UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO
Facoltà di economia
CORSO DI PIANIFICAZIONE FISCALE D’IMPRESA
PROF. STEFANO PETRECCA
DISPENSE
Anno accademico 2010 - 2011
INDICE
Introduzione
I.
II.
III.
CAPITOLO
1.1 CENNI GENERALI SUL SISTEMA DELLE IMPOSTE SUI REDDITI IN ITALIA
1.2 IL REDDITO D’IMPRESA ED IL BILANCIO
1.2.1 Nozione di reddito d’impresa
1.2.2 La tassazione del reddito d’impresa in base al bilancio
1.2.3 Cenni ai principi generali in materia di tassazione del reddito d’impresa
1.2.4 Componenti positivi
1.2.5 Componenti negativi
1.3 L’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ (IRES)
1.3.1 Presupposto, aliquota e soggetti passivi
1.3.2 Tassazione delle società versus tassazione dei soci
1.3.3 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti residenti
1.3.4 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti non resident i
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CAPITOLO
2.1 CENNI AL FEDERALISMO FISCALE
2.2 L’IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE (IRAP)
2.2.1 Caratteri generali dell’imposta
2.2.2 Presupposto, base imponibile ed aliquota
2.3 IL SISTEMA DELL’IVA
2.3.1 Generalità e caratteri dell’imposta
2.3.2 Presupposto soggettivo
2.3.3 Il campo di applicazione e le operazioni escluse
2.3.4 Regole impositive
2.4 LE ALTRE IMPOSTE INDIRETTE NELLA FISCALITÀ D’IMPRESA
2.4.1 L’imposta di registro
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42
CAPITOLO
3.1 LA SCELTA
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DEL MODELLO OPERATIVO: DITTA INDIVIDUALE, SOCIETÀ DI
PERSONE E SOCIETÀ DI CAPITALI
3.1.1 Cenni sulla tassazione delle persone fisiche
3.1.2 Le persone fisiche e le attività aziendali
3.1.3 La tassazione della ditta individuale
1
3.1.4 La tassazione delle società di persone
3.1.5 La tassazione delle società di capitali
3.2 LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI
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3.2.1 Cenni sulla tassazione dei redditi di capitale
3.2.2 La tassazione dei dividendi per le persone fisiche
3.2.3 La tassazione degli interessi per le persone fisiche
3.2.4 Le plusvalenze dei t itoli azio nari e obbligazionari (capital gains)
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CAPITOLO
4.1 LA TASSAZIONE
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4.1.1 La tassazione dei dividendi per le persone giuridiche
4.1.2 La tassazione degli interessi per le persone giuridiche
4.1.3 La tassazione del capital gain per le persone giuridiche
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CAPITOLO
5.1 COME FINANZIARE
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5.1.1 Modalità di finanziamento delle attività aziendali
5.1.2 La variabile fiscale nella scelta debt/equity
5.1.3 Deducibilità fiscale degli interessi passivi
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74
CAPITOLO
6.1 LE HOLDING DI FAMIGLIA ED I TRUST
6.1.1 Holding di famiglia
6.1.2 Il trust
6.2 SUCCESSIONE NELL’IMPRESA FAMILIARE
6.2.1 L’impresa familiare
6.2.2 La successione nell’impresa familiare
6.3 LE HOLDING E LE SOCIETA’ OPERATIVE
6.3.1 Cenni alla disciplina sulle società di comodo
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CAPITOLO
7.1 I GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: IL CONSOLIDATO NAZIONALE ED
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E CAPITAL GAINS PER LE
PERSONE FISICHE
IV.
DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAIN PER LE
PERSONE GIURIDICHE
V.
LE ATTIVITÀ AZIENDALI: CAPITALE SOCIALE E
FINANZIAMENTI
VI.
VII.
IL CONSOLATO MONDIALE
2
7.1.1 Aspetti fiscali del gruppo
7.1.2 Il consolidato nazionale
7.1.3 Il consolidato mondiale
VIII.
CAPITOLO
8.1 LE OPERAZIONI
DI
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FUSIONE,
SCISSIONE,
TRASFORMAZIONE
E
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CONFERIMENTO
IX.
8.1.1 La fusione
8.1.2 La scissione
8.1.3 La trasformazione di società
8.1.4 I conferimenti
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CAPITOLO
9.1 LE OPERAZIONI
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STRAORDINARIE TRANSFRONTALIERE CON SPECIFICO
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RIFERIMENTO ALLE DIRETTIVE EU
9.1.1 Cenni introduttivi
9.1.2 Le fusio ni e scissio ni transnazio nali
9.1.3 I conferimenti transnazionali
9.2 LA LIQUIDAZIONE
3
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123
Introduzione
LA PIANIFICAZIONE FISCALE
La componente fiscale, rappresentando in ogni caso un costo connesso
all’esercizio di un’attività d’impresa, gioca spesso un ruolo determinante sul piano
economico-gestionale. Molto spesso, infatti, attraverso scelte fiscali mirate è possibile
conseguire un risparmio d’imposta e, di riflesso, un miglioramento sul piano
economico-finanziario. In tale ottica, la pianificazione fiscale può essere definita come
ricerca e l’applicazione di norme, trattati, convenzioni contro le doppie imposizioni e le
altre disposizioni tributarie nell’ottica di minimizzare il costo fiscale connesso
all’esercizio di un’attività d’impresa. La riduzione della pressione fiscale in questo
modo avviene non attraverso l’occultamento di redditi imponibili (il che darebbe luogo
ad evasione fiscale), né attraverso il ricorso a costruzioni tecnico-giuridiche
completamente avulse da qualsiasi esigenza economica (il che avvicinerebbe le
operazioni dell’imprenditore all’elusione fiscale), ma attraverso il rispetto totale, sia
della lettera che della ratio delle normative civilistiche e fiscali nazionali ed
internazionali.
In tale ottica, occorre ricordare che esiste una pianificazione fiscale nazionale,
volta ad utilizzare al meglio innanzitutto le differenze che attengono alla tassazione
delle persone fisiche e delle persone giuridiche, nonché le varie modalità impositive
scelte dalla legislazione fiscale nazionale in relazione alle differenti tipologie di reddito,
ma esiste anche una pianificazione fiscale internazionale, specie per le aziende di
maggiori dimensioni, che tiene conto delle differenze che esistono nelle legislazioni
fiscali nazionali degli Stati e va combinata con le esigenze di delocalizzazione
dell’attività economica, legate anche alla globalizzazione dei mercati di riferimento. In
un contesto internazionale che va caratterizzandosi per una crescente liberalizzazione
dei fattori produttivi, la variabile fiscale viene a giocare, infatti, un ruolo sempre più
rilevante nella localizzazione degli investimenti.
Il concetto di “pianificazione fiscale” d’impresa ha in pratica una finalità molto
simile alla “politica di bilancio” del diritto commerciale. Attraverso il c.d. tax planning,
invero, la società programma, sulla base del quadro normativo di riferimento, le scelte
fiscali più opportune e più convenienti per cercare, quanto più possibile, di ridurre
l’incidenza anche solo finanziaria della componente fiscale sul proprio conto
economico. Affinché tuttavia possa essere elaborato un programma di pianificazione
4
fiscale, risulta importante oltre che una diretta conoscenza della normativa fiscale di
riferimento anche un’attenta analisi dello scenario in cui l’impresa si dovrà muovere,
tenendo in considerazione in particolare l’attività svolta dall’impresa, le sue
caratteristiche strutturali ed i suoi obbiettivi nel medio e lungo periodo.
A seconda dei diversi scenari di riferimento sarà dunque possibile programmare le
soluzioni fiscali che meglio si adattano alla specifica realtà che contraddistingue ogni
singola impresa. Ad esempio, quando un’impresa è stabilmente redditizia, potrà
risultare opportuno anticipare la deduzione di componenti negativi di reddito,
ritardando l’imponibilità dei componenti positivi. In questo modo, infatti, si potrà
ottenere un temporaneo vantaggio finanziario, differendo nel tempo il pagamento di
una parte delle imposte. Altre volte, invece, quando l’impresa è in perdita o beneficia di
agevolazioni di imminente scadenza, la pianificazione fiscale induce al comportamento
opposto.
Gli strumenti in genere impiegati nella pianificazione fiscale per ottenere un
vantaggio economico sono essenzialmente tre:
a) spostamento di reddito da una tasca ad un’altra: questo strumento presuppone
una differenza di tax rate a favore della tasca che beneficia del trasferimento. Tale
tecnica si può utilizzare spostando il reddito nell’ambito di un gruppo verso
società con perdite pregresse o con più favorevoli tax rate a causa sia di
localizzazioni agevolate (per esempio ai fini IRAP) sia di particolari agevolazioni
soggettive (nazionali e non);
b) spostamento di reddito da un periodo all’altro: questo strumento sfrutta la
divisione in periodi di imposta dell’attività d’impresa e consiste, in primis,
nell’anticipare o posticipare il realizzo di ricavi o il sostenimento di spese a
seconda delle previsioni di reddito (utile o perdita). Ma può consistere anche in
tecniche più raffinate che sfruttano più a fondo le operazioni economiche; un
esempio significativo in ambito finanziario riguarda la cessione di titoli che
incorporano forti capital gain. E’ certamente possibile vendere i titoli e realizzare
immediatamente la plusvalenza, ma si può lavorare con uno schema alternativo.
Si può, ad esempio, prendere in prestito dei titoli fortemente correlati a quelli in
portafoglio e venderli realizzando cassa. Alla scadenza del prestito si vendono i
titoli di proprietà e si chiude la posizione. In questo modo la plusvalenza è stata
rinviata ad un periodo successivo con un rischio molto basso;
c) cambio della natura di un reddito: con questa tecnica si può sfruttare il diverso
peso impositivo sulle varie fonti. Per esempio, è possibile trasformare un capital
gain su una partecipazione in un dividendo effettuando una distribuzione prima
della cessione (in modo da abbattere il valore della partecipazione e dunque la
plusvalenza) oppure interponendo una sub holding nella struttura societaria.
5
1.1
CENNI GENERALI SUL SISTEMA DELLE IMPOSTE SUI REDDITI IN
ITALIA
Nel nostro ordinamento le imposte sono variamente classificate, secondo criteri e
scopi assai diversi. La distinzione basilare è quella tra imposte dirette e indirette. In
particolare, sono dirette le imposte che hanno come presupposto il reddito o il
patrimonio, indirette tutte le altre. I giuristi spiegano questa terminologia in ragione del
fatto che le imposte dirette colpiscono manifestazioni dirette (o immediate) della
capacità contributiva (reddito, patrimonio, ecc.), mentre le indirette (imposte sui
consumi, sugli affari, sui trasferimenti, ecc.) colpiscono espressioni indirette di capacità
contributiva.
Le imposte dirette, a sua volta, si distinguono in personali e reali. Nelle imposte
personali sul reddito assumono rilievo elementi che concernono la situazione personale
o familiare del contribuente (ad esempio: l'ammontare del reddito complessivo, la
struttura del nucleo familiare, ecc.). Nelle imposte reali, invece, la tassazione si
commisura ad un reddito o elemento patrimoniale, oggettivamente considerati mentre
non hanno rilievo elementi di natura personale.
Le due principali imposte italiane (IRPEF ed IRES) sono imposte dirette perché
tese a colpire una manifestazione concreta della capacità contributiva del contribuente,
ossia, il reddito.
Nel nostro Ordinamento vi sono poi anche alcune imposte indirette, quali l’IVA,
l’imposta di registro, le accise, che colpiscono atti e fatti posti in essere dal contribuente
in quanto espressivi di una indiretta capacità contributiva del cittadino.
L’attuale sistema impositivo italiano risulta il frutto di un’evoluzione storica
molto articolata, scandita da alcune importanti riforme1.
All’atto dell’ unificazione dello Stato (1861) il sistema italiano era basato su
un’imposta diretta fondamentale e su un’insieme di imposte indirette su cui prevaleva
l’imposta di registro. Nell’imposizione diretta l’imposta per eccellenza era l’imposta
fondiaria, in cui la fonte principale di ricchezza era rappresentata dal possesso della
terra. Il presupposto era costituito dal possesso di immobili e la base imponibile era
determinata col sistema catastale. Tra le imposte indirette prevaleva invece l’imposta di
registro, che colpiva i trasferimenti di ricchezza immobiliare e le prestazioni a privati di
1
Per una disamina dell’evoluzione storica del sistema impositivo italiano cfr. TESAURO, Istituzioni di
diritto tributario, Milano, 2005, 3 e ss; FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 773.
6
pubblici servizi (quale quello dell’attestazione della data certa e della conservazione
degli atti). Altre forme di imposizione indiretta erano l’imposta di bollo basata sulla
realizzazione di un’entrata fiscale con l’imposizione dell’uso della carta e dei valori
bollati la cui produzione e vendita erano riservate allo Stato. Infine, vi erano le accise,
che colpivano l’attività di produzione di beni, ed i tributi doganali, che colpivano le
importazioni di beni.
Dopo l’unificazione del Regno d’Italia, nel 1864 fu introdotta un’imposta
generale sul reddito delle persone fisiche – imposta di ricchezza mobile – diretta a
colpire tutti i redditi non assoggettati all’imposta fondiaria e, quindi, i redditi derivanti
dall’esercizio dell’impresa agricola, dell’impresa commerciale, i redditi di capitale, di
lavoro autonomo e di lavoro subordinato. Tale imposta è rimasta in vigore per più d’un
secolo, ossia sino alla riforma generale dell’imposizione diretta, entrata in vigore il 1°
gennaio 1974.
Precedentemente, accanto all’imposta di ricchezza mobile era stata poi inserita
un’imposta complementare a carattere sussidiario con la finalità di integrare, con
caratteri di personalità, l’imposta reale. A seguito, poi, di un forte dibattito in ordine
alla configurabilità o meno di una capacità contributiva autonoma delle società, nel
1954 era infine stata introdotta un’imposta sulle società, che colpiva il patrimonio delle
società e il reddito eccedente il 6% del patrimonio.
Sul versante delle imposte indirette la principale novità post unitaria fu data
dall’introduzione di un’imposta sul consumo, l’IGE (imposta generale sull’entrata), –
poi sostituita dall’IVA – diretta a colpire a cascata tutte le cessioni di beni e le
prestazioni di servizi effettuate da imprenditori e professionisti e che finiva con
l’incidere economicamente, attraverso un meccanismo di traslazione economica, sul
consumatore finale.
Il sistema fiscale italiano dell’imposizione diretta è stato oggetto di tre importanti
riforme attuate, la prima negli anni ’70, la seconda negli anni ’90 e la terza nella parte
dell’ultimo decennio.
In particolare, il sistema introdotto con la riforma del 1971-1973 si imperniava, in
via primaria e principale, su due imposte dirette a colpire tutti i redditi delle persone
fisiche e degli enti (IRPEF e IRPEG); nella logica di tali imposte ciò che acquistava
specificatamente rilievo è “l’esistenza di un reddito complessivo a disposizione del
soggetto, che pur essendo composto, e non potrebbe essere diversamente, dai vari
redditi posseduti, assume una distinta rilevanza sia materiale che concettuale, in ordine
agli adempimenti previsti per la determinazione della base imponibile e per
l’applicazione dell’imposta”2.
2
Così POLANO, Attività commerciali e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, 4.
7
Tale sistema tassava con imposte generali l’insieme dei redditi degli individui e
degli enti, realizzando la progressività nella tassazione personale e non duplicando tra
tassazione dei redditi prodotti dalle società e tassazione dei medesimi redditi presso i
soci.
Alle due imposte generali si aggiunse poi l’ILOR, abolita poi a partire dal 1998,
che colpiva solo i redditi di natura patrimoniale, ritenuti espressivi di una maggiore
capacità contributiva dei cittadini.
Successivamente, con la Legge 23 dicembre 1996, n. 662, collegata alla
Finanziaria 1997, il Parlamento accordò al Governo una serie di deleghe, la cui
realizzazione apportò modifiche di rilievo al sistema tributario italiano.
Tra le deleghe concernenti i tributi diretti, sono da ricordare quelle riguardanti:
a) l’istituzione dell’IRAP con contemporanea abolizione dell’ILOR3;
b) il riordino dell’IRPEG con l’introduzione di due aliquote (Dual Income Tax)4;
c) il credito d’imposta correlato agli utili societari e l’imposta sostitutiva della
maggiorazione di conguaglio 5;
d)
la disciplina fiscale delle operazioni straordinarie6;
e) il trattamento fiscale degli enti non commerciali e delle ONLUS7.
Infine, l’ultima importante riforma del sistema tributario italiano è stata attuata nel
2003. Con il DL 7 aprile 2003, n. 80, è stata infatti approvata una nuovadelega per la
riforma del sistema fiscale statale i cui tratti salienti sono due: i) la riforma della
disciplina dei singoli tributi con la progressiva riduzione di quest’ultimi a cinque
imposte (due sui redditi, una sul valore aggiunto, una sui servizi, ed infine l'accisa) e (i)
la formazione di un «codice tributario». In particolare l’art. 2 del citato DL prevedeva
la realizzazione di un unico codice tributario nel quale raccogliere tutte le disposizioni
normative relative al sistema fiscale nazionale. Questo codice doveva articolarsi in due
parti: la prima, definita parte generale, relativa ai criteri e principi base ai quali si
sarebbe dovuto uniformare il sistema tributario; la seconda, definita parte speciale, che
doveva raccogliere le disposizioni che disciplinano i singoli tributi.
Sul versante del diritto tributario sostanziale l’art. 3 prevedeva, invece,
l’introduzione di una nuova imposta, l’IRE, in sostituzione dell’IRPEF, caratterizzata
da due sole aliquote (23% per i redditi fino a 100.000 euro e 33% per i redditi
d’importo superiore). Mentre l’art. 4 dettava i criteri direttivi per la riforma
dell’imposizione del reddito delle società, con l’istituzione dell’IRES. La riforma in
3
D.Lgs. 446/1997.
D.Lgs. 466/1997.
5
D.Lgs. 467/1997.
6
D.Lgs. 358/1997.
7
D.Lgs. 460/1997.
4
8
argomento, tuttavia, ha trovato compimento solo in relazione all’IRES grazie
all’emanazione del D.Lgs. 344/2003. A decorrere dal 1° gennaio 2004 l’IRES ha,
infatti, sostituito l’IRPEG. I tratti innovativi dell’IRES sono i seguenti8:
a) previsione di una sola aliquota (33% e dal 1°.1.2008 27,5%9);
b) tassazione consolidata di gruppo con l’introduzione dei consolidati fiscali,
nazionale e mondiale;
c) ulteriori norme di contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese;
d) nuovo regime dei dividendi e delle minusvalenze e plusvalenze connesse alla
cessione di partecipazioni;
e) regime di trasparenza per le società di capitali;
f)
revisione della disciplina del credito per le imposte pagate all’estero e delle CFC;
g) regime della partecipation exemption;
h) introduzione di una tassazione alternativa per alcune imprese marittime (tonnage
tax).
1.2
IL REDDITO D’IMPRESA ED IL BILANCIO
1.2.1 Nozione di reddito d’impresa
Il reddito d’impresa costituisce una categoria reddituale che colpisce sia gli
imprenditori individuali sia le società ed enti e, pertanto, interessa sia l’imposta sul
reddito delle persone fisiche (IRPEF) che l’imposta sul reddito delle società
(IRES).L’impianto normativo del TUIR, in riferimento al reddito d’impresa, è stato
notevolmente modificato dalla citata riforma del sistema fiscale statale entrata in vigore
il 1° gennaio 200410: la disciplina di base riguardante il calcolo del reddito d’impresa,
prima racchiusa all’interno dell’IRPEF, è stata, infatti, trasferita all’interno della
sezione che regola la determinazione dell’IRES (precisamente nel Capo II relativo alla
determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali). Per le persone
fisiche, quindi, la disciplina del reddito d’impresa si ottiene combinando la disciplina di
base, racchiusa nelle norme relative all’IRES, con alcune norme specifiche pensate per
le persone fisiche e per le società di persone.
La normativa sul reddito d’impresa si può idealmente scomporre in due gruppi di
norme: uno dedicato all’identificazione della fonte del reddito, ed uno volto a
8
Gli aspetti principali dell’IRES verranno esaminati successivamente sub. par. 1.3.1.
La Finanziaria 2008, attuata con la L. 244/2007, ha infatti abbassato a decorrere dal 1° gennaio 2008
l’aliquota IRES al 27,5%.
10
Introdotta dal D. Lgs. 344/2003.
9
9
disciplinarne il calcolo. Rispetto alle altre categorie di reddito, la disciplina del reddito
d’impresa si contraddistingue per l’analiticità con cui è regolata la determinazione del
reddito.
L’individuazione del reddito in esame si base sia su criteri oggettivi, che fanno
riferimento alle modalità di svolgimento dell’attività esercitata, contenuti nell’art. 55
del TUIR, sia su criteri di tipo soggettivo, ancorati alla natura giuridica del soggetto
passivo, i quali trovano la propria fonte, in particolare, negli artt. 6 e 81 del TUIR.
Infatti, in forza di tali ultimi disposizioni, i redditi delle società di persone, delle
società di capitali, nonché degli enti commerciali, da qualunque fonte provengano, sono
sempre considerati redditi d’impresa, e come tali, determinati secondo le regole proprie
previste per tale categoria.
Da ciò consegue che, in relazione a tali soggetti, non si pone il problema della
qualificazione del reddito, che è sempre e comunque reddito d’impresa,
indipendentemente dall’attività da essi svolta o dalla fonte dei proventi dai medesimi
percepita.
I criteri di tipo oggettivo assumono, invece, rilievo con riferimento ai soggettivi
diversi da quelli appena menzionati, vale a dire le persone fisiche, gli enti non societari
di tipo non commerciale e le società di fatto. Al riguardo il comma 1 dell’art. 55 del
TUIR prevede che sono redditi d’impresa “quelli che derivano dall’esercizio di
imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per
professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. e
delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti
ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa”.
Dunque, nel disciplinare le regole di carattere oggettivo necessarie per
l’individuazione del reddito d’impresa, l’art. 55 richiama le attività di cui all’art. 2195
c.c., in forza del quale hanno l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese gli
imprenditori che esercitano le seguenti attività:
a) l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi;
b) l’attività intermediaria nella circolazione dei beni;
c) l’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
d) l’attività bancaria o assicurativa;
e) le altre attività ausiliare delle precedenti.
Tuttavia il richiamo alla disciplina civilistica presenta carattere recettizio, nel
senso che la norma del codice civile viene richiamata ai fini fiscali soltanto per indicare
una serie di attività la cui commercialità non può essere messa in discussione ed il cui
esercizio implica automaticamente la produzione di reddito d’impresa.
Tali attività, in particolare, danno luogo a reddito d’impresa solo se “esercitate in
modo abituale”. Il concetto di abitualità, tuttavia, non è definito espressamente dalla
10
legge, essendo quindi rimesso all’attività dell’interprete sulla base della comune
esperienza.
Invero, il suo significato assume un ruolo fondamentale nell’ambito
dell’imposizione del redditi, in quanto la stessa attività commerciale, a seconda che sia
esercitata in modo abituale o non abituale, dà luogo rispettivamente ad un reddito
d’impresa oppure ad un reddito diverso (art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR), sottoposto
a differente regole di determinazione e d’imputazione al periodo d’imposta.
Peraltro, il concetto di abitualità non può essere considerato come assoluto, ma
relativo, dovendosi verificare, di volta in volta, in base all’attività concretamente
esercitata dal contribuente, se essa sia caratterizzata dalla regolarità e dalla continuità
nel tempo oppure rivesta carattere meramente occasionale.
In particolare, l’abitualità pur non implicando una durata minima dell’attività,
richiede, comunque, che sia volta con un sufficiente grado di stabilità; pertanto
l’esistenza di interruzioni non è incompatibile con l’abitualità specie quando si tratta di
attività a carattere stagionale o, comunque, caratterizzate dalla presenza di fasi di pausa.
Invero, anche un unico affare può dare luogo all’esercizio abituale quando presenti una
rilevanza economica non trascurabile ed implichi una pluralità di operazioni funzionali
alla sua realizzazione.
Secondo la previsione dell’art. 55, inoltre, non è necessaria l’esclusività
dell’esercizio dell’attività commerciale; pertanto, è produttiva di reddito d’impresa
anche un’attività commerciale svolta contemporaneamente ad altre di diversa natura (ad
esempio, di lavoro dipendente) che, peraltro, possono presentarsi anche marginali da un
punto di vista quantitativo, rispetto alla prima.
Nel più volte menzionato art. 55 il legislatore considera infine rilevante nella
definizione del reddito d’impresa “l’organizzazione in forma d’impresa”11. Invero tale
elemento assume rilevanza sotto un duplice profilo; in negativo, per le attività di cui
all’art. 2195 c.c. e per le attività agricole, nel senso che per esse non è necessaria
l’organizzazione per essere considerate commerciali, nonché in positivo, per le attività
di prestazioni di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c., per le quali tale elemento è
invece indispensabile per qualificare il relativo reddito come d’impresa.
Il legislatore tributario invece considera irrilevante ai fini della definizione di
reddito d’impresa l’esistenza o meno di uno scopo di lucro.
11
Quanto al suo concreto significato, la dottrina ha ravvisato l’organizzazione in forma d’impresa in
presenza di un’attività che si esteriorizza secondo modalità tipiche dell’attività imprenditoriale,
desumibili sia da elementi giuridici, quali l’iscrizione nel registro delle impresa, l’uso della ditta o di altri
elementi esteriori tipici dell’impresa, sia da elementi tecnici o di fatto, come l’esistenza di collaboratori,
di strutture organizzative di lavoro e simili.
11
1.2.2 Tassazione del reddito d’impresa in base al bilancio
Tanto premesso, il punto di partenza per la determinazione del reddito d’impresa
da assoggettare a tassazione è rappresentato dal conto economico, che, insieme allo
stato patrimoniale e alla nota integrativa, costituisce il bilancio di esercizio di una
impresa. Si ricorda che, dal punto di vista puramente civilistico, la redazione del
bilancio è prescritta obbligatoriamente soltanto per le società di capitali. Dal punto di
vista fiscale, tale obbligo, invece, appare più esteso, in quanto, per poter determinare il
reddito, tutte le imprese soggette alla tenuta delle scritture contabili in regime ordinario,
comprese le imprese individuali e le società di persone, devono redigere il bilancio.
Tale obbligo non sussiste per le imprese ammesse a regimi contabili semplificati, che
determinano il reddito utilizzando regole più semplici. Ai sensi dell’art. 83 del TUIR il
reddito d’impresa è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto
economico, relativo all’esercizio chiuso nel periodo d’imposta, le variazioni in aumento
o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle disposizioni
dello stesso TUIR. Conseguentemente, il punto di partenza è rappresentato dal dato
risultante dal conto economico su cui vengono effettuate le suddette variazioni.
Essendo fiscalmente rilevante il risultato del conto economico, sono indirettamente
rilevanti tutti i componenti, positivi e negativi, che concorrono a determinare quel
risultato. Se si tratta di componenti positivi, essi sono tassabili anche se non disciplinati
e contemplati nelle norme fiscali sui componenti positivi. I componenti negativi sono
parimenti rilevanti anche se non espressamente disciplinati nel TUIR, purché risultino
rispettate le norme generali cui la normativa fiscale subordina la deducibilità dei
componenti negativi. Le norme fiscali sul reddito d’impresa non mirano dunque a dare
una disciplina organica e compiuta di tutti i componenti reddituali, ma mirano a
determinare delle “variazioni”. In particolare, in materia di componenti positivi,
essendo tassabili tutti i componenti iscritti in bilancio, le norme fiscali non hanno lo
scopo di istituire la tassabilità di tali componenti, ma di determinarne le modalità della
tassazione. Parallelamente, le norme sui singoli componenti negativi non hanno lo
scopo di istituire la deducibilità dei componenti negativi, ma, dopo aver posto le
condizioni generali in materia di deducibilità dei costi, di determinare le condizioni
particolari, i tempi e le modalità a cui è subordinata la deducibilità degli stessi.
Tenendo conto che le variazioni che le norme fiscali comportano rispetto ai dati di
bilancio possono essere in aumento e in diminuzione, abbiamo una tipologia formata da
quattro tipi di variazioni:
a) variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico,
in quanto variano in aumento un componente positivo del conto economico;
b) variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico
12
c)
d)
in quanto eliminano o riducono un componente negativo del conto economico;
variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile cicilistico in
quanto eliminano o riducono un componente positivo del conto economico;
variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico in
quanto consentono il calcolo di costi non presenti, o presenti in misura minore,
nel conto economico.
1.2.3 Cenni ai principi generali in materia di tassazione del reddito d’impresa
Uno dei principi più importanti in materia di determinazione del reddito
d’impresa è il criterio della competenza12. Come noto, invero, l’attività d’impresa
rappresenta un continuum, che convenzionalmente viene frazionato in esercizi sociali
annuali. In diritto tributario, come in diritto civile, l’imputazione temporale dei
componenti positivi e negativi di reddito viene attuata applicando il principio di
competenza economica, che si contrappone a quello di cassa. In base al principio di
cassa, infatti, le componenti di reddito assumono rilievo quando avvengono i pagamenti
(per i componenti negativi) e gli incassi (per quelli positivi); in altri termini rileva il
momento finanziario. La competenza, invece, attribuisce rilievo il momento in cui si
verifica il fatto economico-gestionale: i ricavi sono imputati all’esercizio in cui sono
conseguiti in senso giuridico-economico. Il principio di competenza è sancito dall’art.
109, comma 1, del TUIR a norma del quale “i ricavi, le spese e gli altri componenti
positivi e nativi, per le quali le precedenti norme della presente Sezione non
dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di
competenza”. L’art. 109 prescrive al riguardo una serie di criteri per individuare in
concreto l’esercizio di competenza ed, in particolare:
a) per la cessione di beni mobili i corrispettivi si considerano conseguiti alla data di
consegna e di spedizione, con irrilevanza dei passaggi di proprietà anteriori a tale
data (è da ricordare infatti che il passaggio delle proprietà segue il criterio del
consenso e non quello della consegna);
b) per la cessione di beni immobili o aziende i corrispettivi si considerano conseguiti
alla data di stipulazione dell’atto, anche se non accompagnata dalla consegna
materiale del bene;
c) per le prestazioni di servizi il ricavo è da imputare nell’esercizio nel quale la
prestazione viene ultimata e in caso di prestazioni periodiche (locazione,
12
Il principio di competenza è sancito dall’art. 109 TUIR a norma del quale “i ricavi, le spese e gli altri
componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono
diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza”.
13
somministrazione, mutuo) rileva la data di maturazione dei corrispettivi.
Il principio di competenza è applicabile a tutti i componenti di reddito, salvo
quelli in relazione ai quali le norma speciali del TUIR prevedano diversi criteri per
l’imputazione a periodo. Si tratta, in tal caso, di alcuni componenti reddituali la cui
rilevanza risulta agganciata all’effettiva variazione numeraria, per i quali si applica,
dunque, il principio di cassa. Tale è il caso degli oneri fiscali e contributivi, che sono
deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento (art. 99, comma 1, TUIR); dei
compensi in misura fissa spettanti agli amministratori di società, che sono deducibili
nell’esercizio in cui non corrisposti (art. 95, comma 5) nonché delle erogazioni liberali
(art. 100, comma 2).
L’art. 109, comma 1, secondo parte, precisa, inoltre che “tuttavia i ricavi, le spese
e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa
l’esistenza o determinabile in modo obbiettivo l’ammontare concorrono a formare il
reddito nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”. Con i requisiti della certezza
e della obbiettiva determinabilità il legislatore ha inteso escludere dalla formazione del
reddito le componenti semplicemente “stimate”, che invece concorrono a formare il
reddito civilistico ove assistite da un sufficiente grado di attendibilità.
In particolare, secondo la dottrina prevalente, la certezza cui fa riferimento il
legislatore non va intesa in senso materiale, ma in senso giuridico, dovendosi escludere
rilevanza a quelle componenti reddituali meramente presunte o congetturate, pur note
nella tecnica contabile ed allo stesso diritto commerciale (ad esempi, gli ammortamenti
e gli accantonamenti) le quali, salve le ipotesi espressamente disciplinate, non vengono
considerate idonee a determinare il prelievo fiscale sul reddito d’impresa.
L’altra condizione che il comma 1 dell’art. 109 pone ai fini dell’imputazione dei
componenti al periodo d’imposta è quella della oggettiva determinabilità
dell’ammontare dei ricavi, costi e oneri. Tale condizione attiene quindi al quantum del
componente di reddito già certo nell’esistenza e si pone, quindi, come logicamente
successiva a quella precedentemente esaminata. Nello specifico questa condizione deve
ritenersi sussistente in tutte le ipotesi in cui l’importo quantitativo, inteso nel significato
numerario, possa desumersi da elementi oggettivi propri dello specifico componente.
La funzione dei tale disposizione è dunque quella di sottrarre al computo del reddito
d’impresa componenti quantificati in base a mere congetture soggettive oppure a calcoli
probabilistici.
Altro principio importante in tema di determinazione del reddito d’impresa è il
principio dell’inerenza. Tale principio attiene al rapporto che deve sussistere tra le varie
componenti del reddito e l’esercizio dell’attività d’impresa; esso implica, in particolare,
che tutti i componenti di reddito, sia positivi che negativi, si devono inserire
nell’esercizio d’impresa e non si devono porre in un semplice rapporto di occasionale
14
riferibilità soggettiva all’impresa. In altri termini, sia i componenti positivi che quelli
negativi devono inerire all’esercizio dell’impresa e cioè per acquisire rilevanza ai fini
impositivi devono porsi in un rapporto causale con l’esercizio dell’attività
imprenditoriale individuata nell’art. 55 del TUIR. Questo rapporto di causa ad effetto
tra il componente economico e l’esercizio d’impresa può ritenersi sussistente soltanto
quando il costo o il provento, esaminato oggettivamente, si presenti come un elemento
derivante dall’esercizio dell’impresa e, quindi, come effetto economico (positivo o
negativo) della gestione dell’impresa. Quanto, poi, al significato di tale collegamento,
esso deve intendersi sia in senso economico, quale riferibilità del fatto di gestione al
tipo di attività svolta dall’impresa, sia in senso giuridico, tale che il componente
economico dia luogo ad una modifica qualitativa e quantitativa del patrimonio destinato
all’esercizio dell’impresa. Pertanto, il componente di reddito potrà ritenersi rilevante ai
fini della determinazione del reddito d’impresa,a allorquando il suo collegamento con
l’attività dell’impresa presenti, al tempo stesso, sia un fondamento economico sia un
fondamento giuridico, tale risultare economicamente in relazione all’attività
dell’impresa e da costituire, al contempo, una variazione giuridicamente significativa
del patrimonio imprenditoriale.
Il principio di inerenza, pur essendo applicabile sia ai componenti negativi, sia a
quelli positivi, pone solitamente maggiori problemi applicativi in relazione ai primi,
giacché nella pratica è molto frequente la tendenza da parte di contribuenti di dedurre
costi che non sono inerenti all'attività dell'impresa ma che riguardano la loro sfera
personale13.
Il TUIR, d'altronde, non fornisce criteri precisi per giudicare sull'inerenza di una
spesa rispetto all'attività imprenditoriale, la quale deve, quindi, essere valutata caso per
caso, trattandosi di un nesso che si atteggia diversamente da impresa ad impresa in
funzione di diversi parametri (tipo di attività svolta, sue dimensioni, ecc.).
A tal proposito, può in linea di massima osservarsi che gli orientamenti
giurisprudenziali e amministrativi sono progressivamente passati da posizioni
fortemente rigoristiche, volte a riconoscere come inerenti solo le spese strettamente
necessarie alla produzione dei ricavi, a posizioni più "elastiche", che considerano come
inerenti all’impresa tutte le spese che obiettivamente afferiscono allo svolgimento
dell’attività produttiva.
13
Numerose sono le sentenze che affrontano il problema della deducibilità dei costi inerenti all' attività
dell'impresa, in relazione a diverse fattispecie. Fra le tante cfr: Cass. 30 novembre 2001, n. 13478, in
Corro trib., 2002, 597; Cass. 27 .settembre 2000, n. 12813, in Corro trib., 2000, 3174; Casso 19 maggio
2000, n. 6502, In Corr. trib. Banca dati, 2000, 1103; Cass. 29 maggio 2001, n. 7071, in Guida normativa,
2000, n. 95,55; Casso 4 ottobre 2001, n. 13181, in Corr. trib., 2001, 298.
15
Ed è proprio per le difficoltà di stabilire in concreto il nesso causale tra una
componente reddituale e l' attività d'impresa che la più recente evoluzione legislativa
tende, mediante puntuali disposizioni, a limitare i comportamenti elusivi dei
contribuenti. Rientra in tale logica, ad esempio, la disposizione di cui all'art. 108,
comma 2, del TUIR, che limita la deducibilità delle spese di rappresentanza.
Esistono, tuttavia, aree problematiche ancora fortemente dibattute in dottrina ed in
giurisprudenza circa l'applicazione del principio di inerenza. Uno dei problemi
maggiormente affrontati è quello relativo alla possibilità di sindacare l'inerenza di quei
costi che, seppur regolarmente documentati, siano quantitativamente sproporzionati
rispetto ad altri fattori economici dell'impresa. Tale possibilità è stata spesso
riconosciuta dalla Corte di Cassazione, ma si tratta di approccio fortemente discutibile
in quanto l'eccessività del costo non può considerarsi prova della mancanza di inerenza,
pur potendo costituire un sintomo di anormalità del costo stesso ai fini della verifica
della corrispondenza del suo importo documentale con la realtà14.
Altro principio cardine in materia di tassazione del reddito d’impresa è il
principio di imputazione. Tale principio è sancito dall’art. 109, comma 3, del TUIR a
norma del quale “i ricavi; gli altri proventi di ogni genere e le rimanenze concorrono a
formare il reddito anche se non risultano imputati al conto economico”; per altro
verso, il comma 4 della medesima disposizione prevede che “le spese e gli altri
componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non
risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza”.
A questo punto è bene porre in rilievo i lineamenti del regime fiscale dei beni
relativi all’impresa. Qualificare un bene come relativo all’impresa significa postulare,
per esso, l’applicazione del sistema di regole relative al reddito d’impresa. In
particolare, sono relativi all'impresa quei beni materiali (ad esempio, macchinari,
attrezzature, immobili, ecc.) e immateriali (ad esempio, diritti di utilizzazione delle
opere dell'ingegno, brevetti, ecc.) stabilmente te collegati con l'esercizio dell' attività
imprenditoriale, in quanto idonei a svolgere una loro funzione per il perseguimento
dello scopo economico dell' attività svolta dall'imprenditore.
La nozione di beni dell'impresa è caratterizzata, in primo luogo, da un elemento
oggettivo, dato dal nesso economico tra il bene stesso e l'esercizio dell'attività,
costituito dall'idoneità del bene a costituire mezzo per lo svolgimento dell' attività
medesima. In secondo luogo, occorre anche l'elemento soggettivo, costituito dalla
14
Su tali problematiche V. ZOPPINI, Sul difetto di inerenza per "antieconomicità manifesta", in Riv. dir.
trib., 1992, II, 937; LUPI, A proposito di inerenza ... il fisco può entrare nel merito delle scelte
imprenditoriali?, in Riv. dir. trib., 1992, II, 940; STEVANATO, Davvero sindaca bili i compensi agli
amministratori?, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1143; VOGLINO, Ancora sulla insindacabilità da parte
dell'amministrazione finanziaria della convenienza economica delle operazioni poste in essere dai
contribuenti, in Boll. trib., 1993, 1642.
16
volontà dell'imprenditore di inserire il bene nell'impresa con caratteri di stabilità
funzionale.
Questi principi risultano anche dalla lettura dell'art. 65 del TUIR, il quale, per
stabilire l'afferenza di un bene alla sfera fiscale dell'impresa, distingue a seconda che
essa sia esercitata nelle forme della società commerciale (di persone o di capitali)
oppure individualmente. In particolare:
a) per le società commerciali sono relativi all'impresa tutti i beni ad esse
appartenenti ed i redditi da essi derivanti concorrono comunque a formare il
reddito d'impresa. Per appartenenza si intende tutta quella serie di situazioni
giuridico-soggettive costituite dal diritto di proprietà e dagli altri diritti reali di
godimento. Tale regola è prevista dal comma 2 per le società di persone, ma vale
anche per i beni appartenenti alle società di capitali, in virtù del disposto di cui
all'art. 81;
b) diverso è, invece, il discorso per le imprese individuali (art. 65, comma 1), in
quanto in tal caso il legislatore distingue il patrimonio privato dell'imprenditore
dalla massa dei beni relativi all'impresa. In particolare, sono sempre relativi
all'impresa, indipendentemente dalla volontà dell'imprenditore, le materie prime,
le merci, i crediti acquisiti nell'esercizio dell'impresa ed i beni strumentali diversi
dagli immobili; questi ultimi, invece, si considerano relativi all'impresa solo se
sono indicati come tali nell'inventario redatto e vidimato a norma dell'art. 2217
c.c.;
c) per le società di fatto (art. 65, comma 3) si considerano relativi all'impresa, oltre
alle materie prime, alle merci, ai beni strumentali ed ai crediti acquisiti
nell'esercizio dell'impresa, i beni iscritti in pubblici registri a nome dei soci ma
utilizzati esclusivamente come strumentali per l'esercizio dell'impresa.
I beni relativi all'impresa, inoltre, si dividono al loro interno in più categorie, cui
corrispondono diversi regimi fiscali. Per stabilire l'appartenenza del bene ad una
categoria piuttosto che ad un' altra non occorre considerare il bene in sé, ma la sua
relazione con l'attività dell'impresa. In particolare si distingue tra:
a) i beni merce: sono quei beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta
l'attività dell'impresa (materie prime, sussidiarie, prodotti finiti, ecc.). La loro
cessione dà origine a ricavi ed a fine esercizio sono oggetto di valutazione come
rimanenze finali. Rientrano in tale categoria anche le partecipazioni ed i titoli
iscritti in bilancio nell' attivo circolante destinati alla negoziazione15;
15
La normativa tributaria assume, quale criterio di distinzione tra immobilizzazioni finanziarie ed attivo
circolante, le risultanze del bilancio, a loro volta basate sulla destinazione economica conferita ai titoli. In
particolare, sono iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie i titoli e gli altri valori mobiliari destinati ad
essere utilizzati durevolmente dall'impresa e nell'attivo circolante i titoli e gli altri valori mobiliari
detenuti per esigenze di tesoreria o al fine di negoziazione.
17
b)
i beni strumentali: sono quei beni impiegati durevolmente nel ciclo produttivo
come mezzo o strumento. In particolare, con riferimento ai beni immobili, il
legislatore (art. 43 del TUIR) distingue tra beni strumentali per natura e beni
strumentali per destinazione; i primi sono quegli immobili che, per le loro
caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali
trasformazioni (ad esempio, una stazione di rifornimento del carburante, un
capannone industriale, un teatro), mentre i secondi sono strumentali perché
utilizzati come tali dall'imprenditore (ad esempio, un immobile classificato come
civile abitazione). I beni strumentali concorrono a formare il reddito d'impresa sul
fronte dei costi attraverso le quote di ammortamento e sul fronte dei componenti
positivi attraverso le plusvalenze;
c) nei beni meramente patrimoniali, infine, si comprendono tutti i beni che non sono
né beni merce, né beni strumentali (ad esempio, un terreno agricolo o un
immobile ad uso abitativo). Anche tali immobili, in caso di cessione, possono dar
luogo a plusvalenze ma, a differenza dei beni strumentali, non sono oggetto di
ammortamento.
Il valore di riferimento di un bene relativo all'impresa è comunemente definito
con l'espressione "valore fiscalmente riconosciuto". Esso consiste nel valore assunto
dal bene al momento del suo ingresso nel patrimonio dell'impresa e destinato a
conservare fino alla sua fuoriuscita, costituendo il parametro per la quantificazione di
certi elementi reddituali ad esso collegati (ad esempi, ammortamenti e plusvalenze).
In via di prima approssimazione, il costo fiscalmente riconosciuto è determinato
in base ai costi sostenuti per l'acquisto del bene e comprende anche gli oneri accessori
di diretta imputazione (art. 110, comma l, lett. b)), cioè le spese strettamente collegate
con il suo acquisto, inerenti sia alla fase negoziale (spese notarili, legali, ecc.), sia a
quella esecutiva (spese di trasporto, collaudo, ecc.).
Sono esclusi dal costo gli interessi passivi e le spese generali. Tuttavia, per i beni
strumentali è prevista una deroga, in quanto gli interessi passivi si comprendono nel
costo dei beni in questione, a condizione che siano stati imputati nel bilancio ad
incremento del costo. (c.d. patrimonializzazione degli interessi passivi). Inoltre, se gli
immobili costituiscono oggetto di produzione o di scambio dell'attività dell'impresa
(come si verifica per le imprese edili), la patrimonializzazione degli interessi passivi è
automatica e tali oneri si includono sempre nel costo del bene. Il costo dei beni (diversi
da quelli che originano ricavi) non comprende, tuttavia, le plusvalenze iscritte in
bilancio derivanti da rivalutazioni economiche le quali, pertanto, hanno effetto soltanto
ai fini civilistici (art. 110, comma l, letto c)).
1.2.4 Componenti positivi
18
Una volta esaminate le regole generali in tema di tassazione dell reddito di
impresa, occorre analizzare le singole componenti dello stesso, iniziando con quelle
attive.
Per ciascuna di esse il legislatore provvede a disciplinare i criteri identificativi, le
fattispecie al verificarsi delle quali i proventi concorrono a formare il reddito (che, ad
esempio, per le plusvalenze coincidono con la cessione a titolo oneroso del bene
strumentale o con il conseguimento del risarcimento per la perdita dello stesso) nonché
le regole per la loro individuazione. Normalmente, quasi tutte le poste attive del conto
economico confluiscono nel reddito d'impresa, ad eccezione di quelle espressamente
escluse dalla base imponibile (come i proventi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a
titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, ex art. 91 del TUIR). Ciò premesso, i
principali componenti positivi di reddito sono:
a) i ricavi;
b) le plusvalenze;
c) le sopravvenienze attive;
d) i dividendi;
e) gli interessi attivi;
f)
le rimanenze finali.
In questa sede affronteremo in maniera più dettagliata le prime tre categorie e
quindi, i ricavi, le plusvalenze e le sopravvenienze attive.
In particolare, i ricavi sono dati, ai sensi dell' art. 85 del TUIR, dai corrispettivi
derivanti da:
a) cessione dei beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività
dell'impresa (c.d. beni merce). Qualora si trattasse di un bene strumentale, non si
originerebbe un ricavo, ma una plusvalenza;
b) cessione di materie prime e sussidiarie, semilavorati o altri beni mobili destinati al
processo produttivo, esclusi quelli strumentali. Qui viene fatto riferimento sia alle
materie prime e sussidiarie, ecc. che non sono state impiegate nel processo
produttivo, sia a quelle acquistate per essere rivendute, senza la loro preventiva
trasformazione o lavorazione;
c) costituiscono ricavi anche i corrispettivi derivanti dalle cessioni di azioni o quote
di partecipazione al capitale di società ed enti soggetti all'IRES. Tale norma
comprende non solo le azioni, ma anche le partecipazioni al capitale di società
non rappresentate da titoli (ad esempio, le quote delle società a responsabilità
limitata). In particolare, le partecipazioni oggetto di cessione non necessariamente
devono costituire beni al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa (quindi si può
trattare anche di partecipazioni liberamente inserite nel patrimonio dell'impresa),
19
ma non possono costituire immobilizzazioni finanziarie, giacché in tal caso la loro
cessione darebbe origine ad una plusvalenza. Ed invero, la distinzione tra
plusvalenza e ricavo assume una fondamentale importanza in quanto, come
vedremo in seguito, solo la tassazione della prima, e non anche del secondo, può
essere "rateizzata" in più esercizi;
d) costituiscono ricavi anche i corrispettivi derivanti dalle cessioni di strumenti
finanziari similari alle azioni, ai sensi dell' arto 44, nonché di obbligazioni ed altri
titoli diversi dai precedenti (c.d. "titoli non partecipativi"), purché non iscritti tra
le immobilizzazioni finanziarie;
e) sono altresì ricavi le indennità conseguite a titolo di risarcimento per la perdita o il
danneggiamento dei beni la cui cessione dà origine;
f)
rientrano tra i ricavi anche due diversi tipi di contributi: quelli spettanti in base a
contratto (lett. g) e quelli in conto esercizio (lett. h). I primi sono generalmente quei
contributi di fonte privatistica che vengono erogati a favore delle imprese per il
sostenimento di certe spese cui esse vanno incontro (ad esempio, di impianto) o
per consentire lo svolgimento di certe attività (ad esempio, di ricerca). I secondi,
invece, costituiscono in contributi di fonte pubblicistica, spettanti a norma di
legge, generalmente disposti a favore delle imprese soggette a regimi di prezzi
politici (ad esempio, le imprese di trasporto urbano) che, diversamente, non
sarebbero in grado di coprire gli ordinari costi di produzione. Queste forme di
contributo, pertanto, non devono essere confuse con i c.d. contributi in conto
capitale che sono finalizzati al rafforzamento dell' apparato produttivo o all'
acquisto di beni strumentali, i quali danno origine a sopravvenienze attive.
Il comma 2 dell' art. 85 comprende, inoltre, fra i ricavi il valore normale dei beni
di cui al comma 1 assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all'esercizio
dell'impresa16.
Per quanto concerne, invece, l’individuazione del periodo d’imposta in cui il
ricavo concorrerà a formare il reddito, non assume rilevanza il momento dell’incasso
del corrispettivo ma si applica il citato principio di competenza; pertanto, il ricavo si
16
Poiché il reddito d'impresa comprende qualunque incremento del patrimonio iniziale e delle sue
componenti, il legislatore, tramite tale disposizione, impedisce che il bene possa fuoriuscire dal
patrimonio dell'impresa senza che tale incremento abbia subito la tassazione. In particolare, due sono le
ipotesi di espulsione del bene dall'impresa: l'assegnazione del bene al socio, che determina un passaggio
di titolarità del bene, nonché la sua destinazione a finalità estranee all'esercizio dell'impresa, che
comprende qualsiasi ipotesi di oggettiva sottrazione del bene all'impresa ed al suo regime (ad esempio,
cessione gratuita di un bene merce). Ad ogni modo, in entrambi i casi, mancando un corrispettivo in
denaro, il ricavo è dato dal valore normale del bene.
20
considera conseguito ai fini impositivi alla data di consegna o spedizione del bene
mobile od a quella di stipulazione dell’atto del bene immobile, nonché alla data di
ultimazione del servizio.
Come sopra accennato, altro componente positivo del reddito d’impresa sono le
plusvalenze. Più in dettaglio, ai sensi del comma 1 dell’art. 86 del TUIR, le
plusvalenze concorrono a formare il reddito in tre ipotesi:
a) cessione a titolo oneroso, dove 1'onerosità si realizza, analogamente ai ricavi, non
solo quando il corrispettivo è in denaro, ma anche quando è in natura (ad esempio,
nell'ipotesi della permuta);
b) risarcimento per la perdita o il danneggiamento dei beni;
c) assegnazione dei beni ai soci o destinazione degli stessi a finalità estranee
all'esercizio dell'impresa.
Ai sensi del comma 2 dell' art. 86, la plusvalenza è costituita dalla “differenza fra
il corrispettivo o indennizzo ricevuto” - o il valore normale del bene, se il corrispettivo
non è rappresentato da una somma di denaro – “ed il costo non ammortizzato del
bene”.
Quanto alle modalità di tassazione delle plusvalenze, l'art. 86, comma 4, prevede
che esse concorrano a formare il reddito o per intero, nell' esercizio in cui sono
realizzate, da individuare in base al principio di competenza, oppure in quote costanti in
cinque esercizi.
Le sopravvenienze attive possono essere definite come quegli eventi che
modificano componenti positivi o negativi di reddito che hanno già concorso a formare
il reddito in precedenti esercizi; l'evento sopravvenuto può modificare in senso positivo
il reddito (sopravvenienze attive) oppure in senso negativo (sopravvenienze passive).
Per quanto in questa sede di interesse l'art. 88, comma 1, del TUIR, elenca tre
distinte ipotesi di sopravvenienze attive:
a) i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di
passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi (ad esempio, rimborsi di
imposte dedotte in precedenti esercizi; recupero di crediti ritenuti inesigibili);
b) i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha
concorso a formare il reddito in precedenti esercizi (ad esempio, conseguimento
di maggiori corrispettivi a seguito di revisione contrattuale);
c) la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività
iscritte in bilancio in precedenti esercizi (ad esempio, riscossione di crediti già
considerati inesigibili).
Le sopravvenienze appena descritte, costituenti poste rettificative o correttive
della determinazione del reddito effettuata in precedenti esercizi, sono comunemente
denominate sopravvenienze attive proprie. Ad esse si contrappongono le c.d.
21
sopravvenienze attive improprie, le quali si accomunano alle prime per il fatto di
rappresentare anch'esse variazioni positive della preesistente consistenza patrimoniale
dell'impresa dovute ad eventi a carattere straordinario; tuttavia, a differenza di quelle
“proprie”, non costituiscono poste rettificative di operazioni contabilizzate in esercizi
precedenti risultando, al contrario, del tutto svincolate da qualunque vicenda imponibile
intervenuta nei periodi pregressi. Rientrano in tale categoria:
a) le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di
danni diversi da quelli considerati alla lett. f) del comma 1 dell'art. 85 (che danno
luogo a ricavi) ed alla lettera b) del comma 1 dell'art. 86 (che danno luogo a
plusvalenze). In tale fattispecie rientra, ad esempio, l'indennizzo per la perdita di
avviamento commerciale o per concorrenza sleale;
b) i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità,
esclusi i contributi di cui alle lett. g) e h) del comma 1 dell' art. 85 e quelli per
l'acquisto di beni ammortizzabili, indipendentemente dal tipo di finanziamento
adottato. Come si è già detto, i contributi pubblici possono dare origine sia a
ricavi, sia a sopravvenienze attive. I primi sono i c.d. contributi in conto esercizio,
diretti a coprire gli ordinari costi di gestione dell'impresa, mentre i secondi sono i
c.d. contributi in conto capitale, finalizzati al rafforzamento dell' apparato
produttivo o all' acquisto dei beni strumentali ed assumono i connotati della
straordinarietà ed eccezionalità nella dinamica gestionale dell'impresa.
1.2.5 Componenti negativi
a)
b)
Le principali componenti negative del reddito d’impresa sono:
le minusvalenze che emergono quando il prezzo di vendita di un bene, diverso da
quello che genera ricavi, è inferiore al relativo valore fiscale. Tuttavia non sono
deducibili le “minusvalenze iscritte”, derivanti cioè da una mera svalutazione del
cespite, basata ad esempio sul diminuito costo di mercato;
le sopravvenienze passive, chiamate indifferentemente anche perdite, che si
distinguono dalle minusvalenze in quanto non derivano dalla cessione di un bene,
bensì dalla sua distruzione fisica o dalla perdita del relativo diritto: Le perdite
dunque, ai sensi dell’art. 101, comma 5, del TUIR possono riguardare sia beni che
i crediti. Le perdite di beni dell’impresa sono deducibili soltanto quando derivano
dai beni c.d. patrimoniale e dai beni strumentali, cioè dagli stessi beni atti a
generare plusvalenze, in quanto i beni merce rilevano ai fini delle rimanenze. Le
perdite dei beni sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi; in
sostanza, il contribuente deve essere in grado di dimostrare, normalmente tramite
prove di tipo documentale, l’avvenuta sottrazione, eliminazione o distruzione del
22
c)
d)
e)
f)
g)
h)
i)
bene. Le perdite su crediti sono quelle che derivano dall’inadempienza del
debitore, la cui deducibilità, analogamente a quanto previsto per le perdite dei
beni, è condizionata alla circostanza che risultino da “elementi certi e precisi”, i
quali possono consistere in prove documentali o di tipo presuntivo (si presume,
cioè, che al verificarsi di certe condizioni, sulla base dell’id quod plerumque
accidit, il credito non è più recuperabile);
l’ammortamento che serve a dedurre fiscalmente il costo dei beni strumentali,
suddividendolo in vari esercizi in cui i beni sono utilizzati. I terreni non sono
ammortizzabili ed anche per i fabbricati è stata negata, dal 2006, la deduzione
degli ammortamenti corrispondenti al valore ideale del terreno su cui insistono.
Per armonizzare l’ammortamento fiscale alle regole civilistiche sul deperimento e
consumo o sulla durata residua dei cespiti, il legislatore ha previsto l’applicazione
di aliquote percentuali, stabilite con regolamento per settore economico e tipo di
bene. La base ammortizzabile comprende il costo dei beni, comprensivo degli
oneri accessori di diretta imputazione (trasporto, posa in opera). Il costo viene
assunto al netto di eventuali contributi di terzi: questi contributi vengono quindi
tassati indirettamente mediante una decurtazione del valore fiscalmente
riconosciuto dei beni;
gli interessi passivi i cui criteri di deducibilità verranno esaminati
successivamente;
oneri fiscali e contributivi;
erogazioni a titolo di liberalità;
le rimanenze iniziali;
le spese di utilità pluriennale;
le spese di manutenzione, riparazione,a ammodernamento e trasformazione dei
beni strumentali.
1.3 L’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETA’ (IRES)
1.3.1 Presupposto, aliquota e soggetti passivi
L’IRES, l’imposta sul reddito delle società, ha sostituito, con la riforma attuata
con il D.Lgs. 344/2003, l’IRPEG, imposta sul reddito delle persone giuridiche.
L’art. 72 del TUIR – riprendendo il dettato dell’art. 1 relativo all’IRPEF –
prevede che presupposto dell’IRES consiste nel possesso di redditi in denaro o in natura
rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6. L’aliquota d’imposta, proporzionale e non
progressiva, era fissata fino al 31.12.2007 al 33% e dal 1°.1.2008 è stata ridotta con la
23
Finanziaria 2008 al 27,5%. Il periodo d'imposta è costituito dall'esercizio o periodo di
gestione della società o dell'ente (periodo amministrativo), determinato dalla legge o
dall'atto costitutivo. Soltanto se la durata dell’esercizio o del periodo di gestione non è
determinata dalla legge o dall’atto costitutivo, o è determinata in due o più anni, il
periodo d’imposta è rappresentato dall’anno solare.
L'IRES, come l'IRPEG, colpisce quattro categorie di soggetti: a) le società di
capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità
limitata); b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel
territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciali; c) gli enti non commerciali; d) le società e gli enti non residenti. In
definitiva, sono escluse soltanto le persone fisiche e le società di persone.
Gli elementi specificanti su cui si basa la classificazione delineata nell’art. 73,
comma 1, sono essenzialmente due: la commercialità e la residenza. Sul primo si asside
la distinzione tra i primi due insieme di soggetti ed il terzi. Sul secondo la distinzione
tra i primi tre insiemi e il quarto. A seconda della diversa categoria di appartenenza vi
corrispondono, come vedremo tra poco, diversi criteri di determinazione della base
imponibile e dell’imposta.
Ai sensi dell’art. 74 del TUIR non sono assoggettati ad IRES alcuni enti pubblici
(organi e amministrazioni dello Stato, comuni, comunità montane, province e regioni).
1.3.2 Tassazione delle società versus tassazione dei soci
L’IRES opera in maniera diversa a seconda che consideriamo le società
commerciali e gli enti la cui finalità è quella di conseguire un lucro da distribuire ai soci
oppure enti che non hanno tale finalità. I soggetti del primo tipo non sono i soggetti
ultimi dell’imposizione, perché il reddito da essi prodotto è destinato ai soci; si pone
quindi il problema di coordinare la tassazione del reddito delle società con la tassazione
dei dividendi del socio, evitando o attenuando la doppia imposizione economica.
I sistema adottabili sono molteplici:
a)
il sistema della trasparenza, nel quale la società non viene tassata: sono tassati
solo i soci, ai quali imputato il reddito della società (la trasparenza di applica
obbligatoriamente alle società di persone e, su opzione, anche in ambito IRES);
b) il sistema del credito d’imposta, con cui viene accredita al socio l’imposta che
colpisce i redditi della società (tale sistema operava prima del 2004, mediante
accredito al socio che percepiva dividendi dell’IRPEG dovuta dalla Società);
c) il sistema dell’esenzione (o esclusione da imposta) dei dividendi, che nel nostro
Ordinamento è adottato nei casi in cui anche il socio è una società;
d) la tassazione ridotta dei redditi del socio, che in Italia è applicata nei confronti di
24
soci persone fisiche.
Il nostro sistema fiscale adottava, fino al 31 dicembre 2003, il metodo
dell'imputazione (e del connesso credito d'imposta): i redditi delle società di capitali,
tassati presso la società, erano tassati anche come reddito del socio, ma la doppia
tassazione (economica) era eliminata perché l'imposta dovuta dalla società era imputata
al socio, che aveva diritto ad un credito d'imposta, la cui misura era pari all'imposta
dovuta dalla società sugli utili distribuiti, In tal modo, per i redditi distribuiti, il prelievo
tributario a carico della società operava, dal punto di vista economico, come una
anticipazione dell'imposta dovuta dal socio.
La riforma entrata in vigore il l° gennaio 2004 ha soppresso il sistema del credito
d'imposta collegato ai dividendi distribuiti da società residenti (il credito d'imposta
rimane, invece, per i redditi provenienti dall'estero, con funzione diversa), ed ha
introdotto un nuovo sistema, fondato sul seguente criterio: l'imposta dovuta dalla società
non è imputata al socio (ma si «cristallizza» e diviene definitiva); i dividendi, se
distribuiti a soci aventi forma di società di capitali, non sono tassati (o sono tassati nella
misura del solo 5 per cento del loro ammontare), Solo i dividendi che escono dal
«circuito intersocietario», e sono distribuiti a soci persone fisiche, subiscono una
tassazione ulteriore (ma in misura ridotta, per limitare gli effetti della doppia
tassazione).
1.3.3 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti residenti
In linea generale occorre premettere che le società e gli enti residenti vengono
tassati in Italia per i redditi ovunque prodotti in virtù del principio di tassazione del
reddito mondiale.
Il reddito delle società e degli enti commerciali residenti è un reddito omogeneo,
in quanto non discende dalla somma dei singoli redditi distinti per categorie, ma da
qualsiasi fonte provenga è considerato con un presunzione assoluta reddito d’impresa
(art. 81 TUIR). Ne deriva che, se una società possiede degli immobili, o dei capitali i
relativi redditi non appartengono alla categoria dei redditi fondiari, o di capitale, ma
sono componenti del reddito d’impresa. Ad esempio anche il reddito delle società di
capitali e degli altri enti commerciali, derivanti dall’esercizio di un’impresa agraria, non
costituisce reddito agrario ma reddito d’impresa. Il reddito complessivo verrà quindi
determinato secondo i gli stessi criteri analizzati con riguardo al reddito d’impresa.
Il reddito degli enti non commerciali residenti è dato invece dalla somma dei
redditi fondiari, di capitale, d’impresa, e diversi ovunque prodotti e a prescindere dalla
loro destinazione (art. 143 TUIR). Ne consegue dunque che i ricavi e le perdite che
partecipano alla formazione degli enti non commerciali devono essere determinati
25
separatamente per ciascuna categoria reddituale.
1.3.4 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti non residenti
A differenza dei soggetti residenti, il reddito complessivo delle società e degli enti
non residenti, siano essi commerciali o non commerciali, è formato solo da redditi
prodotti nel territorio dello Stato, con esclusone di quelli esenti da imposta o soggetti a
ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva (artt. 151 e 153 TUIR).
L’art. 23 del TUIR prevede alcuni criteri di collegamento in virtù dei quali un reddito
viene considerato prodotto in Italia. Alcuni criteri di collegamento sono basati sulla
localizzazione del cespite. Ad esempio si considerano prodotti in Italia:
a) i redditi fondiari derivanti da un immobile sito nel territorio italiano;
b) i redditi di capitale quando il reddito è erogato da un residente in Italia.
Altri criteri sono basati sul luogo di svolgimento dell’attività:
a) i redditi di lavoro autonomo si considerano prodotti in Italia quando derivano da
attività prestate nel territorio nazionale;
b) i redditi d’impresa si considerano prodotti in Itala quando l’attività è prestata in
Italia attraverso una struttura organizzativa permanente definita fiscalmente
“stabile organizzazione.
Per gli enti non residenti commerciali con stabile organizzazione nel territorio
dello Stato, fatta eccezione per le società semplici, il reddito complessivo è determinato
secondo le disposizioni valevoli per gli enti commerciali residenti sulla base di un
apposito conto economico, relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e altre
attività produttive di redditi imponibili nello Stato (art. 152 TUIR).
Qualora non vi siano stabili organizzazioni i singoli redditi che formano il reddito
complessivo sono determinati secondo le disposizioni IRPEF relative alle varie
categorie in cui essi si collocano. Questo criterio informa anche la determinazione del
reddito complessivo degli enti non residenti non commerciali (art. 154 TUIR).
CAPITOLO II
2.1
BREVI CENNI AL FEDERALISMO FISCALE
26
Il federalismo fiscale consiste nell’attribuzione di un potere fiscale,
differentemente graduato, ad una serie di enti territoriali diversi e subordinati rispetto
allo Stato secondo la logica espressa del principio di sussidiarietà; ed invero, in linea di
massima, in un assetto federale a ciascun ente territoriale viene il riconosciuto il potere
di manovrare le entrate fiscali secondo il fabbisogno di risorse finanziarie in
dipendenza dei compiti e dei servizi pubblici che devono essere assicurati da quel
medesimo ente alla collettività amministrata.
Il tema del federalismo fiscale costituisce da diversi anni uno degli argomenti di
maggiore interesse nel dibattito giuridico attuale, in quanto attiene essenzialmente alla
configurazione dei rapporti istituzionali tra lo Stato e gli enti territoriali e, dunque, al
processo di trasformazione della Costituzione materiale del nostro sistema-paese17.
Il 5 maggio 2009 il Parlamento italiano ha varato il Disegno di Legge n. 42 (c.d.
“Legge Calderoli”) che contiene una delega al Governo per l’attuazione del sistema.
Federalismo fiscale. Entro ventiquattro mesi dall’entrate in vigore del predetto Disegno
di Legge il Governo potrà realizzare la riforma del federalismo fiscale, con
l’emanazione di una serie di decreti legislativi, cui è affidato anche il compito di
individuare le disposizioni incompatibili con il nuovo assetto fiscale federalista e
disporne, quindi, la cancellazione dal nostro ordinamento. L’attuazione in concreto del
federalismo verrà quindi verificata da una Commissione bicamerale composta da 15
senatori e altrettanti deputati.
Da punto di vista fiscale i punti fondamentali della riforma in esame sono:
a) il riconoscimento della piena autonomia di entrata e di spesa a favore delle
regioni, province, comuni e città metropolitane che, tuttavia, saranno tenuti a
gestire le risorse finanziarie nel rispetto degli obbiettivi di finanza pubblica
nazionale e dei vincoli imposti dall’Unione europea. In particolare lo Stato
riconoscerà agli enti locali la copertura dei c.d. “costi standard”. D’ora in poi,
infatti, per ogni servizio erogato dagli enti territoriali si individuerà un “costo
standard” cui tutti gli enti locali dovranno abituarsi entro un periodo transitorio
di 5 anni. Viene così eliminato il meccanismo perverso che finora, facendo
riferimento alla spesa storica, premiava con maggiori risorse gli enti che
spendevano di più. I costi standard verranno finanziati con tre tributi (ossia
quelli propri derivati, istituiti e regolati da legge statale; con le aliquote riservate
a valere sulle base imponibili dei tributi statali e con i tributi locali), con
compartecipazione alle attività di accertamento in materia di Irpef ed IVA (sono
17
Cfr., ex multis, ANTONINI, Verso un nuovo federalismo fiscale, Milano, 2005; FREGNI, Riforma del
titolo V della Costituzione e federalismo fiscale, in Rass. trib., 2005, 683; MAJOCCHI-MURARO, Verso
l’attuazione del federalismo fiscale, in Riv. dir. fin., 2006, 3.
27
b)
c)
d)
e)
f)
g)
h)
infatti previsti dei premi per gli enti locali che otterranno risultati positivi in
termini di maggior gettito sul fronte dell’azione di contrasto dell’evasione e
dell’elusione fiscale) e con il fondo perequativo statale (che servirà a sostenere
le regioni con minor capacità fiscale per abitanti, garantendo l’integrale
copertura delle spese corrispondenti ai fabbisogni standard per i livelli
essenziali delle prestazioni);
fisco di vantaggio: sono previsti, in armonia con le norme comunitarie,
interventi speciali a favore degli enti locali per il loro sviluppo economico e
sociale e per sopperire al deficit infrastrutturale dovuto ad una loro non ottimale
collocazione geografica. L’entità delle risorse verrà determinata, annualmente,
in sede di manovra finanziaria;
fondi perequativi locali: saranno due, uno a favore dei Comuni, e l’altro delle
province e delle città metropolitane, e verranno inseriti nel bilancio regionale,
sebbene finanziati dallo Stato. Andranno a tamponare le esigenze degli enti
locali per le attività svolte;
tributi nuovi: le regioni potranno istituire tributi nuovi, ma solo per i presupposti
non già assoggettati ad imposizione erariale e, attraverso le legge regionale,
valutare la modulazione delle accise su benzina, gasolio e gpl. Verranno istituiti
anche nuovi tributi locali propri;
tasse di scopo: i Comuni potranno introdurre una o più tasse di scopo per
finanziare la realizzazione di opere pubbliche e di investimenti pluriennali nei
servizi sociali. Lo stesso potranno fare province e città metropolitane per
provvedere a specifiche finalità;
premi e sanzioni: arriva un sistema che premia le amministrazioni più virtuose,
anche dal punto di vista ambientale, e che incentivano l’occupazione e
l’imprenditoria femminile. Verranno invece comminate delle sanzioni per le
amministrazioni “sprecone” o per quelle che non assicurano ai cittadini residenti
i livelli essenziali di prestazioni (sanità, istruzione, assistenza), ovvero non
rispettano i criteri di redazione dei bilanci e non comunicano i propri dati ai fini
del coordinamento della finanza pubblica;
patrimonio degli enti locali: a tutte le amministrazioni locali sarà garantito, a
costo zero, un proprio patrimonio, commisurato alle dimensioni territoriali,
capacità finanziarie e alle singole competenze svolte. I beni immobili saranno
assegnati secondo il criterio della territorialità;
patto di convergenza: ogni anno, in sede di finanziaria, il Governo dovrà
indicare lo stato dell’arte del passaggio ai costi e ai fabbisogni standard e
stabilire, eventualmente, azioni correttive per quelle amministrazioni in
difficoltà.
28
2.2
L’IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE (IRAP)
2.2.1 Caratteri generali dell’imposta
L'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) trova la sua disciplina
fondamentale nel D. Lgs. n. 446/1997, emanato in base alla delega conferita con l'art. 3,
commi 143 e ss. della L. 662/1997.
L'IRAP è stata introdotta in vista di una serie di ambiziosi obiettivi: in particolare,
da un lato, attribuire alle Regioni un'imposta dal gettito rilevante e in parte modulabile
per attuare proprie politiche finanziarie, come strumento del “federalismo fiscale”;
dall'altro, sostituire vari prelievi considerati distorsivi (ILOR, ICIAP, contributi al SSN)
con un tributo di nuova concezione, che avrebbe dovuto diminuire la pressione
tributaria sui redditi d'impresa e quella contributiva sulle retribuzioni, semplificare i
doveri dei contribuenti e ridurne la propensione a comportamenti economicamente non
corretti, adottati in quanto vantaggiosi rispetto alle imposte sui redditi.
Ai sensi dell’art. 1 del citato D.Lgs. 446/1997 l’IRAP:
a) è un’imposta locale regionale, applicabile cioè alle attività produttive esercitate nel
territorio di ogni Regione;
b) ha carattere reale e quindi colpisce il soggetto passivo in virtù della sua particolare
relazione all’attività oggetto di tassazione;
c) è indeducibile dalle imposte sul reddito. La motivazione addotta a sostegno
dell’impossibilità di utilizzare l’importo pagato per abbattere le imposte sul
reddito risiede nell’evitare che l’Erario consegua un minor gettito in conseguenza
di aumenti di aliquota decisi a livello regionale
Particolarmente discussa è la natura erariale o regionale dell’imposta: infatti
nonostante il tributo sia qualificato dalla legge come “imposta regionale”, la Corte
costituzionale con sentenza n. 269/2003 ha precisato che la circostanza che l’imposta sia
stata istituita con legge statale e che alle Regioni siano espressamente attribuite
competenze di carattere solo attuativo rende palese che l’imposta non possa considerasi
come tributo proprio delle regioni nel senso in cui tale espressione è adoperata nell’art.
119 della Costituzione, essendo indubbio il riferimento della norma costituzionale ai
soli tributi istituiti dalle Regioni con proprie leggi. La Legge Finanziaria per il 2008
(art. 1, comma 43) tuttavia ha previsto che l’imposta assuma la natura propria di tributo
della regione e che, a decorrere dal 1° gennaio 2009, venga pertanto istituita con legge
29
regionale18.
Ai sensi dell’art. 3 del Decreto IRAP i soggetti passivi dell’imposta possono
essere distinti in tre categorie:
a) coloro che producono un reddito d’impresa, commerciale o agricola (società di
persone o di capitali, enti commerciali e non commerciali ecc.);
b) coloro che esercitano un’arte o una professione, vale a dire un’attività
professionalmente organizzata di lavoro autonomo (non sono colpiti coloro che
svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa né coloro che
producono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente);
c) gli organi e le amministrazioni dello Stato, le province, i comuni e gli enti non
commerciali.
Sono esclusi invece dall’IRAP:
a) coloro che producono redditi occasionali di lavoro autonomo o d’impresa;
b) gli imprenditori agricoli che producono redditi minimi;
c) i fondi di investimento e i fondi pensione;
d) i gruppo europei di interesse economico.
2.2.2 Presupposto, base imponibile ed aliquota
L'IRAP é un'imposta di tipo nuovo, perché, a differenza delle tradizionali imposte
dirette, non ha come presupposto il reddito o il patrimonio, ma lo svolgimento di
un'attività (economica o no), autonomamente organizzata19, per la produzione di beni e
servizi; in altre parole, sono presupposti dell'IRAP lo svolgimento, con autonoma
organizzazione, di un'attività imprenditoriale, di un'attività artistica o professionale, o
di un'attività amministrativa.
Ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 446/1997 la base imponibile IRAP è data dal
“valore della produzione netta” realizzato nel territorio di ciascuna Regione, che è
determinato secondo regole differenziate per i vari tipi di attività e soggetti passivi. In
particolare, per le attività d'impresa, il valore della produzione netta è dato dalla
differenza tra i proventi ed i costi della gestione “ordinaria” (da inserire nei settori A e B
del conto economico ex art. 2425 c.c.), tranne il costo del lavoro; non rilevano invece i
18
Termine prorogato al 1° gennaio 2010 dall’art. 42 del DL 207/2008, convertito dalla L. 14/2009.
Questo requisito ha la funzione di escludere l'applicazione dell'imposta, in primo luogo, a chi svolga
un'attività confluente in un'organizzazione altrui, in particolare apportando ad un'impresa lavoro (come
dipendente o collaboratore) o capitale (come socio o come finanziatore, purché diverso da un'impresa
bancaria o finanziaria): sta infatti all'imprenditore impiegare detti apporti nel modo più conveniente,
esercitando così il suo “potere organizzativo” sui fattori produttivi, le remunerazioni dei quali sono
pertanto indeducibili.
19
30
componenti positivi e negativi della “gestione finanziaria” (in particolare gli interessi) e
della “gestione straordinaria”, in quanto afferenti ai settori C, D ed E del conto
economico. Dunque, in tal modo l'IRAP colpisce la parte dell'utile che non deriva da
operazioni finanziarie e straordinarie, nonché, in quanto non deducibili (diversamente
dalle imposte sui redditi), le retribuzioni dei lavoratori e i proventi dei finanziatori
dell'impresa, nei limiti in cui trovino capienza nel valore della produzione netta. Per le
attività di lavoro autonomo, si deducono dai corrispettivi i costi diversi dal costo del
lavoro e dagli interessi passivi (art. 8, D.Lgs. 446/1997). Per le attività non commerciali,
invece, si sommano le remunerazioni per prestazioni di lavoro (c.d. criterio
“retributivo”: artt. 10 e 10-bis, D.Lgs 446/1997).
Dal punto di vista economico, dunque l'IRAP ha ad oggetto questa forma di
“ricchezza”, al tempo stesso “prodotta” e “da distribuire”, che nel D.Lgs. n. 446/1997 è
chiamata “valore della produzione netta”, e risulta, come si è visto, dai proventi della
gestione “ordinaria” meno i relativi costi salvo quello del lavoro. Tuttavia, al di là delle
ragioni di politica tributaria sopra ricordate (federalismo, semplificazione, non
distorsività), appare arduo sul piano del giusto riparto delle spese pubbliche
comprendere una tassazione di chi svolge l'attività di impresa o lavoro autonomo su un'
entità come il valore aggiunto prodotto, il quale corrisponde ad arricchimenti in parte
altrui, cioè dei lavoratori o finanziatori. Non giova a tal fine la proclamazione da parte
dell'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 446/1997 (con un'inconsueta cura per le classificazioni
teoriche) che l'IRAP ha carattere “reale”. Detta qualificazione appare corretta,
risultando la determinazione del tributo insensibile alla situazione del soggetto passivo
estranea all' attività “produttiva”, ma l'esplicitare la ratio di colpire una capacità
contributiva diversa da quella “personale” non basta ad evitare i dubbi di illegittimità
costituzionale. La realità, in altre parole, classifica l'imposta, ma non ne spiega la
natura: rimane controverso in quale senso la produzione di valore tramite 1'esercizio di
un' attività autonomamente organizzata sia indice di un'attitudine alla contribuzione
misurata da detto valore, e la giurisprudenza costituzionale, consolidata nel senso che la
scelta fatta al riguardo dal legislatore rientrasse nella discrezionalità lasciatagli dall'art.
53 Costituzione, non sembra riuscita a fare chiarezza su questo punto.
La dottrina maggioritaria infatti dubitava fortemente della legittimità
costituzionale dell'IRAP, specie per l'irragionevolezza della tassazione in capo al
titolare dell' attività su una ricchezza altrui, per la tassabilità anche di soggetti in
perdita, per 1'equiparazione tra impresa e lavoro professionale. La Corte costituzionale,
con sentenza n. 156/2001, ha respinto le censure sollevate, affermando che sta al
legislatore desumere i fatti espressivi di capacità contributiva “da qualsiasi indice che
sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale”, e la scelta a tal
fine del “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” non
31
sarebbe irragionevole, né contraria all'art. 53 Costituzione. Secondo la Corte, infatti, il
valore aggiunto (sarebbe “comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a
chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la
ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura,
concorrono alla sua creazione», e «la mancata previsione del diritto di rivalsa ... nei
confronti di coloro cui pure il valore aggiunto prodotto è, pro quota, riferibile (e cioè i
lavoratori ed i finanziatori)” non violerebbe il principio di capacità contributiva,
perché, allo stesso modo di un “qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale)
gravante sulla produzione, l’onere economico del!' imposta potrà essere ... trasferito
sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere totalmente
o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative”.
Infine si rileva che L'IRAP è dovuta per periodi d'imposta, che l'art. 14 determina
per rinvio alle imposte sui redditi. L'aliquota ordinaria è del 3,9%. La disciplina degli
adempimenti dei contribuenti e di controlli, liquidazione, accertamento e riscossione è
modellata su quella delle imposte sui redditi, con limitate possibilità di modifica da
parte delle leggi regionali.
2.3 IL SISTEMA DELL’IVA
2.3.1 Generalità e caratteri dell’imposta
L’IVA è stata creata in sede europea ed è stata introdotta nel nostro Ordinamento
con il DPR 26 ottobre 1972, n. 633. Si tratta di un’imposta indiretta che ha come
giustificazione costituzionale il consumo, assunto come fatto espressivo di capacità
contributiva. Si tratta dell’ unica imposta del sistema fiscale italiano che risponde ad un
modello impositivo comune a tutti i paesi dell’Unione Europea. Molte considerazioni di
ordine pratico hanno reso indispensabile l’introduzione di tale imposta, tra cui:
a) la necessità di adeguare il sistema tributario italiano alla normativa UE: già la
direttiva dell’11 aprile 1967 fissava al 1° gennaio 1970 l’entrata in vigore di un
sistema di tassazione indiretta sui consumi trasparente, neutrale ed uguale per tutti
gli Stati UE che permettesse attraverso l’applicazione del principio della
tassazione dei beni e servizi nel paese di destinazione una chiarezza nei rapporti di
scambio tra i paesi UE;
b) l’istituzione di un’imposta neutrale sui consumi tale da non danneggiare alcuni
tipi di imprese favorendone altre.
L’IVA colpisce l’incremento di valore acquisito dal bene nelle singole fasi di
produzione e distribuzione, fino a incidere interamente sul consumatore finale, su cui
graverà l’intera imposta. L’IVA, quindi, giunge a colpire il consumo finale mostrandosi
32
neutrale nei passaggi intermedi di beni e servizi tra produttori, commercianti e
professionisti. Tali soggetti, invero, attraverso il meccanismo della rivalsa e della
detrazione non vengono incisi dal tributo che graverà totalmente sul consumatore
finale. In particolare:
a) la rivalsa consente al singolo operatore economico di recuperare l’IVA dovuta
all’erario addebitando la stessa imposta al proprio cessionario o committente;
b) il diritto alla detrazione (o credito d’imposta) consente al cessionario o
committente di detrarre l’IVA corrisposta ai fornitori per beni e servizi acquistati
nell’esercizio di imprese, arti o professioni dall’IVA sulle operazioni attive
(cessione di beni e prestazioni di servizi). Per le eventuali eccedenze rimane la
possibilità di attivare la procedura di rimborso.
Da un punto di vista giuridico il meccanismo dell’IVA determina quattro diverse
situazione giuridiche:
a) l’operatore economico che effettua un’operazione imponibile diventa debitore
verso lo Stato dell’IVA commisurata ai corrispettivi che gli sono dovuti;
b) lo stesso soggetto diviene contemporaneamente creditore (in via di rivalsa) verso
il cessionario o committente;
c) se il cessionario/committente è un soggetto IVA diventa debitore (per via di
rivalsa) verso il cedente o prestatore del servizio ma contemporaneamente detrae
l’IVA sugli acquisti di beni e sulle prestazioni di servizi dalla propria IVA
maturata sulle operazioni attive;
d) se il cessionario/committente è un cliente consumatore finale paga l’IVA al
fornitore, non la detrae e la tassazione si compie.
Sulla base del meccanismo di funzionamento dell’IVA occorre precisare che:
i.
da un punto di vista economico il soggetto passivo dell’imposta – inteso come
soggetto effettivamente inciso dal tributo - è il consumatore finale ossia colui che
acquistando un bene o un servizio non ha la possibilità di recuperare l’imposta
pagata in via di rivalsa all’operatore economico. Il consumatore finale, quindi, è
ravvisabile in chiunque non agisca nell’esercizio di imprese, arti o professioni.
Tale soggetto, tuttavia, non è giuridicamente il soggetto passivo dell’imposta in
quanto non è tenuto ad alcun adempimento e non ha alcun rapporto tributario con
l’ente impositore;
ii.
da un punto di vista tecnico o giuridico, invece, sono soggetti passivi d’imposta
gli imprenditori e gli esercenti arti o professioni i quali sono chiamati ad osservare
la normativa in materia di IVA pur non rimanendo economicamente incisi dal
tributo.
33
2.3.2 Presupposto soggettivo
Secondo la sesta direttiva, è soggetto passivo IVA chiunque eserciti in modo
indipendente e in qualsiasi luogo un’attività di produttore, commerciante, prestatore di
servizi, ovvero una professione, nonché chi proceda, anche con una singola
operazione, allo sfruttamento di un bene materiale od immateriale per ricavarne
introiti di una certa stabilità. Gli enti pubblici sono soggetti passivi d'imposta quando
pongono in essere attività economiche di tipo commerciale, non lo sono per le attività
che esercitano in quanto pubbliche autorità. La normativa nazionale ha attuato tali
previsioni raggruppando i soggetti passivi in due grandi categorie: imprenditori ed
esercenti arti o professioni.
Le definizioni legislative delle due categorie di soggetti passivi IVA sono assai
prossime alle definizioni che troviamo nella disciplina delle imposte sui redditi.
Secondo l'art. 4 del DPR 633/1972, “per esercizio di imprese si intende
l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali
o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in
forma di impresa, nonché l'esercizio di attività organizzate in forma di impresa,
dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'art. 2195 del codice civile”.
Ai fini Iva, sono considerate in ogni caso imprenditoriali le operazioni effettuate
da società ed enti commerciali. In altre parole, sono soggette ad imposta tutte le attività
svolte da soggetti che hanno forma giuridica di società commerciale, o da enti che
abbiano per oggetto principale od esclusivo l'esercizio di attività commerciali od
agricole.
In deroga a questo principio, non sono attività commerciali il possesso e la
gestione di immobili ed il possesso di partecipazioni che costituiscono
immobilizzazioni.
Invece, per gli enti non commerciali, “si considerano effettuate nell'esercizio di
impresa soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di
imprese commerciali o agricole”; vi sono però attività considerate sempre
commerciali, anche se fatte da enti pubblici (c.d. attività oggettivamente commerciali).
Ponendo a confronto la definizione di imprenditore ai fini Iva e quella di
imprenditore ai fini delle imposte sui redditi, si notano identità e differenze:
a) nelle due definizioni, vi è in comune il rimando alle attività qualificate
commerciali dall'art. 2195 c.c. e l'irrilevanza della “organizzazione in forma di
impresa”; perciò, nei due settori, è imprenditore chiunque svolga un'attività
commerciale, anche se non organizzata in forma di impresa; come ai fini IRPEF,
però, le prestazioni di servizi a terzi, che non rientrano nell'art. 2195 c. c., sono
ugualmente attività d'impresa se vi è l'organizzazione in forma d'impresa;
34
b)
nelle due definizioni, vi è in comune il fatto che sono qualificate in modo
onnicomprensivo come attività imprenditoriali tutte le attività svolte da società ed
enti commerciali;
c) nelle due definizioni, vi è in comune il principio per cui le attività degli enti non
commerciali sono da discriminare tra attività di impresa (soggette ad Iva) ed
attività non imprenditoriali;
d) solo nella definizione IVA sono compresi gli imprenditori agricoli (mentre la
definizione di imprenditore ai fini reddituali coincide con quella di imprenditore
commerciale).
Anche la definizione di esercizio di arte o professione è simile a quella data ai fini
delle imposte dirette; infatti, ai fini Iva, “per esercizio di arte o professione si intende
l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di
lavoro autonomo”. Vi è quindi anche qui identità di significato tra “esercizio di arte e
professione” e “attività di lavoro autonomo”. Esercenti arti o professioni possono
essere, ai fini Iva, le persone fisiche, le società semplici e le associazioni professionali.
Ciò che si richiede è: a) che l'attività sia svolta in modo autonomo (ossia senza il
vincolo di subordinazione che caratterizza il lavoro dipendente); b) che non vi siano i
connotati dell'imprenditorialità. Coloro che svolgono attività di collaborazione
coordinata e continuativa non sono soggetti ad Iva, se non esercitano abitualmente altre
attività di lavoro autonomo.
2.3.3 Il campo di applicazione e le operazioni escluse
Perché una operazione economica sia rilevante ai fini dell'IVA, è necessario, da un
lato, che essa sia posta in essere da un imprenditore o da un lavoratore autonomo
(presupposto soggettivo), e, dall'altro, che rientri nel “campo di applicazione” del
tributo (presupposto oggettivo).
L'espressione “campo di applicazione” dell'IVA designa non soltanto l'area delle
fattispecie imponibili, ma anche l'area delle operazioni altrimenti rilevanti; e dunque
particolarmente importante la distinzione tra operazioni “incluse” ed operazioni
“escluse” dal “campo di applicazione” dell'IVA.
Le operazioni “escluse” sono quelle che non hanno alcun rilievo ai fini
dell'applicazione dell'imposta: ciò significa non soltanto che non comportano il sorgere
del debito d'imposta, ma anche che non determinano obblighi formali (fatturazione,
annotazione, ecc.), che non incidono sul diritto di detrazione, che non rilevano ai fini
del calcolo del “volume d'affari”, ecc..
Le operazioni che rientrano nel “campo di applicazione” dell'IVA, a loro volta, si
distinguono in:
35
a)
b)
c)
operazioni “imponibili”;
operazioni “non imponibili”;
operazioni “esenti”.
A ciascuna di queste qualificazioni si collega un peculiare regime giuridicofiscale.
Le operazioni “imponibili” comportano il sorgere del debito d'imposta e
l'applicazione di tutto l'apparato di regole di cui è formato il meccanismo attuativo del
tributo.
Le operazioni “non imponibili” e quelle “esenti” non fanno sorgere il debito
d'imposta, ma comportano gli stessi adempimenti formali delle operazioni imponibili
(devono essere fatturate e registrate, devono essere incluse nel calcolo del “volume
d'affari”, ecc.).
L'elemento caratteristico delle operazioni “esenti” risiede nel fatto che esse
limitano il diritto di detrazione, a differenza delle operazioni “non imponibili”
(esportazioni), che non incidono su tale diritto. Non è qui il caso di elencare
dettagliatamente tutte le operazioni esenti. Limitandoci a fornire indicazioni sommarie,
noteremo che sono esenti:
a) talune operazioni di carattere finanziario (operazioni creditizie, assicurative,
valutarie, relative a valori mobiliari);
b) le operazioni relative alla riscossione dei tributi;
c) l'esercizio di giochi e scommesse;
d) le prestazioni di mandato e di mediazione;
e) le operazioni in oro;
f)
le operazioni immobiliari;
g) talune operazioni socialmente rilevanti (cessioni gratuite di beni a determinate
categorie di soggetti; taluni servizi di pubblica utilità; le prestazioni sanitarie; le
attività educative e culturali);
h) le cessioni di beni acquistati senza detrazione dell'IVA.
Le operazioni imponibili sono definite da uno schema normativo che è composto
da una definizione generale, da un elenco di fattispecie assimilate e da un elenco di
esclusioni.
Nella categoria delle “operazioni imponibili” sono comprese quattro specie di
operazioni:
a) cessioni di beni (all'interno del territorio nazionale);
b) prestazioni di servizi (rese nel territorio dello Stato);
c) acquisti intracomunitari;
d) importazioni (da paesi extracomunitari).
Esaminiamo, innanzitutto, che cosa si intende per “cessione di beni”. Secondo la
36
definizione legislativa, “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che
importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti
reali di godimento su beni di ogni genere”. E da sottolineare che il termine “cessione”
comprende non solo il trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale) ma anche la
costituzione di un diritto reale. Rientrano nella fattispecie in esame non solo i contratti,
ma tutti gli atti giuridici che determinano effetti traslativi o costitutivi di diritti reali (si
pensi, ad esempio, ai trasferimenti coattivi). Le cessioni imponibili, secondo la
definizione riportata, sono quelle a titolo oneroso; ma le cessioni a titolo gratuito non
sono sempre escluse da imposta, perché sono imponibili le cessioni gratuite di benimerce (cioè di beni che l'impresa produce o commercia).
Vi sono poi operazioni che, pur presentando tutti i requisiti delle “cessioni” non
sono considerate tali, e quindi sono “escluse” dal campo di applicazione dell’Iva. Tra di
esse, sono da ricordare alcune “cessioni” che non si collocano nell’ambito dell'ordinaria
attività d'impresa, ma nell'ambito delle attività straordinarie di organizzazione
dell'impresa. L'IVA si correla alla gestione ordinaria mentre alle operazioni
straordinarie corrisponde l'imposta tipica per la raccolta di capitali (imposta di registro).
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del DPR 633/1972 costituiscono prestazioni di
servizi “le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto,
trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da
obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte”.
Condizione essenziale perché le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano
considerate imponibili è che siano effettuate nel territorio dello Stato (art. 7), in
particolare:

le cessioni si considerano effettuate nello Stato se hanno per oggetto beni
immobili o mobili nazionali, comunitari o in regime di temporanea importazione,
tutti esistenti nel territorio statale;

le prestazioni, invece, si considerano effettuate nello Stato se sono rese da soggetti
domiciliati nello Stato o ivi residenti (purché senza domicilio all’estero) o da
stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero.
Infine rientrano nel campo di applicazione dell’IVA le operazioni di importazione
indicate nell’art. 67 del DPR 633/1972 e ai sensi dell’art. 38 del DL 331/1993 gli
acquisti intracomunitari di beni, ossia gli acquisti a titolo oneroso della proprietà o di
altro diritto reale di godimento, spediti o trasportati in Italia da altro Stato membro dal
cedente o dall’acquirente per loro conto.
2.3.4 Regole impositive
La base imponibile IVA è costituita, di regola, dall’ammontare complessivo dei
37
corrispettivi contrattuali dovuti al cedente o al prestatore secondo le condizioni
contrattuali. Il valore venale della prestazione costituisce tuttavia una presunzione che
può legittimare l’Amministrazione finanziaria a rettificare il corrispettivo dichiarato
dalle parti nell’atto.
Sono compresi nel corrispettivo, ai sensi dell’art. 13 del DPR 633/1972 gli oneri e
le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario
o al committente nonché le integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti
da altri soggetti.
Non concorrono invece alla formazione della base imponibile: (i) le somme
dovute a titolo di interesse moratori o di penalità; (ii) il valore normale dei beni ceduti a
titolo di sconto, premio o abbuono in conformità alle originarie condizioni contrattuali;
L’IVA si applica con aliquote differenziate in relazione alle varie tipologie di beni
e servizi, il che consente di agevolare o penalizzare una certa tipologia di consumi
rispetto alle altre. L’art. 16 prevede un’aliquota generale del 20% mentre le aliquote
speciali sono previste per categorie merceologiche, nelle Tabelle allegate al Decreto
IVA.
L’aliquota applicabile deve essere scelta al momento di effettuazione
dell’operazione e, pertanto, in caso di mutamento di aliquote, una stessa fornitura potrà
scontare aliquote diverse ove una parte del corrispettivo sia stata pagata o fatturata
prima della consegna e, quando quest’ultima interviene, l’aliquota applicabile sia
mutata. Le prestazioni accessorie come ad esempio il trasporto o la posa in opera
scontano in base all’art. 12 l’aliquota applicabile alla prestazione principale.
Come abbiamo visto, l'effettuazione di una operazione imponibile determina, da
un lato, un debito verso il Fisco del soggetto passivo d'imposta; a tale debito si collega
il diritto di rivalsa (del soggetto passivo) nei confronti di chi acquista il bene o il
servizio. La rivalsa è quindi, innanzi tutto, un credito: un credito del soggetto passivo
dell'IVA, nei confronti della controparte contrattuale, che si aggiunge, per effetto di
legge, al corrispettivo pattuito. Il credito sorge, in concreto, dall'addebito dell'IVA nella
fattura da cui scaturisce il diritto di rivalsa che è composta, perciò, di due elementi: la
effettuazione di una operazione imponibile e la emissione della fattura.
Il rapporto di rivalsa è un rapporto tra privati, distinto dal rapporto tributario in
senso stretto che intercorre tra Fisco e contribuente, ma correlato al rapporto tributario.
Si discute se la rivalsa sia un diritto o un obbligo; ma la questione, posta in
termini alternativi, è mal posta, perché nel fenomeno vi è, al tempo stesso, l'una cosa e
l'altra. La rivalsa è sia un diritto, sia un obbligo.
Va precisato, però, quale è l'oggetto di tali situazioni soggettive. Il soggetto
passivo Iva, quando effettua una operazione imponibile, deve emettere fattura e deve
“addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente”
38
L'obbligo ha per oggetto, quindi, non la rivalsa (nel senso di “esercizio del diritto
di credito”), ma l'emissione della fattura, con addebito dell'imposta.
Poiché emissione della fattura e addebito dell'IVA in fattura sono elementi della
fattispecie costitutiva del credito di rivalsa, si può concludere che il soggetto passivo
Iva ha l'obbligo di far sorgere il diritto di rivalsa; ha l'obbligo, in altri termini, di
costituirsi creditore.
L'obbligo riguarda, quindi, non l'esercizio del credito di rivalsa ma la nascita di
tale credito; esso attiene alla fase costitutiva del diritto, non alle vicende del diritto già
sorto.
Nel commercio al minuto non è obbligatoria l'emissione della fattura; in tal caso,
il prezzo si intende comprensivo dell'imposta.
All'obbligo di far sorgere il credito di rivalsa corrisponde, dal lato del cessionario
del bene o del committente del servizio, il diritto di ricevere la fattura con addebito
dell'imposta; tale diritto è in funzione della detrazione da parte del cessionario o
committente (la detrazione presuppone il ricevimento della fattura con addebito
dell'imposta e l'annotazione della fattura nel registro degli acquisti). Aspetto tipico
dell'IVA è il diritto di detrazione attribuito ai soggetti passivi, in misura pari all'imposta
che è stata ad essi addebitata in via di rivalsa per gli acquisti di beni e servizi inerenti
all'esercizio dell'impresa, dell'arte o della professione.
Tale credito viene denominato, nella nostra legislazione, “diritto di detrazione” (la
direttiva usa il termine “deduzione”), in quanto, in sede di liquidazione del debito
d'imposta, si detrae, dall'imposta dovuta sulle operazioni attive, il credito verso il Fisco
sorto per effetto degli acquisti di beni o servizi.
Per effetto della detrazione, come sappiamo, l'IVA è neutrale per i soggetti passivi
del tributo, mentre non lo è per i consumatori finali. La detrazione è dunque un
elemento essenziale del meccanismo applicativo dell'imposta.
Oggetto del diritto di detrazione è l'importo “dell'imposta assolta o dovuta dal
soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi
importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione”. Nel caso di
importazioni, l'importatore può detrarre l'IVA risultante dalla bolletta doganale; nel
caso di acquisto “interno”, il soggetto passivo IVA può detrarre l’imposta che gli è
stata addebitata nella fattura.
La detrazione dell'IVA sugli acquisti richiede che vi sia inerenza: come per la
deduzione dei costi nel calcolo del reddito netto di impresa e di lavoro autonomo, così
per la detrazione dell'IVA sugli acquisti occorre che l'acquisto sia “inerente” (o
“afferente”) all'attività del soggetto passivo. Valgono, sul concetto di inerenza, le
considerazioni fatte al riguardo nel campo delle imposte dirette.
L’inerenza è il rapporto tra l'acquisto di un bene o servizio e lo svolgimento di
39
attività, che danno diritto alla detrazione; se invece l'acquisto si correla ad altre attività
(come le operazioni esenti), il diritto alla detrazione è escluso o limitato. Il risvolto del
requisito di inerenza è dato dunque dal complesso di regole, che escludono o limitano
il diritto di detrazione, in ragione della relazione esistente fra operazioni di acquisto ed
operazioni attive non soggette ad imposta. Tra le norme che incidono sul diritto di
detrazione, va in primo luogo menzionata la regola della “indetraibilità analitica”, o
“specifica” secondo cui “non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto
all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette
all’imposta”.
Tale disposizione preclude la detrazione dell'imposta assolta in rivalsa per
acquisti diretta mente destinati al compimento di operazioni esenti, non soggette od
escluse dal campo di applicazione dell'IVA.
Si ha inoltre una riduzione dell'imposta detraibile nel caso di operazioni passive
c.d. promiscue, ossia direttamente riferibili sia ad operazioni attive soggette ad
Imposta, sia ad operazioni non soggette. In caso di uso promiscuo è detraibile la quota
di imposta riferibile all'impiego imponibile, e non è detraibile la quota riferibile ad un
utilizzo non soggetto ad imposta.
Quando non vi sono legami diretti tra acquisti e specifiche operazioni attive che
non sono soggette ad imposta, ed il soggetto passivo IVA esercita sia attività che danno
diritto, sia attività che non danno diritto alla detrazione, il calcolo della quota di IVA
detrai bile è fatto con criterio forfetario (il pro-rata). Il criterio del pro-rata si applica
dunque quando non è applicabile la regola della indetraibilità specifica, ossia quando il
contribuente ponga in essere operazioni esenti in modo sistematico. La percentuale di
detraibilità è pari al risultato della frazione avente al numeratore l'ammontare delle
operazioni con diritto a detrazione, effettuate nell'anno, e al denominatore la somma
delle operazioni che danno diritto alla detrazione e delle operazioni esenti effettuate
nello stesso periodo.
Ad esempio, se le operazioni imponibili sono pari a cinquanta milioni di euro, e
quelle esenti sono pari a cento milioni, la percentuale di detrazione è data dal risultato di
una frazione che ha come numeratore cinquanta milioni, e come denominatore
centocinquanta milioni (l'IVA detraibile è dunque pari ad un terzo dell'imposta relativa
agli acquisti).
Non tutte le esenzioni incidono sul diritto di detrazione, perché le operazioni
esenti che “non formano oggetto dell'attività propria del soggetto passivo o sono
accessorie ad operazioni imponibili”, non si riflettono sul diritto di detrazione.
In sostanza, l'impresa che effettua un'operazione esente in via occasionale, o la
effettua in aggiunta ad un'operazione imponibile, conserva intatto il diritto di
detrazione; in tal modo, la neutralità del tributo non è intaccata da operazioni
40
sporadiche, non significative della attività della impresa. Solo le attività esenti, che
costituiscono attività “proprie”, limitano la detrazione. Circa i criteri con cui si
individua l'attività propria, vi sono due orientamenti.
Secondo l'orientamento seguito dall'Amministrazione finanziaria, è attività propria
quella prevista come oggetto sociale nello Statuto della società. In giurisprudenza,
invece, prevale un indirizzo “sostanzialistico”, che dà rilievo all'attività effettivamente
svolta dalla società. Vi sono beni e servizi per i quali risulta difficile stabilire la loro
inerenza e la loro utilizzazione nell'attività esercitata dal contribuente; perciò, il
legislatore esclude la detraibilità dell'Iva relativi ad essi, in quanto presume in modo
assoluto la non inerenza.
Limitandoci ad indicare qualche ipotesi di indetraibilità, noteremo che non è
detraibile l'imposta concernente aerei, auto, moto e imbarcazioni, né è detraibile
l'imposta relativa all'acquisto di carburanti e lubrificanti.
Non è inoltre detrai bile l'IVA relativa a spese di rappresentanza ed a spese per
alberghi, ristoranti, alimenti e bevande.
Infine, non è detrai bile l'IVA relativa all'acquisto o alla locazione di fabbricati ad
uso abitativo. L'IVA relativa ai telefoni cellulari è deducibile per metà.
Le norme in tema di detraibilità che abbiamo esaminato non sono applicate in via
definitiva, ma sulla base di una previsione dell'utilizzo che sarà dato al bene o al
servizio acquistato
La detrazione può essere fatta al momento dell'acquisto, senza bisogno di
attendere l'effettivo utilizzo; ma, se il bene o servizio è impiegato in modo difforme, la
detrazione operata deve essere rettificata, in aumento o in diminuzione, alla stregua del
concreto utilizzo che ne viene fatto.
Una particolare disciplina concerne la rettifica della detrazione dell'IVA relativa
all'acquisto di beni ammortizza bili. Il legislatore consente la detrazione dell'IVA sui
beni ammortizza bili in misura integrale nell'anno di acquisto del bene, ma la
detrazione può venir meno, o essere modificata, se negli anni successivi aumenta la
percentuale delle operazioni esenti. La percentuale di detraibilità può dunque variare di
anno in anno per effetto del mutamento del rapporto tra operazioni esenti e volume di
affari. Tale sistema è detto pro-rata temporis: con esso si vuole ovviare
all'incongruenza che si verifica quando un soggetto, che acquista beni strumentali in
un anno in cui non effettua o effettua in misura minima operazioni esenti, fruisca di
tali beni in anni in cui aumenta sensibilmente la percentuale di operazioni esenti.
Più precisamente, il legislatore prevede che, di regola, è detraibile l'intero
ammontare dell'IVA dovuta sull'acquisto di beni ammortizza bili , ma tale ammontare
viene rettificato nei quattro anni successivi a quello di acquisto se si verifica una
variazione della percentuale di detrazione superiore a dieci punti.
41
2.4
LE ALTRE IMPOSTE INDIRETTE NELLA FISCALITÀ D’IMPRESA
2.4.1L’imposta di registro
L’imposta di registro rientra nell’ampia categoria delle “imposte sugli affari”,
categoria che comprende:
a) le imposte sugli atti e negozi giuridici (ad es., imposte di bollo), da alcuni
qualificate anche come imposte sui trasferimenti (o sulla circolazione della
ricchezza);
b) le imposte sugli scambi (come l’imposta sul valore aggiunto);
c) le imposte sui trasferimenti (imposta di registro, sulle successioni, imposta
ipotecaria e catastale).
L’imposta di registro è solitamente definita (soprattutto nei manuali di scienza
delle finanze) come imposta sui trasferimenti della ricchezza. Si tratta, però, di una
imposta che ha un campo di applicazione che va al di là dei trasferimenti, in quanto
sono soggetti ad imposta di registro anche atti non traslativi, purché abbiano contenuto
economico. L’attuale assetto del tributo è il risultato di una complessa e lunga
evoluzione. Esso fa parte delle imposte indirette collegate alla conservazione ed alla
pubblicità degli atti; tali imposte possono atteggiarsi sia come tributi commutati (tasse),
avendo come presupposto la prestazione di un servizio; sia come imposte, in quanto
commisurate alla natura ed al contenuto economico dell’atto.
La disciplina dell’imposta di registro è contenuta nel DPR 131/1986 a cui sono
allegate:
a) la tariffa, divisa in due parti (la prima enumera gli atti soggetti a registrazione in
termine fisso, la secondo gli atti da registrarsi in caso d’uso);
b) la tabella degli atti per i quali non vi è obbligo di registrazione.
L’imposta (o tassa) di registro è cosi denominata perché viene applicata quando si
ha la registrazione di un alto. Essa è dunque legata alla prestazione di un servizio
amministrativo (la registrazione), ed ha natura di tassa quando i dovuta in misura fissa e
non ha altra giustificazione che la prestazione del servizio.
Vi sono, poi, i casi in cui il tributo è rapportato, in ragione proporzionale, al valore
dell’atto: ed in tal caso di tributo assume natura di “imposta”, avente la sua ratio nella
stipulazione o formazione di un atto a contenuto economico (contratto, sentenza, ecc.),
assunta dal legislatore come indice di capacità contributiva. La registrazione di un atto
comporta l’applicazione alternativa di una delle due forme di tributo; quando si applica
l’imposta, non si applica la tassa e viceversa. La registrazione avviene per effetto di
congegni giuridici di natura diversa e, cioè, a seguito di richiesta di registrazione o
42
d’ufficio. Sotto tale aspetto gli atti giuridici vanno distinti in tre categorie:
a) atti soggetti a registrazione in termine d’uso;
b) atti soggetti a registrazione in caso d’uso;
c) atti non soggetti a registrazione.
Per gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, Ia legge pone, a carico di
determinati soggetti (contraenti, notai, ece.), l’obbligo di richiederne Ia registrazione
entro un dato termine, presentando l’atto all’ufficio, che liquida l’imposta e ne richiede
il pagamento.
Per gli atti da registrare in caso d’uso, non vi è alcun obbligo di richiedere la
registrazione; ma l’atto non può essere “usato” se non è stata previamente effettuata la
registrazione (e pagata l’imposta); in simili casi, la registrazione non è un obbligo, ma
un onere. Infine, per gli atti per i quali non vi è né obbligo, né onere di registrazione, é
ammessa la registrazione c.d. volontaria, essendo previsto che, per qualsiasi atto scritto,
può chiederne la registrazione “chiunque vi abbia interesse”.
La legge disciplina minutamente le modalità e i termini della richiesta di
registrazione. Qui ci limitiamo a notare:
a) che la richiesta di registrazione é fatta su appositi stampati forniti dall’ufficio;
b) che la richiesta di registrazione dei contratti verbali e delle operazioni societarie di
cui all’art. 4 é fatta presentando all’ufficio apposita denuncia (non essendovi un alto
scritto da registrare, viene registrata la denuncia).
Di regola, la registrazione avviene a seguito di richiesta di parte, ma, se non é stato
osservato l’obbligo di richiederla, la registrazione é fatta d’ufficio. Non esistono norme
generali che consentano all’Amministrazione finanziaria o alla Guardia di finanza di
porsi alla ricerca degli atti non registrati e di sequestrarli; la repressione dell’evasione é
affidata, per questa imposta, ad altri strumenti, che tengono conto, da un lato, degli
interessi fiscali, dall’altro del diritto dei cittadini alla riservatezza.
La disciplina della registrazione d’ufficio, ispirata a tali principi, si articola nel
modo seguente:
a) per gli atti dei notai e dei pubblici ufficiali, la registrazione d’ufficio é possibile
solo se si rinvengano, nei registri o repertori, gli estremi di atti non registrati; qui
non v’è un problema di riservatezza;
b) si avverte più intensamente il problema della riservatezza per le scritture private
non autenticate: per esse, quando non sia stato osservato l’obbligo della richiesta
di registrazione in termine fisso, la registrazione d’ufficio é prevista solo nei
seguenti casi:

quando le scritture siano depositate presso pubblici uffici;

quando l’Amministrazione finanziaria ne sia venuta legittimamente in
possesso in base ad una legge che autorizzi il sequestro;
43

quando l’amministrazione ne abbia avuta visione nel corso di accessi,
ispezioni o verifiche eseguiti ai fini di altri tributi;
c) per i contratti verbale e per le operazioni societarie, la registrazione (che in tali
ipotesi prescinde dall’acquisizione di un atto scritto) può essere effettuata d’ufficio
sulla base di prove anche presuntive.
Nel lessico legislativo, sono detti “atti da registrarsi in termine fisso” gli atti per i
quali vi é l’obbligo di richiederne la registrazione, entro venti giorni dalla redazione. Gli
atti da registrarsi in termine fisso vanno distinti in quattro gruppi:
a) atti scritti indicati nella tariffa;
b) contratti verbali;
c) operazioni societarie;
d) atti formati all’estero.
La definizione generale degli atti da registrarsi in termine fisso è molto ampia, in
pratica il numero degli atti da registrare si riduce notevolmente, dato che gli atti della
vita commerciale sono da registrare solo in caso d’uso. I contratti verbali soggetti a
registrazione sono quelli di locazione o affitto di beni immobili e di trasferimento o
affitto di aziende.
Inoltre, devono essere registrate le operazioni di organizzazione societaria, quali:
l’istituzione o il trasferimento in Italia della sede legale o amministrativa di enti o
società estere, ecc. In tali casi, le operazioni societarie assumono rilievo
indipendentemente dalla forma dell’atto scritto da cui prendono origine.
Come anticipato, vi sono alcuni atti che devono essere registrati solo in caso
d’uso. Per “uso” di un atto si intende l’uso a fini amministrativi dell’atto, ossia la sua
produzione agli effetti dell’emanazione di un provvedimento amministrativo. L’atto,
prima di essere depositato presso una pubblica amministrazione (dello Stato o degli enti
pubblici territoriali), dev’essere registrato: esso deve essere quindi depositato con il
timbro che attesta la registrazione. Tra gli altri, va notato che devono essere registrati
solo in caso d’uso i contratti formati mediante corrispondenza e le scritture private non
autenticate relative ad operazioni soggette ad IVA. In sostanza, i contratti dei ricorrenti
nella vita economica (atti delle imprese commerciali), conclusi mediante
corrispondenza, sono soggetti a registrazione solo in caso d’uso, e poiché è infrequente
che si verifichi il caso d’uso per un contralto commerciale (ad esempio, cessione di
merci), si comprende perchè, in genere, i contratti per i quali sorge l’obbligo di
registrazione sono soprattutto quelli estranei alla vita ordinaria delle imprese. Sono
invece soggetti a registrazione e ad imposta di registro gli atti organizzativi, come la
costituzione delle società e gli aumenti di capitale, le cessioni e i conferimenti di
azienda.
Dal punto di vista tecnico la registrazione consiste nell’annotazione in apposito
44
registro dell’atto o della denunzia e, in mancanza, della richiesta di registrazione. Per
atti pubblici, scritture private autenticate e atti giudiziari, la registrazione va richiesta
all’ufficio dell’Agenzia dell’Entrate, nella cui circoscrizione ha sede il pubblico
ufficiale, negli altri casi può essere richiesta a qualunque ufficio.
Infine, con riferimento ai soggetti passivi del tributo, dobbiamo premettere che
non sempre vi è coincidenza tra soggetti obbligati a pagare l’imposta ma non a
richiedere la registrazione, e soggetti obbligati a richiede la registrazione ma non a
pagare l‘imposta. Infatti:
a) per le scritture private non autenticate, sono obbligati a richiederne la registrazione le
parti dell’atto che sono anche obbligate a pagare l’imposta; lo stesso vale anche per i
contratti verbali e per gli atti formati all’estero;
b) per gli atti pubblici e per le scritture private autenticate, l’obbligo di richiedere la
registrazione è a carico dei notai (e in generale dei pubblici ufficiali; obbligati a
richiedere la registrazione degli atti da essi redatti o ricevuti); per tali atti, i notai (e altri
pubblici ufficiali) sono tenuti al pagamento dell’imposta principale (come responsabili
d’imposta”), ma non delle imposte complementari e suppletive;
c) cancellieri e segretari di organi giurisdizionali sono obbligati a richiedere la
registrazione degli atti giudiziari, ma l’imposta i dovuta dalle parti del giudizio;
d) gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria e gli appartenenti alla Guardia di
Finanza sono obbligati a richiedere la registrazione degli atti per i quali i prevista la
registrazione d’ufficio; anche in alcuni casi, l’obbligo di pagamento dell’imposta grava
sui soggetti che hanno dato vita all’atto.
45
CAPITOLO III
3.1. LA
SCELTA DEL MODELLO OPERATIVO: DITTA INDIVIDUALE, SOCIETÀ DI
PERSONE E SOCIETÀ DI CAPITALI
3.1.1. Cenni sulla tassazione delle persone fisiche
L’imposta che colpisce i redditi delle persone fisiche è denominata IRPEF. Questa
imposta è stata istituita oltre 30 anni fa, in occasione della riforma fiscale varata nei
primi anni ’70; in particolare in origine il testo normativo di riferimento era il DPR
597/1973. Oggi invece l’imposta è disciplinata dal TUIR.
Presupposto dell’imposta, in base all’art. 1 del TUIR, è il possesso (inteso non
come materiale disponibilità ma come vera e propria titolarità giuridica) di redditi, in
denaro o in natura. Il TUIR, tuttavia, non fornisce una definizione generale di reddito,
ma individua e definisce sei categorie reddituali, la maggior parte delle quali indicano
come reddito i proventi derivanti da fonti produttive.
Il reddito complessivo è costituito dalla somma algebrica dei redditi di ciascuna
categoria, determinato in base alle regole proprie di ciascuna di esse. Le categorie
individuate dal legislatore sono:
a) redditi fondiari: si tratta dei redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel
territorio dello Stato, che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita,
nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. I redditi fondiari sono
assoggettati a tassazione sulla base delle risultanze catastali: si fa riferimento al
reddito medio ordinario ritraibile in condizioni normali da tutti i terreni e da tutti i
fabbricati che appartengono alla medesima qualità, categoria, classe;
b) redditi di capitale: sono i redditi derivanti da rapporti aventi per oggetto l’impiego
di capitale. Contrariamente a quanto avviene per altre categorie reddituali, la legge
non fornisce una definizione generale di redditi di capitale provvedendo invece a
elencarli in modo analitico. L’art. 44, tuttavia, ha introdotto anche una fattispecie
residuale ai sensi della quel rientrano nell’ambito dei redditi di capitale “gli
interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto
l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati
differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto” (art. 44 lett. h);
c) redditi di lavoro dipendente: tali sono i redditi che derivano da rapporti aventi per
oggetto la prestazione, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione
di altri (art. 49 del TUIR). In particolare, costituiscono reddito di lavoro
dipendente tutte le somme e i valori in genere percepiti nel periodo di imposta, in
relazione al rapporto di lavoro;
46
d)
redditi di lavoro autonomo: ai sensi dell’art. 53 TUIR rientrano in tale categoria i
redditi “che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e
professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva,
di attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo IV” (redditi
d’impresa) “compresa l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del
comma 3 dell’art. 5”. I redditi di lavoro autonomo derivano, quindi, da attività che
presentano tre connotati: (i) sono svolte in modo autonomo, e ciò distingue tali
redditi da quelli di lavoro dipendente; (ii) sono abituali, carattere che differenzia
tali redditi dai redditi diversi, i quali derivano da attività di lavoro autonomo svolta
in modo occasionale; (iii) sono di natura non commerciale, a differenza delle
attività che danno luogo a redditi d’impresa;
e) redditi d’impresa: sono i redditi che derivano dall’esercizio di un’attività
commerciale20;
f)
redditi diversi: rientrano in questa categoria una serie di fattispecie tra loro
eterogenee, la cui unica comune caratteristica consiste nel non poter essere
aggregate, per difetto di uno o più dei relativi presupposti specifici, ad alcun’altra
delle categorie di reddito in precedenza esaminate; sono ad esempio redditi
diversi: le plusvalenze, tra cui i cd. capital gains e i redditi derivanti da attività
non esercitate abitualmente.
Ai sensi dell’art. 3 del TUIR l’IRPEF si applica sul reddito complessivo del
contribuente, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri
deducibili indicati nell’art. 10 e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel
territorio dello Stato.
Le perdite d'impresa e di lavoro autonomo possono essere compensate solo con i
redditi della stessa natura nei periodi di imposta successivi, ma non oltre il quinto (c.d.
riporto a nuovo delle perdite); stessa regola vale per le perdite delle società di persone e
delle associazioni di cui all' art. 5 del TUIR che, tuttavia, sono imputate direttamente ai
singoli soci (proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili) (art. 8,
comma 1).
Sono esclusi dall’ammontare imponibile i redditi soggetti a tassazione separata. Si
tratta di redditi maturati in archi temporali piuttosto lunghi ma percepiti in un unico
periodo d’imposta (ad esempio le indennità percepite per cessazione di rapporto di
lavoro dipendente a meno che il contribuente non abbia optato per la tassazione in modo
ordinario). Inoltre non concorrono a formare la base imponibile IRPEF (i) i redditi
esenti, soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva; (ii) gli
assegni periodici destinati al mantenimento dei figli (iii) gli assegni familiari erogati nei
20
La disciplina del reddito d’impresa è trattato nell’ambito del Capitolo I.
47
casi consentiti dalla legge e (iv) le somme corrisposte a titolo di borsa di studio.
In un tributo a carattere personale come l'IRPEF l'attitudine individuale del
soggetto passivo ad assolvere l'imposta è determinata, oltre che dalla somma dei singoli
redditi e dall' aliquota dell'imposta, anche dal concorso di altri elementi che
contribuiscono alla personalizzazione del prelievo, riferendosi più direttamente alla
situazione personale e familiare del contribuente e, quindi, alla sua capacità
contributiva.
A tal fine, il legislatore ha previsto due distinti istituti che contribuiscono alla
valorizzazione della situazione personale del soggetto passivo: i cosiddetti oneri
deducibili dal reddito complessivo e le detrazioni di imposta: i primi possono essere
dedotti dal reddito complessivo. Le detrazioni di imposta, invece, riducono direttamente
l’imposta lorda.
Dall'applicazione dei due strumenti deriva una diversa misura del vantaggio
fiscale per il contribuente. In linea di massima, le deduzioni dal reddito complessivo
favoriscono i redditi più alti in quanto l'abbattimento dell'imponibile per una somma
pari alla spesa sostenuta si risolve in un beneficio crescente all' aumentare del reddito
per effetto della mancata applicazione dell'aliquota progressiva marginale riferita al
reddito complessivo. Le detrazioni di imposta, invece, in linea di principio arrecano un
beneficio identico per tutti, interferendo direttamente sull'imposta lorda. In
considerazione di questi diversi effetti, a partire dal 1993 molti oneri deducibili sono
stati trasformati in detrazioni di imposta.
Gli oneri deducibili sono indicati nell’art. 10 del TUIR tra cui ricordiamo gli
assegni periodi corrisposti al coniuge, i contributi previdenziali e assistenziali
obbligatori per legge, le erogazioni liberali purché effettuate ai soggetti indicati nello
stesso art. 10. Tali oneri, come detto, si scomputano dalla base imponibile secondo il
principio di cassa.
Una volta individuata la base imponibile, l’imposta lorda viene calcolata
applicando al reddito complessivo le aliquote crescenti per scaglioni di reddito. Il
reddito viene scomposto in tante parti uguali quanti sono gli scaglioni compresi nel suo
ammontare e su ciascuna parte viene applicata l’aliquota via via crescente, secondo il
sistema della progressività per scaglioni.
Aliquote IRPEF in vigore:
fino a 15.000
da 15.001 a 28.000
Da 28.001 a 55.000
Da 55.001 a 75000
Oltre 75.000
23%
3.450 + 27% sulla parte eccedente 15.000
6.960 + 38% sulla parte eccedente 28.000
17.220 + 41% sulla parte eccedente 55.000
25.420 + 43% sulla parte eccedente 75.000
48
Una volta determinata l’imposta lorda si procede al calcolo dell’imposta netta
applicando le apposite detrazioni previste e per i carichi di famiglia e per il lavoro
prestato. In particolare vi sono le detrazioni per i coniuge a carico (da 690 a 800 euro a
secondo del reddito del contribuente); detrazioni per figli a carico (800 euro e 900 euro
per figli di età inferiore a 3 anni); detrazioni per redditi di lavoro dipendente e
assimilati (ad esempio 1.840 se il reddito non supera gli 8.000 euro); oneri detraibili
(interessi passivi e i relativi oneri accessori; spese per la frequenza di corsi di scuola
secondaria o universitaria; spese sostenute per interventi di recupero edilizio)21. Una
volta determinata l’imposta netta, si detrae l’importo dei crediti d’imposta spettanti al
contribuente (ad esempio i crediti d’imposta per le imposte pagate all’estero; il credito
d’imposta per le nuove iniziative produttive; il credito d’imposta per le nuove
assunzioni; i crediti d’imposta per gli imprenditori che, nei periodi d’imposta 20002006 hanno effettuato nuovi investimenti in aree svantaggiate) e le ritenute d’acconto
effettuate a suo carico dai sostituti d’imposta.
L’imposta viene liquidata dal contribuente in sede di dichiarazione mediante il
sistema della cd. autotassazione. E’, cioè, lo stesso contribuente che provvede, nei
termini stabiliti dalla legge, a determinare l’imposta e a versarla, mediante qualsiasi
banca o ufficio postale. In particolare il contribuente, per il conteggio definitivo
dell’imposta da versare all’erario (c.d. saldo), deve sottrarre dalla somma dovuta gli
acconti d’imposta versati. Tali acconti sono dovuti per il periodo d’imposta in corso e
sono pari ad una percentuale dell’imposta relativa all’anno precedente, quale risulta
dalla dichiarazione dei redditi. L’acconto d’imposta è obbligatorio per coloro che hanno
versato l’anno precedente un’imposta superiore a 51,65 euro: esso deve essere pari al
99% della somma versata l’anno precedente e va corrisposta in due rate, a meno che la
somma da versare alla scadenza della prima rata sia inferiore a 103 euro. La prima rata è
pari al 40% dell’intero acconto e va corrisposta entro il 16 giugno; la seconda rata
(60%) va versata tra il 1° ed il 30 novembre.
3.1.2. Le persone fisiche e le attività aziendali
Come abbiamo visto la strategia d’impresa consiste nella ricerca e
nell’acquisizione degli strumenti necessari per conseguire vantaggi realmente
competitivi. Essa mira alla risoluzione di problemi critici legati alla missione aziendale,
21
La documentazione relativa agli oneri deducibili e alle detrazioni di imposta non deve essere più
allegata alla dichiarazione dei redditi, ma conservata per essere esibita in un'eventuale sede di controllo da
parte dell'Amministrazione finanziaria; ciò dipende anche dalla previsione dell'invio telematico delle
dichiarazioni che, per definizione, non consente l'inoltro di documenti cartacei.
49
mediante l’identificazione, la progettazione e l’attuazione di cambiamenti di alto profilo
in ambito strutturale ed operativo, in modo da ottenere significativi miglioramenti in
termini di crescita del reddito, efficienza del funzionamento e gestione dei mezzi
aziendali.
Tutto questo implica una visione d’insieme, associata alla capacità di comprendere
le esigenze di ogni singola azienda, scegliendo per ciascuna le migliori tattiche di
intervento.
Tutto ciò, come vedremo, vale anche per le persone fisiche che a seconda delle
diverse necessità e scopi possono decidere di strutturare la propria attività
imprenditoriale sotto forma di ditta individuale, società di persone o società di capitali.
3.1.3. La tassazione della ditta individuale
Attraverso la ditta individuale l’imprenditore persona fisica esercita in prima
persona un’attività commerciale. Dal punto di vista fiscale la persona fisica diviene
quindi titolare di un reddito d’impresa, come tale imponibile ai fini IRPEF. In questo
caso il reddito d’impresa sarà sommato a tutti gli altri redditi personali (salvo quei
redditi che, per il principio di attrazione del reddito d’impresa, entreranno a far parte
comunque di quest’ultimo), per essere assoggettato a tassazione secondo le regole di
determinazione dell’IRPEF sopra esposte.
Come già illustrato nelle prime due lezioni, il reddito d’impresa deriva ai sensi
dell’art. 55 del TUIR dall’esercizio di un’impresa commerciale. A titolo puramente
riepilogativo ricordiamo che il punto di partenza per la determinazione del reddito
d’impresa da assoggettare a tassazione è rappresentato dal risultato del conto economico
(c.d. principio di derivazione). A tale risultato (perdita o utile di esercizio) occorrerà poi
apportare le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei
criteri del TUIR.
In linea generale, il reddito d’impresa concorre a formare insieme alle altre
categorie reddituali la base imponibile del contribuente persona fisica su cui, come visto
prima, andranno applicate le aliquote IRPEF.
Tuttavia, occorre segnalare che la Finanziaria 2008 ha previsto la facoltà per le
persone fisiche e per le società di persone di assoggettare il reddito d’impresa ad
autonoma tassazione, escludendolo, quindi dalla formazione del reddito complessivo e
applicando l’aliquota unica del 27,5% (pari a quella IRPEG). In questa maniera si è
voluta assicurare l’omogeneità di trattamento ai redditi d’impresa prescindendo dalla
forma giuridica di esercizio dell’attività. Tale omogeneità di trattamento dei redditi
d’impresa allinea il nostro sistema impositivo al regime fiscale degli altri paesi, europei
e non, ed assicura la possibilità di un prelievo identico a parità di reddito della
50
medesima categoria. A ben vedere i soggetti che potranno trarre vantaggio della
tassazione separata al 27,5% sono quelli con redditi medio-alti che, in caso di mancato
opzione, a fronte di un reddito di circa 35.000 sconterebbero l’imposta con applicazione
dell’aliquota pari al 43%.
Per le persone fisiche occorre tenere presente che la disciplina del reddito
d’impresa si ottiene combinando la disciplina di base, racchiusa nelle norme relative
all’IRES, con alcune regole specifiche:
a) tra i ricavi si comprende il valore normale dei beni destinati al consumo personale
o familiare dell’imprenditore o assegnati ai soci o destinati a finalità estranee
all’esercizio dell’impresa (nel caso di beni destinati al consumo personale o
familiare, si parla di autoconsumo);
b) non vi è la possibilità di portare in deduzione le perdite d’esercizio dal proprio
reddito complessivo; tali imprese, come già avviene per i soggetti in contabilità
ordinaria, potranno dedurre le perdite unicamente dai redditi della stessa categoria
di quella che le ha generate. Le stesse perdite potranno, quindi, essere scomputate
dai redditi della stessa specie, nei successivi periodi d’imposta ma non oltre il
quinto. Si passa, in sostanza, da un regime di “compensazione orizzontale” ad un
regime di “compensazione verticale”;
c) mentre per le società sono “relativi all’impresa tutti i beni che appartengono ad
esse”, ben diversa è la situazione dell’imprenditore individuale, il quale può
essere contemporaneamente proprietario sia di beni “relativi all’impresa”, sia di
beni personali che utilizza per propri scopi personali e familiari. Per le imprese
individuali, allora, si considerano “beni relativi all’impresa”, oltre ai beni merce, a
quelli strumentali per l’esercizio dell’impresa ed ai crediti acquisiti nell’esercizio
dell’impresa stessa, anche i beni appartenenti all’imprenditore che siano indicati
tra le attività relative all’impresa nell’inventario tenuto a norma dell’art. 2217 c.c.
Gli immobili strumentali si considerano relativi all’impresa solo se indicati
nell’inventario;
d) non sono ammessi in deduzione i compensi per il lavoro prestato dallo stesso
imprenditore o dai suoi familiari (per impedire che vengano simulati rapporti di
lavoro tra familiari, allo scopo di ridurre il reddito dell’imprenditore, riducendo la
progressività dell’imposta di quest’ultimo);
e) le plusvalenze realizzate con la cessione di aziende possono essere tassate
separatamente, a norma dell’art. 17, comma 2. Il trasferimento d’azienda per causa
di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo delle plusvalenze dell’azienda:
non si ha dunque tassazione della plusvalenza. Per gli eredi l’azienda ha lo stesso
valore fiscalmente riconosciuto che aveva per il de cuius.
51
3.1.4. La tassazione delle società di persone
Nelle società di persone il coordinamento tra tassazione delle società e tassazione
dei soci viene effettuato imputando direttamente ai soci il reddito della società (criterio
della trasparenza), in proporzione alle quote di partecipazione e indipendentemente
dall’effettiva percezione. Solo l’IRAP è pagata direttamente dalla società.
Le quote di partecipazione devono essere stabilite dall’atto costitutivo o da altro
atto avente data certa anteriore all’inizio del periodo d’imposta. In mancanza di questa
determinazione le quote si presumono proporzionali all’ammontare dei conferimenti e,
se l’ammontare dei conferimenti non è determinato, si presumono uguali.
Attraverso il criterio della trasparenza viene eliminata la doppia imposizione dei
redditi societari. Inoltre la trasparenza presenta questa peculiarità: realizza la tassazione
esclusiva del socio, in un contesto, quale quello tracciato dalla riforma del 2003,
complessivamente orientato a considerare esaustiva la tassazione della società (come già
rilevato al par. 1.4.2 e ripreso sub. par. 3.1.5).
Dal punto di vista tecnico con la trasparenza i redditi dichiarati dalla società per un
determinato anno saranno imputati ai soci per lo stesso periodo d’imposta, anche se
sono reinvestiti nella società. L’eventuale successiva “effettiva percezione” di tali
redditi risulterà irrilevante ai fini fiscali, in quanto i redditi sono stati già tassati in
precedenza attraverso l’imputazione diretta ai soci.
Anche le eventuali perdite della società sono attribuite ai soci in proporzione alle
quote di partecipazione, secondo il criterio della trasparenza; tali perdite sono
compensabili con altri redditi di partecipazione dei soci, sia nell’anno di conseguimento
sia in anni successivi, attraverso il riporto delle perdite dai redditi di partecipazione.
E’ dunque evidente il beneficio rispetto ai soci delle società di capitali, il cui
reddito è tassato prima presso la società che lo produce con aliquota del 27,5% e, dopo
la distribuzione, è ulteriormente tassato sotto forma di dividendi presso il socio persona
fisica (con aliquota del 12,5% o con un abbattimento della base imponibile). Il regime
della trasparenza, dunque, è più conveniente rispetto al regime ordinario delle società di
capitali.
Occorre considerare che il regime di trasparenza può essere adottato anche dalle
piccole società a responsabilità limitata, la cui compagine sociale è composta
esclusivamente da un numero ristretto di persone fisiche.
In tal modo, da un lato, la tassazione delle piccole Srl è allineata a quella delle
società di persone (dando rilievo, dunque, non tanto alla forma giuridica, quando alla
sostanza economica di tali società); dall’altro, viene posto a disposizione dei soci delle
piccole Srl un sistema di tassazione dei loro redditi conforme al sistema di tassazione
dei dividendi.
52
Per queste società, si tratta di operare una scelta di campo fra la tassazione con
IRES, come società, e la tassazione con IRPEF a carico dei soci. Se non si opta per la
trasparenza, il reddito è tassato prima a carico della società, poi a carico del socio.
Invece, con il sistema della trasparenza viene eliminata la tassazione della società
ed i soci delle Srl, come i soci delle società di persone, vengono tassati in ragione del
reddito prodotto dalla società.
3.1.5. La tassazione delle società di capitali
Attraverso la forma societaria delle società di capitali viene attuato una netta
divisione tra la società stessa ed i singoli soci. A differenza delle società di persone, il
reddito prodotto dalle società di capitali viene tassato in capo alla società stessa. Tale
reddito concorre infatti a formare la base imponibile IRPEG e soggiace all’applicazione
dell’aliquota pari al 27,5%.
Quando una società di capitali produce un reddito, potrà decidere di distribuire un
dividendo ai soci se intende remunerare il capitale da questi investito. Quando le società
di capitali distribuiscono i dividendi, i soci percepiscono un reddito che è già stato
assoggettato ad imposizione: occorrerà, allora, coordinare la tassazione del reddito delle
società con la tassazione dei dividendi dei soci, evitando od attenuando la doppia
imposizione economica. I sistemi teoricamente adottabili sono molteplici.
L’ordinamento italiano conosce i seguenti sistemi:
a) il sistema della trasparenza, nel quale la società non è tassata e sono tassati
solamente i soci, ai quali è imputato il reddito della società (sistema caratteristico
delle società di persone, attualmente usufruibile su opzione per le società di
capitali);
b) il sistema del credito d’imposta, con cui viene “accreditata” al socio l’imposta che
colpisce i redditi della società (tale sistema vigeva in Italia prima della riforma del
2004, introdotta con il D.Lgs. 344/2003);
c) il sistema dell’esenzione (rectius esclusione) dei dividendi (che attualmente nel
nostro ordinamento rappresenta il regime “ordinario” nel caso in cui il socio sia
una società di capitali);
d) il sistema della tassazione ridotta dei redditi del socio (che attualmente in Italia è
applicato nei confronti di soci persone fisiche).
3.2. LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAINS PER
LE PERSONE FISICHE
3.2.1 Cenni sulla tassazione dei redditi di capitale
53
Come abbiamo già visto il legislatore non fornisce una definizione generale di
redditi di capitale, provvedendo invece a fare un elenco analitico all’art. 44 del TUIR.
Tuttavia, a chiusura di questa disposizione, viene introdotta anche una fattispecie
residuale, ai sensi della quale rientrerebbero nell'ambito dei redditi di capitale,
ravvisandone i criteri distintivi con un'altra categoria di reddito, quella dei redditi
diversi. Più precisamente, fra i redditi di capitale si comprendono i proventi che
derivano da un rapporto giuridico che ha ad oggetto l'impiego del capitale, mentre nei
redditi diversi di natura finanziaria sono inclusi i differenziali positivi derivanti da un
evento incerto.
In altri termini, mentre le plusvalenze (c.d. capital gains) che derivano dall'
acquisto e successiva vendita di obbligazioni o di azioni non appartengono alla
categoria dei redditi di capitale ma a quella dei redditi diversi (art. 67, lett. c e c-bis)),
trattandosi di differenziali positivi derivanti da un evento incerto, fanno parte dei redditi
di capitale gli interessi ed i proventi derivanti dai medesimi strumenti finanziari.
Ad ogni modo, l'elencazione casistica contenuta nel citato art. 44 consente di
suddividere i redditi di capitale in due gruppi:
a) quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto l'impiego del capitale, quindi
provenienti da un capitale che viene dato in godimento a terzi; in questo caso si
viene ad instaurare un rapporto di finanziamento;
b) quelli che derivano da un capitale investito o conferito, in cui lo stesso è utilizzato
in una struttura produttiva organizzata alla quale il soggetto titolare del capitale
partecipa e la cui partecipazione è rappresentata da un titolo (azione, quota o
simili): in questo caso si viene ad instaurare un rapporto di partecipazione, dal
quale derivano proventi certi magari nell'an ma non nel quantum).
Tra le fattispecie più significative indicate nell'art. 44 che appartengono al primo
gruppo (impiego del capitale) si possono segnalare:
a) gli interessi e gli altri proventi derivanti da mutui, depositi o conti correnti (lett.
a). Si tratta di una fattispecie che la dottrina riconduce alla nozione di frutto
civile, inteso secondo la definizione offerta dall' art. 820 c.c., come il corrispettivo
derivante dalla concessione in godimento di un capitale - ossia di denaro o altri
beni considerati fungibili fra le parti - a terzi;
b) gli interessi ed altri proventi delle obbligazioni e titoli similari ed altri titoli,
diversi dalle azioni e titoli similari, nonché dai certificati di massa (lett. b). Come
nell'ipotesi precedente, anche in questo caso gli interessi costituiscono il
corrispettivo del godimento di un capitale da parte di terzi; tuttavia, a differenza
della precedente fattispecie, il finanziamento è attuato attraverso la sottoscrizione
di titoli di credito (obbligazioni e titoli similari);
c) le rendite perpetue (che durano cioè oltre la morte dell' avente diritto) e le
54
d)
e)
f)
g)
h)
prestazioni annue perpetue di cui agli artt. 1861 e 1869 c.c. (lett. c). Anche in
questo caso si tratta di un'ipotesi tendenzialmente annoverabile tra quelle in cui il
reddito deriva dalla concessione in godimento a terzi di un capitale;
i compensi per prestazioni di fideiussione o altra garanzia (lett. d); in tale ipotesi
si ha un potenziale impiego del capitale, destinato a diventare attuale nel caso in
cui il debitore garantito si renda inadempiente delle proprie obbligazioni;
gli utili derivanti da associazioni in partecipazione (lett. f), salvo il caso in cui sia
conferita esclusivamente un' attività lavorativa, poiché in tal caso, come abbiamo
già avuto modo di vedere, l'utile dell' associato è assimilato ai redditi di lavoro
autonomo (art. 53, comma 2, lett. c);
gli utili derivanti da contratti di cointeressenza propria (lett. d) indicati nell'art.
2554 c.c.; tali proventi, invero, non sono riconducibili né alla nozione di frutti
civili, né a quella di trasferimento della disponibilità di un capitale a terzi, poiché
in questi casi il diritto alla partecipazione agli utili si riconnette solo all'
assunzione dell' obbligo di sopportare (parte) delle perdite dell'affare cui si
partecipa. Quindi, in tale ipotesi l'impiego del capitale è solo eventuale;
i proventi derivanti dalla gestione di masse patrimoniali, nell'interesse collettivo
di una pluralità di soggetti, costituite con somme di denaro e beni affidati da terzi
e provenienti dai relativi investimenti (lett. g). Questa ipotesi concerne le gestioni
collettive dei patrimoni mobiliari, in cui si ha separazione tra i risultati dell'attività
di gestione, tassata in capo al gestore, e redditi del mandante, cui si riferisce la
norma in commento;
i proventi derivanti da operazioni di pronti contro termine e contratti di riporto su
titoli e valute (lett. g-bis), fattispecie equiparabili ai contratti di finanziamento,
consistendo nella reciproca messa a disposizione di titoli e di denaro e, quindi, a
forme di concessione di disponibilità di capitali.
Con riguardo ai criteri di determinazione del reddito, preme ricordare che i redditi
di capitale, a differenza di altre categorie reddituali, non sono sempre tassati in via
ordinaria, come componenti del reddito complessivo soggetto ad imposta progressiva.
Con la tassazione ordinaria coesistono infatti altre forme diverse di tassazione –
sostitutive ed agevolate – per ragioni connesse al favor verso il risparmio e, soprattutto,
per evitare la fuga di capitali verso ordinamenti fiscali più favorevoli. Abbiamo così
regimi di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (come quello che si applica, ad esempio,
agli interessi dei depositi e dei conti correnti bancari ed ai dividendi derivanti da
partecipazioni non qualificate) ed altri regimi fiscali sostitutivi, che riguardano il
risparmio gestito, il risparmio amministrato, i fondi comuni di investimento, ecc. La
ritenuta alla fonte e i regimi sostitutivi comportano un carico fiscale (proporzionale)
55
che oscilla tra il 12,50% e il 27%.
La tassazione dei redditi di capitale presenta inoltre alcune peculiarità.
Innanzitutto vi è da considerare che sono irrilevanti i costi di produzione. Infatti benché
il reddito di capitale possa in teoria dar luogo a costi di produzione (si pensi ad esempio
al caso degli interessi gravanti su un soggetto che prende a mutuo una somma
prestandola a sua volta con un interesse maggiorato) quest’ultimi sono irrilevanti in
base all’art. 45 TUIR, secondo cui il reddito di capitale è determinato nella misura
risultante dai relativi titoli e senza alcuna deduzione a titolo di costo.. Chi intendesse
quindi dedurre dagli interessi attivi eventuali interessi passivi, o perdite su crediti,
dovrebbe agire nella qualità di imprenditore individuale ovvero creare una società di
persone o di capitali (in tal caso infatti opererebbero le ordinarie regole di tassazione
del reddito d’impresa).
Infine occorre ricordare che per i redditi di capitale in linea di principio (salvo
alcune eccezioni su cui infra) non vige il principio di competenza bensì quello di cassa;
infatti il reddito di capitale non diventa rilevante ai fini delle imposte dirette nel periodo
d’imposta in cui viene a maturazione, bensì in quello in cui viene percepito.
3.2.2 La tassazione dei dividendi per le persone fisiche
Tralasciando le ulteriori previsioni contenute nell'art. 44 del TUIR, che non
rivestono grande importanza, è invece necessario soffermarsi sul secondo gruppo di
redditi di capitale innanzi evidenziato, costituito dai proventi che derivano da un
capitale conferito.
A tale categoria appartengono gli utili da partecipazione al capitale o al patrimonio
di società di capitali ed enti commerciali (art. 44, comma 1, lett. e), con l'eccezione
degli utili spettanti ai promotori e fondatori di società, i quali sono inclusi nei redditi
assimilati a quelli di lavoro autonomo (art. 53, comma 2, lett. d)).
Questa ipotesi si distingue da quelle esaminate in precedenza in considerazione
della strumentalità dell'impiego del capitale ad una struttura associativa volta
all'attuazione di un programma imprenditoriale al quale il soggetto che opera il
conferimento non resta affatto estraneo.
Assume, quindi, rilievo il possesso di azioni o di altri titoli, individuati in ragione
del fatto che rappresentano una frazione del capitale o del patrimonio della società
emittente.
I redditi di partecipazione (c.d. dividendi) cui si riferisce la disposizione in
commento sono soltanto quelli relativi al capitale di società ed altri enti che siano
soggetti passivi dell'IRES, quindi società di capitali, enti commerciali, enti non
commerciali. La norma non si riferisce, invece, agli utili che provengono dalle società
56
di persone che, come si è visto in precedenza, non sono tassati come reddito della
società, ma come redditi dei singoli soci, secondo il principio di trasparenza.
Prima della riforma entrata in vigore il 1°gennaio 2004, il sistema di tassazione
dei redditi delle società di capitali coordinava la tassazione delle società con quella dei
soci, mediante il credito di imposta sui dividendi. In altri termini, la società scontava
sull'utile prodotto l'imposta (che allora si chiamava IRPEG) e poi, al momento della
distribuzione del dividendo in capo al socio, l'utile stesso scontava l'IRPEF. Ora, poiché
in tal modo si veniva a creare un'ipotesi di doppia imposizione (essendo l'utile tassato
una prima volta in capo alla società ed una seconda volta in capo al socio), il legislatore
riconosceva al socio un credito di imposta (quindi una somma da scomputare
dall'imposta dovuta), corrispondente all'imposta pagata dalla società distributrice (c.d.
principio dell'imputazione). In tal modo si evitava la doppia tassazione ed il prelievo
tributario complessivo veniva posto unicamente a carico del socio.
La recente riforma, con la quale è stata introdotta l'IRES, ha invece eliminato il
meccanismo del credito di imposta sui dividendi introducendo il c.d. principio dell'
esenzione: in altri termini, la tassazione dell'utile avviene in capo alla società e, per
evitare la doppia tassazione del dividendo, è previsto che quest'ultimo sia esente in
capo al socio.
Tale esenzione, tuttavia, non è totale e la sua misura varia in funzione delle
caratteristiche soggettive del socio percipiente. Più precisamente:
a) se è il socio è una persona fisica imprenditore l'esenzione è del 50,2822 per cento
(quindi solo il 49,72 per cento del dividendo è soggetto ad IRPEF e costituirà una
componente positiva del reddito d'impresa) (art. 59, comma 1);
b) se il socio è una persona fisica non imprenditore, l'esenzione varia in ragione della
quota di partecipazione da lui posseduta; in tal caso, infatti, occorre verificare se la
partecipazione è “qualificata” o “non qualificata”. In particolare, la partecipazione
è “qualificata” quando rappresenta una percentuale dei diritti di voto esercitabili
nell’assemblea ordinario superiore al 20 per cento, o al 2% se la società è quotata
ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 5 o al 25 per
cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre
partecipazioni (art. 67, comma 1, lett. c)). Qualora non vengano superati tali
percentuali, la partecipazione si considera “non qualificata”. Quindi, posta questa
distinzione fra partecipazioni qualificate e non qualificate, sui dividendi distribuiti
ai soci (non imprenditori) che detengono le prime è prevista un'esenzione del
50,28 per cento (art. 47) e non deve essere operata alcuna ritenuta, mentre per i
dividendi distribuiti ai soci (sempre non imprenditori) che detengono le seconde è
22
Cfr. DM 2 aprile 2008.
57
c)
prevista 1'applicazione di una ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 12,5 per
cento (art. 27 del DPR 600/1973 ). In entrambi i casi, il dividendo è qualificato
come reddito di capitale;
se il socio è una società o un ente commerciale residente, i dividendi sono esclusi
da tassazione per il 95 per cento del loro ammontare (art. 89, comma 2).
Il regime fiscale appena esaminato relativo ai proventi azionari si applica anche ai
proventi dei titoli similari alle azioni, nuovi strumenti finanziari introdotti con la riforma
del diritto societario per mezzo dei quali le società raccolgono la liquidità necessaria per
il finanziamento dell' attività sociale. Questi strumenti finanziari si differenziano dalle
tradizionali categorie di titoli di debito (obbligazioni) e di titoli di partecipazione
(azioni), permettendo di ottenere una remunerazione completamente condizionata,
nell'an e nel quantum, dai risultati economici della società emittente. I proventi da essi
derivanti non sono qualificabili come “utili” da partecipazione, in quanto non
sottendono una partecipazione al capitale o patrimonio della società emittente (nel senso
richiesto dalla letto e), comma 1, dell'art. 44); tuttavia, ai fini tributari questi titoli si
considerano similari alle azioni (art. 44, comma 2, lett. a)), e, conseguentemente, i
proventi da essi derivanti sono considerati utili e assoggettati allo stesso trattamento
fiscale dei dividendi sopra illustrato.
3.2.3 La tassazione degli interessi per le persone fisiche
Per le persone fisiche non imprenditori gli interessi e gli altri proventi derivanti da
mutui, depositi e conti correnti, interessi e altri proventi delle obbligazioni e titoli
similari, costituiscono redditi di capitale.
La tassazione di tali componenti di reddito è generalmente attuata tramite ritenute
alla fonte a titolo d’imposta e altri regimi sostitutivi, che comportano un carico fiscale
che oscilla tra il 12,5% e il 27%. Per gli imprenditori individuali la ritenuta è effettuata a
titolo di acconto e il provento finanziario è attratto al reddito d’impresa e viene a
costituire un componente positivo di reddito di quest’ultimo.
In tema di interessi il TUIR prevede due presunzioni legali, l’una riguardante gli
interessi derivanti da mutui in generale, l’altra gli interessi derivanti da finanziamenti
dei soci alle società:
a) gli interessi si presumono percepiti alla scadenza ed alla misura pattuite. Se le
scadenze non sono pattuite, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare
maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto, gli
interessi si computano al saggio legale;
b) l’altra presunzione riguarda le somme versate dai soci alle società ed enti
58
commerciali soggetti ad IRES. La qualificazione giuridica del rapporto può non
essere chiara: tra socio e società può esservi un rapporto di mutuo, con diritto
quindi del socio a percepire gli interessi e a vedersi restituire il capitale. Ma la
prassi conosce anche altri tipi di rapporto: ci si riferisce in particolare ai
versamenti in conto capitale o a fondo perduto, a seguito dei quali il socio non ha
diritto ad alcune remunerazione, né ha diritto alla restituzione del capitale ad una
scadenza predeterminata. Per la società tali versamenti non sono sopravvenienze
attive, ma conferimenti. Ora, nel primo caso il socio si pone nei confronti della
società come qualsiasi altro soggetto che abbia dato in prestito delle somme di
denaro; nel secondo caso, il versamento del socio dà vita ad un rapporto
sostanzialmente, anche se non formalmente, simile a quello dei conferimenti; si
parla, in tal caso, di versamento a fondo perduto, di versamento in conto capitale,
di conferimento atipico. Ciò che decide, ai fini fiscali, la natura del rapporto, è il
bilancio (in questo risiede la presunzione): le somme si presumono date a mutuo
se dal bilancio non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo (art. 46 del
TUIR).
3.2.4 Le plusvalenze dei titoli azionari e obbligazionari (capital gains)
Come si è già rilevato esaminando i redditi di capitale, le “rendite finanziarie”
possono essere qualificate come redditi di capitale o come redditi diversi (ovviamente di
natura finanziaria). I primi sono quelli che derivano dall’impiego del capitale (interessi
bancari, interessi sui buoni postali, interessi sui certificati di deposito, interessi sui titoli
di Stato, dividendi azionari), mentre i secondi sono quelli che contribuente realizza
attraverso le negoziazione.
Le plusvalenze realizzate con la cessione di azioni o di altre partecipazioni sociali,
e con la cessione di titoli obbligazionari o di altre attività finanziarie, per le persone
fisiche non imprenditori costituiscono infatti redditi diversi. Queste plusvalenze, come
anticipato, sono anche indicate come guadagni di capitale (capital gains). La
plusvalenza è pari alla differenza tra il corrispettivo pattuito (ovvero la somma o il
valore normale dei beni rimborsati se si tratta di titoli partecipativi o crediti) e il costo o
il valore di acquisto aumentato degli oneri inerenti.
La tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni o di
partecipazioni sociali si differenzia a seconda della percentuale di diritti di voto o della
quota di capitale posseduta (come avviene per i dividendi):
a) se la partecipazione è qualificata (ossia rappresenta una percentuale di diritto di
voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 20%, o 2% se la società è
quotata, ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio che è superiore al
59
25%, o 5% se la società è quotata), la base imponibile è costituita dal 49,72% della
plusvalenza; a tale base imponibile si applicano le aliquote ordinarie dell’imposta
sul reddito delle persone fisiche. Le plusvalenze in questione sono calcolate per
differenza tra il corrispettivo percepito e il costo di acquisto delle partecipazioni
medesime. Se sono state realizzate minusvalenze, le plusvalenze per il 49,72% del
loro ammontare, sono sommate algebricamente alla corrispondente quota delle
relative minusvalenze; se le minusvalenze sono superiori alle plusvalenze
l’eccedenza è riportata in deduzione, fino a concorrenza del 49,72%
dell’ammontare delle plusvalenze dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il
quarto, a condizione che sia indicata nella dichiarazione relativa al periodo
d’imposta nel quale le minusvalenze sono state realizzate (art. 68, comma 3,
TUIR);
b) se la partecipazione non è qualificata, le plusvalenze sono soggette ad imposta
sostitutiva del 12,5%. Il differenziale da sottoporre ad imposta sostitutiva è
determinato confrontando il corrispettivo percepito ed il costo (o valore di
acquisto), aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione (ad esempio, le
provvigioni dell’intermediario, i bolli, le spese notarili).
Il regime ordinario di tassazione dei proventi finanziari in esame è quello della
dichiarazione: il contribuente deve cioè indicare nella dichiarazione annuale dei redditi
le plusvalenze e le minusvalenze conseguite nel periodo d’imposta, versando le imposte
sostitutive nei termini e con le modalità previste per i versamenti delle imposte sui
redditi dovute a saldo. Limitatamente alle plusvalenze diverse da quelle derivanti dalla
cessione di partecipazioni qualificate è previsto un regime semplificato di riscossione
dell’imposta sostitutiva, denominato regime del risparmio amministrato, subordinato
all’esercizio di un’esplicita opzione da parte del contribuente e all’esistenza di un
intermediario abilitato che provvede ad effettuare il prelievo fiscale e il versamento
dovuto in relazione a ciascuna operazione posta in essere.
E’, infine, previsto un terzo regime, anch’esso opzionale e non applicabile alle
plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate, denominato del
risparmio gestito. L’opzione per questo regime, che comporta la tassazione non delle
singole operazioni produttive di plusvalore, ma del risultato complessivo della gestione
maturato nel periodo d’imposta può essere esercitata solamente nell’ambito delle
gestioni individuali di patrimoni (non relativi all’impresa).
Per gli imprenditori individuali i capital gains non costituiscono redditi diversi ed,
nel rispetto del principio dell’inerenza, entrano a far parte del reddito d’impresa come
componenti positivi di reddito. Le plusvalenze si distinguono in plusvalenze che godono
del regime di participation exemption e plusvalenze tassabili. Gli imprenditori
individuali in possesso di partecipazioni che godono del regime di participation
60
exemption godono di una esenzione limitata al 50,28% del loro ammontare.
Correlativamente le minusvalenze sono deducibili per il 49,72%.
61
CAPITOLO IV
4.1.
LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAIN PER
LE PERSONE GIURIDICHE
4.1.1. La tassazione dei dividendi per le persone giuridiche
Come già visto in materia di tassazione dei dividendi per le persone fisiche, i
dividendi sono suscettibili di essere tassati due volte: una prima volta in capo alla
società all’atto della produzione ed una seconda volta in capo al socio al momento della
distribuzione.
Abbiamo altresì visto che prima della riforma del 2003 questa doppia imposizione
era eliminata attraverso il meccanismo del credito d’imposta (cd. imputation system).
Tale sistema considerava il socio e non la società l’effettivo possessore dell’utile
societario e conduceva a determinare il prelievo definitivo in relazione alla situazione
soggettiva del primo e non a quella della seconda, mediante l’attribuzione al socio
stesso di un credito fiscale relativo all’imposta “anticipata” dalla società all’atto della
produzione dell’utile.
In vigenza di tale metodo, quindi, si era creata l’opportunità di posizionare le
società con perdite in testa al gruppo. In questo modo le tasse pagate dalla partecipata
potevano essere rimborsate ai soci. Si trattava di un sistema complesso, che non
garantiva la determinazione del tax rate in capo alla società operativa.
Nel sistema introdotto con la riforma ha assunto invece rilevanza, ai fini della
tassazione, il soggetto che ha prodotto gli utili: una volta tassato il reddito in capo alla
società all’atto della produzione, con la successiva distribuzione del dividendo si attiva
la fase di tassazione dell’utile in capo al socio. È evidente, peraltro, che, una volta
operata questa scelta, il legislatore delegato si è dovuto necessariamente far carico del
problema della doppia imposizione economica, dal momento che tanto i dividendi
percepiti dal socio, quanto le plusvalenze dallo stesso realizzate per effetto della
cessione delle partecipazioni detenute, costituiscono, di fatto, flussi di “ricchezza”
geneticamente collegati ad una fonte di produzione (la partecipazione) dalla quale si è
già generato un reddito pienamente tassato in capo al soggetto che lo ha prodotto. A
fronte della soluzione, teoricamente ottimale, di rendere del tutto esenti il dividendo
distribuito al socio e la plusvalenza dallo stesso realizzata, il legislatore ha ritenuto al
momento sufficiente optare (con alcune eccezioni) per un sistema di esenzione parziale,
finalizzato a contenere fortemente, ma non ad eliminare, gli effetti di doppia
62
imposizione.
Il regime di esenzione parziale varia a secondo del tipo di soggetto. Abbiamo
visto infatti come opera l’esenzione quando il soggetto percettore è un soggetto IRPEF
(con le differenze che vi sono a seconda che lo stesso eserciti o meno un’attività
d’impresa) ed adesso vedremo la particolare disciplina che il TUIR ha previsto quando
il soggetto percettore è invece un soggetto IRES. In particolare, se il soggetto percettore
è una società di capitali o un ente commerciale (o un ente non commerciale) vi è una
tassazione limitata al 5% dell’ammontare del dividendo, senza alcuna distinzione tra
partecipazioni qualificate e non qualificate. In caso di opzione per il “regime di
trasparenza” o per il “consolidato fiscale” , la tassazione viene meno. Recentemente,
tuttavia, la Finanziaria 2008 ha previsto che i dividendi distribuiti infra-gruppo scontino
una tassazione pari al 5% del loro ammontare anche in presenza di un consolidato
fiscale.
Se non hanno già concorso a formare il reddito dei soci “per trasparenza”, sulla base del
nuovo regime fiscale introdotto dall’articolo 167 per le controllate estere residenti in
paesi a fiscalità privilegiata, anche i dividendi percepiti dai soggetti IRES e provenienti
da società ed enti non residenti concorrono nei limiti del 5% a formare il reddito
imponibile.
Con riguardo al tax planning si rileva che è diventato impossibile per una società
in perdita ottenere il rimborso delle tasse pagate dalle controllate, inoltre il tax rate di
gruppo sconterà una maggiorazione dell’1,375% sui dividendi incassati (5%*27,5%).
I dividendi corrisposti da società residenti a soggetti non residenti (detti dividendi
“in uscita” o “outbound”) scontano una ritenuta a titola d’imposta con aliquota del
27%. L’aliquota della ritenuta è ridotta al 12,50% per gli utili pagati ad azionisti di
risparmio. I soggetti non residenti, diversi dagli azionisti di risparmio, hanno diritto al
rimborso, fino a concorrenza dei quattro noni della ritenuta, dell’imposta che
dimostrino di aver pagato all’estero in via definitiva sugli stessi utili mediante
certificazione del competente ufficio fiscale dello stato estero (art. 27 DPR 600/1973).
La finanziaria 2008 ha previsto tuttavia che i dividendi corrisposti da società
residenti a soggetti non residenti domiciliati nell’Unione Europea o in paesi aderenti
allo spazio economico europeo (che saranno individuati da una apposita white list)
saranno assoggettati ad una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta dell’1,375%
(equiparazione con i residenti).
Diverso è il regime dei dividendi infrasocietari se trova applicazione la c.d.
Direttiva madre-figlia (Direttiva 435/90/CEE) come recepita nell’ordinamento italiano.
Tale Direttiva, infatti, impedisce la tassazione dei dividendi distribuiti da società madri
a società figlie all’interno della Comunità europea, vietando l’applicazione di ritenute,
sia da parte dello Stato della figlia sia da parte dello Stato della madre.
63
La Direttiva madre-figlia è stata recepita in Italia con l’art. 27-bis DPR 600/1973
secondo cui, ricorrendo le condizioni che permettono l’applicazione di questo regime,
la società madre non residente può chiedere la non applicazione della ritenuta del 27%
o chiederne il rimborso. Il regime, previsto dalla Direttiva madre-figlia, essendo diretto
ad incrementare la formazione dei gruppi transfrontalieri, non si applica a tutti i
dividendi, ma solo alle società che detengono una partecipazione diretta non inferiore al
20% del capitale della società-figlia.
Inoltre tali società devono presentare i seguenti requisiti:
a) rivestire una delle forme giuridiche previste nell’apposito allegato alla citata
Direttiva madre-figlia (società per azioni, società in accomandita semplice, srl,
società cooperative);
b) risiedere, ai fini fiscali, in uno Stato membro dell’Unione europea;
c) essere soggette nello Stato di residenza ad una delle imposte indicate nel
medesimo allegato alla predetta direttiva, senza possibilità di fruire di regimi di
opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati;
d) detenere la partecipazione ininterrottamente per almeno un anno.
E’ inoltre necessario che le società madri residenti nell’UE non siano controllate
da società non residenti nella Comunità; possono tuttavia ottenere l’applicazione del
regime madre-figlia se, mediante procedura di interpello, dimostrino che non siano state
costituite allo scopo, esclusivo o principale, di beneficiare del regime in esame.
La non applicazione o il rimborso della ritenuta sugli utili evita la c.d. doppia
tassazione giuridica internazionale (cioè la doppia tassazione di un medesimo soggetto,
da parte di due Stati diversi). Non evitata tuttavia la doppia tassazione economica (che
si ha quando due norme colpiscono, per un medesimo fatto economico, soggetti diversi)
e cioè la somma della tassazione degli utili della società figlia (da parte dello Stato della
fonte) e della tassazione dei dividendi, nello Stato di residenza del socio.
4.1.2. La tassazione degli interessi per le persone giuridiche
La tassazione degli interessi per le persone giuridiche presenta caratteristiche
diversa a seconda che gli interessi in esame siano o meno interessi di mora.
In particolare, gli interessi attivi diversi da quelli di mora concorrono a formare il
reddito d’impresa per l’importo maturato nell’esercizio, secondo il criterio di
competenza (art. 110, comma 1, lett. e), TUIR).
Sono tassati per competenza in particolare:
a) gli interessi derivanti da mutui, depositi e conti correnti (anche bancari e postali) e
da ogni altro rapporto contrattuale produttivo di interessi;
64
b)
gli interessi derivanti dalle obbligazioni e dagli strumenti finanziari diversi dalle
azioni e dagli strumenti finanziari similari alle azioni;
c) gli interessi compensativi e per dilazione di pagamento, compresi gli interessi per
ritardati rimborsi d’imposta.
Qualora la misura del tasso di interesse non è determinata per iscritto, si
presumono maturati al tasso legale.
Le somme versate alle società commerciali, alle associazioni, ai consorzi e agli
altri soggetti IRES, dai loro soci o partecipanti, si considerano date a mutuo e quindi
produttive di interessi, se dai bilanci o rendiconti di tali soggetti non risulta che il
versamento sia stato fatto ad altro titolo.
Per i rapporti di conto corrente e le operazioni bancarie regolate in conto corrente
(compresi i conti correnti reciproci per servizi resi intrattenuti tra aziende e istituti di
credito) si devono considerare componenti positivi di reddito anche gli interessi
compensati a norma di legge o di contratto. Gli interessi compensati, quindi,
concorrono alla determinazione del reddito per il loro intero importo e non solo per
l’importo corrispondente all’eventuale saldo (differenza tra interessi attivi e passivi).
Gli interessi di mora, compresi quelli che si producono automaticamente in caso
di ritardato adempimento di obblighi di pagamento concorrono a formare il reddito
nell’esercizio in cui sono incassati (art. 109, comma 7, TUIR) (principio di cassa). Tale
criterio di imputazione per cassa degli interessi (così come la disposizione speculare per
cui gli interessi di mora sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti)
introdotta dal D.Lgs. 344/2003 si applica, con effetto retroattivo, a decorrere dal
periodo d’imposta in corso all’8.8.2002, benché siano stati fatti salvi tutti i
comportamenti conformi alla previgente disposizione (art. 109, comma 7, TUIR).
Nell’ambito della tassazione degli interessi per le persone giuridiche merita un
particolare cenno la disciplina delle operazioni pronti contro termine (cui sono
assimilate le operazioni di prestito titoli) dove il compratore a pronti, che ha l’obbligo
di rivendere a termine i titoli (qualora sia prevista una mera facoltà di rivendita, non si
applica la regola in argomento, realizzandosi una ordinaria cessione di titoli), è
considerato un soggetto che compie un’operazione di finanziamento. Pertanto, in
bilancio i titoli permangono nell’attivo della società che li cede a pronti e li riacquista a
termine, mantenendo ai fini fiscali, il costo e la categoria di appartenenza che avevano
prima dell’operazione.
Gli interessi derivanti dai titoli acquisiti mediante contratti di pronti contro
termine concorrono a formare il reddito del cessionario per l’ammontare maturato nel
periodo di durata del contratto: lo scarto, cioè la differenza positiva o negativa tra il
prezzo a pronti e quello a termine, concorre a formare il reddito del compratore a pronti
per la quota maturata nell’esercizio, al netto degli interessi maturati sulle attività
65
oggetto dell’operazione per il periodo di durata del contratto. In particolare, lo scarto
positivo costituisce un onere finanziario che si aggiunge agli interessi prodotti dai titoli
stessi (art. 89, comma 6, TUIR).
4.1.3. La tassazione del capital gain per le persone giuridiche.
Come abbiamo già visto i regimi di tassazione delle plusvalenze realizzate su
partecipazioni in società variano in funzione del soggetto percettore, in particolare:
a) la plusvalenza realizzata, nell’esercizio di imprese commerciali, dai soggetti
passivi IRPEF (i capital gains, in questo caso, entrano a far parte del reddito
d’impresa);
b) la plusvalenza realizzata, al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali, dai
soggetti passivi IRPEF (i capital gains, in questo caso, costituiscono redditi
diversi);
c) infine, la plusvalenza realizzata da società ed enti soggetti all’IRES (i capital
gains, in questo caso), entrano a far parte del reddito d’impresa.
Pertanto i capital gains realizzati da soggetti IRES concorrono a formare il
reddito d’impresa degli stessi.
Nello specifico, le plusvalenze sulle partecipazioni classificate nelle
“immobilizzazioni finanziarie”, nel primo bilancio chiuso durante il periodo di
possesso, sono soggette ai seguenti regimi fiscali:
a) regime della participation exemption (art. 87 TUIR);
b) regime della tassazione sull’intera plusvalenza, in assenza dei requisiti richiesti
dalla participation exemption (art. 86 del TUIR).
Le disposizioni contenute nell’art. 87 TUIR, disciplinanti il regime c.d. di
participation exemption prevedono l’esenzione al 95 % (originariamente era totale, poi
è stata ridotta al 91%, poi all’84% e infine la Finanziaria 2008 ha rialzato la percentuale
di esenzione al 95%) delle plusvalenze da realizzo di partecipazioni in società, con o
senza personalità giuridica, sia residenti che non residenti, al verificarsi delle seguenti
condizioni:
a) ininterrotto possesso dal primo giorno del dodicesimo mese (originariamente era
il diciottesimo) precedente quello dell’avvenuta cessione. Se le partecipazioni
sono state acquistate in date diverse si considerano cedute per prime le quote
acquistate per ultime (criterio LIFO utilizzato per tutte le plusvalenze da
partecipazione);
b) classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo
bilancio chiuso durante il periodo di possesso. L’assunzione del dato emergente
66
dal primo bilancio riflette l’esigenza di impedire riclassificazioni a ridosso della
cessione meramente strumentali all’ingresso (nel caso di plusvalenze latenti) o
all’uscita (nel caso di minusvalenze latenti);
c) residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da
quelli a regime fiscale privilegiato. Per evitare manovre sulla residenza in
prossimità della cessione questa condizione deve ricorrere al momento del
realizzo ininterrottamente dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al
realizzo stesso o, se successiva, dalla costituzione della partecipata;
d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale.
L’apposizione della condizione in esame va interpretata in chiave antielusiva,
quale disincentivo alla costituzione di società-contenitore, da utilizzare per
trasferire singoli cespiti (in particolare immobili) plusvalenti sfruttando
l’esenzione prevista per le plusvalenze relative alle partecipazioni. Senza
possibilità di prova contraria si presume che il requisito considerato non sussista
relativamente alle partecipazioni in società il cui patrimonio è prevalentemente
costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione e al cui
scambio è diretta l’attività d’impresa (e cioè dagli immobili costituenti beni
merce) e dagli impianti e fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio
dell’impresa.
Parallelamente all’esenzione (95%) sulle plusvalenze, l’art. 101, comma 1, TUIR
prevede:
a) l’indeducibilità delle “minusvalenze iscritte” (o “minusvalenze da valutazione”)
relative alle partecipazioni classificate nella categoria delle immobilizzazioni
finanziarie: tale indeducibilità opera con riferimento a tutte le partecipazioni,
siano esse qualificate o meno per l’esenzione;
b) la corrispondente indeducibilità delle “minusvalenze realizzate” a seguito della
cessione di partecipazioni che si qualificano per l’esenzione, in modo simmetrico
all’esenzione prevista per le corrispondenti plusvalenze. Tuttavia c’è una
differenza: se l’esenzione non è più totale come all’esordio della riforma e
all’introduzione della pex, l’indeducibilità è rimasta totale.
In assenza dei requisiti richiesti dalla participation exemption, la plusvalenza sulle
partecipazioni deve essere interamente tassata secondo l’art. 86, comma 4, TUIR, il
quale dispone che le plusvalenze concorrono a formare il reddito, per l’intero
ammontare, nell’esercizio in cui sono state realizzate, ovvero, per le partecipazioni
iscritte negli ultimi tre bilanci tra le “immobilizzazioni finanziarie”, a scelta del
contribuente, in quote costanti nell'esercizio del realizzo e nei successivi, ma non oltre
il quarto.
67
Per quanto riguarda invece le partecipazioni iscritte in bilancio nell’attivo circolante
l’art. 85, comma 1, lettere c) e d), TUIR qualifica “ricavi” i seguenti corrispettivi:
a) i corrispettivi delle cessioni di azioni o quote di partecipazioni, anche non
rappresentate da titoli al capitale di società ed enti di cui all’art. 73, che non
costituiscono immobilizzazioni finanziarie, diverse da quelle cui si applica
l’esenzione di cui all’art. 87, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è
diretta l’attività dell’impresa;
b) i corrispettivi delle cessioni di strumenti finanziari assimilati alle azioni, ai sensi
dell’art. 44, emessi da società ed enti di cui all’art. 73, che non costituiscono
immobilizzazioni finanziarie, diversi da quelli cui si applica l’esenzione di cui
all’art. 87, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività
dell’impresa;
c) i corrispettivi delle cessioni di obbligazioni e altri titoli in serie o di massa (diversi
da azioni e strumenti assimilati) che non costituiscono immobilizzazioni
finanziarie (art. 85, comma 1, lett. e).
La loro compravendita determina “proventi” ed “oneri” (o impropriamente
“plusvalenze” e “minusvalenze”) che concorrono a formare il reddito imponibile
nell'esercizio del loro realizzo.
68
CAPITOLO V
5.1.
COME FINANZIARE LE ATTIVITA’ AZIENDALI
5.1.1. Modalità di finanziamento delle attività aziendali
Diverse sono le modalità attraverso cui l’impresa può essere finanziata al fine di
essere messa nelle condizioni ottimali per poter svolgere la propria attività aziendale.
Tuttavia, le principali modalità di finanziamento possono ricondursi a due categorie:
a) apporto di capitale proprio (equity);
b) finanziamento sotto forma di prestiti (debt).
Prima di analizzare in concreto i due tipi di finanziamento, occorre premettere che
la manovra debt/equity va effettuata ogniqualvolta occorra ragionare in merito alla
copertura del capitale investito e questo avviene:
a) con cadenza periodica in sede di budget iniziale o di sua revisione o di piano
triennale;
b) ad hoc in caso di processi di start up, di ristrutturazione aziendale e/o di
operazioni di finanza straordinaria.
In realtà la manovra del debt è molto più continuativa, giacché in tesoreria
l’ottimizzazione dei saldi finanziari deve essere giornaliera. Cosa per contro che a
livello di equity non avviene.
La scelta tra le due forme di finanziamento deriva da decisioni che vengono prese
dai soci e dal management sulla base di precise motivazioni imprenditoriali. Sul piano
sostanziale, e soprattutto nelle realtà di piccola e media dimensione, la decisione del
tipo di finanziamento risente di una discrezionalità che può variare in funzione della
capacità patrimoniale dei soci o della capacità di credito propria dell’impresa. In tali
circostanze la scelta di indebitarsi o di optare per il capitale di rischio deriva,
prevalentemente, da decisioni di natura economico-finanziaria.
Molto spesso sul mercato gli azionisti propendono per aziende che si finanziano
soprattutto con operazioni di equity e ciò per le seguenti ragioni:
a) i singoli azionisti spesso non hanno la possibilità di accedere alle forme di
finanziamento di cui può godere l’azienda, per cui in tal caso potrebbero essere
disposti a pagare un premio per quelle aziende che hanno una capacità di
indebitamento migliore della propria;
b) per i singoli azionisti l’indebitamento in proprio può risultare più rischioso, in
quanto non limitato all’entità dell’investimento. Nel momento in cui l’azionista
69
investe in un’azienda indebitata il suo rischio è limitato al corrispettivo versato per
acquistare le azioni, viceversa se si indebita in proprio può rispondere in via
illimitata del suo debito.
Chiaramente, se l’azionista è invece dotato di adeguate disponibilità liquide e/o di
più ingenti capacità di credito (in genere nei gruppi di più grandi dimensioni), la scelta
tra capitale di prestito e capitale di rischio diventa più flessibile e può assumere una
rilevanza che va al di là dei vincoli finanziari o degli interessi economici delle singole
entità che costituiscono il gruppo.
Ciò detto la manovra dell’equity si articola su un orizzonte di medio/lungo periodo
ed è finalizzata ad ottimizzare il costo medio ponderato prospettico del capitale.
L’equity può essere manovrato attraverso due categorie di operazioni:
a) aumento di capitale;
b) autofinanziamento, ossia il rinvestimento degli utili all’interno dell’azienda.
La manovra dell’equity attraverso le operazioni sul capitale avviene attraverso la
sottoscrizione di aumenti di capitale sociale o il versamento da parte dei soci stessi di
finanziamenti con vincoli di destinazione. La sottoscrizione dell’aumento di capitale
sociale può avvenire da parte dei soci già esistenti o da parte di nuovi soci, allargando la
compagine sociale.
Il ricorso a una forma di ricapitalizzazione, piuttosto che all’altra, dipende anche
dalla situazione particolare in cui si trova l’impresa e dalle sue caratteristiche
patrimoniali. In particolare, un’impresa in perdita che vede il suo capitale sociale
scendere sotto al terzo, si trova in una situazione tale da dover ricorrere ad un aumento
di capitale per ripianare le perdite e ripristinare il capitale sociale iniziale.
Analogamente un’impresa che decide di attivare alleanze strategiche con nuovi partner
per lo sviluppo di nuovi business, potrebbe finanziare i propri progetti di investimento
attraverso aumenti di capitale dedicati che permettano il progressivo ingresso di nuovi
soci e consentano al tempo stesso di non minacciare l’equilibrio finanziario
dell’impresa.
Quando si pensa all’equity viene subito in mente il tema relativo al costo di tale
forma di finanziamento, ma tale approccio è senz’altro miope in quanto i costi del
ricorso a tale fonte possono essere largamente superati dal benefici. Parlando di oneri,
evidentemente tale operazione comporta costi vivi non indifferenti: le fees degli
sponsors, le fees di un’eventuale advisor, le fees degli studi legali, il processo di
comunicazione (prospetto informativo, campagna di comunicazione); l’assunzione di
nuovi profili professionali, per esempio l’investor relator.
Si tratta di costi che possono ben superare il 5% dell’emissione azionaria, senza
considerare il carico di lavoro addizionale sulle strutture aziendali, con conseguente
temporanea defocalizzazione delle attività considerate ordinarie. Ma, a ben vedere, non
70
si tratta di un costo bensì di un investimento, che offre preziosi ritorni, quali: (i) un
momento di confronto e approfondimento delle proprie strategie e (ii) lo sviluppo di una
maggiore capacità di controllo sui processi e sui risultati.
La manovra dell’equity attraverso l’autofinanziamento, invece, si ha quando gli
utili della società non vengono distribuiti tra i soci ma reinvestiti nell’attività
dell’azienda. L’autofinanziamento equivale a una ricapitalizzazione dell’azienda e
quindi corrisponde a tutti gli effetti ad una immissione di capitale di rischio da parte dei
vecchi azionisti. Empiricamente le aziende preferiscono far ricorso in prima battuta
all’autofinanziamento, per poi, se necessario, accedere al debito ed, in ultima istanza,
all’immissione di nuovo capitale di rischio da parte degli azionisti. Le ragioni a favore
dell’autofinanziamento possono essere varie. Sicuramente influisce il fatto che, se
l’azionista non solleva eccezioni, è una forma di raccolta abbastanza immediata che non
richiede lo sforzo di vendere l’azienda ai mercati finanziari per ottenere in cambio
denaro sotto forma di debt o equity. Inoltre la preferenza può dipendere anche dalle
asimmetrie negli obiettivi del managment rispetto agli azionisti; i primi privilegerebbero
il fatto di poter disporre di riserve liquide per, ad esempio, realizzare un grado di
autonomia decisionale degli investimenti che reputano necessari. Può dipendere anche
da un fatto culturale: l’azionista non percepisce che la struttura finanziaria debba essere
ottimizzata, fintantoché la sua azienda è in grado di autofinanziarsi. Quale che sia la
ragione, il risultato è che spesso si fa ricorso al debito e all’immissione di nuovo
capitale di rischio sole se costretti avendo esaurito l’autofinanziamento.
Al di là delle modalità con cui viene realizzato il finanziamento sotto forma di
equity, si deve rilevare che questo tipo di finanziamento presenta molti vantaggi: (i)
stabilità pressoché assoluta, poiché tendenzialmente rimane per una durata illimitata
nell’impresa; (ii) assenza di necessità di rimborso; (iii) assenza di obblighi formali di
remunerazione minima; (iv) gli apporti mediante capitale proprio sono una forma di
finanziamento relativamente semplice da ottenere che non presenta richiesta di garanzie
particolari o procedure complesse per l’erogazione, cosa che invece talvolta accade per
il finanziamento mediante capitale di debito.
Fin qui abbiamo parlato della manovra dell’equity.
La manovra del debt si ha quando l’azienda ricorre a prestiti esterni per finanziare
le proprie attività. Nella prassi è diffuso parlare di debt perché di norma le aziende
acquistano risorse finanziarie dall’esterno tendenzialmente per finanziarie la loro
crescita e una volta raggiunta tale crescita, tali aziende dovrebbero invece generare
liquidità; se questo non avviene vuol dire che sicuramente esiste uno squilibrio nella
gestione del capitale circolante netto, non potendo essere gli investimenti responsabili
del continuo fabbisogno finanziario, poiché in quest’ultimo caso avremmo investimenti
che in media non garantiscono un ritorno positivo.
71
Le forme di finanziamento cosiddette esterne, correlate al capitale di debito,
possono riguardare sia finanziamenti di breve periodo, sia di medio-lungo periodo. Le
prime riguardano la copertura di fabbisogni di liquidità temporanei, anche inattesi o
collegati alla gestione del capitale circolante netto, che esprime tipicamente esigenze
finanziarie di breve termine. Sono normalmente riferite alla copertura del ciclo
produttivo dell’impresa e degli eventuali squilibri temporanei causati dalla non perfetta
correlazione temporale tra incassi e pagamenti. Queste forme tecniche fanno riferimento
per lo più agli scoperti di conto corrente, al denaro corrente, alle anticipazioni su fattura,
al credito di fornitura, o ad altre forme simili che consentono all’azienda di disporre di
affidamenti sui quali paga oneri finanziari in relazione all’entità e al tempo di utilizzo.
Le seconde riguardano, invece, la copertura di fabbisogni finanziari di lungo periodo,
correlati tipicamente agli investimenti in beni durevoli pianificati dall’impresa. Queste
forme di finanziamento riguardano principalmente i mutui bancari, eventualmente
assistiti da varie forme di garanzia, tra cui i mutui ipotecari, i prestiti obbligazionari o
altre tipologie di finanziamento indiretto, come il leasing finanziario.
Il capitale di credito, quale forma di finanziamento, presenta diversi oneri: (i) è
una fonte di finanziamento che deve essere rimborsata secondo obblighi ben precisi, che
dipendono dal tipo di forma tecnica e dagli accordi contrattuali; (ii) deve essere
remunerata in base ad un tasso di interesse contrattuale che potrà essere fisso o
variabile, a seconda che si scelga di agganciare l’andamento del costo delle risorse
utilizzate agli indicatori di mercato.
Sulla base di una prima analisi è evidente che, in linea generale, risulti più
conveniente per l’impresa ricorrere all’aumento di capitale proprio o
all’autofinanziamento piuttosto che contrarre finanziamenti esterni. Quest’ultimi, come
visto, presentano infatti notevoli oneri. Tuttavia adesso vedremo come le valutazioni
siano diverse quando entra in gioco la c.d. variabile fiscale.
5.1.2. La variabile fiscale nella scelta debt/equity
La relazione tra le variabili fiscali e le scelte di finanziamento sono probabilmente
quelle più critiche ed alle quali deve essere prestata maggiore attenzione. La struttura
della tassazione del reddito d’impresa prevede, infatti, in linea generale (e con alcune
limitazioni che vedremo), la deducibilità della remunerazione del capitale di credito, ma
non del capitale proprio, con la conseguente creazione di un “vantaggio fiscale” per il
debito. In altri termini la scelta tra debito e capitale di rischio viene influenzata da
considerazioni che tengono conto del risparmio d’imposta ottenibile grazie al diverso
regime tributario cui sono soggetti i dividendi rispetto agli interessi. Nel caso in cui si
72
effettua un apporto di capitale di rischio, la remunerazione delle partecipazioni al
capitale, ossia il dividendo distribuito dalla società al socio, non è deducibile dal reddito
imponibile della società che lo eroga. Al contrario, nel caso di finanziamento tramite
costituzione di un prestito, gli interessi passivi che ne derivano rappresentano un costo
da imputare in bilancio.
Nel sistema italiano la complessità della normativa ha creato dei veri e propri
ordinamenti di convenienza fiscale delle fonti di finanziamento che, unite ad elementi
specifici di governance (la tradizionale avversione all’allargamento della compagine
azionaria), hanno reso la propensione per la scelta dell’indebitamento rispetto
all’apporto di capitale proprio alla base delle scelte finanziarie delle imprese di
dimensioni medio piccole. L’autofinanziamento è sempre stata infatti la fonte
privilegiata, proprio per le caratteristiche di “autonomia” che lo contrappongono al
rapporto creditizio o all’allargamento della partecipazione azionaria.
Prima della riforma fiscale, intervenuta a limitare gli arbitraggi fiscali a favore del
debito, nella logica della pianificazione fiscale la leva finanziaria aveva un ruolo di
primo piano: attraverso opportune operazioni aziendali, infatti, era possibile ottenere
arbitraggi fiscali favorevoli. Gli operatori economici strutturavano il patrimonio
aziendale in modo da combinare il mix tra capitale proprio e capitale di indebitamento
al solo fine della deducibilità fiscale. Ciò determinava che il capitale investito dal socio
qualificato veniva remunerato per la maggior parte con la corresponsione di interessi
attivi anziché dividendi; per la società partecipata, simmetricamente, si trasformavano
dividendi da distribuire (non deducibili) in interessi passivi deducibili.
È evidente che il ricorso alla capitalizzazione sottile (thin capitalization), in favore
dell’indebitamento verso il medesimo soggetto finanziatore, era tanto più conveniente
quanto maggiore era la differenza tra il risparmio d’imposta ad aliquota ordinaria
(calcolato sull’aliquota vigente dell’imposta societaria), conseguito dalla società
finanziata che deduceva interessi passivi, e l’aliquota, spesso ridotta, applicabile ai
corrispondenti interessi attivi riferibili al socio finanziatore.
Successivamente con la riforma del 2003 sono stati introdotti diversi strumenti
volti a limitare la deducibilità degli interessi passivi. Nonostante ciò ancora oggi la
variabile fiscale porta a propendere per il debt quale forma di finanziamento dell’attività
aziendale.
5.1.3. Deducibilità fiscale degli interessi passivi
Abbiamo visto sopra come la componente fiscale giochi un ruolo importante nella
scelta debt/equity posto che la deducibilità fiscale degli interessi passivi rappresenta un
vantaggio finanziario non indifferente per l’impresa.
73
Prima della riforma del 2003 gli interessi passivi erano deducibili, ai sensi dell’art.
63 del vecchio TUIR, per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi
e di altri proventi che concorrevano a formare il reddito e l’ammontare complessivo di
tutti i ricavi e proventi. In vigenza di tale sistema, al fine di incentivare le imprese a
ridurre la sottocapitalizzazione era stata introdotta la Dual Income Tax (DIT), una
normativa volta ad incentivare l’apporto di nuovo capitale nell’impresa, e ridurre così la
disparità di trattamento tra capitale di debito e di rischio23. Tale normativa prevedeva
l’imposizione ad un’aliquota ridotta del 19% per la parte corrispondente alla
remunerazione ordinaria della variazione in aumento del capitale investito rispetto a
quello esistente alla chiusura dell’esercizio precedente. Il tasso di remunerazione
ordinaria era determinato sulla base dei rendimenti dei titoli obbligazionari, pubblici e
privati, aumentati fino ad un massimo di 3 punti percentuali. Per le società quotate
l’aliquota era poi ulteriormente ridotta al 7%, mentre la rimanente quota di reddito
continuava ad essere tassata secondo l’aliquota ordinaria.
Un ulteriore intervento normativo mirante a disincentivare la sottocapitalizzazione
delle imprese è stata la cd. Legge Prodi (art. 7 del DL 323/96). Scopo della Legge Prodi
è quello di penalizzare l’imprenditore che, in luogo di apportare capitale di rischio
nell’impresa e riceverne un compenso sotto forma di dividendo, fornisce gli stessi
capitali ad un istituto di credito in deposito a garanzia di un prestito che lo stesso istituto
eroga alla sua impresa. L’imprenditore continua, in questo modo, a percepire redditi dai
titoli in deposito, mentre la società finanziata paga gli interessi passivi sul
finanziamento (deducibili ai fini fiscali). La norma tende a scoraggiare simili
comportamenti stabilendo che sui proventi derivanti da depositi di denaro, di valori
mobiliari e di altri titoli diversi dalle azioni e titoli similari sia applicata una ritenuta del
20%, indipendentemente da ogni altro prelievo previsto per questa tipologia di reddito.
Sono soggetti a questa norma le persone fisiche che non esercitano attività d’impresa (o
che esercitano attività d’impresa, ma i beni depositati a garanzia non sono relativi
all’impresa), le società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 del TUIR, gli enti non
commerciali e i soggetti non residenti senza stabile organizzazione in Italia che prestano
garanzia a favore di imprese residenti in Italia. La legge Prodi risulta per certi aspetti
penalizzante e per altri facilmente eludibile. Infatti la normativa colpisce anche le
garanzie prestate da terzi che non presentano rapporti partecipativi nell’impresa
finanziata, non richiedendo nessun rapporto minimo di partecipazione nella società
23
La Circolare Ministeriale n. 269/E del 5 novembre 1996 precisava in proposito che “tali disposizioni
mirano a contrastare un diffuso fenomeno elusivo praticato per trasformare utili d’impresa, tassabili
nella misura ordinaria ai fini dell’imposta personale, in interessi od altri proventi soggetti ad una
tassazione in forma di imposta cedolare più contenuta”.
74
finanziata da parte del soggetto depositante (ad esempio il coniuge che pone in garanzia
un proprio deposito amministrato per consentire all’impresa intestata all’altro coniuge
di usufruire di un finanziamento bancario). Inoltre la norma riguarda solamente le
garanzie reali, tralasciando quelle personali e non prevede nulla in tema di
finanziamenti soci.
La riforma fiscale del 2003 è intervenuta in maniera più radicale sul fenomeno
della sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Fino alla recente Finanziaria 2008 la
deducibilità degli interessi passivi era regolata infatti attraverso un sistema articolato
che si componeva di tre norme gerarchicamente ordinate:
a) l’articolo 98 del TUIR - thin capitalization rule: le disposizioni anti thin
capitalization prevedevano, in caso di finanziamento erogato da un socio
qualificato o da una sua “parte correlata” o garantito dal socio, l’individuazione di
limiti quantitativi oltre i quali gli oneri finanziari non erano considerati fisiologici.
In tale ipotesi si assisteva ad una riqualificazione degli interessi, i quali
assumevano, da un punto di vista fiscale, le caratteristiche degli utili, in quanto
venivano considerati una remunerazione di capitale di rischio e non di
finanziamento. Pertanto gli interessi passivi risultavano indeducibili per la società
finanziata e corrispondentemente gli interessi attivi, riqualificati in dividendi,
erano esclusi da tassazione per il socio qualificato percettore o per la sua parte
correlata. Senza entrare nello specifico della norma, occorre ricordare che il livello
di indebitamento si considerava fisiologico se non superava di quattro volte il
patrimonio netto contabile della società di pertinenza dei soci qualificati e delle
loro parti correlate;
b) l’articolo 97 del TUIR – pro rata patrimoniale: tale norma prevedeva un pro rata
patrimoniale di indeducibilità degli interessi passivi specificamente riferito
all’ipotesi in cui l’impresa possedeva delle partecipazioni che si qualificano per
l’esenzione di cui all’articolo 87 TUIR (regime pex). In particolare, tale norma
trovava applicazione ogni qual volta il valore di libro delle partecipazioni esenti
era superiore al valore del patrimonio netto contabile dell’impresa. Il pro-rata di
indeducibilità veniva calcolato sulla base del seguente rapporto:
______Partecipazioni esenti – PN_____ * 100
Totale attivo – PN – Debiti Commerciali
c)
l’art. 96 del TUIR – pro rata generale: infine tale disposizione ammetteva in
deduzione dal reddito “la quota di interessi passivi che residua dopo
l’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 97 e 98 del TUIR per la parte
corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che
75
concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e
proventi” .
Come prima anticipato la Finanziaria 2008 ha rivoluzionato il sistema delle
deducibilità degli interessi passivi. Dal 1° gennaio 2008, infatti, per le imprese con
esercizio coincidente con l’anno solare, la regola sulla deduzione degli interessi passivi
è stata racchiusa nel nuovo art. 96 TUIR che prevede una limitazione alla deducibilità
per la parte degli oneri finanziari e degli oneri e proventi assimilati nei limiti del 30%
del risultato operativo lordo (ROL) della società.
Accanto all’art. 96 citato vi sono poi altre tre norme che riguardano gli interessi:
a) l’art. 1, comma 34, della Finanziaria 2008 che prevede l’applicazione di una
franchigia di deducibilità pari a 10.000 € e 5.000 € rispettivamente per il primo e
per il secondo periodo di applicazione della nuova norma;
b) l’art. 102, comma 7, ultimo periodo del TUIR che prevede che la quota degli
interessi impliciti desunti dal contratto di leasing è soggetta alle regole del citato
art. 96;
c) l’art. 172, comma 7, ultimo periodo del TUIR che introduce regole che limitano il
riporto a nuovo delle eccedenze nel caso di operazioni di fusione.
Tornando alla norma base, ossia all’art. 96 TUIR, la procedura per calcolare la
quota di interessi indeducibili presuppone due fasi:
a) in una prima fase occorre individuare il totale degli oneri finanziari interessati
dalla norma a cui corre aggiungere gli interessi impliciti relativi al canone di
locazione finanziaria (art. 102, comma 7, TUIR). La quantificazione di questa
componente deve avvenire sulla base delle informazioni desumibili dal contratto
di locazione finanziaria;
b) nella seconda fase, l’importo così determinato deve essere scomposto in sei
componenti.
Le sei componenti sono:
1) interessi capitalizzati: la legge prevede che dal conteggio siano esclusi gli
interessi che sono imputati ad incremento dei costi dei beni;
2) interessi comunque indeducibili: il secondo passaggio consiste nell’individuazione
degli interessi comunque indeducibili per applicazione di altre norme di legge (ad
esempio gli interessi sui prestiti obbligazionari che eccedono il limite massimo).
Dato che l’art. 96, comma 6, prevede l’applicazione prioritaria di queste altre
disposizioni, questo importo va a decurtare gli interessi da assoggettare al calcolo
percentuale previsto dalla nuova regola;
3) interessi comunque deducibili: la parte degli interessi che rimane comunque
deducibile a prescindere dal rapporto operativo lordo è pari all’ammontare di
interessi attivi, proventi finanziari e relativi oneri assimilati;
76
4)
quota deducibile: l’importo degli oneri finanziari che residua dopo i calcoli
precedenti deve essere posto a confronto con il 30% del ROL. Fino a questo
ammontare, siamo in presenza di un importo deducibile dal reddito;
5) franchigia: nella disposizione transitoria è previsto che per il primo biennio di
applicazione della norma il limite di deducibilità venga aumentato da una specifica
franchigia. Trattando del periodo 2008, quindi, la franchigia sarà pari a 10.000 €;
6) eccedenza indeducibile: l’eventuale importo che residua ulteriormente dopo
l’applicazione dei calcoli precedenti rappresenta la quota di oneri finanziari
indeducibile. Si tratta dell’eccedenza che potrà essere riportata nei periodi
d’imposta successivi. Per le società in consolidato fiscale, le eccedenze di interessi
indeducibili (salvo quelle sorte prima dell’opzione) si trasferiranno nel gruppo e
potranno essere compensate, dalla controllante, con eccedenze negative di altre
società; è il caso degli interessi della holding, in genere dotate di ROL pari a zero.
Per evitare fenomeni elusivi, il riporto delle eccedenze in caso di fusione e di
scissione sarà soggetto alle condizioni previste per il riporto delle perdite.
Facciamo ora un esempio concreto di applicazione della normativa sulla
deducibilità degli interessi nel 2007 e nel 2008. L’esempio che segue considera una
società di capitali media che presenta i seguenti valori di conto economico:
Valore della produzione
10.000.000
Costi della produzione
9.400.000 (di cui ammortamenti 250.000)
Differenza tra valore e
costi della produzione
Risultato operativo lordo
600.000
Interessi passivi netti
320.000
Utile lordo
280.000
Variazioni fiscali nette
50.000
Imponibile IRES
330.000
IRES 33%
108.900
(600.000+250.000)=850.000
L’esempio che segue presenta una simulazione del carico fiscale che graverà sulla
società di capitali, applicando le nuove regole in vigore dal 2008, in tre ipotesi In
confronto va fatto sempre con l’IRES del 2007, in quanto si è mantenuto costante l’utile
lordo prima delle imposte e le variazioni fiscali diverse da quelle per interessi,
modificando la sola struttura.
a) indebitamento costante: nel primo caso si è ipotizzato che la società mantenga
l’indebitamento costante rispetto alla situazione del 2007, e così pure la struttura
del conto economico. I calcoli evidenziano come, per una società con questa
77
b)
c)
tipologia di indebitamento, e, conseguentemente, con questo carico di oneri
finanziari, l’abbassamento dell’aliquota dal 33% al 27,5% sia controbilanciato
dall’indeducibilità degli oneri finanziari. Il risultato finale è un importo di IRES
analogo a quello con le norme del 2007.
indebitamento crescente: la seconda ipotesi si base invece su un elevato
incremento degli oneri finanziari (ad esempio a causa di nuovi investimenti
finanziati con debito bancario), il cui importo è coperto dall’aumento del risultato
operativo (differenziale tra valore e costi della produzione), con l’utile lordo finale
che resta immutato rispetto alla prima ipotesi del 2007. Si è ipotizzato che il
risultato operativa comprenda maggiori ammortamenti (nuovi investimenti). La
crescita degli interessi genera una forte indeducibilità, in quanto solo il 30% del
maggior risultato operativo lordo può essere utilizzato per coprire gli oneri
finanziari.
indebitamento ridotto: la terza situazione prevede una forte riduzione degli oneri
finanziari a fronte di a una corrispondente diminuzione del ROL . Anche in questo
caso l’utile finale resta invariato rispetto al 2007. Gli interessi diventano tutti
deducibili, per effetto del fenomeno contrario a quello indicato nell’ipotesi
precedente (la soglia di deduzione si riduce solo del 20% della diminuzione del
ROL). Si sfrutta la riduzione dell’aliquota IRES (l’imposta scende di un sesto
rispetto a quella derivante dalle norme 2007).
Conto
economico
Valore della
produzione
Costi della
produzione
Indebitamento
costante
10.000.000
Indebitamento in
aumento
10.000.000
Indebitamento in
diminuzione
10.000.000
9.400.000(di cui
ammortamenti:
250.000)
600.000
9.100.000 (di cui
ammortamenti: 500.000)
900.000
9.600.000 ( di cui
ammortamenti:
200.000)
400.000
(900.000+500.000)=
1.400.000
420.000
(400.000+200.000)=
600.000
120.000
Differenza tra
valore e costi
della
produzione
Risultato
(600.000+250.000)
operativo lordo
= 850.000
Risultato
255.000
operativo lordo
X 30%
78
Interessi passivi
netti
Utile lordo
Variazioni
fiscali nette
(auto,
rappresentanza
ecc.. )
Interessi
indeducibili
Imponibile Ires
320.000
620.000
180.000
280.000
50.000
280.000
50.000
280.000
50.000
65.000
200.000
0
395.000
530.000
330.000
Ires X 27,5%
108.625
145.750
90.750
CAPITOLO VI
6.1.
LE HOLDING DI FAMIGLIA ED I TRUST
6.1.1. Holding di famiglia
79
Come detto più volte il tax planing ha la funzione di rendere possibile
l’ottenimento e lo sfruttamento dei risparmi d’imposta, ma provvede anche ad una
razionale distribuzione nel tempo dei flussi finanziari.
La scelta dello strumento più adatto dipende da molte variabili che possono non
essere solo di carattere fiscale di modo che, fatta una scelta finalizzata ad obbiettivi
diversi da quelli fiscali, questa possa poi essere coordinata ed adottata in modo da
ottenere anche una razionalizzazione del debito d’imposta.
E’ possibile che alla base di un progetto di pianificazione fiscale ci sia la volontà
di conservare e proteggere il patrimonio di famiglia affinché i comportamenti dei singoli
membri della famiglia non possano mettere in pericolo la ricchezza accumulata, per
differenziare e localizzare opportunamente gli investimenti al fine di ottenere il
massimo rendimento minimizzando i costi, soprattutto fiscali, sia sul reddito prodotto
dalla gestione del patrimonio, sia sulla circolazione all’interno della famiglia dei singoli
beni facenti parte del patrimonio.
La vita dell’impresa familiare segue di solito tre fasi di sviluppo che sono così
caratterizzate:
a) inizialmente il fondatore dirige l’azienda concentrando nella sua persona la figura
di proprietario e amministratore; può essere costituita una società di persone tra
membri della famiglia;
b) in un secondo momento si assiste all’ingresso di manager esterni, che
contribuiscono allo sviluppo, anche organizzativo dell’azienda; si ha in questo
momento il passaggio da una società di persone ad una piccola società di capitali
(una Srl);
c) l’impresa si ingrandisce e necessita di nuovi capitali, magari con l’ingresso di
nuovi soci che, solitamente, comporta il passaggio da Srl a S.p.A., con successiva
divisionalizzazione dell’impresa e riorganizzazione delle funzioni aziendali.
Si delinea, di conseguenza, la necessità di ripensare l’intero sistema aziendale in
un’ottica di medio – lungo periodo. La ristrutturazione sarà basata non solo su aspetti
economici, ma anche personali, come quelli legati al trasferimento generazionale.
Uno strumento utilizzabile in questi casi è la costituzione di una holding di
famiglia che abbia all’attivo partecipazioni nelle società operative. Lo scopo può essere
quello di allontanare tutti i conflitti dalle società operative, ovvero di coinvolgere
azionisti terzi in queste mantenendo un ambito di controllo dove vi siano solo i familiari
o ancora di preparare a favorire il ricambio generazionale.
Le holding permettono una blindatura dell’impresa familiare, rendono più facile il
reperimento delle risorse finanziarie, chiariscono i confini tra ambito proprietario e
80
ambito imprenditoriale-manageriale.
Nel sistema azienda-famiglia sono individuabili tre sottosistemi ai quali occorre
contrapporre tre sistemi di obiettivi.
SISTEMA
OBIETTIVI
FAMIGLIA
COESIONE
PATRIMONIO
RITORNO SUL CAPITALE
AZIENDA
EFFICIENZA OPERATIVA
Questi tre sistemi sono integrati, ma relativamente indipendenti in quanto
ciascun sistema persegue obiettivi differenti. In un tale contesto l’interposizione di una
holding di famiglia a gestione professionale permette di “sterilizzare” il rapporto tra la
famiglia e le società operative, affinché queste non siano colpite dalle vicende (come il
passaggio generazionale o liti interne) che possono colpire la proprietà.
Questa configurazione porta ad una serie di vantaggi finanziari, societari e fiscali.
Vantaggi finanziari:
a)
razionalizzazione della struttura finanziaria: la holding può distribuire e
raccogliere i fondi necessari tra le società del gruppo, senza dover ricorrere ai soci
ogni volta che ci sia la necessità di trasferire risorse da una società all’altra;
b)
razionalizzazione della distribuzione degli utili: la holding raccoglie gli utili delle
controllate e li distribuisce ai soci in modo unitario, dopo aver valutato le esigenze
finanziarie dell’intero gruppo;
c)
accentrando in capo alla holding lo svolgimento di alcuni servizi comuni a tutte le
società del gruppo potrebbe realizzarsi una riduzione dei costi di gestione e
amministrativi.
Vantaggi societari:
a) razionalizzazione del controllo societario: attraverso la holding si crea un unico
raggruppamento stabile di soci, posto indirettamente in capo a tutte le società;
b) in caso di controversie tra i membri della famiglia non si hanno ripercussioni
negative sulla gestione operativa;
c) viene favorito il passaggio generazionale dell’impresa di famiglia.
Vantaggi fiscali: i vantaggi fiscali più spiccati sono connessi alla tassazione dei capital
gains e dei dividendi.
a) regime fiscale dei dividendi: esclusione del 95% dall’imponibile dei dividendi
provenienti da società non residenti in paradisi fiscali, per la holding e tassazione
limitata al 49,72% per l’imprenditore che ha una partecipazione qualificata o
limitata al 12,5% per i membri della famiglia che detengono una partecipazione
81
non qualificata;
b) regime fiscale dei capital gains: esenzione all’95% per i capital gains se sono
rispettate le condizioni per la participation exemption (iscrizione della
partecipazione nelle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso
durante il periodo di possesso; periodo di possesso pari almeno a 12 mesi;
residenza fiscale in uno Stato che non sia a fiscalità privilegiata; esercizio di
attività commerciale della società partecipata) per la holding e tassazione limitata
al 49,72% per il socio (l’”imprenditore”) che ha una partecipazione qualificata o
limitata al 12,5% per i membri della famiglia che detengono una partecipazione
non qualificata;
c) possibilità di optare per la tassazione consolidata di gruppo (di cui si tratterà più
oltre);
d) possibilità di pianificare il passaggio generazionale e limitare le imposte sui
trasferimenti;
e) possibilità di intestare alla holding nuove partecipazioni utilizzando, per finanziare
tali acquisti, i redditi accumulati nella holding senza che questi siano prima
distribuiti alle persone fisiche, e quindi senza che siano tassati fino all’ultimo
anello della catena societaria.
I punti critici di una struttura di tal genere possono essere rappresentati da elevati
costi di struttura e di gestione. Inoltre le holding potrebbero ricadere nell’ambito di
applicazione della disciplina delle società di comodo24, finalizzata ad evitare l’abuso
degli schermi societari.
Nell’ambito della pianificazione fiscale è sempre importante, quindi, un’opportuna
analisi costi-benefici, che prenda in esame tutti gli aspetti della gestione del gruppo che
fa capo alla holding di famiglia.
Vengono qui di seguito esposte alcune esemplificazioni dei possibili arbitraggi
fiscali che possono essere posti in essere attraverso una holding di famiglia.
La famiglia Rossi è titolare di alcune aziende di famiglia, che, da due generazioni
hanno un buon posizionamento nel settore del tessile. Il gruppo si è pian piano
ingrandito, tanto da essere attualmente composto da diverse società di capitali che
corrispondono ad altrettante divisioni del sistema produttivo. I soci sono: la moglie del
fondatore, l’ing. Rossi, la quale detiene, nella varie società, partecipazioni pari al 34%, e
i figli Gianni e Gionni Rossi, i quali detengono entrambi partecipazioni pari al 33%.
L’attuale assetto societario è, pertanto, il seguente:
24
Art. 30 L. 724/97.
82
Le partecipazioni dei membri della famiglia Rossi, essendo partecipazioni al capitale
superiori al 25%, sono tutte qualificate.
Ipotizziamo che:
a) la ROSSI SETA Spa distribuisca un dividendo di 30.000 Euro;
b) la ROSSI CASHMERE Spa distribuisca un dividendo di 60.000 Euro;
c) la ROSSI COTTON Spa distribuisca un dividendo di 10.000 Euro.
Ad un certo punto la famiglia Rossi decide di vendere a terzi le tre società, e
realizza una plusvalenza di 200.000 Euro su ogni società. La situazione personale dei
soci sarà la seguente:
PLUSVALENZE
realizzate
Importo
imponibile dei
capital gains
ALIQUOTA
MARGINALE
(49,72% del totale ex
personale del socio
Tassazione
subita dai
capital
gains25
81.600
43%
35.088
79.200
43%
34.056
79.200
43%
34.056
relativa al reddito
art. 68, c. 3 Tuir))
Sig.ra Rossi
(68.000+68.000+68.000) =
204.000
Gianni Rossi
(66.000+66.000+66.000) =
198.000
Gionni Rossi
(66.000+66.000+66.000) =
198.000
Proviamo a vedere se l’interposizione di una holding di famiglia possa abbassare il
carico fiscale dei membri della famiglia Rossi in relazione alle partecipazioni nelle
società del gruppo. L’assetto societario potrebbe diventare il seguente
a) tassazione al livello della holding
I dividendi di 30.000, 60.000, 10.000 Euro in capo alla holding saranno tassati per
il 5% all’aliquota del 27,5%, ex art. 89, comma 2, Tuir  [(100.000*5%) * 27,5%] =
Euro 1.375.
Quando le società saranno vendute a terzi la holding realizzerà un capital gain di
600.000 Euro, che sarà tassato per il 5% all’aliquota del 27,5%, ex art. 87, comma 1,
Tuir  [(600.000 * 5%) *27.5%] = Euro 8.250
25
Si veda la nota precedente.
83
b) tassazione al livello dei soci
DIVIDENDO
dalla holding
Importo
imponibile dei
dividendi
ALIQUOTA
MARGINALE
(49,72% del totale ex art.
personale del socio
Tassazione
subita dai
soci sui
dividendi26
43%
27%
38%
5.848
3.564
5.016
Importo
imponibile
ALIQUOTA
MARGINALE
(49,72
relativa al reddito
Tassazione
subita dal
provento27
% del totale ex art.
personale del socio
relativa al reddito
47, c. 1 Tuir)
Sig.ra Rossi
Gianni Rossi
Gionni Rossi
34.000
33.000
33.000
PROVENTO DA
LIQUIDAZIONE
13.600
13.200
13.200
47, c. 1 Tuir)
Sig.ra Rossi
Gianni Rossi
Gionni Rossi
204.000
198.000
198.000
81.600
79.200
79.200
43%
43%
43%
35.088
34.056
34.056
La semplificata struttura societaria dell’esempio rende evidente l’elevato
risparmio di imposta che si ottiene al livello della holding. Effettuando la comparazione
tra il carico fiscale sopportato dalla holding e quello sopportato dai soci, appare evidente
come in una struttura societaria più complessa, in cui una famiglia si trovi a capo di un
articolato gruppo di società, (per inciso anche laddove residenti all’estero),
l’interposizione di una holding sia in grado di “sterilizzare” l’effetto fiscale delle
operazioni societarie sui dividendi e sui capitali gains; la holding, infatti, razionalizza
l’erogazione di dividendi alla famiglia, dopo averli raccolti dalle società operative
controllate, considerando le specifiche esigenze di autofinanziamento.
6.1.2. Il trust
Un altro strumento tipico di pianificazione fiscale (ma non solo) è costituito dal
trust.
26
Per esigenze di semplicità si applica l’aliquota marginale del 43% come se fosse un’aliquota
proporzionale.
27
Si veda la nota precedente.
84
Il trust è un istituto tipico della civiltà anglosassone che può assumere nella pratica
forme diverse e variegate delle quali, di volta in volta, occorre individuare e valutare le
peculiarità. In Italia il trust ha trovato riconoscimento giuridico attraverso la L.
364/1989, recante la ratifica della Convezione dell’Aja.
Sul piano civilistico si ricorda che sono denominati trust i rapporti giuridici
istituiti da una persona, detta disponente o costituente (o settlor) con atto inter vivos o
mortis causa, qualora alcuni beni o diritti siano stati posti sotto il controllo di un
amministratore o un affidatario (trustee), nell’interesse di un terzo beneficiario (o dello
stesso disponente) ovvero per una fine specifico.
Aspetto caratteristico del trust è quello di essere costituito con un negozio
unilaterale, con collegati uno o più atti dispositivi, in base al quale, mentre la titolarità
del diritto di proprietà è piena in capo al trustee, l’esercizio di tale diritto avviene
secondo le modalità e gli scopi indicati nell’atto costitutivo.
I beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto di
esso, ma costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee
stesso, il quale deve rendere conto di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i
termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge scelta dal costituente o che
ha più stretti legami con il trust. I beni conferiti nel trust non possono, pertanto, essere
escussi dai creditori del trustee, del disponente o del beneficiario (ma possono essere
aggrediti dai creditori del trust stesso e ciò è molto rilevante sotto il profilo fiscale).
A ben vedere, il trust può essere visto come una particolare forma di “patrimonio
separato”. Con l’espressione patrimonio separato s’intende descrivere quella situazione
per la quale una determinata massa di beni viene diversificata dal resto del patrimonio
del soggetto, per essere destinata ad assolvere ad una peculiare funzione. Tale
definizione evidenzia la configurazione di una separazione non soltanto quantitativa del
patrimonio, ma anche qualitativa in quanto la destinazione ad uno scopo particolare
modifica l’intera fisionomia della massa separata, con implicazioni inevitabili sul
regime giuridico applicabile. In questo senso, infatti, la disciplina speciale dei patrimoni
separati prevede, da un lato, vincoli - per il caso in cui il patrimonio debba essere
trasferito dal suo titolare per scopi diversi da quello impresso con la destinazione -, e,
dall’altro, pone limiti (ai creditori che intendono aggredire i beni costituenti il
patrimonio separato).
Più precisamente i creditori del patrimonio separato prevalgono su quelli ordinari,
ai quali è di fatto imposto di attendere che si verifichi la condizione che fa venire meno
le separazione, affinché possano agire per vedere soddisfatti i propri crediti. Nel nostro
Ordinamento viene considerato un esempio di patrimonio separato il fondo patrimoniale
dei coniugi di cui all’art. 167 e segg. c.c., dove il patrimonio personale dei coniugi,
sebbene in misura diversa a seconda del regime patrimoniale prescelto, risponde
85
comunque per le obbligazioni contratte al fine di soddisfare i bisogni della famiglia
esuberanti la capienza del fondo stesso.
Come anticipato, l’Italia attraverso la L. 364/1989, recante la ratifica della
Convezione Aja, ha recepito il trust nel proprio ordinamento in punto di riconoscimento
giuridico dei suoi effetti. A ciò tuttavia fino al 2006 non ha fatto seguito l’adozione di
specifiche disposizioni attuative civilistiche e fiscali.
La Finanziaria 2007 per la prima volta ha dettato una disciplina fiscale per il trust.
In particolare con la Finanziaria citata si è modificato l’art. 73 TUIR prevedendo
espressamente che i trust sono soggetti passivi IRES in quanto enti titolari di autonoma
capacità contributiva. E’ prevalsa dunque la tesi che vuole il trust come un soggetto
autonomo da un punto di vista tributario e non già come un’entità sempre e comunque
“trasparente”.
Si applicano pertanto al trust gli obblighi previsti per i soggetti IRES quale quello
di dotarsi di un codice fiscale, di presentare annualmente la dichiarazione dei redditi, di
avere (se esercita un’attività commerciale) una propria partita IVA, di adempiere agli
obblighi formali e sostanziali relativi all’IRAP. Gli adempimenti tributari del trust sono
assolti dal trustee. I trust sono inoltre obbligati a tenere le scritture contabili secondo le
disposizione del DPR 600/1973.
Ai fini delle imposte dirette, il legislatore distingue tra i trust aventi beneficiari
individuati (trust trasparenti) e quelli senza beneficiari individuati (trust opachi). Il trust
è opaco quando i relativi beneficiari non sono individuati ed in questo caso i redditi
sono imputati direttamente al trust.
Il trust trasparente si ha quando l’atto istitutivo (o documenti successivi) del trust
individui i beneficiari dello stesso. In questo, ai fini fiscali, i redditi conseguiti dal trust
sono imputatiti a quest’ultimi in proporzione alla quota di partecipazione di ciascuno o,
se non specificata, in parti uguali (art. 73, comma 2, ultimo periodo del TUIR).
Solamente in questo caso, quindi, il trust può essere riguardato come un soggetto
trasparente ai fini fiscali. Sulla base di quanto previsto dal novellato art. 44, comma 1,
lett. g-sexies) i redditi così imputati ai beneficiari sono considerati per quest’ultimi
redditi di capitale. La norma ricalca l’art. 5 TUIR relativo alla tassazione per
trasparenza delle società personali.
Ai fini del tax planing è evidente che il previsto doppio binario tassazione in capo
al trust – tassazione in capo ai soci deve essere attentamente valutato al fine di prevenire
ipotesi di doppia imposizione: si pensi ad esempio al trust che investe i propri beni per
trarne un reddito e che, inoltre, attribuisce ai beneficiari anche una rendita vitalizia. Il
beneficiario rischia di scontare una doppia tassazione: sul reddito prodotto dal trust e
sulla rendita vitalizia imputatagli.
Ovviamente, data la flessibilità propria del trust, è possibile che esso sia
86
contemporaneamente trasparente e opaco quando l’atto costitutivo prevede, ad esempio,
che parte del reddito di un trust sia accantonata a capitale e parte sia invece attribuita ai
beneficiari. In tale ipotesi la parte del reddito accantonato verrà tassato in capo al trust –
con assoggettamento ad IRES – mentre quello attribuito ai beneficiari, ricorrendone i
presupposti, verrà imputato per trasparenza a questi ultimi che, quindi, provvederanno
ad assoggettarlo alle imposte sul reddito.
Con riguardo al trust particolarmente delicata risulta essere la questione della sua
residenza. La residenza, invero, è particolarmente rilevante per il trust in quanto nel
caso di trust residente tutti i suoi redditi, ovunque prodotti, sono imponibili in Italia,
mentre per il trust non residente l’imponibilità in Italia trova ingresso solo per i redditi
prodotti nel territorio dello Stato, secondo il disposto dell’art. 23 TUIR. Per evitare che
il contribuente ottenga un risparmio d’imposta localizzando un trust in paese a fiscalità
privilegiata il novellato art. 73, comma 3, TUIR ha previsto due presunzioni di
residenza dei trust esteri:
a) in particolare è prevista una presunzione legale relativa di residenza nel territorio
dello Stato del trust se almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari
sono fiscalmente residenti nel territorio nazionale. La presunzione opera solo se i
trust sono istituiti in paesi diversi di quelli appartenenti alla c.d. white list, per i
quali è attuabile lo scambio di informazioni;
b) inoltre si considerano residenti in Italia i trust istituiti in uno Stato diverso da
quelli compresi nella white list quando, successivamente alla loro costituzione, un
soggetto residente effettua, in favore del trust, un’attribuzione che comporti il
trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o trasferimento di
diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli
stessi.
Con riguardo alle imposte indirette si precisa quanto segue.
L’atto costitutivo del disponente – se non prevede anche il trasferimento dei beni
nel trust, destinato a realizzarsi in una fase successiva, ed è redatto con atto pubblico o
scrittura privata autenticata – deve essere assoggettato all’imposta di registro in misura
fissa, quale atto privo di contenuto patrimoniale.
Il trust è tuttavia soggetto anche all’imposta di donazione. L’atto dispositivo con il
quale il disponente vincola i beni in trust è infatti un negozio a titolo gratuito. In
passato, tuttavia, era opinione generalmente condivisa che il trasferimento per atto tra
vivi dal settlor al trustee dovesse scontare l’imposta di registro e non quella di
donazione, trattandosi di atto gratuito non compiuto con spirito di liberalità, bensì
finalizzato all’interesse del disponente alla costituzione del trust. Questo orientamento
era stato sostanzialmente recepito nel DL 262/2006 (art. 6) che, tuttavia, è stato
87
abrogato dalla L. 286/2006 che nel ripristinare l’imposta sulle successioni e donazioni
ha assoggettato a tale tributo anche gli atti traslativi di beni e diritti a titolo gratuito e
quelli costitutivi di vincoli di destinazione. Non è più dubbio quindi che il trasferimento
dei beni dal settlor al trustee è in ogni caso soggetto all’imposta in esame in misura
proporzionale. In particolare ai fini delle applicazioni delle aliquote, che in tale imposta
risultano differenziate in funzione del rapporto di parentela e affinità, occorre fare
riferimento al rapporto intercorrente tra il disponente e il beneficiario e non a quello tra
disponente e trustee. Nel trust di scopo, invece, che è gestito per realizzare un certo
obiettivo, in cui non vi è indicazione del beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con
aliquota dell’8% prevista per i vincoli di destinazione a favore di altri soggetti. Dunque
da un punto di vista fiscale la costituzione del trust è fortemente penalizzata.
Infine si ricorda che il trust è assoggettato a tassazione indiretta solo in sede di
costituzione del vincolo e non anche al momento della distribuzione al beneficiario. In
tal modo la devoluzione dei beni vincolati nel trust ai beneficiari non costituisce un
ulteriore presupposto impositivo, in quanto i beni hanno già scontato l’imposta sulla
costituzione del vincolo di destinazione al momento della costituzione del trust.
6.2.
SUCCESSIONE NELL’IMPRESA FAMILIARE
6.2.1. L’impresa familiare
L’impresa familiare è disciplinata dall’art. 230-bis c.c. a norma del quale per
impresa familiare si intende un’impresa in cui collaborano “il coniuge, i parenti entro il
terzo grado, gli affini entro il secondo” (cioè fino ai cugini carnali e pronipoti).
Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza affinché si possa parlare di
impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la
prova sia dello svolgimento da parte del partecipante di un’attività di lavoro
continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non
necessariamente a tempo pieno), sia dell’accrescimento della produttività dell’impresa
procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di
partecipazione agli utili e agli incrementi).
Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, è sufficiente il fatto giuridico
dell’esercizio continuativo di un’attività economica da parte di un gruppo familiare, non
essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà o, addirittura, un negozio
giuridico.
Poiché l’art. 230-bis fa riferimento all’impresa, senza ulteriori specificazioni, deve
ritenersi che l’impresa familiare sia configurabile sia in presenza di impresa
commerciale ex art. 2082 c.c., sia di impresa agricola ex art. 2135 c.c. ed
88
indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, che può essere piccola, media o
grande.
Nell’impresa familiare la qualifica di imprenditore spetta esclusivamente a chi ha
la gestione ordinaria della stessa, mentre i familiari partecipanti si limitano ad una
prestazione lavorativa. La dottrina attribuisce dunque natura individuale all’impresa
familiare, ravvisando nell’imprenditore l’unico titolare del potere gestorio, non solo con
riferimento agli atti di ordinaria gestione, ma anche a quelli di natura straordinaria. Ciò
nonostante quanto previsto dall’art. 230-bis a mente del quale “le decisioni concernenti
l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione
straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessione dell’impresa sono adottate a
maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa stessa”.
In caso di cessione a terzi dell’impresa familiare, l’art. 230-bis c.c. assegna ai
partecipanti un diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda. Pertanto, il
titolare quando intende trasferire l’azienda deve comunicarlo ai partecipanti, indicando,
oltre al nome dell’acquirente, le condizioni e il prezzo di cessione. A tali condizioni il
partecipante deve essere preferito rispetto al terzo acquirente. Nel caso in cui più
partecipanti intendono avvalersi del diritto di prelazione loro riconosciuto dalla legge ha
la meglio il titolare della maggiore partecipazione.
La prospettata natura individuale dell’impresa familiare trova conferma anche
nella disciplina tributaria, atteso che è solo in capo al titolare dell’impresa che viene
ravvisata la formazione del reddito d’impresa e la soggettività IVA, nonché tutti gli altri
obblighi di natura fiscale conseguenti.
Quanto alle imposte dirette va posto in evidenza che il reddito viene determinato
in capo al titolare ed è oggetto ad imputazione tra ciascun collaboratore, in proporzione
alla quota di partecipazione agli utili, fermo restando il limite secondo cui almeno il
51% del reddito d’impresa prodotto deve rimanere in capo al titolare dell’impresa
familiare (art. 5, comma 4, del TUIR)28.
Ai sensi e per gli effetti del citato art. 5, comma 4, del TUIR l’imputazione dei
redditi ai collaboratori (nel limite del 49%) è ammessa solo se sono soddisfatte le
seguenti condizioni:
a) i familiari partecipanti devono risultare nominativamente da atto pubblico o
scrittura privata autenticata anteriore al periodo d’imposta, sottoscritta
28
L’imputabilità del reddito al titolare in misura almeno pari al 51% ha fatto sorgere dubbi di legittimità
costituzionale per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto implicherebbe l’attribuzione a
tale soggetto di redditi che, civilisticamente, apparterrebbero ai familiari. La Corte Costituzionale,
tuttavia, ha respinto tali eccezioni rilevando che nelle imprese familiari l’imputazione di una quota del
reddito a ciascun componente della famiglia è correlata alla partecipazione diretta di ognuno all’attività
lavorativa e, quindi, alla sua incidenza sul conseguimento del profitto. Cfr. in tal senso Corte Cost. 6
luglio 1987 n. 251 e Corte Cost. 17 dicembre 1987, n. 555.
89
dall’imprenditore e dai familiari interessati (contrariamente a quanto avviene ai
fini civilistici);
b) la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore deve recare l’indicazione delle quote
di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse
sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato
nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, durante il periodo d’imposta;
c) ciascun familiare deve attestare, nella propria dichiarazione, di avere prestato la
sua attività lavorativa nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
La normativa fiscale in questo caso è dettata con lo scopo di evitare che attraverso
la normativa disciplinate l’impresa familiare possa essere splittato il reddito
dall’imprenditore individuale per aggirare la progressività.
Gli utili dell’impresa sono determinati in ragione dell’eventuale differenza
positiva tra componenti positivi e negativi di reddito, deducendo previamente
l’eventuale compenso per i beni immessi nell’azienda dai partecipanti. L’incremento è,
invece, la risultante del confronto tra il valore dei beni aziendali al momento in cui il
familiare è entrato a far parte dell’impresa familiare ed il valore dei beni stessi al
momento del venir meno della partecipazione.
Quanto al regime fiscale delle somme ricevute per effetto del diritto patrimoniale
di partecipazione agli utili occorre tenere presente che, mentre per le società di persone,
il reddito della società è imputato ai soci secondo il principio della trasparenza, nel caso
delle imprese familiari non è un reddito d’impresa, imputato ai partecipanti come
reddito omogeneo, ma vi è netta separazione tra reddito dell’imprenditore e reddito dei
collaboratori.
Il reddito dell’impresa familiare viene ripartito tra titolare e collaboratori nel
periodo d’imposta in cui è conseguito. Il reddito del titolare costituisce reddito
d’impresa, quello dei collaboratori costituisce invece reddito di partecipazione. Il
criterio di riparto degli utili non vale per le perdite, perché, secondo le regole del codice
civile, i collaboratori non partecipano alle perdite.
6.2.2. La successione nell’impresa familiare
La successione nell’impresa familiare può chiaramente avvenire mediante un atto
inter vivos (ossia, una cessione) ovvero mediante successione. La cessione potrà essere
a titolo oneroso o gratuito.
Ai fini delle imposte dirette la successione nell’azienda per causa di morte ovvero
la cessione della stessa ai familiari a titolo gratuito non costituisce realizzo di
plusvalenza ai sensi dell’art. 58, comma 1, TUIR. L’azienda viene assunta ai medesimi
valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. La cessione, dunque, non
90
ha effetti realizzativi ed i beni si trasferiscono al beneficiario che prosegue l’attività in
regime di neutralità fiscale ai fini delle imposte sui redditi, senza quindi emersione di
plusvalenze o minusvalenze fiscalmente rilevanti29. L’esenzione spetta anche quando a
seguito dello scioglimento, entro cinque anni dall’apertura della successione, della
società esistente tra gli eredi, la predetta azienda resti acquisita da uno solo di essi.
Con riguardo a tale regime di esenzione vi sono tuttavia alcuni dubbi interpretativi
in ordine alla possibilità di ricomprendere nel regime agevolativo in esame anche la
cessione di quote di aziende. Al riguardo si propende per la soluzione negativa, posto
che la norma riguarda l’azienda nella sua globalità, in vista delle prosecuzione
dell’attività oggetto dell’azienda stessa da parte dei beneficiari. E’ da ricomprendere in
detto ambito, invece, il trasferimento di un ramo d’azienda, sempre che tecnicamente
organizzato ed idoneo a produrre autonomamente beni e servizi.
Per effetto del citato art. 58, comma 1, TUIR l’assoggettamento a tassazione, che
non avviene alla morte dell’imprenditore a all’atto di donazione, viene quindi rinviato al
momento dell’eventuale cessione dell’azienda da parte degli eredi o del donatario (a
terzi dunque).
Qualora il donatario o l’erede effettui una successiva cessione a titolo oneroso, il
trattamento fiscale della plusvalenza si differenzia a seconda che il soggetto cedente sia
o meno imprenditore al momento della cessione:
a) se il donatario o l’erede non ha esercitato l’attività d’impresa, la plusvalenza
realizzata dà luogo ad un reddito diverso che viene tassato con il criterio di cassa;
b) se il donatario o l’erede hanno continuato l’esercizio dell’attività d’impresa e,
quindi, riveste lo status di imprenditore al momento della cessione, la stessa dà
luogo ad una plusvalenza determinata ex art. 86 che concorre a formare il redito di
impresa con il criterio di competenza. In tal caso dovrebbe risultare applicabile,
laddove l’azienda sia posseduta da più di cinque anni, la tassazione separata ex art.
17 TUIR e, unicamente se il cedente continua a rivestire lo status di imprenditore
dopo la cessione, il differimento della plusvalenza ex art. 86, comma 4, TUIR30.
Ai fini delle imposte indirette, la cessione a titolo gratuito dell’azienda o la
successione mortis causa scontano l’imposta sulle successioni e donazioni.
Sono previste delle franchigie nelle seguenti misure:
a) nel caso del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto, per
ciascun beneficiario, vi è una franchigia fino a 1.000.000 di euro;
b) nel caso dei fratelli e delle sorelle sul valore complessivo netto, per ciascun
29
Confrontare in tal senso Circolare n. 91/E del 2001.
Ciò deriva da un principio basilare: il differimento della plusvalenza è agevolazione che compete
nell’ambito delle imprese; mentre il criterio del passare del tempo che agevola le plusvalenze vale per
tutti.
30
91
beneficiario, vi è una franchigia fino a 100.000 euro.
Sulla parte eccedente le suddette franchigie l’imposta si applica nella misura del
4% nelle successioni a favore del coniuge e dei parenti il linea retta ovvero nella misura
del 6% nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta
nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado.
Il valore dell’azienda trasferita deve essere calcolato assumendo il valore
complessivo dei beni e diritti che la compongono, al netto delle passività e senza tener
conto dell’avviamento.
Tuttavia, la Finanziaria per il 2007 ha disposto l’esenzione sia dall’imposta di
donazione che dall’imposta di successione per i trasferimenti aventi ad oggetto aziende,
quote sociali e azioni, realizzati a favore dei discendenti, se essi ne mantengono il
controllo o la gestione per almeno cinque anni. In tal caso l’azienda non è soggetta a
tassazione qualora gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa per un
periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo,
contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di
donazione, apposita dichiarazione in tal senso. Il mancato rispetto della condizione
comporta la decadenza del beneficio. Detta regola è valida anche nel caso in cui, a
seguito dello scioglimento della società esistente tra gli eredi, nei cinque anni
successivi all’apertura della successione, la predetta azienda resti acquisita da uno solo
di essi. In altre parole, nel caso in cui, a seguito della successione, sia stata costituita
una società tra eredi, il suo scioglimento entro cinque anni dalla morte dell’imprenditore
– con il conseguimento da parte di uno soltanto degli eredi (passaggio da società a ditta
individuale) - non genera reddito tassabile, a condizione che i beni trasferiti dalla società
alla ditta individuale abbiano gli stessi valori contabili.
In caso di trasferimento a titolo oneroso dell’azienda ad un familiare si applicano
le ordinarie regole di tassazione previste dal TUIR. Il regime fiscale ordinario delle
plusvalenze realizzate da un imprenditore, per effetto della cessione di una azienda è in
linea di principio quello della tassazione delle plusvalenze d’impresa. Dispone infatti
l’art. 86, comma 2, TUIR che “concorrono alla formazione del reddito anche le
plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente
mediante cessione a titolo oneroso”. Queste plusvalenze (pari alla differenza tra
corrispettivo e valore netto fiscale del complesso dei beni aziendali) di regola, sono
tassate per intero nell’anno in cui sono realizzate.
Tuttavia se i beni sono stati posseduti per un periodo non inferiore a tre anni, il
contribuente ha la facoltà di scelta tra tassazione immediata nell’esercizio del realizzo e
tassazione frazionata in più esercizi (ossia frazionata in quote costanti, nell’esercizio del
realizzo e nei successivi, non oltre il quarto). La tassazione immediata della plusvalenza
realizzata può essere conveniente quando compensa perdite di esercizio o perdite
92
pregresse. L’imprenditore può optare per la tassazione separata, se l’azienda è stata
posseduta per almeno cinque anni.
La tassazione della plusvalenza realizzata con la cessione di un’azienda può essere
evitata ricorrendo alla seguente operazione: conferimento dell’azienda in regime di
neutralità fiscale; iscrizione della partecipazione ricevuta come immobilizzazione;
cessione della partecipazione in regime pex.
6.3.
LE HOLDING E LE SOCIETÀ OPERATIVE
6.3.1. Cenni alla disciplina delle società di comodo
Le holding, per lo più qualificabili in sostanza come società di mero godimento,
impongono di affrontare il tema relativo alle società c.d. di comodo, verifica molto
importante ai fini del tax planing quando si deve decidere se interporre o meno un
veicolo societario (holding) per l’intestazione di uno o più assets a non alta redditività
(es. società immobiliari).
Quest’ultime sono società che conseguono e dichiarano ricavi inferiori ad un
determinato importo e per le quali il legislatore fiscale prevede la soggezione ad
imposta sulla base di un imponibile minimo presunto.
La normativa sulle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento
con l’art. 30 della L. 724/1994. La ratio che soggiace all’introduzione di una simile
disciplina è sicuramente antielusiva ed è ravvisabile nell’intento di arginare la nascita di
società ed enti aventi finalità di mera intestazione di patrimoni allo scopo di creare uno
schermo tra beni e reali proprietari, nonché, se del caso, fruire di vantaggi tributari non
spettanti alle persone fisiche.
Sotto il profilo soggettivo rientrano nell’ambito applicativo della disciplina in
esame tutte le società commerciali (società per azioni, società in accomandita per azioni,
società a responsabilità limitata, società in nome collettivo, società in accomandita
semplice e società ad esse equiparate, ovvero società ed enti di ogni tipo non residenti
con stabile organizzazione nel territorio dello Stato). Viceversa, la particolare disciplina
non si applica ai soggetti che si trovano nel primo periodo d’imposta, alle società in
amministrazione controllata o straordinaria, alle società ed enti i cui titoli sono negoziati
in mercati regolamentati italiani, ai soggetti cui per la particolare attività è stato fatto
obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali, alle società esercenti pubblici
servizi di trasporto e alle società con numero di soci pari o superiore a 100 (oggi per
effetto della Finanziaria 2008 superiore a 50).
93
Inoltre, la Finanziaria 2008 ha escluso l’applicabilità della nuova disciplina anche
per le società che nei due esercizi precedenti hanno avuto un numero di dipendenti pari
ad almeno 10 unità, società in stato di fallimento o assoggettate a procedure di
liquidazione giudiziaria, liquidazione coatta amministrativa o concordato preventivo,
società con redditività incontestabilmente significativa, società partecipate da enti
pubblici in misura non inferiore al 20% del capitale sociale e società che risultano
congrue e coerenti ai fini degli studi di settore. Una volta accertata la sussistenza del
requisito soggettivo, per individuare le società non “operative”, è necessario procedere
alla verifica del requisito oggettivo. A tal riguardo, la norma prevede una doppia
verifica (cd. test di operatività): una prima verifica va effettuata con riferimento ai
ricavi; solo se l’ammontare dei ricavi è inferiore a quelli minimi previsti dal legislatore
(determinati come percentuale del valore di alcuni aggregati dell’attivo dello stato
patrimoniale) occorre effettuare la seconda verifica che riguarda direttamente il reddito
risultante dalla ordinaria determinazione analitica rispetto al reddito minimo parimenti
determinato come percentuale (più bassa) degli stessi aggregati dell’attivo di cui sopra.
Solo se anche questa seconda verifica non è soddisfatta, la società si considera non
operativa con conseguente presunzione legislativa di determinazione del reddito nella
misura risultante dalle percentuali previste dal legislatore (e conseguente
disconoscimento di eventuali perdite fiscali d’esercizio).
I soggetti che non superano il test di operatività assumono la qualifica di società o ente
non operativo. Conseguentemente, esse devono provvedere alla determinazione del
reddito d’impresa sulla base di quanto previsto dall’art. 30, comma 3, della L. 724/1994
che dispone la presunzione secondo cui il reddito non può essere inferiore
all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione di talune
percentuali al valore dei beni posseduti:
a) 1,50% sul valore dei beni indicati all’art. 85, comma 1, lett. c), d) ed e) (tra cui
azioni, quote, strumenti finanziari similari alle azioni, obbligazioni e altri titoli in
serie o di massa;
b) 4,75% sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili;
c) 12% altre immobilizzazioni.
La dichiarazione del reddito nella misura fissata ex lege non cristallizza il potere di
accertamento dell’Agenzia dell’Entrate che è comunque legittimata alla rettifica della
dichiarazione a fronte di fattispecie di evasione che consentano di determinare un
imponibile più elevato rispetto a quello risultante dalla scheda dichiarativa predisposta
in conformità all’art. 30.
Al di là dei profili tecnico-applicativi, sui quali non vale la pena di soffermarsi, va
sottolineato come le percentuali richiamate costituiscano il frutto di scelte effettuate nel
contesto della predeterminazione normativa. Si tratta tuttavia di percentuali indimostrate
94
sul versante dell’id quod plerumque accidit e non necessariamente idonee ad esprimere,
secondo criteri di ragionevolezza, il reddito effettivamente prodotto dal soggetto non
operativo. In verità, rimangono inespresse le ragioni per le quali, ad esempio, il
possesso di un bene immobile dovrebbe direttamente tradursi nel possesso di un reddito
pari al 4,75% del valore del cespite, come se il suddetto reddito obbedisse, ad una legge
di stretta, immutabile derivazione dal patrimonio, con evidenti delimitazioni, oltretutto,
sul piano quantitativo.
A tale critica si potrebbe obiettare che l’art. 30, comma 3, non poggia affatto su di
un così rigoroso automatismo, perché il contribuente ha pur sempre il diritto di accedere
al procedimento di disapplicazione di cui parleremo tra poco. Tuttavia, quest’ultima
obbiezione presta il fianco ad una critica difficilmente sormontabile, se soltanto si
considera che, nella sede disapplicativa, è richiesta la dimostrazione di non meglio
precisate “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi”.
L’art. 30 L. 724/1994 costituisce una forma di presunzione che, come tale, tuttavia può
essere vinta dal contribuente fornendo la prova contraria. Tale prova contraria deve
essere presentata mediante la proposizione di un’istanza disapplicativa ad hoc. L’istanza
di disapplicazione può riguardare sia il profilo della non operatività della società o
dell’ente, sia quello del reddito minimo ascrivibile al soggetto passivo ai sensi dell’art.
30, comma 3, prima analizzato.
L’impressione che si ricava dall’art. 30 è nel senso che, ai fini della
disapplicazione, la società o l’ente non possa far leva su qualsivoglia situazione, ma
soltanto su fattispecie che non siano influenzate da scelte del contribuente. In ciò
starebbe, per l’appunto, il carattere di “oggettività” cui fa riferimento l’art. 30,
riscontrabile per l’appunto in situazioni reali, oggettive come ad esempio la crisi del
settore nel quale opera la società che ha reso impossibile il superamento del test.
Come già anticipato fornire la prova contraria per il contribuente sembra piuttosto
difficile anche perché la norma non offre indicazione in ordine alle modalità con cui
possono essere provate le “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il
conseguimento di ricavi”. L’art. 30, comma 4-bis, della L. 724/1994 non obbliga la
società o l’ente non operativo ad avviare il procedimento volto alla disapplicazione della
disciplina in esame. Invero, la richiamata disposizione prevede, testualmente, che la
società interessata “può richiedere” la suddetta disapplicazione, lasciando in questo
modo intendere che la scelta viene rimessa unicamente al soggetto passivo. La
determinazione di non avviare il citato provvedimento non dovrebbe essere di ostacolo
alla possibilità di fornire successivamente, in occasione di eventuale giudizio la c.d.
prova contraria. Tuttavia questa linea interpretativa non è stata condivisa
dall’Amministrazione finanziaria che ha invece abbracciato la tesi opposta secondo cui
la dimostrazione della impossibilità di conseguire i ricavi o di produrre il reddito
95
minimo può essere offerta unicamente in sede di interpello (Circolare n. 5/E del 2007).
96
CAPITOLO VII
7.1
I GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: IL CONSOLIDATO
NAZIONALE ED IL CONSOLIDATO MONDIALE
7.1.1. Aspetti fiscali del gruppo
La tassazione ordinaria delle società implica che ciascuna società è un soggetto a
sé, tenuta al pagamento dell’IRES sui suoi redditi. La distribuzione dei dividendi
comporta, per i soci, una tassazione ulteriore, in misura diversificata. Il diritto tributario
prende però in considerazione i gruppi di società (ossia società tra cui intercorrono
rapporti di controllo o di collegamento), per molteplici fini, adottando, volta per volta,
un’apposita definizione del rapporto di controllo. È infatti noto che non esiste una
nozione giuridica di gruppo, con validità generale, né in ambito civilistico, né in sede
fiscale. In ambito civilistico, la nozione di gruppo deve essere tratta dall’art. 2359 c.c.,
che definisce “società controllata”:
a) la società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili
nell’assemblea ordinaria (controllo interno di diritto);
b) la società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare
un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo interno di fatto);
c) quella che è sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari
vincoli contrattuali con essa (controllo esterno di fatto).
In ambito fiscale viene sovente richiamato l’art. 2359 cod. civ., soprattutto nelle
norme antielusive: ad esempio in materia di CFC e di transfer price. In altri casi,
tuttavia, viene adottata una nozione di gruppo più ristretta di quella civilistica. Ad
esempio, ai fini del consolidato, viene richiamato il solo controllo interno di diritto, con
ulteriori requisiti (in tema di partecipazione al capitale e agli utili), ed, inoltre, con
l’applicazione del demoltiplicatore (per effetto del quale, come vedremo, le società che
possono aderire al consolidato fiscale non sono tutte quelle che sono controllate
secondo l’art. 2359 c.c.).
Il legislatore fiscale adotta insomma una nozione ampia di gruppo al fine di
delimitare l’ambito di applicazione delle normative antielusive (come le CFC, il transfer
price); adotta, invece, nozioni ristrette in altre normative (ad esempio ai fini della non
applicazione del rimborso delle ritenute ex art. 27-bis DPR 600/1973 effettuate a società
97
figlie di altri Stati europei).
Ai gruppi è dato rilievo, sotto il profilo finanziario, dalla norma che consente il
trasferimento delle eccedenze (cioè dei diritti al rimborso derivanti da eccedenze di
quanto versato rispetto a quanto dovuto) nell’ambito dei gruppi di società. Ad esempio,
una società che chiuda l’esercizio in perdita ed abbia versato degli acconti, dei quali può
chiedere il rimborso, può trasferire le “eccedenze” ad una società in utile del medesimo
gruppo, che può compensare il diritto al rimborso - derivante dalle “eccedenze”
acquistate - con il proprio debito d’imposta.
Prima della riforma del 2003, vi erano altre due normative, ora abrogate, che
davano rilievo ai rapporti intersocietari. Una sorta di consolidamento tra utili e perdite
di società appartenenti allo stesso gruppo era costituita dalla facoltà (dei soci) di
svalutare le partecipazioni a fronte delle perdite della società partecipata. Le perdite
avevano così indirettamente rilievo nel patrimonio della partecipante. La riforma,
introducendo il sistema della participation exemption, ha tuttavia eliminato tale facoltà.
In secondo luogo, veniva data rilevanza alla coordinazione della tassazione del
socio e della società partecipata attraverso il sistema del credito d’imposta. Con tale
sistema, l’imposta assolta dalla società partecipata, che distribuiva dividendi, generava
una credito d’imposta per il socio, che compensava tale credito con l’imposta dovuta sul
suo reddito. Il socio in perdita poteva chiedere il rimborso del credito d’imposta che gli
era stato attribuito con i dividendi. In tal modo, in definitiva, il socio in perdita
recuperava le imposte assolte dalla partecipata, realizzando così una forma di
consolidamento tra perdite e utili del gruppo.
La riforma, introducendo la participation exemption, ha eliminato sia la facoltà di
svalutare le partecipazioni, sia il credito d’imposta, ma ha introdotto, dal 2004, due
sistemi peculiari di tassazione, che rimediano sia all’abolizione del credito d’imposta,
sia alla indeducibilità delle riduzioni di valore delle partecipazioni.
In alternativa alla tassazione distinta di ciascuna società, i gruppi possono oggi optare
per il consolidato, con notevoli vantaggi, tra cui l’esclusione da imposta dei dividendi in
modo integrale e l’utilizzo immediato delle perdite. Se non sussistono le condizioni del
consolidato, l’altra opzione che consente di evitare taluni aspetti negativi della
tassazione ordinaria è il regime di trasparenza, che pure comporta la non tassazione dei
dividendi e l’utilizzo immediato delle perdite.
7.1.2. Il consolidato nazionale
98
Uno strumento fiscale largamente utilizzato da gruppi in sede di pianificazione
fiscale è il consolidato fiscale.
Si tratta di un istituto relativamente recente, introdotto dalla Riforma Tremonti del
2003 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2004. In estrema sintesi il consolidato,
disciplinato dagli artt. 117 a 129 del TUIR, consente su opzione facoltativa delle singole
società che vi partecipano, di determinare in capo alla controllante un’unica base
imponibile, corrispondente alla somma algebrica degli imponibili delle società
partecipanti. Va notato, in via preliminare, che la tassazione unitaria del gruppo postula
che il gruppo sia un’unità economica; giuridicamente, peraltro, il gruppo non è un
soggetto giuridico unico: le diverse società che lo compongono conservano la loro
soggettività, sia ai fini della determinazione del reddito, sia ai fini della responsabilità.
In secondo luogo, il consolidato fiscale non è una forma di tassazione fondata sul
bilancio consolidato; non si ha dunque un utilizzo fiscale del consolidato civilistico,
simile al rilievo attribuito al bilancio d’esercizio nella determinazione del reddito
d’impresa.
Il consolidato fiscale è radicalmente diverso dal consolidato civilistico. Infatti, il
consolidato civilistico è un bilancio nel quale la pluralità delle società è rappresentata
come un soggetto unitario; le poste di bilancio relative ai rapporti interni di gruppo sono
elise ed i patrimoni netti sono integrati; il risultato finale è un bilancio che rappresenta
la pluralità di soggetti che compongono il gruppo come un soggetto unitario, con un
solo patrimonio ed un solo reddito.
Invece, nel consolidato fiscale, ferma restando la rilevanza dei rapporti tra società
del gruppo, si sommano algebricamente i risultati fiscali conseguiti da ciascuna società.
Si calcola il reddito di ciascuna società, secondo le norme ordinarie, compresa la
capogruppo; quest’ultima somma algebricamente al suo risultato reddituale quello delle
singole società del gruppo, apportando a tale somma le “rettifiche di consolidamento”.
Si ottiene così il “reddito complessivo globale”, che è dunque il risultato della
somma dei “redditi complessivi netti” di ciascuna società (ossia dei risultati delle
dichiarazioni dei redditi di ciascuna società). Il consolidato comporta, oltre
all’unificazione dei risultati reddituali di ciascuna società, altri effetti, da cui
scaturiscono le “rettifiche di consolidamento”, che devono essere effettuate dalla
capogruppo in sede di dichiarazione.
Sul piano procedurale, ciascuna società deve dunque redigere la propria
dichiarazione dei redditi, da presentare, oltre che al fisco, alla capogruppo, che dopo
aver redatto la propria dichiarazione, dovrà redigere e presentare al fisco la
dichiarazione del gruppo, avente per oggetto il “reddito complessivo globale”.
Alla controllante è dunque riferito il risultato globale, positivo o negativo, del
gruppo. Dal risultato positivo del gruppo scaturisce un unico debito, di cui è
99
responsabile, per l’intero importo, la controllante. Le società controllate sono invece
responsabili solo per la parte del debito globale che è da collegare al loro reddito
individuale. Alla controllante spetta “la liquidazione dell’unica imposta dovuta o
dell’unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo”; se il risultato globale è
negativo, alla controllante “compete il riporto a nuovo della eventuale perdita risultante
dalla somma algebrica degli imponibili” .
L’opzione per il consolidato presenta natura bilaterale, dovendo essere esercitata
congiuntamente da ciascuna società controllata e dall’ente o società controllante. In tal
modo, all’interno del medesimo gruppo, potranno aversi tante opzioni a coppia quante
sono le società controllate che esercitano la facoltà. Nell’ambito di un medesimo gruppo
societario possono essere individuate diverse aree e livelli di consolidamento: in
relazione a ciascuno di essi, peraltro, si avrà un unico consolidato, essendo unico il
soggetto che al suo interno agisce in veste di consolidante. Ai sensi dell’art. 117,
comma 1, TUIR sono ammessi a partecipare alla tassazione di gruppo le società e gli
enti commerciali residenti fra i quali esista un rapporto di controllo. Le società di
capitali residenti possono optare tanto in veste di consolidanti, quanto in veste di
consolidate. Le società cooperative, gli enti commerciali residenti e, a certe condizioni,
le società non residenti possono invece optare solo in qualità di consolidanti. In
particolare le società non residenti possono optare se (i) sono residenti in paesi con cui è
in vigore un accordo contro le doppie imposizioni, che consenta anche lo scambio di
informazioni o se (ii) svolgono nel territorio dello Stato un’attività d’impresa mediante
stabile organizzazione, nei confronti della quale sussista un’effettiva connessione tra
l’attività d’impresa da quest’ultima esercitata e le partecipazioni nelle società controllate
residenti che si intende includere nel consolidato.
L’opzione è vietata alle società che fruiscono della riduzione dell’aliquota IRES, a
quelle sottoposte a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa, a quelle che hanno
optato, in qualità di partecipate, per la tassazione per trasparenza ed, inoltre, ma solo in
qualità di consolidate, per quelle che hanno optato (come consolidanti) per il
consolidato mondiale.
Tra le società che esercitano l’opzione deve sussistere, fin dall’inizio di ogni
esercizio in cui ci si avvale della stessa, il rapporto di cui all’art. 2359 c.c., comma 1, n,
1 c.c., occorre, cioè, che la consolidante disponga, direttamente o indirettamente
(tramite controllate ex art. 2359, comma 2) della maggioranza dei voti esercitabili
nell’assemblea ordinaria della consolidata.
L’esercizio dell’opzione per la tassazione di gruppo esige, a pena di
inammissibilità, il possesso di una “partecipazione rilevante”, ossia espressiva di un
rapporto di controllo con i requisiti previsti dagli articoli 117 e 120 del TUIR. La
partecipazione si considera rilevante agli effetti dell’opzione quando, congiuntamente:
100
a)
esiste un rapporto di controllo di diritto, nel senso precisato dall’articolo 2359,
comma 1, n. 1) c.c.;
b) viene superata la soglia di partecipazione del 50% tanto in relazione al capitale
sociale quanto agli utili di bilancio della società controllata di diritto ai sensi
dell’appena citato articolo 2359, c. 1, n. 1). Per l’art. 2359, comma 2, c.c. ai fini
dell’applicazione del ricordato comma 1, n. 1, i voti posseduti dalle controllate
intermedie si sommano a quelli (eventualmente) posseduti dalla controllante, si
reputano cioè voti della controllante. Differente è l’approccio della normativa in esame,
la quale, impone di considerare la demoltiplicazione prodotta dalla catena societaria di
controllo. In ragione del demoltiplicatore: se la società Alfa detenesse una
partecipazione dell’80% nella società Beta e questa a sua volta detenesse una
partecipazione del 70% nella società Gamma, Alfa deterrebbe in Gamma una
partecipazione del 56% e potrebbe consolidare sia Beta che Gamma; se la società Alfa
detenesse una partecipazione del 70% nella società Beta e questa a sua volta detenesse
una partecipazione del 70% nella società Gamma, Alfa deterrebbe in Gamma una
partecipazione del 49% e potrebbe dunque consolidare solo Beta.
Ai sensi dell’art. 119 DEL TUIR l’opzione deve essere esercitata congiuntamente
dalla consolidante e dalla consolidata, ed è irrevocabile per almeno un periodo di tre
anni.
Perché le opzioni siano efficaci, occorre inoltre:
a) l’identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della
società o ente controllante;
b) l’elezione di domicilio da parte di ciascuna controllata presso la società o ente
controllante ai fini della notifica degli atti e provvedimenti relativi ai periodi
d’imposta per i quali è esercitata l’opzione. L’elezione di domicilio sopravvive
alla cessazione del regime: è infatti irrevocabile fino al termine del periodo di
decadenza dell’azione di accertamento;
c) la comunicazione dell’opzione all’Agenzia delle entrate entro il ventunesimo
giorno (Finanziaria 2008 ha previsto tale comunicazione entro il sedicesimo
giorno) del sesto mese successivo alla chiusura del primo esercizio cui si riferisce
l’opzione. Gli effetti dell’opzione sono:imputazione dei redditi e delle perdite in
proporzione alla quota di partecipazione demoltiplicata;
b) la quota di partecipazione agli utili è considerata alla data di chiusura
dell’esercizio della società non residente o, se maggiore, alla data di approvazione
o revisione del bilancio relativo;
c) si sommano le quote di partecipazioni detenute tramite una o più controllate
residenti purché consolidate integralmente.
L’opzione per il consolidato non altera la disciplina del calcolo del reddito delle
101
singole società partecipanti (consolidante e consolidata). Occorre quindi prima calcolare
il reddito delle singole società consolidate. Dopodichè si acquisisce, con le dichiarazioni
delle singole consolidate, la conoscenza dei redditi di quest’ultime. La consolidante
deve quindi determinare il reddito imponibile di gruppo, in primo luogo, ai sensi
dell’art. 118, comma 1, TUIR sommando algebricamente e per l’intero importo
(indipendentemente, cioè, dalla quota di partecipazione ad esse riferibile) i redditi e le
perdite di tutte le partecipanti.
Tuttavia, in forza dell’art. 118, comma 2, le eventuali perdite (delle singole
società) relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo non possono
essere messe in comune, e quindi scomputate dal reddito di gruppo, devono invece
essere utilizzate dalla società (consolidata o consolidante) che le ha conseguite, al fine
di dedurle dal proprio reddito. Evidente la funzione antielusiva di questa regola, la quale
serve ad impedire l’acquisto di partecipazioni di società in perdita al solo scopo di
utilizzarne le perdite fiscalmente riconosciute per compensare gli utili di gruppo,
mediante opzione per il consolidato.
Una volta determinata la base imponibile consolidata, la consolidante deve
presentare la dichiarazione dei redditi di gruppo. In base all’art. 118, comma 1, TUIR il
riporto a nuovo della perdita risultante dalla somma degli imponibili e la liquidazione
dell’unica imposta dovuta o dell’unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo
competono alla sola consolidante, sulla quale gravano inoltre gli obblighi di versamento
a saldo e in acconto relativi alla predetta imposta. Nella determinazione dell’imposta
dovuta, alla consolidante spetta lo scomputo delle ritenute, delle detrazioni e dei crediti
d’imposta di tutte le società aderenti al consolidato, nonché degli eventuali acconti
autonomamente versati dalle stesse.Il consolidato può essere interrotto per la perdita del
controllo (in caso di cessione di partecipazioni o per l’ingresso di nuovi soci), per la
perdita dei requisiti soggettivi (in caso di trasformazione in società di persone o
liquidazione coatta amministrativa) o per l’attuazione di determinate operazioni
straordinarie (incorporazione della consolidante o della consolidata in una società non
aderente al consolidato, la scissione totale della consolidante). Questa disomogeneità si
riflette anzitutto in una diversa incidenza sul regime. In alcune ipotesi, infatti,
nonostante l’evento interruttivo, il regime del consolidato continua su semplice opzione
(è il caso della consolidante che opta, come consolidata con altra società, quando tutte
le società aderenti al consolidato della prima optano per il consolidato con la seconda).
In altre continua se, interpellata, l’Amministrazione Finanziaria acconsente (ad esempio
nel predetto caso di incorporazione della consolidante).
7.1.3. Il consolidato mondiale
102
Il consolidato mondiale è attualmente previsto dai sistemi tributari di Danimarca e
Francia; la disciplina del consolidato mondiale introdotta dalla riforma recata dal D.
Lgs. 344/2003 è sostanzialmente ispirata al modello francese.
Va subito notata la fondamentale differenza tra consolidato nazionale e mondiale.
Il primo comporta la tassazione unitaria di più società residenti, ossia di più soggetti
passivi d’imposta. Il consolidato mondiale, invece, concerne la tassazione di un solo
soggetto (la controllante residente), e consiste sostanzialmente in una modalità di
tassazione dei redditi delle controllate estere, imputabili alla controllante residente.
L’opzione per il consolidato mondiale comporta infatti l’imputazione proporzionale alla
controllante dei redditi (e delle perdite) di tutte le controllate non residenti (all in, all
out), per un periodo non inferiore a cinque esercizi (i successivi rinnovi vincolano per
almeno tre esercizi).
Al soggetto residente non può che imputarsi una quota del reddito della società
estera: non avrebbe alcun fondamento tassare, presso la controllante residente, una
quota di reddito delle controllate superiore alla frazione riferibile alla controllante, in
base alla partecipazione posseduta.
Questo sistema di tassazione presenta dunque, al tempo stesso, vantaggi e
svantaggi. Il lato positivo è dato dalla compensabilità delle perdite fiscali delle società
controllate non residenti con i redditi imponibili delle società residenti. D’altro canto,
però, divengono immediatamente tassabili in Italia, per imputazione (alla controllante),
gli utili delle controllate non residenti (e questo sistema è meno conveniente rispetto ad
altri regimi già operanti, come quello della Direttiva “madre-figlia”).
L’ente controllante, che può optare per il consolidato mondiale, deve essere una
società di capitali o un ente commerciale residente in Italia, e dev’essere la società di
“più alto livello” della catena di controllo.
La controllante può comunque optare per il consolidato mondiale:
a) se è una società con titoli quotati in Borsa (in tal caso, è comunque “primo anello”
della catena, anche se controllata da altro soggetto residente);
b) se è controllata dallo Stato, o da una persona fisica residente che non controlla
altra società.
Il requisito del controllo sussiste quando l’ente residente possiede, direttamente o
indirettamente, una quota di partecipazione nel capitale della società non residente
superiore ad una “soglia percentuale di rilevanza”, pari al 50%, tenendo in
considerazione l’effetto “demoltiplicativo” della catena di controllo. Il requisito in
parola deve sussistere al termine dell’esercizio della controllante (art. 135, comma 2),
ma è fatta salva la facoltà di escludere dal consolidamento il reddito delle società estere
che siano divenute “controllate” nei sei mesi antecedenti la chiusura dell’esercizio della
controllante.
103
L’opzione per il consolidato mondiale, che deve essere esercitata unicamente da
parte della società o ente controllante residente di grado più elevato, è efficace se
sussistono le seguenti condizioni:
a) ha per oggetto tutte le controllate non residenti (all in, all out);
b) identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della
controllante;
c) revisione dei bilanci di tutte le società del gruppo;
d) attestazione delle controllate da cui risulti il consenso alla revisione del proprio
bilancio e l’impegno a fornire al soggetto controllante la collaborazione necessaria
per la determinazione dell’imponibile e per adempiere entro un periodo non
superiore a 60 giorni dalla loro notifica alle richieste dell’Amministrazione
finanziaria.
Inoltre, è necessario che la controllante interpelli l’Agenzia delle entrate, affinché
si pronunci sulla sussistenza dei requisiti per il valido esercizio dell’opzione.
Il risultato reddituale (utile o perdita) delle società non residenti, da includere
proporzionalmente nell’imponibile della controllante, deve essere determinato con il
“metodo extracontabile” già previsto per le CFC, applicando le disposizioni vigenti in
Italia in materia di IRES. Devono poi essere effettuate alcune “rettifiche di
consolidamento” (ad esempio, in materia di dividendi infragruppo, componenti negativi
deducibili, perdite su cambi relative a finanziamenti, cessioni infragruppo di beni
strumentali, ecc.).
Per evitare effetti di doppia imposizione, sono detraibili le imposte pagate
all’estero dalle società controllate, con le seguenti regole:
a) concorso prioritario dei redditi prodotti all’estero alla formazione del reddito
imponibile;
b) computo delle imposte detraibili effettuato separatamente per ciascuna società
estera (e non per ciascuno Stato estero);
c) riporto nel tempo del credito per imposte pagate all’estero inutilizzato
nell’esercizio di competenza.
104
CAPITOLO VIII
8.1.1 LE OPERAZIONI DI FUSIONE, SCISSIONE, TRASFORMAZIONE E
CONFERIMENTO
8.1.1 La fusione
La fusione è disciplina dall’art. 2501 c.c. ai sensi del quale tale operazione può
avvenire “mediante la costituzione di una società nuova o mediante l’incorporazione in
una società di una o più altre”.
La società che risulta dalla fusione, o la società incorporante, subentra in tutte le
situazioni giuridiche che facevano capo alle società fuse o alla società incorporata. AI
fini fiscali ciò vale sia per le situazioni giuridiche sostanziali, tra cui quelle relative alle
imposte sui redditi (ad esempio le imposte non assolte dalla incorporata dovranno essere
pagate dall’incorporante), sia per le situazioni giuridiche formali (ad esempio l’avviso di
rettifica della dichiarazione dell’incorporata dovrà essere emesso nei confronti
dell’incorporante).
Nel disciplinare le conseguenze della fusione l’art. 172 del TUIR esordisce
disponendo che questa operazione “non costituisce realizzo né distribuzione delle
plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporante, comprese quelle
relative alle rimanenze e il valore dell’avviamento”. Questa disposizione riflette l’idea
di fondo che poiché la fusione interessa solo l’organizzazione patrimoniale e societaria
dei soggetti d’imposta ma non la loro gestione è un evento fiscalmente neutro ai fini
reddituali. L’art. 172 definisce dunque la fusione come un’operazione neutrale dove
neutralità significa continuità dei valori fiscalmente riconosciuti rispetto a quelli
anteriori alla fusione. In parole povere la società incorporante o risultante dalla fusione
unifica le proprie voci contabili con quelle provenienti dalla società incorporata o fusa,
utilizzando gli stessi valori che erano riconosciuti in capo a quest’ultima.
La neutralità della fusione riguarda sia la società che i soci. Con riguardo alla
società la neutralità incide su:
a) le plusvalenze e minusvalenze insite nel patrimonio della società incorporata o
fusa: spesso nel patrimonio della società incorporata o fusa possono esservi beni il
cui valore reale è diverso da quello contabile e fiscalmente riconosciuto. Possono
esservi, quindi, plusvalenze o minusvalenze latenti in quanto il valore contabile di
un bene è dato dal costo non ammortizzato e il valore reale può essere superiore,
105
b)
perché il bene si è rivalutato o è inferiore se si è deprezzato più di quanto
computato con gli ammortamenti. In genere le plusvalenze latenti diventano
tassabili e le minusvalenze deducibili, se si realizzano determinati eventi ma la
fusione è irrilevante a tali fini perché “non costituisce realizzo né distribuzione
delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate,
comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”;
le differenze di fusioni (avanzi e disavanzi): gli avanzi e disavanzi di fusione
possono essere da concambio e da annullamento delle partecipazioni. L’avanzo e
disavanzo da concambio si verifica nell’ipotesi in cui l’incorporante non possiede
le partecipazioni nell’incorporata e deve perciò attribuire ai soci dell’incorporata
proprie azioni o quote. Questa sostituzione di azioni o quote è denominata
“concambio”. Tale espressione sottintende il rapporto numerico in base al quale,
per ogni quantitativo di azioni dell’incorporata, viene attribuito al socio un certo
numero di azioni dell’incorporante. Tale operazione di solito avviene aumentando
il capitale dell’incorporante: quando l’aumento di capitale dell’incorporante risulta
inferiore al patrimonio netto dell’incorporata si avrà un avanzo di fusione che sarà
escluso da qualsiasi imposizione per la società, quando, invece, l’aumento di
capitale dell’incorporante è maggiore del patrimonio netto dell’incorporata si ha
un disavanzo che per la società non è fiscalmente utilizzabile né a titolo di perdita
né attraverso rivalutazioni dell’attivo. L’avanzo e disavanzo da annullamento di
partecipazioni si verifica quando l’incorporante possiede le partecipazioni
nell’incorporata e quindi non vi è bisogno dell’operazione di concambio. Invece di
aumentare il proprio capitale l’incorporante deve annullare le partecipazioni
nell’incorporata che si trovano già nel proprio attivo patrimoniale. Nelle scritture
contabili e nel bilancio dell’incorporante le attività dell’incorporata prendono il
posto della partecipazione annullata. Il valore contabile delle attività
dell’incorporata è però di solito diverso da quello della partecipazione annullata e
ciò provoca le differenza cui viene dato il nome di disavanzi o avanzi da
annullamento. In particolare si ha avanzo di fusione se il patrimonio netto
contabile dell’incorporata è superiore al valore fiscalmente riconosciuto della
partecipazione. Tale eventuale avanzo è espressamente considerato intassabile. Per
esempio, si ipotizzi una società Alfa, il cui patrimonio sia costituito da un
immobile avente valore contabile e fiscale di cento; le azioni di Alfa sono
possedute da Beta che le ha acquistate per cinquanta. Si procede
all’incorporazione; Beta annulla le azioni (valore 50) ed iscrive il patrimonio
dell’incorporata (100) con un avanzo di cinquanta. Il disavanzo che costituisce
un’ipotesi più frequente nella prassi in quanto di solito il prezzo di acquisto della
partecipazione eccede il patrimonio netto cantabile della partecipata, può essere
106
iscritto in contabilità e in bilancio. A fronte di tale disavanzo è consentito
effettuare rivalutazioni, che non saranno però fiscalmente riconosciute, ed i
relativi cespiti continuano ad essere fiscalmente valutati in base a valori
precedenti, con divergenze tra valori contabili e fiscali.
Come abbiamo visto, dunque, la fusione è fiscalmente neutra con riguardo alle
differenze di fusione, in un duplice senso:
a) nel senso che avanzi e disavanzi di fusione non hanno rilievo reddituale;
b) nel senso che il disavanzo da annullamento può essere utilizzato per rivalutare
civilisticamente, ma non anche fiscalmente, i beni della società fusa o incorporata,
nel bilancio della società incorporante o risultante dalla fusione.
La fusione è un’operazione fiscalmente neutra anche per i soci: le partecipazioni
dei soci delle società fuse o incorporate sono annullate e sostituite con partecipazioni
della società risultante dalla fusione o incorporante, e il concambio avviene in base al
rapporto calcolato nel progetto di fusione. Tale concambio non rientra nelle ipotesi alla
quali la legge ricollega il realizzo di plusvalenza tassabili: esso configura, infatti, una
semplice sostituzione di titoli, per cui il legislatore ha previsto che “il cambio delle
partecipazioni originarie non costituisce né realizzo né distribuzione di plusvalenze o
minusvalenze, né conseguimento di ricavi per i soci della società risultante dalla
fusione o incorporante” (art. 172, comma 3, del TUIR).
E tassabile solamente il conguaglio in denaro pagato ai soci in occasione del
concambio (tassazione come reddito di capitale delle somme ricevute che eccedono il
costo della partecipazione annullata).
Tra le situazioni soggettive che vengono acquisite dalla società incorporante (o
comunque risultante dalla fusione), vi è il diritto di “riportare a nuovo” le perdite subite
dalla società incorporata.
Che le perdite di una società siano “computate” dalla società che le realizza, o da
altra società, che la incorpora, appare indifferente, se la fusione ha comportato la
unificazione di due apparati produttivi. Il riporto delle perdite pregresse di una delle
società fuse o incorporate da parte della nuova società non ha nulla di eccepibile quando
la fusione è stata posta in essere per la causa giuridica che la contraddistingue, ed ha
realizzato una razionale riorganizzazione di più apparati produttivi. L’operazione appare
invece strumentale ad un risultato di pura elusione fiscale quando una società non viene
fusa o incorporata per il suo valore economico produttivo, ma solo in quanto portatrice
di un “beneficio fiscale”.
Il legislatore, perciò, limita tale diritto per scopi antielusivi, ossia per arginare il
fenomeno di fusioni, non attuate per fini economico-produttivi, ma al solo scopo di
permettere all’incorporante di utilizzare le perdite dell’incorporata. I limiti al riporto
delle perdite sono i seguenti:
107
a)
il primo limite è di carattere quantitativo: le perdite riportabili non possono essere
superiori nè al patrimonio netto della società incorporata, né a quello della
incorporante, risultante dall’ultimo bilancio o dalla situazione patrimoniale di cui
all’art. 2501-quater c.c.; nel determinare il patrimonio netto di riferimento non si
tiene conto dei conferimenti e dei versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi
anteriori alla data cui si riferisce la situazione patrimoniale;
b) il secondo limite condiziona la stessa possibilità di riportare a nuovo le perdite: la
legge richiede che nel conto economico della società le cui perdite sono riportabili,
relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata risulti
un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle
spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, superiore al 40%
della media dei 2 esercizi precedenti. Tale previsione mira ad impedire
l’incorporazione di società inattive;
c) il terzo limite riguarda le società che, prima di procedere all’incorporazione,
abbiano svalutato la partecipazione nell’incorporanda. Per impedire
all’incorporante di sommare alla svalutazione dei titoli della società incorporata il
riporto delle perdite, la legge vieta il riporto (delle perdite) fino a concorrenza
dell’importo della svalutazione operata dalla società incorporante.
Infine con riguardo alla fusione occorre ricordare che il subentro dell’incorporante
nelle situazioni tributarie dell’incorporata riguarda anche le riserve in sospensione
d’imposta: all’incorporante passa il “debito fiscale potenziale” ad esse collegato.
Vanno però distinte due categorie di riserve: quelle tassabili per qualunque
utilizzo; quelle tassabili solo in caso di distribuzione. In linea generale, le riserve “in
sospensione” devono essere ricostituite; se la società subentrante non le ricostituisce nel
suo bilancio, diventano tassabili. La ricostituzione, presso l’incorporante, delle riserve
in sospensione d’imposta equivale alla iscrizione di un debito; ne deriva, quindi,
riduzione dell’avanzo o incremento del disavanzo.
Gli effetti fiscali della fusione, di regola, coincidono temporalmente con quelli
civilistici, ma l’art. 172, comma 9, ammette che l’atto di fusione possa prevedere che
l’operazione abbia effetti retroattivi ai fini fiscali, risalendo al momento in cui si è
chiuso l’ultimo esercizio della società incorporata o, se più prossima, alla data in cui si è
chiuso l’esercizio della incorporante. La retrodatazione è utile per semplificare gli
adempimenti contabili e fiscali connesse all’operazione, perché impedisce che assuma
valore di autonomo periodo d’imposta, per l’incorporata, l’intervallo di tempo che va
dall’inizio del periodo d’imposta, in cui avviene la fusione, alla data in cui ha effetto, ai
fini civilistici, l’atto di fusione.
Con la retrodatazione, gli effetti possono retroagire in modo da comprendere, sin
dall’inizio, il periodo d’imposta in corso per l’incorporante al momento della fusione;
108
tale periodo viene frazionato e i relativi effetti vengono imputati per intero, ai fini
dell’imposizione sui redditi, all’incorporante (fermi restando gli adempimenti già
compiuti dall’incorporata).
La retrodatazione opera ex nunc: fermi gli adempimenti già posti in essere dalla
incorporata la retrodatazione implica soltanto che le conseguenza reddituali dei fatti di
quel periodo sono imputate all’incorporante. La retroattività non è dunque assoluta,
perché non viene cancellata retroattivamente la soggettività tributaria della incorporata,
ma è relativa, perché attiene soltanto all’imputazione soggettiva dei fatto reddituali del
periodo considerato.
In ultimo, sempre con riguardo alla fusione, si fa presente che recentemente la
Finanziaria 2008 ha previsto la possibilità di applicare alla fusione il regime
dell’imposta sostitutiva di cui al comma 2-ter dell’articolo 176 (che disciplina
l’operazione di conferimento). Tale disposizione prevede la possibilità di optare nella
dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso del quale è stata posta in essere
l’operazione o, al più tardi, in quella del periodo d’imposta successivo, per
l’applicazione, in tutto o in parte, sui maggiori valori attribuiti in bilancio agli elementi
dell’attivo costituenti immobilizzazioni materiali e immateriali, di un’imposta
sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dell’imposta sul reddito delle
società e dell’imposta regionale sulle attività produttive, con aliquota del 12 per cento
sulla parte dei maggiori valori ricompresi nel limite di 5 milioni di euro, del 14 per
cento sulla parte dei maggiori valori che eccede 5 milioni di euro e fino a 10 milioni di
euro e del 16 per cento sulla parte dei maggiori valori che eccede i 10 milioni di euro. I
maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva si considerano riconosciuti ai fini
dell’ammortamento a partire dal periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata
l’opzione; in caso di realizzo dei beni anteriormente al quarto periodo d’imposta
successivo a quello dell’opzione, il costo fiscale è ridotto dei maggiori valori
assoggettati a imposta sostitutiva e dell’eventuale maggior ammortamento dedotto e
l’imposta sostitutiva versata è scomputata dall’imposta sui redditi ai sensi degli articoli
22 e 79. L’imposta sostitutiva può essere rateizzata in tre importi annuali, il primo pari
al 30% e i secondi due pari al 40% del totale.
8.1.2 La scissione
Ai sensi dell’art. 2506 c.c. si ha la scissione quando “una società assegna l’intero
suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo
patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote ai suoi
soci”.
109
La scissione è dunque un fenomeno inverso alla fusione e può avvenire in due
modi:
a) scissione totale: che avviene in caso di trasferimento dell’intero patrimonio di una
società ad altre società (due o più), preesistenti o di nuova costituzione; le società,
in cambio di ciò che ricevono dalla società scissa, non danno nulla a tale società
ma assegnano proprie azioni ai soci della società scissa;
b) scissione parziale: che interviene nell’ipotesi di trasferimento di parte del
patrimonio di una società (Alfa), che permane, ad una o più società (Beta e
Gamma), con assegnazione ai soci di Alfa di azioni di Beta e Gamma.
La differenza fondamentale, tra le due forme di scissione, è che nel primo caso la
società scissa diventa un guscio vuoto, in quanto non possedendo nulla è destinata ad
estinguersi, mentre nel secondo caso è solo impoverita e, quindi, non si estingue.
Per tali ragioni, in caso di scissione totale, le posizioni soggettive che facevano
capo alla società scissa passano tutte alla società beneficiaria, mentre, nel caso di
scissione parziale, le posizione soggettive della società scissa si dividono e sono
trasferite solo in parte.
Dal punto di vista fiscale, la disciplina della scissione presenta notevoli affinità, di
problemi e di soluzioni, con la fusione. Secondo il disposto dell’art. 173, comma 1, del
TUIR anche la scissione, come la fusione, non determina il realizzo o altro evento che
attribuisca rilevanza fiscale alle plusvalenze e minusvalenze latenti nei beni della
società scissa che sono trasferiti.
Per tale disposizioni valgono gran parte delle considerazioni svolte a proposito
della fusione. Tra scissa e beneficiaria si riallaccia infatti un rapporto di continuità non
dissimile a quello che intercorre tra incorporata ed incorporante, se non proprio
sull’identità soggettiva, sul perpetuarsi nelle società derivanti dall’operazione degli
elementi costitutivi (patrimonio e compagine sociale) delle società partecipanti.
In particolare, per quel che riguarda le plusvalenze, il trasferimento (totale o
parziale) del patrimonio della società scissa alle società beneficiarie avviene senza
corrispettivo; non vi sono, pertanto, i presupposti per la tassabilità, a carico della società
scissa, delle plusvalenze latenti nei beni trasferiti. Né vi sono, per le stesse ragioni, i
presupposti per considerare rilevanti le minusvalenze che emergono. Ciò trova espresso
riconoscimento nell’art. 173, comma 2, ove si afferma l’irrilevanza fiscale dei maggiori
valori iscritti nel bilancio delle società beneficiarie per effetto dell’imputazione del
disavanzo, a condizione che i divergenti valori civilistici e fiscali siano annotanti in un
“prospetto di riconciliazione” da allegare alla dichiarazione dei redditi.
Anche la scissione, come la fusione, è un’operazione fiscalmente neutra per i soci:
la sostituzione delle partecipazioni sociali non costituisce né realizzo né distribuzione di
plusvalenze o di minusvalenze o di ricavi, salva la tassabilità del conguaglio (per la
110
parte fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 47, comma 7, del TUIR).
Va rilevato che, nella scissione, l’attribuzione ai soci della scissa delle
partecipazioni nelle società beneficiarie non è inevitabilmente connessa – come nella
fusione – all’annullamento (anche soltanto parziale) della partecipazione originaria. Nel
caso di scissione parziale potrebbe infatti accadere che il capitale della scissa non venga
toccato e che l’esubero delle attività rispetto alle passività attribuite alla beneficiaria
venga integralmente imputato alle riserve.
Questa ipotesi deve essere assimilata ad un' operazione di passaggio di riserve a
capitale attuata dalla scissa medesima, sicché l'irrilevanza ai fini impositivi della
fattispecie dell' assegnazione di partecipazioni non sostitutive di quelle originarie - se
non ricavabile direttamente dalla disposizione da ultimo citata - può essere sostenuta
attraverso l'applicazione analogica dell' art. 47, comma 6, il quale esclude che (per i soci
che le ricevono) costituiscano utili le azioni gratuite emesse in caso di aumento del
capitale mediante imputazione di riserve ed altri fondi.
Anche la scissione, come la fusione, è un’operazione fiscalmente neutra per i soci:
la sostituzione delle partecipazioni sociali non costituisce nè realizzo nè distribuzione di
plusvalenze o di minusvalenze o di ricavi, salva la tassabilità del conguaglio (per la
parte fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 47, comma 7).
Possono darsi, anche a seguito della scissione, avanzi e disavanzi; essi risultano
dal confronto, presso le società beneficiarie, tra aumento di capitale disposto dalla
società beneficiaria e valore netto contabile dei beni, provenienti dalla società scissa e
pervenuti alla beneficiaria. Anche per le differenze di scissione il principio è quello
della neutralità; avanzi e disavanzi riflettono, qui, fenomeni analoghi a quelli visti in
materia di fusione con concambio.
Anche per scissione la Finanziaria 2008 ha previsto la possibilità di applicare
l’imposta sostitutiva31 indicata nell’art. 176, comma 2-ter, del TUIR.
Per quanto riguarda la disciplina della perdite nell’ambito della scissione occorre
sottolineare quanto segue. Se nella fusione il potere di utilizzare le perdite pregresse
delle società partecipanti non può che essere “ereditato” dalla società incorporante o
nuova, nella scissione la pluralità di società derivate solleva anzitutto il problema del
suo frazionamento tra di esse. Trattandosi di “posizioni soggettive”, queste vanno
suddivise tra le società derivate - ossia tra la scissa e la beneficiaria (o le beneficiarie)
nella scissione parziale, tra le due o più beneficiarie nella scissione totale - in
proporzione alla quota di patrimonio della scissa devoluta a ciascuna secondo il criterio
indicato nel comma 4. Il godimento da parte della scissa della quota di perdite che le
compete (considerata la quota di patrimonio conservata) non è sottoposto ad alcuna
31
La cui disciplina è stata già esaminata nell’ambito della fusione sub. pari. 10.1.1.
111
disciplina speciale, atteso che non ricorre nei suoi confronti il pericolo, insito nella
fusione, che le perdite pregresse di un'organizzazione vengano sfruttate per
neutralizzare redditi prodotti da un patrimonio e da un' attività riconducibili ad una
diversa organizzazione, e quindi non si riscontrano quelle peculiari esigenze che hanno
spinto il legislatore ad introdurre la normativa di cui all’esaminato art. 172, comma 7.
Per converso, l'impiego da parte delle beneficiarie delle perdite ad esse transitate,
come delle perdite proprie (ovviamente se si tratta di società preesistenti) viene
assoggettato dal comma 10 dell' art. 173 alle medesime condizioni e ai medesimi limiti
che incontra l'incorporante nello sfruttamento delle perdite pregresse delle società
partecipanti alla fusione. Ed invero, quando la beneficiaria è una società preesistente, in
ordine alle perdite provenienti dalla scissa si profila una situazione del tutto omogenea a
quella che, nella fusione per incorporazione, si realizza con riferimento alle perdite
dell'incorporata. Si delinea cioè il pericolo che le perdite di un'organizzazione vengano
destinate alla compensazione di redditi derivanti da un'organizzazione diversa. Appare
perciò perfettamente ragionevole l'assimilazione della posizione della beneficiaria
preesistente all'incorporante sia per quanto attiene al riporto delle perdite della scissa sia
per quanto attiene al riporto delle proprie.
8.1.3 La trasformazione di società
La trasformazione è disciplina dall’art. 2498 e ss. c.c. e si ha quando una società
muta la sua veste giuridica.
La trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si
traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di un altro e diverso
soggetto, ma configura, per converso, una vicenda meramente evolutivo-modificativa
dello stesso soggetto che non dà luogo ad un nuovo centro di imputazione di rapporti
giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa senza soluzione di continuità e senza
perdere la sua identità soggettiva. Ne consegue che tutto il patrimonio (mobile ed
immobile) della società trasformata deve essere considerato, automaticamente e senza
possibilità di eccezione alcuna, di proprietà della medesima società, pur nella nuova
veste e denominazione.
Il codici civile disciplina due tipi di trasformazione: la trasformazione c.d.
omogenea che si ricorre la società sia prima che dopo la trasformazione è un soggetto
commerciale e la trasformazione c.d. eterogenea che segna invece il passaggio dalla
sfera commerciale a quelle non commerciale e viceversa.
Soffermiamoci ora a parlare della trasformazione omogenea. Come abbiamo visto
con la trasformazione, muta la forma sociale di una società, ma il soggetto rimane il
112
medesimo. Ecco perché ai sensi dell’art. 170, comma 1, del TUIR la trasformazione
“non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni
comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”.
In particolare, quando una società di persone si trasforma in un' altra società di
persone, oppure quando una società di capitali si trasforma in un' altra società di
capitali, la trasformazione risulta del tutto priva di conseguenze sul piano tributario,
atteso che lo “statuto fiscale” della società resta invariato. I problemi sorgono quando
una società di persone si trasforma in una società di capitali (trasformazione
progressiva), oppure quando una società di capitali si trasforma in una società di
persone (trasformazione regressiva), atteso che, come abbiamo visto, la disciplina
tributaria valevole per le società di persone è profondamente diversa da quella
applicabile alle società di capitali. Nell'art. 170 TUIR il legislatore si occupa quindi salvo che nel citato comma 1 - esclusivamente di queste ultime trasformazioni. In
particolare nel comma 2 prevede che in caso di trasformazione di una società soggetta
all'imposta sul reddito delle società in una società non soggetta a tale imposta, il reddito
dell'intervallo di tempo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui ha
effetto la trasformazione è determinato secondo le disposizioni applicabili prima della
trasformazione, in base ad un apposito conto dei profitti e delle perdite. L'esercizio
durante il quale si verificano queste trasformazioni si spezza dunque in due autonomi
periodi d'imposta, in relazione a ciascuno dei quali la società è tenuta a seguire, quanto
al calcolo del reddito ed alle modalità di imposizione, la disciplina predisposta per il
tipo di rispettiva appartenenza. La trasformazione esige perciò la redazione di due
appositi conti economici, relativi ai due periodi d’imposta, e la presentazione di
correlative dichiarazioni dei redditi, applicando come detto le norme proprie del tipo
sociale.
In particolare bisogna quindi concludere che:
a)
se una società di persone si trasforma in società di capitali, i redditi del periodo
che precede la trasformazione sono tassati con le regole previste per le società di
persone, imputando ai soci i redditi della società. Le riserve costituite prima della
trasformazione con utili tassati in capo ai soci per imputazione conservano il loro
originario status fiscale anche dopo la trasformazione; non dovranno perciò essere
più tassate quando la società trasformata le distribuirà ai soci. E’ perciò necessario
che siano iscritte in bilancio con l’indicazione della loro origine;
b) se una società di capitali, cui non si applica il regime di trasparenza, si trasforma
in società di persone, e nel suo bilancio vi sono riserve costituite con utili, non si
ha automatica imputazione ai soci di quegli utili, perché la trasformazione non
determina l’immediata applicazione alle riserve delle norma in tema di redditi
delle società di persone. Le riserve conservano infatti il loro status fiscale
113
originario di utili tassabile come dividendi presso i soci solo a seguito di
distribuzione (a condizione, però, che siano iscritte in bilancio con indicazione
delle loro origine). Pertanto, solo quando sono distribuite ai soci o utilizzate per
scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio, esse sono tassate presso i soci.
In definitiva quindi, in caso di passaggio da società di capitali a società di persone,
alle riserve costituite prima della trasformazione continuano ad applicarsi le norme
relative all’IRES e ai dividendi, anche se la società non è più soggetta a tale imposta.
Come abbiamo visto il codice civile disciplina accanto alla trasformazione
omogenea anche la c.d. trasformazione eterogenea. In particolare, ai sensi dell’art.
2500-septies e 2500-octies c.c. tale tipo di trasformazione può avvenire nei seguenti
casi:
a) o come trasformazione di una società di capitali in consorzio, società consortile,
società cooperativa, comunione d’azienda, associazione non riconosciuta e
fondazione (art. 2500-septies c.c.);
b) o come trasformazione di tali soggetti in società di capitali (art. 2500-octies c.c.).
Si tratta, in tutti i casi, di trasformazione in senso proprio: muta la forma giuridica,
non l’identità del soggetti, per cui si ha piena continuità di rapporti giuridici.
Dal punto di vista fiscale nulla muta se vi è identità di regime fiscale tra situazione
anteriore e situazione posteriore alla trasformazione, se invece vi è un mutamento di
disciplina scatta un regime fiscale particolare.
Come nel caso della trasformazione da società di un tipo a società di altro tipo, regolata
nell'art. 170, la normativa tributaria si accosta alla trasformazione eterogenea da
un'angolazione particolare, disciplinando non tutte le trasformazioni eterogenee, ma
solo quelle che implicano un mutamento nello “statuto fiscale” dell'ente, ravvisabile
questa volta (anziché nel passaggio dalla sfera dei soggetti passivi dell‘IRES a quella
dei soggetti tassati per trasparenza o viceversa) nel passaggio dalla sfera dei soggetti
commerciali a quella dei soggetti non commerciali o viceversa. Insomma, vengono
disciplinate quelle trasformazioni che, oltre ad essere civilisticamente eterogenee, lo
sono pure fiscalmente, in quanto provocano la “decommercializzazione” dell'ente o la
sua “commercializzazione”.
In questa prospettiva il comma 1 dell'art. 171 si occupa della trasformazione di cui
all'art. 2500-septies c.c. nella misura in cui l'ente non societario risultante dalla
trasformazione sia qualificabile come non commerciale, stabilendo, per questa
evenienza, che i beni della società trasformata si considerino realizzati in base al loro
valore normale, salvo che non confluiscano nell'azienda o complesso aziendale dell'ente
stesso (l'ente non commerciale potrebbe infatti esercitare un'attività d'impresa, sia pure,
naturalmente, in via secondaria).
Ne deriva che: a) se, e nella misura in cui, i beni della società trasformata
114
confluiscono nella (eventuale) sfera aziendale del patrimonio dell'ente non
commerciale, da determinasi in base al combinato disposto degli art. 144, comma 3°, e
65, comma 1, (ossia con i criteri ordinariamente valevoli per l'identificazione dei beni
relativi all'impresa presso gli enti non commerciali che esercitano attività commerciali),
non interrompendosi il regime dei beni d'impresa, e non ricorrendo alcun evento
traslativo, non si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti; b) se, e nella
misura in cui, i beni della società non confluiscono nella (eventuale) sfera aziendale del
patrimonio dell'ente non commerciale, interrompendosi il regime dei beni d'impresa,
nonostante l'assenza di un evento traslativo, si ha realizzo delle plusvalenze e
minusvalenze latenti in ragione del valore normale dei beni stessi.
Analogamente, il comma 2° dell’art. 171 si occupa delle trasformazioni di cui
all'art. 2500 octies c.c. nella misura in cui l'ente non societario che si trasforma in
società di capitali sia qualificabile come non commerciale, stabilendo, per questa
ipotesi, l'applicazione ai beni diversi da quelli già compresi nella (eventuale) azienda o
complesso aziendale dell' ente della disciplina prevista per i conferimenti in società. Ne
deriva che: a) se, e nella misura in cui, i beni dell'ente trasformato sono già soggetti al
regime dei beni d'impresa, non interrompendosi detto regime, e non ricorrendo alcun
evento traslativo, non si ha realizzo delle plusvalenze e delle minusvalenze latenti; b) se,
e nella misura in cui, i beni dell'ente non sono già soggetti a detto regime, gli stessi si
considerano conferiti nella società che risulta dalla trasformazione e poiché il
conferimento è equiparato alla cessione onerosa (art. 9 TUIR), si ha realizzo delle
plusvalenze e minusvalenze latenti in ragione del valore normale dei beni stessi (cfr. art.
9, comma 2°, per la determinazione del corrispettivo nei conferimenti in società non
quotate). Il realizzo che interessa questo secondo gruppo di beni non implica tuttavia il
concorso della generalità dei relativi plusvalori e minusvalori alla formazione del
reddito complessivo dell' ente trasformato: l'art. 67, comma 1, lett. n), prevede infatti
questi ultimi concorrano alla determinazione della predetta grandezza solo se
classificabili tra i redditi diversi secondo le regole ordinarie. La soluzione accolta,
imperniata sulla finzione del conferimento per i beni non soggetti al regime dei beni
d'impresa anteriormente alla trasformazione, si propone di mediare tra le due esigenze
che emergono nell'approccio a queste trasformazioni: a) quella di un aggiornamento dei
valori fiscalmente riconosciuti dei beni aloro ingresso nel regime dei beni d'impresa, per
non attrarre ad esso plusvalori e minusvalori maturati al suo esterno; e b) quella di
conferire rilevanza ai plusvalori e ai minusvalori scaturenti da tale processo, se rilevanti
laddove conseguiti fuori dal reddito d'impresa, per evitare una loro sterilizzazione per
effetto del predetta rimodulazione dei valori dei beni dell'ente.
Il comma 1 dell’art. 171 disciplina inoltre le riserve di utili costituite dalla società
di capitali prima della trasformazione in ente non commerciale, estendendo alle stesse la
115
disciplina prevista dall'art. 170, comma 4, per il caso della trasformazione di una società
di capitali in una società di persone. Tuttavia, poiché gli enti non commerciali sono
(almeno per il momento) soggetti passivi dell‘IRES, come le società di capitali, detta
estensione non può essere giustificata sulla base dell'identità di ratio, ma probabilmente
si raccorda a ragioni di cautela fiscale connesse al minore formalismo contabile che
contrassegna il regime tributario degli enti non commerciali.
Non sono regolati, invece, gli effetti delle trasformazioni eterogenee sui soci,
ancorché alcune di esse abbiano delle ripercussioni sulla posizione di questi ultimi
ignote alla trasformazione della società in altra società. Si pensi alla trasformazione di
una società di capitali in fondazione, che determina l'annullamento della partecipazione,
o alla trasformazione di una fondazione in società di capitali, che determina la creazione
di una partecipazione. Nel primo caso si registra un decremento patrimoniale,
consistente in una perdita della partecipazione da considerare rilevante, ai fini del
calcolo del reddito del socio, nei limiti in cui un siffatto evento può considerarsi
ordinariamente rilevante. Nel secondo si registra un incremento patrimoniale,
traducibile in una sopravvenienza attiva da conteggiare, quando conseguita nell'
esercizio d'impresa, nel reddito d'impresa del socio.
8.1.4 I conferimenti
I conferimenti, generalmente, hanno per oggetto denaro; possono però avere per
oggetto anche altri beni (crediti, immobili, partecipazioni, aziende).
Fiscalmente i conferimenti sono equiparati alle cessioni a titolo oneroso: ciò
significa che, di norma, le plusvalenze dei beni conferiti (diversi dal denaro) sono da
considerare realizzate come se il bene fosse ceduto verso un corrispettivo in danaro
(conferimenti c.d. realizzativi). Vedremo però che accanto al regime ordinario dei
conferimenti realizzativi, che implicano la tassazione delle plusvalenze insite nei beni
conferiti, vi sono anche conferimenti detti “non realizzativi” o “neutrali”, che non
rendono tassabili le plusvalenze.
Nel regime di tassazione ordinaria, si pone il problema di quantificare la
plusvalenza. Per effetto del conferimento, il conferente non riceve danaro ma un
partecipazione (azioni o quote); la plusvalenza insita nel bene conferito non viene
“monetizzata”, bensì viene “cambiata” con un altro bene (il titolo di partecipazione). Per
calcolare la plusvalenza è dunque necessario dare un valore alle partecipazioni
ricevute32. Sottraendo al valore delle partecipazioni ricevute il valore (fiscale) del bene
conferito, si ottiene la misura della plusvalenza tassabile. Per determinare il valore delle
32
Tale valore non è per forza uguale alla quota di capitale sociale.
116
partecipazioni ricevute, bisogna distinguere tra conferimenti in società quotate e
conferimenti in società non quotate.
Se la conferitaria è una società quotata in borsa (o in altri mercati regolamentati), è
facile individuare il valore normale delle partecipazioni, basandosi sulle quotazioni
della borsa (in specie, si tiene conto della media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo
mese). Se la conferitaria non è quotata, si assume che il valore normale delle
partecipazioni ricevute sia pari al valore normale dei beni conferiti (la plusvalenza è
dunque pari alla differenza tra valore normale e valore fiscale dei beni conferiti).
I conferimenti hanno rilievo non solo per il conferente, ma anche per il
conferitario, che deve dare un valore ai beni ricevuti.
Non sempre il conferimento rende tassabili le plusvalenze dei beni conferiti; vi è
infatti, un regime ordinario (che importa tassazione delle plusvalenze) ed un regime che
prevede la neutralità. Va considerata, al riguardo, la differenza tra cessione e
conferimenti: con la cessione viene meno ogni legame tra il cedente e il bene; la
plusvalenza è normalmente monetizzata e, quindi, tassata. Con il conferimento, invece,
la plusvalenza non è monetizzata, e permane un legame con il bene conferito, mediato
dalla partecipazione ricevuta.
Ciò spiega perché, nonostante la equiparazione fiscale dei conferimenti alle
cessioni, oltre al regime ordinario di tassazione delle plusvalenze, vi sono conferimenti
per i quali è previsto un regime di neutralità fiscale.
Prima delle modifiche apportate con la Finanziaria 2008 per i conferimenti di azienda vi
erano due regimi di neutralità fiscale:
a) regime di “continuità dei valori contabili”;
b) regime di “continuità dei valori fiscali”.
Il regime di continuità dei valori contabili riguardava sia il conferimento di
aziende, sia il conferimento di partecipazioni di controllo e di collegamento. Esso si
realizzava se il conferente attribuiva ai titoli di partecipazione ricevuti lo stesso valore
contabile dell’azienda conferita e se, a sua volta, il conferitario attribuiva ai beni
dell’azienda ricevuta lo stesso valore contabile che avevano nella sfera giuridica del
conferente (art. 175 TUIR). Si richiedeva, in sostanza, che restasse immutato il valore
contabile dei beni conferiti presso il conferitario (ossia che vi fosse continuità di valori
dei beni nelle scritture contabili di conferente e conferitario) e che il conferente
attribuisse, alle partecipazioni ricevute, il valore contabile dei beni conferiti.
La continuità dei valori impediva quindi la tassazione della plusvalenza, che
restava latente. Vi era invece tassazione della plusvalenza se un differenziale positivo
era rilevato da uno dei due soggetti dell’operazione. Ossia se, presso il conferitario, i
beni conferiti ricevevano un valore contabile superiore a quello che avevano presso il
conferente, o se il conferente attribuiva alla partecipazione un valore superiore a quello
117
che avevano i beni conferiti. Questo regime è stato eliminato dalla Finanziaria 2008 per
il conferimenti d’azienda e, pertanto, dal 1° gennaio 2008 tale regime potrà riguardare
solo le partecipazioni di controllo e di collegamento.
Il secondo regime di neutralità (che la Finanziaria 2008 ha reso regime naturale
per i conferimenti di azienda) è fondato sulla “continuità dei valori fiscali” dei beni,
astraendo dai valori contabili (art. 176 TUIR). Ciò vuol dire, in altre parole, che può
esservi divergenza tra valori contabili e valori fiscali. La plusvalenza è messa in
evidenza in contabilità, perché il conferente attribuisce alla partecipazione ricevuta un
valore superiore al valore fiscale della azienda conferita; ed il conferitario iscrive
l’azienda ad un valore superiore al suddetto valore fiscale. In questo caso, dunque si
prevede che vi sia differenza fra i nuovi valori contabili di iscrizione della
partecipazione e dell’azienda ed il precedente “valore fiscalmente riconosciuto”
dell’azienda (presso il conferente). La plusvalenza messa così in evidenza non è tassata,
ma i divergenti valori contabili e fiscali dei beni devono essere indicati in un “prospetto
di riconciliazione”, da presentare con la dichiarazione dei redditi. Tale prospetto ha la
funzione di “memorizzare” la differenza tra valori civilistici e fiscali. Si avrà tassazione
quando il conferente cederà la partecipazione o il conferitario cederà l’azienda. Il valore
di partenza, ai fini del calcolo della plusvalenza, non sarà il valore contabile di
iscrizione, ma il valore fiscale che è stato indicato nel “prospetto di riconciliazione”. In
tal modo, sarà tassata anche la parte di plusvalenza (latente) che non era stata tassata per
effetto del conferimento dell’azienda.
Prima della Finanziaria 2008 il conferimento d’azienda in regime di neutralità
poteva essere applicato solo nell’ipotesi in cui la società conferitaria apparteneva alla
tipologia dei soggetti IRES. La Finanziaria 2008, modificando l’art. 176 TUIR, ha
invece disposto che dal 2008 sarà possibile eseguire conferimenti d’azienda neutrali
anche qualora la conferitaria è una società di persone. Inoltre per effetto della
Finanziaria il regime di neutralità sarà applicabile anche quando le parti del negozio
giuridico sono soggetti non residenti, ma l’azienda conferita è allocata in Italia.
Infine anche per le operazioni di conferimento in esame è possibile applicare
l’imposta sostitutiva di cui all’art. 176, comma 2-ter, del TUIR33.
33
La disciplina dell’imposta sostitutiva è stata già esaminata nell’ambito della fusione sub. par. 10.1.1.
118
CAPITOLO IX
9.1
LE OPERAZIONI STRAORDINARIE TRANSFRONTALIERE CON
SPECIFICO RIFERIMENTO ALLE DIRETTIVE EU
9.1.1 Cenni introduttivi
Il TUIR disciplina alcune operazioni straordinarie internazionali e precisamente
quelle in precedenza regolate dal D.Lgs. 544/1992, adottato in attuazione della Direttiva
CE 90/434 recentemente modificata dalla Direttiva 2005/19. Tale Direttiva ha avuto lo
scopo di favorire la circolazione delle imprese all’interno della Comunità europea,
rimuovendo l’ostacolo che la variabile fiscale appone a tale libertà ed ha inquadrato le
operazioni in esame non tra gli atti di realizzo bensì tra quelli di mera organizzazione
strutturale, considerando le operazioni stesse fiscalmente neutre e cioè inidonee a creare
alcun presupposto impositivo. Ai sensi dell’art. 178 TUIR le operazioni considerate
sono:
a) le fusioni tra società di capitali residenti in Italia e società analoghe residenti in
altri Stati membri dell'Unione europea;
b) le scissioni proporzionali totali di una delle società appena menzionate con
attribuzione del patrimonio a due o più altre società medesime, preesistenti o di
nuova costituzione, alcuna delle quali residente in uno Stato membro diverso da
quello della prima, e limitatamente alla corrispondente parte dell'operazione;
b-bis)le scissioni parziali medianti le quali uno dei soggetti indicati nella lett. a)
trasferisce, senza essere sciolto, mantenendo almeno un’azienda o un complesso
aziendale, uno o più aziende o complessi aziendali a uno o più soggetti indicati
nella stessa lett. a), alcuno dei quali sia residente in uno Stato UE, con
assegnazione ai propri partecipanti, secondo un criterio proporzionale, delle azioni
o quote del soggetto o dei soggetti beneficiari, sempre che il soggetto scisso sia
residente nel territorio dello Stato e che l’eventuale conguaglio in denaro ai
partecipanti del soggetto scisso non superi il 10% del valore nominale della
partecipazione ricevuta in cambio;
c) i conferimenti di aziende da una ad un'altra delle società sopra indicate, residenti
119
in Stati diversi dell'Unione, sempre che una sia residente in Italia;
d) le operazioni menzionate in precedenza tra società indicate sopra non residenti in
Italia, con riguardo alle stabili organizzazioni in Italia;
e) gli scambi di partecipazioni mediante i quali una delle società indicate sopra
acquista o integra una partecipazione di controllo in un'altra società sopra indicata,
residente in un altro Stato dell'Unione.
Restano non regolate espressamente le operazioni straordinarie internazionali che
coinvolgono società di capitali residenti in Stati non appartenenti all'Unione, nonché la
generalità di quelle che interessano le società di persone. A queste operazioni, tuttavia,
possono peraltro senza dubbio applicarsi molti dei principi desumibili dalla normativa
sulle operazioni elencate nell' art. 178.
9.1.2 Le fusioni e scissioni transnazionali
Ai sensi dell’art. 179, comma 1, TUIR alle operazioni indicate nelle lettera a), b) e
b-bis) dell’art. 178 (ossia fusioni e scissioni) si applicano le disposizioni di cui agli artt.
172 e 173.
In particolare, nella fusione di una società residente in una società non residente,
nella scissione di una società residente con attribuzione del patrimonio a società non
residenti, si produce un effetto simile a quello considerato a proposito della
trasformazione eterogenea di una società di capitali in un ente non commerciale: la
“decommercializzazione” del soggetto, e con essa la perdita di quel carattere su cui si
fonda l'attrazione al regime dei beni d'impresa dell'intero patrimonio del soggetto
medesimo. La destinazione a finalità estranee all'esercizio d'impresa, e con essa il
realizzo a valore normale, è configurabile, in queste ipotesi, per tutti i beni che, non
confluendo nell' eventuale stabile organizzazione della società non residente (emergente
dall'operazione), sfuggono al regime dei beni d'impresa predisposto dall' ordinamento
tributario italiano.
L’applicazione del generale principio di neutralità fiscale alle fusioni e scissioni
transnazionali si sostanzia infine nella previsione contenuta nel comma 4 in base alla
quale viene previsto che:
a) le operazioni di fusione e scissione non comportano il realizzo di plusvalenze o
minusvalenze;
b) (a tale fine) il valore fiscale delle azioni o quote date in cambio deve essere
assunto anche dalle azioni o quote ricevute, ripartendosi tra tutte in proporzione
dei valori alle stesse attribuiti ai fini della determinazione del rapporto di cambio;
c) (viceversa) eventuali conguagli concorrono a formare il reddito in capo ai soggetti
percettori (fatta salva, ove vengono soddisfatti i relativi presupposti l’applicazione
120
dell’art. 47, comma 7, 58 e 87).
Nel caso in cui la società scissa o la società fusa siano residenti in Italia la
neutralità fiscale dell’operazione è subordinata al fatto che gli elementi patrimoniali
della società italiana confluiscano in una stabile organizzazione italiana
dell’incorporante o beneficiaria non residente.
In particolare, i beni confluiti nella stabile organizzazione dovranno essere valutati
in base all’ultimo valore fiscalmente riconosciuto in capo alla società italiana che si
estingue. I beni non confluiti nella stabile organizzazione italiana si considerano
realizzati al valore normale. Tale disposizione si applica anche se successivamente alla
fusione (o scissione) i componenti conferiti nella stabile organizzazione ne vengano
distolti.
9.1.3 I conferimenti transnazionali
L'art. 179, comma 2, TUIR estende ai conferimenti di azienda infracomunitari
(trattasi dei conferimenti aventi ad oggetto complessi aziendali che intercorrono tra un
soggetto residente in Italia e uno residente in altro Stato membro dell’UE) il regime di
neutralità previsto dall'art. 176.
Pertanto tali conferimenti non costituiscono realizzo di plusvalenze o di
minusvalenze, ma l’ultimo costo dell’azienda o del ramo aziendale costituisce il costo
fiscalmente riconosciuto della partecipazione ricevuta.
Tale disciplina si applica anche se successivamente al conferimento i componenti
confluiti nella stabile organizzazione italiana ne vengano distolti.
L’art. 179, al comma 5, TUIR detta anche una disciplina speciale per i
conferimenti di una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro.
In particolare per tale operazione il TUIR dispone che:
a) le relative plusvalenze sono imponibili nei confronti del conferente residente a
titolo di realizzo al valore normale (con deduzione della relativa imposta, fino al
suo totale assorbimento, dell’ammontare dell’imposta che lo Stato, dove è situata
la stabile organizzazione, avrebbe prelevato in assenza delle norme della Direttiva
n. 90/434/CEE);
b) la partecipazione ricevuta in cambio deve essere valutata in base all’ultimo valore
fiscalmente riconosciuto degli elementi patrimoniali conferiti, aumentato di un
importo pari all’imponibile corrispondente all’imposta dovuta a saldo.
Ai sensi dell’art. 179, comma 5, TUIR i conferimenti e gli scambi di
partecipazione che rispettano i requisiti previsti dall’art. 178, comma 1, lett e) non
comportano il realizzo di plusvalenze o minusvalenze sulle azioni o quote scambiate.
In particolare, la plusvalenza latente sulla partecipazione apportata dal socio
121
conferente non concorrerà alla formazione del reddito imponibile di tale soggetto, ma
sarà tassata solo se e quando il suddetto socio alienerà una parte o la totalità delle azioni
(o quote) della società conferitaria che ha ricevuto in cambio.
In sostanza, a seguito dell’operazione di scambio di azioni, la partecipazione al
capitale della conferitaria ricevuta dal socio conferente eredita, il valore della
partecipazione scambiata o conferita, con conseguente ed automatico trasferimento della
plusvalenza latente in capo alla nuova partecipazione.
Qualora il conferente, in aggiunta alla partecipazione nella conferitaria, riceva
anche un eventuale conguaglio in denaro (che non deve comunque eccedere il 10% del
valore nominale delle azioni) quest’ultmo concorrerà a formare il suo reddito
imponibile secondo le regole ordinarie previste dal TUIR (art. 87, 58 e 68, comma 3).
La società conferitaria può iscrivere in bilancio le partecipazioni ricevute ad un
valore pari a quello risultante dalle scritture contabili della società conferente, ad un
valore pari a quello di mercato oppure ad un valore intermedio rispetto ai due
precedenti.
Tale interpretazione è stata confermata dall’Amministrazione finanziaria. Infatti
con Ris. 106/E del 2000 il Ministero delle Finanze si è pronunciato in merito ad una
operazione di conferimento di partecipazioni da parte di una società italiana a favore di
una società olandese, nella quale:
a) la società italiana manteneva l’iscrizione delle partecipazioni ricevute ai valori di
libro di quelle conferite e la società olandese conferitaria iscriveva le quote
apportate al valore corrente;
b) la società conferitaria procedeva poi a cedere le partecipazioni conferite,
realizzando esigue plusvalenze contabili e quindi utili civilistici da distribuire;
c) la conferitaria si impegnava a restituire il capitale, in esito all’operazione di
cessione delle partecipazioni, con conseguente annullamento della partecipazione
in capo alla conferente.
Ebbene l’Amministrazione finanziaria ha negato l’esistenza di vantaggi fiscali
nell’operazione portata alla sua attenzione atteso che “il capitale restituito verrebbe
assoggettato a tassazione in Italia per la parte eccedente il costo fiscalmente
riconosciuto della partecipazione”: dunque la “scarsa incidenza dei vantaggi fiscali è
ricondotta all”impegno della società a far concorrere al reddito in Italia – sotto forma
di restituzione del capitale – i valori latenti già maturati al momento del conferimento,
nell’ipotesi in cui la società olandese dovesse procedere ad atti di realizzo”.
In relazione alla società conferente l’Agenzia delle Entrate, modificando
l’orientamento espresso in una precedente risoluzione in considerazione dei rilievi
mossi dalla Commissione europea, ha chiarito che “la continuità contabile, per quanto
possa rendere più agevoli eventuali controlli, non è condizione indispensabile per
122
conservare la possibilità di assoggettare a tassazione le plusvalenze al momento
dell’effettivo realizzo” (Ris. 159/E del 2003).
Pertanto il regime di neutralità fiscale opera automaticamente essendo irrilevante
che il soggetto italiano conferente riscriva nella propria contabilità le partecipazioni
ricevute a fronte del conferimento ad un valore superiore rispetto a quello di iscrizione
delle partecipazioni scambiate.
9.2
LA LIQUIDAZIONE
All'ingresso dell'impresa, individuale o collettiva, nella fase della liquidazione
(ossia in quella fase in cui, cessata l'attività produttiva, si provvede alla conversione in
denaro dei suoi beni, all'estinzione dei debiti, ed in generale alla definizione dei rapporti
pendenti, con la devoluzione del residuo alla sfera personale dell'imprenditore o, nel
caso di società, ai soci) l'art. 182 TUIR ricollega un importante mutamento nella
disciplina relativa al calcolo del reddito, ispirato (come quello previsto per il fallimento)
all'idea della unitarietà di tale fase e quindi all'esigenza di determinare unitariamente il
suo risultato.
Questo mutamento rende innanzi tutto necessario separare il reddito imputabile
alla fase della liquidazione da quello che invece è attribuibile alla fase della gestione
ordinaria dell'impresa e, pertanto, rende necessario procedere all'autonoma misurazione,
secondo le regole ordinariamente applicabili all'impresa di cui trattasi, del reddito
conseguito nell'intervallo di tempo trascorso tra l'inizio dell'esercizio e l'inizio della
liquidazione. L'art. 182, comma 1, all'uopo dispone che il reddito in questione deve
essere determinato sulla base di un apposito conto economico (o secondo le regole
fissate per le imprese minori, ove ne ricorrano le condizioni di applicabilità), il quale per le società - deve essere redatto “in conformità alle risultanze del conto della
gestione” che gli amministratori devono presentare ai liquidatori ai sensi dell’art. 2277
c.c., in relazione al periodo compreso tra la data di riferimento dell'ultimo bilancio
d'esercizio e quella in cui i liquidatori entrano in funzione. Peraltro, l'art. 182, nel
mentre per il caso di imprese individuali identifica esplicitamente la data di inizio della
liquidazione in quella in cui ne viene data comunicazione all'Ufficio delle imposte
mediante raccomandata con avviso di ricevimento (e più specificamente in quella in cui
la raccomandata è consegnata all'ufficio postale), trascura di delucidare quale momento
segni per le imprese collettive l'apertura della liquidazione. Sulla base di quanto
prescritto dall’art. 5, comma 1, del DPR 322/1998, ai sensi del quale la dichiarazione
relativa al “periodo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui ha
effetto la deliberazione di messa in liquidazione” deve essere presentata entro l'ultimo
123
giorno del settimo mese successivo a tale data, si è portati ad affermare che la suddetta
data collima con quella in cui la società viene posta in liquidazione, per delibera
assembleare o per provvedimento giudiziale. D'altra parte, la considerazione del legame
che viene instaurato dall'art. 182 tra il conto economico rilevante per il computo del
reddito in questione e il ricordato conto della gestione di cui all' art. 2277 c.c., potrebbe
indurre a ritenere legittimo uno spostamento in avanti di tale data a quella in cui gli
amministratori vengono sostituiti dai liquidatori.
Nel caso di imprese individuali il reddito relativo alla frazione di esercizio di cui
trattasi, pur dovendo essere oggetto di un'apposita dichiarazione da parte del liquidatore
(o in mancanza dall'imprenditore medesimo), confluisce ad ogni effetto nel reddito
complessivo relativo al periodo d'imposta nel corso del quale ha avuto inizio la
liquidazione. La predetta frazione di esercizio fornisce dunque in questa ipotesi la base
temporale per il calcolo di uno degli importi che partecipano alla formazione del reddito
del periodo d'imposta nel quale essa risulta compresa, e non acquisisce il rilievo di un
autonomo periodo d'imposta. Analogamente, nel caso di società di persone, il reddito
dichiarato dalla società per la frazione di esercizio in discorso deve ai fini dell'imposta
personale essere imputato pro-quota ai soci, confluendo nel reddito complessivo di
questi ultimi relativo al periodo d'imposta nel corso del quale si è aperta la procedura
liquidativa. Nel caso di società di capitali il lasso di tempo considerato rappresenta
invece un autonomo periodo d'imposta.
Passando alla fase della liquidazione, è possibile individuare tre fattispecie, fermo
restando l'obbligo per il liquidatore di presentare in relazione ad essa, ed entro quattro
mesi dalla sua conclusione, un' apposita dichiarazione finale.
La prima si realizza quando la liquidazione si chiude nel corso dello stesso
periodo in cui si è aperta. In questa ipotesi il reddito imputabile a tale fase si determina,
con i criteri consueti, sulla base del bilancio finale di liquidazione. Non si registra
pertanto alcun mutamento nella disciplina dell'attività di misurazione del reddito in
questione, se si eccettua la sostituzione del bilancio finale di liquidazione all' ordinario
bilancio d'esercizio. Ma va segnalato che ai sensi dell'art. 17 del TUIR, se l'impresa
individuale è stata esercitata da più di cinque anni, i redditi in questione possono essere
assoggettati a tassazione separata, anziché confluire nel reddito complessivo.
Un'analoga possibilità è offerta dallo stesso articolo, a condizione che il periodo
intercorso tra la costituzione della società e l'inizio della liquidazione sia superiore a
cinque anni, ai soci delle società di persone per i redditi imputati loro in dipendenza
della liquidazione, e ai soci delle società di capitali per i redditi compresi nelle somme
loro attribuite o nel valore normale dei beni loro assegnati a seguito della liquidazione.
La seconda si realizza quando la liquidazione si protrae oltre il predetto termine, e
per un numero di esercizi, compreso quello iniziale, non superiore a tre, nel caso di
124
imprese individuali o di società di persone, o a cinque, nel caso di società di capitali. In
questa ipotesi il reddito della residua frazione dell'esercizio iniziale, e quello di ciascun
esercizio intermedio, è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio,
salvo conguaglio in base al bilancio finale. Il reddito della residua frazione dell'
esercizio iniziale, e quello degli esercizi intermedi, viene dunque calcolato con la
metodologia ordinaria, e in maniera autonoma, partendo dal bilancio che l'art. 2490 c.c.
impone ai liquidatori di redigere e fare approvare annualmente. Tuttavia, questa
determinazione ha carattere meramente provvisorio, in quanto sulla scorta del bilancio
finale si deve provvede a consolidare i risultati di tali esercizi, stabilendo il risultato
globale della procedura. Ora, quando il reddito d'impresa collima con il reddito
complessivo, come nel caso delle società di capitali, l'operazione descritta dalla
disposizione in commento si presenta agevole. Il risultato in questione costituisce infatti
la grandezza su cui procedere alla liquidazione dell'imposta, dalla quale deve essere
scomputato l'ammontare delle imposte eventualmente già versate con riferimento agli
esercizi ricompresi nel consolidamento. Quando la predetta coincidenza non sussiste,
come nel caso dell'imprenditore individuale, o dei soci delle società di persone,
l'operazione di cui trattasi si manifesta più complessa, specie se non si è optato (nelle
dichiarazioni relative al periodo iniziale e a quelli intermedi), per la tassazione separata.
In questa evenienza infatti, da una parte, se non si opta nella dichiarazione relativa
al periodo finale per la tassazione separata, il predetto risultato globale partecipa
(eventualmente pro-quota, se si tratta di redditi di società di persone imputati ai soci ai
sensi dell'art. 5) alla formazione del reddito complessivo dall'altra per stabilire
l'ammontare delle imposte versate nel corso della procedura (da compensare con
l'imposta dovuta con riferimento al periodo finale), si rende necessario identificare per
ciascun esercizio compreso nella liquidazione la quota di imposta imputabile ai redditi
derivanti dalla liquidazione medesima. Naturalmente la liquidazione si può chiudere
così con un risultato positivo come con un risultato negativo. Nel caso di imprese
individuali o di società di persone la perdita scaturita dalla liquidazione è espressamente
ricondotta dall'art. 182, comma 2°, alla sfera applicativa della disciplina ordinaria di cui
all'art. 8. Nel caso di società di capitali tale perdita si manifesta invece priva di valore, e
non è neppure considerata dal legislatore, atteso che la chiusura della liquidazione
conduce allo scioglimento della società, e rende difficile ipotizzare (salva l'eventualità
di sopravvenienze attive) il conseguimento di redditi da cui scomputarla.
Con riferimento a quest'ultima categoria di società è previsto che le perdite degli
esercizi anteriori all'inizio della liquidazione, se non compensate nel corso di questa ai
sensi dell'art. 84 (dai redditi della residua frazione dell'esercizio iniziale e da quelli degli
esercizi intermedi), sono ammesse in diminuzione in sede di conguaglio, possono cioè
essere contrapposte direttamente al risultato finale della liquidazione. Questa
125
disposizione rispecchia l'idea dell'unitarietà del reddito conseguito durante (e mediante)
la liquidazione, ed induce a ritenere che, ai fini dell'applicazione del suddetto art. 84 (ed
in particolare del calcolo del quinquennio), il lasso di tempo impegnato dalla procedura
liquidativa rappresenti un unico periodo d'imposta. Un'analoga norma non è
riscontrabile in rapporto agli imprenditori individuali e ai soci delle società di persone.
Questa assenza si poteva comprendere sino a quando le perdite subite da questi
soggetti potevano essere dedotte dal loro reddito complessivo, ma riesce difficilmente
giustificabile ora che la loro deduzione è limitata ai redditi della medesima tipologia. È
discusso se le perdite della residua frazione di esercizio iniziale, e degli esercizi
intermedi, abbiano rilievo autonomo, possano cioè essere sfruttate ai sensi dell'art. 8 e
dell'art. 84. Contro tale possibilità si è schierata la relazione ministeriale alla
disposizione in commento, sostenendo che la regola della rilevanza dei risultati degli
esercizi in questione scaturirebbe unicamente da esigenze di cautela fiscale, e varrebbe
perciò solo laddove detta esigenza sussiste, e cioè solo ove si abbia un reddito e non una
perdita. In realtà il testo dell'art. 182 non sembra autorizzare una simile soluzione
restrittiva, non escludendo la possibilità di cui trattasi, né espressamente, né
implicitamente con la formula “il reddito ... è determinato in via provvisoria in base al
rispettivo bilancio”, la quale pare indirizzata a definire le modalità di calcolo e la
rilevanza sul piano impositivo del risultato economico degli esercizi di cui trattasi più
che a rendere inefficaci le eventuali perdite. L'unico spunto contrario lo offre,
nell'ultimo periodo, laddove prevede che, se la liquidazione si chiude in perdita, si
applica l'art. 8. Se qualche dubbio può perciò nutrirsi per imprenditori individuali e
società di persone, per le società di capitali non sembra si possa negare l'utilizzo delle
predette perdite anche in corso di liquidazione.
Può accadere, specie se si aderisce alla tesi della «sterilizzazione» delle perdite
sofferte durante la liquidazione, che l'ammontare delle imposte versate in relazione ai
redditi prodotti durante la liquidazione sia maggiore di quello dell'imposta
(eventualmente) dovuta per il periodo conclusivo. In questa ipotesi sorge un credito
verso l'Erario, che può essere chiesto a rimborso oppure - ma, per le ragioni indicate
sopra a proposito del riporto delle perdite, non nel caso di società di capitali - riportato
in avanti.
La terza, ed ultima, fattispecie ricorre quando la durata della liquidazione varca il
suddetto limite dei tre o dei cinque esercizi. In questa ipotesi i redditi (o le perdite, e
questa è una buona ragione per non considerare dette perdite irrilevanti ai fini
impositivi) esposti nelle dichiarazioni relative alla residua frazione dell' esercizio
iniziale e agli esercizi intermedi perdono quella peculiare attitudine a dare vita ad un
risultato valorizzabile unitariamente in sede di chiusura della liquidazione, e quindi
ritornano sotto l'egida della disciplina ordinaria. Questo ritorno non coinvolge soltanto i
126
meccanismi di calcolo dei redditi emersi nel corso della liquidazione, ma altresì le
modalità della loro acquisizione a tassazione. Per effetto del superamento dei limiti
temporali suindicati viene infatti meno - e retroattivamente - il potere dell'imprenditore
o dei soci di avvalersi della tassazione separata di cui al citato art. 17. E questo implica
la necessità - quando i predetti soggetti si sono avvalsi del potere in questione - di
procedere alla rideterminazione dell'imposta dovuta per ciascuno degli esercizi chiusi
prima dello sconfinamento, facendo concorrere i redditi conseguiti in dipendenza della
liquidazione, originariamente tassati separatamente, alla formazione del reddito
complessivo, ricalcolando l'imposta, e versando la differenza.
Effetti analoghi - di consolidamento delle dichiarazioni relative agli esercizi chiusi
durante lo svolgimento della procedura - si deve ritenere produca la revoca dello stato di
liquidazione, ancorché intervenuta prima della scadenza dei termini menzionati: non
compiendosi la liquidazione dell'impresa appare, infatti, irragionevole applicare la
normativa che la presuppone. Quanto al periodo interessato dalla revoca, l'ininfluenza
della ripresa dell' attività sulla disciplina relativa alla determinazione del reddito esclude
la sua attitudine ad interrompere il periodo stesso, al quale è quindi da riconoscere una
durata ordinaria.
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