Nietzsche - genealogia della morale e trasvalutazione (1844-1900) L’ultimo dei cinici dell’età contemporanea. 1. Un compito L’opera di Friedrich Nietzsche, come lui stesso affermava in Umano, troppo umano, viene interpretata sin dal primo apparire come una scuola del sospetto, del sovvertimento, dell’audacia. Nel disprezzo di Nietzsche per le più consolidate tradizioni, nella sua diffidenza per norme e valori accreditati, i contemporanei vedono l’esercizio di un provocatorio, dissacrante, ma coraggioso sospetto che si propone di smascherare l’origine «umana, troppo umana» dei falsi mondi ideali della filosofia, della morale, della religione, della scienza, della storia. Ciò che però i contemporanei non possono comprendere, confessa orgogliosamente Nietzsche, è il profondo rivolgimento che la sua critica è destinata a produrre, «una crisi come non ve ne furono mai sulla terra»; il suo proposito di smascherare i bisogni da cui nascono la fiducia nella scienza e nel progresso, la speranza nell’aldilà e in Dio, l’assegnamento sulla storia, potrà essere compreso e condiviso solo dai posteri (Nietzsche non esita a definirsi un autore «postumo», che si occupa di problemi «inattuali»): il «gregge venerante» dei suoi contemporanei non è in grado di comprendere e approvare un’opera di demolizione e liberazione che non ha avuto eguali nella storia. 1.1. il coraggio analitico e teoretico del sospetto (tra i “maestri del sospetto” P. Ricoeur) «I miei scritti sono stati definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente anche del coraggio, anzi dell’audacia. In effetti, io credo che nessuno abbia mai guardato nel mondo con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio.» (Umano troppo umano) 1.2. il compito etico del nichilismo «Non siamo, appunto con ciò, incorsi nel sospetto di un’opposizione, un’opposizione fra il mondo in cui siamo stati fino a oggi di casa con le nostre venerazioni — per amor delle quali, forse, sopportavamo di vivere — e un altro mondo, che noi stessi siamo: in un sospetto implacabile, radicale, estremo circa noi stessi, che tiene noi europei sempre di più, sempre più duramente, in sua balia, e che facilmente potrebbe porre le generazioni venture dinanzi a uno spaventoso aut-aut: «O cancellate le vostre venerazioni oppure voi stessi»? Quest’ultima cosa sarebbe il nichilismo, ma non sarebbe anche la prima – il nichilismo? Questo è il nostro interrogativo.» (Gaia scienza §346) Nietzsche è nichilista perché distrugge valori… religione, morale e scienza. In realtà si proclama lui per primo nichilista (Gaia scienza): quei valori sono nichilisti perché riducono al nulla il vivere, Nietzsche riduce a nulla il nichilismo della cultura del disprezzo dell’uomo, sono “nichilista che crea” (solo dal nulla si può creare, creatio ex nihilo; e viceversa “solo come creatori noi possiamo annientare” - Gaia scienza) Una posizione nichilista, quella del pensiero dominante e, contemporaneamente, venerante (non troverebbe altrimenti diffusione), che si realizza con la tecnica e con lo stratagemma del doppio mondo: opporre a questo un altro mondo e da quello avviare il giudizio, la condanna, il disprezzo, la distruzione di questo. Occorre invece un nichilismo da creatori, del creare dal nulla, che diventa: trasmutazione dei valori. 1.3. la trasmutazione dei valori (trasvalutazione, trasfigurazione) «Conosco il mio destino. Un giorno il mio nome sarà associato al ricordo di qualcosa di prodigioso, — a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza, a un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso, santificato. Io non sono un uomo, sono dinamite. — E con tutto ciò non vi è in me nulla del fondatore di religioni — le religioni sono affari per la plebe, io ho bisogno di lavarmi le mani dopo il contatto con uomini religiosi... Non voglio “credenti”, penso di essere troppo maligno per credere a me stesso, non parlo mai alle masse... Ho una paura terribile che un giorno mi canonizzino: si indovinerà perché pubblico prima questo libro, deve impedire che con me si commettano degli eccessi... Non voglio essere un santo, piuttosto un buffone... Forse sono un buffone… E tuttavia, o piuttosto, non tuttavia 1 — perché non ci fu niente di più menzognero sinora del santo — per bocca mia parla la verità. — Ma la mia verità è terribile: poiché finora si è chiamata verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori, questa è la mia formula per un atto di sublime autodeterminazione dell’umanità, che è divenuto in me carne e genio.» (Ecce homo) «Una trasvalutazione di tutti i valori, questo interrogativo così nero, così enorme, che getta ombre su colui che lo pone — un tale destino come compito lo costringe ogni attimo a correre nel sole, a scuotere da sé una pesante serietà, ormai fattasi troppo pesante. Ogni mezzo è buono a questo scopo, ogni «caso» è un caso fortunato». (Trasvalutazione di tutti i valori) 2. il metodo 2.1. il metodo ermeneutico della genealogia Per rimuovere la terra e scoprire le radici, sollevare le maschere e liberare il volto nascosto di Dioniso, Nietzsche si affida alla genealogia: essa muove dai sintomi per spingere la sua attenzione verso l’origine delle malattie di cui soffre l’umanità; dietro i sintomi cerca il disagio, il bisogno, le carenze in cui trovano terreno fertile per diffondersi la febbre storica, la malattia morale, la peste metafisica, il delirio delle fedi. La genealogia nasce dal sospetto che i valori tradizionali non siano ciò che crediamo, i principi e la fondazione dei sistemi teorici organici della religione, morale, scienza, storia … ma strumenti per imporre, attraverso di essi, la cultura del comando e della potenza, del dominio e del disprezzo della vita nella sua prima, autonoma e originaria manifestazione e creatività. Questo sospetto muove Nietzsche a mettere a nudo le radici del pensiero dominante in quei sistemi e a ricercarne le origini e la dinamica mediante un lavoro interpretativo che non si configura come semplice ricostruzione archeologica del passato, ma come messa a nudo delle radici nascoste e dimenticate delle menzogne «credute e venerate», della «falsità che dura da millenni». 2.1.1. Una ricostruzione genealogica per destrutturare. La genealogia delle menzogne: «Dove sta dunque la loro origine?». Ai filosofi, responsabili di «destoricizzare» gli oggetti su cui verte la loro ricerca e irrigidire gli strumenti teorici di cui si servono, Nietzsche oppone un proprio metodo di indagine teso a ricostruire la genealogia dei concetti filosofici. A tale metodo «genealogico» Nietzsche ricorre spesso per smascherare i processi che hanno condotto all’affermazione dei valori, della morale, dell’ascetismo. Alla genealogia egli non attribuisce quindi il significato «fondativo» che, in genere, i metafisici assegnano alla ricerca delle origini; non domanda di portare alla luce il primo manifestarsi di una qualche entità originaria, di qualche essenza metafisica; al contrario, egli interpreta la genealogia come lo strumento critico mediante il quale mostrare come si producono i concetti, esibire i vari modi del loro concreto divenire, tra fraintendimenti, lacune, interpretazioni. Tracciando la storia degli errori della ragione, ricostruendo la genesi della «mummificazione» dei concetti, Nietzsche mostra il contraddittorio processo di duplicazione del mondo in cui si sono espressi il disprezzo della vita e l’incapacità di sentirne la pienezza, propri dei filosofi e ne avvia, contestualmente, un percorso di demolizione. 2.2. fare filosofia con il martello, «Io non sono un uomo, sono dinamite» (Ecce homo) L’immagine della caduta delle menzogne, della liberazione dagli errori, ritorna nel titolo di uno degli scritti più significativi dell’ultimo periodo dell’attività di Nietzsche: Crepuscolo degli idoli ovvero come si fa filosofia col martello (1888). Così Nietzsche presenta quest’opera in Ecce bomo (una provocatoria autobiografia composta nello stesso anno): «Questo scritto di neppure centocinquanta pagine, sereno e fatale nel tono, un demone che ride, l’opera di così pochi giorni che esito a dire quanti, è l’eccezione tra i libri: non vi è nulla di più ricco di sostanza, di più indipendente, di più eversivo, di più cattivo. Se ci si vuol fare rapidamente un’idea di come, prima di me, tutto fosse capovolto, si inizi con questo libro. Ciò che nel titolo è indicato come “idoli” è molto semplicemente ciò che sino ad ora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli, detto a chiare lettere: le antiche verità stanno per finire..» Si tratta, come Nietzsche annuncia nella Prefazione, di «una grande dichiarazione di guerra»: contro la ragione dei filosofi e i suoi errori (la verità, i concetti, la contrapposizione tra vero e apparente), contro Socrate che per primo ha indicato 2 nella «razionalità ad ogni costo» il fondamento della «morale del perfezionamento», contro ogni morale che elevando la rinuncia a norma, impone all’uomo una vita «contronatura», contro i dotti tedeschi e le loro istituzioni scolastiche, contro l’ideale di perfezione che si è imposto nell’età classica soffocando la libera volontà dionisiaca di vivere. Non si tratta di un martello che demolisce, distrugge, ma un martello che ispeziona, indaga sentendo attraverso le risonanze la compattezza o il vuoto, la profondità o la sottigliezza, la tenuta o la fragilità di ciò che indaga. Nietzsche vibra sugli idoli un colpo di martello che ha lo scopo di far risuonare quel «suono cavo», quel vuoto che i filosofi celano con le loro parole, i loro concetti, le loro verità. 2.3. aforismi per la filosofia della liberazione. Interrogativi, enigmi, aforismi. «Noi per nascita divinatori d’enigmi» 2.3.1. Nietzsche rifiuta di servirsi delle tradizionali forme del testo filosofico (come il trattato, la lezione, il saggio) vedendo nell’esposizione ordinata, organica, argomentata l’espressione di un sapere dogmatico, pietrificato; non a caso nella forma del trattato sono scritte le opere di metafisica, scienza, morale che i dotti destinano al «gregge degli animali veneranti». Allo spirito libero cui Nietzsche si rivolge si addicono invece la frammentarietà e l’essenzialità dell’aforisma, l’inquietudine dell’interrogativo, l’ambiguità dell’enigma. Queste forme paiono imporsi naturalmente alla sua filosofia, che esige modi espressivi capaci di rompere i rigidi schemi della razionalità ottocentesca per dare spazio al dubbio, alla meraviglia, all’irrisione, all’invettiva. La scelta aforistica, adottata nella Gaia scienza, consente in particolare a Nietzsche di abbandonare l’unicità e l’assolutezza della prospettiva di indagine assunta dai precedenti sistemi filosofici (lo spirito nell’idealismo, i rapporti economici nel marxismo, la scienza nel positivismo sono intesi come principi esplicativi totali a cui viene ricondotto ogni fenomeno) e di assumere molteplici punti di vista, riprendendo da diverse angolature gli stessi temi. Il procedere aforistico, volutamente sganciato da strutture di sistema ma teso a demolire ostacoli, smontare pregiudizi, aprire varchi, indicare e iniziare strade… è uno stile che impone la sola lettura delle opere come modo per avvicinare Nietzsche e impedisce una riconduzione delle sue affermazioni a piani di sistematicità teoretica, filosofica (magari manualistica). 2.3.2. la forma diventa una prassi filosofica particolare; nell’aforisma (nella forma) è contenuto uno specifico impegno filosofico. La filosofia nella forma dell’aforisma (della sentenza, della massima, del frammento) è una filosofia che non si accontenta di lettori attenti, vuole lettori che assumano il coraggio della interpretazione e quindi dell’analisi genealogica e del “fare filosofia con il martello”. Nella Genealogia della morale (1887) Nietzsche stesso indica il modo in cui si dovrebbe leggere un aforisma: «In altri casi la forma aforistica presenta delle difficoltà... un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora ‘decifrato’; deve invece prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione.» Il complesso gioco di significati sottintesi e di allusioni, di illuminazioni folgoranti e di ardite metafore, nonché una certa dose di freddo argomentare, rendono l’aforisma di Nietzsche di ardua lettura e richiede il coraggio dell’interpretazione, resta perennemente un testo aperto, richiede la pacatezza e la lentezza dell’ascolto. 2.3.2.1. una riflessione di Bonhoeffer sul tema del frammento (una anticipazione poi ripresa): scrive Bonhoeffer: « Ci sono poi frammenti che […] restano significativi attraverso i secoli, perché il loro completamento può essere solo affare di Dio, cioè frammenti che devono essere frammenti — penso ad esempio all’Arte della fuga. Se la nostra vita rispecchia anche solo da lontano un frammento di questo tipo, nel quale i diversi temi che si aggiungono sempre più numerosi si armonizzano almeno per un breve istante, e nel quale il grande contrappunto viene mantenuto stabilmente dall’inizio alla fine, sicché poi, dopo l’interruzione, al massimo si può intonare ancora il corale “Così mi avanzo davanti al tuo trono” — allora non dovremo lamentarci neppure della nostra vita frammentaria, ma dovremo anzi esserne contenti.» (Resistenza e Resa). 2.3.3. possibilità di costanti tematiche e direzioni. Di fronte ad un procedere aforistico è inopportuno ricostruire grandi disegni di sistema, ma di fronte a testi aforistici di così vasta 3 ampiezza (e di fronte alla insopprimibile esigenza di orientamento e comprensione a cui il lettore continua a restare vincolato) si possono cogliere ed evidenziare nei testi di Nietzsche, nei suoi campi di indagine, il ricorrere di temi e alcune costanti o dominanti di metodo. Partito dall’interesse per la filologia classica (La nascita della tragedia 1871), il campo dei suoi interessi si allarga alla religione, al cristianesimo, alla morale, alla conoscenza scientifica, alla storia, all’arte. È proprio dal percorso in tutti questi campi, realizzati con strategie di metodo ricorrenti, che la filosofia di Nietzsche va sempre più definendosi come strumento di liberazione: dalla idealizzazione del passato professata dagli storici; dallo sdoppiamento, introdotto dai filosofi, tra mondo superiore delle pure verità eterne e mondo svalutato della realtà materiale; dalla servitù, imposta dai sistemi morali e dalle religioni; dai principi della rinuncia, dell’umiliazione, dell’obbedienza. La critica «bellicosa» condotta da Nietzsche non risparmia alcuno dei valori che le filosofie ottocentesche avevano posto al centro della loro riflessione. Ciascuna di esse è la manifestazione di un disagio, di una debolezza dell’umanità: con l’occhio attento del clinico, Nietzsche interpreta i sintomi e risale all’origine della «mostruosa malattia della volontà» che affligge l’umanità. 3. il percorso: la genealogia della morale La morale sottoposta all’analisi critico-genealogica. Sempre più convinto che il suo primo compito sia quello di «preparare un momento di autocoscienza dell’umanità, un grande mezzogiorno» che riveli finalmente quale auto inganno si celi dietro i valori morali, Nietzsche getta il suo sguardo diffidente sulla morale filosofica e religiosa, sui valori ascetici che essa ha imposto all’uomo. In due scritti, cui lavora tra il 1886 e il 1887 e pubblica con i significativi titoli Al di là del bene e del male e Genealogia della morale, smaschera gli ignobili sentimenti, gli impulsi meschini che sono all’origine della morale: la santificazione della rinuncia e della sofferenza, la glorificazione dell’umiltà e del sacrificio, cui invitano le morali di ogni tempo, nascono dal risentimento di tutti quelli che, incapaci di «dire di sì» alla vita, trasformano la loro impotenza in regola aurea. È dunque da un istinto vendicativo, proprio degli «schiavi», dei «malriusciti» che è sorta l’idea di una morale che, con le sue tavole di valori, impone a tutti gli uomini quell’esistenza contronatura propria degli emarginati. Sintomo di una patologica incapacità di vivere, la morale si è imposta nelle filosofie e nelle religioni senza che nessuno abbia mai osato metterne in dubbio il valore, mostrarne l’origine «umana, troppo umana»; sacerdoti e filosofi, vittime della stessa impotenza, hanno dibattuto sulla definizione dei valori, ma non hanno dubitato della loro opportunità. Frutto e alimento di questa ingenua fiducia negli ideali morali sono i sensi di colpa, di peccato, di rimorso nei quali l’animo dell’uomo si tormenta, infelice ma fiducioso nel riscatto che gli è promesso nell’aldilà. Si impone quindi un esame critico delle morali occidentali: analisi della morale in sé, nei suoi elementi invarianti (bene e male, valore e giudizio, merito e colpa, premio e pena), nella tecniche della propria legittimazione (l'origine degli elementi che la compongono, l'autogiustificazione, la reiterazione), con l’obiettivo di smascherare e smontare la morale mettendone a nudo le radici occulte, i meccanismi ricorrenti, la funzione “stravolgente” repressiva svolta dalla morale dominante. «… in quali condizioni l'uomo si è inventato quei giudizi di valore: buono e cattivo? e che valore hanno essi stessi? fino a oggi hanno ostacolato o promosso la prosperità del genere umano? sono segno di uno stato di necessità, di immiserimento, di degenerazione della vita? o invece in essi si tradisce la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua certezza, il suo futuro?» (Genealogia della morale, pref. 3) Una critica genealogica che è analisi storica, studio delle traslazioni e dei ribaltamenti attraverso un’ermeneutica linguistica e fattuale: «abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di porre in questione finalmente proprio il valore di questi valori, e per fare ciò abbiamo bisogno di una conoscenza delle condizioni e delle circostanze da cui sono stati prodotti, in cui si sono sviluppati e modificati, conoscenza che fino a oggi non solo non è esistita, ma non è stata nemmeno mai auspicata (pref. 6). Qualcuno vuole forse sondare un po' il mistero delle modalità con cui sulla terra 4 si fabbricano gli ideali? chi ne ha il coraggio? (I,14 [modalità adottata per le citazioni dalla Genealogia della morale]). Ogni concetto, in cui si concentri semioticamente tutto un processo, si sottrae alla definizione; è definibile solo ciò che non ha storia (II,13)». Le strade della genesi della morale scoperte e indicate dall’analisi critica genealogica. La tecnica dei molti punti di vista, la scoperta e la presentazione delle molte ipotesi di genealogia della morale. Una consapevolezza regge l’analitico lavoro dello smontaggio genealogico attuato da Nietzsche: la forza (oppressiva) della morale si basa sulla pluralità delle sue (presunte) fondazioni tutte tese legittimarne il ruolo. 3.1. una genesi storica sociale (e psicologica) 3.1.1. la morale nasce da un capovolgimento storico: la morale dei vincitori, degli aristocratici (istinto, passione, orgoglio, forza, pienezza, crudeltà, violenza) è stata sconfitta dalla morale dei vinti, degli schiavi (sconfitta, sofferenza, sacrificio, dedizione, obbedienza, morte) quando questa è diventata numero, gregge, massa. La debolezza è salita al cielo delle virtù, così come la povertà, l’umiltà, la sofferenza, il sacrificio, l’autopunizione, la compassione, l’agape … tutte virtù del disprezzo dell’uomo, accompagnate da risentimento e autodifesa dei deboli (schiavi,gregge). Viene messa in atto quella logica secondo la quale il debole cerca di dominare il forte tentando di indebolirlo con la compassione. In realtà quando questa morale vince e domina, mistifica e crea il sospetto e l’odio (e una nuova forma di compassionevole violenza, di dominio e possesso in nome del servizio e della carità). La solida reputazione etica di cui siamo fatti oggetto coincide con il nostro essere diventati un buon strumento (Gaia scienza § 296); «I nostri doveri sono i diritti degli altri su di noi » (Aurora § 112); «per lo più siamo per tutta la vita i giullari di giudizi infantili incarnati nell’abitudine» (Aurora § 140). «Quelli che fin dall'inizio sono stati colpiti dalla sventura, i prostrati, i distrutti, i più deboli, sono quelli che più degli altri minano la vita tra gli uomini, che avvelenano e problematizzano, nella maniera più pericolosa, la nostra fede nella vita, nell'uomo, in noi stessi.» (III,14) 3.1.2. Alla radice di questo capovolgimento: il risentimento. «Da Nietzsche in poi, in particolare da La genealogia della morale del 1887, la parola ha acquisito il significato che siamo soliti attribuirle oggi: un desiderio di vendetta inappagato che si radica negli strati più profondi della personalità. Il filosofo tedesco ha posto al centro delle trasformazioni istituzionali e culturali della modernità l’azione creatrice della vendetta immaginaria, assumendola come strumento teorico privilegiato per comprendere le dinamiche in corso nell’era moderna. Scrive Nietzsche: «La rivolta degli schiavi nel campo della morale comincia col fatto che il ressentiment stesso diventa creativo e genera valori; il ressentiment di quei tali a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria». Nietzsche lega il risentimento direttamente alle dinamiche della vendetta, nello specifico all’impossibilità della sua piena realizzazione e ai dispositivi sociali che ne regolano il funzionamento. La rivolta degli “schiavi” per Nietzsche ha comportato un vero e proprio rovesciamento delle configurazioni di idee e valori del passato. L’aspetto più creativo di una simile rivolta, secondo Nietzsche, risiederebbe nel fatto che essa ha assunto le forme secolarizzate della democrazia e del socialismo, i cui fondamenti etici sarebbero radicati nella tradizione giudaico-cristiana. I principi e i valori diffusi dal messaggio evangelico avrebbero operato un capovolgimento della morale aristocratica ed elitaria precristiana, nel presentarsi come rivincita di tutti coloro che non sono in grado di affermarsi con le proprie forze, ma che attraverso l’adesione al cristianesimo possono aspirare alla vittoria sul “malvagio nemico”». (Tomelleri Stefano 2009 Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma p.23-24) 3.2. una genesi strategica psicologico-pubblicitaria presentata in quattro dinamiche 3.2.1. la forza e la nascita della morale deriva da un capovolgimento: essa presenta valori che danno certezza (di azione e di giudizio), in realtà è accaduto il contrario: la morale afferra il “l’anelito di certezza” (Gaia scienza § 347) che l’uomo esprime e forgia risposte adatte e funzionali (variabili non a caso nelle varie epoche) basta che abbiano i tratti dell’incondizionato, necessari al loro ruolo; sono infatti prodotti sulla base del bisogno. 5 3.2.2. il sommo valore degli enunciati/sentenze/massime morali (religiose, politiche) non risiede nei loro contenuti ma nelle cerimonie e nei modi solenni della loro enunciazione, nella credulità e nel timore che tali riti di fondazione, con il loro carico di simboli e di cerimonie solenni, sono in grado di generare, nel pathos e nella gravità della sua predicazione ed enunciazione 3.2.3. una coercizione che fa appello al pensiero, come proprio dell’uomo, mentre ne annulla l’autonomia: l'uomo non è un animale dominabile con la sola coercizione fisica, egli pensa; chi intende possedere l'uomo deve raggiungerlo fino al pensiero; occorre analizzare le funzioni psichiche di cui la morale si avvale: la memoria, la ragione (fonti di mediazione e regola), l'istinto gregario (gli exempla). Si tratta di usare la ragione e la memoria (con arte retorico-pubblicitaria di convinzione) per creare l’istinto: un istinto di consenso e sottomissione proclamato con ragione e memoria. «…non esiste niente di più terribile e misterioso della mnemotecnica … questa è la lunga storia della origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale cui sia concesso promettere, include l'impegno più diretto di rendere l'uomo necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, conforme alla regola e di conseguenza prevedibile». (II,3,1). 3.2.4. l’autoalimentarsi del circolo debolezza – morale: è la debolezza («l’istinto della debolezza») a far sorgere la morale e la morale alimenta i valori della debolezza (sudditanza, ubbidienza, rispetto, dipendenza…) 3.3. una genesi economico-giuridica: la morale deriva la propria logica dalla natura costitutivamente "valutante" dell'uomo: la colpa crea il debito, il risarcimento comporta la pena, il danno vuole la punizione. «In questa sfera, nel diritto delle obbligazioni, dunque, ha il suo primo focolare il mondo dei concetti morali di colpa, coscienza, sacralità del dovere.» (II,6) 3.4. una genesi linguistica (ermeneutica): le connessioni linguistiche dominanti e diffuse chiamano a raccolta il mondo dei valori morali fissando legami destinati a imporsi come senso comune. Sulla premessa che l’origine della lingua è espressione di chi è al potere (I,2). Il termine buono indica il nobile, guerriero aristocratico; il cattivo indica l’infimo, il volgare, il plebeo. «L'indicazione della via giusta mi è stata offerta dal problema di ciò che le definizioni di buono, coniate dalle diverse lingue, debbano realmente significare dal punto di vista etimologico, e così ho scoperto che esse conducono tutte alla stessa metamorfosi concettuale; che dovunque 'aristocratico', 'nobile', nel senso di condizione sociale, sono i concetti fondamentali da cui discende necessariamente il concetto di 'buono'...» (I,4); in ricorrente e rigorosa dicotomia. 3.5. una genesi religiosa: la morale è il modo con cui la religione sopravvive alla morte di Dio; anche dopo la morte di Dio (in un mondo che si definisce ateo) persistono valori, principi, regole cui viene attribuito il carattere dell’assoluto e della certezza; e, come la religione, la morale resta una prassi che ruota sui concetti del sospetto (disprezzo, condanna e risentimento), della redenzione (ascesi e salvezza). «Si potrebbe definire il cristianesimo, in modo particolare, come la grande tesoreria dei più spirituali mezzi di conforto, tanta consolazione, pietà, narcotizzazione si accumulano in esso... Quella insoddisfazione dominante si combatte in primo luogo con mezzi che riducono il senso della vita in generale a livello infimo.» (III,17) 3.6. una genesi epistemologica: la scienza è il luogo moderno, in apparente veste laica, dell'idea ascetica e teologica della verità e dell’assoluto; essa, più o meno consapevolmente, ricava dall’ambito religioso e morale il metodo della causalità (necessità), la volontà di verità e di assoluto. «Dio...nascosto dietro la grande trama a traliccio della causalità (III,9). A partire dal momento in cui la fede nel Dio dell'ideale ascetico viene negata, si crea anche un nuovo problema: quello del valore della verità. La volontà di verità ha bisogno di una critica - con ciò definiamo il nostro proprio compito.» (III,24) 3.7. una genesi metafisica: la genealogia della morale è, in sintesi unitaria e in forma di “sostanza”, genealogia della coscienza e della sua variante metafisica, l’anima. Gli atteggiamenti molteplici e contrastanti, individuali e collettivi storici, prendono il nome unico di “coscienza”, si sostanzializzano e danno vita ed esistenza ad una sede unica di moralità: la coscienza morale, 6 l’anima. Inizia da qui una costruzione e spiegazione circolare secondo causalità reciproca: l’analisi morale si esprime attraverso un continuo rapporto reciproco di causa ed effetto tra coscienza, da una parte, che si manifesta negli atteggiamenti morali diversi e contrastanti di risentimento, disprezzo, dominio, debolezza, paura, snaturamento… di cui è causa e, dall’altra, l’insieme dei molti atteggiamenti morali che generano formano e definiscono (sono causa) la coscienza morale e l’anima. Compare anche qui una circolarità genealogica, quella tra anima (coscienza) e morale. «Tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno - questo è quello che io chiamo interiorizzazione dell'uomo: solo così si sviluppa nell'uomo quella cosa che più tardi riceverà il nome di anima. Tutto il mondo interiore, all'inizio sottile come se fosse teso tra due strati epiteliali, si è espanso e spalancato, ha guadagnato, profondità, larghezza, altezza, tanto quanto le possibilità dell'uomo di scaricarsi all'esterno sono state impedite.» (II,16) 4. l’urgenza dell’oltrepassamento e della trasmutazione Come divenire naturale: «Tutte le grandi cose si annientano da sole, con un atto di autoeliminazione: così vuole la legge di natura, la legge del necessario 'autooltrepassamento' nell'essenza della vita...Così è crollato il cristianesimo come dogma, a causa della sua stessa morale; così anche il cristianesimo come morale deve ancora andare in rovina: noi siamo alle porte di questo avvenimento.» (III,27) 4.1. smascherare l’innocenza mascherata, essenza strategica dell’inganno morale. Come compito della filosofia, che è ermeneutica, critica, smascheramento, chiarificazione. «Poiché non dobbiamo ingannarci a questo proposito: ciò che costituisce il segno distintivo più tipico delle anime moderne, dei libri moderni, non è la menzogna, ma l'innocenza incorporata nella mendacia moralistica. Dover mettere ovunque allo scoperto questa innocenza, ciò costituisce forse la parte più disgustosa del nostro lavoro di tutto quel lavoro in sé non trascurabile, cui oggi deve sobbarcarsi uno psicologo.» (III,19) La morale si diffonde e si difende dietro e con la maschera dell’innocenza; la critica genealogica fa crollare la maschera… smaschera e libera. Questo è l’evento che attende un recente accadere. È la strada che apre al diventare naturali. 4.2. contro le persistenti ed “eterne” (costanti) virtù, elogio delle brevi abitudini 4.2.1. Le abitudini sono la leggerezza dell’agire. Habitus è il termine con cui i latini indicano la virtù, cioè l’acquisita disposizione all’agire secondo modelli che permettono la snellezza dell’azione e definiscono il modo di essere proprio della persona, la sua riconoscibilità, per sé e per gli altri, e la “salda reputazione”. 4.2.2. Si tratta di un concetto, l’abitudine, che porta con sé il concetto di ripetizione e quasi di fissità, ma si deve trattare di abitudini brevi, per consegnare ad esse la propria unità e il proprio stile (abitudini, qualità), ma in cammino (brevi) e nell’oltrepassamento (l’oltreuomo); «tu sei sempre un altro» (Gaia scienza § 307). In natura il divenire definisce la sostanza, già a partire dai concetti di Aristotele: la sostanza naturale diviene in quanto tende alla propria forma…un fine (una causa finale) che non trova mai una definitiva realizzazione. La posta in gioco contenuta nei paradossi del divenire non si ferma alla sfida logica e matematica che essi lanciano, ma si colloca in sede metafisica e quindi generale; diventa il modo di considerare la natura di ogni realtà nella sua essenza propria e nel suo divenire. In sede antropologica si trasforma nella domanda del divenire e del mutamento che ogni singolo vive, dei livelli e del diritto al proprio essere in mutamento. «296 La salda reputazione. Una volta la salda reputazione era una cosa estremamente utile, e ovunque, almeno laddove la società continua sempre a essere dominata dall’istinto del gregge, è ancor oggi quanto mai consono al fine di ogni individuo far passare per inalterabili il proprio carattere come la propria occupazione, anche se questi, in fondo, non lo sono. «Si può fare assegnamento su di lui, egli è sempre coerente a se stesso»: questa è, in tutte le contingenze pericolose della società, la lode che deve considerarsi maggiormente significativa. La società sente con soddisfazione di avere nella virtù di questo, nell’ambizione di quello, nella riflessione e nella 7 passione di quell’altro, uno strumento fidato, pronto ad ogni momento: essa tiene in sommo onore questa natura strumentale, questa costante fedeltà a se stessi, questa irremovibilità nelle opinioni, nelle aspirazioni e anche nelle non virtù. Un siffatto apprezzamento che è e fu in auge ovunque, unitamente all’eticità del costume, educa «caratteri» e getta il discredito su ogni cambiamento, su ogni diverso orientamento, su ogni autotrasformazione. Per quanto grande possa essere del resto il vantaggio di un tal modo di pensare, si, tratta comunque per la conoscenza della forma di giudizio universale più nociva di tutte: infatti proprio la buona volontà dell’uomo della conoscenza, di dichiararsi intrepidamente, in ogni tempo, in antitesi alla sua preesistente opinione e di nutrire in generale diffidenza per tutto quanto in noi voglia stabilizzarsi — è qui condannata e sottoposta al discredito. I sentimenti dell’uomo della conoscenza, in quanto sono in contraddizione con la «salda reputazione», sono considerati come disonorevoli, mentre la pietrificazione delle opinioni ha per sé ogni onore: in balìa d’un siffatto criterio di valore dobbiamo vivere ancor oggi! Come è difficile vivere, quando si sente contro e intorno a sé il giudizio di molti millenni! È probabile che per molti millenni sia gravato sul conoscere il peso dalla cattiva coscienza, e che debbano esserci stati nella storia dei più grandi spiriti molto disprezzo di sé e molta segreta miseria.» Nietzsche Friedrich 1886 La gaia scienza, A. Mondadori, Milano 1878 «105. L’egoismo apparente. La maggior parte degli uomini, qualunque cosa possano ognora pensare e dire del loro « egoismo », ciononostante, in tutta la loro vita, non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell’ego, che si è formato, su di essi, nella testa di chi sta intorno a loro, che si è loro trasmesso; in conseguenza di ciò vivono tutti insieme in una nebbia di opinioni impersonali e semipersonali, e di arbitrari, quasi poetici, apprezzamenti di valore; ciascuno di costoro vive sempre nella testa di un altro e questa testa ancora in altre teste: un curioso mondo di fantasmi che sa darsi, in tutto questo, un’aria così assennata! Questa nebbia di opinioni e di abitudini si sviluppa e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge; risiede in essa l’enorme influsso dei giudizi generali sull’uomo, — tutti questi uomini sconosciuti a se stessi credono nell’esangue entità astratta « uomo », vale a dire in una finzione; e ogni trasformazione introdotta in questa astratta entità attraverso i giudizi di singoli potenti (come principi e filosofi) influisce straordinariamente ed in misura irrazionale sulla grande maggioranza: tutto questo per la ragione che ogni singolo, in questa maggioranza, non è in grado di contrapporre un reale ego, a lui accessibile e da lui scrutato fino in fondo, alla pallida finzione universale, e non può, quindi, annullarla.» (Nietzsche Friedrich 1886 Aurora, A.Mondadori, Milano 1981) 5. trasmutazione dei valori (trasvalutazione) Nella descrizione che Nietzsche traccia di sé in Ecce homo le sue scelte di vita e di pensiero si animano di una tensione, di un «movimento» che trova il suo culmine nel tema della «trasvalutazione»: presentati come momenti di un processo di liberazione (dai valori morali, dalle credenze religiose, dai miti della scienza e della storia, dai principi assoluti della filosofia), gli atti e gli scritti di Nietzsche rivelano la loro natura di «colpi di sparo» diretti contro gli inganni, contro le «falsità di millenni» da cui il gregge degli uomini si è lasciato raggirare. Cadono le antitesi tradizionali che vogliono il mondo e l’uomo divisi tra il bene e il male, la verità e la falsità, la salute e la malattia; si rivaluta la dimensione del «sì alla vita», al suo divenire non prevedibile e sempre mobile ma non ingestibile e priva di coraggio. Alla tra svalutazione è affidato l’attacco a ogni tipo di fatalismo, alibi rinunciatario e radice di schiavitù. Il sì alla vita è fedeltà alla terra e au suoi enigmi, recupero della componente dionisiaca dell’esistenza. Crolla ogni forma di rinuncia, di annullamento di sé (quali sono per esempio la virtù, l’ascesi, la fede nella verità, nell’aldilà… in ogni forma di doppio mondo); il cammino si apre a un «grande mezzogiorno di sublime autocoscienza.., a una salute riconquistata», a una piena guarigione dell’anima. Quella che d’ora in poi il filosofo andrà perseguendo sarà una trasmutazione dei valori, un rovesciamento delle più comuni prospettive di vita e di conoscenza: l’etica del risentimento e della colpa lascerà il campo all’ebbrezza della vita, il fraintendimento del corpo si trasformerà nella «grande salute», all’ombra 8 che l’immagine di Dio per secoli ha gettato sull’umanità subentreranno i raggi della nuova aurora del primo giorno senza Dio. Molti sono i modi con cui Nietzsche delinea il sorgere di una nuova Aurora e una nuova umanità, o meglio l’uomo va oltre se stesso. La descrizione della nuova umanità liberata dalla morsa plurima del nichilismo si affida a espressioni molto varie, allusive, poco concettualizzabili ma per questo (non per questo meno) efficaci: vivere (nel nulla), ridere, danzare, creare, giocare, vivere nel divenire, fedeltà alle proprie brevi abitudini, restare in cammino, amore della lentezza e della contemplazione, vivere nella transizione, aprirsi all’intera meravigliosa incertezza e ambiguità dell’esistenza, e… passione, istinto, follia … All’apparenza intuizioni frammentarie, si tratta invece di schemi che si organizzano in una totalità che non è per nulla inferiore, quanto a densità, coerenza e ampiezza, alle più solide costruzioni della filosofia classica. 5.1. l’eterno ritorno (la nuova temporalità dell’atto di volontà) 5.1.1. una rivelazione improvvisa. Al termine del Libro IV della Gaia scienza Nietzsche riferisce di un concetto che gli si è improvvisamente presentato, come una rivelazione, nell’agosto dell’anno precedente (il 1881), provocando un mutamento «improvviso e profondamente decisivo» del suo gusto. Si tratta del tema dell’«eterno ritorno» che si affaccia nel testo di Nietzsche con questi interrogativi: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte - nella stessa sequenza e successione, e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!” Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”?» 5.1.2. Nell’aforisma successivo Nietzsche presenta Zarathustra, futuro protagonista dell’opera Così parlò Zarathustra, che egli scriverà in pochi mesi, nel corso del 1882. Tema centrale di quest’opera è l’eterno ritorno, «la più sublime formula di affermazione che in generale possa essere raggiunta». 5.1.2.1. contro l’interpretazione tradizionale. L’idea dell’eterno ritorno non si affaccia alla mente di Nietzsche con i tratti di un ricorrere fatale e doloroso degli stessi attimi, degli stessi eventi, come fosse un tempo destinato inesorabilmente a svelare l’inutilità degli atti di volontà degli esseri (questa è l’interpretazione fatalistica di coloro che rinunciano alla vita, alla salute, alla gaiezza), ma si presenta come la negazione della possibilità di porsi fuori dal tempo, al principio o alla fine, e di emettere dall’esterno giudizi sul tempo, sul mondo, sull’uomo; tali giudizi si risolverebbero in una calunnia alla vita, come accade ai «predicatori di penitenza con o senza cristianesimo» e ai «cultori della verità immutabile». Dunque contro l’ignoranza oppressiva di coloro che pensano di stare fuori dal tempo e di possedere e gestire visioni della storia nella sua completezza 5.1.2.2. la retta e la circonferenza. Il concetto di eterno ritorno, richiamato da Nietzsche, nella sua concezione circolare del tempo mette in critica la più recente ma più diffusa e tradizionale concezione lineare del tempo, consacrata dalla civiltà occidentale e dal cristianesimo, e sottrae valore ai principi morali, religiosi e metafisici fondati proprio su tale concezione lineare. Ammettere la linearità del tempo significa infatti riconoscere l’esistenza di un principio e di una fine, significa pensare che tutto tende a una meta e a una definitiva stabilità in relazione alla quale i singoli momenti del cammino sono transitori e irrilevanti; in tale prospettiva i principi e le verità assoluti che la cultura occidentale (e in particolare la metafisica, la morale, la religione, la scienza) propone assumono il valore di totali certezze. Se invece «non vi è una fine» e tutto eternamente ritorna, non vi sono momenti privilegiati, né direzioni prescritte; cade la possibilità di orientarsi nel tempo in vista di principi e di scopi; l’eterno ritorno svela anzi il nulla di ogni progetto etico, religioso, scientifico, fondato sulla visione lineare del tempo. L’eterno ritorno dello stesso 9 appartiene ad una temporalità divina per la quale non si prevede che possa esserci o accadere qualcosa di nuovo; se il tema antico dell’eterno ritorno ha un senso, e lo conserva nella consapevolezza della “morte di Dio” allora si configura diversamente. Si tratta dell’eterno ritorno nell’attimo dell’atto di volontà dell’uomo. 5.1.2.3. l’attimo (Augenblick, letteralmente un battito di ciglia). La figura circolare viene però da Nietzsche ricondotta alla sua forma schematica più essenziale: l’incontro e la coincidenza del passato e del futuro nel momento presente, nell’attimo della decisione e della volontà. La circolarità ripetitiva del passato e futuro, propria della idea dell’eterno ritorno e della concezione circolare del tempo, viene spiegata nella sua origine in quanto il passato ed il futuro accadono realmente nel tempo solo nell’atto di volontà e nell’istante (un “battito di ciglia”) in cui il soggetto decide. La teoria dell’eterno ritorno introduce così una nuova forma di orientamento del pensiero e dell’azione che consiste nel partire sempre dall’attimo, dal presente, cioè da un inizio totalmente affidato alla decisione, al coraggio, alla volontà soggettiva; vivendo nell’attimo l’uomo libera pienamente la propria volontà di potenza, rimuove ogni ostacolo (i valori, i progetti, le norme consolidate dalla tradizione) che si frappongono alla piena realizzazione della dimensione libera, creativa, vitale, del fanciullo e dell’oltreuomo. Non si tratta, tuttavia, di un processo gratuitamente distruttivo; nell’attimo in cui si incontrano i due sentieri del passato e del futuro, l’atto di volontà presente è il momento in cui l’uomo vuole il suo passato, annullandone così il condizionamento, e, decidendo, dà forma e avvia il proprio futuro. Il tempo del vivere è allora istante e frammento che non annulla ma pone in connessione e porta a realtà di scelta e volontà le componenti irrinunciabili del passato e del futuro; senza l’eterno ritorno dell’attimo, il passato è imperativo esterno, il futuro è sogno velleitario. Nell’etica come nell’arte: «Al contrario della rappresentazione, che tende a prolungarsi nel tempo come nello spazio, l'immagine percettiva è istantanea, praticamente aspaziale. Il massimo della chiarezza si ha quando il processo distruttivo della rappresentazione coincide col processo formativo dell'immagine, ed, è un istante.» (Argan Giulio Carlo 2004, Kandinsky, Rizzoli/Skira, 12) Noto ed esplicito è il capitolo di Così parlò Zarathustra, intitolato: La visione e l’enigma. «Alt, nano! dissi, O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io —: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo — tu non potresti sopportarlo!» — Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. «Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti — è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo”. Ma, chi ne percorresse uno dei due — sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?». — «Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo». […] E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e — lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava — invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi», così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me — buono o cattivo — gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. […] 10 — Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente —: e balzò in piedi. — Non più pastore, non più uomo, — un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! — Così parlò Zarathustra. (Così parlò Zarathustra) 5.1.2.4. «non più uomo – un trasformato» Rifiutata l’antica, banale concezione dell’eterno ritorno (con il simbolico gesto del morso al capo del serpente, simbolo storico del circolo dell’eterno ritorno) il pastore afferma la nuova e più profonda natura dell’eterno ritorno. Il passato non incombe come ciò che è già avvenuto, come ciò che condiziona e obbliga; il futuro non si presenta come un dovere che distoglie l’uomo da se stesso, dalla terra e dal presente; i due sentieri «sbattono la testa l’un contro l’altro» nell’attimo. Esso si presenta non solo come la perfetta sospensione, ma anche come il pieno possesso del tempo: mentre nella visione cronologica lineare ogni momento acquista significato in quanto si lega ad altri e con essi a un fine, nella visione dell’eterno ritorno ogni momento può essere vissuto per se stesso come presente ed eterno; poiché ogni attimo può essere eternamente ripetuto, l’eternità è un eterno ritorno dell’uguale in forza della decisione di chi possiede il tempo della volontà, dell’“io voglio”; l’attimo è dunque l’eternità e la totalità. 5.1.2.5. L’attimo, come rilettura dell’eterno ritorno, e l’atto di volontà che lo definisce, non ha lo scopo di porre il soggetto di fronte alla possibilità di liberarsi dalla ripetizione, quanto piuttosto di sceglierla, di soggettivarla in modo inedito. È l'idea di fondo che ispira tutto l'impianto teorico di Nietzsche nel suo progetto di restituire all’uomo il tempo. Il motivo dell’eterno ritorno indica in anticipo quanto si tenta di raggiungere in analisi propria della cura psicanalitica. Utilizzando (con molta libertà) le osservazioni espresse in proposito da Recalcati Massimo 2016, Jacques Lacan, Volume II. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina editore, Milano, pp. 280-281: «Ma come si trasforma la violenza inesorabile della ripetizione? In questione è il problema della soggettivazione: […] Come si eredita il proprio passato? Quando un passato può diventare davvero "proprio"? Può un passato diventare "proprio"? Che cosa significa ereditare? […] l'effetto generale dell'attraversamento del fantasma [che decide, in prima istanza speculare, della nostra soggettivazione] è quello di un allentamento della sua presa rigida sul desiderio che consente una nuova apertura del soggetto alla contingenza illimitata dell'esistenza. Più il fantasma si allenta, più c'è possibilità di separarsi dalla ripetizione dello Stesso. Nondimeno […] il Nuovo che viene alla luce non si oppone mai, in realtà, allo Stesso, ma è sempre una sua torsione singolare. […] fantasma [si configura perciò] come una "linea di destino" che orienta tutta la vita del soggetto e che l'analisi ha il compito di disvelare non affinchè il soggetto se ne liberi, ma perché, in modo nuovo, possa acconsentire a quel destino. […] L'incontro che il soggetto fa nella propria analisi è con il proprio destino, ovvero con il proprio fantasma fondamentale, se in tale fantasma si è "fissato" […] il desiderio del soggetto. Nondimeno, l'analisi implica anche la possibilità di dare un senso nuovo al proprio passato risignificando après coup - secondo la logica del futuro anteriore - il proprio destino: non tutto è già scritto nell'Altro. La contingenza dell'incontro apre su di una necessità (quella del destino), ma la necessità non inghiotte completamente la contingenza, bensì può ricevere da quest'ultima una significazione inedita. In questo senso il cammino dell'analisi realizza retroattivamente il processo di soggettivazione: se i casi della vita ci sospingono a destra e a manca, siamo noi che, risignificandoli après coup, forgiamo quella trama che chiamiamo destino.» Ritorna qui il concetto di amor fati degli stoici, ma non come adattamento alla legge generale degli eventi ma come gestione diretta di sé che è insieme accettazione e annullamento del fato: voglio il mio destino. L’attimo è dunque al centro della temporalità etica; qui i due sentieri «sbattono la testa l’un contro l’altro». È volontà di potenza e oltre-uomo: voglio il mio passato nel gioco del creare. 5.2. l’oltreuomo (il Superuomo, l’uomo va oltre se stesso: la nuova umanità oltre l’inganno) 11 Comincia così il tramonto di Zarathustra: giunto in città annuncia agli uomini: «Ecco, io vi insegno l’oltreuomo! L’oltreuomo è il senso della terra... Vi scongiuro fratelli miei restate fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Si tratta di avvelenatori, che lo sappiano o no. Spregiatori della vita, moribondi, essi stessi avvelenati, di loro la terra è stanca: possano scomparire! Un tempo il peccato contro Dio era il peccato più grande, ma Dio è morto e quindi sono scomparsi anche i peccatori». (Così parlò Zarathustra, dalla Prefazione) Zarathustra è dunque venuto ad annunciare una liberazione e una rinascita: per l’oltreuomo che accoglie consapevolmente la morte di Dio si apre una nuova esistenza libera dai valori, dalle catene che lo legano al bene e al male, dai fini che lo orientano verso l’aldilà; l’annuncio di Zarathustra schiude all’oltreuomo il senso della terra e della salute. Colui che si dimostra pronto ad accogliere il suo annuncio è infatti disposto a sbarazzarsi di ogni inganno, ad accettare il rischio di un’esistenza senza eredità né mete; Nietzsche indica quest’uomo con il termine Übermensch, per indicare la sua capacità di stare sempre «oltre», liberandosi dei lacci che l’esistenza e la società continuamente creano. L’uomo è un ponte: «La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione.» (Così parlò Zarathustra. Si nota la distanza di Nietzsche nei confronti di Kant, in particolare del secondo imperativo categorico). L’oltreuomo è infatti in costante movimento per superare se stesso e gli eventi, non è spaventato dalle tragiche contraddizioni della vita, non è attratto dalle confortanti mete del bene e dell’aldilà. 5.3. la volontà di potenza (un nichilismo creativo) Nell’oltreuomo si esprime con forza la «volontà di potenza», cioè il desiderio di affermarsi positivamente, autonomamente, dal nulla dei pesi e degli obblighi nelle sue azioni e creazioni; la sola radice cui egli si sente fedele è la terra, la naturalità del suo corpo e della realtà materiale. In quanto rifiuta le seduzioni offerte dai fini, dagli scopi cui gli altri uomini dirigono tutti i loro atti, l’oltreuomo si colloca in una temporalità diversa da quella comune. L’oltreuomo non può che rifiutare il tempo lineare nel quale tutto passa, «tutto è vano, tutto è indifferente e, ancora, tutto fu»; il tempo nel quale egli sceglie di vivere è quello dell’«eterno ritorno»: nel tempo circolare dell’eterno ogni istante è vissuto nella sua pienezza e nella pienezza della potenza della volontà. «Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità! Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” — solo questo può essere per me redenzione! Volontà — è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così io vi ho insegnato, amici miei! Ma adesso imparate ancor questo: la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata. Volere libera: ma come si chiama ciò che getta in catene anche il liberatore? “Così fu” — così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria. Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. […] Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: «la volontà è qualcosa che crea». Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea non dica anche: «ma così volli che fosse!». — Finché la volontà che crea non dica anche: «ma io così voglio! Così vorrò!». (Così parlò Zarathustra) 5.4. il fanciullo che gioca, «il giuoco della creazione» È bene ricordare un frammento di Eraclito: «52. Il tempo è un fanciullo che giuoca spostando i dadi: il regno di un fanciullo.» 12 Oltreuomo (superuomo), volontà di potenza … non esprimono progetti di dominio e sopraffazione, ma declinano il tema centrale di Nietzsche (motivo costante di Così parlò Zarathustra): la fedeltà alla terra, alla natura nella sua enigmatica complessità e la conseguente condanna per le cultura del disprezzo dell’uomo, della natura, della vita; disprezzo tanto più dannoso e devastante quanto più si presenta nei toni della compassione, della misericordia e del perdono, oltre che nelle forme più esplicite del dominio e della sopraffazione; forme di cui il disprezzo dell’uomo costituisce la base e il terreno di coltura. La figura più adatta ad esprimere l’oltreuomo è indicata in apertura di Così parlò Zarathustra: è un fanciullo che gioca. «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Si, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo. Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo.» (Così parlò Zarathustra, Delle tre metamorfosi) 5.5. la contemplazione (una «dimenticanza attiva») Dimenticanza come distanza, sospensione di giudizio, giusto sospetto; attiva poiché è sguardo di analisi critica (genealogia), posizione creativa, spirito di gioco. «Oh come siamo felici noi che ci interessiamo alla conoscenza, ammesso che si sappia tacere abbastanza a lungo (prefazione. 2) E' chiaro che per esercitare così la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa che al giorno d'oggi si è disimparata più di tante altre - e perciò per arrivare alla leggibilità delle mie opere, ci vorrà ancora tempo - una cosa, cioè, per cui si deve essere piuttosto simili a una vacca e in nessun caso a un "uomo moderno": il ruminare.(pref. 8) Chiudere ogni tanto le porte e le finestre della coscienza, non farsi molestare dal fracasso e dalla lotta con cui il mondo occulto degli organi al nostro servizio manifesta la sua collaborazione e opposizione, un po’ di tranquillità, un po’ di tabula rasa della coscienza, per fare ancora spazio a qualcosa di nuovo...questo è il vantaggio di una dimenticanza attiva (II,1).» (Genealogia della morale). «È passato il tempo in cui la Chiesa possedeva il monopolio della meditazione, quando la vita contemplativa doveva essere sempre in primo luogo vita religiosa: e tutto quanto la Chiesa ha costruito esprime questo pensiero. Io non saprei come potremmo lasciarci appagare dalle sue costruzioni, anche se queste fossero spogliate della loro destinazione ecclesiastica: queste costruzioni parlano un linguaggio anche troppo patetico e parziale, in quanto case di Dio e sfarzose sedi di un commercio ultramondano, perché noi, i senza Dio, si possa qui dar vita ai nostri pensieri. Quando andiamo errando in questi loggiati e giardini, è noi che vogliamo aver tradotto in pietra e pianta, è in noi stessi che vogliamo passeggiare.» (Gaia scienza § 280) Contemplazione è dar vita ai propri pensieri in noi stessi, staccando il legame antico tra pensiero, verità, realtà (e la preoccupazione venerante che quel legame crea), e procedere con il gusto della lentezza. «…nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia», imparare la lentezza: «Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa anche parte del mio gusto — un gusto malizioso forse? — non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente « frettolosa ». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento.» (Aurora, § 5) 5.6. imparare se stessi (e ascoltare l’inconscio) «Che cos’è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi» (Gaia scienza § 275); la fedeltà al proprio essere continuamente diversi, al proprio divenire, l’amore per le proprie «brevi abitudini» (ivi § 295), al «tu sei sempre un altro» (ivi § 307); il «divenire quello che 13 tu sei» (ivi § 270) e il non consegnarsi ai giudizi generali (con la conseguente scoperta del pregio e della necessità della solitudine). «L’egoismo apparente. La maggior parte degli uomini, qualunque cosa possano ognora pensare e dire del loro «egoismo», ciononostante, in tutta la loro vita, non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell’ego, che si è formato, su di essi, nella testa di chi sta intorno a loro, e che si è loro trasmesso; in conseguenza di ciò, vivono tutti insieme in una nebbia di opinioni impersonali e semipersonali, e di arbitrari, quasi poetici, apprezzamenti di valore; ciascuno di costoro vive sempre nella testa di un altro e questa testa ancora in altre teste: un curioso mondo di fantasmi che sa darsi, in tutto questo, un’aria così assennata! Questa nebbia di opinioni e di abitudini si sviluppa e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge; risiede in essa l’enorme influsso dei giudizi generali sull’uomo, — tutti questi uomini sconosciuti a se stessi credono nell’esangue entità astratta « uomo », vale a dire in una finzione; e ogni trasformazione introdotta in questa astratta entità attraverso i giudizi di singoli potenti (come principi e filosofi) influisce straordinariamente ed in misura irrazionale sulla grande maggioranza: tutto questo per la ragione che ogni singolo, in questa maggioranza, non è in grado di contrapporre un reale ego, a lui accessibile e da lui scrutato fino in fondo, alla pallida finzione universale, e non può, quindi, annullarla.» (Aurora § 105) 5.6.1. ascoltare il nostro inconscio: «Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano il suo sviluppo, le sue intermittenze!» (Gaia scienza § 11) « Noi, che siamo consapevoli delle ultime scene di conciliazione e della liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro. Per lunghissimo tratto di tempo, si è considerato il pensiero consapevole, come il pensiero in generale: soltanto oggi, ci balugina la verità che la maggior parte del nostro produrre spirituale si svolga senza che ne siamo coscienti, a noi inavvertito; penso tuttavia che questi impulsi — qui in lotta l’uno con l’altro — sapranno benissimo farsi sentire tra loro e procurarsi vicendevolmente del male: quel forte improvviso sfinimento, da cui sono afflitti tutti i pensatori, potrebbe avere qui la sua origine (è lo sfinimento del campo di battaglia). Sì, forse esiste nelle nostre lotte interiori parecchio eroismo nascosto, non certo alcunché di divino, di eternamente riposante in se stesso, come pensava Spinoza. Il pensiero consapevole, e particolarmente quello dei filosofi, è il più svigorito e perciò stesso anche il relativamente più temperato e più quieto modo del pensiero: e così precisamente il filosofo può essere indotto in errore, con la maggior facilità, sulla natura del conoscere.» (Gaia scienza § 333) 5.6.2. la scoperta del pregio e della necessità della solitudine. Solitudine non è isolamento. «L'essere umano esige la solitudine come esige il legame. In realtà può stare in un legame solo se sa sopportare la condizione della sua solitudine. La solitudine non è isolamento. L'isolamento è il richiudersi accidioso della vita in se stessa; è un modo per rifugiarsi dall'instabilità che condiziona ogni legame. Nell'isolamento non c'è pace ma risentimento; fuga rabbiosa o rassegnata dal mondo. […] Diversamente la solitudine non è rifiuto del legame, ma il suo unico fondamento positivo. Sapere stare soli, teorizzava Winnicott, è il criterio minimo, ma essenziale, della salute mentale. Nello stare soli affermiamo il nostro diritto alla sconnessione. La solitudine non è fuga rabbiosa o rassegnata dal mondo. È invece il tempo giusto della pausa, del silenzio, dell'interruzione delle attività, della contemplazione. Mentre l'isolato sceglie di chiudere l'apertura del mondo, niente come la solitudine la può mantenere aperta. […] L'isolato vive in un'isola che esclude ponti, mentre la solitudine, come affermava Nietzsche, è uno stato di "convalescenza" che può essere vissuto come una "ebbrezza". È un ricaricamento libidico della vita, dunque il contrario di una fuga dalla vita.» (Recalcati Massimo, La differenza tra la fuga e l’estasi mistica della solitudine, articolo in la Repubblica 26.07.2015) 14 15