con nota di De Luca, Estinzione della fideiussione ex art. 1955 c.c.
e ritardo sleale nell’esercizio del diritto; Cass., 25 luglio 2000, n. 9728, in Mass. Foro it., 2000,
c. 920 s.; Cass., 6 giugno 2002, n. 8222, in Danno resp., 2002, p. 941 ss., con nota di Cuocci,
Leasing finanziario e vizi occulti della cosa; in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 435 ss., con
nota di Chindemi, Leasing di autovettura non immatricolata: diritti ed obblighi delle parti,
che fanno ricorso al medio sistematico della buona fede oggettiva. In altre e più numerose
ipotesi la giurisprudenza prescinde dal riferimento a tale clausola generale, come confermano i precedenti di Cass., 29 settembre 2000, n. 12953, in Contratti, 2001, p. 244 ss., con
nota di Romeo, Vendita di cosa altrui: la responsabilità del venditore; Cass., 23 febbraio 2001,
n. 2661, in Foro it., 2001, I, c. 3254 ss., con nota redazionale di Mastrorilli; Cass., sez. lav., 26
maggio 2003, n. 8363, in Mass. Foro it., 2003; Cass., 16 luglio 2003, n. 11149, in Danno resp.,
2004, p. 42 ss., con nota di Foffa, Opera non eseguita a regola d’arte ma accettata dal committente: esclusa la responsabilità dell’appaltatore; Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, in
Guida dir., 49/2003, p. 31 ss.; Cass., 20 febbraio 2004, n. 3403, in Mass. Foro it., 2004, ai quali va aggiunta la giurisprudenza in tema di rinuncia tacita o acquiescenza e di prescrizione.
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CONTRATTO E IMPRESA
Il profilo di novità consiste, in realtà, nel riconoscimento esplicito che
il divieto di venire contra factum proprium è, per l’appunto, parte integrante dell’exceptio doli, di cui costituisce una della più rilevanti manifestazioni. Il che legittima, negli argomenti della Corte, il ricorso alle sue ipotesi
di applicazione occulta e non tipizzate proprio per giustificare l’ammissibilità dell’exceptio doli quale rimedio generale.
4. – Il problema, apparentemente non risolto, del fondamento sistematico
dell’exceptio doli
Pur enunciando compiutamente i termini del problema la Corte si
astiene, almeno formalmente, dal prendere posizione in ordine alla questione del fondamento sistematico dell’exceptio doli.
Non deve stupire, e va sicuramente condivisa, la scelta dei giudici di
legittimità di affrontare la problematica dell’exceptio doli esclusivamente
« per quanto qui interessa », ovvero senza entrare nel dettaglio di una questione sistematica non rilevante in relazione alla concreta fattispecie e,
quindi, non utile ai fini della decisione. Si tratta di atteggiamento rispettoso della coerenza tra contenuto della motivazione e caso deciso, e in linea
con quell’esigenza di self-restraint dell’organo giudicante che costituisce
uno dei principali fattori di autorevolezza del precedente (44).
Per più ampio esame di tali fattispecie si rinvia a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al
diritto commerciale, cit., in part. p. 479 ss. e p. 484 ss. Distingue a sua volta, nell’esame delle
numerose fattispecie dottrinali e giurisprudenziali, tra ipotesi riconducibili alla buona fede
oggettiva ed ipotesi estranee a tale clausola generale Festi, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, cit., p. 109 ss. e p. 183 ss.
Tra la giurisprudenza più recente si segnala, inoltre, Cass., 13 dicembre 2005, n. 27405,
in Giur. it., 2006, c. 2264 ss., con nota redazionale di Mondini; in Nuova giur. civ. comm.,
2006, I, p. 976 ss., con nota di Moscati, Osservazioni in tema di imputazione dei pagamenti,
in materia di acquiescenza all’imputazione di pagamento effettuata dal creditore; Cass., 20
dicembre 2005, n. 28243, in Società, 2006, p. 1505 ss., con nota di Balzarini, Effetti della delibera di approvazione del bilancio sui compensi autoattribuiti degli amministratori, sulla ratifica tacita delle delibere consiliari aventi ad oggetto la determinazione dei compensi degli
amministratori; Cass., 2 maggio 2006, n. 10120, in Mass. Foro it., 2006, c. 847, sul decorso
dei termini di decadenza in pendenza di trattative.
(44) In argomento v. per tutti le riflessioni svolte da Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, in questa rivista, 1988, p. 545 ss., in part. p. 548, da
Visalli, La logica del giudice e la funzione uniformatrice della Cassazione, in Riv. dir. civ., 1998,
I, p. 705 ss., in part. p. 724, e da Vacca, Casistica e sistema nel diritto giurisprudenziale. Alcune
riflessioni con riferimento al ‘metodo’ dei giuristi romani, in Europa e dir. priv., 2003, p. 325 ss., in
part. p. 340, che evidenzia la carenza, da parte dei giuristi continentali, nell’uso razionale dei
precedenti ai fini di uno stretto collegamento dei principi di diritto al caso concreto.
DIBATTITI
1387
Resta tuttavia ferma la constatazione che la sentenza n. 5273 del 2007
non risolve uno dei nodi fondamentali in tema di exceptio doli, quello
concernente, per l’appunto, il suo fondamento sistematico; problema che,
a sua volta, è connesso all’individuazione della funzione svolta da tale rimedio nel sistema del diritto privato.
Per radicata tradizione giuridica la questione è strettamente legata alla
buona fede oggettiva e al divieto di abuso del diritto, nonché alle funzioni a loro volta assunte da tali istituti.
Parte della dottrina riconduce infatti l’exceptio doli alla buona fede oggettiva, rispetto alla quale costituirebbe uno dei rimedi, in sostituzione o
in aggiunta al risarcimento del danno, utilizzabili per reprimere le condotte contrarie alle regole di correttezza (45).
Altra parte considera invece l’exceptio doli come la manifestazione, in
termini operativi, del divieto di abuso del diritto, istituto con riferimento
al quale si assiste, a sua volta, ad una concettualizzazione promiscua, in
cui non è chiaro il profilo distintivo rispetto alla stessa buona fede oggettiva (46).
(45) In tal senso già Barassi, La teoria generale delle obbligazioni. III. L’attuazione, Milano, 1948, p. 13, poi seguito da Carraro, Valore attuale della massima « fraus omnia corrumpit », cit., p. 793 s.; Pellizzi, Exceptio doli (diritto civile), cit., p. 1075; Natoli, L’attuazione
del rapporto obbligatorio e la valutazione del comportamento delle parti secondo le regole della correttezza, in Banca, borsa, tit. cred., 1961, I, p. 157 ss., in part. p. 169 s.; Id., L’attuazione
del rapporto obbligatorio, I, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano, 1974, p. 38 s.; Torrente, Eccezione di dolo, cit., p. 221; Bigliazzi Geri, Buona fede nel diritto civile, in Digesto, disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, p. 154 ss., in part. p. 173; Franzoni, Degli effetti del contratto, II, in Comm. Schlesinger (artt. 1374-1381), Milano, 1999, p. 252.
Ripropone da ultimo tale visione sistematica Festi, Il divieto di “venire contro il fatto
proprio”, cit., p. 109 ss., giustificandola con il rilievo che la tesi andrebbe preferita alle altre
suggerite in dottrina in quanto, « a differenza di queste, risulta compatibile con il nostro sistema » (p. 109). Analoghe conclusioni in Astone, Venire contra factum proprium, cit., in
part. p. 237 ss., che, pur negando l’esistenza di un generale principio di non contraddizione,
nel cui ambito andrebbe ascritto il divieto di venire contra factum proprium, ritiene che la ratio ad esso sottostante operi tramite l’applicazione delle clausole generali e, in particolare,
la buona fede contrattuale.
(46) Per tale opinione v. in part. Nanni, L’uso giurisprudenziale dell’exceptio doli generalis, cit., p. 211 ss. Sul collegamento tra divieto d’abuso ed exceptio doli, e sull’analogia di
funzione assunta da tali istituti, si diffonde anche Festi, Il divieto di “venire contro il fatto
proprio”, cit., p. 92 ss., secondo il quale l’exceptio doli rappresenterebbe « la descrizione in
termini processuali del rimedio collegato all’abuso del diritto » (p. 94). Sul fondamento del
divieto di abuso v. ex multis, con diversità talora sensibili di impostazione, Gambaro, Abuso del diritto. II) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, p. 1 ss.,
in part. p. 2; S. Patti, Abuso del diritto, in Digesto, disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1989, p. 1 ss.,
in part. p. 6 s.; Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 205 ss., ora riedito in
1388
CONTRATTO E IMPRESA
Proprio la carenza di definizione dei contorni sistematici e degli elementi distintivi tra buona fede e abuso del diritto hanno indotto parte della dottrina a rinvenire il fondamento dell’exceptio doli nel congiunto operare di tali istituti (47). In realtà nessuna di tali ricostruzioni può essere accettata né sotto il profilo sistematico né in termini operativi, in quanto sono tutte caratterizzate, nel loro complesso, da un medesimo vizio, ovvero
dall’appiattimento dell’exceptio doli su istituti ben distinti tra loro, rispetto
ai quali essa si pone in un rapporto sì di complementarietà, ma non certo
di riassorbimento (48).
Per quanto attiene all’aspetto sistematico si è altrove dimostrata, in primo luogo, la diversa origine storica dell’exceptio doli rispetto alla buona fede oggettiva e al divieto di abuso (49). A tale rilievo, di per sé non dirimente,
si aggiunge la considerazione che qualificare l’exceptio doli come una mera
appendice operativa della buona fede oggettiva vuol dire limitarne l’ambito
di applicazione al diritto delle obbligazioni e dei contratti (50). D’altro canto
Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1998, in part. p. 21; Busnelli-Navarretta, Abuso del diritto e
responsabilità civile, in Diritto privato, 1997 (III), p. 171 ss., in part. p. 181 s. e p. 210 s.; Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato, 1997 (III), p. 5 ss., in part. pp. 13 e 17; Martines, Teorie e prassi sull’abuso del diritto, Padova, 2006, in part. p. 73 ss. Per una più ampia trattazione
si rinvia a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 348 ss.
Rare sono le pronunce che riconducono l’exceptio doli al solo divieto di abuso. Tra esse si segnalano Trib. Torino, 13 giugno 1983, in Resp. civ. prev., 1983, p. 815 ss., con nota redazionale di Gambaro, e la più volte cit. Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592.
(47) Giunge in particolare a tale conclusione, con specifico riferimento al divieto di venire contra factum proprium, Festi, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, cit., p. 240, per
il quale « il principio ‘nemo potest . . .’ rappresenta un’applicazione dell’obbligo di correttezza e del divieto di abuso del diritto, consistendo nel dovere di un soggetto di non tenere un
comportamento incoerente, cioè, in sleale contraddizione con la propria precedente condotta, in ambito contrattuale e precontrattuale ». Con il che si ripropone, con riferimento al
divieto di abuso, lo stesso limite sistematico cui si farà subito cenno nel testo in tema di exceptio doli, ovvero la limitazione dell’ambito di operatività del rimedio al solo campo del diritto delle obbligazioni e dei contratti, in palese contrasto, peraltro, con quanto elaborato
dalla giurisprudenza in materia.
(48) Assume atteggiamento critico verso l’appiattimento strutturale dell’exceptio doli
sulle norme degli artt. 1175 e 1375 c.c. anche Dolmetta, Exceptio doli generalis, in Banca,
borsa, tit. cred., 1998, I, p. 147 ss., in part. p. 175 e p. 177, che all’opposto ritiene che esse
« neppure possono costituire la base di partenza per poter avviare una corretta dimostrazione della vigenza, nell’attuale sistema, del nostro istituto ».
(49) Si rinvia, sul punto, all’ampia analisi svolta in Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., in part. p. 149 ss. sulla buona fede oggettiva, p. 323 ss. sul divieto di abuso, p. 429 ss. in tema di exceptio doli.
(50) Si tratta di aspetto già segnalato in Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 456 ss., ed ulteriormente suffragato proprio dalle già viste conclusio-
DIBATTITI
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il divieto di abuso del diritto costituisce, rispetto all’exceptio doli, un rimedio più elastico e flessibile, mentre a sua volta il ricorso ad essa non implica necessariamente l’esistenza di un abuso (51).
Tali considerazioni sono confermate, sotto il profilo operativo, dall’analisi della giurisprudenza, la quale evidenzia il ricorso all’exceptio doli, sia
pure tramite sue applicazioni occulte, in ipotesi estranee all’ambito operativo tanto della buona fede oggettiva, quanto del divieto di abuso (52).
La soluzione del problema va cercata nell’individuazione del minimo
comune denominatore che lega tra loro buona fede oggettiva, abuso del
diritto ed exceptio doli, intesi come rimedi distinti e complementari. Tale
comune denominatore è costituito dalla finalità perseguita per loro tramite, ovvero dall’identità funzionale che caratterizza il ricorso a tali tecniche
rimediali (53).
ni cui giunge, in piena coerenza con la tesi sostenuta, Festi, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, cit., p. 240.
(51) Di tale avviso già Pellizzi, Exceptio doli (diritto civile), cit., p. 1077. Sulla distinzione tra exceptio e divieto di abuso v. anche i rilievi svolti da Ranieri, Eccezione di dolo generale, cit., p. 326 in nota 91, e Dolmetta, Exceptio doli generalis, cit., p. 157 s. e p. 192 s., che
enfatizza, in ogni caso, l’appartenenza dei rimedi ad un medesimo genere e la loro complementarietà.
(52) V. in part. Trib. Torino, 13 giugno 1983, cit., che applica l’exceptio doli in materia di
diritti reali e in particolare per paralizzare l’azione diretta a far dichiarare l’illiceità della condotta di un soggetto che abbia costruito proprie opere su suolo parzialmente altrui; Cass., 16
marzo 1999, n. 2315, in Foro it., 1999, I, c. 1834 ss., con nota di Sconditti, «Consensus facit
filios ». I giudici, la Costituzione e l’inseminazione eterologa, ed ulteriore nota di Di Ciommo,
Fecondazione eterologa, disconoscimento di paternità e tutela del minore, in Foro it., 1999, I, c.
2918 ss.; in Giur. it., 2000, c. 275 ss., con note di Sciso, Ancora in tema di fecondazione assistita eterologa e di disconoscimento della paternità, e di Caggia, Fecondazione eterologa e azione di disconoscimento di paternità intentata dal marito: un’ipotesi di abuso del diritto, seguita
da Trib. Napoli, 24 giugno 1999, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, p. 296 ss., con nota di Bellini, Consenso del marito e fecondazione eterologa: il disconoscimento di paternità non è ammissibile, che interdicono al marito che abbia assentito all’inseminazione eterologa il successivo esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità; Cass., 28 novembre 2001, n.
15132, in Mass. Foro it., 2001, in materia di opponibilità dell’eccezione di prescrizione presuntiva; Cass. pen., sez. un., 21 dicembre 2000, n. 32, in Guida al dir., 8/2001, p. 65 ss., che,
in tema di esercizio del diritto d’impugnazione della sentenza penale di condanna, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione manifestamente infondato e pretestuoso, facendone derivare l’impossibilità di una pronuncia di proscioglimento per intervenuta prescrizione ai sensi dell’art. 129 c.p.p. A tali ipotesi poi va aggiunta l’articolata serie di precedenti in tema di rinuncia tacita. In argomento si rinvia a Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto
civile al diritto commerciale, cit., p. 482 ss., in part. p. 485 ss., ove ampio esame della casistica.
(53) V. in merito i rilievi già sviluppati in Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 458 s. Propone, da ultimo, un approccio rimediale al tema dell’ex-
1390
CONTRATTO E IMPRESA
Nel concreto operare delle Corti la buona fede oggettiva assume la
funzione di integrare e correggere il contenuto del contratto, nonché di
creare norme giuridiche ulteriori e diverse rispetto al sistema del diritto
codificato (54).
A tali funzioni, però, se ne aggiunge e sovraordina un’altra, di strumento finalizzato a razionalizzare i rapporti giuridici e a selezionare, in
coerenza con il principio causalistico, gli interessi in concreto perseguiti
dalle parti in sede di esecuzione dei rapporti obbligatori (55).
Proprio la funzione selettiva, in tal modo individuata, costituisce il coceptio doli Mannino, Considerazioni sulla “strategia rimediale”: buona fede ed exceptio doli
generalis, in Europa e dir. priv., 2006, p. 1283 ss., in part. p. 1312 s. e p. 1315 s., che ne trae
peraltro la ben più limitata conclusione (su cui v. anche infra, in nota 57) secondo cui l’exceptio doli sarebbe lo strumento tecnico che legittima il ricorso alla buona fede oggettiva in
funzione correttiva del rapporto contrattuale. L’approccio al tema delle clausole generali in
termini rimediali è peraltro già sviluppato, con specifico riferimento alla buona fede contrattuale, da A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, in Europa e dir. priv., 2005, p. 341 ss., in
part. p. 353 s., il quale ne evidenzia l’uso, per tal via, « verso esiti che possono definirsi (anche) orientati a garantire più corretti effetti distributivi tra le parti » (p. 354).
(54) Si tratta delle tre funzioni (integrativa, correttiva ed eversiva) tradizionalmente
svolte dalla buona fede oggettiva e in dottrina enucleate, anche alla luce dell’esperienza tedesca, da A. Di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984,
p. 539 ss., in part. p. 553 e p. 555; Id., Delle obbligazioni in generale, in Comm. c.c. ScialojaBranca (artt. 1173-1176), Bologna-Roma, 1988, p. 311 ss. e p. 353 s. Per più ampi riferimenti in ordine ai limiti operativi, alle condizioni d’uso ed alla casistica più rilevante concernente ciascuna di esse v. da ultimo Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, cit., in part. p. 228 ss., p. 241 ss. e p. 255 ss.
(55) Si tratta della c.d. funzione selettiva, in virtù della quale la buona fede costituisce il
mezzo di garanzia della coerenza, sotto il profilo causale, tra atti esecutivi del rapporto obbligatorio ed originario progetto economico, in una logica di bilanciamento tra i contrapposti interessi che di volta in volta vengono in rilievo. La funzione selettiva della buona fede
legittima in concreto, in relazione al singolo caso, un sindacato giudiziale sulla meritevolezza degli atti di esercizio dei poteri e delle facoltà contrattualmente attribuite alle parti. La
sua finalità è di stabilire la legittimità o meno, nell’ambito della discrezionalità concessa,
del comportamento da esse tenuto, in relazione all’interesse perseguito. Per più ampia trattazione, anche in ordine alla casistica giurisprudenziale, v. ancora Meruzzi, L’exceptio doli
dal diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 288 ss., in part. p. 292. Ad analoghe conclusioni giunge, in dottrina, Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino, 2004, p. 33 s.,
che fa riferimento al criterio della meritevolezza dell’interesse perseguito con gli atti di
esercizio dei diritti che scaturiscono dal contratto per sancirne l’illegittimità quando essi
non siano teleologicamente orientati a perseguire il risultato economico originariamente
programmato, nonché A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, cit., p. 354, quando, in relazione ai più recenti sviluppi della normativa comunitaria e transnazionale, afferma che « un
vero e proprio fenomeno di ‘monitoraggio’ del contratto, attraverso la buona fede e correttezza, è più che evidente e marcato nelle fonti segnalate ».
DIBATTITI
1391
mune denominatore, storico e sistematico oltreché operativo, che accomuna buona fede oggettiva, abuso del diritto ed exceptio doli. L’exceptio
doli costituisce uno strumento con cui viene condotta un’analisi degli interessi perseguiti in concreto dalle parti tramite gli atti di esercizio dei diritti riconosciuti dall’ordinamento; analisi che, quando il loro esercizio è
diretto a perseguire interessi non meritevoli di tutela, porta alla reiezione
della pretesa esercitata (56).
(56) Nella più recente giurisprudenza un’ipotesi di ricorso alla buona fede in funzione
selettiva, assimilabile, sotto il profilo del potenziale risultato operativo, a un caso di applicazione occulta dell’exceptio doli, può essere ravvisato nel precedente di Cass., sez. un., 28
febbraio 2007, n. 4631, in Corriere giur., 2007, p. 961 ss., con nota di Travaglino, Clausola
di regolazione del premio e buona fede oggettiva; in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 919 ss.,
con nota di Quarticelli, Contratto di assicurazione e clausola di regolazione del premio: il
punto delle Sezioni unite. Con esso le Sezioni unite hanno affermato che « la determinazione del premio nei contratti di assicurazione contro i danni, fissata convenzionalmente in
base ad elementi variabili (cosiddetta assicurazione con clausola di regolazione del premio
assicurativo), comporta che l’adempimento dell’assicurato è adempimento di un’obbligazione civile diversa dalle obbligazioni indicate nell’art. 1901 c.c., e come tale deve essere valutata, tenendo conto del comportamento di buona fede tenuto dalle parti nell’esecuzione
del contratto, del tempo in cui la prestazione è effettuata e dell’importanza dell’inadempimento ». Si conferma quindi il principio di diritto per cui nei contratti di assicurazione con
clausola di regolazione del premio l’inadempimento, da parte dell’assicurato, del dovere di
comunicare all’assicuratore i dati variabili, necessari alla definitiva quantificazione del premio, e il conseguente mancato pagamento della parte variabile di premio, non può essere
assimilato, ai fini della sospensione dell’assicurazione ex art. 1901 c.c., al suo mancato pagamento iniziale. La sentenza conferma il nuovo orientamento in materia già maturato con
il precedente di Cass., 18 febbraio 2005, n. 3370, pubblicato ex multis in Giust. civ., 2006, I,
p. 1583 ss. L’elemento di novità rispetto a quest’ultima sentenza risiede nella parziale correzione delle motivazioni sistematiche addotte dalle Sezioni unite, proprio grazie al ricorso
alla buona fede oggettiva. Nella motivazione i giudici di legittimità, partendo dal presupposto che la clausola di regolazione del premio dev’essere interpretata « come strumento di
tutela per entrambe le parti del contratto di assicurazione », affermano che, nei contratti
che prevedono tale clausola, « nel caso di eccedenza del dato variabile, il comportamento
dell’assicurato può risolversi nell’inadempimento di un obbligo convenzionalmente stabilito, ma esso deve essere valutato in concreto con il parametro della buona fede da lui tenuta nell’esecuzione del contratto; il che è come dire che, per esprimere un giudizio di inadempimento, è necessario individuare quali siano i suoi effettivi doveri giuridicamente rilevanti, tenendo conto anche del tempo in cui il suo comportamento doveva essere tenuto ».
In base a tale principio è stata cassata con rinvio la pronuncia della Corte d’appello di Roma, che « non ha considerato il carattere autonomo dell’obbligazione di pagamento del
conguaglio del premio, il cui inadempimento non doveva essere valutato alla luce dell’art.
1901 c.c.; ma in maniera indipendente dalla disciplina in questo contenuta e secondo le regole che presiedono alla valutazione dell’adempimento delle obbligazioni civili, valutando
il comportamento dell’obbligato con il metro della buona fede oggettiva, intesa come leale
1392
CONTRATTO E IMPRESA
L’exceptio doli legittima quindi, alla pari della buona fede e del divieto
di abuso, il sindacato del giudice sull’esercizio discrezionale dei diritti attribuiti dall’ordinamento, allo scopo di verificarne la congruità con i valori fondamentali da esso espressi e con le finalità insite nel loro normale
esercizio (57).
La tesi qui esposta è succintamente ripresa dalla Corte nella motivazione della sentenza n. 5273 del 2007, come argomento sistematico alternativo a quelli sopra analizzati. Tuttavia, al di là della formale neutralità assunta dalla Cassazione in tema di fondamento dell’exceptio doli, essa sembra
costituire il filo conduttore delle argomentazioni svolte in sede di esame
della giurisprudenza sul divieto di venire contra factum proprium. Il ricorso
a tale divieto è infatti ammesso dai giudici di legittimità « fermo restando il
limite oggettivo della meritevolezza dell’interesse perseguito » (58).
L’applicazione del divieto di venire contra factum proprium, e più in generale dell’exceptio doli, è quindi soggetta, a sua volta, ad un sindacato di
ed onesto comportamento che le parti devono tenere nell’esecuzione del contratto in una
valutazione equilibrata del termine dell’obbligazione e dell’interesse creditorio della Compagnia di assicurazione, nel caso di pagamento ritardato ».
Negli argomenti delle Sezioni unite il ricorso alla buona fede oggettiva giustifica una
valutazione dell’inadempimento dell’assicurato in base non alla norma speciale dell’art.
1901 c.c., bensì alla regola generale dell’art. 1460 c.c. Si apre in tal modo la strada a un sindacato in concreto dei contrapposti interessi perseguiti dalle parti del contratto di assicurazione, secondo una logica di reciproco bilanciamento. Con esso si accerta se, nel caso di
specie, il rifiuto della compagnia assicurativa ad adempiere alla propria prestazione di indennizzo sia legittimo, e quindi meritevole di tutela, alla luce della condotta dell’assicurato, o se, all’opposto, l’eccezione di sospensione della garanzia, da questa sollevata, debba
essere respinta in quanto contraria a buona fede.
(57) Si tratta delle conclusioni già testualmente esposte in Meruzzi, L’exceptio doli dal
diritto civile al diritto commerciale, cit., p. 458 ss., ove se ne trae la conclusione che, analogamente a quanto accade per il divieto di abuso, l’exceptio doli, pur avendo come naturale sede di applicazione il diritto delle obbligazioni e dei contratti, opera nell’intero campo del diritto privato, consentendo la neutralizzazione degli effetti giuridici derivanti dai comportamenti fraudolenti o scorretti. Nell’ambito dei rapporti obbligatori l’exceptio è tuttavia concettualmente sovrapposta e riassorbita, sotto il profilo funzionale, nel dovere di buona fede,
al quale offre un ulteriore strumento operativo per garantire adeguate forme di tutela specifica. Proprio in ambito contrattuale l’exceptio doli costituisce, anzi, il medio logico e concettuale che legittima le funzioni correttiva e selettiva della buona fede ed il ricorso al rimedio dell’inefficacia dell’atto abusivo (p. 459 s.).
(58) Si ritiene, infatti, di dover interpretare in tal senso il summenzionato inciso finale
della frase non solo in quanto sembra essere riferito al solo divieto di venire contra factum
proprium, e non al più generale tema dell’exceptio doli, ma anche in ragione della circostanza che esso segue immediatamente la citazione di Cass. n. 15592 del 2000, che come sopra
visto costituisce un caso di applicazione negativa del divieto in questione.
DIBATTITI
1393
legittimità da parte del giudice. Il diritto sostanziale in tal modo vantato, a
veder rigettata una pretesa giuridica azionata con modalità fraudolente o
sleali, è legittimamente esercitato solo se vòlto a perseguire interessi meritevoli di tutela. Il che costituisce la conseguenza, speculare e simmetrica, del ricorso alla menzionata teoria della funzione selettiva quale fondamento sistematico dell’exceptio doli.
5. – Il principio di diritto, sancito dalla Corte, dell’inopponibilità dell’exceptio doli alla procedura concorsuale
La regola secondo la quale il ricorso all’exceptio doli, inteso come rimedio sostanziale, è consentito solo se il rigetto della pretesa azionata
corrisponde a un interesse meritevole di tutela, è alla base del giudizio di
infondatezza, nel caso di specie, dell’eccezione in tal senso sollevata dalla
banca nei confronti della procedura concordataria.
In presenza di una procedura concorsuale le ragioni del singolo, pur
indotto in errore da una maliziosa reticenza posta in essere da controparte durante la fase precontrattuale, cedono di fronte all’interesse, giudicato
prevalente, al rispetto della par condicio creditorum. Emerge quindi, quale
implicita ratio operativa della decisione, la necessità di effettuare una ponderazione tra gli interessi messi in discussione con il ricorso all’exceptio
doli.
In ultima battuta, la ratio decidendi del caso sottoposto all’esame della
Corte con la sentenza n. 5273 del 2007 è data dall’affermazione del principio per cui « l’esercizio dell’azione diretta ad ottenere l’inefficacia dei pagamenti effettuati nel corso della procedura concorsuale, allo scopo di
realizzare la par condicio creditorum, e cioè di un’azione sorta a seguito ed
in conseguenza dell’apertura di detta procedura, non può configurare
esercizio fraudolento dei diritti derivanti dal contratto . . ., ovvero violazione della buona fede e della regola di correttezza nell’esercizio dei diritti
pure con lo stesso sorti » (59).
In assenza di una domanda diretta a far valere l’invalidità del contratto di finanziamento in quanto concluso con dolo (art. 1439 c.c.), l’unica
(59) Ne consegue, per la Corte, che « la deduzione della condotta dolosa eventualmente tenuta dall’imprenditore in sede di conclusione del contratto è irrilevante, una volta che
la stessa ricorrente non ha inteso agire perché gli effetti del medesimo fossero posti nel nulla – come già accertato da questa Corte nella sentenza di rinvio –, come pure avrebbe potuto fare e che, come sopra precisato, neppure ha agito, allo scopo di ottenere il risarcimento
del danno derivante dall’eventuale dolo incidente pure ascrivibile all’imprenditore, limitandosi invece a prospettare, con tesi non corretta, che questa condotta sarebbe idonea a paralizzare l’esercizio di una azione sorta a seguito dell’apertura della procedura concorsuale ».
1394
CONTRATTO E IMPRESA
tutela offerta sarà quindi l’azione risarcitoria, esercitabile anche a prescindere dalla contestuale proposizione dell’azione invalidatoria (60).
Ma il risarcimento sarà pagato, in tale ipotesi, in moneta fallimentare,
alla pari di ogni altro credito di massa. La regula iuris enunciata dai giudici di legittimità consiste quindi nel principio secondo cui l’exceptio doli,
intesa come rimedio generale diretto ad impedire l’esercizio fraudolento
o sleale dei diritti attribuiti dall’ordinamento, non può essere opposta al
fallito, o alla procedura concordataria, per derogare alla par condicio creditorum, in quanto non rientra tra le cause legittime di prelazione previste
dalla legge (61).
Spetterà alla futura giurisprudenza di legittimità confermare la bontà
di tale regula iuris e, ancor prima, affrontare i punti ancora non del tutto
chiariti sul fondamento sistematico dell’exceptio doli.
Giovanni Meruzzi
(60) In tal senso Cass., 19 settembre 2006, n. 20260, in Guida al dir., 39/2006, p. 52 ss.; in
Contratti, 2007, p. 319, che conferma il precedente di Cass., 9 febbraio 1980, n. 921, nonché,
sia pure con riguardo all’ipotesi del dolo incidente ex art. 1440 c.c., di Cass., 8 settembre
1999, n. 9523. Sulla configurabilità della relativa fattispecie come ipotesi di responsabilità
precontrattuale in presenza di contratto validamente concluso v. Meruzzi, La trattativa
maliziosa, cit., p. 245 ss., ove ulteriori riferimenti.
(61) A conferma dell’assunto la Corte cita il precedente di Cass., 28 agosto 1995, n. 9030,
in Fallimento, 1995, p. 69 ss., per la quale, intervenuta l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, non possono essere effettuati pagamenti lesivi della par condicio creditorum, nemmeno se realizzati attraverso la compensazione di debiti sorti prima della procedura concordataria con crediti sorti in pendenza della medesima. Il principio è stato recentemente ribadito da Cass., 12 gennaio 2007, n. 578, in Mass. Foro it., 2007, c. 42 s. La sua
pertinenza con il caso esaminato con la sentenza n. 5273 del 2007 è tuttavia dubbia se si
considera che nulla, nella motivazione in fatto, lascia intendere che la banca eccipiente
avesse incassato le somme oggetto di exceptio doli dopo l’ammissione alla procedura concordataria. Altra questione, su cui non è qui opportuno diffondersi, attiene alla coerenza sistematica del decisum con i principi che ispirano la riforma della legislazione fallimentare, e
in particolare con l’attenuazione del principio della par condicio creditorum (sul punto v.,
per tutti, Gualandi, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Aa.Vv., Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2007, p. 160).