UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO Facoltà di economia CORSO DI PIANIFICAZIONE FISCALE D’IMPRESA PROF. STEFANO PETRECCA DISPENSE Anno accademico 2010 - 2011 INDICE Introduzione I. II. III. CAPITOLO 1.1 CENNI GENERALI SUL SISTEMA DELLE IMPOSTE SUI REDDITI IN ITALIA 1.2 IL REDDITO D’IMPRESA ED IL BILANCIO 1.2.1 Nozione di reddito d’impresa 1.2.2 La tassazione del reddito d’impresa in base al bilancio 1.2.3 Cenni ai principi generali in materia di tassazione del reddito d’impresa 1.2.4 Componenti positivi 1.2.5 Componenti negativi 1.3 L’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ (IRES) 1.3.1 Presupposto, aliquota e soggetti passivi 1.3.2 Tassazione delle società versus tassazione dei soci 1.3.3 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti residenti 1.3.4 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti non resident i pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 6 9 9 11 13 18 22 23 23 24 25 25 CAPITOLO 2.1 CENNI AL FEDERALISMO FISCALE 2.2 L’IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE (IRAP) 2.2.1 Caratteri generali dell’imposta 2.2.2 Presupposto, base imponibile ed aliquota 2.3 IL SISTEMA DELL’IVA 2.3.1 Generalità e caratteri dell’imposta 2.3.2 Presupposto soggettivo 2.3.3 Il campo di applicazione e le operazioni escluse 2.3.4 Regole impositive 2.4 LE ALTRE IMPOSTE INDIRETTE NELLA FISCALITÀ D’IMPRESA 2.4.1 L’imposta di registro Pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 27 29 29 30 32 32 34 35 38 42 42 CAPITOLO 3.1 LA SCELTA pag. 46 pag. pag. pag. 46 50 50 DEL MODELLO OPERATIVO: DITTA INDIVIDUALE, SOCIETÀ DI PERSONE E SOCIETÀ DI CAPITALI 3.1.1 Cenni sulla tassazione delle persone fisiche 3.1.2 Le persone fisiche e le attività aziendali 3.1.3 La tassazione della ditta individuale 1 3.1.4 La tassazione delle società di persone 3.1.5 La tassazione delle società di capitali 3.2 LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI pag. pag. pag. 52 53 54 3.2.1 Cenni sulla tassazione dei redditi di capitale 3.2.2 La tassazione dei dividendi per le persone fisiche 3.2.3 La tassazione degli interessi per le persone fisiche 3.2.4 Le plusvalenze dei t itoli azio nari e obbligazionari (capital gains) pag. pag. pag. pag. 54 56 58 59 CAPITOLO 4.1 LA TASSAZIONE pag. 62 4.1.1 La tassazione dei dividendi per le persone giuridiche 4.1.2 La tassazione degli interessi per le persone giuridiche 4.1.3 La tassazione del capital gain per le persone giuridiche pag. pag. pag. 62 64 66 CAPITOLO 5.1 COME FINANZIARE pag. 69 5.1.1 Modalità di finanziamento delle attività aziendali 5.1.2 La variabile fiscale nella scelta debt/equity 5.1.3 Deducibilità fiscale degli interessi passivi pag. pag. pag. 69 72 74 CAPITOLO 6.1 LE HOLDING DI FAMIGLIA ED I TRUST 6.1.1 Holding di famiglia 6.1.2 Il trust 6.2 SUCCESSIONE NELL’IMPRESA FAMILIARE 6.2.1 L’impresa familiare 6.2.2 La successione nell’impresa familiare 6.3 LE HOLDING E LE SOCIETA’ OPERATIVE 6.3.1 Cenni alla disciplina sulle società di comodo pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 80 80 85 88 88 90 93 93 CAPITOLO 7.1 I GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: IL CONSOLIDATO NAZIONALE ED pag. 97 E CAPITAL GAINS PER LE PERSONE FISICHE IV. DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAIN PER LE PERSONE GIURIDICHE V. LE ATTIVITÀ AZIENDALI: CAPITALE SOCIALE E FINANZIAMENTI VI. VII. IL CONSOLATO MONDIALE 2 7.1.1 Aspetti fiscali del gruppo 7.1.2 Il consolidato nazionale 7.1.3 Il consolidato mondiale VIII. CAPITOLO 8.1 LE OPERAZIONI DI pag. 97 pag. 99 pag. 103 FUSIONE, SCISSIONE, TRASFORMAZIONE E pag. 105 CONFERIMENTO IX. 8.1.1 La fusione 8.1.2 La scissione 8.1.3 La trasformazione di società 8.1.4 I conferimenti pag. pag. pag. pag. CAPITOLO 9.1 LE OPERAZIONI pag. 119 STRAORDINARIE TRANSFRONTALIERE CON SPECIFICO 105 110 112 116 RIFERIMENTO ALLE DIRETTIVE EU 9.1.1 Cenni introduttivi 9.1.2 Le fusio ni e scissio ni transnazio nali 9.1.3 I conferimenti transnazionali 9.2 LA LIQUIDAZIONE 3 pag. pag. pag. pag. 119 120 121 123 Introduzione LA PIANIFICAZIONE FISCALE La componente fiscale, rappresentando in ogni caso un costo connesso all’esercizio di un’attività d’impresa, gioca spesso un ruolo determinante sul piano economico-gestionale. Molto spesso, infatti, attraverso scelte fiscali mirate è possibile conseguire un risparmio d’imposta e, di riflesso, un miglioramento sul piano economico-finanziario. In tale ottica, la pianificazione fiscale può essere definita come ricerca e l’applicazione di norme, trattati, convenzioni contro le doppie imposizioni e le altre disposizioni tributarie nell’ottica di minimizzare il costo fiscale connesso all’esercizio di un’attività d’impresa. La riduzione della pressione fiscale in questo modo avviene non attraverso l’occultamento di redditi imponibili (il che darebbe luogo ad evasione fiscale), né attraverso il ricorso a costruzioni tecnico-giuridiche completamente avulse da qualsiasi esigenza economica (il che avvicinerebbe le operazioni dell’imprenditore all’elusione fiscale), ma attraverso il rispetto totale, sia della lettera che della ratio delle normative civilistiche e fiscali nazionali ed internazionali. In tale ottica, occorre ricordare che esiste una pianificazione fiscale nazionale, volta ad utilizzare al meglio innanzitutto le differenze che attengono alla tassazione delle persone fisiche e delle persone giuridiche, nonché le varie modalità impositive scelte dalla legislazione fiscale nazionale in relazione alle differenti tipologie di reddito, ma esiste anche una pianificazione fiscale internazionale, specie per le aziende di maggiori dimensioni, che tiene conto delle differenze che esistono nelle legislazioni fiscali nazionali degli Stati e va combinata con le esigenze di delocalizzazione dell’attività economica, legate anche alla globalizzazione dei mercati di riferimento. In un contesto internazionale che va caratterizzandosi per una crescente liberalizzazione dei fattori produttivi, la variabile fiscale viene a giocare, infatti, un ruolo sempre più rilevante nella localizzazione degli investimenti. Il concetto di “pianificazione fiscale” d’impresa ha in pratica una finalità molto simile alla “politica di bilancio” del diritto commerciale. Attraverso il c.d. tax planning, invero, la società programma, sulla base del quadro normativo di riferimento, le scelte fiscali più opportune e più convenienti per cercare, quanto più possibile, di ridurre l’incidenza anche solo finanziaria della componente fiscale sul proprio conto economico. Affinché tuttavia possa essere elaborato un programma di pianificazione 4 fiscale, risulta importante oltre che una diretta conoscenza della normativa fiscale di riferimento anche un’attenta analisi dello scenario in cui l’impresa si dovrà muovere, tenendo in considerazione in particolare l’attività svolta dall’impresa, le sue caratteristiche strutturali ed i suoi obbiettivi nel medio e lungo periodo. A seconda dei diversi scenari di riferimento sarà dunque possibile programmare le soluzioni fiscali che meglio si adattano alla specifica realtà che contraddistingue ogni singola impresa. Ad esempio, quando un’impresa è stabilmente redditizia, potrà risultare opportuno anticipare la deduzione di componenti negativi di reddito, ritardando l’imponibilità dei componenti positivi. In questo modo, infatti, si potrà ottenere un temporaneo vantaggio finanziario, differendo nel tempo il pagamento di una parte delle imposte. Altre volte, invece, quando l’impresa è in perdita o beneficia di agevolazioni di imminente scadenza, la pianificazione fiscale induce al comportamento opposto. Gli strumenti in genere impiegati nella pianificazione fiscale per ottenere un vantaggio economico sono essenzialmente tre: a) spostamento di reddito da una tasca ad un’altra: questo strumento presuppone una differenza di tax rate a favore della tasca che beneficia del trasferimento. Tale tecnica si può utilizzare spostando il reddito nell’ambito di un gruppo verso società con perdite pregresse o con più favorevoli tax rate a causa sia di localizzazioni agevolate (per esempio ai fini IRAP) sia di particolari agevolazioni soggettive (nazionali e non); b) spostamento di reddito da un periodo all’altro: questo strumento sfrutta la divisione in periodi di imposta dell’attività d’impresa e consiste, in primis, nell’anticipare o posticipare il realizzo di ricavi o il sostenimento di spese a seconda delle previsioni di reddito (utile o perdita). Ma può consistere anche in tecniche più raffinate che sfruttano più a fondo le operazioni economiche; un esempio significativo in ambito finanziario riguarda la cessione di titoli che incorporano forti capital gain. E’ certamente possibile vendere i titoli e realizzare immediatamente la plusvalenza, ma si può lavorare con uno schema alternativo. Si può, ad esempio, prendere in prestito dei titoli fortemente correlati a quelli in portafoglio e venderli realizzando cassa. Alla scadenza del prestito si vendono i titoli di proprietà e si chiude la posizione. In questo modo la plusvalenza è stata rinviata ad un periodo successivo con un rischio molto basso; c) cambio della natura di un reddito: con questa tecnica si può sfruttare il diverso peso impositivo sulle varie fonti. Per esempio, è possibile trasformare un capital gain su una partecipazione in un dividendo effettuando una distribuzione prima della cessione (in modo da abbattere il valore della partecipazione e dunque la plusvalenza) oppure interponendo una sub holding nella struttura societaria. 5 1.1 CENNI GENERALI SUL SISTEMA DELLE IMPOSTE SUI REDDITI IN ITALIA Nel nostro ordinamento le imposte sono variamente classificate, secondo criteri e scopi assai diversi. La distinzione basilare è quella tra imposte dirette e indirette. In particolare, sono dirette le imposte che hanno come presupposto il reddito o il patrimonio, indirette tutte le altre. I giuristi spiegano questa terminologia in ragione del fatto che le imposte dirette colpiscono manifestazioni dirette (o immediate) della capacità contributiva (reddito, patrimonio, ecc.), mentre le indirette (imposte sui consumi, sugli affari, sui trasferimenti, ecc.) colpiscono espressioni indirette di capacità contributiva. Le imposte dirette, a sua volta, si distinguono in personali e reali. Nelle imposte personali sul reddito assumono rilievo elementi che concernono la situazione personale o familiare del contribuente (ad esempio: l'ammontare del reddito complessivo, la struttura del nucleo familiare, ecc.). Nelle imposte reali, invece, la tassazione si commisura ad un reddito o elemento patrimoniale, oggettivamente considerati mentre non hanno rilievo elementi di natura personale. Le due principali imposte italiane (IRPEF ed IRES) sono imposte dirette perché tese a colpire una manifestazione concreta della capacità contributiva del contribuente, ossia, il reddito. Nel nostro Ordinamento vi sono poi anche alcune imposte indirette, quali l’IVA, l’imposta di registro, le accise, che colpiscono atti e fatti posti in essere dal contribuente in quanto espressivi di una indiretta capacità contributiva del cittadino. L’attuale sistema impositivo italiano risulta il frutto di un’evoluzione storica molto articolata, scandita da alcune importanti riforme1. All’atto dell’ unificazione dello Stato (1861) il sistema italiano era basato su un’imposta diretta fondamentale e su un’insieme di imposte indirette su cui prevaleva l’imposta di registro. Nell’imposizione diretta l’imposta per eccellenza era l’imposta fondiaria, in cui la fonte principale di ricchezza era rappresentata dal possesso della terra. Il presupposto era costituito dal possesso di immobili e la base imponibile era determinata col sistema catastale. Tra le imposte indirette prevaleva invece l’imposta di registro, che colpiva i trasferimenti di ricchezza immobiliare e le prestazioni a privati di 1 Per una disamina dell’evoluzione storica del sistema impositivo italiano cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2005, 3 e ss; FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 773. 6 pubblici servizi (quale quello dell’attestazione della data certa e della conservazione degli atti). Altre forme di imposizione indiretta erano l’imposta di bollo basata sulla realizzazione di un’entrata fiscale con l’imposizione dell’uso della carta e dei valori bollati la cui produzione e vendita erano riservate allo Stato. Infine, vi erano le accise, che colpivano l’attività di produzione di beni, ed i tributi doganali, che colpivano le importazioni di beni. Dopo l’unificazione del Regno d’Italia, nel 1864 fu introdotta un’imposta generale sul reddito delle persone fisiche – imposta di ricchezza mobile – diretta a colpire tutti i redditi non assoggettati all’imposta fondiaria e, quindi, i redditi derivanti dall’esercizio dell’impresa agricola, dell’impresa commerciale, i redditi di capitale, di lavoro autonomo e di lavoro subordinato. Tale imposta è rimasta in vigore per più d’un secolo, ossia sino alla riforma generale dell’imposizione diretta, entrata in vigore il 1° gennaio 1974. Precedentemente, accanto all’imposta di ricchezza mobile era stata poi inserita un’imposta complementare a carattere sussidiario con la finalità di integrare, con caratteri di personalità, l’imposta reale. A seguito, poi, di un forte dibattito in ordine alla configurabilità o meno di una capacità contributiva autonoma delle società, nel 1954 era infine stata introdotta un’imposta sulle società, che colpiva il patrimonio delle società e il reddito eccedente il 6% del patrimonio. Sul versante delle imposte indirette la principale novità post unitaria fu data dall’introduzione di un’imposta sul consumo, l’IGE (imposta generale sull’entrata), – poi sostituita dall’IVA – diretta a colpire a cascata tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate da imprenditori e professionisti e che finiva con l’incidere economicamente, attraverso un meccanismo di traslazione economica, sul consumatore finale. Il sistema fiscale italiano dell’imposizione diretta è stato oggetto di tre importanti riforme attuate, la prima negli anni ’70, la seconda negli anni ’90 e la terza nella parte dell’ultimo decennio. In particolare, il sistema introdotto con la riforma del 1971-1973 si imperniava, in via primaria e principale, su due imposte dirette a colpire tutti i redditi delle persone fisiche e degli enti (IRPEF e IRPEG); nella logica di tali imposte ciò che acquistava specificatamente rilievo è “l’esistenza di un reddito complessivo a disposizione del soggetto, che pur essendo composto, e non potrebbe essere diversamente, dai vari redditi posseduti, assume una distinta rilevanza sia materiale che concettuale, in ordine agli adempimenti previsti per la determinazione della base imponibile e per l’applicazione dell’imposta”2. 2 Così POLANO, Attività commerciali e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, 4. 7 Tale sistema tassava con imposte generali l’insieme dei redditi degli individui e degli enti, realizzando la progressività nella tassazione personale e non duplicando tra tassazione dei redditi prodotti dalle società e tassazione dei medesimi redditi presso i soci. Alle due imposte generali si aggiunse poi l’ILOR, abolita poi a partire dal 1998, che colpiva solo i redditi di natura patrimoniale, ritenuti espressivi di una maggiore capacità contributiva dei cittadini. Successivamente, con la Legge 23 dicembre 1996, n. 662, collegata alla Finanziaria 1997, il Parlamento accordò al Governo una serie di deleghe, la cui realizzazione apportò modifiche di rilievo al sistema tributario italiano. Tra le deleghe concernenti i tributi diretti, sono da ricordare quelle riguardanti: a) l’istituzione dell’IRAP con contemporanea abolizione dell’ILOR3; b) il riordino dell’IRPEG con l’introduzione di due aliquote (Dual Income Tax)4; c) il credito d’imposta correlato agli utili societari e l’imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio 5; d) la disciplina fiscale delle operazioni straordinarie6; e) il trattamento fiscale degli enti non commerciali e delle ONLUS7. Infine, l’ultima importante riforma del sistema tributario italiano è stata attuata nel 2003. Con il DL 7 aprile 2003, n. 80, è stata infatti approvata una nuovadelega per la riforma del sistema fiscale statale i cui tratti salienti sono due: i) la riforma della disciplina dei singoli tributi con la progressiva riduzione di quest’ultimi a cinque imposte (due sui redditi, una sul valore aggiunto, una sui servizi, ed infine l'accisa) e (i) la formazione di un «codice tributario». In particolare l’art. 2 del citato DL prevedeva la realizzazione di un unico codice tributario nel quale raccogliere tutte le disposizioni normative relative al sistema fiscale nazionale. Questo codice doveva articolarsi in due parti: la prima, definita parte generale, relativa ai criteri e principi base ai quali si sarebbe dovuto uniformare il sistema tributario; la seconda, definita parte speciale, che doveva raccogliere le disposizioni che disciplinano i singoli tributi. Sul versante del diritto tributario sostanziale l’art. 3 prevedeva, invece, l’introduzione di una nuova imposta, l’IRE, in sostituzione dell’IRPEF, caratterizzata da due sole aliquote (23% per i redditi fino a 100.000 euro e 33% per i redditi d’importo superiore). Mentre l’art. 4 dettava i criteri direttivi per la riforma dell’imposizione del reddito delle società, con l’istituzione dell’IRES. La riforma in 3 D.Lgs. 446/1997. D.Lgs. 466/1997. 5 D.Lgs. 467/1997. 6 D.Lgs. 358/1997. 7 D.Lgs. 460/1997. 4 8 argomento, tuttavia, ha trovato compimento solo in relazione all’IRES grazie all’emanazione del D.Lgs. 344/2003. A decorrere dal 1° gennaio 2004 l’IRES ha, infatti, sostituito l’IRPEG. I tratti innovativi dell’IRES sono i seguenti8: a) previsione di una sola aliquota (33% e dal 1°.1.2008 27,5%9); b) tassazione consolidata di gruppo con l’introduzione dei consolidati fiscali, nazionale e mondiale; c) ulteriori norme di contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese; d) nuovo regime dei dividendi e delle minusvalenze e plusvalenze connesse alla cessione di partecipazioni; e) regime di trasparenza per le società di capitali; f) revisione della disciplina del credito per le imposte pagate all’estero e delle CFC; g) regime della partecipation exemption; h) introduzione di una tassazione alternativa per alcune imprese marittime (tonnage tax). 1.2 IL REDDITO D’IMPRESA ED IL BILANCIO 1.2.1 Nozione di reddito d’impresa Il reddito d’impresa costituisce una categoria reddituale che colpisce sia gli imprenditori individuali sia le società ed enti e, pertanto, interessa sia l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) che l’imposta sul reddito delle società (IRES).L’impianto normativo del TUIR, in riferimento al reddito d’impresa, è stato notevolmente modificato dalla citata riforma del sistema fiscale statale entrata in vigore il 1° gennaio 200410: la disciplina di base riguardante il calcolo del reddito d’impresa, prima racchiusa all’interno dell’IRPEF, è stata, infatti, trasferita all’interno della sezione che regola la determinazione dell’IRES (precisamente nel Capo II relativo alla determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali). Per le persone fisiche, quindi, la disciplina del reddito d’impresa si ottiene combinando la disciplina di base, racchiusa nelle norme relative all’IRES, con alcune norme specifiche pensate per le persone fisiche e per le società di persone. La normativa sul reddito d’impresa si può idealmente scomporre in due gruppi di norme: uno dedicato all’identificazione della fonte del reddito, ed uno volto a 8 Gli aspetti principali dell’IRES verranno esaminati successivamente sub. par. 1.3.1. La Finanziaria 2008, attuata con la L. 244/2007, ha infatti abbassato a decorrere dal 1° gennaio 2008 l’aliquota IRES al 27,5%. 10 Introdotta dal D. Lgs. 344/2003. 9 9 disciplinarne il calcolo. Rispetto alle altre categorie di reddito, la disciplina del reddito d’impresa si contraddistingue per l’analiticità con cui è regolata la determinazione del reddito. L’individuazione del reddito in esame si base sia su criteri oggettivi, che fanno riferimento alle modalità di svolgimento dell’attività esercitata, contenuti nell’art. 55 del TUIR, sia su criteri di tipo soggettivo, ancorati alla natura giuridica del soggetto passivo, i quali trovano la propria fonte, in particolare, negli artt. 6 e 81 del TUIR. Infatti, in forza di tali ultimi disposizioni, i redditi delle società di persone, delle società di capitali, nonché degli enti commerciali, da qualunque fonte provengano, sono sempre considerati redditi d’impresa, e come tali, determinati secondo le regole proprie previste per tale categoria. Da ciò consegue che, in relazione a tali soggetti, non si pone il problema della qualificazione del reddito, che è sempre e comunque reddito d’impresa, indipendentemente dall’attività da essi svolta o dalla fonte dei proventi dai medesimi percepita. I criteri di tipo oggettivo assumono, invece, rilievo con riferimento ai soggettivi diversi da quelli appena menzionati, vale a dire le persone fisiche, gli enti non societari di tipo non commerciale e le società di fatto. Al riguardo il comma 1 dell’art. 55 del TUIR prevede che sono redditi d’impresa “quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa”. Dunque, nel disciplinare le regole di carattere oggettivo necessarie per l’individuazione del reddito d’impresa, l’art. 55 richiama le attività di cui all’art. 2195 c.c., in forza del quale hanno l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano le seguenti attività: a) l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; b) l’attività intermediaria nella circolazione dei beni; c) l’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; d) l’attività bancaria o assicurativa; e) le altre attività ausiliare delle precedenti. Tuttavia il richiamo alla disciplina civilistica presenta carattere recettizio, nel senso che la norma del codice civile viene richiamata ai fini fiscali soltanto per indicare una serie di attività la cui commercialità non può essere messa in discussione ed il cui esercizio implica automaticamente la produzione di reddito d’impresa. Tali attività, in particolare, danno luogo a reddito d’impresa solo se “esercitate in modo abituale”. Il concetto di abitualità, tuttavia, non è definito espressamente dalla 10 legge, essendo quindi rimesso all’attività dell’interprete sulla base della comune esperienza. Invero, il suo significato assume un ruolo fondamentale nell’ambito dell’imposizione del redditi, in quanto la stessa attività commerciale, a seconda che sia esercitata in modo abituale o non abituale, dà luogo rispettivamente ad un reddito d’impresa oppure ad un reddito diverso (art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR), sottoposto a differente regole di determinazione e d’imputazione al periodo d’imposta. Peraltro, il concetto di abitualità non può essere considerato come assoluto, ma relativo, dovendosi verificare, di volta in volta, in base all’attività concretamente esercitata dal contribuente, se essa sia caratterizzata dalla regolarità e dalla continuità nel tempo oppure rivesta carattere meramente occasionale. In particolare, l’abitualità pur non implicando una durata minima dell’attività, richiede, comunque, che sia volta con un sufficiente grado di stabilità; pertanto l’esistenza di interruzioni non è incompatibile con l’abitualità specie quando si tratta di attività a carattere stagionale o, comunque, caratterizzate dalla presenza di fasi di pausa. Invero, anche un unico affare può dare luogo all’esercizio abituale quando presenti una rilevanza economica non trascurabile ed implichi una pluralità di operazioni funzionali alla sua realizzazione. Secondo la previsione dell’art. 55, inoltre, non è necessaria l’esclusività dell’esercizio dell’attività commerciale; pertanto, è produttiva di reddito d’impresa anche un’attività commerciale svolta contemporaneamente ad altre di diversa natura (ad esempio, di lavoro dipendente) che, peraltro, possono presentarsi anche marginali da un punto di vista quantitativo, rispetto alla prima. Nel più volte menzionato art. 55 il legislatore considera infine rilevante nella definizione del reddito d’impresa “l’organizzazione in forma d’impresa”11. Invero tale elemento assume rilevanza sotto un duplice profilo; in negativo, per le attività di cui all’art. 2195 c.c. e per le attività agricole, nel senso che per esse non è necessaria l’organizzazione per essere considerate commerciali, nonché in positivo, per le attività di prestazioni di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c., per le quali tale elemento è invece indispensabile per qualificare il relativo reddito come d’impresa. Il legislatore tributario invece considera irrilevante ai fini della definizione di reddito d’impresa l’esistenza o meno di uno scopo di lucro. 11 Quanto al suo concreto significato, la dottrina ha ravvisato l’organizzazione in forma d’impresa in presenza di un’attività che si esteriorizza secondo modalità tipiche dell’attività imprenditoriale, desumibili sia da elementi giuridici, quali l’iscrizione nel registro delle impresa, l’uso della ditta o di altri elementi esteriori tipici dell’impresa, sia da elementi tecnici o di fatto, come l’esistenza di collaboratori, di strutture organizzative di lavoro e simili. 11 1.2.2 Tassazione del reddito d’impresa in base al bilancio Tanto premesso, il punto di partenza per la determinazione del reddito d’impresa da assoggettare a tassazione è rappresentato dal conto economico, che, insieme allo stato patrimoniale e alla nota integrativa, costituisce il bilancio di esercizio di una impresa. Si ricorda che, dal punto di vista puramente civilistico, la redazione del bilancio è prescritta obbligatoriamente soltanto per le società di capitali. Dal punto di vista fiscale, tale obbligo, invece, appare più esteso, in quanto, per poter determinare il reddito, tutte le imprese soggette alla tenuta delle scritture contabili in regime ordinario, comprese le imprese individuali e le società di persone, devono redigere il bilancio. Tale obbligo non sussiste per le imprese ammesse a regimi contabili semplificati, che determinano il reddito utilizzando regole più semplici. Ai sensi dell’art. 83 del TUIR il reddito d’impresa è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico, relativo all’esercizio chiuso nel periodo d’imposta, le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle disposizioni dello stesso TUIR. Conseguentemente, il punto di partenza è rappresentato dal dato risultante dal conto economico su cui vengono effettuate le suddette variazioni. Essendo fiscalmente rilevante il risultato del conto economico, sono indirettamente rilevanti tutti i componenti, positivi e negativi, che concorrono a determinare quel risultato. Se si tratta di componenti positivi, essi sono tassabili anche se non disciplinati e contemplati nelle norme fiscali sui componenti positivi. I componenti negativi sono parimenti rilevanti anche se non espressamente disciplinati nel TUIR, purché risultino rispettate le norme generali cui la normativa fiscale subordina la deducibilità dei componenti negativi. Le norme fiscali sul reddito d’impresa non mirano dunque a dare una disciplina organica e compiuta di tutti i componenti reddituali, ma mirano a determinare delle “variazioni”. In particolare, in materia di componenti positivi, essendo tassabili tutti i componenti iscritti in bilancio, le norme fiscali non hanno lo scopo di istituire la tassabilità di tali componenti, ma di determinarne le modalità della tassazione. Parallelamente, le norme sui singoli componenti negativi non hanno lo scopo di istituire la deducibilità dei componenti negativi, ma, dopo aver posto le condizioni generali in materia di deducibilità dei costi, di determinare le condizioni particolari, i tempi e le modalità a cui è subordinata la deducibilità degli stessi. Tenendo conto che le variazioni che le norme fiscali comportano rispetto ai dati di bilancio possono essere in aumento e in diminuzione, abbiamo una tipologia formata da quattro tipi di variazioni: a) variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico, in quanto variano in aumento un componente positivo del conto economico; b) variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico 12 c) d) in quanto eliminano o riducono un componente negativo del conto economico; variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile cicilistico in quanto eliminano o riducono un componente positivo del conto economico; variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico in quanto consentono il calcolo di costi non presenti, o presenti in misura minore, nel conto economico. 1.2.3 Cenni ai principi generali in materia di tassazione del reddito d’impresa Uno dei principi più importanti in materia di determinazione del reddito d’impresa è il criterio della competenza12. Come noto, invero, l’attività d’impresa rappresenta un continuum, che convenzionalmente viene frazionato in esercizi sociali annuali. In diritto tributario, come in diritto civile, l’imputazione temporale dei componenti positivi e negativi di reddito viene attuata applicando il principio di competenza economica, che si contrappone a quello di cassa. In base al principio di cassa, infatti, le componenti di reddito assumono rilievo quando avvengono i pagamenti (per i componenti negativi) e gli incassi (per quelli positivi); in altri termini rileva il momento finanziario. La competenza, invece, attribuisce rilievo il momento in cui si verifica il fatto economico-gestionale: i ricavi sono imputati all’esercizio in cui sono conseguiti in senso giuridico-economico. Il principio di competenza è sancito dall’art. 109, comma 1, del TUIR a norma del quale “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e nativi, per le quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza”. L’art. 109 prescrive al riguardo una serie di criteri per individuare in concreto l’esercizio di competenza ed, in particolare: a) per la cessione di beni mobili i corrispettivi si considerano conseguiti alla data di consegna e di spedizione, con irrilevanza dei passaggi di proprietà anteriori a tale data (è da ricordare infatti che il passaggio delle proprietà segue il criterio del consenso e non quello della consegna); b) per la cessione di beni immobili o aziende i corrispettivi si considerano conseguiti alla data di stipulazione dell’atto, anche se non accompagnata dalla consegna materiale del bene; c) per le prestazioni di servizi il ricavo è da imputare nell’esercizio nel quale la prestazione viene ultimata e in caso di prestazioni periodiche (locazione, 12 Il principio di competenza è sancito dall’art. 109 TUIR a norma del quale “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza”. 13 somministrazione, mutuo) rileva la data di maturazione dei corrispettivi. Il principio di competenza è applicabile a tutti i componenti di reddito, salvo quelli in relazione ai quali le norma speciali del TUIR prevedano diversi criteri per l’imputazione a periodo. Si tratta, in tal caso, di alcuni componenti reddituali la cui rilevanza risulta agganciata all’effettiva variazione numeraria, per i quali si applica, dunque, il principio di cassa. Tale è il caso degli oneri fiscali e contributivi, che sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento (art. 99, comma 1, TUIR); dei compensi in misura fissa spettanti agli amministratori di società, che sono deducibili nell’esercizio in cui non corrisposti (art. 95, comma 5) nonché delle erogazioni liberali (art. 100, comma 2). L’art. 109, comma 1, secondo parte, precisa, inoltre che “tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obbiettivo l’ammontare concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”. Con i requisiti della certezza e della obbiettiva determinabilità il legislatore ha inteso escludere dalla formazione del reddito le componenti semplicemente “stimate”, che invece concorrono a formare il reddito civilistico ove assistite da un sufficiente grado di attendibilità. In particolare, secondo la dottrina prevalente, la certezza cui fa riferimento il legislatore non va intesa in senso materiale, ma in senso giuridico, dovendosi escludere rilevanza a quelle componenti reddituali meramente presunte o congetturate, pur note nella tecnica contabile ed allo stesso diritto commerciale (ad esempi, gli ammortamenti e gli accantonamenti) le quali, salve le ipotesi espressamente disciplinate, non vengono considerate idonee a determinare il prelievo fiscale sul reddito d’impresa. L’altra condizione che il comma 1 dell’art. 109 pone ai fini dell’imputazione dei componenti al periodo d’imposta è quella della oggettiva determinabilità dell’ammontare dei ricavi, costi e oneri. Tale condizione attiene quindi al quantum del componente di reddito già certo nell’esistenza e si pone, quindi, come logicamente successiva a quella precedentemente esaminata. Nello specifico questa condizione deve ritenersi sussistente in tutte le ipotesi in cui l’importo quantitativo, inteso nel significato numerario, possa desumersi da elementi oggettivi propri dello specifico componente. La funzione dei tale disposizione è dunque quella di sottrarre al computo del reddito d’impresa componenti quantificati in base a mere congetture soggettive oppure a calcoli probabilistici. Altro principio importante in tema di determinazione del reddito d’impresa è il principio dell’inerenza. Tale principio attiene al rapporto che deve sussistere tra le varie componenti del reddito e l’esercizio dell’attività d’impresa; esso implica, in particolare, che tutti i componenti di reddito, sia positivi che negativi, si devono inserire nell’esercizio d’impresa e non si devono porre in un semplice rapporto di occasionale 14 riferibilità soggettiva all’impresa. In altri termini, sia i componenti positivi che quelli negativi devono inerire all’esercizio dell’impresa e cioè per acquisire rilevanza ai fini impositivi devono porsi in un rapporto causale con l’esercizio dell’attività imprenditoriale individuata nell’art. 55 del TUIR. Questo rapporto di causa ad effetto tra il componente economico e l’esercizio d’impresa può ritenersi sussistente soltanto quando il costo o il provento, esaminato oggettivamente, si presenti come un elemento derivante dall’esercizio dell’impresa e, quindi, come effetto economico (positivo o negativo) della gestione dell’impresa. Quanto, poi, al significato di tale collegamento, esso deve intendersi sia in senso economico, quale riferibilità del fatto di gestione al tipo di attività svolta dall’impresa, sia in senso giuridico, tale che il componente economico dia luogo ad una modifica qualitativa e quantitativa del patrimonio destinato all’esercizio dell’impresa. Pertanto, il componente di reddito potrà ritenersi rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa,a allorquando il suo collegamento con l’attività dell’impresa presenti, al tempo stesso, sia un fondamento economico sia un fondamento giuridico, tale risultare economicamente in relazione all’attività dell’impresa e da costituire, al contempo, una variazione giuridicamente significativa del patrimonio imprenditoriale. Il principio di inerenza, pur essendo applicabile sia ai componenti negativi, sia a quelli positivi, pone solitamente maggiori problemi applicativi in relazione ai primi, giacché nella pratica è molto frequente la tendenza da parte di contribuenti di dedurre costi che non sono inerenti all'attività dell'impresa ma che riguardano la loro sfera personale13. Il TUIR, d'altronde, non fornisce criteri precisi per giudicare sull'inerenza di una spesa rispetto all'attività imprenditoriale, la quale deve, quindi, essere valutata caso per caso, trattandosi di un nesso che si atteggia diversamente da impresa ad impresa in funzione di diversi parametri (tipo di attività svolta, sue dimensioni, ecc.). A tal proposito, può in linea di massima osservarsi che gli orientamenti giurisprudenziali e amministrativi sono progressivamente passati da posizioni fortemente rigoristiche, volte a riconoscere come inerenti solo le spese strettamente necessarie alla produzione dei ricavi, a posizioni più "elastiche", che considerano come inerenti all’impresa tutte le spese che obiettivamente afferiscono allo svolgimento dell’attività produttiva. 13 Numerose sono le sentenze che affrontano il problema della deducibilità dei costi inerenti all' attività dell'impresa, in relazione a diverse fattispecie. Fra le tante cfr: Cass. 30 novembre 2001, n. 13478, in Corro trib., 2002, 597; Cass. 27 .settembre 2000, n. 12813, in Corro trib., 2000, 3174; Casso 19 maggio 2000, n. 6502, In Corr. trib. Banca dati, 2000, 1103; Cass. 29 maggio 2001, n. 7071, in Guida normativa, 2000, n. 95,55; Casso 4 ottobre 2001, n. 13181, in Corr. trib., 2001, 298. 15 Ed è proprio per le difficoltà di stabilire in concreto il nesso causale tra una componente reddituale e l' attività d'impresa che la più recente evoluzione legislativa tende, mediante puntuali disposizioni, a limitare i comportamenti elusivi dei contribuenti. Rientra in tale logica, ad esempio, la disposizione di cui all'art. 108, comma 2, del TUIR, che limita la deducibilità delle spese di rappresentanza. Esistono, tuttavia, aree problematiche ancora fortemente dibattute in dottrina ed in giurisprudenza circa l'applicazione del principio di inerenza. Uno dei problemi maggiormente affrontati è quello relativo alla possibilità di sindacare l'inerenza di quei costi che, seppur regolarmente documentati, siano quantitativamente sproporzionati rispetto ad altri fattori economici dell'impresa. Tale possibilità è stata spesso riconosciuta dalla Corte di Cassazione, ma si tratta di approccio fortemente discutibile in quanto l'eccessività del costo non può considerarsi prova della mancanza di inerenza, pur potendo costituire un sintomo di anormalità del costo stesso ai fini della verifica della corrispondenza del suo importo documentale con la realtà14. Altro principio cardine in materia di tassazione del reddito d’impresa è il principio di imputazione. Tale principio è sancito dall’art. 109, comma 3, del TUIR a norma del quale “i ricavi; gli altri proventi di ogni genere e le rimanenze concorrono a formare il reddito anche se non risultano imputati al conto economico”; per altro verso, il comma 4 della medesima disposizione prevede che “le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza”. A questo punto è bene porre in rilievo i lineamenti del regime fiscale dei beni relativi all’impresa. Qualificare un bene come relativo all’impresa significa postulare, per esso, l’applicazione del sistema di regole relative al reddito d’impresa. In particolare, sono relativi all'impresa quei beni materiali (ad esempio, macchinari, attrezzature, immobili, ecc.) e immateriali (ad esempio, diritti di utilizzazione delle opere dell'ingegno, brevetti, ecc.) stabilmente te collegati con l'esercizio dell' attività imprenditoriale, in quanto idonei a svolgere una loro funzione per il perseguimento dello scopo economico dell' attività svolta dall'imprenditore. La nozione di beni dell'impresa è caratterizzata, in primo luogo, da un elemento oggettivo, dato dal nesso economico tra il bene stesso e l'esercizio dell'attività, costituito dall'idoneità del bene a costituire mezzo per lo svolgimento dell' attività medesima. In secondo luogo, occorre anche l'elemento soggettivo, costituito dalla 14 Su tali problematiche V. ZOPPINI, Sul difetto di inerenza per "antieconomicità manifesta", in Riv. dir. trib., 1992, II, 937; LUPI, A proposito di inerenza ... il fisco può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali?, in Riv. dir. trib., 1992, II, 940; STEVANATO, Davvero sindaca bili i compensi agli amministratori?, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1143; VOGLINO, Ancora sulla insindacabilità da parte dell'amministrazione finanziaria della convenienza economica delle operazioni poste in essere dai contribuenti, in Boll. trib., 1993, 1642. 16 volontà dell'imprenditore di inserire il bene nell'impresa con caratteri di stabilità funzionale. Questi principi risultano anche dalla lettura dell'art. 65 del TUIR, il quale, per stabilire l'afferenza di un bene alla sfera fiscale dell'impresa, distingue a seconda che essa sia esercitata nelle forme della società commerciale (di persone o di capitali) oppure individualmente. In particolare: a) per le società commerciali sono relativi all'impresa tutti i beni ad esse appartenenti ed i redditi da essi derivanti concorrono comunque a formare il reddito d'impresa. Per appartenenza si intende tutta quella serie di situazioni giuridico-soggettive costituite dal diritto di proprietà e dagli altri diritti reali di godimento. Tale regola è prevista dal comma 2 per le società di persone, ma vale anche per i beni appartenenti alle società di capitali, in virtù del disposto di cui all'art. 81; b) diverso è, invece, il discorso per le imprese individuali (art. 65, comma 1), in quanto in tal caso il legislatore distingue il patrimonio privato dell'imprenditore dalla massa dei beni relativi all'impresa. In particolare, sono sempre relativi all'impresa, indipendentemente dalla volontà dell'imprenditore, le materie prime, le merci, i crediti acquisiti nell'esercizio dell'impresa ed i beni strumentali diversi dagli immobili; questi ultimi, invece, si considerano relativi all'impresa solo se sono indicati come tali nell'inventario redatto e vidimato a norma dell'art. 2217 c.c.; c) per le società di fatto (art. 65, comma 3) si considerano relativi all'impresa, oltre alle materie prime, alle merci, ai beni strumentali ed ai crediti acquisiti nell'esercizio dell'impresa, i beni iscritti in pubblici registri a nome dei soci ma utilizzati esclusivamente come strumentali per l'esercizio dell'impresa. I beni relativi all'impresa, inoltre, si dividono al loro interno in più categorie, cui corrispondono diversi regimi fiscali. Per stabilire l'appartenenza del bene ad una categoria piuttosto che ad un' altra non occorre considerare il bene in sé, ma la sua relazione con l'attività dell'impresa. In particolare si distingue tra: a) i beni merce: sono quei beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa (materie prime, sussidiarie, prodotti finiti, ecc.). La loro cessione dà origine a ricavi ed a fine esercizio sono oggetto di valutazione come rimanenze finali. Rientrano in tale categoria anche le partecipazioni ed i titoli iscritti in bilancio nell' attivo circolante destinati alla negoziazione15; 15 La normativa tributaria assume, quale criterio di distinzione tra immobilizzazioni finanziarie ed attivo circolante, le risultanze del bilancio, a loro volta basate sulla destinazione economica conferita ai titoli. In particolare, sono iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie i titoli e gli altri valori mobiliari destinati ad essere utilizzati durevolmente dall'impresa e nell'attivo circolante i titoli e gli altri valori mobiliari detenuti per esigenze di tesoreria o al fine di negoziazione. 17 b) i beni strumentali: sono quei beni impiegati durevolmente nel ciclo produttivo come mezzo o strumento. In particolare, con riferimento ai beni immobili, il legislatore (art. 43 del TUIR) distingue tra beni strumentali per natura e beni strumentali per destinazione; i primi sono quegli immobili che, per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni (ad esempio, una stazione di rifornimento del carburante, un capannone industriale, un teatro), mentre i secondi sono strumentali perché utilizzati come tali dall'imprenditore (ad esempio, un immobile classificato come civile abitazione). I beni strumentali concorrono a formare il reddito d'impresa sul fronte dei costi attraverso le quote di ammortamento e sul fronte dei componenti positivi attraverso le plusvalenze; c) nei beni meramente patrimoniali, infine, si comprendono tutti i beni che non sono né beni merce, né beni strumentali (ad esempio, un terreno agricolo o un immobile ad uso abitativo). Anche tali immobili, in caso di cessione, possono dar luogo a plusvalenze ma, a differenza dei beni strumentali, non sono oggetto di ammortamento. Il valore di riferimento di un bene relativo all'impresa è comunemente definito con l'espressione "valore fiscalmente riconosciuto". Esso consiste nel valore assunto dal bene al momento del suo ingresso nel patrimonio dell'impresa e destinato a conservare fino alla sua fuoriuscita, costituendo il parametro per la quantificazione di certi elementi reddituali ad esso collegati (ad esempi, ammortamenti e plusvalenze). In via di prima approssimazione, il costo fiscalmente riconosciuto è determinato in base ai costi sostenuti per l'acquisto del bene e comprende anche gli oneri accessori di diretta imputazione (art. 110, comma l, lett. b)), cioè le spese strettamente collegate con il suo acquisto, inerenti sia alla fase negoziale (spese notarili, legali, ecc.), sia a quella esecutiva (spese di trasporto, collaudo, ecc.). Sono esclusi dal costo gli interessi passivi e le spese generali. Tuttavia, per i beni strumentali è prevista una deroga, in quanto gli interessi passivi si comprendono nel costo dei beni in questione, a condizione che siano stati imputati nel bilancio ad incremento del costo. (c.d. patrimonializzazione degli interessi passivi). Inoltre, se gli immobili costituiscono oggetto di produzione o di scambio dell'attività dell'impresa (come si verifica per le imprese edili), la patrimonializzazione degli interessi passivi è automatica e tali oneri si includono sempre nel costo del bene. Il costo dei beni (diversi da quelli che originano ricavi) non comprende, tuttavia, le plusvalenze iscritte in bilancio derivanti da rivalutazioni economiche le quali, pertanto, hanno effetto soltanto ai fini civilistici (art. 110, comma l, letto c)). 1.2.4 Componenti positivi 18 Una volta esaminate le regole generali in tema di tassazione dell reddito di impresa, occorre analizzare le singole componenti dello stesso, iniziando con quelle attive. Per ciascuna di esse il legislatore provvede a disciplinare i criteri identificativi, le fattispecie al verificarsi delle quali i proventi concorrono a formare il reddito (che, ad esempio, per le plusvalenze coincidono con la cessione a titolo oneroso del bene strumentale o con il conseguimento del risarcimento per la perdita dello stesso) nonché le regole per la loro individuazione. Normalmente, quasi tutte le poste attive del conto economico confluiscono nel reddito d'impresa, ad eccezione di quelle espressamente escluse dalla base imponibile (come i proventi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, ex art. 91 del TUIR). Ciò premesso, i principali componenti positivi di reddito sono: a) i ricavi; b) le plusvalenze; c) le sopravvenienze attive; d) i dividendi; e) gli interessi attivi; f) le rimanenze finali. In questa sede affronteremo in maniera più dettagliata le prime tre categorie e quindi, i ricavi, le plusvalenze e le sopravvenienze attive. In particolare, i ricavi sono dati, ai sensi dell' art. 85 del TUIR, dai corrispettivi derivanti da: a) cessione dei beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa (c.d. beni merce). Qualora si trattasse di un bene strumentale, non si originerebbe un ricavo, ma una plusvalenza; b) cessione di materie prime e sussidiarie, semilavorati o altri beni mobili destinati al processo produttivo, esclusi quelli strumentali. Qui viene fatto riferimento sia alle materie prime e sussidiarie, ecc. che non sono state impiegate nel processo produttivo, sia a quelle acquistate per essere rivendute, senza la loro preventiva trasformazione o lavorazione; c) costituiscono ricavi anche i corrispettivi derivanti dalle cessioni di azioni o quote di partecipazione al capitale di società ed enti soggetti all'IRES. Tale norma comprende non solo le azioni, ma anche le partecipazioni al capitale di società non rappresentate da titoli (ad esempio, le quote delle società a responsabilità limitata). In particolare, le partecipazioni oggetto di cessione non necessariamente devono costituire beni al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa (quindi si può trattare anche di partecipazioni liberamente inserite nel patrimonio dell'impresa), 19 ma non possono costituire immobilizzazioni finanziarie, giacché in tal caso la loro cessione darebbe origine ad una plusvalenza. Ed invero, la distinzione tra plusvalenza e ricavo assume una fondamentale importanza in quanto, come vedremo in seguito, solo la tassazione della prima, e non anche del secondo, può essere "rateizzata" in più esercizi; d) costituiscono ricavi anche i corrispettivi derivanti dalle cessioni di strumenti finanziari similari alle azioni, ai sensi dell' arto 44, nonché di obbligazioni ed altri titoli diversi dai precedenti (c.d. "titoli non partecipativi"), purché non iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie; e) sono altresì ricavi le indennità conseguite a titolo di risarcimento per la perdita o il danneggiamento dei beni la cui cessione dà origine; f) rientrano tra i ricavi anche due diversi tipi di contributi: quelli spettanti in base a contratto (lett. g) e quelli in conto esercizio (lett. h). I primi sono generalmente quei contributi di fonte privatistica che vengono erogati a favore delle imprese per il sostenimento di certe spese cui esse vanno incontro (ad esempio, di impianto) o per consentire lo svolgimento di certe attività (ad esempio, di ricerca). I secondi, invece, costituiscono in contributi di fonte pubblicistica, spettanti a norma di legge, generalmente disposti a favore delle imprese soggette a regimi di prezzi politici (ad esempio, le imprese di trasporto urbano) che, diversamente, non sarebbero in grado di coprire gli ordinari costi di produzione. Queste forme di contributo, pertanto, non devono essere confuse con i c.d. contributi in conto capitale che sono finalizzati al rafforzamento dell' apparato produttivo o all' acquisto di beni strumentali, i quali danno origine a sopravvenienze attive. Il comma 2 dell' art. 85 comprende, inoltre, fra i ricavi il valore normale dei beni di cui al comma 1 assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all'esercizio dell'impresa16. Per quanto concerne, invece, l’individuazione del periodo d’imposta in cui il ricavo concorrerà a formare il reddito, non assume rilevanza il momento dell’incasso del corrispettivo ma si applica il citato principio di competenza; pertanto, il ricavo si 16 Poiché il reddito d'impresa comprende qualunque incremento del patrimonio iniziale e delle sue componenti, il legislatore, tramite tale disposizione, impedisce che il bene possa fuoriuscire dal patrimonio dell'impresa senza che tale incremento abbia subito la tassazione. In particolare, due sono le ipotesi di espulsione del bene dall'impresa: l'assegnazione del bene al socio, che determina un passaggio di titolarità del bene, nonché la sua destinazione a finalità estranee all'esercizio dell'impresa, che comprende qualsiasi ipotesi di oggettiva sottrazione del bene all'impresa ed al suo regime (ad esempio, cessione gratuita di un bene merce). Ad ogni modo, in entrambi i casi, mancando un corrispettivo in denaro, il ricavo è dato dal valore normale del bene. 20 considera conseguito ai fini impositivi alla data di consegna o spedizione del bene mobile od a quella di stipulazione dell’atto del bene immobile, nonché alla data di ultimazione del servizio. Come sopra accennato, altro componente positivo del reddito d’impresa sono le plusvalenze. Più in dettaglio, ai sensi del comma 1 dell’art. 86 del TUIR, le plusvalenze concorrono a formare il reddito in tre ipotesi: a) cessione a titolo oneroso, dove 1'onerosità si realizza, analogamente ai ricavi, non solo quando il corrispettivo è in denaro, ma anche quando è in natura (ad esempio, nell'ipotesi della permuta); b) risarcimento per la perdita o il danneggiamento dei beni; c) assegnazione dei beni ai soci o destinazione degli stessi a finalità estranee all'esercizio dell'impresa. Ai sensi del comma 2 dell' art. 86, la plusvalenza è costituita dalla “differenza fra il corrispettivo o indennizzo ricevuto” - o il valore normale del bene, se il corrispettivo non è rappresentato da una somma di denaro – “ed il costo non ammortizzato del bene”. Quanto alle modalità di tassazione delle plusvalenze, l'art. 86, comma 4, prevede che esse concorrano a formare il reddito o per intero, nell' esercizio in cui sono realizzate, da individuare in base al principio di competenza, oppure in quote costanti in cinque esercizi. Le sopravvenienze attive possono essere definite come quegli eventi che modificano componenti positivi o negativi di reddito che hanno già concorso a formare il reddito in precedenti esercizi; l'evento sopravvenuto può modificare in senso positivo il reddito (sopravvenienze attive) oppure in senso negativo (sopravvenienze passive). Per quanto in questa sede di interesse l'art. 88, comma 1, del TUIR, elenca tre distinte ipotesi di sopravvenienze attive: a) i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi (ad esempio, rimborsi di imposte dedotte in precedenti esercizi; recupero di crediti ritenuti inesigibili); b) i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi (ad esempio, conseguimento di maggiori corrispettivi a seguito di revisione contrattuale); c) la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi (ad esempio, riscossione di crediti già considerati inesigibili). Le sopravvenienze appena descritte, costituenti poste rettificative o correttive della determinazione del reddito effettuata in precedenti esercizi, sono comunemente denominate sopravvenienze attive proprie. Ad esse si contrappongono le c.d. 21 sopravvenienze attive improprie, le quali si accomunano alle prime per il fatto di rappresentare anch'esse variazioni positive della preesistente consistenza patrimoniale dell'impresa dovute ad eventi a carattere straordinario; tuttavia, a differenza di quelle “proprie”, non costituiscono poste rettificative di operazioni contabilizzate in esercizi precedenti risultando, al contrario, del tutto svincolate da qualunque vicenda imponibile intervenuta nei periodi pregressi. Rientrano in tale categoria: a) le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di danni diversi da quelli considerati alla lett. f) del comma 1 dell'art. 85 (che danno luogo a ricavi) ed alla lettera b) del comma 1 dell'art. 86 (che danno luogo a plusvalenze). In tale fattispecie rientra, ad esempio, l'indennizzo per la perdita di avviamento commerciale o per concorrenza sleale; b) i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui alle lett. g) e h) del comma 1 dell' art. 85 e quelli per l'acquisto di beni ammortizzabili, indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato. Come si è già detto, i contributi pubblici possono dare origine sia a ricavi, sia a sopravvenienze attive. I primi sono i c.d. contributi in conto esercizio, diretti a coprire gli ordinari costi di gestione dell'impresa, mentre i secondi sono i c.d. contributi in conto capitale, finalizzati al rafforzamento dell' apparato produttivo o all' acquisto dei beni strumentali ed assumono i connotati della straordinarietà ed eccezionalità nella dinamica gestionale dell'impresa. 1.2.5 Componenti negativi a) b) Le principali componenti negative del reddito d’impresa sono: le minusvalenze che emergono quando il prezzo di vendita di un bene, diverso da quello che genera ricavi, è inferiore al relativo valore fiscale. Tuttavia non sono deducibili le “minusvalenze iscritte”, derivanti cioè da una mera svalutazione del cespite, basata ad esempio sul diminuito costo di mercato; le sopravvenienze passive, chiamate indifferentemente anche perdite, che si distinguono dalle minusvalenze in quanto non derivano dalla cessione di un bene, bensì dalla sua distruzione fisica o dalla perdita del relativo diritto: Le perdite dunque, ai sensi dell’art. 101, comma 5, del TUIR possono riguardare sia beni che i crediti. Le perdite di beni dell’impresa sono deducibili soltanto quando derivano dai beni c.d. patrimoniale e dai beni strumentali, cioè dagli stessi beni atti a generare plusvalenze, in quanto i beni merce rilevano ai fini delle rimanenze. Le perdite dei beni sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi; in sostanza, il contribuente deve essere in grado di dimostrare, normalmente tramite prove di tipo documentale, l’avvenuta sottrazione, eliminazione o distruzione del 22 c) d) e) f) g) h) i) bene. Le perdite su crediti sono quelle che derivano dall’inadempienza del debitore, la cui deducibilità, analogamente a quanto previsto per le perdite dei beni, è condizionata alla circostanza che risultino da “elementi certi e precisi”, i quali possono consistere in prove documentali o di tipo presuntivo (si presume, cioè, che al verificarsi di certe condizioni, sulla base dell’id quod plerumque accidit, il credito non è più recuperabile); l’ammortamento che serve a dedurre fiscalmente il costo dei beni strumentali, suddividendolo in vari esercizi in cui i beni sono utilizzati. I terreni non sono ammortizzabili ed anche per i fabbricati è stata negata, dal 2006, la deduzione degli ammortamenti corrispondenti al valore ideale del terreno su cui insistono. Per armonizzare l’ammortamento fiscale alle regole civilistiche sul deperimento e consumo o sulla durata residua dei cespiti, il legislatore ha previsto l’applicazione di aliquote percentuali, stabilite con regolamento per settore economico e tipo di bene. La base ammortizzabile comprende il costo dei beni, comprensivo degli oneri accessori di diretta imputazione (trasporto, posa in opera). Il costo viene assunto al netto di eventuali contributi di terzi: questi contributi vengono quindi tassati indirettamente mediante una decurtazione del valore fiscalmente riconosciuto dei beni; gli interessi passivi i cui criteri di deducibilità verranno esaminati successivamente; oneri fiscali e contributivi; erogazioni a titolo di liberalità; le rimanenze iniziali; le spese di utilità pluriennale; le spese di manutenzione, riparazione,a ammodernamento e trasformazione dei beni strumentali. 1.3 L’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETA’ (IRES) 1.3.1 Presupposto, aliquota e soggetti passivi L’IRES, l’imposta sul reddito delle società, ha sostituito, con la riforma attuata con il D.Lgs. 344/2003, l’IRPEG, imposta sul reddito delle persone giuridiche. L’art. 72 del TUIR – riprendendo il dettato dell’art. 1 relativo all’IRPEF – prevede che presupposto dell’IRES consiste nel possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6. L’aliquota d’imposta, proporzionale e non progressiva, era fissata fino al 31.12.2007 al 33% e dal 1°.1.2008 è stata ridotta con la 23 Finanziaria 2008 al 27,5%. Il periodo d'imposta è costituito dall'esercizio o periodo di gestione della società o dell'ente (periodo amministrativo), determinato dalla legge o dall'atto costitutivo. Soltanto se la durata dell’esercizio o del periodo di gestione non è determinata dalla legge o dall’atto costitutivo, o è determinata in due o più anni, il periodo d’imposta è rappresentato dall’anno solare. L'IRES, come l'IRPEG, colpisce quattro categorie di soggetti: a) le società di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata); b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali; c) gli enti non commerciali; d) le società e gli enti non residenti. In definitiva, sono escluse soltanto le persone fisiche e le società di persone. Gli elementi specificanti su cui si basa la classificazione delineata nell’art. 73, comma 1, sono essenzialmente due: la commercialità e la residenza. Sul primo si asside la distinzione tra i primi due insieme di soggetti ed il terzi. Sul secondo la distinzione tra i primi tre insiemi e il quarto. A seconda della diversa categoria di appartenenza vi corrispondono, come vedremo tra poco, diversi criteri di determinazione della base imponibile e dell’imposta. Ai sensi dell’art. 74 del TUIR non sono assoggettati ad IRES alcuni enti pubblici (organi e amministrazioni dello Stato, comuni, comunità montane, province e regioni). 1.3.2 Tassazione delle società versus tassazione dei soci L’IRES opera in maniera diversa a seconda che consideriamo le società commerciali e gli enti la cui finalità è quella di conseguire un lucro da distribuire ai soci oppure enti che non hanno tale finalità. I soggetti del primo tipo non sono i soggetti ultimi dell’imposizione, perché il reddito da essi prodotto è destinato ai soci; si pone quindi il problema di coordinare la tassazione del reddito delle società con la tassazione dei dividendi del socio, evitando o attenuando la doppia imposizione economica. I sistema adottabili sono molteplici: a) il sistema della trasparenza, nel quale la società non viene tassata: sono tassati solo i soci, ai quali imputato il reddito della società (la trasparenza di applica obbligatoriamente alle società di persone e, su opzione, anche in ambito IRES); b) il sistema del credito d’imposta, con cui viene accredita al socio l’imposta che colpisce i redditi della società (tale sistema operava prima del 2004, mediante accredito al socio che percepiva dividendi dell’IRPEG dovuta dalla Società); c) il sistema dell’esenzione (o esclusione da imposta) dei dividendi, che nel nostro Ordinamento è adottato nei casi in cui anche il socio è una società; d) la tassazione ridotta dei redditi del socio, che in Italia è applicata nei confronti di 24 soci persone fisiche. Il nostro sistema fiscale adottava, fino al 31 dicembre 2003, il metodo dell'imputazione (e del connesso credito d'imposta): i redditi delle società di capitali, tassati presso la società, erano tassati anche come reddito del socio, ma la doppia tassazione (economica) era eliminata perché l'imposta dovuta dalla società era imputata al socio, che aveva diritto ad un credito d'imposta, la cui misura era pari all'imposta dovuta dalla società sugli utili distribuiti, In tal modo, per i redditi distribuiti, il prelievo tributario a carico della società operava, dal punto di vista economico, come una anticipazione dell'imposta dovuta dal socio. La riforma entrata in vigore il l° gennaio 2004 ha soppresso il sistema del credito d'imposta collegato ai dividendi distribuiti da società residenti (il credito d'imposta rimane, invece, per i redditi provenienti dall'estero, con funzione diversa), ed ha introdotto un nuovo sistema, fondato sul seguente criterio: l'imposta dovuta dalla società non è imputata al socio (ma si «cristallizza» e diviene definitiva); i dividendi, se distribuiti a soci aventi forma di società di capitali, non sono tassati (o sono tassati nella misura del solo 5 per cento del loro ammontare), Solo i dividendi che escono dal «circuito intersocietario», e sono distribuiti a soci persone fisiche, subiscono una tassazione ulteriore (ma in misura ridotta, per limitare gli effetti della doppia tassazione). 1.3.3 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti residenti In linea generale occorre premettere che le società e gli enti residenti vengono tassati in Italia per i redditi ovunque prodotti in virtù del principio di tassazione del reddito mondiale. Il reddito delle società e degli enti commerciali residenti è un reddito omogeneo, in quanto non discende dalla somma dei singoli redditi distinti per categorie, ma da qualsiasi fonte provenga è considerato con un presunzione assoluta reddito d’impresa (art. 81 TUIR). Ne deriva che, se una società possiede degli immobili, o dei capitali i relativi redditi non appartengono alla categoria dei redditi fondiari, o di capitale, ma sono componenti del reddito d’impresa. Ad esempio anche il reddito delle società di capitali e degli altri enti commerciali, derivanti dall’esercizio di un’impresa agraria, non costituisce reddito agrario ma reddito d’impresa. Il reddito complessivo verrà quindi determinato secondo i gli stessi criteri analizzati con riguardo al reddito d’impresa. Il reddito degli enti non commerciali residenti è dato invece dalla somma dei redditi fondiari, di capitale, d’impresa, e diversi ovunque prodotti e a prescindere dalla loro destinazione (art. 143 TUIR). Ne consegue dunque che i ricavi e le perdite che partecipano alla formazione degli enti non commerciali devono essere determinati 25 separatamente per ciascuna categoria reddituale. 1.3.4 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti non residenti A differenza dei soggetti residenti, il reddito complessivo delle società e degli enti non residenti, siano essi commerciali o non commerciali, è formato solo da redditi prodotti nel territorio dello Stato, con esclusone di quelli esenti da imposta o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva (artt. 151 e 153 TUIR). L’art. 23 del TUIR prevede alcuni criteri di collegamento in virtù dei quali un reddito viene considerato prodotto in Italia. Alcuni criteri di collegamento sono basati sulla localizzazione del cespite. Ad esempio si considerano prodotti in Italia: a) i redditi fondiari derivanti da un immobile sito nel territorio italiano; b) i redditi di capitale quando il reddito è erogato da un residente in Italia. Altri criteri sono basati sul luogo di svolgimento dell’attività: a) i redditi di lavoro autonomo si considerano prodotti in Italia quando derivano da attività prestate nel territorio nazionale; b) i redditi d’impresa si considerano prodotti in Itala quando l’attività è prestata in Italia attraverso una struttura organizzativa permanente definita fiscalmente “stabile organizzazione. Per gli enti non residenti commerciali con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, fatta eccezione per le società semplici, il reddito complessivo è determinato secondo le disposizioni valevoli per gli enti commerciali residenti sulla base di un apposito conto economico, relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e altre attività produttive di redditi imponibili nello Stato (art. 152 TUIR). Qualora non vi siano stabili organizzazioni i singoli redditi che formano il reddito complessivo sono determinati secondo le disposizioni IRPEF relative alle varie categorie in cui essi si collocano. Questo criterio informa anche la determinazione del reddito complessivo degli enti non residenti non commerciali (art. 154 TUIR). CAPITOLO II 2.1 BREVI CENNI AL FEDERALISMO FISCALE 26 Il federalismo fiscale consiste nell’attribuzione di un potere fiscale, differentemente graduato, ad una serie di enti territoriali diversi e subordinati rispetto allo Stato secondo la logica espressa del principio di sussidiarietà; ed invero, in linea di massima, in un assetto federale a ciascun ente territoriale viene il riconosciuto il potere di manovrare le entrate fiscali secondo il fabbisogno di risorse finanziarie in dipendenza dei compiti e dei servizi pubblici che devono essere assicurati da quel medesimo ente alla collettività amministrata. Il tema del federalismo fiscale costituisce da diversi anni uno degli argomenti di maggiore interesse nel dibattito giuridico attuale, in quanto attiene essenzialmente alla configurazione dei rapporti istituzionali tra lo Stato e gli enti territoriali e, dunque, al processo di trasformazione della Costituzione materiale del nostro sistema-paese17. Il 5 maggio 2009 il Parlamento italiano ha varato il Disegno di Legge n. 42 (c.d. “Legge Calderoli”) che contiene una delega al Governo per l’attuazione del sistema. Federalismo fiscale. Entro ventiquattro mesi dall’entrate in vigore del predetto Disegno di Legge il Governo potrà realizzare la riforma del federalismo fiscale, con l’emanazione di una serie di decreti legislativi, cui è affidato anche il compito di individuare le disposizioni incompatibili con il nuovo assetto fiscale federalista e disporne, quindi, la cancellazione dal nostro ordinamento. L’attuazione in concreto del federalismo verrà quindi verificata da una Commissione bicamerale composta da 15 senatori e altrettanti deputati. Da punto di vista fiscale i punti fondamentali della riforma in esame sono: a) il riconoscimento della piena autonomia di entrata e di spesa a favore delle regioni, province, comuni e città metropolitane che, tuttavia, saranno tenuti a gestire le risorse finanziarie nel rispetto degli obbiettivi di finanza pubblica nazionale e dei vincoli imposti dall’Unione europea. In particolare lo Stato riconoscerà agli enti locali la copertura dei c.d. “costi standard”. D’ora in poi, infatti, per ogni servizio erogato dagli enti territoriali si individuerà un “costo standard” cui tutti gli enti locali dovranno abituarsi entro un periodo transitorio di 5 anni. Viene così eliminato il meccanismo perverso che finora, facendo riferimento alla spesa storica, premiava con maggiori risorse gli enti che spendevano di più. I costi standard verranno finanziati con tre tributi (ossia quelli propri derivati, istituiti e regolati da legge statale; con le aliquote riservate a valere sulle base imponibili dei tributi statali e con i tributi locali), con compartecipazione alle attività di accertamento in materia di Irpef ed IVA (sono 17 Cfr., ex multis, ANTONINI, Verso un nuovo federalismo fiscale, Milano, 2005; FREGNI, Riforma del titolo V della Costituzione e federalismo fiscale, in Rass. trib., 2005, 683; MAJOCCHI-MURARO, Verso l’attuazione del federalismo fiscale, in Riv. dir. fin., 2006, 3. 27 b) c) d) e) f) g) h) infatti previsti dei premi per gli enti locali che otterranno risultati positivi in termini di maggior gettito sul fronte dell’azione di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale) e con il fondo perequativo statale (che servirà a sostenere le regioni con minor capacità fiscale per abitanti, garantendo l’integrale copertura delle spese corrispondenti ai fabbisogni standard per i livelli essenziali delle prestazioni); fisco di vantaggio: sono previsti, in armonia con le norme comunitarie, interventi speciali a favore degli enti locali per il loro sviluppo economico e sociale e per sopperire al deficit infrastrutturale dovuto ad una loro non ottimale collocazione geografica. L’entità delle risorse verrà determinata, annualmente, in sede di manovra finanziaria; fondi perequativi locali: saranno due, uno a favore dei Comuni, e l’altro delle province e delle città metropolitane, e verranno inseriti nel bilancio regionale, sebbene finanziati dallo Stato. Andranno a tamponare le esigenze degli enti locali per le attività svolte; tributi nuovi: le regioni potranno istituire tributi nuovi, ma solo per i presupposti non già assoggettati ad imposizione erariale e, attraverso le legge regionale, valutare la modulazione delle accise su benzina, gasolio e gpl. Verranno istituiti anche nuovi tributi locali propri; tasse di scopo: i Comuni potranno introdurre una o più tasse di scopo per finanziare la realizzazione di opere pubbliche e di investimenti pluriennali nei servizi sociali. Lo stesso potranno fare province e città metropolitane per provvedere a specifiche finalità; premi e sanzioni: arriva un sistema che premia le amministrazioni più virtuose, anche dal punto di vista ambientale, e che incentivano l’occupazione e l’imprenditoria femminile. Verranno invece comminate delle sanzioni per le amministrazioni “sprecone” o per quelle che non assicurano ai cittadini residenti i livelli essenziali di prestazioni (sanità, istruzione, assistenza), ovvero non rispettano i criteri di redazione dei bilanci e non comunicano i propri dati ai fini del coordinamento della finanza pubblica; patrimonio degli enti locali: a tutte le amministrazioni locali sarà garantito, a costo zero, un proprio patrimonio, commisurato alle dimensioni territoriali, capacità finanziarie e alle singole competenze svolte. I beni immobili saranno assegnati secondo il criterio della territorialità; patto di convergenza: ogni anno, in sede di finanziaria, il Governo dovrà indicare lo stato dell’arte del passaggio ai costi e ai fabbisogni standard e stabilire, eventualmente, azioni correttive per quelle amministrazioni in difficoltà. 28 2.2 L’IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE (IRAP) 2.2.1 Caratteri generali dell’imposta L'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) trova la sua disciplina fondamentale nel D. Lgs. n. 446/1997, emanato in base alla delega conferita con l'art. 3, commi 143 e ss. della L. 662/1997. L'IRAP è stata introdotta in vista di una serie di ambiziosi obiettivi: in particolare, da un lato, attribuire alle Regioni un'imposta dal gettito rilevante e in parte modulabile per attuare proprie politiche finanziarie, come strumento del “federalismo fiscale”; dall'altro, sostituire vari prelievi considerati distorsivi (ILOR, ICIAP, contributi al SSN) con un tributo di nuova concezione, che avrebbe dovuto diminuire la pressione tributaria sui redditi d'impresa e quella contributiva sulle retribuzioni, semplificare i doveri dei contribuenti e ridurne la propensione a comportamenti economicamente non corretti, adottati in quanto vantaggiosi rispetto alle imposte sui redditi. Ai sensi dell’art. 1 del citato D.Lgs. 446/1997 l’IRAP: a) è un’imposta locale regionale, applicabile cioè alle attività produttive esercitate nel territorio di ogni Regione; b) ha carattere reale e quindi colpisce il soggetto passivo in virtù della sua particolare relazione all’attività oggetto di tassazione; c) è indeducibile dalle imposte sul reddito. La motivazione addotta a sostegno dell’impossibilità di utilizzare l’importo pagato per abbattere le imposte sul reddito risiede nell’evitare che l’Erario consegua un minor gettito in conseguenza di aumenti di aliquota decisi a livello regionale Particolarmente discussa è la natura erariale o regionale dell’imposta: infatti nonostante il tributo sia qualificato dalla legge come “imposta regionale”, la Corte costituzionale con sentenza n. 269/2003 ha precisato che la circostanza che l’imposta sia stata istituita con legge statale e che alle Regioni siano espressamente attribuite competenze di carattere solo attuativo rende palese che l’imposta non possa considerasi come tributo proprio delle regioni nel senso in cui tale espressione è adoperata nell’art. 119 della Costituzione, essendo indubbio il riferimento della norma costituzionale ai soli tributi istituiti dalle Regioni con proprie leggi. La Legge Finanziaria per il 2008 (art. 1, comma 43) tuttavia ha previsto che l’imposta assuma la natura propria di tributo della regione e che, a decorrere dal 1° gennaio 2009, venga pertanto istituita con legge 29 regionale18. Ai sensi dell’art. 3 del Decreto IRAP i soggetti passivi dell’imposta possono essere distinti in tre categorie: a) coloro che producono un reddito d’impresa, commerciale o agricola (società di persone o di capitali, enti commerciali e non commerciali ecc.); b) coloro che esercitano un’arte o una professione, vale a dire un’attività professionalmente organizzata di lavoro autonomo (non sono colpiti coloro che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa né coloro che producono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente); c) gli organi e le amministrazioni dello Stato, le province, i comuni e gli enti non commerciali. Sono esclusi invece dall’IRAP: a) coloro che producono redditi occasionali di lavoro autonomo o d’impresa; b) gli imprenditori agricoli che producono redditi minimi; c) i fondi di investimento e i fondi pensione; d) i gruppo europei di interesse economico. 2.2.2 Presupposto, base imponibile ed aliquota L'IRAP é un'imposta di tipo nuovo, perché, a differenza delle tradizionali imposte dirette, non ha come presupposto il reddito o il patrimonio, ma lo svolgimento di un'attività (economica o no), autonomamente organizzata19, per la produzione di beni e servizi; in altre parole, sono presupposti dell'IRAP lo svolgimento, con autonoma organizzazione, di un'attività imprenditoriale, di un'attività artistica o professionale, o di un'attività amministrativa. Ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 446/1997 la base imponibile IRAP è data dal “valore della produzione netta” realizzato nel territorio di ciascuna Regione, che è determinato secondo regole differenziate per i vari tipi di attività e soggetti passivi. In particolare, per le attività d'impresa, il valore della produzione netta è dato dalla differenza tra i proventi ed i costi della gestione “ordinaria” (da inserire nei settori A e B del conto economico ex art. 2425 c.c.), tranne il costo del lavoro; non rilevano invece i 18 Termine prorogato al 1° gennaio 2010 dall’art. 42 del DL 207/2008, convertito dalla L. 14/2009. Questo requisito ha la funzione di escludere l'applicazione dell'imposta, in primo luogo, a chi svolga un'attività confluente in un'organizzazione altrui, in particolare apportando ad un'impresa lavoro (come dipendente o collaboratore) o capitale (come socio o come finanziatore, purché diverso da un'impresa bancaria o finanziaria): sta infatti all'imprenditore impiegare detti apporti nel modo più conveniente, esercitando così il suo “potere organizzativo” sui fattori produttivi, le remunerazioni dei quali sono pertanto indeducibili. 19 30 componenti positivi e negativi della “gestione finanziaria” (in particolare gli interessi) e della “gestione straordinaria”, in quanto afferenti ai settori C, D ed E del conto economico. Dunque, in tal modo l'IRAP colpisce la parte dell'utile che non deriva da operazioni finanziarie e straordinarie, nonché, in quanto non deducibili (diversamente dalle imposte sui redditi), le retribuzioni dei lavoratori e i proventi dei finanziatori dell'impresa, nei limiti in cui trovino capienza nel valore della produzione netta. Per le attività di lavoro autonomo, si deducono dai corrispettivi i costi diversi dal costo del lavoro e dagli interessi passivi (art. 8, D.Lgs. 446/1997). Per le attività non commerciali, invece, si sommano le remunerazioni per prestazioni di lavoro (c.d. criterio “retributivo”: artt. 10 e 10-bis, D.Lgs 446/1997). Dal punto di vista economico, dunque l'IRAP ha ad oggetto questa forma di “ricchezza”, al tempo stesso “prodotta” e “da distribuire”, che nel D.Lgs. n. 446/1997 è chiamata “valore della produzione netta”, e risulta, come si è visto, dai proventi della gestione “ordinaria” meno i relativi costi salvo quello del lavoro. Tuttavia, al di là delle ragioni di politica tributaria sopra ricordate (federalismo, semplificazione, non distorsività), appare arduo sul piano del giusto riparto delle spese pubbliche comprendere una tassazione di chi svolge l'attività di impresa o lavoro autonomo su un' entità come il valore aggiunto prodotto, il quale corrisponde ad arricchimenti in parte altrui, cioè dei lavoratori o finanziatori. Non giova a tal fine la proclamazione da parte dell'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 446/1997 (con un'inconsueta cura per le classificazioni teoriche) che l'IRAP ha carattere “reale”. Detta qualificazione appare corretta, risultando la determinazione del tributo insensibile alla situazione del soggetto passivo estranea all' attività “produttiva”, ma l'esplicitare la ratio di colpire una capacità contributiva diversa da quella “personale” non basta ad evitare i dubbi di illegittimità costituzionale. La realità, in altre parole, classifica l'imposta, ma non ne spiega la natura: rimane controverso in quale senso la produzione di valore tramite 1'esercizio di un' attività autonomamente organizzata sia indice di un'attitudine alla contribuzione misurata da detto valore, e la giurisprudenza costituzionale, consolidata nel senso che la scelta fatta al riguardo dal legislatore rientrasse nella discrezionalità lasciatagli dall'art. 53 Costituzione, non sembra riuscita a fare chiarezza su questo punto. La dottrina maggioritaria infatti dubitava fortemente della legittimità costituzionale dell'IRAP, specie per l'irragionevolezza della tassazione in capo al titolare dell' attività su una ricchezza altrui, per la tassabilità anche di soggetti in perdita, per 1'equiparazione tra impresa e lavoro professionale. La Corte costituzionale, con sentenza n. 156/2001, ha respinto le censure sollevate, affermando che sta al legislatore desumere i fatti espressivi di capacità contributiva “da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale”, e la scelta a tal fine del “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” non 31 sarebbe irragionevole, né contraria all'art. 53 Costituzione. Secondo la Corte, infatti, il valore aggiunto (sarebbe “comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione», e «la mancata previsione del diritto di rivalsa ... nei confronti di coloro cui pure il valore aggiunto prodotto è, pro quota, riferibile (e cioè i lavoratori ed i finanziatori)” non violerebbe il principio di capacità contributiva, perché, allo stesso modo di un “qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione, l’onere economico del!' imposta potrà essere ... trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative”. Infine si rileva che L'IRAP è dovuta per periodi d'imposta, che l'art. 14 determina per rinvio alle imposte sui redditi. L'aliquota ordinaria è del 3,9%. La disciplina degli adempimenti dei contribuenti e di controlli, liquidazione, accertamento e riscossione è modellata su quella delle imposte sui redditi, con limitate possibilità di modifica da parte delle leggi regionali. 2.3 IL SISTEMA DELL’IVA 2.3.1 Generalità e caratteri dell’imposta L’IVA è stata creata in sede europea ed è stata introdotta nel nostro Ordinamento con il DPR 26 ottobre 1972, n. 633. Si tratta di un’imposta indiretta che ha come giustificazione costituzionale il consumo, assunto come fatto espressivo di capacità contributiva. Si tratta dell’ unica imposta del sistema fiscale italiano che risponde ad un modello impositivo comune a tutti i paesi dell’Unione Europea. Molte considerazioni di ordine pratico hanno reso indispensabile l’introduzione di tale imposta, tra cui: a) la necessità di adeguare il sistema tributario italiano alla normativa UE: già la direttiva dell’11 aprile 1967 fissava al 1° gennaio 1970 l’entrata in vigore di un sistema di tassazione indiretta sui consumi trasparente, neutrale ed uguale per tutti gli Stati UE che permettesse attraverso l’applicazione del principio della tassazione dei beni e servizi nel paese di destinazione una chiarezza nei rapporti di scambio tra i paesi UE; b) l’istituzione di un’imposta neutrale sui consumi tale da non danneggiare alcuni tipi di imprese favorendone altre. L’IVA colpisce l’incremento di valore acquisito dal bene nelle singole fasi di produzione e distribuzione, fino a incidere interamente sul consumatore finale, su cui graverà l’intera imposta. L’IVA, quindi, giunge a colpire il consumo finale mostrandosi 32 neutrale nei passaggi intermedi di beni e servizi tra produttori, commercianti e professionisti. Tali soggetti, invero, attraverso il meccanismo della rivalsa e della detrazione non vengono incisi dal tributo che graverà totalmente sul consumatore finale. In particolare: a) la rivalsa consente al singolo operatore economico di recuperare l’IVA dovuta all’erario addebitando la stessa imposta al proprio cessionario o committente; b) il diritto alla detrazione (o credito d’imposta) consente al cessionario o committente di detrarre l’IVA corrisposta ai fornitori per beni e servizi acquistati nell’esercizio di imprese, arti o professioni dall’IVA sulle operazioni attive (cessione di beni e prestazioni di servizi). Per le eventuali eccedenze rimane la possibilità di attivare la procedura di rimborso. Da un punto di vista giuridico il meccanismo dell’IVA determina quattro diverse situazione giuridiche: a) l’operatore economico che effettua un’operazione imponibile diventa debitore verso lo Stato dell’IVA commisurata ai corrispettivi che gli sono dovuti; b) lo stesso soggetto diviene contemporaneamente creditore (in via di rivalsa) verso il cessionario o committente; c) se il cessionario/committente è un soggetto IVA diventa debitore (per via di rivalsa) verso il cedente o prestatore del servizio ma contemporaneamente detrae l’IVA sugli acquisti di beni e sulle prestazioni di servizi dalla propria IVA maturata sulle operazioni attive; d) se il cessionario/committente è un cliente consumatore finale paga l’IVA al fornitore, non la detrae e la tassazione si compie. Sulla base del meccanismo di funzionamento dell’IVA occorre precisare che: i. da un punto di vista economico il soggetto passivo dell’imposta – inteso come soggetto effettivamente inciso dal tributo - è il consumatore finale ossia colui che acquistando un bene o un servizio non ha la possibilità di recuperare l’imposta pagata in via di rivalsa all’operatore economico. Il consumatore finale, quindi, è ravvisabile in chiunque non agisca nell’esercizio di imprese, arti o professioni. Tale soggetto, tuttavia, non è giuridicamente il soggetto passivo dell’imposta in quanto non è tenuto ad alcun adempimento e non ha alcun rapporto tributario con l’ente impositore; ii. da un punto di vista tecnico o giuridico, invece, sono soggetti passivi d’imposta gli imprenditori e gli esercenti arti o professioni i quali sono chiamati ad osservare la normativa in materia di IVA pur non rimanendo economicamente incisi dal tributo. 33 2.3.2 Presupposto soggettivo Secondo la sesta direttiva, è soggetto passivo IVA chiunque eserciti in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività di produttore, commerciante, prestatore di servizi, ovvero una professione, nonché chi proceda, anche con una singola operazione, allo sfruttamento di un bene materiale od immateriale per ricavarne introiti di una certa stabilità. Gli enti pubblici sono soggetti passivi d'imposta quando pongono in essere attività economiche di tipo commerciale, non lo sono per le attività che esercitano in quanto pubbliche autorità. La normativa nazionale ha attuato tali previsioni raggruppando i soggetti passivi in due grandi categorie: imprenditori ed esercenti arti o professioni. Le definizioni legislative delle due categorie di soggetti passivi IVA sono assai prossime alle definizioni che troviamo nella disciplina delle imposte sui redditi. Secondo l'art. 4 del DPR 633/1972, “per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l'esercizio di attività organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'art. 2195 del codice civile”. Ai fini Iva, sono considerate in ogni caso imprenditoriali le operazioni effettuate da società ed enti commerciali. In altre parole, sono soggette ad imposta tutte le attività svolte da soggetti che hanno forma giuridica di società commerciale, o da enti che abbiano per oggetto principale od esclusivo l'esercizio di attività commerciali od agricole. In deroga a questo principio, non sono attività commerciali il possesso e la gestione di immobili ed il possesso di partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni. Invece, per gli enti non commerciali, “si considerano effettuate nell'esercizio di impresa soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di imprese commerciali o agricole”; vi sono però attività considerate sempre commerciali, anche se fatte da enti pubblici (c.d. attività oggettivamente commerciali). Ponendo a confronto la definizione di imprenditore ai fini Iva e quella di imprenditore ai fini delle imposte sui redditi, si notano identità e differenze: a) nelle due definizioni, vi è in comune il rimando alle attività qualificate commerciali dall'art. 2195 c.c. e l'irrilevanza della “organizzazione in forma di impresa”; perciò, nei due settori, è imprenditore chiunque svolga un'attività commerciale, anche se non organizzata in forma di impresa; come ai fini IRPEF, però, le prestazioni di servizi a terzi, che non rientrano nell'art. 2195 c. c., sono ugualmente attività d'impresa se vi è l'organizzazione in forma d'impresa; 34 b) nelle due definizioni, vi è in comune il fatto che sono qualificate in modo onnicomprensivo come attività imprenditoriali tutte le attività svolte da società ed enti commerciali; c) nelle due definizioni, vi è in comune il principio per cui le attività degli enti non commerciali sono da discriminare tra attività di impresa (soggette ad Iva) ed attività non imprenditoriali; d) solo nella definizione IVA sono compresi gli imprenditori agricoli (mentre la definizione di imprenditore ai fini reddituali coincide con quella di imprenditore commerciale). Anche la definizione di esercizio di arte o professione è simile a quella data ai fini delle imposte dirette; infatti, ai fini Iva, “per esercizio di arte o professione si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo”. Vi è quindi anche qui identità di significato tra “esercizio di arte e professione” e “attività di lavoro autonomo”. Esercenti arti o professioni possono essere, ai fini Iva, le persone fisiche, le società semplici e le associazioni professionali. Ciò che si richiede è: a) che l'attività sia svolta in modo autonomo (ossia senza il vincolo di subordinazione che caratterizza il lavoro dipendente); b) che non vi siano i connotati dell'imprenditorialità. Coloro che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa non sono soggetti ad Iva, se non esercitano abitualmente altre attività di lavoro autonomo. 2.3.3 Il campo di applicazione e le operazioni escluse Perché una operazione economica sia rilevante ai fini dell'IVA, è necessario, da un lato, che essa sia posta in essere da un imprenditore o da un lavoratore autonomo (presupposto soggettivo), e, dall'altro, che rientri nel “campo di applicazione” del tributo (presupposto oggettivo). L'espressione “campo di applicazione” dell'IVA designa non soltanto l'area delle fattispecie imponibili, ma anche l'area delle operazioni altrimenti rilevanti; e dunque particolarmente importante la distinzione tra operazioni “incluse” ed operazioni “escluse” dal “campo di applicazione” dell'IVA. Le operazioni “escluse” sono quelle che non hanno alcun rilievo ai fini dell'applicazione dell'imposta: ciò significa non soltanto che non comportano il sorgere del debito d'imposta, ma anche che non determinano obblighi formali (fatturazione, annotazione, ecc.), che non incidono sul diritto di detrazione, che non rilevano ai fini del calcolo del “volume d'affari”, ecc.. Le operazioni che rientrano nel “campo di applicazione” dell'IVA, a loro volta, si distinguono in: 35 a) b) c) operazioni “imponibili”; operazioni “non imponibili”; operazioni “esenti”. A ciascuna di queste qualificazioni si collega un peculiare regime giuridicofiscale. Le operazioni “imponibili” comportano il sorgere del debito d'imposta e l'applicazione di tutto l'apparato di regole di cui è formato il meccanismo attuativo del tributo. Le operazioni “non imponibili” e quelle “esenti” non fanno sorgere il debito d'imposta, ma comportano gli stessi adempimenti formali delle operazioni imponibili (devono essere fatturate e registrate, devono essere incluse nel calcolo del “volume d'affari”, ecc.). L'elemento caratteristico delle operazioni “esenti” risiede nel fatto che esse limitano il diritto di detrazione, a differenza delle operazioni “non imponibili” (esportazioni), che non incidono su tale diritto. Non è qui il caso di elencare dettagliatamente tutte le operazioni esenti. Limitandoci a fornire indicazioni sommarie, noteremo che sono esenti: a) talune operazioni di carattere finanziario (operazioni creditizie, assicurative, valutarie, relative a valori mobiliari); b) le operazioni relative alla riscossione dei tributi; c) l'esercizio di giochi e scommesse; d) le prestazioni di mandato e di mediazione; e) le operazioni in oro; f) le operazioni immobiliari; g) talune operazioni socialmente rilevanti (cessioni gratuite di beni a determinate categorie di soggetti; taluni servizi di pubblica utilità; le prestazioni sanitarie; le attività educative e culturali); h) le cessioni di beni acquistati senza detrazione dell'IVA. Le operazioni imponibili sono definite da uno schema normativo che è composto da una definizione generale, da un elenco di fattispecie assimilate e da un elenco di esclusioni. Nella categoria delle “operazioni imponibili” sono comprese quattro specie di operazioni: a) cessioni di beni (all'interno del territorio nazionale); b) prestazioni di servizi (rese nel territorio dello Stato); c) acquisti intracomunitari; d) importazioni (da paesi extracomunitari). Esaminiamo, innanzitutto, che cosa si intende per “cessione di beni”. Secondo la 36 definizione legislativa, “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere”. E da sottolineare che il termine “cessione” comprende non solo il trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale) ma anche la costituzione di un diritto reale. Rientrano nella fattispecie in esame non solo i contratti, ma tutti gli atti giuridici che determinano effetti traslativi o costitutivi di diritti reali (si pensi, ad esempio, ai trasferimenti coattivi). Le cessioni imponibili, secondo la definizione riportata, sono quelle a titolo oneroso; ma le cessioni a titolo gratuito non sono sempre escluse da imposta, perché sono imponibili le cessioni gratuite di benimerce (cioè di beni che l'impresa produce o commercia). Vi sono poi operazioni che, pur presentando tutti i requisiti delle “cessioni” non sono considerate tali, e quindi sono “escluse” dal campo di applicazione dell’Iva. Tra di esse, sono da ricordare alcune “cessioni” che non si collocano nell’ambito dell'ordinaria attività d'impresa, ma nell'ambito delle attività straordinarie di organizzazione dell'impresa. L'IVA si correla alla gestione ordinaria mentre alle operazioni straordinarie corrisponde l'imposta tipica per la raccolta di capitali (imposta di registro). Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del DPR 633/1972 costituiscono prestazioni di servizi “le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. Condizione essenziale perché le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano considerate imponibili è che siano effettuate nel territorio dello Stato (art. 7), in particolare: le cessioni si considerano effettuate nello Stato se hanno per oggetto beni immobili o mobili nazionali, comunitari o in regime di temporanea importazione, tutti esistenti nel territorio statale; le prestazioni, invece, si considerano effettuate nello Stato se sono rese da soggetti domiciliati nello Stato o ivi residenti (purché senza domicilio all’estero) o da stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero. Infine rientrano nel campo di applicazione dell’IVA le operazioni di importazione indicate nell’art. 67 del DPR 633/1972 e ai sensi dell’art. 38 del DL 331/1993 gli acquisti intracomunitari di beni, ossia gli acquisti a titolo oneroso della proprietà o di altro diritto reale di godimento, spediti o trasportati in Italia da altro Stato membro dal cedente o dall’acquirente per loro conto. 2.3.4 Regole impositive La base imponibile IVA è costituita, di regola, dall’ammontare complessivo dei 37 corrispettivi contrattuali dovuti al cedente o al prestatore secondo le condizioni contrattuali. Il valore venale della prestazione costituisce tuttavia una presunzione che può legittimare l’Amministrazione finanziaria a rettificare il corrispettivo dichiarato dalle parti nell’atto. Sono compresi nel corrispettivo, ai sensi dell’art. 13 del DPR 633/1972 gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente nonché le integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti. Non concorrono invece alla formazione della base imponibile: (i) le somme dovute a titolo di interesse moratori o di penalità; (ii) il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono in conformità alle originarie condizioni contrattuali; L’IVA si applica con aliquote differenziate in relazione alle varie tipologie di beni e servizi, il che consente di agevolare o penalizzare una certa tipologia di consumi rispetto alle altre. L’art. 16 prevede un’aliquota generale del 20% mentre le aliquote speciali sono previste per categorie merceologiche, nelle Tabelle allegate al Decreto IVA. L’aliquota applicabile deve essere scelta al momento di effettuazione dell’operazione e, pertanto, in caso di mutamento di aliquote, una stessa fornitura potrà scontare aliquote diverse ove una parte del corrispettivo sia stata pagata o fatturata prima della consegna e, quando quest’ultima interviene, l’aliquota applicabile sia mutata. Le prestazioni accessorie come ad esempio il trasporto o la posa in opera scontano in base all’art. 12 l’aliquota applicabile alla prestazione principale. Come abbiamo visto, l'effettuazione di una operazione imponibile determina, da un lato, un debito verso il Fisco del soggetto passivo d'imposta; a tale debito si collega il diritto di rivalsa (del soggetto passivo) nei confronti di chi acquista il bene o il servizio. La rivalsa è quindi, innanzi tutto, un credito: un credito del soggetto passivo dell'IVA, nei confronti della controparte contrattuale, che si aggiunge, per effetto di legge, al corrispettivo pattuito. Il credito sorge, in concreto, dall'addebito dell'IVA nella fattura da cui scaturisce il diritto di rivalsa che è composta, perciò, di due elementi: la effettuazione di una operazione imponibile e la emissione della fattura. Il rapporto di rivalsa è un rapporto tra privati, distinto dal rapporto tributario in senso stretto che intercorre tra Fisco e contribuente, ma correlato al rapporto tributario. Si discute se la rivalsa sia un diritto o un obbligo; ma la questione, posta in termini alternativi, è mal posta, perché nel fenomeno vi è, al tempo stesso, l'una cosa e l'altra. La rivalsa è sia un diritto, sia un obbligo. Va precisato, però, quale è l'oggetto di tali situazioni soggettive. Il soggetto passivo Iva, quando effettua una operazione imponibile, deve emettere fattura e deve “addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente” 38 L'obbligo ha per oggetto, quindi, non la rivalsa (nel senso di “esercizio del diritto di credito”), ma l'emissione della fattura, con addebito dell'imposta. Poiché emissione della fattura e addebito dell'IVA in fattura sono elementi della fattispecie costitutiva del credito di rivalsa, si può concludere che il soggetto passivo Iva ha l'obbligo di far sorgere il diritto di rivalsa; ha l'obbligo, in altri termini, di costituirsi creditore. L'obbligo riguarda, quindi, non l'esercizio del credito di rivalsa ma la nascita di tale credito; esso attiene alla fase costitutiva del diritto, non alle vicende del diritto già sorto. Nel commercio al minuto non è obbligatoria l'emissione della fattura; in tal caso, il prezzo si intende comprensivo dell'imposta. All'obbligo di far sorgere il credito di rivalsa corrisponde, dal lato del cessionario del bene o del committente del servizio, il diritto di ricevere la fattura con addebito dell'imposta; tale diritto è in funzione della detrazione da parte del cessionario o committente (la detrazione presuppone il ricevimento della fattura con addebito dell'imposta e l'annotazione della fattura nel registro degli acquisti). Aspetto tipico dell'IVA è il diritto di detrazione attribuito ai soggetti passivi, in misura pari all'imposta che è stata ad essi addebitata in via di rivalsa per gli acquisti di beni e servizi inerenti all'esercizio dell'impresa, dell'arte o della professione. Tale credito viene denominato, nella nostra legislazione, “diritto di detrazione” (la direttiva usa il termine “deduzione”), in quanto, in sede di liquidazione del debito d'imposta, si detrae, dall'imposta dovuta sulle operazioni attive, il credito verso il Fisco sorto per effetto degli acquisti di beni o servizi. Per effetto della detrazione, come sappiamo, l'IVA è neutrale per i soggetti passivi del tributo, mentre non lo è per i consumatori finali. La detrazione è dunque un elemento essenziale del meccanismo applicativo dell'imposta. Oggetto del diritto di detrazione è l'importo “dell'imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione”. Nel caso di importazioni, l'importatore può detrarre l'IVA risultante dalla bolletta doganale; nel caso di acquisto “interno”, il soggetto passivo IVA può detrarre l’imposta che gli è stata addebitata nella fattura. La detrazione dell'IVA sugli acquisti richiede che vi sia inerenza: come per la deduzione dei costi nel calcolo del reddito netto di impresa e di lavoro autonomo, così per la detrazione dell'IVA sugli acquisti occorre che l'acquisto sia “inerente” (o “afferente”) all'attività del soggetto passivo. Valgono, sul concetto di inerenza, le considerazioni fatte al riguardo nel campo delle imposte dirette. L’inerenza è il rapporto tra l'acquisto di un bene o servizio e lo svolgimento di 39 attività, che danno diritto alla detrazione; se invece l'acquisto si correla ad altre attività (come le operazioni esenti), il diritto alla detrazione è escluso o limitato. Il risvolto del requisito di inerenza è dato dunque dal complesso di regole, che escludono o limitano il diritto di detrazione, in ragione della relazione esistente fra operazioni di acquisto ed operazioni attive non soggette ad imposta. Tra le norme che incidono sul diritto di detrazione, va in primo luogo menzionata la regola della “indetraibilità analitica”, o “specifica” secondo cui “non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta”. Tale disposizione preclude la detrazione dell'imposta assolta in rivalsa per acquisti diretta mente destinati al compimento di operazioni esenti, non soggette od escluse dal campo di applicazione dell'IVA. Si ha inoltre una riduzione dell'imposta detraibile nel caso di operazioni passive c.d. promiscue, ossia direttamente riferibili sia ad operazioni attive soggette ad Imposta, sia ad operazioni non soggette. In caso di uso promiscuo è detraibile la quota di imposta riferibile all'impiego imponibile, e non è detraibile la quota riferibile ad un utilizzo non soggetto ad imposta. Quando non vi sono legami diretti tra acquisti e specifiche operazioni attive che non sono soggette ad imposta, ed il soggetto passivo IVA esercita sia attività che danno diritto, sia attività che non danno diritto alla detrazione, il calcolo della quota di IVA detrai bile è fatto con criterio forfetario (il pro-rata). Il criterio del pro-rata si applica dunque quando non è applicabile la regola della indetraibilità specifica, ossia quando il contribuente ponga in essere operazioni esenti in modo sistematico. La percentuale di detraibilità è pari al risultato della frazione avente al numeratore l'ammontare delle operazioni con diritto a detrazione, effettuate nell'anno, e al denominatore la somma delle operazioni che danno diritto alla detrazione e delle operazioni esenti effettuate nello stesso periodo. Ad esempio, se le operazioni imponibili sono pari a cinquanta milioni di euro, e quelle esenti sono pari a cento milioni, la percentuale di detrazione è data dal risultato di una frazione che ha come numeratore cinquanta milioni, e come denominatore centocinquanta milioni (l'IVA detraibile è dunque pari ad un terzo dell'imposta relativa agli acquisti). Non tutte le esenzioni incidono sul diritto di detrazione, perché le operazioni esenti che “non formano oggetto dell'attività propria del soggetto passivo o sono accessorie ad operazioni imponibili”, non si riflettono sul diritto di detrazione. In sostanza, l'impresa che effettua un'operazione esente in via occasionale, o la effettua in aggiunta ad un'operazione imponibile, conserva intatto il diritto di detrazione; in tal modo, la neutralità del tributo non è intaccata da operazioni 40 sporadiche, non significative della attività della impresa. Solo le attività esenti, che costituiscono attività “proprie”, limitano la detrazione. Circa i criteri con cui si individua l'attività propria, vi sono due orientamenti. Secondo l'orientamento seguito dall'Amministrazione finanziaria, è attività propria quella prevista come oggetto sociale nello Statuto della società. In giurisprudenza, invece, prevale un indirizzo “sostanzialistico”, che dà rilievo all'attività effettivamente svolta dalla società. Vi sono beni e servizi per i quali risulta difficile stabilire la loro inerenza e la loro utilizzazione nell'attività esercitata dal contribuente; perciò, il legislatore esclude la detraibilità dell'Iva relativi ad essi, in quanto presume in modo assoluto la non inerenza. Limitandoci ad indicare qualche ipotesi di indetraibilità, noteremo che non è detraibile l'imposta concernente aerei, auto, moto e imbarcazioni, né è detraibile l'imposta relativa all'acquisto di carburanti e lubrificanti. Non è inoltre detrai bile l'IVA relativa a spese di rappresentanza ed a spese per alberghi, ristoranti, alimenti e bevande. Infine, non è detrai bile l'IVA relativa all'acquisto o alla locazione di fabbricati ad uso abitativo. L'IVA relativa ai telefoni cellulari è deducibile per metà. Le norme in tema di detraibilità che abbiamo esaminato non sono applicate in via definitiva, ma sulla base di una previsione dell'utilizzo che sarà dato al bene o al servizio acquistato La detrazione può essere fatta al momento dell'acquisto, senza bisogno di attendere l'effettivo utilizzo; ma, se il bene o servizio è impiegato in modo difforme, la detrazione operata deve essere rettificata, in aumento o in diminuzione, alla stregua del concreto utilizzo che ne viene fatto. Una particolare disciplina concerne la rettifica della detrazione dell'IVA relativa all'acquisto di beni ammortizza bili. Il legislatore consente la detrazione dell'IVA sui beni ammortizza bili in misura integrale nell'anno di acquisto del bene, ma la detrazione può venir meno, o essere modificata, se negli anni successivi aumenta la percentuale delle operazioni esenti. La percentuale di detraibilità può dunque variare di anno in anno per effetto del mutamento del rapporto tra operazioni esenti e volume di affari. Tale sistema è detto pro-rata temporis: con esso si vuole ovviare all'incongruenza che si verifica quando un soggetto, che acquista beni strumentali in un anno in cui non effettua o effettua in misura minima operazioni esenti, fruisca di tali beni in anni in cui aumenta sensibilmente la percentuale di operazioni esenti. Più precisamente, il legislatore prevede che, di regola, è detraibile l'intero ammontare dell'IVA dovuta sull'acquisto di beni ammortizza bili , ma tale ammontare viene rettificato nei quattro anni successivi a quello di acquisto se si verifica una variazione della percentuale di detrazione superiore a dieci punti. 41 2.4 LE ALTRE IMPOSTE INDIRETTE NELLA FISCALITÀ D’IMPRESA 2.4.1L’imposta di registro L’imposta di registro rientra nell’ampia categoria delle “imposte sugli affari”, categoria che comprende: a) le imposte sugli atti e negozi giuridici (ad es., imposte di bollo), da alcuni qualificate anche come imposte sui trasferimenti (o sulla circolazione della ricchezza); b) le imposte sugli scambi (come l’imposta sul valore aggiunto); c) le imposte sui trasferimenti (imposta di registro, sulle successioni, imposta ipotecaria e catastale). L’imposta di registro è solitamente definita (soprattutto nei manuali di scienza delle finanze) come imposta sui trasferimenti della ricchezza. Si tratta, però, di una imposta che ha un campo di applicazione che va al di là dei trasferimenti, in quanto sono soggetti ad imposta di registro anche atti non traslativi, purché abbiano contenuto economico. L’attuale assetto del tributo è il risultato di una complessa e lunga evoluzione. Esso fa parte delle imposte indirette collegate alla conservazione ed alla pubblicità degli atti; tali imposte possono atteggiarsi sia come tributi commutati (tasse), avendo come presupposto la prestazione di un servizio; sia come imposte, in quanto commisurate alla natura ed al contenuto economico dell’atto. La disciplina dell’imposta di registro è contenuta nel DPR 131/1986 a cui sono allegate: a) la tariffa, divisa in due parti (la prima enumera gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, la secondo gli atti da registrarsi in caso d’uso); b) la tabella degli atti per i quali non vi è obbligo di registrazione. L’imposta (o tassa) di registro è cosi denominata perché viene applicata quando si ha la registrazione di un alto. Essa è dunque legata alla prestazione di un servizio amministrativo (la registrazione), ed ha natura di tassa quando i dovuta in misura fissa e non ha altra giustificazione che la prestazione del servizio. Vi sono, poi, i casi in cui il tributo è rapportato, in ragione proporzionale, al valore dell’atto: ed in tal caso di tributo assume natura di “imposta”, avente la sua ratio nella stipulazione o formazione di un atto a contenuto economico (contratto, sentenza, ecc.), assunta dal legislatore come indice di capacità contributiva. La registrazione di un atto comporta l’applicazione alternativa di una delle due forme di tributo; quando si applica l’imposta, non si applica la tassa e viceversa. La registrazione avviene per effetto di congegni giuridici di natura diversa e, cioè, a seguito di richiesta di registrazione o 42 d’ufficio. Sotto tale aspetto gli atti giuridici vanno distinti in tre categorie: a) atti soggetti a registrazione in termine d’uso; b) atti soggetti a registrazione in caso d’uso; c) atti non soggetti a registrazione. Per gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, Ia legge pone, a carico di determinati soggetti (contraenti, notai, ece.), l’obbligo di richiederne Ia registrazione entro un dato termine, presentando l’atto all’ufficio, che liquida l’imposta e ne richiede il pagamento. Per gli atti da registrare in caso d’uso, non vi è alcun obbligo di richiedere la registrazione; ma l’atto non può essere “usato” se non è stata previamente effettuata la registrazione (e pagata l’imposta); in simili casi, la registrazione non è un obbligo, ma un onere. Infine, per gli atti per i quali non vi è né obbligo, né onere di registrazione, é ammessa la registrazione c.d. volontaria, essendo previsto che, per qualsiasi atto scritto, può chiederne la registrazione “chiunque vi abbia interesse”. La legge disciplina minutamente le modalità e i termini della richiesta di registrazione. Qui ci limitiamo a notare: a) che la richiesta di registrazione é fatta su appositi stampati forniti dall’ufficio; b) che la richiesta di registrazione dei contratti verbali e delle operazioni societarie di cui all’art. 4 é fatta presentando all’ufficio apposita denuncia (non essendovi un alto scritto da registrare, viene registrata la denuncia). Di regola, la registrazione avviene a seguito di richiesta di parte, ma, se non é stato osservato l’obbligo di richiederla, la registrazione é fatta d’ufficio. Non esistono norme generali che consentano all’Amministrazione finanziaria o alla Guardia di finanza di porsi alla ricerca degli atti non registrati e di sequestrarli; la repressione dell’evasione é affidata, per questa imposta, ad altri strumenti, che tengono conto, da un lato, degli interessi fiscali, dall’altro del diritto dei cittadini alla riservatezza. La disciplina della registrazione d’ufficio, ispirata a tali principi, si articola nel modo seguente: a) per gli atti dei notai e dei pubblici ufficiali, la registrazione d’ufficio é possibile solo se si rinvengano, nei registri o repertori, gli estremi di atti non registrati; qui non v’è un problema di riservatezza; b) si avverte più intensamente il problema della riservatezza per le scritture private non autenticate: per esse, quando non sia stato osservato l’obbligo della richiesta di registrazione in termine fisso, la registrazione d’ufficio é prevista solo nei seguenti casi: quando le scritture siano depositate presso pubblici uffici; quando l’Amministrazione finanziaria ne sia venuta legittimamente in possesso in base ad una legge che autorizzi il sequestro; 43 quando l’amministrazione ne abbia avuta visione nel corso di accessi, ispezioni o verifiche eseguiti ai fini di altri tributi; c) per i contratti verbale e per le operazioni societarie, la registrazione (che in tali ipotesi prescinde dall’acquisizione di un atto scritto) può essere effettuata d’ufficio sulla base di prove anche presuntive. Nel lessico legislativo, sono detti “atti da registrarsi in termine fisso” gli atti per i quali vi é l’obbligo di richiederne la registrazione, entro venti giorni dalla redazione. Gli atti da registrarsi in termine fisso vanno distinti in quattro gruppi: a) atti scritti indicati nella tariffa; b) contratti verbali; c) operazioni societarie; d) atti formati all’estero. La definizione generale degli atti da registrarsi in termine fisso è molto ampia, in pratica il numero degli atti da registrare si riduce notevolmente, dato che gli atti della vita commerciale sono da registrare solo in caso d’uso. I contratti verbali soggetti a registrazione sono quelli di locazione o affitto di beni immobili e di trasferimento o affitto di aziende. Inoltre, devono essere registrate le operazioni di organizzazione societaria, quali: l’istituzione o il trasferimento in Italia della sede legale o amministrativa di enti o società estere, ecc. In tali casi, le operazioni societarie assumono rilievo indipendentemente dalla forma dell’atto scritto da cui prendono origine. Come anticipato, vi sono alcuni atti che devono essere registrati solo in caso d’uso. Per “uso” di un atto si intende l’uso a fini amministrativi dell’atto, ossia la sua produzione agli effetti dell’emanazione di un provvedimento amministrativo. L’atto, prima di essere depositato presso una pubblica amministrazione (dello Stato o degli enti pubblici territoriali), dev’essere registrato: esso deve essere quindi depositato con il timbro che attesta la registrazione. Tra gli altri, va notato che devono essere registrati solo in caso d’uso i contratti formati mediante corrispondenza e le scritture private non autenticate relative ad operazioni soggette ad IVA. In sostanza, i contratti dei ricorrenti nella vita economica (atti delle imprese commerciali), conclusi mediante corrispondenza, sono soggetti a registrazione solo in caso d’uso, e poiché è infrequente che si verifichi il caso d’uso per un contralto commerciale (ad esempio, cessione di merci), si comprende perchè, in genere, i contratti per i quali sorge l’obbligo di registrazione sono soprattutto quelli estranei alla vita ordinaria delle imprese. Sono invece soggetti a registrazione e ad imposta di registro gli atti organizzativi, come la costituzione delle società e gli aumenti di capitale, le cessioni e i conferimenti di azienda. Dal punto di vista tecnico la registrazione consiste nell’annotazione in apposito 44 registro dell’atto o della denunzia e, in mancanza, della richiesta di registrazione. Per atti pubblici, scritture private autenticate e atti giudiziari, la registrazione va richiesta all’ufficio dell’Agenzia dell’Entrate, nella cui circoscrizione ha sede il pubblico ufficiale, negli altri casi può essere richiesta a qualunque ufficio. Infine, con riferimento ai soggetti passivi del tributo, dobbiamo premettere che non sempre vi è coincidenza tra soggetti obbligati a pagare l’imposta ma non a richiedere la registrazione, e soggetti obbligati a richiede la registrazione ma non a pagare l‘imposta. Infatti: a) per le scritture private non autenticate, sono obbligati a richiederne la registrazione le parti dell’atto che sono anche obbligate a pagare l’imposta; lo stesso vale anche per i contratti verbali e per gli atti formati all’estero; b) per gli atti pubblici e per le scritture private autenticate, l’obbligo di richiedere la registrazione è a carico dei notai (e in generale dei pubblici ufficiali; obbligati a richiedere la registrazione degli atti da essi redatti o ricevuti); per tali atti, i notai (e altri pubblici ufficiali) sono tenuti al pagamento dell’imposta principale (come responsabili d’imposta”), ma non delle imposte complementari e suppletive; c) cancellieri e segretari di organi giurisdizionali sono obbligati a richiedere la registrazione degli atti giudiziari, ma l’imposta i dovuta dalle parti del giudizio; d) gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria e gli appartenenti alla Guardia di Finanza sono obbligati a richiedere la registrazione degli atti per i quali i prevista la registrazione d’ufficio; anche in alcuni casi, l’obbligo di pagamento dell’imposta grava sui soggetti che hanno dato vita all’atto. 45 CAPITOLO III 3.1. LA SCELTA DEL MODELLO OPERATIVO: DITTA INDIVIDUALE, SOCIETÀ DI PERSONE E SOCIETÀ DI CAPITALI 3.1.1. Cenni sulla tassazione delle persone fisiche L’imposta che colpisce i redditi delle persone fisiche è denominata IRPEF. Questa imposta è stata istituita oltre 30 anni fa, in occasione della riforma fiscale varata nei primi anni ’70; in particolare in origine il testo normativo di riferimento era il DPR 597/1973. Oggi invece l’imposta è disciplinata dal TUIR. Presupposto dell’imposta, in base all’art. 1 del TUIR, è il possesso (inteso non come materiale disponibilità ma come vera e propria titolarità giuridica) di redditi, in denaro o in natura. Il TUIR, tuttavia, non fornisce una definizione generale di reddito, ma individua e definisce sei categorie reddituali, la maggior parte delle quali indicano come reddito i proventi derivanti da fonti produttive. Il reddito complessivo è costituito dalla somma algebrica dei redditi di ciascuna categoria, determinato in base alle regole proprie di ciascuna di esse. Le categorie individuate dal legislatore sono: a) redditi fondiari: si tratta dei redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato, che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. I redditi fondiari sono assoggettati a tassazione sulla base delle risultanze catastali: si fa riferimento al reddito medio ordinario ritraibile in condizioni normali da tutti i terreni e da tutti i fabbricati che appartengono alla medesima qualità, categoria, classe; b) redditi di capitale: sono i redditi derivanti da rapporti aventi per oggetto l’impiego di capitale. Contrariamente a quanto avviene per altre categorie reddituali, la legge non fornisce una definizione generale di redditi di capitale provvedendo invece a elencarli in modo analitico. L’art. 44, tuttavia, ha introdotto anche una fattispecie residuale ai sensi della quel rientrano nell’ambito dei redditi di capitale “gli interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto” (art. 44 lett. h); c) redditi di lavoro dipendente: tali sono i redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri (art. 49 del TUIR). In particolare, costituiscono reddito di lavoro dipendente tutte le somme e i valori in genere percepiti nel periodo di imposta, in relazione al rapporto di lavoro; 46 d) redditi di lavoro autonomo: ai sensi dell’art. 53 TUIR rientrano in tale categoria i redditi “che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo IV” (redditi d’impresa) “compresa l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del comma 3 dell’art. 5”. I redditi di lavoro autonomo derivano, quindi, da attività che presentano tre connotati: (i) sono svolte in modo autonomo, e ciò distingue tali redditi da quelli di lavoro dipendente; (ii) sono abituali, carattere che differenzia tali redditi dai redditi diversi, i quali derivano da attività di lavoro autonomo svolta in modo occasionale; (iii) sono di natura non commerciale, a differenza delle attività che danno luogo a redditi d’impresa; e) redditi d’impresa: sono i redditi che derivano dall’esercizio di un’attività commerciale20; f) redditi diversi: rientrano in questa categoria una serie di fattispecie tra loro eterogenee, la cui unica comune caratteristica consiste nel non poter essere aggregate, per difetto di uno o più dei relativi presupposti specifici, ad alcun’altra delle categorie di reddito in precedenza esaminate; sono ad esempio redditi diversi: le plusvalenze, tra cui i cd. capital gains e i redditi derivanti da attività non esercitate abitualmente. Ai sensi dell’art. 3 del TUIR l’IRPEF si applica sul reddito complessivo del contribuente, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili indicati nell’art. 10 e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato. Le perdite d'impresa e di lavoro autonomo possono essere compensate solo con i redditi della stessa natura nei periodi di imposta successivi, ma non oltre il quinto (c.d. riporto a nuovo delle perdite); stessa regola vale per le perdite delle società di persone e delle associazioni di cui all' art. 5 del TUIR che, tuttavia, sono imputate direttamente ai singoli soci (proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili) (art. 8, comma 1). Sono esclusi dall’ammontare imponibile i redditi soggetti a tassazione separata. Si tratta di redditi maturati in archi temporali piuttosto lunghi ma percepiti in un unico periodo d’imposta (ad esempio le indennità percepite per cessazione di rapporto di lavoro dipendente a meno che il contribuente non abbia optato per la tassazione in modo ordinario). Inoltre non concorrono a formare la base imponibile IRPEF (i) i redditi esenti, soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva; (ii) gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli (iii) gli assegni familiari erogati nei 20 La disciplina del reddito d’impresa è trattato nell’ambito del Capitolo I. 47 casi consentiti dalla legge e (iv) le somme corrisposte a titolo di borsa di studio. In un tributo a carattere personale come l'IRPEF l'attitudine individuale del soggetto passivo ad assolvere l'imposta è determinata, oltre che dalla somma dei singoli redditi e dall' aliquota dell'imposta, anche dal concorso di altri elementi che contribuiscono alla personalizzazione del prelievo, riferendosi più direttamente alla situazione personale e familiare del contribuente e, quindi, alla sua capacità contributiva. A tal fine, il legislatore ha previsto due distinti istituti che contribuiscono alla valorizzazione della situazione personale del soggetto passivo: i cosiddetti oneri deducibili dal reddito complessivo e le detrazioni di imposta: i primi possono essere dedotti dal reddito complessivo. Le detrazioni di imposta, invece, riducono direttamente l’imposta lorda. Dall'applicazione dei due strumenti deriva una diversa misura del vantaggio fiscale per il contribuente. In linea di massima, le deduzioni dal reddito complessivo favoriscono i redditi più alti in quanto l'abbattimento dell'imponibile per una somma pari alla spesa sostenuta si risolve in un beneficio crescente all' aumentare del reddito per effetto della mancata applicazione dell'aliquota progressiva marginale riferita al reddito complessivo. Le detrazioni di imposta, invece, in linea di principio arrecano un beneficio identico per tutti, interferendo direttamente sull'imposta lorda. In considerazione di questi diversi effetti, a partire dal 1993 molti oneri deducibili sono stati trasformati in detrazioni di imposta. Gli oneri deducibili sono indicati nell’art. 10 del TUIR tra cui ricordiamo gli assegni periodi corrisposti al coniuge, i contributi previdenziali e assistenziali obbligatori per legge, le erogazioni liberali purché effettuate ai soggetti indicati nello stesso art. 10. Tali oneri, come detto, si scomputano dalla base imponibile secondo il principio di cassa. Una volta individuata la base imponibile, l’imposta lorda viene calcolata applicando al reddito complessivo le aliquote crescenti per scaglioni di reddito. Il reddito viene scomposto in tante parti uguali quanti sono gli scaglioni compresi nel suo ammontare e su ciascuna parte viene applicata l’aliquota via via crescente, secondo il sistema della progressività per scaglioni. Aliquote IRPEF in vigore: fino a 15.000 da 15.001 a 28.000 Da 28.001 a 55.000 Da 55.001 a 75000 Oltre 75.000 23% 3.450 + 27% sulla parte eccedente 15.000 6.960 + 38% sulla parte eccedente 28.000 17.220 + 41% sulla parte eccedente 55.000 25.420 + 43% sulla parte eccedente 75.000 48 Una volta determinata l’imposta lorda si procede al calcolo dell’imposta netta applicando le apposite detrazioni previste e per i carichi di famiglia e per il lavoro prestato. In particolare vi sono le detrazioni per i coniuge a carico (da 690 a 800 euro a secondo del reddito del contribuente); detrazioni per figli a carico (800 euro e 900 euro per figli di età inferiore a 3 anni); detrazioni per redditi di lavoro dipendente e assimilati (ad esempio 1.840 se il reddito non supera gli 8.000 euro); oneri detraibili (interessi passivi e i relativi oneri accessori; spese per la frequenza di corsi di scuola secondaria o universitaria; spese sostenute per interventi di recupero edilizio)21. Una volta determinata l’imposta netta, si detrae l’importo dei crediti d’imposta spettanti al contribuente (ad esempio i crediti d’imposta per le imposte pagate all’estero; il credito d’imposta per le nuove iniziative produttive; il credito d’imposta per le nuove assunzioni; i crediti d’imposta per gli imprenditori che, nei periodi d’imposta 20002006 hanno effettuato nuovi investimenti in aree svantaggiate) e le ritenute d’acconto effettuate a suo carico dai sostituti d’imposta. L’imposta viene liquidata dal contribuente in sede di dichiarazione mediante il sistema della cd. autotassazione. E’, cioè, lo stesso contribuente che provvede, nei termini stabiliti dalla legge, a determinare l’imposta e a versarla, mediante qualsiasi banca o ufficio postale. In particolare il contribuente, per il conteggio definitivo dell’imposta da versare all’erario (c.d. saldo), deve sottrarre dalla somma dovuta gli acconti d’imposta versati. Tali acconti sono dovuti per il periodo d’imposta in corso e sono pari ad una percentuale dell’imposta relativa all’anno precedente, quale risulta dalla dichiarazione dei redditi. L’acconto d’imposta è obbligatorio per coloro che hanno versato l’anno precedente un’imposta superiore a 51,65 euro: esso deve essere pari al 99% della somma versata l’anno precedente e va corrisposta in due rate, a meno che la somma da versare alla scadenza della prima rata sia inferiore a 103 euro. La prima rata è pari al 40% dell’intero acconto e va corrisposta entro il 16 giugno; la seconda rata (60%) va versata tra il 1° ed il 30 novembre. 3.1.2. Le persone fisiche e le attività aziendali Come abbiamo visto la strategia d’impresa consiste nella ricerca e nell’acquisizione degli strumenti necessari per conseguire vantaggi realmente competitivi. Essa mira alla risoluzione di problemi critici legati alla missione aziendale, 21 La documentazione relativa agli oneri deducibili e alle detrazioni di imposta non deve essere più allegata alla dichiarazione dei redditi, ma conservata per essere esibita in un'eventuale sede di controllo da parte dell'Amministrazione finanziaria; ciò dipende anche dalla previsione dell'invio telematico delle dichiarazioni che, per definizione, non consente l'inoltro di documenti cartacei. 49 mediante l’identificazione, la progettazione e l’attuazione di cambiamenti di alto profilo in ambito strutturale ed operativo, in modo da ottenere significativi miglioramenti in termini di crescita del reddito, efficienza del funzionamento e gestione dei mezzi aziendali. Tutto questo implica una visione d’insieme, associata alla capacità di comprendere le esigenze di ogni singola azienda, scegliendo per ciascuna le migliori tattiche di intervento. Tutto ciò, come vedremo, vale anche per le persone fisiche che a seconda delle diverse necessità e scopi possono decidere di strutturare la propria attività imprenditoriale sotto forma di ditta individuale, società di persone o società di capitali. 3.1.3. La tassazione della ditta individuale Attraverso la ditta individuale l’imprenditore persona fisica esercita in prima persona un’attività commerciale. Dal punto di vista fiscale la persona fisica diviene quindi titolare di un reddito d’impresa, come tale imponibile ai fini IRPEF. In questo caso il reddito d’impresa sarà sommato a tutti gli altri redditi personali (salvo quei redditi che, per il principio di attrazione del reddito d’impresa, entreranno a far parte comunque di quest’ultimo), per essere assoggettato a tassazione secondo le regole di determinazione dell’IRPEF sopra esposte. Come già illustrato nelle prime due lezioni, il reddito d’impresa deriva ai sensi dell’art. 55 del TUIR dall’esercizio di un’impresa commerciale. A titolo puramente riepilogativo ricordiamo che il punto di partenza per la determinazione del reddito d’impresa da assoggettare a tassazione è rappresentato dal risultato del conto economico (c.d. principio di derivazione). A tale risultato (perdita o utile di esercizio) occorrerà poi apportare le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri del TUIR. In linea generale, il reddito d’impresa concorre a formare insieme alle altre categorie reddituali la base imponibile del contribuente persona fisica su cui, come visto prima, andranno applicate le aliquote IRPEF. Tuttavia, occorre segnalare che la Finanziaria 2008 ha previsto la facoltà per le persone fisiche e per le società di persone di assoggettare il reddito d’impresa ad autonoma tassazione, escludendolo, quindi dalla formazione del reddito complessivo e applicando l’aliquota unica del 27,5% (pari a quella IRPEG). In questa maniera si è voluta assicurare l’omogeneità di trattamento ai redditi d’impresa prescindendo dalla forma giuridica di esercizio dell’attività. Tale omogeneità di trattamento dei redditi d’impresa allinea il nostro sistema impositivo al regime fiscale degli altri paesi, europei e non, ed assicura la possibilità di un prelievo identico a parità di reddito della 50 medesima categoria. A ben vedere i soggetti che potranno trarre vantaggio della tassazione separata al 27,5% sono quelli con redditi medio-alti che, in caso di mancato opzione, a fronte di un reddito di circa 35.000 sconterebbero l’imposta con applicazione dell’aliquota pari al 43%. Per le persone fisiche occorre tenere presente che la disciplina del reddito d’impresa si ottiene combinando la disciplina di base, racchiusa nelle norme relative all’IRES, con alcune regole specifiche: a) tra i ricavi si comprende il valore normale dei beni destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore o assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (nel caso di beni destinati al consumo personale o familiare, si parla di autoconsumo); b) non vi è la possibilità di portare in deduzione le perdite d’esercizio dal proprio reddito complessivo; tali imprese, come già avviene per i soggetti in contabilità ordinaria, potranno dedurre le perdite unicamente dai redditi della stessa categoria di quella che le ha generate. Le stesse perdite potranno, quindi, essere scomputate dai redditi della stessa specie, nei successivi periodi d’imposta ma non oltre il quinto. Si passa, in sostanza, da un regime di “compensazione orizzontale” ad un regime di “compensazione verticale”; c) mentre per le società sono “relativi all’impresa tutti i beni che appartengono ad esse”, ben diversa è la situazione dell’imprenditore individuale, il quale può essere contemporaneamente proprietario sia di beni “relativi all’impresa”, sia di beni personali che utilizza per propri scopi personali e familiari. Per le imprese individuali, allora, si considerano “beni relativi all’impresa”, oltre ai beni merce, a quelli strumentali per l’esercizio dell’impresa ed ai crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa stessa, anche i beni appartenenti all’imprenditore che siano indicati tra le attività relative all’impresa nell’inventario tenuto a norma dell’art. 2217 c.c. Gli immobili strumentali si considerano relativi all’impresa solo se indicati nell’inventario; d) non sono ammessi in deduzione i compensi per il lavoro prestato dallo stesso imprenditore o dai suoi familiari (per impedire che vengano simulati rapporti di lavoro tra familiari, allo scopo di ridurre il reddito dell’imprenditore, riducendo la progressività dell’imposta di quest’ultimo); e) le plusvalenze realizzate con la cessione di aziende possono essere tassate separatamente, a norma dell’art. 17, comma 2. Il trasferimento d’azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo delle plusvalenze dell’azienda: non si ha dunque tassazione della plusvalenza. Per gli eredi l’azienda ha lo stesso valore fiscalmente riconosciuto che aveva per il de cuius. 51 3.1.4. La tassazione delle società di persone Nelle società di persone il coordinamento tra tassazione delle società e tassazione dei soci viene effettuato imputando direttamente ai soci il reddito della società (criterio della trasparenza), in proporzione alle quote di partecipazione e indipendentemente dall’effettiva percezione. Solo l’IRAP è pagata direttamente dalla società. Le quote di partecipazione devono essere stabilite dall’atto costitutivo o da altro atto avente data certa anteriore all’inizio del periodo d’imposta. In mancanza di questa determinazione le quote si presumono proporzionali all’ammontare dei conferimenti e, se l’ammontare dei conferimenti non è determinato, si presumono uguali. Attraverso il criterio della trasparenza viene eliminata la doppia imposizione dei redditi societari. Inoltre la trasparenza presenta questa peculiarità: realizza la tassazione esclusiva del socio, in un contesto, quale quello tracciato dalla riforma del 2003, complessivamente orientato a considerare esaustiva la tassazione della società (come già rilevato al par. 1.4.2 e ripreso sub. par. 3.1.5). Dal punto di vista tecnico con la trasparenza i redditi dichiarati dalla società per un determinato anno saranno imputati ai soci per lo stesso periodo d’imposta, anche se sono reinvestiti nella società. L’eventuale successiva “effettiva percezione” di tali redditi risulterà irrilevante ai fini fiscali, in quanto i redditi sono stati già tassati in precedenza attraverso l’imputazione diretta ai soci. Anche le eventuali perdite della società sono attribuite ai soci in proporzione alle quote di partecipazione, secondo il criterio della trasparenza; tali perdite sono compensabili con altri redditi di partecipazione dei soci, sia nell’anno di conseguimento sia in anni successivi, attraverso il riporto delle perdite dai redditi di partecipazione. E’ dunque evidente il beneficio rispetto ai soci delle società di capitali, il cui reddito è tassato prima presso la società che lo produce con aliquota del 27,5% e, dopo la distribuzione, è ulteriormente tassato sotto forma di dividendi presso il socio persona fisica (con aliquota del 12,5% o con un abbattimento della base imponibile). Il regime della trasparenza, dunque, è più conveniente rispetto al regime ordinario delle società di capitali. Occorre considerare che il regime di trasparenza può essere adottato anche dalle piccole società a responsabilità limitata, la cui compagine sociale è composta esclusivamente da un numero ristretto di persone fisiche. In tal modo, da un lato, la tassazione delle piccole Srl è allineata a quella delle società di persone (dando rilievo, dunque, non tanto alla forma giuridica, quando alla sostanza economica di tali società); dall’altro, viene posto a disposizione dei soci delle piccole Srl un sistema di tassazione dei loro redditi conforme al sistema di tassazione dei dividendi. 52 Per queste società, si tratta di operare una scelta di campo fra la tassazione con IRES, come società, e la tassazione con IRPEF a carico dei soci. Se non si opta per la trasparenza, il reddito è tassato prima a carico della società, poi a carico del socio. Invece, con il sistema della trasparenza viene eliminata la tassazione della società ed i soci delle Srl, come i soci delle società di persone, vengono tassati in ragione del reddito prodotto dalla società. 3.1.5. La tassazione delle società di capitali Attraverso la forma societaria delle società di capitali viene attuato una netta divisione tra la società stessa ed i singoli soci. A differenza delle società di persone, il reddito prodotto dalle società di capitali viene tassato in capo alla società stessa. Tale reddito concorre infatti a formare la base imponibile IRPEG e soggiace all’applicazione dell’aliquota pari al 27,5%. Quando una società di capitali produce un reddito, potrà decidere di distribuire un dividendo ai soci se intende remunerare il capitale da questi investito. Quando le società di capitali distribuiscono i dividendi, i soci percepiscono un reddito che è già stato assoggettato ad imposizione: occorrerà, allora, coordinare la tassazione del reddito delle società con la tassazione dei dividendi dei soci, evitando od attenuando la doppia imposizione economica. I sistemi teoricamente adottabili sono molteplici. L’ordinamento italiano conosce i seguenti sistemi: a) il sistema della trasparenza, nel quale la società non è tassata e sono tassati solamente i soci, ai quali è imputato il reddito della società (sistema caratteristico delle società di persone, attualmente usufruibile su opzione per le società di capitali); b) il sistema del credito d’imposta, con cui viene “accreditata” al socio l’imposta che colpisce i redditi della società (tale sistema vigeva in Italia prima della riforma del 2004, introdotta con il D.Lgs. 344/2003); c) il sistema dell’esenzione (rectius esclusione) dei dividendi (che attualmente nel nostro ordinamento rappresenta il regime “ordinario” nel caso in cui il socio sia una società di capitali); d) il sistema della tassazione ridotta dei redditi del socio (che attualmente in Italia è applicato nei confronti di soci persone fisiche). 3.2. LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAINS PER LE PERSONE FISICHE 3.2.1 Cenni sulla tassazione dei redditi di capitale 53 Come abbiamo già visto il legislatore non fornisce una definizione generale di redditi di capitale, provvedendo invece a fare un elenco analitico all’art. 44 del TUIR. Tuttavia, a chiusura di questa disposizione, viene introdotta anche una fattispecie residuale, ai sensi della quale rientrerebbero nell'ambito dei redditi di capitale, ravvisandone i criteri distintivi con un'altra categoria di reddito, quella dei redditi diversi. Più precisamente, fra i redditi di capitale si comprendono i proventi che derivano da un rapporto giuridico che ha ad oggetto l'impiego del capitale, mentre nei redditi diversi di natura finanziaria sono inclusi i differenziali positivi derivanti da un evento incerto. In altri termini, mentre le plusvalenze (c.d. capital gains) che derivano dall' acquisto e successiva vendita di obbligazioni o di azioni non appartengono alla categoria dei redditi di capitale ma a quella dei redditi diversi (art. 67, lett. c e c-bis)), trattandosi di differenziali positivi derivanti da un evento incerto, fanno parte dei redditi di capitale gli interessi ed i proventi derivanti dai medesimi strumenti finanziari. Ad ogni modo, l'elencazione casistica contenuta nel citato art. 44 consente di suddividere i redditi di capitale in due gruppi: a) quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto l'impiego del capitale, quindi provenienti da un capitale che viene dato in godimento a terzi; in questo caso si viene ad instaurare un rapporto di finanziamento; b) quelli che derivano da un capitale investito o conferito, in cui lo stesso è utilizzato in una struttura produttiva organizzata alla quale il soggetto titolare del capitale partecipa e la cui partecipazione è rappresentata da un titolo (azione, quota o simili): in questo caso si viene ad instaurare un rapporto di partecipazione, dal quale derivano proventi certi magari nell'an ma non nel quantum). Tra le fattispecie più significative indicate nell'art. 44 che appartengono al primo gruppo (impiego del capitale) si possono segnalare: a) gli interessi e gli altri proventi derivanti da mutui, depositi o conti correnti (lett. a). Si tratta di una fattispecie che la dottrina riconduce alla nozione di frutto civile, inteso secondo la definizione offerta dall' art. 820 c.c., come il corrispettivo derivante dalla concessione in godimento di un capitale - ossia di denaro o altri beni considerati fungibili fra le parti - a terzi; b) gli interessi ed altri proventi delle obbligazioni e titoli similari ed altri titoli, diversi dalle azioni e titoli similari, nonché dai certificati di massa (lett. b). Come nell'ipotesi precedente, anche in questo caso gli interessi costituiscono il corrispettivo del godimento di un capitale da parte di terzi; tuttavia, a differenza della precedente fattispecie, il finanziamento è attuato attraverso la sottoscrizione di titoli di credito (obbligazioni e titoli similari); c) le rendite perpetue (che durano cioè oltre la morte dell' avente diritto) e le 54 d) e) f) g) h) prestazioni annue perpetue di cui agli artt. 1861 e 1869 c.c. (lett. c). Anche in questo caso si tratta di un'ipotesi tendenzialmente annoverabile tra quelle in cui il reddito deriva dalla concessione in godimento a terzi di un capitale; i compensi per prestazioni di fideiussione o altra garanzia (lett. d); in tale ipotesi si ha un potenziale impiego del capitale, destinato a diventare attuale nel caso in cui il debitore garantito si renda inadempiente delle proprie obbligazioni; gli utili derivanti da associazioni in partecipazione (lett. f), salvo il caso in cui sia conferita esclusivamente un' attività lavorativa, poiché in tal caso, come abbiamo già avuto modo di vedere, l'utile dell' associato è assimilato ai redditi di lavoro autonomo (art. 53, comma 2, lett. c); gli utili derivanti da contratti di cointeressenza propria (lett. d) indicati nell'art. 2554 c.c.; tali proventi, invero, non sono riconducibili né alla nozione di frutti civili, né a quella di trasferimento della disponibilità di un capitale a terzi, poiché in questi casi il diritto alla partecipazione agli utili si riconnette solo all' assunzione dell' obbligo di sopportare (parte) delle perdite dell'affare cui si partecipa. Quindi, in tale ipotesi l'impiego del capitale è solo eventuale; i proventi derivanti dalla gestione di masse patrimoniali, nell'interesse collettivo di una pluralità di soggetti, costituite con somme di denaro e beni affidati da terzi e provenienti dai relativi investimenti (lett. g). Questa ipotesi concerne le gestioni collettive dei patrimoni mobiliari, in cui si ha separazione tra i risultati dell'attività di gestione, tassata in capo al gestore, e redditi del mandante, cui si riferisce la norma in commento; i proventi derivanti da operazioni di pronti contro termine e contratti di riporto su titoli e valute (lett. g-bis), fattispecie equiparabili ai contratti di finanziamento, consistendo nella reciproca messa a disposizione di titoli e di denaro e, quindi, a forme di concessione di disponibilità di capitali. Con riguardo ai criteri di determinazione del reddito, preme ricordare che i redditi di capitale, a differenza di altre categorie reddituali, non sono sempre tassati in via ordinaria, come componenti del reddito complessivo soggetto ad imposta progressiva. Con la tassazione ordinaria coesistono infatti altre forme diverse di tassazione – sostitutive ed agevolate – per ragioni connesse al favor verso il risparmio e, soprattutto, per evitare la fuga di capitali verso ordinamenti fiscali più favorevoli. Abbiamo così regimi di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (come quello che si applica, ad esempio, agli interessi dei depositi e dei conti correnti bancari ed ai dividendi derivanti da partecipazioni non qualificate) ed altri regimi fiscali sostitutivi, che riguardano il risparmio gestito, il risparmio amministrato, i fondi comuni di investimento, ecc. La ritenuta alla fonte e i regimi sostitutivi comportano un carico fiscale (proporzionale) 55 che oscilla tra il 12,50% e il 27%. La tassazione dei redditi di capitale presenta inoltre alcune peculiarità. Innanzitutto vi è da considerare che sono irrilevanti i costi di produzione. Infatti benché il reddito di capitale possa in teoria dar luogo a costi di produzione (si pensi ad esempio al caso degli interessi gravanti su un soggetto che prende a mutuo una somma prestandola a sua volta con un interesse maggiorato) quest’ultimi sono irrilevanti in base all’art. 45 TUIR, secondo cui il reddito di capitale è determinato nella misura risultante dai relativi titoli e senza alcuna deduzione a titolo di costo.. Chi intendesse quindi dedurre dagli interessi attivi eventuali interessi passivi, o perdite su crediti, dovrebbe agire nella qualità di imprenditore individuale ovvero creare una società di persone o di capitali (in tal caso infatti opererebbero le ordinarie regole di tassazione del reddito d’impresa). Infine occorre ricordare che per i redditi di capitale in linea di principio (salvo alcune eccezioni su cui infra) non vige il principio di competenza bensì quello di cassa; infatti il reddito di capitale non diventa rilevante ai fini delle imposte dirette nel periodo d’imposta in cui viene a maturazione, bensì in quello in cui viene percepito. 3.2.2 La tassazione dei dividendi per le persone fisiche Tralasciando le ulteriori previsioni contenute nell'art. 44 del TUIR, che non rivestono grande importanza, è invece necessario soffermarsi sul secondo gruppo di redditi di capitale innanzi evidenziato, costituito dai proventi che derivano da un capitale conferito. A tale categoria appartengono gli utili da partecipazione al capitale o al patrimonio di società di capitali ed enti commerciali (art. 44, comma 1, lett. e), con l'eccezione degli utili spettanti ai promotori e fondatori di società, i quali sono inclusi nei redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo (art. 53, comma 2, lett. d)). Questa ipotesi si distingue da quelle esaminate in precedenza in considerazione della strumentalità dell'impiego del capitale ad una struttura associativa volta all'attuazione di un programma imprenditoriale al quale il soggetto che opera il conferimento non resta affatto estraneo. Assume, quindi, rilievo il possesso di azioni o di altri titoli, individuati in ragione del fatto che rappresentano una frazione del capitale o del patrimonio della società emittente. I redditi di partecipazione (c.d. dividendi) cui si riferisce la disposizione in commento sono soltanto quelli relativi al capitale di società ed altri enti che siano soggetti passivi dell'IRES, quindi società di capitali, enti commerciali, enti non commerciali. La norma non si riferisce, invece, agli utili che provengono dalle società 56 di persone che, come si è visto in precedenza, non sono tassati come reddito della società, ma come redditi dei singoli soci, secondo il principio di trasparenza. Prima della riforma entrata in vigore il 1°gennaio 2004, il sistema di tassazione dei redditi delle società di capitali coordinava la tassazione delle società con quella dei soci, mediante il credito di imposta sui dividendi. In altri termini, la società scontava sull'utile prodotto l'imposta (che allora si chiamava IRPEG) e poi, al momento della distribuzione del dividendo in capo al socio, l'utile stesso scontava l'IRPEF. Ora, poiché in tal modo si veniva a creare un'ipotesi di doppia imposizione (essendo l'utile tassato una prima volta in capo alla società ed una seconda volta in capo al socio), il legislatore riconosceva al socio un credito di imposta (quindi una somma da scomputare dall'imposta dovuta), corrispondente all'imposta pagata dalla società distributrice (c.d. principio dell'imputazione). In tal modo si evitava la doppia tassazione ed il prelievo tributario complessivo veniva posto unicamente a carico del socio. La recente riforma, con la quale è stata introdotta l'IRES, ha invece eliminato il meccanismo del credito di imposta sui dividendi introducendo il c.d. principio dell' esenzione: in altri termini, la tassazione dell'utile avviene in capo alla società e, per evitare la doppia tassazione del dividendo, è previsto che quest'ultimo sia esente in capo al socio. Tale esenzione, tuttavia, non è totale e la sua misura varia in funzione delle caratteristiche soggettive del socio percipiente. Più precisamente: a) se è il socio è una persona fisica imprenditore l'esenzione è del 50,2822 per cento (quindi solo il 49,72 per cento del dividendo è soggetto ad IRPEF e costituirà una componente positiva del reddito d'impresa) (art. 59, comma 1); b) se il socio è una persona fisica non imprenditore, l'esenzione varia in ragione della quota di partecipazione da lui posseduta; in tal caso, infatti, occorre verificare se la partecipazione è “qualificata” o “non qualificata”. In particolare, la partecipazione è “qualificata” quando rappresenta una percentuale dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinario superiore al 20 per cento, o al 2% se la società è quotata ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 5 o al 25 per cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni (art. 67, comma 1, lett. c)). Qualora non vengano superati tali percentuali, la partecipazione si considera “non qualificata”. Quindi, posta questa distinzione fra partecipazioni qualificate e non qualificate, sui dividendi distribuiti ai soci (non imprenditori) che detengono le prime è prevista un'esenzione del 50,28 per cento (art. 47) e non deve essere operata alcuna ritenuta, mentre per i dividendi distribuiti ai soci (sempre non imprenditori) che detengono le seconde è 22 Cfr. DM 2 aprile 2008. 57 c) prevista 1'applicazione di una ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 12,5 per cento (art. 27 del DPR 600/1973 ). In entrambi i casi, il dividendo è qualificato come reddito di capitale; se il socio è una società o un ente commerciale residente, i dividendi sono esclusi da tassazione per il 95 per cento del loro ammontare (art. 89, comma 2). Il regime fiscale appena esaminato relativo ai proventi azionari si applica anche ai proventi dei titoli similari alle azioni, nuovi strumenti finanziari introdotti con la riforma del diritto societario per mezzo dei quali le società raccolgono la liquidità necessaria per il finanziamento dell' attività sociale. Questi strumenti finanziari si differenziano dalle tradizionali categorie di titoli di debito (obbligazioni) e di titoli di partecipazione (azioni), permettendo di ottenere una remunerazione completamente condizionata, nell'an e nel quantum, dai risultati economici della società emittente. I proventi da essi derivanti non sono qualificabili come “utili” da partecipazione, in quanto non sottendono una partecipazione al capitale o patrimonio della società emittente (nel senso richiesto dalla letto e), comma 1, dell'art. 44); tuttavia, ai fini tributari questi titoli si considerano similari alle azioni (art. 44, comma 2, lett. a)), e, conseguentemente, i proventi da essi derivanti sono considerati utili e assoggettati allo stesso trattamento fiscale dei dividendi sopra illustrato. 3.2.3 La tassazione degli interessi per le persone fisiche Per le persone fisiche non imprenditori gli interessi e gli altri proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti, interessi e altri proventi delle obbligazioni e titoli similari, costituiscono redditi di capitale. La tassazione di tali componenti di reddito è generalmente attuata tramite ritenute alla fonte a titolo d’imposta e altri regimi sostitutivi, che comportano un carico fiscale che oscilla tra il 12,5% e il 27%. Per gli imprenditori individuali la ritenuta è effettuata a titolo di acconto e il provento finanziario è attratto al reddito d’impresa e viene a costituire un componente positivo di reddito di quest’ultimo. In tema di interessi il TUIR prevede due presunzioni legali, l’una riguardante gli interessi derivanti da mutui in generale, l’altra gli interessi derivanti da finanziamenti dei soci alle società: a) gli interessi si presumono percepiti alla scadenza ed alla misura pattuite. Se le scadenze non sono pattuite, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto, gli interessi si computano al saggio legale; b) l’altra presunzione riguarda le somme versate dai soci alle società ed enti 58 commerciali soggetti ad IRES. La qualificazione giuridica del rapporto può non essere chiara: tra socio e società può esservi un rapporto di mutuo, con diritto quindi del socio a percepire gli interessi e a vedersi restituire il capitale. Ma la prassi conosce anche altri tipi di rapporto: ci si riferisce in particolare ai versamenti in conto capitale o a fondo perduto, a seguito dei quali il socio non ha diritto ad alcune remunerazione, né ha diritto alla restituzione del capitale ad una scadenza predeterminata. Per la società tali versamenti non sono sopravvenienze attive, ma conferimenti. Ora, nel primo caso il socio si pone nei confronti della società come qualsiasi altro soggetto che abbia dato in prestito delle somme di denaro; nel secondo caso, il versamento del socio dà vita ad un rapporto sostanzialmente, anche se non formalmente, simile a quello dei conferimenti; si parla, in tal caso, di versamento a fondo perduto, di versamento in conto capitale, di conferimento atipico. Ciò che decide, ai fini fiscali, la natura del rapporto, è il bilancio (in questo risiede la presunzione): le somme si presumono date a mutuo se dal bilancio non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo (art. 46 del TUIR). 3.2.4 Le plusvalenze dei titoli azionari e obbligazionari (capital gains) Come si è già rilevato esaminando i redditi di capitale, le “rendite finanziarie” possono essere qualificate come redditi di capitale o come redditi diversi (ovviamente di natura finanziaria). I primi sono quelli che derivano dall’impiego del capitale (interessi bancari, interessi sui buoni postali, interessi sui certificati di deposito, interessi sui titoli di Stato, dividendi azionari), mentre i secondi sono quelli che contribuente realizza attraverso le negoziazione. Le plusvalenze realizzate con la cessione di azioni o di altre partecipazioni sociali, e con la cessione di titoli obbligazionari o di altre attività finanziarie, per le persone fisiche non imprenditori costituiscono infatti redditi diversi. Queste plusvalenze, come anticipato, sono anche indicate come guadagni di capitale (capital gains). La plusvalenza è pari alla differenza tra il corrispettivo pattuito (ovvero la somma o il valore normale dei beni rimborsati se si tratta di titoli partecipativi o crediti) e il costo o il valore di acquisto aumentato degli oneri inerenti. La tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni o di partecipazioni sociali si differenzia a seconda della percentuale di diritti di voto o della quota di capitale posseduta (come avviene per i dividendi): a) se la partecipazione è qualificata (ossia rappresenta una percentuale di diritto di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 20%, o 2% se la società è quotata, ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio che è superiore al 59 25%, o 5% se la società è quotata), la base imponibile è costituita dal 49,72% della plusvalenza; a tale base imponibile si applicano le aliquote ordinarie dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Le plusvalenze in questione sono calcolate per differenza tra il corrispettivo percepito e il costo di acquisto delle partecipazioni medesime. Se sono state realizzate minusvalenze, le plusvalenze per il 49,72% del loro ammontare, sono sommate algebricamente alla corrispondente quota delle relative minusvalenze; se le minusvalenze sono superiori alle plusvalenze l’eccedenza è riportata in deduzione, fino a concorrenza del 49,72% dell’ammontare delle plusvalenze dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quarto, a condizione che sia indicata nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta nel quale le minusvalenze sono state realizzate (art. 68, comma 3, TUIR); b) se la partecipazione non è qualificata, le plusvalenze sono soggette ad imposta sostitutiva del 12,5%. Il differenziale da sottoporre ad imposta sostitutiva è determinato confrontando il corrispettivo percepito ed il costo (o valore di acquisto), aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione (ad esempio, le provvigioni dell’intermediario, i bolli, le spese notarili). Il regime ordinario di tassazione dei proventi finanziari in esame è quello della dichiarazione: il contribuente deve cioè indicare nella dichiarazione annuale dei redditi le plusvalenze e le minusvalenze conseguite nel periodo d’imposta, versando le imposte sostitutive nei termini e con le modalità previste per i versamenti delle imposte sui redditi dovute a saldo. Limitatamente alle plusvalenze diverse da quelle derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate è previsto un regime semplificato di riscossione dell’imposta sostitutiva, denominato regime del risparmio amministrato, subordinato all’esercizio di un’esplicita opzione da parte del contribuente e all’esistenza di un intermediario abilitato che provvede ad effettuare il prelievo fiscale e il versamento dovuto in relazione a ciascuna operazione posta in essere. E’, infine, previsto un terzo regime, anch’esso opzionale e non applicabile alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate, denominato del risparmio gestito. L’opzione per questo regime, che comporta la tassazione non delle singole operazioni produttive di plusvalore, ma del risultato complessivo della gestione maturato nel periodo d’imposta può essere esercitata solamente nell’ambito delle gestioni individuali di patrimoni (non relativi all’impresa). Per gli imprenditori individuali i capital gains non costituiscono redditi diversi ed, nel rispetto del principio dell’inerenza, entrano a far parte del reddito d’impresa come componenti positivi di reddito. Le plusvalenze si distinguono in plusvalenze che godono del regime di participation exemption e plusvalenze tassabili. Gli imprenditori individuali in possesso di partecipazioni che godono del regime di participation 60 exemption godono di una esenzione limitata al 50,28% del loro ammontare. Correlativamente le minusvalenze sono deducibili per il 49,72%. 61 CAPITOLO IV 4.1. LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAIN PER LE PERSONE GIURIDICHE 4.1.1. La tassazione dei dividendi per le persone giuridiche Come già visto in materia di tassazione dei dividendi per le persone fisiche, i dividendi sono suscettibili di essere tassati due volte: una prima volta in capo alla società all’atto della produzione ed una seconda volta in capo al socio al momento della distribuzione. Abbiamo altresì visto che prima della riforma del 2003 questa doppia imposizione era eliminata attraverso il meccanismo del credito d’imposta (cd. imputation system). Tale sistema considerava il socio e non la società l’effettivo possessore dell’utile societario e conduceva a determinare il prelievo definitivo in relazione alla situazione soggettiva del primo e non a quella della seconda, mediante l’attribuzione al socio stesso di un credito fiscale relativo all’imposta “anticipata” dalla società all’atto della produzione dell’utile. In vigenza di tale metodo, quindi, si era creata l’opportunità di posizionare le società con perdite in testa al gruppo. In questo modo le tasse pagate dalla partecipata potevano essere rimborsate ai soci. Si trattava di un sistema complesso, che non garantiva la determinazione del tax rate in capo alla società operativa. Nel sistema introdotto con la riforma ha assunto invece rilevanza, ai fini della tassazione, il soggetto che ha prodotto gli utili: una volta tassato il reddito in capo alla società all’atto della produzione, con la successiva distribuzione del dividendo si attiva la fase di tassazione dell’utile in capo al socio. È evidente, peraltro, che, una volta operata questa scelta, il legislatore delegato si è dovuto necessariamente far carico del problema della doppia imposizione economica, dal momento che tanto i dividendi percepiti dal socio, quanto le plusvalenze dallo stesso realizzate per effetto della cessione delle partecipazioni detenute, costituiscono, di fatto, flussi di “ricchezza” geneticamente collegati ad una fonte di produzione (la partecipazione) dalla quale si è già generato un reddito pienamente tassato in capo al soggetto che lo ha prodotto. A fronte della soluzione, teoricamente ottimale, di rendere del tutto esenti il dividendo distribuito al socio e la plusvalenza dallo stesso realizzata, il legislatore ha ritenuto al momento sufficiente optare (con alcune eccezioni) per un sistema di esenzione parziale, finalizzato a contenere fortemente, ma non ad eliminare, gli effetti di doppia 62 imposizione. Il regime di esenzione parziale varia a secondo del tipo di soggetto. Abbiamo visto infatti come opera l’esenzione quando il soggetto percettore è un soggetto IRPEF (con le differenze che vi sono a seconda che lo stesso eserciti o meno un’attività d’impresa) ed adesso vedremo la particolare disciplina che il TUIR ha previsto quando il soggetto percettore è invece un soggetto IRES. In particolare, se il soggetto percettore è una società di capitali o un ente commerciale (o un ente non commerciale) vi è una tassazione limitata al 5% dell’ammontare del dividendo, senza alcuna distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate. In caso di opzione per il “regime di trasparenza” o per il “consolidato fiscale” , la tassazione viene meno. Recentemente, tuttavia, la Finanziaria 2008 ha previsto che i dividendi distribuiti infra-gruppo scontino una tassazione pari al 5% del loro ammontare anche in presenza di un consolidato fiscale. Se non hanno già concorso a formare il reddito dei soci “per trasparenza”, sulla base del nuovo regime fiscale introdotto dall’articolo 167 per le controllate estere residenti in paesi a fiscalità privilegiata, anche i dividendi percepiti dai soggetti IRES e provenienti da società ed enti non residenti concorrono nei limiti del 5% a formare il reddito imponibile. Con riguardo al tax planning si rileva che è diventato impossibile per una società in perdita ottenere il rimborso delle tasse pagate dalle controllate, inoltre il tax rate di gruppo sconterà una maggiorazione dell’1,375% sui dividendi incassati (5%*27,5%). I dividendi corrisposti da società residenti a soggetti non residenti (detti dividendi “in uscita” o “outbound”) scontano una ritenuta a titola d’imposta con aliquota del 27%. L’aliquota della ritenuta è ridotta al 12,50% per gli utili pagati ad azionisti di risparmio. I soggetti non residenti, diversi dagli azionisti di risparmio, hanno diritto al rimborso, fino a concorrenza dei quattro noni della ritenuta, dell’imposta che dimostrino di aver pagato all’estero in via definitiva sugli stessi utili mediante certificazione del competente ufficio fiscale dello stato estero (art. 27 DPR 600/1973). La finanziaria 2008 ha previsto tuttavia che i dividendi corrisposti da società residenti a soggetti non residenti domiciliati nell’Unione Europea o in paesi aderenti allo spazio economico europeo (che saranno individuati da una apposita white list) saranno assoggettati ad una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta dell’1,375% (equiparazione con i residenti). Diverso è il regime dei dividendi infrasocietari se trova applicazione la c.d. Direttiva madre-figlia (Direttiva 435/90/CEE) come recepita nell’ordinamento italiano. Tale Direttiva, infatti, impedisce la tassazione dei dividendi distribuiti da società madri a società figlie all’interno della Comunità europea, vietando l’applicazione di ritenute, sia da parte dello Stato della figlia sia da parte dello Stato della madre. 63 La Direttiva madre-figlia è stata recepita in Italia con l’art. 27-bis DPR 600/1973 secondo cui, ricorrendo le condizioni che permettono l’applicazione di questo regime, la società madre non residente può chiedere la non applicazione della ritenuta del 27% o chiederne il rimborso. Il regime, previsto dalla Direttiva madre-figlia, essendo diretto ad incrementare la formazione dei gruppi transfrontalieri, non si applica a tutti i dividendi, ma solo alle società che detengono una partecipazione diretta non inferiore al 20% del capitale della società-figlia. Inoltre tali società devono presentare i seguenti requisiti: a) rivestire una delle forme giuridiche previste nell’apposito allegato alla citata Direttiva madre-figlia (società per azioni, società in accomandita semplice, srl, società cooperative); b) risiedere, ai fini fiscali, in uno Stato membro dell’Unione europea; c) essere soggette nello Stato di residenza ad una delle imposte indicate nel medesimo allegato alla predetta direttiva, senza possibilità di fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati; d) detenere la partecipazione ininterrottamente per almeno un anno. E’ inoltre necessario che le società madri residenti nell’UE non siano controllate da società non residenti nella Comunità; possono tuttavia ottenere l’applicazione del regime madre-figlia se, mediante procedura di interpello, dimostrino che non siano state costituite allo scopo, esclusivo o principale, di beneficiare del regime in esame. La non applicazione o il rimborso della ritenuta sugli utili evita la c.d. doppia tassazione giuridica internazionale (cioè la doppia tassazione di un medesimo soggetto, da parte di due Stati diversi). Non evitata tuttavia la doppia tassazione economica (che si ha quando due norme colpiscono, per un medesimo fatto economico, soggetti diversi) e cioè la somma della tassazione degli utili della società figlia (da parte dello Stato della fonte) e della tassazione dei dividendi, nello Stato di residenza del socio. 4.1.2. La tassazione degli interessi per le persone giuridiche La tassazione degli interessi per le persone giuridiche presenta caratteristiche diversa a seconda che gli interessi in esame siano o meno interessi di mora. In particolare, gli interessi attivi diversi da quelli di mora concorrono a formare il reddito d’impresa per l’importo maturato nell’esercizio, secondo il criterio di competenza (art. 110, comma 1, lett. e), TUIR). Sono tassati per competenza in particolare: a) gli interessi derivanti da mutui, depositi e conti correnti (anche bancari e postali) e da ogni altro rapporto contrattuale produttivo di interessi; 64 b) gli interessi derivanti dalle obbligazioni e dagli strumenti finanziari diversi dalle azioni e dagli strumenti finanziari similari alle azioni; c) gli interessi compensativi e per dilazione di pagamento, compresi gli interessi per ritardati rimborsi d’imposta. Qualora la misura del tasso di interesse non è determinata per iscritto, si presumono maturati al tasso legale. Le somme versate alle società commerciali, alle associazioni, ai consorzi e agli altri soggetti IRES, dai loro soci o partecipanti, si considerano date a mutuo e quindi produttive di interessi, se dai bilanci o rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento sia stato fatto ad altro titolo. Per i rapporti di conto corrente e le operazioni bancarie regolate in conto corrente (compresi i conti correnti reciproci per servizi resi intrattenuti tra aziende e istituti di credito) si devono considerare componenti positivi di reddito anche gli interessi compensati a norma di legge o di contratto. Gli interessi compensati, quindi, concorrono alla determinazione del reddito per il loro intero importo e non solo per l’importo corrispondente all’eventuale saldo (differenza tra interessi attivi e passivi). Gli interessi di mora, compresi quelli che si producono automaticamente in caso di ritardato adempimento di obblighi di pagamento concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono incassati (art. 109, comma 7, TUIR) (principio di cassa). Tale criterio di imputazione per cassa degli interessi (così come la disposizione speculare per cui gli interessi di mora sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti) introdotta dal D.Lgs. 344/2003 si applica, con effetto retroattivo, a decorrere dal periodo d’imposta in corso all’8.8.2002, benché siano stati fatti salvi tutti i comportamenti conformi alla previgente disposizione (art. 109, comma 7, TUIR). Nell’ambito della tassazione degli interessi per le persone giuridiche merita un particolare cenno la disciplina delle operazioni pronti contro termine (cui sono assimilate le operazioni di prestito titoli) dove il compratore a pronti, che ha l’obbligo di rivendere a termine i titoli (qualora sia prevista una mera facoltà di rivendita, non si applica la regola in argomento, realizzandosi una ordinaria cessione di titoli), è considerato un soggetto che compie un’operazione di finanziamento. Pertanto, in bilancio i titoli permangono nell’attivo della società che li cede a pronti e li riacquista a termine, mantenendo ai fini fiscali, il costo e la categoria di appartenenza che avevano prima dell’operazione. Gli interessi derivanti dai titoli acquisiti mediante contratti di pronti contro termine concorrono a formare il reddito del cessionario per l’ammontare maturato nel periodo di durata del contratto: lo scarto, cioè la differenza positiva o negativa tra il prezzo a pronti e quello a termine, concorre a formare il reddito del compratore a pronti per la quota maturata nell’esercizio, al netto degli interessi maturati sulle attività 65 oggetto dell’operazione per il periodo di durata del contratto. In particolare, lo scarto positivo costituisce un onere finanziario che si aggiunge agli interessi prodotti dai titoli stessi (art. 89, comma 6, TUIR). 4.1.3. La tassazione del capital gain per le persone giuridiche. Come abbiamo già visto i regimi di tassazione delle plusvalenze realizzate su partecipazioni in società variano in funzione del soggetto percettore, in particolare: a) la plusvalenza realizzata, nell’esercizio di imprese commerciali, dai soggetti passivi IRPEF (i capital gains, in questo caso, entrano a far parte del reddito d’impresa); b) la plusvalenza realizzata, al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali, dai soggetti passivi IRPEF (i capital gains, in questo caso, costituiscono redditi diversi); c) infine, la plusvalenza realizzata da società ed enti soggetti all’IRES (i capital gains, in questo caso), entrano a far parte del reddito d’impresa. Pertanto i capital gains realizzati da soggetti IRES concorrono a formare il reddito d’impresa degli stessi. Nello specifico, le plusvalenze sulle partecipazioni classificate nelle “immobilizzazioni finanziarie”, nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso, sono soggette ai seguenti regimi fiscali: a) regime della participation exemption (art. 87 TUIR); b) regime della tassazione sull’intera plusvalenza, in assenza dei requisiti richiesti dalla participation exemption (art. 86 del TUIR). Le disposizioni contenute nell’art. 87 TUIR, disciplinanti il regime c.d. di participation exemption prevedono l’esenzione al 95 % (originariamente era totale, poi è stata ridotta al 91%, poi all’84% e infine la Finanziaria 2008 ha rialzato la percentuale di esenzione al 95%) delle plusvalenze da realizzo di partecipazioni in società, con o senza personalità giuridica, sia residenti che non residenti, al verificarsi delle seguenti condizioni: a) ininterrotto possesso dal primo giorno del dodicesimo mese (originariamente era il diciottesimo) precedente quello dell’avvenuta cessione. Se le partecipazioni sono state acquistate in date diverse si considerano cedute per prime le quote acquistate per ultime (criterio LIFO utilizzato per tutte le plusvalenze da partecipazione); b) classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso. L’assunzione del dato emergente 66 dal primo bilancio riflette l’esigenza di impedire riclassificazioni a ridosso della cessione meramente strumentali all’ingresso (nel caso di plusvalenze latenti) o all’uscita (nel caso di minusvalenze latenti); c) residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato. Per evitare manovre sulla residenza in prossimità della cessione questa condizione deve ricorrere al momento del realizzo ininterrottamente dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso o, se successiva, dalla costituzione della partecipata; d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale. L’apposizione della condizione in esame va interpretata in chiave antielusiva, quale disincentivo alla costituzione di società-contenitore, da utilizzare per trasferire singoli cespiti (in particolare immobili) plusvalenti sfruttando l’esenzione prevista per le plusvalenze relative alle partecipazioni. Senza possibilità di prova contraria si presume che il requisito considerato non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione e al cui scambio è diretta l’attività d’impresa (e cioè dagli immobili costituenti beni merce) e dagli impianti e fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa. Parallelamente all’esenzione (95%) sulle plusvalenze, l’art. 101, comma 1, TUIR prevede: a) l’indeducibilità delle “minusvalenze iscritte” (o “minusvalenze da valutazione”) relative alle partecipazioni classificate nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie: tale indeducibilità opera con riferimento a tutte le partecipazioni, siano esse qualificate o meno per l’esenzione; b) la corrispondente indeducibilità delle “minusvalenze realizzate” a seguito della cessione di partecipazioni che si qualificano per l’esenzione, in modo simmetrico all’esenzione prevista per le corrispondenti plusvalenze. Tuttavia c’è una differenza: se l’esenzione non è più totale come all’esordio della riforma e all’introduzione della pex, l’indeducibilità è rimasta totale. In assenza dei requisiti richiesti dalla participation exemption, la plusvalenza sulle partecipazioni deve essere interamente tassata secondo l’art. 86, comma 4, TUIR, il quale dispone che le plusvalenze concorrono a formare il reddito, per l’intero ammontare, nell’esercizio in cui sono state realizzate, ovvero, per le partecipazioni iscritte negli ultimi tre bilanci tra le “immobilizzazioni finanziarie”, a scelta del contribuente, in quote costanti nell'esercizio del realizzo e nei successivi, ma non oltre il quarto. 67 Per quanto riguarda invece le partecipazioni iscritte in bilancio nell’attivo circolante l’art. 85, comma 1, lettere c) e d), TUIR qualifica “ricavi” i seguenti corrispettivi: a) i corrispettivi delle cessioni di azioni o quote di partecipazioni, anche non rappresentate da titoli al capitale di società ed enti di cui all’art. 73, che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie, diverse da quelle cui si applica l’esenzione di cui all’art. 87, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa; b) i corrispettivi delle cessioni di strumenti finanziari assimilati alle azioni, ai sensi dell’art. 44, emessi da società ed enti di cui all’art. 73, che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie, diversi da quelli cui si applica l’esenzione di cui all’art. 87, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa; c) i corrispettivi delle cessioni di obbligazioni e altri titoli in serie o di massa (diversi da azioni e strumenti assimilati) che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie (art. 85, comma 1, lett. e). La loro compravendita determina “proventi” ed “oneri” (o impropriamente “plusvalenze” e “minusvalenze”) che concorrono a formare il reddito imponibile nell'esercizio del loro realizzo. 68 CAPITOLO V 5.1. COME FINANZIARE LE ATTIVITA’ AZIENDALI 5.1.1. Modalità di finanziamento delle attività aziendali Diverse sono le modalità attraverso cui l’impresa può essere finanziata al fine di essere messa nelle condizioni ottimali per poter svolgere la propria attività aziendale. Tuttavia, le principali modalità di finanziamento possono ricondursi a due categorie: a) apporto di capitale proprio (equity); b) finanziamento sotto forma di prestiti (debt). Prima di analizzare in concreto i due tipi di finanziamento, occorre premettere che la manovra debt/equity va effettuata ogniqualvolta occorra ragionare in merito alla copertura del capitale investito e questo avviene: a) con cadenza periodica in sede di budget iniziale o di sua revisione o di piano triennale; b) ad hoc in caso di processi di start up, di ristrutturazione aziendale e/o di operazioni di finanza straordinaria. In realtà la manovra del debt è molto più continuativa, giacché in tesoreria l’ottimizzazione dei saldi finanziari deve essere giornaliera. Cosa per contro che a livello di equity non avviene. La scelta tra le due forme di finanziamento deriva da decisioni che vengono prese dai soci e dal management sulla base di precise motivazioni imprenditoriali. Sul piano sostanziale, e soprattutto nelle realtà di piccola e media dimensione, la decisione del tipo di finanziamento risente di una discrezionalità che può variare in funzione della capacità patrimoniale dei soci o della capacità di credito propria dell’impresa. In tali circostanze la scelta di indebitarsi o di optare per il capitale di rischio deriva, prevalentemente, da decisioni di natura economico-finanziaria. Molto spesso sul mercato gli azionisti propendono per aziende che si finanziano soprattutto con operazioni di equity e ciò per le seguenti ragioni: a) i singoli azionisti spesso non hanno la possibilità di accedere alle forme di finanziamento di cui può godere l’azienda, per cui in tal caso potrebbero essere disposti a pagare un premio per quelle aziende che hanno una capacità di indebitamento migliore della propria; b) per i singoli azionisti l’indebitamento in proprio può risultare più rischioso, in quanto non limitato all’entità dell’investimento. Nel momento in cui l’azionista 69 investe in un’azienda indebitata il suo rischio è limitato al corrispettivo versato per acquistare le azioni, viceversa se si indebita in proprio può rispondere in via illimitata del suo debito. Chiaramente, se l’azionista è invece dotato di adeguate disponibilità liquide e/o di più ingenti capacità di credito (in genere nei gruppi di più grandi dimensioni), la scelta tra capitale di prestito e capitale di rischio diventa più flessibile e può assumere una rilevanza che va al di là dei vincoli finanziari o degli interessi economici delle singole entità che costituiscono il gruppo. Ciò detto la manovra dell’equity si articola su un orizzonte di medio/lungo periodo ed è finalizzata ad ottimizzare il costo medio ponderato prospettico del capitale. L’equity può essere manovrato attraverso due categorie di operazioni: a) aumento di capitale; b) autofinanziamento, ossia il rinvestimento degli utili all’interno dell’azienda. La manovra dell’equity attraverso le operazioni sul capitale avviene attraverso la sottoscrizione di aumenti di capitale sociale o il versamento da parte dei soci stessi di finanziamenti con vincoli di destinazione. La sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale può avvenire da parte dei soci già esistenti o da parte di nuovi soci, allargando la compagine sociale. Il ricorso a una forma di ricapitalizzazione, piuttosto che all’altra, dipende anche dalla situazione particolare in cui si trova l’impresa e dalle sue caratteristiche patrimoniali. In particolare, un’impresa in perdita che vede il suo capitale sociale scendere sotto al terzo, si trova in una situazione tale da dover ricorrere ad un aumento di capitale per ripianare le perdite e ripristinare il capitale sociale iniziale. Analogamente un’impresa che decide di attivare alleanze strategiche con nuovi partner per lo sviluppo di nuovi business, potrebbe finanziare i propri progetti di investimento attraverso aumenti di capitale dedicati che permettano il progressivo ingresso di nuovi soci e consentano al tempo stesso di non minacciare l’equilibrio finanziario dell’impresa. Quando si pensa all’equity viene subito in mente il tema relativo al costo di tale forma di finanziamento, ma tale approccio è senz’altro miope in quanto i costi del ricorso a tale fonte possono essere largamente superati dal benefici. Parlando di oneri, evidentemente tale operazione comporta costi vivi non indifferenti: le fees degli sponsors, le fees di un’eventuale advisor, le fees degli studi legali, il processo di comunicazione (prospetto informativo, campagna di comunicazione); l’assunzione di nuovi profili professionali, per esempio l’investor relator. Si tratta di costi che possono ben superare il 5% dell’emissione azionaria, senza considerare il carico di lavoro addizionale sulle strutture aziendali, con conseguente temporanea defocalizzazione delle attività considerate ordinarie. Ma, a ben vedere, non 70 si tratta di un costo bensì di un investimento, che offre preziosi ritorni, quali: (i) un momento di confronto e approfondimento delle proprie strategie e (ii) lo sviluppo di una maggiore capacità di controllo sui processi e sui risultati. La manovra dell’equity attraverso l’autofinanziamento, invece, si ha quando gli utili della società non vengono distribuiti tra i soci ma reinvestiti nell’attività dell’azienda. L’autofinanziamento equivale a una ricapitalizzazione dell’azienda e quindi corrisponde a tutti gli effetti ad una immissione di capitale di rischio da parte dei vecchi azionisti. Empiricamente le aziende preferiscono far ricorso in prima battuta all’autofinanziamento, per poi, se necessario, accedere al debito ed, in ultima istanza, all’immissione di nuovo capitale di rischio da parte degli azionisti. Le ragioni a favore dell’autofinanziamento possono essere varie. Sicuramente influisce il fatto che, se l’azionista non solleva eccezioni, è una forma di raccolta abbastanza immediata che non richiede lo sforzo di vendere l’azienda ai mercati finanziari per ottenere in cambio denaro sotto forma di debt o equity. Inoltre la preferenza può dipendere anche dalle asimmetrie negli obiettivi del managment rispetto agli azionisti; i primi privilegerebbero il fatto di poter disporre di riserve liquide per, ad esempio, realizzare un grado di autonomia decisionale degli investimenti che reputano necessari. Può dipendere anche da un fatto culturale: l’azionista non percepisce che la struttura finanziaria debba essere ottimizzata, fintantoché la sua azienda è in grado di autofinanziarsi. Quale che sia la ragione, il risultato è che spesso si fa ricorso al debito e all’immissione di nuovo capitale di rischio sole se costretti avendo esaurito l’autofinanziamento. Al di là delle modalità con cui viene realizzato il finanziamento sotto forma di equity, si deve rilevare che questo tipo di finanziamento presenta molti vantaggi: (i) stabilità pressoché assoluta, poiché tendenzialmente rimane per una durata illimitata nell’impresa; (ii) assenza di necessità di rimborso; (iii) assenza di obblighi formali di remunerazione minima; (iv) gli apporti mediante capitale proprio sono una forma di finanziamento relativamente semplice da ottenere che non presenta richiesta di garanzie particolari o procedure complesse per l’erogazione, cosa che invece talvolta accade per il finanziamento mediante capitale di debito. Fin qui abbiamo parlato della manovra dell’equity. La manovra del debt si ha quando l’azienda ricorre a prestiti esterni per finanziare le proprie attività. Nella prassi è diffuso parlare di debt perché di norma le aziende acquistano risorse finanziarie dall’esterno tendenzialmente per finanziarie la loro crescita e una volta raggiunta tale crescita, tali aziende dovrebbero invece generare liquidità; se questo non avviene vuol dire che sicuramente esiste uno squilibrio nella gestione del capitale circolante netto, non potendo essere gli investimenti responsabili del continuo fabbisogno finanziario, poiché in quest’ultimo caso avremmo investimenti che in media non garantiscono un ritorno positivo. 71 Le forme di finanziamento cosiddette esterne, correlate al capitale di debito, possono riguardare sia finanziamenti di breve periodo, sia di medio-lungo periodo. Le prime riguardano la copertura di fabbisogni di liquidità temporanei, anche inattesi o collegati alla gestione del capitale circolante netto, che esprime tipicamente esigenze finanziarie di breve termine. Sono normalmente riferite alla copertura del ciclo produttivo dell’impresa e degli eventuali squilibri temporanei causati dalla non perfetta correlazione temporale tra incassi e pagamenti. Queste forme tecniche fanno riferimento per lo più agli scoperti di conto corrente, al denaro corrente, alle anticipazioni su fattura, al credito di fornitura, o ad altre forme simili che consentono all’azienda di disporre di affidamenti sui quali paga oneri finanziari in relazione all’entità e al tempo di utilizzo. Le seconde riguardano, invece, la copertura di fabbisogni finanziari di lungo periodo, correlati tipicamente agli investimenti in beni durevoli pianificati dall’impresa. Queste forme di finanziamento riguardano principalmente i mutui bancari, eventualmente assistiti da varie forme di garanzia, tra cui i mutui ipotecari, i prestiti obbligazionari o altre tipologie di finanziamento indiretto, come il leasing finanziario. Il capitale di credito, quale forma di finanziamento, presenta diversi oneri: (i) è una fonte di finanziamento che deve essere rimborsata secondo obblighi ben precisi, che dipendono dal tipo di forma tecnica e dagli accordi contrattuali; (ii) deve essere remunerata in base ad un tasso di interesse contrattuale che potrà essere fisso o variabile, a seconda che si scelga di agganciare l’andamento del costo delle risorse utilizzate agli indicatori di mercato. Sulla base di una prima analisi è evidente che, in linea generale, risulti più conveniente per l’impresa ricorrere all’aumento di capitale proprio o all’autofinanziamento piuttosto che contrarre finanziamenti esterni. Quest’ultimi, come visto, presentano infatti notevoli oneri. Tuttavia adesso vedremo come le valutazioni siano diverse quando entra in gioco la c.d. variabile fiscale. 5.1.2. La variabile fiscale nella scelta debt/equity La relazione tra le variabili fiscali e le scelte di finanziamento sono probabilmente quelle più critiche ed alle quali deve essere prestata maggiore attenzione. La struttura della tassazione del reddito d’impresa prevede, infatti, in linea generale (e con alcune limitazioni che vedremo), la deducibilità della remunerazione del capitale di credito, ma non del capitale proprio, con la conseguente creazione di un “vantaggio fiscale” per il debito. In altri termini la scelta tra debito e capitale di rischio viene influenzata da considerazioni che tengono conto del risparmio d’imposta ottenibile grazie al diverso regime tributario cui sono soggetti i dividendi rispetto agli interessi. Nel caso in cui si 72 effettua un apporto di capitale di rischio, la remunerazione delle partecipazioni al capitale, ossia il dividendo distribuito dalla società al socio, non è deducibile dal reddito imponibile della società che lo eroga. Al contrario, nel caso di finanziamento tramite costituzione di un prestito, gli interessi passivi che ne derivano rappresentano un costo da imputare in bilancio. Nel sistema italiano la complessità della normativa ha creato dei veri e propri ordinamenti di convenienza fiscale delle fonti di finanziamento che, unite ad elementi specifici di governance (la tradizionale avversione all’allargamento della compagine azionaria), hanno reso la propensione per la scelta dell’indebitamento rispetto all’apporto di capitale proprio alla base delle scelte finanziarie delle imprese di dimensioni medio piccole. L’autofinanziamento è sempre stata infatti la fonte privilegiata, proprio per le caratteristiche di “autonomia” che lo contrappongono al rapporto creditizio o all’allargamento della partecipazione azionaria. Prima della riforma fiscale, intervenuta a limitare gli arbitraggi fiscali a favore del debito, nella logica della pianificazione fiscale la leva finanziaria aveva un ruolo di primo piano: attraverso opportune operazioni aziendali, infatti, era possibile ottenere arbitraggi fiscali favorevoli. Gli operatori economici strutturavano il patrimonio aziendale in modo da combinare il mix tra capitale proprio e capitale di indebitamento al solo fine della deducibilità fiscale. Ciò determinava che il capitale investito dal socio qualificato veniva remunerato per la maggior parte con la corresponsione di interessi attivi anziché dividendi; per la società partecipata, simmetricamente, si trasformavano dividendi da distribuire (non deducibili) in interessi passivi deducibili. È evidente che il ricorso alla capitalizzazione sottile (thin capitalization), in favore dell’indebitamento verso il medesimo soggetto finanziatore, era tanto più conveniente quanto maggiore era la differenza tra il risparmio d’imposta ad aliquota ordinaria (calcolato sull’aliquota vigente dell’imposta societaria), conseguito dalla società finanziata che deduceva interessi passivi, e l’aliquota, spesso ridotta, applicabile ai corrispondenti interessi attivi riferibili al socio finanziatore. Successivamente con la riforma del 2003 sono stati introdotti diversi strumenti volti a limitare la deducibilità degli interessi passivi. Nonostante ciò ancora oggi la variabile fiscale porta a propendere per il debt quale forma di finanziamento dell’attività aziendale. 5.1.3. Deducibilità fiscale degli interessi passivi Abbiamo visto sopra come la componente fiscale giochi un ruolo importante nella scelta debt/equity posto che la deducibilità fiscale degli interessi passivi rappresenta un vantaggio finanziario non indifferente per l’impresa. 73 Prima della riforma del 2003 gli interessi passivi erano deducibili, ai sensi dell’art. 63 del vecchio TUIR, per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e di altri proventi che concorrevano a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. In vigenza di tale sistema, al fine di incentivare le imprese a ridurre la sottocapitalizzazione era stata introdotta la Dual Income Tax (DIT), una normativa volta ad incentivare l’apporto di nuovo capitale nell’impresa, e ridurre così la disparità di trattamento tra capitale di debito e di rischio23. Tale normativa prevedeva l’imposizione ad un’aliquota ridotta del 19% per la parte corrispondente alla remunerazione ordinaria della variazione in aumento del capitale investito rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio precedente. Il tasso di remunerazione ordinaria era determinato sulla base dei rendimenti dei titoli obbligazionari, pubblici e privati, aumentati fino ad un massimo di 3 punti percentuali. Per le società quotate l’aliquota era poi ulteriormente ridotta al 7%, mentre la rimanente quota di reddito continuava ad essere tassata secondo l’aliquota ordinaria. Un ulteriore intervento normativo mirante a disincentivare la sottocapitalizzazione delle imprese è stata la cd. Legge Prodi (art. 7 del DL 323/96). Scopo della Legge Prodi è quello di penalizzare l’imprenditore che, in luogo di apportare capitale di rischio nell’impresa e riceverne un compenso sotto forma di dividendo, fornisce gli stessi capitali ad un istituto di credito in deposito a garanzia di un prestito che lo stesso istituto eroga alla sua impresa. L’imprenditore continua, in questo modo, a percepire redditi dai titoli in deposito, mentre la società finanziata paga gli interessi passivi sul finanziamento (deducibili ai fini fiscali). La norma tende a scoraggiare simili comportamenti stabilendo che sui proventi derivanti da depositi di denaro, di valori mobiliari e di altri titoli diversi dalle azioni e titoli similari sia applicata una ritenuta del 20%, indipendentemente da ogni altro prelievo previsto per questa tipologia di reddito. Sono soggetti a questa norma le persone fisiche che non esercitano attività d’impresa (o che esercitano attività d’impresa, ma i beni depositati a garanzia non sono relativi all’impresa), le società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 del TUIR, gli enti non commerciali e i soggetti non residenti senza stabile organizzazione in Italia che prestano garanzia a favore di imprese residenti in Italia. La legge Prodi risulta per certi aspetti penalizzante e per altri facilmente eludibile. Infatti la normativa colpisce anche le garanzie prestate da terzi che non presentano rapporti partecipativi nell’impresa finanziata, non richiedendo nessun rapporto minimo di partecipazione nella società 23 La Circolare Ministeriale n. 269/E del 5 novembre 1996 precisava in proposito che “tali disposizioni mirano a contrastare un diffuso fenomeno elusivo praticato per trasformare utili d’impresa, tassabili nella misura ordinaria ai fini dell’imposta personale, in interessi od altri proventi soggetti ad una tassazione in forma di imposta cedolare più contenuta”. 74 finanziata da parte del soggetto depositante (ad esempio il coniuge che pone in garanzia un proprio deposito amministrato per consentire all’impresa intestata all’altro coniuge di usufruire di un finanziamento bancario). Inoltre la norma riguarda solamente le garanzie reali, tralasciando quelle personali e non prevede nulla in tema di finanziamenti soci. La riforma fiscale del 2003 è intervenuta in maniera più radicale sul fenomeno della sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Fino alla recente Finanziaria 2008 la deducibilità degli interessi passivi era regolata infatti attraverso un sistema articolato che si componeva di tre norme gerarchicamente ordinate: a) l’articolo 98 del TUIR - thin capitalization rule: le disposizioni anti thin capitalization prevedevano, in caso di finanziamento erogato da un socio qualificato o da una sua “parte correlata” o garantito dal socio, l’individuazione di limiti quantitativi oltre i quali gli oneri finanziari non erano considerati fisiologici. In tale ipotesi si assisteva ad una riqualificazione degli interessi, i quali assumevano, da un punto di vista fiscale, le caratteristiche degli utili, in quanto venivano considerati una remunerazione di capitale di rischio e non di finanziamento. Pertanto gli interessi passivi risultavano indeducibili per la società finanziata e corrispondentemente gli interessi attivi, riqualificati in dividendi, erano esclusi da tassazione per il socio qualificato percettore o per la sua parte correlata. Senza entrare nello specifico della norma, occorre ricordare che il livello di indebitamento si considerava fisiologico se non superava di quattro volte il patrimonio netto contabile della società di pertinenza dei soci qualificati e delle loro parti correlate; b) l’articolo 97 del TUIR – pro rata patrimoniale: tale norma prevedeva un pro rata patrimoniale di indeducibilità degli interessi passivi specificamente riferito all’ipotesi in cui l’impresa possedeva delle partecipazioni che si qualificano per l’esenzione di cui all’articolo 87 TUIR (regime pex). In particolare, tale norma trovava applicazione ogni qual volta il valore di libro delle partecipazioni esenti era superiore al valore del patrimonio netto contabile dell’impresa. Il pro-rata di indeducibilità veniva calcolato sulla base del seguente rapporto: ______Partecipazioni esenti – PN_____ * 100 Totale attivo – PN – Debiti Commerciali c) l’art. 96 del TUIR – pro rata generale: infine tale disposizione ammetteva in deduzione dal reddito “la quota di interessi passivi che residua dopo l’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 97 e 98 del TUIR per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che 75 concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi” . Come prima anticipato la Finanziaria 2008 ha rivoluzionato il sistema delle deducibilità degli interessi passivi. Dal 1° gennaio 2008, infatti, per le imprese con esercizio coincidente con l’anno solare, la regola sulla deduzione degli interessi passivi è stata racchiusa nel nuovo art. 96 TUIR che prevede una limitazione alla deducibilità per la parte degli oneri finanziari e degli oneri e proventi assimilati nei limiti del 30% del risultato operativo lordo (ROL) della società. Accanto all’art. 96 citato vi sono poi altre tre norme che riguardano gli interessi: a) l’art. 1, comma 34, della Finanziaria 2008 che prevede l’applicazione di una franchigia di deducibilità pari a 10.000 € e 5.000 € rispettivamente per il primo e per il secondo periodo di applicazione della nuova norma; b) l’art. 102, comma 7, ultimo periodo del TUIR che prevede che la quota degli interessi impliciti desunti dal contratto di leasing è soggetta alle regole del citato art. 96; c) l’art. 172, comma 7, ultimo periodo del TUIR che introduce regole che limitano il riporto a nuovo delle eccedenze nel caso di operazioni di fusione. Tornando alla norma base, ossia all’art. 96 TUIR, la procedura per calcolare la quota di interessi indeducibili presuppone due fasi: a) in una prima fase occorre individuare il totale degli oneri finanziari interessati dalla norma a cui corre aggiungere gli interessi impliciti relativi al canone di locazione finanziaria (art. 102, comma 7, TUIR). La quantificazione di questa componente deve avvenire sulla base delle informazioni desumibili dal contratto di locazione finanziaria; b) nella seconda fase, l’importo così determinato deve essere scomposto in sei componenti. Le sei componenti sono: 1) interessi capitalizzati: la legge prevede che dal conteggio siano esclusi gli interessi che sono imputati ad incremento dei costi dei beni; 2) interessi comunque indeducibili: il secondo passaggio consiste nell’individuazione degli interessi comunque indeducibili per applicazione di altre norme di legge (ad esempio gli interessi sui prestiti obbligazionari che eccedono il limite massimo). Dato che l’art. 96, comma 6, prevede l’applicazione prioritaria di queste altre disposizioni, questo importo va a decurtare gli interessi da assoggettare al calcolo percentuale previsto dalla nuova regola; 3) interessi comunque deducibili: la parte degli interessi che rimane comunque deducibile a prescindere dal rapporto operativo lordo è pari all’ammontare di interessi attivi, proventi finanziari e relativi oneri assimilati; 76 4) quota deducibile: l’importo degli oneri finanziari che residua dopo i calcoli precedenti deve essere posto a confronto con il 30% del ROL. Fino a questo ammontare, siamo in presenza di un importo deducibile dal reddito; 5) franchigia: nella disposizione transitoria è previsto che per il primo biennio di applicazione della norma il limite di deducibilità venga aumentato da una specifica franchigia. Trattando del periodo 2008, quindi, la franchigia sarà pari a 10.000 €; 6) eccedenza indeducibile: l’eventuale importo che residua ulteriormente dopo l’applicazione dei calcoli precedenti rappresenta la quota di oneri finanziari indeducibile. Si tratta dell’eccedenza che potrà essere riportata nei periodi d’imposta successivi. Per le società in consolidato fiscale, le eccedenze di interessi indeducibili (salvo quelle sorte prima dell’opzione) si trasferiranno nel gruppo e potranno essere compensate, dalla controllante, con eccedenze negative di altre società; è il caso degli interessi della holding, in genere dotate di ROL pari a zero. Per evitare fenomeni elusivi, il riporto delle eccedenze in caso di fusione e di scissione sarà soggetto alle condizioni previste per il riporto delle perdite. Facciamo ora un esempio concreto di applicazione della normativa sulla deducibilità degli interessi nel 2007 e nel 2008. L’esempio che segue considera una società di capitali media che presenta i seguenti valori di conto economico: Valore della produzione 10.000.000 Costi della produzione 9.400.000 (di cui ammortamenti 250.000) Differenza tra valore e costi della produzione Risultato operativo lordo 600.000 Interessi passivi netti 320.000 Utile lordo 280.000 Variazioni fiscali nette 50.000 Imponibile IRES 330.000 IRES 33% 108.900 (600.000+250.000)=850.000 L’esempio che segue presenta una simulazione del carico fiscale che graverà sulla società di capitali, applicando le nuove regole in vigore dal 2008, in tre ipotesi In confronto va fatto sempre con l’IRES del 2007, in quanto si è mantenuto costante l’utile lordo prima delle imposte e le variazioni fiscali diverse da quelle per interessi, modificando la sola struttura. a) indebitamento costante: nel primo caso si è ipotizzato che la società mantenga l’indebitamento costante rispetto alla situazione del 2007, e così pure la struttura del conto economico. I calcoli evidenziano come, per una società con questa 77 b) c) tipologia di indebitamento, e, conseguentemente, con questo carico di oneri finanziari, l’abbassamento dell’aliquota dal 33% al 27,5% sia controbilanciato dall’indeducibilità degli oneri finanziari. Il risultato finale è un importo di IRES analogo a quello con le norme del 2007. indebitamento crescente: la seconda ipotesi si base invece su un elevato incremento degli oneri finanziari (ad esempio a causa di nuovi investimenti finanziati con debito bancario), il cui importo è coperto dall’aumento del risultato operativo (differenziale tra valore e costi della produzione), con l’utile lordo finale che resta immutato rispetto alla prima ipotesi del 2007. Si è ipotizzato che il risultato operativa comprenda maggiori ammortamenti (nuovi investimenti). La crescita degli interessi genera una forte indeducibilità, in quanto solo il 30% del maggior risultato operativo lordo può essere utilizzato per coprire gli oneri finanziari. indebitamento ridotto: la terza situazione prevede una forte riduzione degli oneri finanziari a fronte di a una corrispondente diminuzione del ROL . Anche in questo caso l’utile finale resta invariato rispetto al 2007. Gli interessi diventano tutti deducibili, per effetto del fenomeno contrario a quello indicato nell’ipotesi precedente (la soglia di deduzione si riduce solo del 20% della diminuzione del ROL). Si sfrutta la riduzione dell’aliquota IRES (l’imposta scende di un sesto rispetto a quella derivante dalle norme 2007). Conto economico Valore della produzione Costi della produzione Indebitamento costante 10.000.000 Indebitamento in aumento 10.000.000 Indebitamento in diminuzione 10.000.000 9.400.000(di cui ammortamenti: 250.000) 600.000 9.100.000 (di cui ammortamenti: 500.000) 900.000 9.600.000 ( di cui ammortamenti: 200.000) 400.000 (900.000+500.000)= 1.400.000 420.000 (400.000+200.000)= 600.000 120.000 Differenza tra valore e costi della produzione Risultato (600.000+250.000) operativo lordo = 850.000 Risultato 255.000 operativo lordo X 30% 78 Interessi passivi netti Utile lordo Variazioni fiscali nette (auto, rappresentanza ecc.. ) Interessi indeducibili Imponibile Ires 320.000 620.000 180.000 280.000 50.000 280.000 50.000 280.000 50.000 65.000 200.000 0 395.000 530.000 330.000 Ires X 27,5% 108.625 145.750 90.750 CAPITOLO VI 6.1. LE HOLDING DI FAMIGLIA ED I TRUST 6.1.1. Holding di famiglia 79 Come detto più volte il tax planing ha la funzione di rendere possibile l’ottenimento e lo sfruttamento dei risparmi d’imposta, ma provvede anche ad una razionale distribuzione nel tempo dei flussi finanziari. La scelta dello strumento più adatto dipende da molte variabili che possono non essere solo di carattere fiscale di modo che, fatta una scelta finalizzata ad obbiettivi diversi da quelli fiscali, questa possa poi essere coordinata ed adottata in modo da ottenere anche una razionalizzazione del debito d’imposta. E’ possibile che alla base di un progetto di pianificazione fiscale ci sia la volontà di conservare e proteggere il patrimonio di famiglia affinché i comportamenti dei singoli membri della famiglia non possano mettere in pericolo la ricchezza accumulata, per differenziare e localizzare opportunamente gli investimenti al fine di ottenere il massimo rendimento minimizzando i costi, soprattutto fiscali, sia sul reddito prodotto dalla gestione del patrimonio, sia sulla circolazione all’interno della famiglia dei singoli beni facenti parte del patrimonio. La vita dell’impresa familiare segue di solito tre fasi di sviluppo che sono così caratterizzate: a) inizialmente il fondatore dirige l’azienda concentrando nella sua persona la figura di proprietario e amministratore; può essere costituita una società di persone tra membri della famiglia; b) in un secondo momento si assiste all’ingresso di manager esterni, che contribuiscono allo sviluppo, anche organizzativo dell’azienda; si ha in questo momento il passaggio da una società di persone ad una piccola società di capitali (una Srl); c) l’impresa si ingrandisce e necessita di nuovi capitali, magari con l’ingresso di nuovi soci che, solitamente, comporta il passaggio da Srl a S.p.A., con successiva divisionalizzazione dell’impresa e riorganizzazione delle funzioni aziendali. Si delinea, di conseguenza, la necessità di ripensare l’intero sistema aziendale in un’ottica di medio – lungo periodo. La ristrutturazione sarà basata non solo su aspetti economici, ma anche personali, come quelli legati al trasferimento generazionale. Uno strumento utilizzabile in questi casi è la costituzione di una holding di famiglia che abbia all’attivo partecipazioni nelle società operative. Lo scopo può essere quello di allontanare tutti i conflitti dalle società operative, ovvero di coinvolgere azionisti terzi in queste mantenendo un ambito di controllo dove vi siano solo i familiari o ancora di preparare a favorire il ricambio generazionale. Le holding permettono una blindatura dell’impresa familiare, rendono più facile il reperimento delle risorse finanziarie, chiariscono i confini tra ambito proprietario e 80 ambito imprenditoriale-manageriale. Nel sistema azienda-famiglia sono individuabili tre sottosistemi ai quali occorre contrapporre tre sistemi di obiettivi. SISTEMA OBIETTIVI FAMIGLIA COESIONE PATRIMONIO RITORNO SUL CAPITALE AZIENDA EFFICIENZA OPERATIVA Questi tre sistemi sono integrati, ma relativamente indipendenti in quanto ciascun sistema persegue obiettivi differenti. In un tale contesto l’interposizione di una holding di famiglia a gestione professionale permette di “sterilizzare” il rapporto tra la famiglia e le società operative, affinché queste non siano colpite dalle vicende (come il passaggio generazionale o liti interne) che possono colpire la proprietà. Questa configurazione porta ad una serie di vantaggi finanziari, societari e fiscali. Vantaggi finanziari: a) razionalizzazione della struttura finanziaria: la holding può distribuire e raccogliere i fondi necessari tra le società del gruppo, senza dover ricorrere ai soci ogni volta che ci sia la necessità di trasferire risorse da una società all’altra; b) razionalizzazione della distribuzione degli utili: la holding raccoglie gli utili delle controllate e li distribuisce ai soci in modo unitario, dopo aver valutato le esigenze finanziarie dell’intero gruppo; c) accentrando in capo alla holding lo svolgimento di alcuni servizi comuni a tutte le società del gruppo potrebbe realizzarsi una riduzione dei costi di gestione e amministrativi. Vantaggi societari: a) razionalizzazione del controllo societario: attraverso la holding si crea un unico raggruppamento stabile di soci, posto indirettamente in capo a tutte le società; b) in caso di controversie tra i membri della famiglia non si hanno ripercussioni negative sulla gestione operativa; c) viene favorito il passaggio generazionale dell’impresa di famiglia. Vantaggi fiscali: i vantaggi fiscali più spiccati sono connessi alla tassazione dei capital gains e dei dividendi. a) regime fiscale dei dividendi: esclusione del 95% dall’imponibile dei dividendi provenienti da società non residenti in paradisi fiscali, per la holding e tassazione limitata al 49,72% per l’imprenditore che ha una partecipazione qualificata o limitata al 12,5% per i membri della famiglia che detengono una partecipazione 81 non qualificata; b) regime fiscale dei capital gains: esenzione all’95% per i capital gains se sono rispettate le condizioni per la participation exemption (iscrizione della partecipazione nelle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso; periodo di possesso pari almeno a 12 mesi; residenza fiscale in uno Stato che non sia a fiscalità privilegiata; esercizio di attività commerciale della società partecipata) per la holding e tassazione limitata al 49,72% per il socio (l’”imprenditore”) che ha una partecipazione qualificata o limitata al 12,5% per i membri della famiglia che detengono una partecipazione non qualificata; c) possibilità di optare per la tassazione consolidata di gruppo (di cui si tratterà più oltre); d) possibilità di pianificare il passaggio generazionale e limitare le imposte sui trasferimenti; e) possibilità di intestare alla holding nuove partecipazioni utilizzando, per finanziare tali acquisti, i redditi accumulati nella holding senza che questi siano prima distribuiti alle persone fisiche, e quindi senza che siano tassati fino all’ultimo anello della catena societaria. I punti critici di una struttura di tal genere possono essere rappresentati da elevati costi di struttura e di gestione. Inoltre le holding potrebbero ricadere nell’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo24, finalizzata ad evitare l’abuso degli schermi societari. Nell’ambito della pianificazione fiscale è sempre importante, quindi, un’opportuna analisi costi-benefici, che prenda in esame tutti gli aspetti della gestione del gruppo che fa capo alla holding di famiglia. Vengono qui di seguito esposte alcune esemplificazioni dei possibili arbitraggi fiscali che possono essere posti in essere attraverso una holding di famiglia. La famiglia Rossi è titolare di alcune aziende di famiglia, che, da due generazioni hanno un buon posizionamento nel settore del tessile. Il gruppo si è pian piano ingrandito, tanto da essere attualmente composto da diverse società di capitali che corrispondono ad altrettante divisioni del sistema produttivo. I soci sono: la moglie del fondatore, l’ing. Rossi, la quale detiene, nella varie società, partecipazioni pari al 34%, e i figli Gianni e Gionni Rossi, i quali detengono entrambi partecipazioni pari al 33%. L’attuale assetto societario è, pertanto, il seguente: 24 Art. 30 L. 724/97. 82 Le partecipazioni dei membri della famiglia Rossi, essendo partecipazioni al capitale superiori al 25%, sono tutte qualificate. Ipotizziamo che: a) la ROSSI SETA Spa distribuisca un dividendo di 30.000 Euro; b) la ROSSI CASHMERE Spa distribuisca un dividendo di 60.000 Euro; c) la ROSSI COTTON Spa distribuisca un dividendo di 10.000 Euro. Ad un certo punto la famiglia Rossi decide di vendere a terzi le tre società, e realizza una plusvalenza di 200.000 Euro su ogni società. La situazione personale dei soci sarà la seguente: PLUSVALENZE realizzate Importo imponibile dei capital gains ALIQUOTA MARGINALE (49,72% del totale ex personale del socio Tassazione subita dai capital gains25 81.600 43% 35.088 79.200 43% 34.056 79.200 43% 34.056 relativa al reddito art. 68, c. 3 Tuir)) Sig.ra Rossi (68.000+68.000+68.000) = 204.000 Gianni Rossi (66.000+66.000+66.000) = 198.000 Gionni Rossi (66.000+66.000+66.000) = 198.000 Proviamo a vedere se l’interposizione di una holding di famiglia possa abbassare il carico fiscale dei membri della famiglia Rossi in relazione alle partecipazioni nelle società del gruppo. L’assetto societario potrebbe diventare il seguente a) tassazione al livello della holding I dividendi di 30.000, 60.000, 10.000 Euro in capo alla holding saranno tassati per il 5% all’aliquota del 27,5%, ex art. 89, comma 2, Tuir [(100.000*5%) * 27,5%] = Euro 1.375. Quando le società saranno vendute a terzi la holding realizzerà un capital gain di 600.000 Euro, che sarà tassato per il 5% all’aliquota del 27,5%, ex art. 87, comma 1, Tuir [(600.000 * 5%) *27.5%] = Euro 8.250 25 Si veda la nota precedente. 83 b) tassazione al livello dei soci DIVIDENDO dalla holding Importo imponibile dei dividendi ALIQUOTA MARGINALE (49,72% del totale ex art. personale del socio Tassazione subita dai soci sui dividendi26 43% 27% 38% 5.848 3.564 5.016 Importo imponibile ALIQUOTA MARGINALE (49,72 relativa al reddito Tassazione subita dal provento27 % del totale ex art. personale del socio relativa al reddito 47, c. 1 Tuir) Sig.ra Rossi Gianni Rossi Gionni Rossi 34.000 33.000 33.000 PROVENTO DA LIQUIDAZIONE 13.600 13.200 13.200 47, c. 1 Tuir) Sig.ra Rossi Gianni Rossi Gionni Rossi 204.000 198.000 198.000 81.600 79.200 79.200 43% 43% 43% 35.088 34.056 34.056 La semplificata struttura societaria dell’esempio rende evidente l’elevato risparmio di imposta che si ottiene al livello della holding. Effettuando la comparazione tra il carico fiscale sopportato dalla holding e quello sopportato dai soci, appare evidente come in una struttura societaria più complessa, in cui una famiglia si trovi a capo di un articolato gruppo di società, (per inciso anche laddove residenti all’estero), l’interposizione di una holding sia in grado di “sterilizzare” l’effetto fiscale delle operazioni societarie sui dividendi e sui capitali gains; la holding, infatti, razionalizza l’erogazione di dividendi alla famiglia, dopo averli raccolti dalle società operative controllate, considerando le specifiche esigenze di autofinanziamento. 6.1.2. Il trust Un altro strumento tipico di pianificazione fiscale (ma non solo) è costituito dal trust. 26 Per esigenze di semplicità si applica l’aliquota marginale del 43% come se fosse un’aliquota proporzionale. 27 Si veda la nota precedente. 84 Il trust è un istituto tipico della civiltà anglosassone che può assumere nella pratica forme diverse e variegate delle quali, di volta in volta, occorre individuare e valutare le peculiarità. In Italia il trust ha trovato riconoscimento giuridico attraverso la L. 364/1989, recante la ratifica della Convezione dell’Aja. Sul piano civilistico si ricorda che sono denominati trust i rapporti giuridici istituiti da una persona, detta disponente o costituente (o settlor) con atto inter vivos o mortis causa, qualora alcuni beni o diritti siano stati posti sotto il controllo di un amministratore o un affidatario (trustee), nell’interesse di un terzo beneficiario (o dello stesso disponente) ovvero per una fine specifico. Aspetto caratteristico del trust è quello di essere costituito con un negozio unilaterale, con collegati uno o più atti dispositivi, in base al quale, mentre la titolarità del diritto di proprietà è piena in capo al trustee, l’esercizio di tale diritto avviene secondo le modalità e gli scopi indicati nell’atto costitutivo. I beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto di esso, ma costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee stesso, il quale deve rendere conto di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge scelta dal costituente o che ha più stretti legami con il trust. I beni conferiti nel trust non possono, pertanto, essere escussi dai creditori del trustee, del disponente o del beneficiario (ma possono essere aggrediti dai creditori del trust stesso e ciò è molto rilevante sotto il profilo fiscale). A ben vedere, il trust può essere visto come una particolare forma di “patrimonio separato”. Con l’espressione patrimonio separato s’intende descrivere quella situazione per la quale una determinata massa di beni viene diversificata dal resto del patrimonio del soggetto, per essere destinata ad assolvere ad una peculiare funzione. Tale definizione evidenzia la configurazione di una separazione non soltanto quantitativa del patrimonio, ma anche qualitativa in quanto la destinazione ad uno scopo particolare modifica l’intera fisionomia della massa separata, con implicazioni inevitabili sul regime giuridico applicabile. In questo senso, infatti, la disciplina speciale dei patrimoni separati prevede, da un lato, vincoli - per il caso in cui il patrimonio debba essere trasferito dal suo titolare per scopi diversi da quello impresso con la destinazione -, e, dall’altro, pone limiti (ai creditori che intendono aggredire i beni costituenti il patrimonio separato). Più precisamente i creditori del patrimonio separato prevalgono su quelli ordinari, ai quali è di fatto imposto di attendere che si verifichi la condizione che fa venire meno le separazione, affinché possano agire per vedere soddisfatti i propri crediti. Nel nostro Ordinamento viene considerato un esempio di patrimonio separato il fondo patrimoniale dei coniugi di cui all’art. 167 e segg. c.c., dove il patrimonio personale dei coniugi, sebbene in misura diversa a seconda del regime patrimoniale prescelto, risponde 85 comunque per le obbligazioni contratte al fine di soddisfare i bisogni della famiglia esuberanti la capienza del fondo stesso. Come anticipato, l’Italia attraverso la L. 364/1989, recante la ratifica della Convezione Aja, ha recepito il trust nel proprio ordinamento in punto di riconoscimento giuridico dei suoi effetti. A ciò tuttavia fino al 2006 non ha fatto seguito l’adozione di specifiche disposizioni attuative civilistiche e fiscali. La Finanziaria 2007 per la prima volta ha dettato una disciplina fiscale per il trust. In particolare con la Finanziaria citata si è modificato l’art. 73 TUIR prevedendo espressamente che i trust sono soggetti passivi IRES in quanto enti titolari di autonoma capacità contributiva. E’ prevalsa dunque la tesi che vuole il trust come un soggetto autonomo da un punto di vista tributario e non già come un’entità sempre e comunque “trasparente”. Si applicano pertanto al trust gli obblighi previsti per i soggetti IRES quale quello di dotarsi di un codice fiscale, di presentare annualmente la dichiarazione dei redditi, di avere (se esercita un’attività commerciale) una propria partita IVA, di adempiere agli obblighi formali e sostanziali relativi all’IRAP. Gli adempimenti tributari del trust sono assolti dal trustee. I trust sono inoltre obbligati a tenere le scritture contabili secondo le disposizione del DPR 600/1973. Ai fini delle imposte dirette, il legislatore distingue tra i trust aventi beneficiari individuati (trust trasparenti) e quelli senza beneficiari individuati (trust opachi). Il trust è opaco quando i relativi beneficiari non sono individuati ed in questo caso i redditi sono imputati direttamente al trust. Il trust trasparente si ha quando l’atto istitutivo (o documenti successivi) del trust individui i beneficiari dello stesso. In questo, ai fini fiscali, i redditi conseguiti dal trust sono imputatiti a quest’ultimi in proporzione alla quota di partecipazione di ciascuno o, se non specificata, in parti uguali (art. 73, comma 2, ultimo periodo del TUIR). Solamente in questo caso, quindi, il trust può essere riguardato come un soggetto trasparente ai fini fiscali. Sulla base di quanto previsto dal novellato art. 44, comma 1, lett. g-sexies) i redditi così imputati ai beneficiari sono considerati per quest’ultimi redditi di capitale. La norma ricalca l’art. 5 TUIR relativo alla tassazione per trasparenza delle società personali. Ai fini del tax planing è evidente che il previsto doppio binario tassazione in capo al trust – tassazione in capo ai soci deve essere attentamente valutato al fine di prevenire ipotesi di doppia imposizione: si pensi ad esempio al trust che investe i propri beni per trarne un reddito e che, inoltre, attribuisce ai beneficiari anche una rendita vitalizia. Il beneficiario rischia di scontare una doppia tassazione: sul reddito prodotto dal trust e sulla rendita vitalizia imputatagli. Ovviamente, data la flessibilità propria del trust, è possibile che esso sia 86 contemporaneamente trasparente e opaco quando l’atto costitutivo prevede, ad esempio, che parte del reddito di un trust sia accantonata a capitale e parte sia invece attribuita ai beneficiari. In tale ipotesi la parte del reddito accantonato verrà tassato in capo al trust – con assoggettamento ad IRES – mentre quello attribuito ai beneficiari, ricorrendone i presupposti, verrà imputato per trasparenza a questi ultimi che, quindi, provvederanno ad assoggettarlo alle imposte sul reddito. Con riguardo al trust particolarmente delicata risulta essere la questione della sua residenza. La residenza, invero, è particolarmente rilevante per il trust in quanto nel caso di trust residente tutti i suoi redditi, ovunque prodotti, sono imponibili in Italia, mentre per il trust non residente l’imponibilità in Italia trova ingresso solo per i redditi prodotti nel territorio dello Stato, secondo il disposto dell’art. 23 TUIR. Per evitare che il contribuente ottenga un risparmio d’imposta localizzando un trust in paese a fiscalità privilegiata il novellato art. 73, comma 3, TUIR ha previsto due presunzioni di residenza dei trust esteri: a) in particolare è prevista una presunzione legale relativa di residenza nel territorio dello Stato del trust se almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari sono fiscalmente residenti nel territorio nazionale. La presunzione opera solo se i trust sono istituiti in paesi diversi di quelli appartenenti alla c.d. white list, per i quali è attuabile lo scambio di informazioni; b) inoltre si considerano residenti in Italia i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli compresi nella white list quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente effettua, in favore del trust, un’attribuzione che comporti il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi. Con riguardo alle imposte indirette si precisa quanto segue. L’atto costitutivo del disponente – se non prevede anche il trasferimento dei beni nel trust, destinato a realizzarsi in una fase successiva, ed è redatto con atto pubblico o scrittura privata autenticata – deve essere assoggettato all’imposta di registro in misura fissa, quale atto privo di contenuto patrimoniale. Il trust è tuttavia soggetto anche all’imposta di donazione. L’atto dispositivo con il quale il disponente vincola i beni in trust è infatti un negozio a titolo gratuito. In passato, tuttavia, era opinione generalmente condivisa che il trasferimento per atto tra vivi dal settlor al trustee dovesse scontare l’imposta di registro e non quella di donazione, trattandosi di atto gratuito non compiuto con spirito di liberalità, bensì finalizzato all’interesse del disponente alla costituzione del trust. Questo orientamento era stato sostanzialmente recepito nel DL 262/2006 (art. 6) che, tuttavia, è stato 87 abrogato dalla L. 286/2006 che nel ripristinare l’imposta sulle successioni e donazioni ha assoggettato a tale tributo anche gli atti traslativi di beni e diritti a titolo gratuito e quelli costitutivi di vincoli di destinazione. Non è più dubbio quindi che il trasferimento dei beni dal settlor al trustee è in ogni caso soggetto all’imposta in esame in misura proporzionale. In particolare ai fini delle applicazioni delle aliquote, che in tale imposta risultano differenziate in funzione del rapporto di parentela e affinità, occorre fare riferimento al rapporto intercorrente tra il disponente e il beneficiario e non a quello tra disponente e trustee. Nel trust di scopo, invece, che è gestito per realizzare un certo obiettivo, in cui non vi è indicazione del beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con aliquota dell’8% prevista per i vincoli di destinazione a favore di altri soggetti. Dunque da un punto di vista fiscale la costituzione del trust è fortemente penalizzata. Infine si ricorda che il trust è assoggettato a tassazione indiretta solo in sede di costituzione del vincolo e non anche al momento della distribuzione al beneficiario. In tal modo la devoluzione dei beni vincolati nel trust ai beneficiari non costituisce un ulteriore presupposto impositivo, in quanto i beni hanno già scontato l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della costituzione del trust. 6.2. SUCCESSIONE NELL’IMPRESA FAMILIARE 6.2.1. L’impresa familiare L’impresa familiare è disciplinata dall’art. 230-bis c.c. a norma del quale per impresa familiare si intende un’impresa in cui collaborano “il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo” (cioè fino ai cugini carnali e pronipoti). Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza affinché si possa parlare di impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento da parte del partecipante di un’attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi). Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di un’attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà o, addirittura, un negozio giuridico. Poiché l’art. 230-bis fa riferimento all’impresa, senza ulteriori specificazioni, deve ritenersi che l’impresa familiare sia configurabile sia in presenza di impresa commerciale ex art. 2082 c.c., sia di impresa agricola ex art. 2135 c.c. ed 88 indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, che può essere piccola, media o grande. Nell’impresa familiare la qualifica di imprenditore spetta esclusivamente a chi ha la gestione ordinaria della stessa, mentre i familiari partecipanti si limitano ad una prestazione lavorativa. La dottrina attribuisce dunque natura individuale all’impresa familiare, ravvisando nell’imprenditore l’unico titolare del potere gestorio, non solo con riferimento agli atti di ordinaria gestione, ma anche a quelli di natura straordinaria. Ciò nonostante quanto previsto dall’art. 230-bis a mente del quale “le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessione dell’impresa sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa stessa”. In caso di cessione a terzi dell’impresa familiare, l’art. 230-bis c.c. assegna ai partecipanti un diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda. Pertanto, il titolare quando intende trasferire l’azienda deve comunicarlo ai partecipanti, indicando, oltre al nome dell’acquirente, le condizioni e il prezzo di cessione. A tali condizioni il partecipante deve essere preferito rispetto al terzo acquirente. Nel caso in cui più partecipanti intendono avvalersi del diritto di prelazione loro riconosciuto dalla legge ha la meglio il titolare della maggiore partecipazione. La prospettata natura individuale dell’impresa familiare trova conferma anche nella disciplina tributaria, atteso che è solo in capo al titolare dell’impresa che viene ravvisata la formazione del reddito d’impresa e la soggettività IVA, nonché tutti gli altri obblighi di natura fiscale conseguenti. Quanto alle imposte dirette va posto in evidenza che il reddito viene determinato in capo al titolare ed è oggetto ad imputazione tra ciascun collaboratore, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili, fermo restando il limite secondo cui almeno il 51% del reddito d’impresa prodotto deve rimanere in capo al titolare dell’impresa familiare (art. 5, comma 4, del TUIR)28. Ai sensi e per gli effetti del citato art. 5, comma 4, del TUIR l’imputazione dei redditi ai collaboratori (nel limite del 49%) è ammessa solo se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) i familiari partecipanti devono risultare nominativamente da atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore al periodo d’imposta, sottoscritta 28 L’imputabilità del reddito al titolare in misura almeno pari al 51% ha fatto sorgere dubbi di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto implicherebbe l’attribuzione a tale soggetto di redditi che, civilisticamente, apparterrebbero ai familiari. La Corte Costituzionale, tuttavia, ha respinto tali eccezioni rilevando che nelle imprese familiari l’imputazione di una quota del reddito a ciascun componente della famiglia è correlata alla partecipazione diretta di ognuno all’attività lavorativa e, quindi, alla sua incidenza sul conseguimento del profitto. Cfr. in tal senso Corte Cost. 6 luglio 1987 n. 251 e Corte Cost. 17 dicembre 1987, n. 555. 89 dall’imprenditore e dai familiari interessati (contrariamente a quanto avviene ai fini civilistici); b) la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore deve recare l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, durante il periodo d’imposta; c) ciascun familiare deve attestare, nella propria dichiarazione, di avere prestato la sua attività lavorativa nell’impresa in modo continuativo e prevalente. La normativa fiscale in questo caso è dettata con lo scopo di evitare che attraverso la normativa disciplinate l’impresa familiare possa essere splittato il reddito dall’imprenditore individuale per aggirare la progressività. Gli utili dell’impresa sono determinati in ragione dell’eventuale differenza positiva tra componenti positivi e negativi di reddito, deducendo previamente l’eventuale compenso per i beni immessi nell’azienda dai partecipanti. L’incremento è, invece, la risultante del confronto tra il valore dei beni aziendali al momento in cui il familiare è entrato a far parte dell’impresa familiare ed il valore dei beni stessi al momento del venir meno della partecipazione. Quanto al regime fiscale delle somme ricevute per effetto del diritto patrimoniale di partecipazione agli utili occorre tenere presente che, mentre per le società di persone, il reddito della società è imputato ai soci secondo il principio della trasparenza, nel caso delle imprese familiari non è un reddito d’impresa, imputato ai partecipanti come reddito omogeneo, ma vi è netta separazione tra reddito dell’imprenditore e reddito dei collaboratori. Il reddito dell’impresa familiare viene ripartito tra titolare e collaboratori nel periodo d’imposta in cui è conseguito. Il reddito del titolare costituisce reddito d’impresa, quello dei collaboratori costituisce invece reddito di partecipazione. Il criterio di riparto degli utili non vale per le perdite, perché, secondo le regole del codice civile, i collaboratori non partecipano alle perdite. 6.2.2. La successione nell’impresa familiare La successione nell’impresa familiare può chiaramente avvenire mediante un atto inter vivos (ossia, una cessione) ovvero mediante successione. La cessione potrà essere a titolo oneroso o gratuito. Ai fini delle imposte dirette la successione nell’azienda per causa di morte ovvero la cessione della stessa ai familiari a titolo gratuito non costituisce realizzo di plusvalenza ai sensi dell’art. 58, comma 1, TUIR. L’azienda viene assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. La cessione, dunque, non 90 ha effetti realizzativi ed i beni si trasferiscono al beneficiario che prosegue l’attività in regime di neutralità fiscale ai fini delle imposte sui redditi, senza quindi emersione di plusvalenze o minusvalenze fiscalmente rilevanti29. L’esenzione spetta anche quando a seguito dello scioglimento, entro cinque anni dall’apertura della successione, della società esistente tra gli eredi, la predetta azienda resti acquisita da uno solo di essi. Con riguardo a tale regime di esenzione vi sono tuttavia alcuni dubbi interpretativi in ordine alla possibilità di ricomprendere nel regime agevolativo in esame anche la cessione di quote di aziende. Al riguardo si propende per la soluzione negativa, posto che la norma riguarda l’azienda nella sua globalità, in vista delle prosecuzione dell’attività oggetto dell’azienda stessa da parte dei beneficiari. E’ da ricomprendere in detto ambito, invece, il trasferimento di un ramo d’azienda, sempre che tecnicamente organizzato ed idoneo a produrre autonomamente beni e servizi. Per effetto del citato art. 58, comma 1, TUIR l’assoggettamento a tassazione, che non avviene alla morte dell’imprenditore a all’atto di donazione, viene quindi rinviato al momento dell’eventuale cessione dell’azienda da parte degli eredi o del donatario (a terzi dunque). Qualora il donatario o l’erede effettui una successiva cessione a titolo oneroso, il trattamento fiscale della plusvalenza si differenzia a seconda che il soggetto cedente sia o meno imprenditore al momento della cessione: a) se il donatario o l’erede non ha esercitato l’attività d’impresa, la plusvalenza realizzata dà luogo ad un reddito diverso che viene tassato con il criterio di cassa; b) se il donatario o l’erede hanno continuato l’esercizio dell’attività d’impresa e, quindi, riveste lo status di imprenditore al momento della cessione, la stessa dà luogo ad una plusvalenza determinata ex art. 86 che concorre a formare il redito di impresa con il criterio di competenza. In tal caso dovrebbe risultare applicabile, laddove l’azienda sia posseduta da più di cinque anni, la tassazione separata ex art. 17 TUIR e, unicamente se il cedente continua a rivestire lo status di imprenditore dopo la cessione, il differimento della plusvalenza ex art. 86, comma 4, TUIR30. Ai fini delle imposte indirette, la cessione a titolo gratuito dell’azienda o la successione mortis causa scontano l’imposta sulle successioni e donazioni. Sono previste delle franchigie nelle seguenti misure: a) nel caso del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto, per ciascun beneficiario, vi è una franchigia fino a 1.000.000 di euro; b) nel caso dei fratelli e delle sorelle sul valore complessivo netto, per ciascun 29 Confrontare in tal senso Circolare n. 91/E del 2001. Ciò deriva da un principio basilare: il differimento della plusvalenza è agevolazione che compete nell’ambito delle imprese; mentre il criterio del passare del tempo che agevola le plusvalenze vale per tutti. 30 91 beneficiario, vi è una franchigia fino a 100.000 euro. Sulla parte eccedente le suddette franchigie l’imposta si applica nella misura del 4% nelle successioni a favore del coniuge e dei parenti il linea retta ovvero nella misura del 6% nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado. Il valore dell’azienda trasferita deve essere calcolato assumendo il valore complessivo dei beni e diritti che la compongono, al netto delle passività e senza tener conto dell’avviamento. Tuttavia, la Finanziaria per il 2007 ha disposto l’esenzione sia dall’imposta di donazione che dall’imposta di successione per i trasferimenti aventi ad oggetto aziende, quote sociali e azioni, realizzati a favore dei discendenti, se essi ne mantengono il controllo o la gestione per almeno cinque anni. In tal caso l’azienda non è soggetta a tassazione qualora gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso. Il mancato rispetto della condizione comporta la decadenza del beneficio. Detta regola è valida anche nel caso in cui, a seguito dello scioglimento della società esistente tra gli eredi, nei cinque anni successivi all’apertura della successione, la predetta azienda resti acquisita da uno solo di essi. In altre parole, nel caso in cui, a seguito della successione, sia stata costituita una società tra eredi, il suo scioglimento entro cinque anni dalla morte dell’imprenditore – con il conseguimento da parte di uno soltanto degli eredi (passaggio da società a ditta individuale) - non genera reddito tassabile, a condizione che i beni trasferiti dalla società alla ditta individuale abbiano gli stessi valori contabili. In caso di trasferimento a titolo oneroso dell’azienda ad un familiare si applicano le ordinarie regole di tassazione previste dal TUIR. Il regime fiscale ordinario delle plusvalenze realizzate da un imprenditore, per effetto della cessione di una azienda è in linea di principio quello della tassazione delle plusvalenze d’impresa. Dispone infatti l’art. 86, comma 2, TUIR che “concorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente mediante cessione a titolo oneroso”. Queste plusvalenze (pari alla differenza tra corrispettivo e valore netto fiscale del complesso dei beni aziendali) di regola, sono tassate per intero nell’anno in cui sono realizzate. Tuttavia se i beni sono stati posseduti per un periodo non inferiore a tre anni, il contribuente ha la facoltà di scelta tra tassazione immediata nell’esercizio del realizzo e tassazione frazionata in più esercizi (ossia frazionata in quote costanti, nell’esercizio del realizzo e nei successivi, non oltre il quarto). La tassazione immediata della plusvalenza realizzata può essere conveniente quando compensa perdite di esercizio o perdite 92 pregresse. L’imprenditore può optare per la tassazione separata, se l’azienda è stata posseduta per almeno cinque anni. La tassazione della plusvalenza realizzata con la cessione di un’azienda può essere evitata ricorrendo alla seguente operazione: conferimento dell’azienda in regime di neutralità fiscale; iscrizione della partecipazione ricevuta come immobilizzazione; cessione della partecipazione in regime pex. 6.3. LE HOLDING E LE SOCIETÀ OPERATIVE 6.3.1. Cenni alla disciplina delle società di comodo Le holding, per lo più qualificabili in sostanza come società di mero godimento, impongono di affrontare il tema relativo alle società c.d. di comodo, verifica molto importante ai fini del tax planing quando si deve decidere se interporre o meno un veicolo societario (holding) per l’intestazione di uno o più assets a non alta redditività (es. società immobiliari). Quest’ultime sono società che conseguono e dichiarano ricavi inferiori ad un determinato importo e per le quali il legislatore fiscale prevede la soggezione ad imposta sulla base di un imponibile minimo presunto. La normativa sulle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 30 della L. 724/1994. La ratio che soggiace all’introduzione di una simile disciplina è sicuramente antielusiva ed è ravvisabile nell’intento di arginare la nascita di società ed enti aventi finalità di mera intestazione di patrimoni allo scopo di creare uno schermo tra beni e reali proprietari, nonché, se del caso, fruire di vantaggi tributari non spettanti alle persone fisiche. Sotto il profilo soggettivo rientrano nell’ambito applicativo della disciplina in esame tutte le società commerciali (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società in nome collettivo, società in accomandita semplice e società ad esse equiparate, ovvero società ed enti di ogni tipo non residenti con stabile organizzazione nel territorio dello Stato). Viceversa, la particolare disciplina non si applica ai soggetti che si trovano nel primo periodo d’imposta, alle società in amministrazione controllata o straordinaria, alle società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani, ai soggetti cui per la particolare attività è stato fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali, alle società esercenti pubblici servizi di trasporto e alle società con numero di soci pari o superiore a 100 (oggi per effetto della Finanziaria 2008 superiore a 50). 93 Inoltre, la Finanziaria 2008 ha escluso l’applicabilità della nuova disciplina anche per le società che nei due esercizi precedenti hanno avuto un numero di dipendenti pari ad almeno 10 unità, società in stato di fallimento o assoggettate a procedure di liquidazione giudiziaria, liquidazione coatta amministrativa o concordato preventivo, società con redditività incontestabilmente significativa, società partecipate da enti pubblici in misura non inferiore al 20% del capitale sociale e società che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore. Una volta accertata la sussistenza del requisito soggettivo, per individuare le società non “operative”, è necessario procedere alla verifica del requisito oggettivo. A tal riguardo, la norma prevede una doppia verifica (cd. test di operatività): una prima verifica va effettuata con riferimento ai ricavi; solo se l’ammontare dei ricavi è inferiore a quelli minimi previsti dal legislatore (determinati come percentuale del valore di alcuni aggregati dell’attivo dello stato patrimoniale) occorre effettuare la seconda verifica che riguarda direttamente il reddito risultante dalla ordinaria determinazione analitica rispetto al reddito minimo parimenti determinato come percentuale (più bassa) degli stessi aggregati dell’attivo di cui sopra. Solo se anche questa seconda verifica non è soddisfatta, la società si considera non operativa con conseguente presunzione legislativa di determinazione del reddito nella misura risultante dalle percentuali previste dal legislatore (e conseguente disconoscimento di eventuali perdite fiscali d’esercizio). I soggetti che non superano il test di operatività assumono la qualifica di società o ente non operativo. Conseguentemente, esse devono provvedere alla determinazione del reddito d’impresa sulla base di quanto previsto dall’art. 30, comma 3, della L. 724/1994 che dispone la presunzione secondo cui il reddito non può essere inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione di talune percentuali al valore dei beni posseduti: a) 1,50% sul valore dei beni indicati all’art. 85, comma 1, lett. c), d) ed e) (tra cui azioni, quote, strumenti finanziari similari alle azioni, obbligazioni e altri titoli in serie o di massa; b) 4,75% sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili; c) 12% altre immobilizzazioni. La dichiarazione del reddito nella misura fissata ex lege non cristallizza il potere di accertamento dell’Agenzia dell’Entrate che è comunque legittimata alla rettifica della dichiarazione a fronte di fattispecie di evasione che consentano di determinare un imponibile più elevato rispetto a quello risultante dalla scheda dichiarativa predisposta in conformità all’art. 30. Al di là dei profili tecnico-applicativi, sui quali non vale la pena di soffermarsi, va sottolineato come le percentuali richiamate costituiscano il frutto di scelte effettuate nel contesto della predeterminazione normativa. Si tratta tuttavia di percentuali indimostrate 94 sul versante dell’id quod plerumque accidit e non necessariamente idonee ad esprimere, secondo criteri di ragionevolezza, il reddito effettivamente prodotto dal soggetto non operativo. In verità, rimangono inespresse le ragioni per le quali, ad esempio, il possesso di un bene immobile dovrebbe direttamente tradursi nel possesso di un reddito pari al 4,75% del valore del cespite, come se il suddetto reddito obbedisse, ad una legge di stretta, immutabile derivazione dal patrimonio, con evidenti delimitazioni, oltretutto, sul piano quantitativo. A tale critica si potrebbe obiettare che l’art. 30, comma 3, non poggia affatto su di un così rigoroso automatismo, perché il contribuente ha pur sempre il diritto di accedere al procedimento di disapplicazione di cui parleremo tra poco. Tuttavia, quest’ultima obbiezione presta il fianco ad una critica difficilmente sormontabile, se soltanto si considera che, nella sede disapplicativa, è richiesta la dimostrazione di non meglio precisate “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi”. L’art. 30 L. 724/1994 costituisce una forma di presunzione che, come tale, tuttavia può essere vinta dal contribuente fornendo la prova contraria. Tale prova contraria deve essere presentata mediante la proposizione di un’istanza disapplicativa ad hoc. L’istanza di disapplicazione può riguardare sia il profilo della non operatività della società o dell’ente, sia quello del reddito minimo ascrivibile al soggetto passivo ai sensi dell’art. 30, comma 3, prima analizzato. L’impressione che si ricava dall’art. 30 è nel senso che, ai fini della disapplicazione, la società o l’ente non possa far leva su qualsivoglia situazione, ma soltanto su fattispecie che non siano influenzate da scelte del contribuente. In ciò starebbe, per l’appunto, il carattere di “oggettività” cui fa riferimento l’art. 30, riscontrabile per l’appunto in situazioni reali, oggettive come ad esempio la crisi del settore nel quale opera la società che ha reso impossibile il superamento del test. Come già anticipato fornire la prova contraria per il contribuente sembra piuttosto difficile anche perché la norma non offre indicazione in ordine alle modalità con cui possono essere provate le “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi”. L’art. 30, comma 4-bis, della L. 724/1994 non obbliga la società o l’ente non operativo ad avviare il procedimento volto alla disapplicazione della disciplina in esame. Invero, la richiamata disposizione prevede, testualmente, che la società interessata “può richiedere” la suddetta disapplicazione, lasciando in questo modo intendere che la scelta viene rimessa unicamente al soggetto passivo. La determinazione di non avviare il citato provvedimento non dovrebbe essere di ostacolo alla possibilità di fornire successivamente, in occasione di eventuale giudizio la c.d. prova contraria. Tuttavia questa linea interpretativa non è stata condivisa dall’Amministrazione finanziaria che ha invece abbracciato la tesi opposta secondo cui la dimostrazione della impossibilità di conseguire i ricavi o di produrre il reddito 95 minimo può essere offerta unicamente in sede di interpello (Circolare n. 5/E del 2007). 96 CAPITOLO VII 7.1 I GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: IL CONSOLIDATO NAZIONALE ED IL CONSOLIDATO MONDIALE 7.1.1. Aspetti fiscali del gruppo La tassazione ordinaria delle società implica che ciascuna società è un soggetto a sé, tenuta al pagamento dell’IRES sui suoi redditi. La distribuzione dei dividendi comporta, per i soci, una tassazione ulteriore, in misura diversificata. Il diritto tributario prende però in considerazione i gruppi di società (ossia società tra cui intercorrono rapporti di controllo o di collegamento), per molteplici fini, adottando, volta per volta, un’apposita definizione del rapporto di controllo. È infatti noto che non esiste una nozione giuridica di gruppo, con validità generale, né in ambito civilistico, né in sede fiscale. In ambito civilistico, la nozione di gruppo deve essere tratta dall’art. 2359 c.c., che definisce “società controllata”: a) la società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (controllo interno di diritto); b) la società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo interno di fatto); c) quella che è sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (controllo esterno di fatto). In ambito fiscale viene sovente richiamato l’art. 2359 cod. civ., soprattutto nelle norme antielusive: ad esempio in materia di CFC e di transfer price. In altri casi, tuttavia, viene adottata una nozione di gruppo più ristretta di quella civilistica. Ad esempio, ai fini del consolidato, viene richiamato il solo controllo interno di diritto, con ulteriori requisiti (in tema di partecipazione al capitale e agli utili), ed, inoltre, con l’applicazione del demoltiplicatore (per effetto del quale, come vedremo, le società che possono aderire al consolidato fiscale non sono tutte quelle che sono controllate secondo l’art. 2359 c.c.). Il legislatore fiscale adotta insomma una nozione ampia di gruppo al fine di delimitare l’ambito di applicazione delle normative antielusive (come le CFC, il transfer price); adotta, invece, nozioni ristrette in altre normative (ad esempio ai fini della non applicazione del rimborso delle ritenute ex art. 27-bis DPR 600/1973 effettuate a società 97 figlie di altri Stati europei). Ai gruppi è dato rilievo, sotto il profilo finanziario, dalla norma che consente il trasferimento delle eccedenze (cioè dei diritti al rimborso derivanti da eccedenze di quanto versato rispetto a quanto dovuto) nell’ambito dei gruppi di società. Ad esempio, una società che chiuda l’esercizio in perdita ed abbia versato degli acconti, dei quali può chiedere il rimborso, può trasferire le “eccedenze” ad una società in utile del medesimo gruppo, che può compensare il diritto al rimborso - derivante dalle “eccedenze” acquistate - con il proprio debito d’imposta. Prima della riforma del 2003, vi erano altre due normative, ora abrogate, che davano rilievo ai rapporti intersocietari. Una sorta di consolidamento tra utili e perdite di società appartenenti allo stesso gruppo era costituita dalla facoltà (dei soci) di svalutare le partecipazioni a fronte delle perdite della società partecipata. Le perdite avevano così indirettamente rilievo nel patrimonio della partecipante. La riforma, introducendo il sistema della participation exemption, ha tuttavia eliminato tale facoltà. In secondo luogo, veniva data rilevanza alla coordinazione della tassazione del socio e della società partecipata attraverso il sistema del credito d’imposta. Con tale sistema, l’imposta assolta dalla società partecipata, che distribuiva dividendi, generava una credito d’imposta per il socio, che compensava tale credito con l’imposta dovuta sul suo reddito. Il socio in perdita poteva chiedere il rimborso del credito d’imposta che gli era stato attribuito con i dividendi. In tal modo, in definitiva, il socio in perdita recuperava le imposte assolte dalla partecipata, realizzando così una forma di consolidamento tra perdite e utili del gruppo. La riforma, introducendo la participation exemption, ha eliminato sia la facoltà di svalutare le partecipazioni, sia il credito d’imposta, ma ha introdotto, dal 2004, due sistemi peculiari di tassazione, che rimediano sia all’abolizione del credito d’imposta, sia alla indeducibilità delle riduzioni di valore delle partecipazioni. In alternativa alla tassazione distinta di ciascuna società, i gruppi possono oggi optare per il consolidato, con notevoli vantaggi, tra cui l’esclusione da imposta dei dividendi in modo integrale e l’utilizzo immediato delle perdite. Se non sussistono le condizioni del consolidato, l’altra opzione che consente di evitare taluni aspetti negativi della tassazione ordinaria è il regime di trasparenza, che pure comporta la non tassazione dei dividendi e l’utilizzo immediato delle perdite. 7.1.2. Il consolidato nazionale 98 Uno strumento fiscale largamente utilizzato da gruppi in sede di pianificazione fiscale è il consolidato fiscale. Si tratta di un istituto relativamente recente, introdotto dalla Riforma Tremonti del 2003 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2004. In estrema sintesi il consolidato, disciplinato dagli artt. 117 a 129 del TUIR, consente su opzione facoltativa delle singole società che vi partecipano, di determinare in capo alla controllante un’unica base imponibile, corrispondente alla somma algebrica degli imponibili delle società partecipanti. Va notato, in via preliminare, che la tassazione unitaria del gruppo postula che il gruppo sia un’unità economica; giuridicamente, peraltro, il gruppo non è un soggetto giuridico unico: le diverse società che lo compongono conservano la loro soggettività, sia ai fini della determinazione del reddito, sia ai fini della responsabilità. In secondo luogo, il consolidato fiscale non è una forma di tassazione fondata sul bilancio consolidato; non si ha dunque un utilizzo fiscale del consolidato civilistico, simile al rilievo attribuito al bilancio d’esercizio nella determinazione del reddito d’impresa. Il consolidato fiscale è radicalmente diverso dal consolidato civilistico. Infatti, il consolidato civilistico è un bilancio nel quale la pluralità delle società è rappresentata come un soggetto unitario; le poste di bilancio relative ai rapporti interni di gruppo sono elise ed i patrimoni netti sono integrati; il risultato finale è un bilancio che rappresenta la pluralità di soggetti che compongono il gruppo come un soggetto unitario, con un solo patrimonio ed un solo reddito. Invece, nel consolidato fiscale, ferma restando la rilevanza dei rapporti tra società del gruppo, si sommano algebricamente i risultati fiscali conseguiti da ciascuna società. Si calcola il reddito di ciascuna società, secondo le norme ordinarie, compresa la capogruppo; quest’ultima somma algebricamente al suo risultato reddituale quello delle singole società del gruppo, apportando a tale somma le “rettifiche di consolidamento”. Si ottiene così il “reddito complessivo globale”, che è dunque il risultato della somma dei “redditi complessivi netti” di ciascuna società (ossia dei risultati delle dichiarazioni dei redditi di ciascuna società). Il consolidato comporta, oltre all’unificazione dei risultati reddituali di ciascuna società, altri effetti, da cui scaturiscono le “rettifiche di consolidamento”, che devono essere effettuate dalla capogruppo in sede di dichiarazione. Sul piano procedurale, ciascuna società deve dunque redigere la propria dichiarazione dei redditi, da presentare, oltre che al fisco, alla capogruppo, che dopo aver redatto la propria dichiarazione, dovrà redigere e presentare al fisco la dichiarazione del gruppo, avente per oggetto il “reddito complessivo globale”. Alla controllante è dunque riferito il risultato globale, positivo o negativo, del gruppo. Dal risultato positivo del gruppo scaturisce un unico debito, di cui è 99 responsabile, per l’intero importo, la controllante. Le società controllate sono invece responsabili solo per la parte del debito globale che è da collegare al loro reddito individuale. Alla controllante spetta “la liquidazione dell’unica imposta dovuta o dell’unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo”; se il risultato globale è negativo, alla controllante “compete il riporto a nuovo della eventuale perdita risultante dalla somma algebrica degli imponibili” . L’opzione per il consolidato presenta natura bilaterale, dovendo essere esercitata congiuntamente da ciascuna società controllata e dall’ente o società controllante. In tal modo, all’interno del medesimo gruppo, potranno aversi tante opzioni a coppia quante sono le società controllate che esercitano la facoltà. Nell’ambito di un medesimo gruppo societario possono essere individuate diverse aree e livelli di consolidamento: in relazione a ciascuno di essi, peraltro, si avrà un unico consolidato, essendo unico il soggetto che al suo interno agisce in veste di consolidante. Ai sensi dell’art. 117, comma 1, TUIR sono ammessi a partecipare alla tassazione di gruppo le società e gli enti commerciali residenti fra i quali esista un rapporto di controllo. Le società di capitali residenti possono optare tanto in veste di consolidanti, quanto in veste di consolidate. Le società cooperative, gli enti commerciali residenti e, a certe condizioni, le società non residenti possono invece optare solo in qualità di consolidanti. In particolare le società non residenti possono optare se (i) sono residenti in paesi con cui è in vigore un accordo contro le doppie imposizioni, che consenta anche lo scambio di informazioni o se (ii) svolgono nel territorio dello Stato un’attività d’impresa mediante stabile organizzazione, nei confronti della quale sussista un’effettiva connessione tra l’attività d’impresa da quest’ultima esercitata e le partecipazioni nelle società controllate residenti che si intende includere nel consolidato. L’opzione è vietata alle società che fruiscono della riduzione dell’aliquota IRES, a quelle sottoposte a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa, a quelle che hanno optato, in qualità di partecipate, per la tassazione per trasparenza ed, inoltre, ma solo in qualità di consolidate, per quelle che hanno optato (come consolidanti) per il consolidato mondiale. Tra le società che esercitano l’opzione deve sussistere, fin dall’inizio di ogni esercizio in cui ci si avvale della stessa, il rapporto di cui all’art. 2359 c.c., comma 1, n, 1 c.c., occorre, cioè, che la consolidante disponga, direttamente o indirettamente (tramite controllate ex art. 2359, comma 2) della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria della consolidata. L’esercizio dell’opzione per la tassazione di gruppo esige, a pena di inammissibilità, il possesso di una “partecipazione rilevante”, ossia espressiva di un rapporto di controllo con i requisiti previsti dagli articoli 117 e 120 del TUIR. La partecipazione si considera rilevante agli effetti dell’opzione quando, congiuntamente: 100 a) esiste un rapporto di controllo di diritto, nel senso precisato dall’articolo 2359, comma 1, n. 1) c.c.; b) viene superata la soglia di partecipazione del 50% tanto in relazione al capitale sociale quanto agli utili di bilancio della società controllata di diritto ai sensi dell’appena citato articolo 2359, c. 1, n. 1). Per l’art. 2359, comma 2, c.c. ai fini dell’applicazione del ricordato comma 1, n. 1, i voti posseduti dalle controllate intermedie si sommano a quelli (eventualmente) posseduti dalla controllante, si reputano cioè voti della controllante. Differente è l’approccio della normativa in esame, la quale, impone di considerare la demoltiplicazione prodotta dalla catena societaria di controllo. In ragione del demoltiplicatore: se la società Alfa detenesse una partecipazione dell’80% nella società Beta e questa a sua volta detenesse una partecipazione del 70% nella società Gamma, Alfa deterrebbe in Gamma una partecipazione del 56% e potrebbe consolidare sia Beta che Gamma; se la società Alfa detenesse una partecipazione del 70% nella società Beta e questa a sua volta detenesse una partecipazione del 70% nella società Gamma, Alfa deterrebbe in Gamma una partecipazione del 49% e potrebbe dunque consolidare solo Beta. Ai sensi dell’art. 119 DEL TUIR l’opzione deve essere esercitata congiuntamente dalla consolidante e dalla consolidata, ed è irrevocabile per almeno un periodo di tre anni. Perché le opzioni siano efficaci, occorre inoltre: a) l’identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della società o ente controllante; b) l’elezione di domicilio da parte di ciascuna controllata presso la società o ente controllante ai fini della notifica degli atti e provvedimenti relativi ai periodi d’imposta per i quali è esercitata l’opzione. L’elezione di domicilio sopravvive alla cessazione del regime: è infatti irrevocabile fino al termine del periodo di decadenza dell’azione di accertamento; c) la comunicazione dell’opzione all’Agenzia delle entrate entro il ventunesimo giorno (Finanziaria 2008 ha previsto tale comunicazione entro il sedicesimo giorno) del sesto mese successivo alla chiusura del primo esercizio cui si riferisce l’opzione. Gli effetti dell’opzione sono:imputazione dei redditi e delle perdite in proporzione alla quota di partecipazione demoltiplicata; b) la quota di partecipazione agli utili è considerata alla data di chiusura dell’esercizio della società non residente o, se maggiore, alla data di approvazione o revisione del bilancio relativo; c) si sommano le quote di partecipazioni detenute tramite una o più controllate residenti purché consolidate integralmente. L’opzione per il consolidato non altera la disciplina del calcolo del reddito delle 101 singole società partecipanti (consolidante e consolidata). Occorre quindi prima calcolare il reddito delle singole società consolidate. Dopodichè si acquisisce, con le dichiarazioni delle singole consolidate, la conoscenza dei redditi di quest’ultime. La consolidante deve quindi determinare il reddito imponibile di gruppo, in primo luogo, ai sensi dell’art. 118, comma 1, TUIR sommando algebricamente e per l’intero importo (indipendentemente, cioè, dalla quota di partecipazione ad esse riferibile) i redditi e le perdite di tutte le partecipanti. Tuttavia, in forza dell’art. 118, comma 2, le eventuali perdite (delle singole società) relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo non possono essere messe in comune, e quindi scomputate dal reddito di gruppo, devono invece essere utilizzate dalla società (consolidata o consolidante) che le ha conseguite, al fine di dedurle dal proprio reddito. Evidente la funzione antielusiva di questa regola, la quale serve ad impedire l’acquisto di partecipazioni di società in perdita al solo scopo di utilizzarne le perdite fiscalmente riconosciute per compensare gli utili di gruppo, mediante opzione per il consolidato. Una volta determinata la base imponibile consolidata, la consolidante deve presentare la dichiarazione dei redditi di gruppo. In base all’art. 118, comma 1, TUIR il riporto a nuovo della perdita risultante dalla somma degli imponibili e la liquidazione dell’unica imposta dovuta o dell’unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo competono alla sola consolidante, sulla quale gravano inoltre gli obblighi di versamento a saldo e in acconto relativi alla predetta imposta. Nella determinazione dell’imposta dovuta, alla consolidante spetta lo scomputo delle ritenute, delle detrazioni e dei crediti d’imposta di tutte le società aderenti al consolidato, nonché degli eventuali acconti autonomamente versati dalle stesse.Il consolidato può essere interrotto per la perdita del controllo (in caso di cessione di partecipazioni o per l’ingresso di nuovi soci), per la perdita dei requisiti soggettivi (in caso di trasformazione in società di persone o liquidazione coatta amministrativa) o per l’attuazione di determinate operazioni straordinarie (incorporazione della consolidante o della consolidata in una società non aderente al consolidato, la scissione totale della consolidante). Questa disomogeneità si riflette anzitutto in una diversa incidenza sul regime. In alcune ipotesi, infatti, nonostante l’evento interruttivo, il regime del consolidato continua su semplice opzione (è il caso della consolidante che opta, come consolidata con altra società, quando tutte le società aderenti al consolidato della prima optano per il consolidato con la seconda). In altre continua se, interpellata, l’Amministrazione Finanziaria acconsente (ad esempio nel predetto caso di incorporazione della consolidante). 7.1.3. Il consolidato mondiale 102 Il consolidato mondiale è attualmente previsto dai sistemi tributari di Danimarca e Francia; la disciplina del consolidato mondiale introdotta dalla riforma recata dal D. Lgs. 344/2003 è sostanzialmente ispirata al modello francese. Va subito notata la fondamentale differenza tra consolidato nazionale e mondiale. Il primo comporta la tassazione unitaria di più società residenti, ossia di più soggetti passivi d’imposta. Il consolidato mondiale, invece, concerne la tassazione di un solo soggetto (la controllante residente), e consiste sostanzialmente in una modalità di tassazione dei redditi delle controllate estere, imputabili alla controllante residente. L’opzione per il consolidato mondiale comporta infatti l’imputazione proporzionale alla controllante dei redditi (e delle perdite) di tutte le controllate non residenti (all in, all out), per un periodo non inferiore a cinque esercizi (i successivi rinnovi vincolano per almeno tre esercizi). Al soggetto residente non può che imputarsi una quota del reddito della società estera: non avrebbe alcun fondamento tassare, presso la controllante residente, una quota di reddito delle controllate superiore alla frazione riferibile alla controllante, in base alla partecipazione posseduta. Questo sistema di tassazione presenta dunque, al tempo stesso, vantaggi e svantaggi. Il lato positivo è dato dalla compensabilità delle perdite fiscali delle società controllate non residenti con i redditi imponibili delle società residenti. D’altro canto, però, divengono immediatamente tassabili in Italia, per imputazione (alla controllante), gli utili delle controllate non residenti (e questo sistema è meno conveniente rispetto ad altri regimi già operanti, come quello della Direttiva “madre-figlia”). L’ente controllante, che può optare per il consolidato mondiale, deve essere una società di capitali o un ente commerciale residente in Italia, e dev’essere la società di “più alto livello” della catena di controllo. La controllante può comunque optare per il consolidato mondiale: a) se è una società con titoli quotati in Borsa (in tal caso, è comunque “primo anello” della catena, anche se controllata da altro soggetto residente); b) se è controllata dallo Stato, o da una persona fisica residente che non controlla altra società. Il requisito del controllo sussiste quando l’ente residente possiede, direttamente o indirettamente, una quota di partecipazione nel capitale della società non residente superiore ad una “soglia percentuale di rilevanza”, pari al 50%, tenendo in considerazione l’effetto “demoltiplicativo” della catena di controllo. Il requisito in parola deve sussistere al termine dell’esercizio della controllante (art. 135, comma 2), ma è fatta salva la facoltà di escludere dal consolidamento il reddito delle società estere che siano divenute “controllate” nei sei mesi antecedenti la chiusura dell’esercizio della controllante. 103 L’opzione per il consolidato mondiale, che deve essere esercitata unicamente da parte della società o ente controllante residente di grado più elevato, è efficace se sussistono le seguenti condizioni: a) ha per oggetto tutte le controllate non residenti (all in, all out); b) identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della controllante; c) revisione dei bilanci di tutte le società del gruppo; d) attestazione delle controllate da cui risulti il consenso alla revisione del proprio bilancio e l’impegno a fornire al soggetto controllante la collaborazione necessaria per la determinazione dell’imponibile e per adempiere entro un periodo non superiore a 60 giorni dalla loro notifica alle richieste dell’Amministrazione finanziaria. Inoltre, è necessario che la controllante interpelli l’Agenzia delle entrate, affinché si pronunci sulla sussistenza dei requisiti per il valido esercizio dell’opzione. Il risultato reddituale (utile o perdita) delle società non residenti, da includere proporzionalmente nell’imponibile della controllante, deve essere determinato con il “metodo extracontabile” già previsto per le CFC, applicando le disposizioni vigenti in Italia in materia di IRES. Devono poi essere effettuate alcune “rettifiche di consolidamento” (ad esempio, in materia di dividendi infragruppo, componenti negativi deducibili, perdite su cambi relative a finanziamenti, cessioni infragruppo di beni strumentali, ecc.). Per evitare effetti di doppia imposizione, sono detraibili le imposte pagate all’estero dalle società controllate, con le seguenti regole: a) concorso prioritario dei redditi prodotti all’estero alla formazione del reddito imponibile; b) computo delle imposte detraibili effettuato separatamente per ciascuna società estera (e non per ciascuno Stato estero); c) riporto nel tempo del credito per imposte pagate all’estero inutilizzato nell’esercizio di competenza. 104 CAPITOLO VIII 8.1.1 LE OPERAZIONI DI FUSIONE, SCISSIONE, TRASFORMAZIONE E CONFERIMENTO 8.1.1 La fusione La fusione è disciplina dall’art. 2501 c.c. ai sensi del quale tale operazione può avvenire “mediante la costituzione di una società nuova o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre”. La società che risulta dalla fusione, o la società incorporante, subentra in tutte le situazioni giuridiche che facevano capo alle società fuse o alla società incorporata. AI fini fiscali ciò vale sia per le situazioni giuridiche sostanziali, tra cui quelle relative alle imposte sui redditi (ad esempio le imposte non assolte dalla incorporata dovranno essere pagate dall’incorporante), sia per le situazioni giuridiche formali (ad esempio l’avviso di rettifica della dichiarazione dell’incorporata dovrà essere emesso nei confronti dell’incorporante). Nel disciplinare le conseguenze della fusione l’art. 172 del TUIR esordisce disponendo che questa operazione “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporante, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore dell’avviamento”. Questa disposizione riflette l’idea di fondo che poiché la fusione interessa solo l’organizzazione patrimoniale e societaria dei soggetti d’imposta ma non la loro gestione è un evento fiscalmente neutro ai fini reddituali. L’art. 172 definisce dunque la fusione come un’operazione neutrale dove neutralità significa continuità dei valori fiscalmente riconosciuti rispetto a quelli anteriori alla fusione. In parole povere la società incorporante o risultante dalla fusione unifica le proprie voci contabili con quelle provenienti dalla società incorporata o fusa, utilizzando gli stessi valori che erano riconosciuti in capo a quest’ultima. La neutralità della fusione riguarda sia la società che i soci. Con riguardo alla società la neutralità incide su: a) le plusvalenze e minusvalenze insite nel patrimonio della società incorporata o fusa: spesso nel patrimonio della società incorporata o fusa possono esservi beni il cui valore reale è diverso da quello contabile e fiscalmente riconosciuto. Possono esservi, quindi, plusvalenze o minusvalenze latenti in quanto il valore contabile di un bene è dato dal costo non ammortizzato e il valore reale può essere superiore, 105 b) perché il bene si è rivalutato o è inferiore se si è deprezzato più di quanto computato con gli ammortamenti. In genere le plusvalenze latenti diventano tassabili e le minusvalenze deducibili, se si realizzano determinati eventi ma la fusione è irrilevante a tali fini perché “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”; le differenze di fusioni (avanzi e disavanzi): gli avanzi e disavanzi di fusione possono essere da concambio e da annullamento delle partecipazioni. L’avanzo e disavanzo da concambio si verifica nell’ipotesi in cui l’incorporante non possiede le partecipazioni nell’incorporata e deve perciò attribuire ai soci dell’incorporata proprie azioni o quote. Questa sostituzione di azioni o quote è denominata “concambio”. Tale espressione sottintende il rapporto numerico in base al quale, per ogni quantitativo di azioni dell’incorporata, viene attribuito al socio un certo numero di azioni dell’incorporante. Tale operazione di solito avviene aumentando il capitale dell’incorporante: quando l’aumento di capitale dell’incorporante risulta inferiore al patrimonio netto dell’incorporata si avrà un avanzo di fusione che sarà escluso da qualsiasi imposizione per la società, quando, invece, l’aumento di capitale dell’incorporante è maggiore del patrimonio netto dell’incorporata si ha un disavanzo che per la società non è fiscalmente utilizzabile né a titolo di perdita né attraverso rivalutazioni dell’attivo. L’avanzo e disavanzo da annullamento di partecipazioni si verifica quando l’incorporante possiede le partecipazioni nell’incorporata e quindi non vi è bisogno dell’operazione di concambio. Invece di aumentare il proprio capitale l’incorporante deve annullare le partecipazioni nell’incorporata che si trovano già nel proprio attivo patrimoniale. Nelle scritture contabili e nel bilancio dell’incorporante le attività dell’incorporata prendono il posto della partecipazione annullata. Il valore contabile delle attività dell’incorporata è però di solito diverso da quello della partecipazione annullata e ciò provoca le differenza cui viene dato il nome di disavanzi o avanzi da annullamento. In particolare si ha avanzo di fusione se il patrimonio netto contabile dell’incorporata è superiore al valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Tale eventuale avanzo è espressamente considerato intassabile. Per esempio, si ipotizzi una società Alfa, il cui patrimonio sia costituito da un immobile avente valore contabile e fiscale di cento; le azioni di Alfa sono possedute da Beta che le ha acquistate per cinquanta. Si procede all’incorporazione; Beta annulla le azioni (valore 50) ed iscrive il patrimonio dell’incorporata (100) con un avanzo di cinquanta. Il disavanzo che costituisce un’ipotesi più frequente nella prassi in quanto di solito il prezzo di acquisto della partecipazione eccede il patrimonio netto cantabile della partecipata, può essere 106 iscritto in contabilità e in bilancio. A fronte di tale disavanzo è consentito effettuare rivalutazioni, che non saranno però fiscalmente riconosciute, ed i relativi cespiti continuano ad essere fiscalmente valutati in base a valori precedenti, con divergenze tra valori contabili e fiscali. Come abbiamo visto, dunque, la fusione è fiscalmente neutra con riguardo alle differenze di fusione, in un duplice senso: a) nel senso che avanzi e disavanzi di fusione non hanno rilievo reddituale; b) nel senso che il disavanzo da annullamento può essere utilizzato per rivalutare civilisticamente, ma non anche fiscalmente, i beni della società fusa o incorporata, nel bilancio della società incorporante o risultante dalla fusione. La fusione è un’operazione fiscalmente neutra anche per i soci: le partecipazioni dei soci delle società fuse o incorporate sono annullate e sostituite con partecipazioni della società risultante dalla fusione o incorporante, e il concambio avviene in base al rapporto calcolato nel progetto di fusione. Tale concambio non rientra nelle ipotesi alla quali la legge ricollega il realizzo di plusvalenza tassabili: esso configura, infatti, una semplice sostituzione di titoli, per cui il legislatore ha previsto che “il cambio delle partecipazioni originarie non costituisce né realizzo né distribuzione di plusvalenze o minusvalenze, né conseguimento di ricavi per i soci della società risultante dalla fusione o incorporante” (art. 172, comma 3, del TUIR). E tassabile solamente il conguaglio in denaro pagato ai soci in occasione del concambio (tassazione come reddito di capitale delle somme ricevute che eccedono il costo della partecipazione annullata). Tra le situazioni soggettive che vengono acquisite dalla società incorporante (o comunque risultante dalla fusione), vi è il diritto di “riportare a nuovo” le perdite subite dalla società incorporata. Che le perdite di una società siano “computate” dalla società che le realizza, o da altra società, che la incorpora, appare indifferente, se la fusione ha comportato la unificazione di due apparati produttivi. Il riporto delle perdite pregresse di una delle società fuse o incorporate da parte della nuova società non ha nulla di eccepibile quando la fusione è stata posta in essere per la causa giuridica che la contraddistingue, ed ha realizzato una razionale riorganizzazione di più apparati produttivi. L’operazione appare invece strumentale ad un risultato di pura elusione fiscale quando una società non viene fusa o incorporata per il suo valore economico produttivo, ma solo in quanto portatrice di un “beneficio fiscale”. Il legislatore, perciò, limita tale diritto per scopi antielusivi, ossia per arginare il fenomeno di fusioni, non attuate per fini economico-produttivi, ma al solo scopo di permettere all’incorporante di utilizzare le perdite dell’incorporata. I limiti al riporto delle perdite sono i seguenti: 107 a) il primo limite è di carattere quantitativo: le perdite riportabili non possono essere superiori nè al patrimonio netto della società incorporata, né a quello della incorporante, risultante dall’ultimo bilancio o dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2501-quater c.c.; nel determinare il patrimonio netto di riferimento non si tiene conto dei conferimenti e dei versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione patrimoniale; b) il secondo limite condiziona la stessa possibilità di riportare a nuovo le perdite: la legge richiede che nel conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, superiore al 40% della media dei 2 esercizi precedenti. Tale previsione mira ad impedire l’incorporazione di società inattive; c) il terzo limite riguarda le società che, prima di procedere all’incorporazione, abbiano svalutato la partecipazione nell’incorporanda. Per impedire all’incorporante di sommare alla svalutazione dei titoli della società incorporata il riporto delle perdite, la legge vieta il riporto (delle perdite) fino a concorrenza dell’importo della svalutazione operata dalla società incorporante. Infine con riguardo alla fusione occorre ricordare che il subentro dell’incorporante nelle situazioni tributarie dell’incorporata riguarda anche le riserve in sospensione d’imposta: all’incorporante passa il “debito fiscale potenziale” ad esse collegato. Vanno però distinte due categorie di riserve: quelle tassabili per qualunque utilizzo; quelle tassabili solo in caso di distribuzione. In linea generale, le riserve “in sospensione” devono essere ricostituite; se la società subentrante non le ricostituisce nel suo bilancio, diventano tassabili. La ricostituzione, presso l’incorporante, delle riserve in sospensione d’imposta equivale alla iscrizione di un debito; ne deriva, quindi, riduzione dell’avanzo o incremento del disavanzo. Gli effetti fiscali della fusione, di regola, coincidono temporalmente con quelli civilistici, ma l’art. 172, comma 9, ammette che l’atto di fusione possa prevedere che l’operazione abbia effetti retroattivi ai fini fiscali, risalendo al momento in cui si è chiuso l’ultimo esercizio della società incorporata o, se più prossima, alla data in cui si è chiuso l’esercizio della incorporante. La retrodatazione è utile per semplificare gli adempimenti contabili e fiscali connesse all’operazione, perché impedisce che assuma valore di autonomo periodo d’imposta, per l’incorporata, l’intervallo di tempo che va dall’inizio del periodo d’imposta, in cui avviene la fusione, alla data in cui ha effetto, ai fini civilistici, l’atto di fusione. Con la retrodatazione, gli effetti possono retroagire in modo da comprendere, sin dall’inizio, il periodo d’imposta in corso per l’incorporante al momento della fusione; 108 tale periodo viene frazionato e i relativi effetti vengono imputati per intero, ai fini dell’imposizione sui redditi, all’incorporante (fermi restando gli adempimenti già compiuti dall’incorporata). La retrodatazione opera ex nunc: fermi gli adempimenti già posti in essere dalla incorporata la retrodatazione implica soltanto che le conseguenza reddituali dei fatti di quel periodo sono imputate all’incorporante. La retroattività non è dunque assoluta, perché non viene cancellata retroattivamente la soggettività tributaria della incorporata, ma è relativa, perché attiene soltanto all’imputazione soggettiva dei fatto reddituali del periodo considerato. In ultimo, sempre con riguardo alla fusione, si fa presente che recentemente la Finanziaria 2008 ha previsto la possibilità di applicare alla fusione il regime dell’imposta sostitutiva di cui al comma 2-ter dell’articolo 176 (che disciplina l’operazione di conferimento). Tale disposizione prevede la possibilità di optare nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso del quale è stata posta in essere l’operazione o, al più tardi, in quella del periodo d’imposta successivo, per l’applicazione, in tutto o in parte, sui maggiori valori attribuiti in bilancio agli elementi dell’attivo costituenti immobilizzazioni materiali e immateriali, di un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dell’imposta sul reddito delle società e dell’imposta regionale sulle attività produttive, con aliquota del 12 per cento sulla parte dei maggiori valori ricompresi nel limite di 5 milioni di euro, del 14 per cento sulla parte dei maggiori valori che eccede 5 milioni di euro e fino a 10 milioni di euro e del 16 per cento sulla parte dei maggiori valori che eccede i 10 milioni di euro. I maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva si considerano riconosciuti ai fini dell’ammortamento a partire dal periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione; in caso di realizzo dei beni anteriormente al quarto periodo d’imposta successivo a quello dell’opzione, il costo fiscale è ridotto dei maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva e dell’eventuale maggior ammortamento dedotto e l’imposta sostitutiva versata è scomputata dall’imposta sui redditi ai sensi degli articoli 22 e 79. L’imposta sostitutiva può essere rateizzata in tre importi annuali, il primo pari al 30% e i secondi due pari al 40% del totale. 8.1.2 La scissione Ai sensi dell’art. 2506 c.c. si ha la scissione quando “una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote ai suoi soci”. 109 La scissione è dunque un fenomeno inverso alla fusione e può avvenire in due modi: a) scissione totale: che avviene in caso di trasferimento dell’intero patrimonio di una società ad altre società (due o più), preesistenti o di nuova costituzione; le società, in cambio di ciò che ricevono dalla società scissa, non danno nulla a tale società ma assegnano proprie azioni ai soci della società scissa; b) scissione parziale: che interviene nell’ipotesi di trasferimento di parte del patrimonio di una società (Alfa), che permane, ad una o più società (Beta e Gamma), con assegnazione ai soci di Alfa di azioni di Beta e Gamma. La differenza fondamentale, tra le due forme di scissione, è che nel primo caso la società scissa diventa un guscio vuoto, in quanto non possedendo nulla è destinata ad estinguersi, mentre nel secondo caso è solo impoverita e, quindi, non si estingue. Per tali ragioni, in caso di scissione totale, le posizioni soggettive che facevano capo alla società scissa passano tutte alla società beneficiaria, mentre, nel caso di scissione parziale, le posizione soggettive della società scissa si dividono e sono trasferite solo in parte. Dal punto di vista fiscale, la disciplina della scissione presenta notevoli affinità, di problemi e di soluzioni, con la fusione. Secondo il disposto dell’art. 173, comma 1, del TUIR anche la scissione, come la fusione, non determina il realizzo o altro evento che attribuisca rilevanza fiscale alle plusvalenze e minusvalenze latenti nei beni della società scissa che sono trasferiti. Per tale disposizioni valgono gran parte delle considerazioni svolte a proposito della fusione. Tra scissa e beneficiaria si riallaccia infatti un rapporto di continuità non dissimile a quello che intercorre tra incorporata ed incorporante, se non proprio sull’identità soggettiva, sul perpetuarsi nelle società derivanti dall’operazione degli elementi costitutivi (patrimonio e compagine sociale) delle società partecipanti. In particolare, per quel che riguarda le plusvalenze, il trasferimento (totale o parziale) del patrimonio della società scissa alle società beneficiarie avviene senza corrispettivo; non vi sono, pertanto, i presupposti per la tassabilità, a carico della società scissa, delle plusvalenze latenti nei beni trasferiti. Né vi sono, per le stesse ragioni, i presupposti per considerare rilevanti le minusvalenze che emergono. Ciò trova espresso riconoscimento nell’art. 173, comma 2, ove si afferma l’irrilevanza fiscale dei maggiori valori iscritti nel bilancio delle società beneficiarie per effetto dell’imputazione del disavanzo, a condizione che i divergenti valori civilistici e fiscali siano annotanti in un “prospetto di riconciliazione” da allegare alla dichiarazione dei redditi. Anche la scissione, come la fusione, è un’operazione fiscalmente neutra per i soci: la sostituzione delle partecipazioni sociali non costituisce né realizzo né distribuzione di plusvalenze o di minusvalenze o di ricavi, salva la tassabilità del conguaglio (per la 110 parte fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 47, comma 7, del TUIR). Va rilevato che, nella scissione, l’attribuzione ai soci della scissa delle partecipazioni nelle società beneficiarie non è inevitabilmente connessa – come nella fusione – all’annullamento (anche soltanto parziale) della partecipazione originaria. Nel caso di scissione parziale potrebbe infatti accadere che il capitale della scissa non venga toccato e che l’esubero delle attività rispetto alle passività attribuite alla beneficiaria venga integralmente imputato alle riserve. Questa ipotesi deve essere assimilata ad un' operazione di passaggio di riserve a capitale attuata dalla scissa medesima, sicché l'irrilevanza ai fini impositivi della fattispecie dell' assegnazione di partecipazioni non sostitutive di quelle originarie - se non ricavabile direttamente dalla disposizione da ultimo citata - può essere sostenuta attraverso l'applicazione analogica dell' art. 47, comma 6, il quale esclude che (per i soci che le ricevono) costituiscano utili le azioni gratuite emesse in caso di aumento del capitale mediante imputazione di riserve ed altri fondi. Anche la scissione, come la fusione, è un’operazione fiscalmente neutra per i soci: la sostituzione delle partecipazioni sociali non costituisce nè realizzo nè distribuzione di plusvalenze o di minusvalenze o di ricavi, salva la tassabilità del conguaglio (per la parte fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 47, comma 7). Possono darsi, anche a seguito della scissione, avanzi e disavanzi; essi risultano dal confronto, presso le società beneficiarie, tra aumento di capitale disposto dalla società beneficiaria e valore netto contabile dei beni, provenienti dalla società scissa e pervenuti alla beneficiaria. Anche per le differenze di scissione il principio è quello della neutralità; avanzi e disavanzi riflettono, qui, fenomeni analoghi a quelli visti in materia di fusione con concambio. Anche per scissione la Finanziaria 2008 ha previsto la possibilità di applicare l’imposta sostitutiva31 indicata nell’art. 176, comma 2-ter, del TUIR. Per quanto riguarda la disciplina della perdite nell’ambito della scissione occorre sottolineare quanto segue. Se nella fusione il potere di utilizzare le perdite pregresse delle società partecipanti non può che essere “ereditato” dalla società incorporante o nuova, nella scissione la pluralità di società derivate solleva anzitutto il problema del suo frazionamento tra di esse. Trattandosi di “posizioni soggettive”, queste vanno suddivise tra le società derivate - ossia tra la scissa e la beneficiaria (o le beneficiarie) nella scissione parziale, tra le due o più beneficiarie nella scissione totale - in proporzione alla quota di patrimonio della scissa devoluta a ciascuna secondo il criterio indicato nel comma 4. Il godimento da parte della scissa della quota di perdite che le compete (considerata la quota di patrimonio conservata) non è sottoposto ad alcuna 31 La cui disciplina è stata già esaminata nell’ambito della fusione sub. pari. 10.1.1. 111 disciplina speciale, atteso che non ricorre nei suoi confronti il pericolo, insito nella fusione, che le perdite pregresse di un'organizzazione vengano sfruttate per neutralizzare redditi prodotti da un patrimonio e da un' attività riconducibili ad una diversa organizzazione, e quindi non si riscontrano quelle peculiari esigenze che hanno spinto il legislatore ad introdurre la normativa di cui all’esaminato art. 172, comma 7. Per converso, l'impiego da parte delle beneficiarie delle perdite ad esse transitate, come delle perdite proprie (ovviamente se si tratta di società preesistenti) viene assoggettato dal comma 10 dell' art. 173 alle medesime condizioni e ai medesimi limiti che incontra l'incorporante nello sfruttamento delle perdite pregresse delle società partecipanti alla fusione. Ed invero, quando la beneficiaria è una società preesistente, in ordine alle perdite provenienti dalla scissa si profila una situazione del tutto omogenea a quella che, nella fusione per incorporazione, si realizza con riferimento alle perdite dell'incorporata. Si delinea cioè il pericolo che le perdite di un'organizzazione vengano destinate alla compensazione di redditi derivanti da un'organizzazione diversa. Appare perciò perfettamente ragionevole l'assimilazione della posizione della beneficiaria preesistente all'incorporante sia per quanto attiene al riporto delle perdite della scissa sia per quanto attiene al riporto delle proprie. 8.1.3 La trasformazione di società La trasformazione è disciplina dall’art. 2498 e ss. c.c. e si ha quando una società muta la sua veste giuridica. La trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di un altro e diverso soggetto, ma configura, per converso, una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto che non dà luogo ad un nuovo centro di imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva. Ne consegue che tutto il patrimonio (mobile ed immobile) della società trasformata deve essere considerato, automaticamente e senza possibilità di eccezione alcuna, di proprietà della medesima società, pur nella nuova veste e denominazione. Il codici civile disciplina due tipi di trasformazione: la trasformazione c.d. omogenea che si ricorre la società sia prima che dopo la trasformazione è un soggetto commerciale e la trasformazione c.d. eterogenea che segna invece il passaggio dalla sfera commerciale a quelle non commerciale e viceversa. Soffermiamoci ora a parlare della trasformazione omogenea. Come abbiamo visto con la trasformazione, muta la forma sociale di una società, ma il soggetto rimane il 112 medesimo. Ecco perché ai sensi dell’art. 170, comma 1, del TUIR la trasformazione “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”. In particolare, quando una società di persone si trasforma in un' altra società di persone, oppure quando una società di capitali si trasforma in un' altra società di capitali, la trasformazione risulta del tutto priva di conseguenze sul piano tributario, atteso che lo “statuto fiscale” della società resta invariato. I problemi sorgono quando una società di persone si trasforma in una società di capitali (trasformazione progressiva), oppure quando una società di capitali si trasforma in una società di persone (trasformazione regressiva), atteso che, come abbiamo visto, la disciplina tributaria valevole per le società di persone è profondamente diversa da quella applicabile alle società di capitali. Nell'art. 170 TUIR il legislatore si occupa quindi salvo che nel citato comma 1 - esclusivamente di queste ultime trasformazioni. In particolare nel comma 2 prevede che in caso di trasformazione di una società soggetta all'imposta sul reddito delle società in una società non soggetta a tale imposta, il reddito dell'intervallo di tempo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui ha effetto la trasformazione è determinato secondo le disposizioni applicabili prima della trasformazione, in base ad un apposito conto dei profitti e delle perdite. L'esercizio durante il quale si verificano queste trasformazioni si spezza dunque in due autonomi periodi d'imposta, in relazione a ciascuno dei quali la società è tenuta a seguire, quanto al calcolo del reddito ed alle modalità di imposizione, la disciplina predisposta per il tipo di rispettiva appartenenza. La trasformazione esige perciò la redazione di due appositi conti economici, relativi ai due periodi d’imposta, e la presentazione di correlative dichiarazioni dei redditi, applicando come detto le norme proprie del tipo sociale. In particolare bisogna quindi concludere che: a) se una società di persone si trasforma in società di capitali, i redditi del periodo che precede la trasformazione sono tassati con le regole previste per le società di persone, imputando ai soci i redditi della società. Le riserve costituite prima della trasformazione con utili tassati in capo ai soci per imputazione conservano il loro originario status fiscale anche dopo la trasformazione; non dovranno perciò essere più tassate quando la società trasformata le distribuirà ai soci. E’ perciò necessario che siano iscritte in bilancio con l’indicazione della loro origine; b) se una società di capitali, cui non si applica il regime di trasparenza, si trasforma in società di persone, e nel suo bilancio vi sono riserve costituite con utili, non si ha automatica imputazione ai soci di quegli utili, perché la trasformazione non determina l’immediata applicazione alle riserve delle norma in tema di redditi delle società di persone. Le riserve conservano infatti il loro status fiscale 113 originario di utili tassabile come dividendi presso i soci solo a seguito di distribuzione (a condizione, però, che siano iscritte in bilancio con indicazione delle loro origine). Pertanto, solo quando sono distribuite ai soci o utilizzate per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio, esse sono tassate presso i soci. In definitiva quindi, in caso di passaggio da società di capitali a società di persone, alle riserve costituite prima della trasformazione continuano ad applicarsi le norme relative all’IRES e ai dividendi, anche se la società non è più soggetta a tale imposta. Come abbiamo visto il codice civile disciplina accanto alla trasformazione omogenea anche la c.d. trasformazione eterogenea. In particolare, ai sensi dell’art. 2500-septies e 2500-octies c.c. tale tipo di trasformazione può avvenire nei seguenti casi: a) o come trasformazione di una società di capitali in consorzio, società consortile, società cooperativa, comunione d’azienda, associazione non riconosciuta e fondazione (art. 2500-septies c.c.); b) o come trasformazione di tali soggetti in società di capitali (art. 2500-octies c.c.). Si tratta, in tutti i casi, di trasformazione in senso proprio: muta la forma giuridica, non l’identità del soggetti, per cui si ha piena continuità di rapporti giuridici. Dal punto di vista fiscale nulla muta se vi è identità di regime fiscale tra situazione anteriore e situazione posteriore alla trasformazione, se invece vi è un mutamento di disciplina scatta un regime fiscale particolare. Come nel caso della trasformazione da società di un tipo a società di altro tipo, regolata nell'art. 170, la normativa tributaria si accosta alla trasformazione eterogenea da un'angolazione particolare, disciplinando non tutte le trasformazioni eterogenee, ma solo quelle che implicano un mutamento nello “statuto fiscale” dell'ente, ravvisabile questa volta (anziché nel passaggio dalla sfera dei soggetti passivi dell‘IRES a quella dei soggetti tassati per trasparenza o viceversa) nel passaggio dalla sfera dei soggetti commerciali a quella dei soggetti non commerciali o viceversa. Insomma, vengono disciplinate quelle trasformazioni che, oltre ad essere civilisticamente eterogenee, lo sono pure fiscalmente, in quanto provocano la “decommercializzazione” dell'ente o la sua “commercializzazione”. In questa prospettiva il comma 1 dell'art. 171 si occupa della trasformazione di cui all'art. 2500-septies c.c. nella misura in cui l'ente non societario risultante dalla trasformazione sia qualificabile come non commerciale, stabilendo, per questa evenienza, che i beni della società trasformata si considerino realizzati in base al loro valore normale, salvo che non confluiscano nell'azienda o complesso aziendale dell'ente stesso (l'ente non commerciale potrebbe infatti esercitare un'attività d'impresa, sia pure, naturalmente, in via secondaria). Ne deriva che: a) se, e nella misura in cui, i beni della società trasformata 114 confluiscono nella (eventuale) sfera aziendale del patrimonio dell'ente non commerciale, da determinasi in base al combinato disposto degli art. 144, comma 3°, e 65, comma 1, (ossia con i criteri ordinariamente valevoli per l'identificazione dei beni relativi all'impresa presso gli enti non commerciali che esercitano attività commerciali), non interrompendosi il regime dei beni d'impresa, e non ricorrendo alcun evento traslativo, non si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti; b) se, e nella misura in cui, i beni della società non confluiscono nella (eventuale) sfera aziendale del patrimonio dell'ente non commerciale, interrompendosi il regime dei beni d'impresa, nonostante l'assenza di un evento traslativo, si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti in ragione del valore normale dei beni stessi. Analogamente, il comma 2° dell’art. 171 si occupa delle trasformazioni di cui all'art. 2500 octies c.c. nella misura in cui l'ente non societario che si trasforma in società di capitali sia qualificabile come non commerciale, stabilendo, per questa ipotesi, l'applicazione ai beni diversi da quelli già compresi nella (eventuale) azienda o complesso aziendale dell' ente della disciplina prevista per i conferimenti in società. Ne deriva che: a) se, e nella misura in cui, i beni dell'ente trasformato sono già soggetti al regime dei beni d'impresa, non interrompendosi detto regime, e non ricorrendo alcun evento traslativo, non si ha realizzo delle plusvalenze e delle minusvalenze latenti; b) se, e nella misura in cui, i beni dell'ente non sono già soggetti a detto regime, gli stessi si considerano conferiti nella società che risulta dalla trasformazione e poiché il conferimento è equiparato alla cessione onerosa (art. 9 TUIR), si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti in ragione del valore normale dei beni stessi (cfr. art. 9, comma 2°, per la determinazione del corrispettivo nei conferimenti in società non quotate). Il realizzo che interessa questo secondo gruppo di beni non implica tuttavia il concorso della generalità dei relativi plusvalori e minusvalori alla formazione del reddito complessivo dell' ente trasformato: l'art. 67, comma 1, lett. n), prevede infatti questi ultimi concorrano alla determinazione della predetta grandezza solo se classificabili tra i redditi diversi secondo le regole ordinarie. La soluzione accolta, imperniata sulla finzione del conferimento per i beni non soggetti al regime dei beni d'impresa anteriormente alla trasformazione, si propone di mediare tra le due esigenze che emergono nell'approccio a queste trasformazioni: a) quella di un aggiornamento dei valori fiscalmente riconosciuti dei beni aloro ingresso nel regime dei beni d'impresa, per non attrarre ad esso plusvalori e minusvalori maturati al suo esterno; e b) quella di conferire rilevanza ai plusvalori e ai minusvalori scaturenti da tale processo, se rilevanti laddove conseguiti fuori dal reddito d'impresa, per evitare una loro sterilizzazione per effetto del predetta rimodulazione dei valori dei beni dell'ente. Il comma 1 dell’art. 171 disciplina inoltre le riserve di utili costituite dalla società di capitali prima della trasformazione in ente non commerciale, estendendo alle stesse la 115 disciplina prevista dall'art. 170, comma 4, per il caso della trasformazione di una società di capitali in una società di persone. Tuttavia, poiché gli enti non commerciali sono (almeno per il momento) soggetti passivi dell‘IRES, come le società di capitali, detta estensione non può essere giustificata sulla base dell'identità di ratio, ma probabilmente si raccorda a ragioni di cautela fiscale connesse al minore formalismo contabile che contrassegna il regime tributario degli enti non commerciali. Non sono regolati, invece, gli effetti delle trasformazioni eterogenee sui soci, ancorché alcune di esse abbiano delle ripercussioni sulla posizione di questi ultimi ignote alla trasformazione della società in altra società. Si pensi alla trasformazione di una società di capitali in fondazione, che determina l'annullamento della partecipazione, o alla trasformazione di una fondazione in società di capitali, che determina la creazione di una partecipazione. Nel primo caso si registra un decremento patrimoniale, consistente in una perdita della partecipazione da considerare rilevante, ai fini del calcolo del reddito del socio, nei limiti in cui un siffatto evento può considerarsi ordinariamente rilevante. Nel secondo si registra un incremento patrimoniale, traducibile in una sopravvenienza attiva da conteggiare, quando conseguita nell' esercizio d'impresa, nel reddito d'impresa del socio. 8.1.4 I conferimenti I conferimenti, generalmente, hanno per oggetto denaro; possono però avere per oggetto anche altri beni (crediti, immobili, partecipazioni, aziende). Fiscalmente i conferimenti sono equiparati alle cessioni a titolo oneroso: ciò significa che, di norma, le plusvalenze dei beni conferiti (diversi dal denaro) sono da considerare realizzate come se il bene fosse ceduto verso un corrispettivo in danaro (conferimenti c.d. realizzativi). Vedremo però che accanto al regime ordinario dei conferimenti realizzativi, che implicano la tassazione delle plusvalenze insite nei beni conferiti, vi sono anche conferimenti detti “non realizzativi” o “neutrali”, che non rendono tassabili le plusvalenze. Nel regime di tassazione ordinaria, si pone il problema di quantificare la plusvalenza. Per effetto del conferimento, il conferente non riceve danaro ma un partecipazione (azioni o quote); la plusvalenza insita nel bene conferito non viene “monetizzata”, bensì viene “cambiata” con un altro bene (il titolo di partecipazione). Per calcolare la plusvalenza è dunque necessario dare un valore alle partecipazioni ricevute32. Sottraendo al valore delle partecipazioni ricevute il valore (fiscale) del bene conferito, si ottiene la misura della plusvalenza tassabile. Per determinare il valore delle 32 Tale valore non è per forza uguale alla quota di capitale sociale. 116 partecipazioni ricevute, bisogna distinguere tra conferimenti in società quotate e conferimenti in società non quotate. Se la conferitaria è una società quotata in borsa (o in altri mercati regolamentati), è facile individuare il valore normale delle partecipazioni, basandosi sulle quotazioni della borsa (in specie, si tiene conto della media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese). Se la conferitaria non è quotata, si assume che il valore normale delle partecipazioni ricevute sia pari al valore normale dei beni conferiti (la plusvalenza è dunque pari alla differenza tra valore normale e valore fiscale dei beni conferiti). I conferimenti hanno rilievo non solo per il conferente, ma anche per il conferitario, che deve dare un valore ai beni ricevuti. Non sempre il conferimento rende tassabili le plusvalenze dei beni conferiti; vi è infatti, un regime ordinario (che importa tassazione delle plusvalenze) ed un regime che prevede la neutralità. Va considerata, al riguardo, la differenza tra cessione e conferimenti: con la cessione viene meno ogni legame tra il cedente e il bene; la plusvalenza è normalmente monetizzata e, quindi, tassata. Con il conferimento, invece, la plusvalenza non è monetizzata, e permane un legame con il bene conferito, mediato dalla partecipazione ricevuta. Ciò spiega perché, nonostante la equiparazione fiscale dei conferimenti alle cessioni, oltre al regime ordinario di tassazione delle plusvalenze, vi sono conferimenti per i quali è previsto un regime di neutralità fiscale. Prima delle modifiche apportate con la Finanziaria 2008 per i conferimenti di azienda vi erano due regimi di neutralità fiscale: a) regime di “continuità dei valori contabili”; b) regime di “continuità dei valori fiscali”. Il regime di continuità dei valori contabili riguardava sia il conferimento di aziende, sia il conferimento di partecipazioni di controllo e di collegamento. Esso si realizzava se il conferente attribuiva ai titoli di partecipazione ricevuti lo stesso valore contabile dell’azienda conferita e se, a sua volta, il conferitario attribuiva ai beni dell’azienda ricevuta lo stesso valore contabile che avevano nella sfera giuridica del conferente (art. 175 TUIR). Si richiedeva, in sostanza, che restasse immutato il valore contabile dei beni conferiti presso il conferitario (ossia che vi fosse continuità di valori dei beni nelle scritture contabili di conferente e conferitario) e che il conferente attribuisse, alle partecipazioni ricevute, il valore contabile dei beni conferiti. La continuità dei valori impediva quindi la tassazione della plusvalenza, che restava latente. Vi era invece tassazione della plusvalenza se un differenziale positivo era rilevato da uno dei due soggetti dell’operazione. Ossia se, presso il conferitario, i beni conferiti ricevevano un valore contabile superiore a quello che avevano presso il conferente, o se il conferente attribuiva alla partecipazione un valore superiore a quello 117 che avevano i beni conferiti. Questo regime è stato eliminato dalla Finanziaria 2008 per il conferimenti d’azienda e, pertanto, dal 1° gennaio 2008 tale regime potrà riguardare solo le partecipazioni di controllo e di collegamento. Il secondo regime di neutralità (che la Finanziaria 2008 ha reso regime naturale per i conferimenti di azienda) è fondato sulla “continuità dei valori fiscali” dei beni, astraendo dai valori contabili (art. 176 TUIR). Ciò vuol dire, in altre parole, che può esservi divergenza tra valori contabili e valori fiscali. La plusvalenza è messa in evidenza in contabilità, perché il conferente attribuisce alla partecipazione ricevuta un valore superiore al valore fiscale della azienda conferita; ed il conferitario iscrive l’azienda ad un valore superiore al suddetto valore fiscale. In questo caso, dunque si prevede che vi sia differenza fra i nuovi valori contabili di iscrizione della partecipazione e dell’azienda ed il precedente “valore fiscalmente riconosciuto” dell’azienda (presso il conferente). La plusvalenza messa così in evidenza non è tassata, ma i divergenti valori contabili e fiscali dei beni devono essere indicati in un “prospetto di riconciliazione”, da presentare con la dichiarazione dei redditi. Tale prospetto ha la funzione di “memorizzare” la differenza tra valori civilistici e fiscali. Si avrà tassazione quando il conferente cederà la partecipazione o il conferitario cederà l’azienda. Il valore di partenza, ai fini del calcolo della plusvalenza, non sarà il valore contabile di iscrizione, ma il valore fiscale che è stato indicato nel “prospetto di riconciliazione”. In tal modo, sarà tassata anche la parte di plusvalenza (latente) che non era stata tassata per effetto del conferimento dell’azienda. Prima della Finanziaria 2008 il conferimento d’azienda in regime di neutralità poteva essere applicato solo nell’ipotesi in cui la società conferitaria apparteneva alla tipologia dei soggetti IRES. La Finanziaria 2008, modificando l’art. 176 TUIR, ha invece disposto che dal 2008 sarà possibile eseguire conferimenti d’azienda neutrali anche qualora la conferitaria è una società di persone. Inoltre per effetto della Finanziaria il regime di neutralità sarà applicabile anche quando le parti del negozio giuridico sono soggetti non residenti, ma l’azienda conferita è allocata in Italia. Infine anche per le operazioni di conferimento in esame è possibile applicare l’imposta sostitutiva di cui all’art. 176, comma 2-ter, del TUIR33. 33 La disciplina dell’imposta sostitutiva è stata già esaminata nell’ambito della fusione sub. par. 10.1.1. 118 CAPITOLO IX 9.1 LE OPERAZIONI STRAORDINARIE TRANSFRONTALIERE CON SPECIFICO RIFERIMENTO ALLE DIRETTIVE EU 9.1.1 Cenni introduttivi Il TUIR disciplina alcune operazioni straordinarie internazionali e precisamente quelle in precedenza regolate dal D.Lgs. 544/1992, adottato in attuazione della Direttiva CE 90/434 recentemente modificata dalla Direttiva 2005/19. Tale Direttiva ha avuto lo scopo di favorire la circolazione delle imprese all’interno della Comunità europea, rimuovendo l’ostacolo che la variabile fiscale appone a tale libertà ed ha inquadrato le operazioni in esame non tra gli atti di realizzo bensì tra quelli di mera organizzazione strutturale, considerando le operazioni stesse fiscalmente neutre e cioè inidonee a creare alcun presupposto impositivo. Ai sensi dell’art. 178 TUIR le operazioni considerate sono: a) le fusioni tra società di capitali residenti in Italia e società analoghe residenti in altri Stati membri dell'Unione europea; b) le scissioni proporzionali totali di una delle società appena menzionate con attribuzione del patrimonio a due o più altre società medesime, preesistenti o di nuova costituzione, alcuna delle quali residente in uno Stato membro diverso da quello della prima, e limitatamente alla corrispondente parte dell'operazione; b-bis)le scissioni parziali medianti le quali uno dei soggetti indicati nella lett. a) trasferisce, senza essere sciolto, mantenendo almeno un’azienda o un complesso aziendale, uno o più aziende o complessi aziendali a uno o più soggetti indicati nella stessa lett. a), alcuno dei quali sia residente in uno Stato UE, con assegnazione ai propri partecipanti, secondo un criterio proporzionale, delle azioni o quote del soggetto o dei soggetti beneficiari, sempre che il soggetto scisso sia residente nel territorio dello Stato e che l’eventuale conguaglio in denaro ai partecipanti del soggetto scisso non superi il 10% del valore nominale della partecipazione ricevuta in cambio; c) i conferimenti di aziende da una ad un'altra delle società sopra indicate, residenti 119 in Stati diversi dell'Unione, sempre che una sia residente in Italia; d) le operazioni menzionate in precedenza tra società indicate sopra non residenti in Italia, con riguardo alle stabili organizzazioni in Italia; e) gli scambi di partecipazioni mediante i quali una delle società indicate sopra acquista o integra una partecipazione di controllo in un'altra società sopra indicata, residente in un altro Stato dell'Unione. Restano non regolate espressamente le operazioni straordinarie internazionali che coinvolgono società di capitali residenti in Stati non appartenenti all'Unione, nonché la generalità di quelle che interessano le società di persone. A queste operazioni, tuttavia, possono peraltro senza dubbio applicarsi molti dei principi desumibili dalla normativa sulle operazioni elencate nell' art. 178. 9.1.2 Le fusioni e scissioni transnazionali Ai sensi dell’art. 179, comma 1, TUIR alle operazioni indicate nelle lettera a), b) e b-bis) dell’art. 178 (ossia fusioni e scissioni) si applicano le disposizioni di cui agli artt. 172 e 173. In particolare, nella fusione di una società residente in una società non residente, nella scissione di una società residente con attribuzione del patrimonio a società non residenti, si produce un effetto simile a quello considerato a proposito della trasformazione eterogenea di una società di capitali in un ente non commerciale: la “decommercializzazione” del soggetto, e con essa la perdita di quel carattere su cui si fonda l'attrazione al regime dei beni d'impresa dell'intero patrimonio del soggetto medesimo. La destinazione a finalità estranee all'esercizio d'impresa, e con essa il realizzo a valore normale, è configurabile, in queste ipotesi, per tutti i beni che, non confluendo nell' eventuale stabile organizzazione della società non residente (emergente dall'operazione), sfuggono al regime dei beni d'impresa predisposto dall' ordinamento tributario italiano. L’applicazione del generale principio di neutralità fiscale alle fusioni e scissioni transnazionali si sostanzia infine nella previsione contenuta nel comma 4 in base alla quale viene previsto che: a) le operazioni di fusione e scissione non comportano il realizzo di plusvalenze o minusvalenze; b) (a tale fine) il valore fiscale delle azioni o quote date in cambio deve essere assunto anche dalle azioni o quote ricevute, ripartendosi tra tutte in proporzione dei valori alle stesse attribuiti ai fini della determinazione del rapporto di cambio; c) (viceversa) eventuali conguagli concorrono a formare il reddito in capo ai soggetti percettori (fatta salva, ove vengono soddisfatti i relativi presupposti l’applicazione 120 dell’art. 47, comma 7, 58 e 87). Nel caso in cui la società scissa o la società fusa siano residenti in Italia la neutralità fiscale dell’operazione è subordinata al fatto che gli elementi patrimoniali della società italiana confluiscano in una stabile organizzazione italiana dell’incorporante o beneficiaria non residente. In particolare, i beni confluiti nella stabile organizzazione dovranno essere valutati in base all’ultimo valore fiscalmente riconosciuto in capo alla società italiana che si estingue. I beni non confluiti nella stabile organizzazione italiana si considerano realizzati al valore normale. Tale disposizione si applica anche se successivamente alla fusione (o scissione) i componenti conferiti nella stabile organizzazione ne vengano distolti. 9.1.3 I conferimenti transnazionali L'art. 179, comma 2, TUIR estende ai conferimenti di azienda infracomunitari (trattasi dei conferimenti aventi ad oggetto complessi aziendali che intercorrono tra un soggetto residente in Italia e uno residente in altro Stato membro dell’UE) il regime di neutralità previsto dall'art. 176. Pertanto tali conferimenti non costituiscono realizzo di plusvalenze o di minusvalenze, ma l’ultimo costo dell’azienda o del ramo aziendale costituisce il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione ricevuta. Tale disciplina si applica anche se successivamente al conferimento i componenti confluiti nella stabile organizzazione italiana ne vengano distolti. L’art. 179, al comma 5, TUIR detta anche una disciplina speciale per i conferimenti di una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro. In particolare per tale operazione il TUIR dispone che: a) le relative plusvalenze sono imponibili nei confronti del conferente residente a titolo di realizzo al valore normale (con deduzione della relativa imposta, fino al suo totale assorbimento, dell’ammontare dell’imposta che lo Stato, dove è situata la stabile organizzazione, avrebbe prelevato in assenza delle norme della Direttiva n. 90/434/CEE); b) la partecipazione ricevuta in cambio deve essere valutata in base all’ultimo valore fiscalmente riconosciuto degli elementi patrimoniali conferiti, aumentato di un importo pari all’imponibile corrispondente all’imposta dovuta a saldo. Ai sensi dell’art. 179, comma 5, TUIR i conferimenti e gli scambi di partecipazione che rispettano i requisiti previsti dall’art. 178, comma 1, lett e) non comportano il realizzo di plusvalenze o minusvalenze sulle azioni o quote scambiate. In particolare, la plusvalenza latente sulla partecipazione apportata dal socio 121 conferente non concorrerà alla formazione del reddito imponibile di tale soggetto, ma sarà tassata solo se e quando il suddetto socio alienerà una parte o la totalità delle azioni (o quote) della società conferitaria che ha ricevuto in cambio. In sostanza, a seguito dell’operazione di scambio di azioni, la partecipazione al capitale della conferitaria ricevuta dal socio conferente eredita, il valore della partecipazione scambiata o conferita, con conseguente ed automatico trasferimento della plusvalenza latente in capo alla nuova partecipazione. Qualora il conferente, in aggiunta alla partecipazione nella conferitaria, riceva anche un eventuale conguaglio in denaro (che non deve comunque eccedere il 10% del valore nominale delle azioni) quest’ultmo concorrerà a formare il suo reddito imponibile secondo le regole ordinarie previste dal TUIR (art. 87, 58 e 68, comma 3). La società conferitaria può iscrivere in bilancio le partecipazioni ricevute ad un valore pari a quello risultante dalle scritture contabili della società conferente, ad un valore pari a quello di mercato oppure ad un valore intermedio rispetto ai due precedenti. Tale interpretazione è stata confermata dall’Amministrazione finanziaria. Infatti con Ris. 106/E del 2000 il Ministero delle Finanze si è pronunciato in merito ad una operazione di conferimento di partecipazioni da parte di una società italiana a favore di una società olandese, nella quale: a) la società italiana manteneva l’iscrizione delle partecipazioni ricevute ai valori di libro di quelle conferite e la società olandese conferitaria iscriveva le quote apportate al valore corrente; b) la società conferitaria procedeva poi a cedere le partecipazioni conferite, realizzando esigue plusvalenze contabili e quindi utili civilistici da distribuire; c) la conferitaria si impegnava a restituire il capitale, in esito all’operazione di cessione delle partecipazioni, con conseguente annullamento della partecipazione in capo alla conferente. Ebbene l’Amministrazione finanziaria ha negato l’esistenza di vantaggi fiscali nell’operazione portata alla sua attenzione atteso che “il capitale restituito verrebbe assoggettato a tassazione in Italia per la parte eccedente il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione”: dunque la “scarsa incidenza dei vantaggi fiscali è ricondotta all”impegno della società a far concorrere al reddito in Italia – sotto forma di restituzione del capitale – i valori latenti già maturati al momento del conferimento, nell’ipotesi in cui la società olandese dovesse procedere ad atti di realizzo”. In relazione alla società conferente l’Agenzia delle Entrate, modificando l’orientamento espresso in una precedente risoluzione in considerazione dei rilievi mossi dalla Commissione europea, ha chiarito che “la continuità contabile, per quanto possa rendere più agevoli eventuali controlli, non è condizione indispensabile per 122 conservare la possibilità di assoggettare a tassazione le plusvalenze al momento dell’effettivo realizzo” (Ris. 159/E del 2003). Pertanto il regime di neutralità fiscale opera automaticamente essendo irrilevante che il soggetto italiano conferente riscriva nella propria contabilità le partecipazioni ricevute a fronte del conferimento ad un valore superiore rispetto a quello di iscrizione delle partecipazioni scambiate. 9.2 LA LIQUIDAZIONE All'ingresso dell'impresa, individuale o collettiva, nella fase della liquidazione (ossia in quella fase in cui, cessata l'attività produttiva, si provvede alla conversione in denaro dei suoi beni, all'estinzione dei debiti, ed in generale alla definizione dei rapporti pendenti, con la devoluzione del residuo alla sfera personale dell'imprenditore o, nel caso di società, ai soci) l'art. 182 TUIR ricollega un importante mutamento nella disciplina relativa al calcolo del reddito, ispirato (come quello previsto per il fallimento) all'idea della unitarietà di tale fase e quindi all'esigenza di determinare unitariamente il suo risultato. Questo mutamento rende innanzi tutto necessario separare il reddito imputabile alla fase della liquidazione da quello che invece è attribuibile alla fase della gestione ordinaria dell'impresa e, pertanto, rende necessario procedere all'autonoma misurazione, secondo le regole ordinariamente applicabili all'impresa di cui trattasi, del reddito conseguito nell'intervallo di tempo trascorso tra l'inizio dell'esercizio e l'inizio della liquidazione. L'art. 182, comma 1, all'uopo dispone che il reddito in questione deve essere determinato sulla base di un apposito conto economico (o secondo le regole fissate per le imprese minori, ove ne ricorrano le condizioni di applicabilità), il quale per le società - deve essere redatto “in conformità alle risultanze del conto della gestione” che gli amministratori devono presentare ai liquidatori ai sensi dell’art. 2277 c.c., in relazione al periodo compreso tra la data di riferimento dell'ultimo bilancio d'esercizio e quella in cui i liquidatori entrano in funzione. Peraltro, l'art. 182, nel mentre per il caso di imprese individuali identifica esplicitamente la data di inizio della liquidazione in quella in cui ne viene data comunicazione all'Ufficio delle imposte mediante raccomandata con avviso di ricevimento (e più specificamente in quella in cui la raccomandata è consegnata all'ufficio postale), trascura di delucidare quale momento segni per le imprese collettive l'apertura della liquidazione. Sulla base di quanto prescritto dall’art. 5, comma 1, del DPR 322/1998, ai sensi del quale la dichiarazione relativa al “periodo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui ha effetto la deliberazione di messa in liquidazione” deve essere presentata entro l'ultimo 123 giorno del settimo mese successivo a tale data, si è portati ad affermare che la suddetta data collima con quella in cui la società viene posta in liquidazione, per delibera assembleare o per provvedimento giudiziale. D'altra parte, la considerazione del legame che viene instaurato dall'art. 182 tra il conto economico rilevante per il computo del reddito in questione e il ricordato conto della gestione di cui all' art. 2277 c.c., potrebbe indurre a ritenere legittimo uno spostamento in avanti di tale data a quella in cui gli amministratori vengono sostituiti dai liquidatori. Nel caso di imprese individuali il reddito relativo alla frazione di esercizio di cui trattasi, pur dovendo essere oggetto di un'apposita dichiarazione da parte del liquidatore (o in mancanza dall'imprenditore medesimo), confluisce ad ogni effetto nel reddito complessivo relativo al periodo d'imposta nel corso del quale ha avuto inizio la liquidazione. La predetta frazione di esercizio fornisce dunque in questa ipotesi la base temporale per il calcolo di uno degli importi che partecipano alla formazione del reddito del periodo d'imposta nel quale essa risulta compresa, e non acquisisce il rilievo di un autonomo periodo d'imposta. Analogamente, nel caso di società di persone, il reddito dichiarato dalla società per la frazione di esercizio in discorso deve ai fini dell'imposta personale essere imputato pro-quota ai soci, confluendo nel reddito complessivo di questi ultimi relativo al periodo d'imposta nel corso del quale si è aperta la procedura liquidativa. Nel caso di società di capitali il lasso di tempo considerato rappresenta invece un autonomo periodo d'imposta. Passando alla fase della liquidazione, è possibile individuare tre fattispecie, fermo restando l'obbligo per il liquidatore di presentare in relazione ad essa, ed entro quattro mesi dalla sua conclusione, un' apposita dichiarazione finale. La prima si realizza quando la liquidazione si chiude nel corso dello stesso periodo in cui si è aperta. In questa ipotesi il reddito imputabile a tale fase si determina, con i criteri consueti, sulla base del bilancio finale di liquidazione. Non si registra pertanto alcun mutamento nella disciplina dell'attività di misurazione del reddito in questione, se si eccettua la sostituzione del bilancio finale di liquidazione all' ordinario bilancio d'esercizio. Ma va segnalato che ai sensi dell'art. 17 del TUIR, se l'impresa individuale è stata esercitata da più di cinque anni, i redditi in questione possono essere assoggettati a tassazione separata, anziché confluire nel reddito complessivo. Un'analoga possibilità è offerta dallo stesso articolo, a condizione che il periodo intercorso tra la costituzione della società e l'inizio della liquidazione sia superiore a cinque anni, ai soci delle società di persone per i redditi imputati loro in dipendenza della liquidazione, e ai soci delle società di capitali per i redditi compresi nelle somme loro attribuite o nel valore normale dei beni loro assegnati a seguito della liquidazione. La seconda si realizza quando la liquidazione si protrae oltre il predetto termine, e per un numero di esercizi, compreso quello iniziale, non superiore a tre, nel caso di 124 imprese individuali o di società di persone, o a cinque, nel caso di società di capitali. In questa ipotesi il reddito della residua frazione dell'esercizio iniziale, e quello di ciascun esercizio intermedio, è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio, salvo conguaglio in base al bilancio finale. Il reddito della residua frazione dell' esercizio iniziale, e quello degli esercizi intermedi, viene dunque calcolato con la metodologia ordinaria, e in maniera autonoma, partendo dal bilancio che l'art. 2490 c.c. impone ai liquidatori di redigere e fare approvare annualmente. Tuttavia, questa determinazione ha carattere meramente provvisorio, in quanto sulla scorta del bilancio finale si deve provvede a consolidare i risultati di tali esercizi, stabilendo il risultato globale della procedura. Ora, quando il reddito d'impresa collima con il reddito complessivo, come nel caso delle società di capitali, l'operazione descritta dalla disposizione in commento si presenta agevole. Il risultato in questione costituisce infatti la grandezza su cui procedere alla liquidazione dell'imposta, dalla quale deve essere scomputato l'ammontare delle imposte eventualmente già versate con riferimento agli esercizi ricompresi nel consolidamento. Quando la predetta coincidenza non sussiste, come nel caso dell'imprenditore individuale, o dei soci delle società di persone, l'operazione di cui trattasi si manifesta più complessa, specie se non si è optato (nelle dichiarazioni relative al periodo iniziale e a quelli intermedi), per la tassazione separata. In questa evenienza infatti, da una parte, se non si opta nella dichiarazione relativa al periodo finale per la tassazione separata, il predetto risultato globale partecipa (eventualmente pro-quota, se si tratta di redditi di società di persone imputati ai soci ai sensi dell'art. 5) alla formazione del reddito complessivo dall'altra per stabilire l'ammontare delle imposte versate nel corso della procedura (da compensare con l'imposta dovuta con riferimento al periodo finale), si rende necessario identificare per ciascun esercizio compreso nella liquidazione la quota di imposta imputabile ai redditi derivanti dalla liquidazione medesima. Naturalmente la liquidazione si può chiudere così con un risultato positivo come con un risultato negativo. Nel caso di imprese individuali o di società di persone la perdita scaturita dalla liquidazione è espressamente ricondotta dall'art. 182, comma 2°, alla sfera applicativa della disciplina ordinaria di cui all'art. 8. Nel caso di società di capitali tale perdita si manifesta invece priva di valore, e non è neppure considerata dal legislatore, atteso che la chiusura della liquidazione conduce allo scioglimento della società, e rende difficile ipotizzare (salva l'eventualità di sopravvenienze attive) il conseguimento di redditi da cui scomputarla. Con riferimento a quest'ultima categoria di società è previsto che le perdite degli esercizi anteriori all'inizio della liquidazione, se non compensate nel corso di questa ai sensi dell'art. 84 (dai redditi della residua frazione dell'esercizio iniziale e da quelli degli esercizi intermedi), sono ammesse in diminuzione in sede di conguaglio, possono cioè essere contrapposte direttamente al risultato finale della liquidazione. Questa 125 disposizione rispecchia l'idea dell'unitarietà del reddito conseguito durante (e mediante) la liquidazione, ed induce a ritenere che, ai fini dell'applicazione del suddetto art. 84 (ed in particolare del calcolo del quinquennio), il lasso di tempo impegnato dalla procedura liquidativa rappresenti un unico periodo d'imposta. Un'analoga norma non è riscontrabile in rapporto agli imprenditori individuali e ai soci delle società di persone. Questa assenza si poteva comprendere sino a quando le perdite subite da questi soggetti potevano essere dedotte dal loro reddito complessivo, ma riesce difficilmente giustificabile ora che la loro deduzione è limitata ai redditi della medesima tipologia. È discusso se le perdite della residua frazione di esercizio iniziale, e degli esercizi intermedi, abbiano rilievo autonomo, possano cioè essere sfruttate ai sensi dell'art. 8 e dell'art. 84. Contro tale possibilità si è schierata la relazione ministeriale alla disposizione in commento, sostenendo che la regola della rilevanza dei risultati degli esercizi in questione scaturirebbe unicamente da esigenze di cautela fiscale, e varrebbe perciò solo laddove detta esigenza sussiste, e cioè solo ove si abbia un reddito e non una perdita. In realtà il testo dell'art. 182 non sembra autorizzare una simile soluzione restrittiva, non escludendo la possibilità di cui trattasi, né espressamente, né implicitamente con la formula “il reddito ... è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio”, la quale pare indirizzata a definire le modalità di calcolo e la rilevanza sul piano impositivo del risultato economico degli esercizi di cui trattasi più che a rendere inefficaci le eventuali perdite. L'unico spunto contrario lo offre, nell'ultimo periodo, laddove prevede che, se la liquidazione si chiude in perdita, si applica l'art. 8. Se qualche dubbio può perciò nutrirsi per imprenditori individuali e società di persone, per le società di capitali non sembra si possa negare l'utilizzo delle predette perdite anche in corso di liquidazione. Può accadere, specie se si aderisce alla tesi della «sterilizzazione» delle perdite sofferte durante la liquidazione, che l'ammontare delle imposte versate in relazione ai redditi prodotti durante la liquidazione sia maggiore di quello dell'imposta (eventualmente) dovuta per il periodo conclusivo. In questa ipotesi sorge un credito verso l'Erario, che può essere chiesto a rimborso oppure - ma, per le ragioni indicate sopra a proposito del riporto delle perdite, non nel caso di società di capitali - riportato in avanti. La terza, ed ultima, fattispecie ricorre quando la durata della liquidazione varca il suddetto limite dei tre o dei cinque esercizi. In questa ipotesi i redditi (o le perdite, e questa è una buona ragione per non considerare dette perdite irrilevanti ai fini impositivi) esposti nelle dichiarazioni relative alla residua frazione dell' esercizio iniziale e agli esercizi intermedi perdono quella peculiare attitudine a dare vita ad un risultato valorizzabile unitariamente in sede di chiusura della liquidazione, e quindi ritornano sotto l'egida della disciplina ordinaria. Questo ritorno non coinvolge soltanto i 126 meccanismi di calcolo dei redditi emersi nel corso della liquidazione, ma altresì le modalità della loro acquisizione a tassazione. Per effetto del superamento dei limiti temporali suindicati viene infatti meno - e retroattivamente - il potere dell'imprenditore o dei soci di avvalersi della tassazione separata di cui al citato art. 17. E questo implica la necessità - quando i predetti soggetti si sono avvalsi del potere in questione - di procedere alla rideterminazione dell'imposta dovuta per ciascuno degli esercizi chiusi prima dello sconfinamento, facendo concorrere i redditi conseguiti in dipendenza della liquidazione, originariamente tassati separatamente, alla formazione del reddito complessivo, ricalcolando l'imposta, e versando la differenza. Effetti analoghi - di consolidamento delle dichiarazioni relative agli esercizi chiusi durante lo svolgimento della procedura - si deve ritenere produca la revoca dello stato di liquidazione, ancorché intervenuta prima della scadenza dei termini menzionati: non compiendosi la liquidazione dell'impresa appare, infatti, irragionevole applicare la normativa che la presuppone. Quanto al periodo interessato dalla revoca, l'ininfluenza della ripresa dell' attività sulla disciplina relativa alla determinazione del reddito esclude la sua attitudine ad interrompere il periodo stesso, al quale è quindi da riconoscere una durata ordinaria. 127 128 129