Oscar Wilde, o l`Arte applicata alla vita

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Oscar Wilde, o l’Arte applicata alla vita
Circa centotredici anni fa, il 30 novembre 1900, moriva a Parigi, in rue des Beaux-Arts, Oscar
Wilde, scrittore e poeta irlandese. Condannato a scontare due anni di reclusione per
omosessualità nel carcere di Reading, Wilde morí all’età di soli 46 anni, lasciandosi alle spalle
una vasta produzione letteraria, che spazia dal genere poetico al giornalismo, dalla commedia
alla narrazione in prosa. Egli è principalmente ricordato per essere stato un fautore del
movimento estetico-decadente, nonché per il celebre romanzo Il ritratto di Dorian Gray,
pubblicato nel 1890, che lo portò all’apice della notorietà. Tuttavia, è nei saggi che Wilde
espresse con maggior pienezza le proprie convinzioni in àmbito estetico, sociale e morale —
convinzioni che, in uno slancio d’irriverenza, egli sintetizzò in alcune raccolte d’aforismi.
Al fine di meglio comprendere l’opera wildiana — l’opera d’un uomo che consacrò la propria
vita all’arte, irridendo la società vittoriana cui apparteneva — vi proponiamo un’antologia di
brani tratti dalla sua opera omnia. Scelta e traduzione di Flavia Napoleoni; revisione della
traduzione di Matteo Marini.
«L’unico spirito che ci è completamente estraneo è quello medievale; lo spirito greco è
essenzialmente moderno.»
(da «La nascita della critica storica», 1879)
«L’arte non danneggia mai sé stessa nel tenersi distante dai problemi sociali del giorno:
piuttosto, cosí facendo, realizza con maggior completezza quel che desideriamo. Poiché, per la
maggioranza di noi, la vita vera è la vita che non conduciamo. […]
L’artista è senza dubbio figlio della propria epoca, ma il presente non sarà per lui nemmeno un
poco piú reale del passato; poiché, come il filosofo della visione platonica, il poeta è lo
spettatore di tutte le epoche e di tutta l’esistenza. Per lui nessuna forma è obsoleta, nessun
soggetto fuori moda; piuttosto, ogni cosa […] che il mondo abbia conosciuto, nel deserto della
Giudea o nella valle d’Arcadia, presso i fiumi di Troia o quelli di Damasco, nelle affollate e
squallide strade d’una città moderna o nelle dolci vie di Camelot — tutto giace dinanzi al poeta
come una pergamena aperta, tutto è ancora pervaso di vita e di bellezza.»
(da «Il Rinascimento inglese dell’arte», 1882)
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«Spesso si parla come se vi fosse un’opposizione tra ciò ch’è bello e ciò ch’è utile. Non v’è
alcunché d’opposto alla bellezza, tranne la bruttezza.»
(da «L’arte e l’artigiano» [Art and the Handicraftsman], 1882)
«È nelle colonie, e non nella madrepatria, che la vecchia vita del Paese esiste davvero.»
(dalle Impressioni d’America, 1882)
«Nulla, senza dubbio, è piú pericoloso per il giovane artista d’una qualsiasi concezione di
bellezza ideale: essa lo conduce costantemente o alla flebile leggiadría o all’astrazione priva di
vita; mentre, per sfiorare l’ideale, non bisogna spogliarlo della sua vitalità. Bisogna trovarlo
nella vita e ricrearlo nell’arte.»
(dalla «Conferenza rivolta agli studenti d’arte», 1883)
«[…] Non penso che ami l’arte
chi infrange il cristallo d’un cuor di poeta
affinché occhi piccoli e morbosi avidamente possano guardare.»
(da «Sulla vendita all’asta delle lettere d’amore di Keats», 1885)
«V’era qualcosa di terribilmente affascinante nell’esercitare la propria influenza. Nessun’altra
attività era come quella. Proiettare la propria anima in una sorta di forma piena di grazia e
lasciarvela indugiare per un istante; udire le proprie vedute intellettuali echeggiare e tornare
indietro arricchite dalla musica della passione e della giovinezza; trasmettere il proprio
temperamento in un altro quasi che fosse un fluido sottile o un bizzarro profumo. C’era una
vera gioia in questo — forse la gioia piú soddisfacente che ci fosse rimasta in un’epoca cosí
limitata e volgare come la nostra, un’età cosí volgarmente carnale nei piaceri e volgarmente
dozzinale negli scòpi.»
(dal Ritratto di Dorian Gray, 1890)
«Godere della Natura! Sono assai felice di poter dire che ho completamente perso questa
facoltà. Ci viene detto che l’Arte ci fa amare la Natura piú di quanto l’amassimo in precedenza;
ch’essa ci rivela dei segreti; e che dopo un attento studio di Corot e Constable vediamo in essa
cose ch’erano sfuggite al nostro sguardo. La mia esperienza mi dice che, piú studiamo l’Arte,
meno ci curiamo della Natura. Ciò che l’Arte ci rivela veramente è la mancanza della Natura
d’un progetto, le sue curiose grossolanità, la sua straordinaria monotonia, la sua assoluta
condizione d’incompletezza. La Natura possiede delle buone intenzioni, certamente, ma —
come disse una volta Aristotele — non riesce a metterle in pratica. Quando ammiro un
paesaggio, non posso fare a meno di scorgerne i difetti. Siamo fortunati, comunque, che la
Natura sia imperfetta, poiché altrimenti non avremmo alcuna forma d’Arte. L’Arte è la nostra
affiatata protesta, il nostro valoroso tentativo d’insegnare alla Natura il suo proprio posto. Per
quanto riguarda l’infinita varietà della Natura, essa è un puro mito. Non dev’essere trovata
nella Natura stessa. Essa risiede nell’immaginazione, nel capriccio o nella dotta cecità
dell’uomo che la osserva.»
(da La decadenza della menzogna, 1891)
«Un’età scevra di critica è o un’età in cui l’arte è immobile, ieratica e confinata nella
riproduzione di princípi formali, o un’età che non possiede affatto arte. Vi sono state epoche
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critiche per nulla creative, nel senso ordinario della parola, epoche in cui lo spirito dell’uomo ha
cercato di riordinare i tesori del suo scrigno, di separare l’oro dall’argento e l’argento dal
piombo, di contare i gioielli e dare nome alle perle. Ma non v’è stata mai un’età creativa che
non sia stata anche critica. Poiché è la facoltà critica che inventa forme nuove. La tendenza
della creazione è ripetere sé stessa. È all’istinto critico che dobbiamo ogni nuova scuola che
sorge, ogni nuovo stampo che l’arte trova già pronto vicino alla propria mano.»
(da Il critico come artista, 1891)
«La maggioranza delle persone spreca la propria vita in un malsano ed esagerato altruismo — è,
in verità, costretta a sprecarla in questo modo. Essa si trova circondata da un’orribile povertà,
da un’orribile bruttezza, da un’orribile fame. È inevitabile che sia commossa da tutto questo.
Le emozioni dell’uomo sono scosse piú rapidamente della sua intelligenza; e, come sottolineai
qualche tempo fa in un articolo sulla funzione svolta dalla critica, è molto piú facile avere
compassione con la sofferenza che averne col pensiero. Di conseguenza, con intenzioni
ammirevoli ma male indirizzate, essa si dedica con molta serietà e sentimento all’incarico di
rimediare ai mali che vede. Ma i suoi rimedi non guariscono la malattia; non fanno che
prolungarla. In realtà, i suoi rimedi fanno parte del morbo.
Si tenta di risolvere il problema della povertà, per esempio, mantenendo in vita i poveri; o, nel
caso d’una scuola assai avanzata, divertendoli.
Ma questa non è una soluzione: è un aggravamento della difficoltà. Lo scòpo appropriato è
cercare di ricostruire la società su fondamenti tali che la povertà risulti impossibile.»
(da L’anima dell’uomo sotto il socialismo, 1891)
«Il pubblico è sempre stato, e in ogni epoca, educato male. Chiede in continuazione che l’Arte
sia popolare, al fine di compiacere la sua mancanza di gusto, di lusingare la sua assurda vanità,
di dirgli quel che ha già sentito in precedenza, di mostrargli quel che dovrebbe essere stanco di
vedere, di divertirlo quando si sente pesante dopo aver mangiato troppo, e di distrarlo dai suoi
pensieri quand’è logorato dalla sua stupidità. Ora, l’Arte non dovrebbe mai cercare d’esser
popolare. Il pubblico dovrebbe cercare di rendersi artistico. V’è una differenza sostanziale.»
(da L’anima dell’uomo sotto il socialismo, 1891)
«L’opinione pubblica esiste soltanto laddove non vi sono idee.»
(da «Alcune massime per l’istruzione dei troppo cólti», 1894)
«Il piacere è la sola cosa per cui si dovrebbe vivere. Nulla invecchia come la felicità.»
(dalle «Frasi e filosofie a uso dei giovani», 1894)
«Non approvo nulla di ciò che altera l’ignoranza naturale. L’ignoranza è come un delicato frutto
esotico; toccàtela, e la freschezza sen va. L’intera teoria dell’istruzione moderna è
radicalmente infondata. Fortunatamente in Inghilterra, in ogni caso, l’istruzione non produce
alcun effetto. Se lo facesse, essa costituirebbe un serio pericolo per le classi alte, e
probabilmente condurrebbe ad atti di violenza in Grosvenor Square.»
(da The Importance of Being Earnest, 1895)
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«Gli dèi sono strani. Non è solo dei nostri vizi che si servono per forgiare strumenti con cui
flagellarci. Ci portano alla rovina tramite quanto v’è in noi di buono, dolce, umano, amorevole.»
(da Epistola: In Carcere et Vinculis, 1897)
«Pensavo che la vita sarebbe stata una brillante commedia. […] Ho appreso ch’essa è una
rivoltante e repellente tragedia.»
(da Epistola: In Carcere et Vinculis, 1897)
«Ero un uomo che si trovava in relazione simbolica coll’arte e la cultura del suo tempo. Me
n’ero reso conto all’alba dell’età virile, e successivamente ho costretto la mia epoca a
comprenderlo. Pochi uomini godono d’una tale posizione mentre sono ancora in vita, e a pochi
essa è riconosciuta. Essa viene in genere scoperta — se viene scoperta — dallo storico o dal
critico molto tempo dopo che l’uomo e la sua epoca sono venuti a mancare. Con me è stato
diverso. L’ho percepito io stesso, e l’ho fatto percepire agli altri. Byron è stato una figura
simbolica, ma solo in relazione alla passione e alla stanchezza passionale del suo tempo. Io lo
fui in relazione a qualcosa di piú nobile, di piú permanente, dal respiro piú vitale, dallo scòpo piú
grande.
Gli dèi m’avevano dato praticamente ogni cosa. Avevo del genio, un nome illustre, un’elevata
posizione sociale, brillantezza, audacia intellettuale: facevo dell’arte una filosofia, e della
filosofia un’arte: cambiavo le menti degli uomini e i colori delle cose: non v’era cosa che
dicessi o facessi che non lasciasse la gente a bocca aperta: presi il teatro, la forma piú
oggettiva nota all’arte, e lo resi un modo d’espressione soggettiva quanto la poesia lirica o il
sonetto, nello stesso modo in cui ne ampliai il campo e ne arricchii la caratterizzazione: il
dramma, il romanzo, la poesia in rima, la poesia in prosa, il dialogo sottile o fantastico, qualsiasi
cosa toccassi veniva resa bella in un nuovo stato di bellezza: alla verità stessa donai ciò ch’è
falso non meno di cio ch’è vero come suo legittimo àmbito, e mostrai che il falso e il vero sono
solo forme d’esistenza intellettuale. Trattai l’Arte come la realtà suprema, e la vita come un
mero lavoro di finzione: risvegliai l’immaginazione del mio secolo affinché mi creasse attorno
mito e leggenda: sommai tutti i sistemi in una frase, e tutta l’esistenza in un epigramma.
Oltre a queste cose, ne ebbi altre diverse. Mi lasciai adescare dai lunghi incanti degli agi
sensuali e senza senno. Mi divertii a esser un flâneur, un dandy, un uomo alla moda. Mi
circondai di nature inferiori e di menti mediocri. Diventai scialacquatore del mio stesso genio, e
sprecare un’eterna giovinezza mi procurò una curiosa gioia. Stanco di sedere sulle alture, mi
diressi intenzionalmente verso gli abissi, alla ricerca di nuove sensazioni. Ciò che per me era
paradosso nella sfera del pensiero divenne per me perversione nella sfera delle passioni. Il
desiderio, alla fine, fu una malattia, una follia, o entrambe. Smisi di curarmi delle vite altrui.
Prendevo il piacere da dove m’aggradava, e passavo oltre. Dimenticai che ogni piccola azione
giornaliera fa o disfà il carattere, e che dunque ciò che s’è fatto in una camera segreta si dovrà,
un giorno, gridare a gran voce dal tetto. Cessai d’esser Padrone di me stesso. Non ero piú il
Capitano della mia Anima, e non lo sapevo. […] Finii in un’orribile disgrazia. Per me c’è solo
una cosa, ora: l’Umiltà assoluta. […]
Giaccio in prigione da quasi due anni. […] Ho attraversato qualsiasi possibile manifestazione
della sofferenza.»
(da Epistola: In Carcere et Vinculis, 1897)
«Ho scritto quando non conoscevo la vita; ora che ne conosco il senso, non ho piú nulla da
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scrivere. La vita non può essere scritta; essa può essere soltanto vissuta.»
(citato in Hesketh Pearson, Oscar Wilde: His Life and Wit, 1946)
«E i folli rimpianti, e i sudori di sangue,
nessuno al pari di me li conobbe:
giacché chi vive piú d’una vita
piú d’una morte deve morire.»
(dalla Ballata del carcere di Reading, 1898)
«E lacrime aliene per lui empiranno
l’urna da tempo infranta della Pietà,
giacché a piangere per lui saranno i reietti,
e i reietti piangon sempre.»
(dalla Ballata del carcere di Reading, 1898; epitaffio di Wilde)
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