Nietzsche, genealogia della morale e trasvalutazione

Nietzsche - genealogia della morale e trasvalutazione
(1844-1900)
L’ultimo dei cinici dell’età contemporanea.
1. Un compito
L’opera di Friedrich Nietzsche, come lui stesso affermava in Umano, troppo umano, viene
interpretata sin dal primo apparire come una scuola del sospetto, del sovvertimento, dell’audacia.
Nel disprezzo di Nietzsche per le più consolidate tradizioni, nella sua diffidenza per norme e valori
accreditati, i contemporanei vedono l’esercizio di un provocatorio, dissacrante, ma coraggioso
sospetto che si propone di smascherare l’origine «umana, troppo umana» dei falsi mondi ideali della
filosofia, della morale, della religione, della scienza, della storia.
Ciò che però i contemporanei non possono comprendere, confessa orgogliosamente Nietzsche, è il
profondo rivolgimento che la sua critica è destinata a produrre, «una crisi come non ve ne furono
mai sulla terra»; il suo proposito di smascherare i bisogni da cui nascono la fiducia nella scienza e
nel progresso, la speranza nell’aldilà e in Dio, l’assegnamento sulla storia, potrà essere compreso e
condiviso solo dai posteri (Nietzsche non esita a definirsi un autore «postumo», che si occupa di
problemi «inattuali»): il «gregge venerante» dei suoi contemporanei non è in grado di comprendere
e approvare un’opera di demolizione e liberazione che non ha avuto eguali nella storia.
1.1. il coraggio analitico e teoretico del sospetto (tra i “maestri del sospetto” P. Ricoeur)
«I miei scritti sono stati definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente
anche del coraggio, anzi dell’audacia. In effetti, io credo che nessuno abbia mai guardato nel mondo
con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per
dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio.» (Umano troppo umano)
1.2. il compito etico del nichilismo
«Non siamo, appunto con ciò, incorsi nel sospetto di un’opposizione, un’opposizione fra il mondo
in cui siamo stati fino a oggi di casa con le nostre venerazioni — per amor delle quali, forse,
sopportavamo di vivere — e un altro mondo, che noi stessi siamo: in un sospetto implacabile,
radicale, estremo circa noi stessi, che tiene noi europei sempre di più, sempre più duramente, in sua
balia, e che facilmente potrebbe porre le generazioni venture dinanzi a uno spaventoso aut-aut: «O
cancellate le vostre venerazioni oppure voi stessi»? Quest’ultima cosa sarebbe il nichilismo, ma non
sarebbe anche la prima – il nichilismo? Questo è il nostro interrogativo.» (Gaia scienza §346)
Nietzsche è nichilista perché distrugge valori… religione, morale e scienza. In realtà si proclama lui
per primo nichilista (Gaia scienza): quei valori sono nichilisti perché riducono al nulla il vivere,
Nietzsche riduce a nulla il nichilismo della cultura del disprezzo dell’uomo, sono “nichilista che
crea” (solo dal nulla si può creare, creatio ex nihilo; e viceversa “solo come creatori noi possiamo
annientare” - Gaia scienza) Una posizione nichilista, quella del pensiero dominante e,
contemporaneamente, venerante (non troverebbe altrimenti diffusione), che si realizza con la
tecnica e con lo stratagemma del doppio mondo: opporre a questo un altro mondo e da quello
avviare il giudizio, la condanna, il disprezzo, la distruzione di questo. Occorre invece un nichilismo
da creatori, del creare dal nulla, che diventa: trasmutazione dei valori.
1.3. la trasmutazione dei valori (trasvalutazione, trasfigurazione)
«Conosco il mio destino. Un giorno il mio nome sarà associato al ricordo di qualcosa di prodigioso,
— a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza, a
un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso, santificato. Io non sono un
uomo, sono dinamite. — E con tutto ciò non vi è in me nulla del fondatore di religioni — le
religioni sono affari per la plebe, io ho bisogno di lavarmi le mani dopo il contatto con uomini
religiosi... Non voglio “credenti”, penso di essere troppo maligno per credere a me stesso, non parlo
mai alle masse... Ho una paura terribile che un giorno mi canonizzino: si indovinerà perché
pubblico prima questo libro, deve impedire che con me si commettano degli eccessi... Non voglio
essere un santo, piuttosto un buffone... Forse sono un buffone… E tuttavia, o piuttosto, non tuttavia
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— perché non ci fu niente di più menzognero sinora del santo — per bocca mia parla la verità. —
Ma la mia verità è terribile: poiché finora si è chiamata verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti
i valori, questa è la mia formula per un atto di sublime autodeterminazione dell’umanità, che è
divenuto in me carne e genio.» (Ecce homo)
«Una trasvalutazione di tutti i valori, questo interrogativo così nero, così enorme, che getta ombre
su colui che lo pone — un tale destino come compito lo costringe ogni attimo a correre nel sole, a
scuotere da sé una pesante serietà, ormai fattasi troppo pesante. Ogni mezzo è buono a questo
scopo, ogni «caso» è un caso fortunato». (Trasvalutazione di tutti i valori)
2. il metodo
2.1. il metodo ermeneutico della genealogia
Per rimuovere la terra e scoprire le radici, sollevare le maschere e liberare il volto nascosto di
Dioniso, Nietzsche si affida alla genealogia: essa muove dai sintomi per spingere la sua attenzione
verso l’origine delle malattie di cui soffre l’umanità; dietro i sintomi cerca il disagio, il bisogno, le
carenze in cui trovano terreno fertile per diffondersi la febbre storica, la malattia morale, la peste
metafisica, il delirio delle fedi. La genealogia nasce dal sospetto che i valori tradizionali non siano
ciò che crediamo, i principi e la fondazione dei sistemi teorici organici della religione, morale,
scienza, storia … ma strumenti per imporre, attraverso di essi, la cultura del comando e della
potenza, del dominio e del disprezzo della vita nella sua prima, autonoma e originaria
manifestazione e creatività. Questo sospetto muove Nietzsche a mettere a nudo le radici del
pensiero dominante in quei sistemi e a ricercarne le origini e la dinamica mediante un lavoro
interpretativo che non si configura come semplice ricostruzione archeologica del passato, ma come
messa a nudo delle radici nascoste e dimenticate delle menzogne «credute e venerate», della «falsità
che dura da millenni».
2.1.1. Una ricostruzione genealogica per destrutturare. La genealogia delle menzogne: «Dove sta
dunque la loro origine?». Ai filosofi, responsabili di «destoricizzare» gli oggetti su cui verte la loro
ricerca e irrigidire gli strumenti teorici di cui si servono, Nietzsche oppone un proprio metodo di
indagine teso a ricostruire la genealogia dei concetti filosofici. A tale metodo «genealogico»
Nietzsche ricorre spesso per smascherare i processi che hanno condotto all’affermazione dei valori,
della morale, dell’ascetismo. Alla genealogia egli non attribuisce quindi il significato «fondativo»
che, in genere, i metafisici assegnano alla ricerca delle origini; non domanda di portare alla luce il
primo manifestarsi di una qualche entità originaria, di qualche essenza metafisica; al contrario, egli
interpreta la genealogia come lo strumento critico mediante il quale mostrare come si producono i
concetti, esibire i vari modi del loro concreto divenire, tra fraintendimenti, lacune, interpretazioni.
Tracciando la storia degli errori della ragione, ricostruendo la genesi della «mummificazione» dei
concetti, Nietzsche mostra il contraddittorio processo di duplicazione del mondo in cui si sono
espressi il disprezzo della vita e l’incapacità di sentirne la pienezza, propri dei filosofi e ne avvia,
contestualmente, un percorso di demolizione.
2.2. fare filosofia con il martello, «Io non sono un uomo, sono dinamite» (Ecce homo)
L’immagine della caduta delle menzogne, della liberazione dagli errori, ritorna nel titolo di uno
degli scritti più significativi dell’ultimo periodo dell’attività di Nietzsche: Crepuscolo degli idoli
ovvero come si fa filosofia col martello (1888). Così Nietzsche presenta quest’opera in Ecce bomo
(una provocatoria autobiografia composta nello stesso anno): «Questo scritto di neppure
centocinquanta pagine, sereno e fatale nel tono, un demone che ride, l’opera di così pochi giorni che
esito a dire quanti, è l’eccezione tra i libri: non vi è nulla di più ricco di sostanza, di più
indipendente, di più eversivo, di più cattivo. Se ci si vuol fare rapidamente un’idea di come, prima
di me, tutto fosse capovolto, si inizi con questo libro. Ciò che nel titolo è indicato come “idoli” è
molto semplicemente ciò che sino ad ora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli, detto a
chiare lettere: le antiche verità stanno per finire..» Si tratta, come Nietzsche annuncia nella
Prefazione, di «una grande dichiarazione di guerra»: contro la ragione dei filosofi e i suoi errori (la
verità, i concetti, la contrapposizione tra vero e apparente), contro Socrate che per primo ha indicato
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nella «razionalità ad ogni costo» il fondamento della «morale del perfezionamento», contro ogni
morale che elevando la rinuncia a norma, impone all’uomo una vita «contronatura», contro i dotti
tedeschi e le loro istituzioni scolastiche, contro l’ideale di perfezione che si è imposto nell’età
classica soffocando la libera volontà dionisiaca di vivere. Non si tratta di un martello che demolisce,
distrugge, ma un martello che ispeziona, indaga sentendo attraverso le risonanze la compattezza o il
vuoto, la profondità o la sottigliezza, la tenuta o la fragilità di ciò che indaga. Nietzsche vibra sugli
idoli un colpo di martello che ha lo scopo di far risuonare quel «suono cavo», quel vuoto che i
filosofi celano con le loro parole, i loro concetti, le loro verità.
2.3. aforismi per la filosofia della liberazione. Interrogativi, enigmi, aforismi. «Noi per nascita
divinatori d’enigmi»
2.3.1. Nietzsche rifiuta di servirsi delle tradizionali forme del testo filosofico (come il trattato, la
lezione, il saggio) vedendo nell’esposizione ordinata, organica, argomentata l’espressione di un
sapere dogmatico, pietrificato; non a caso nella forma del trattato sono scritte le opere di metafisica,
scienza, morale che i dotti destinano al «gregge degli animali veneranti». Allo spirito libero cui
Nietzsche si rivolge si addicono invece la frammentarietà e l’essenzialità dell’aforisma,
l’inquietudine dell’interrogativo, l’ambiguità dell’enigma. Queste forme paiono imporsi
naturalmente alla sua filosofia, che esige modi espressivi capaci di rompere i rigidi schemi della
razionalità ottocentesca per dare spazio al dubbio, alla meraviglia, all’irrisione, all’invettiva. La
scelta aforistica, adottata nella Gaia scienza, consente in particolare a Nietzsche di abbandonare
l’unicità e l’assolutezza della prospettiva di indagine assunta dai precedenti sistemi filosofici (lo
spirito nell’idealismo, i rapporti economici nel marxismo, la scienza nel positivismo sono intesi
come principi esplicativi totali a cui viene ricondotto ogni fenomeno) e di assumere molteplici punti
di vista, riprendendo da diverse angolature gli stessi temi. Il procedere aforistico, volutamente
sganciato da strutture di sistema ma teso a demolire ostacoli, smontare pregiudizi, aprire varchi,
indicare e iniziare strade… è uno stile che impone la sola lettura delle opere come modo per
avvicinare Nietzsche e impedisce una riconduzione delle sue affermazioni a piani di sistematicità
teoretica, filosofica (magari manualistica).
2.3.2. la forma diventa una prassi filosofica particolare; nell’aforisma (nella forma) è contenuto uno
specifico impegno filosofico. La filosofia nella forma dell’aforisma (della sentenza, della massima,
del frammento) è una filosofia che non si accontenta di lettori attenti, vuole lettori che assumano il
coraggio della interpretazione e quindi dell’analisi genealogica e del “fare filosofia con il martello”.
Nella Genealogia della morale (1887) Nietzsche stesso indica il modo in cui si dovrebbe leggere un
aforisma: «In altri casi la forma aforistica presenta delle difficoltà... un aforisma, modellato e fuso
con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora ‘decifrato’; deve invece prendere inizio, a
questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione.» Il complesso
gioco di significati sottintesi e di allusioni, di illuminazioni folgoranti e di ardite metafore, nonché
una certa dose di freddo argomentare, rendono l’aforisma di Nietzsche di ardua lettura e richiede il
coraggio dell’interpretazione, resta perennemente un testo aperto, richiede la pacatezza e la
lentezza
dell’ascolto.
2.3.2.1. una riflessione di Bonhoeffer sul tema del frammento (una anticipazione poi ripresa): scrive
Bonhoeffer: « Ci sono poi frammenti che […] restano significativi attraverso i secoli, perché il loro
completamento può essere solo affare di Dio, cioè frammenti che devono essere frammenti —
penso ad esempio all’Arte della fuga. Se la nostra vita rispecchia anche solo da lontano un
frammento di questo tipo, nel quale i diversi temi che si aggiungono sempre più numerosi si
armonizzano almeno per un breve istante, e nel quale il grande contrappunto viene mantenuto
stabilmente dall’inizio alla fine, sicché poi, dopo l’interruzione, al massimo si può intonare ancora il
corale “Così mi avanzo davanti al tuo trono” — allora non dovremo lamentarci neppure della nostra
vita frammentaria, ma dovremo anzi esserne contenti.» (Resistenza e Resa).
2.3.3. possibilità di costanti tematiche e direzioni. Di fronte ad un procedere aforistico è
inopportuno ricostruire grandi disegni di sistema, ma di fronte a testi aforistici di così vasta
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ampiezza (e di fronte alla insopprimibile esigenza di orientamento e comprensione a cui il lettore
continua a restare vincolato) si possono cogliere ed evidenziare nei testi di Nietzsche, nei suoi
campi di indagine, il ricorrere di temi e alcune costanti o dominanti di metodo.
Partito dall’interesse per la filologia classica (La nascita della tragedia 1871), il campo dei suoi
interessi si allarga alla religione, al cristianesimo, alla morale, alla conoscenza scientifica, alla
storia, all’arte. È proprio dal percorso in tutti questi campi, realizzati con strategie di metodo
ricorrenti, che la filosofia di Nietzsche va sempre più definendosi come strumento di liberazione:
dalla idealizzazione del passato professata dagli storici; dallo sdoppiamento, introdotto dai filosofi,
tra mondo superiore delle pure verità eterne e mondo svalutato della realtà materiale; dalla servitù,
imposta dai sistemi morali e dalle religioni; dai principi della rinuncia, dell’umiliazione,
dell’obbedienza. La critica «bellicosa» condotta da Nietzsche non risparmia alcuno dei valori che le
filosofie ottocentesche avevano posto al centro della loro riflessione. Ciascuna di esse è la
manifestazione di un disagio, di una debolezza dell’umanità: con l’occhio attento del clinico,
Nietzsche interpreta i sintomi e risale all’origine della «mostruosa malattia della volontà» che
affligge l’umanità.
3. il percorso: la genealogia della morale
La morale sottoposta all’analisi critico-genealogica.
Sempre più convinto che il suo primo compito sia quello di «preparare un momento di
autocoscienza dell’umanità, un grande mezzogiorno» che riveli finalmente quale auto inganno si
celi dietro i valori morali, Nietzsche getta il suo sguardo diffidente sulla morale filosofica e
religiosa, sui valori ascetici che essa ha imposto all’uomo. In due scritti, cui lavora tra il 1886 e il
1887 e pubblica con i significativi titoli Al di là del bene e del male e Genealogia della morale,
smaschera gli ignobili sentimenti, gli impulsi meschini che sono all’origine della morale: la
santificazione della rinuncia e della sofferenza, la glorificazione dell’umiltà e del sacrificio, cui
invitano le morali di ogni tempo, nascono dal risentimento di tutti quelli che, incapaci di «dire di sì»
alla vita, trasformano la loro impotenza in regola aurea. È dunque da un istinto vendicativo, proprio
degli «schiavi», dei «malriusciti» che è sorta l’idea di una morale che, con le sue tavole di valori,
impone a tutti gli uomini quell’esistenza contronatura propria degli emarginati.
Sintomo di una patologica incapacità di vivere, la morale si è imposta nelle filosofie e nelle
religioni senza che nessuno abbia mai osato metterne in dubbio il valore, mostrarne l’origine
«umana, troppo umana»; sacerdoti e filosofi, vittime della stessa impotenza, hanno dibattuto sulla
definizione dei valori, ma non hanno dubitato della loro opportunità. Frutto e alimento di questa
ingenua fiducia negli ideali morali sono i sensi di colpa, di peccato, di rimorso nei quali l’animo
dell’uomo si tormenta, infelice ma fiducioso nel riscatto che gli è promesso nell’aldilà.
Si impone quindi un esame critico delle morali occidentali: analisi della morale in sé, nei suoi
elementi invarianti (bene e male, valore e giudizio, merito e colpa, premio e pena), nella tecniche
della propria legittimazione (l'origine degli elementi che la compongono, l'autogiustificazione, la
reiterazione), con l’obiettivo di smascherare e smontare la morale mettendone a nudo le radici
occulte, i meccanismi ricorrenti, la funzione “stravolgente” repressiva svolta dalla morale
dominante. «… in quali condizioni l'uomo si è inventato quei giudizi di valore: buono e cattivo? e
che valore hanno essi stessi? fino a oggi hanno ostacolato o promosso la prosperità del genere
umano? sono segno di uno stato di necessità, di immiserimento, di degenerazione della vita? o
invece in essi si tradisce la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua certezza, il
suo futuro?» (Genealogia della morale, pref. 3)
Una critica genealogica che è analisi storica, studio delle traslazioni e dei ribaltamenti attraverso
un’ermeneutica linguistica e fattuale: «abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di porre in
questione finalmente proprio il valore di questi valori, e per fare ciò abbiamo bisogno di una
conoscenza delle condizioni e delle circostanze da cui sono stati prodotti, in cui si sono sviluppati e
modificati, conoscenza che fino a oggi non solo non è esistita, ma non è stata nemmeno mai
auspicata (pref. 6). Qualcuno vuole forse sondare un po' il mistero delle modalità con cui sulla terra
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si fabbricano gli ideali? chi ne ha il coraggio? (I,14 [modalità adottata per le citazioni dalla
Genealogia della morale]). Ogni concetto, in cui si concentri semioticamente tutto un processo, si
sottrae alla definizione; è definibile solo ciò che non ha storia (II,13)».
Le strade della genesi della morale scoperte e indicate dall’analisi critica genealogica.
La tecnica dei molti punti di vista, la scoperta e la presentazione delle molte ipotesi di genealogia
della morale. Una consapevolezza regge l’analitico lavoro dello smontaggio genealogico attuato da
Nietzsche: la forza (oppressiva) della morale si basa sulla pluralità delle sue (presunte) fondazioni
tutte tese legittimarne il ruolo.
3.1. una genesi storica sociale (e psicologica)
3.1.1. la morale nasce da un capovolgimento storico: la morale dei vincitori, degli aristocratici
(istinto, passione, orgoglio, forza, pienezza, crudeltà, violenza) è stata sconfitta dalla morale dei
vinti, degli schiavi (sconfitta, sofferenza, sacrificio, dedizione, obbedienza, morte) quando questa è
diventata numero, gregge, massa. La debolezza è salita al cielo delle virtù, così come la povertà,
l’umiltà, la sofferenza, il sacrificio, l’autopunizione, la compassione, l’agape … tutte virtù del
disprezzo dell’uomo, accompagnate da risentimento e autodifesa dei deboli (schiavi,gregge). Viene
messa in atto quella logica secondo la quale il debole cerca di dominare il forte tentando di
indebolirlo con la compassione. In realtà quando questa morale vince e domina, mistifica e crea il
sospetto e l’odio (e una nuova forma di compassionevole violenza, di dominio e possesso in nome
del servizio e della carità). La solida reputazione etica di cui siamo fatti oggetto coincide con il
nostro essere diventati un buon strumento (Gaia scienza § 296); «I nostri doveri sono i diritti degli
altri su di noi » (Aurora § 112); «per lo più siamo per tutta la vita i giullari di giudizi infantili
incarnati nell’abitudine» (Aurora § 140).
«Quelli che fin dall'inizio sono stati colpiti dalla sventura, i prostrati, i distrutti, i più deboli, sono
quelli che più degli altri minano la vita tra gli uomini, che avvelenano e problematizzano, nella
maniera più pericolosa, la nostra fede nella vita, nell'uomo, in noi stessi.» (III,14)
3.1.2. Alla radice di questo capovolgimento: il risentimento. «Da Nietzsche in poi, in particolare da
La genealogia della morale del 1887, la parola ha acquisito il significato che siamo soliti attribuirle
oggi: un desiderio di vendetta inappagato che si radica negli strati più profondi della personalità. Il
filosofo tedesco ha posto al centro delle trasformazioni istituzionali e culturali della modernità
l’azione creatrice della vendetta immaginaria, assumendola come strumento teorico privilegiato per
comprendere le dinamiche in corso nell’era moderna. Scrive Nietzsche: «La rivolta degli schiavi nel
campo della morale comincia col fatto che il ressentiment stesso diventa creativo e genera valori; il
ressentiment di quei tali a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano
soltanto attraverso una vendetta immaginaria». Nietzsche lega il risentimento direttamente alle
dinamiche della vendetta, nello specifico all’impossibilità della sua piena realizzazione e ai
dispositivi sociali che ne regolano il funzionamento. La rivolta degli “schiavi” per Nietzsche ha
comportato un vero e proprio rovesciamento delle configurazioni di idee e valori del passato.
L’aspetto più creativo di una simile rivolta, secondo Nietzsche, risiederebbe nel fatto che essa ha
assunto le forme secolarizzate della democrazia e del socialismo, i cui fondamenti etici sarebbero
radicati nella tradizione giudaico-cristiana. I principi e i valori diffusi dal messaggio evangelico
avrebbero operato un capovolgimento della morale aristocratica ed elitaria precristiana, nel
presentarsi come rivincita di tutti coloro che non sono in grado di affermarsi con le proprie forze,
ma che attraverso l’adesione al cristianesimo possono aspirare alla vittoria sul “malvagio nemico”».
(Tomelleri Stefano 2009 Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma
p.23-24)
3.2. una genesi strategica psicologico-pubblicitaria presentata in quattro dinamiche
3.2.1. la forza e la nascita della morale deriva da un capovolgimento: essa presenta valori che danno
certezza (di azione e di giudizio), in realtà è accaduto il contrario: la morale afferra il “l’anelito di
certezza” (Gaia scienza § 347) che l’uomo esprime e forgia risposte adatte e funzionali (variabili
non a caso nelle varie epoche) basta che abbiano i tratti dell’incondizionato, necessari al loro ruolo;
sono infatti prodotti sulla base del bisogno.
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3.2.2. il sommo valore degli enunciati/sentenze/massime morali (religiose, politiche) non risiede
nei loro contenuti ma nelle cerimonie e nei modi solenni della loro enunciazione, nella credulità e
nel timore che tali riti di fondazione, con il loro carico di simboli e di cerimonie solenni, sono in
grado di generare, nel pathos e nella gravità della sua predicazione ed enunciazione
3.2.3. una coercizione che fa appello al pensiero, come proprio dell’uomo, mentre ne annulla
l’autonomia: l'uomo non è un animale dominabile con la sola coercizione fisica, egli pensa; chi
intende possedere l'uomo deve raggiungerlo fino al pensiero; occorre analizzare le funzioni
psichiche di cui la morale si avvale: la memoria, la ragione (fonti di mediazione e regola), l'istinto
gregario (gli exempla). Si tratta di usare la ragione e la memoria (con arte retorico-pubblicitaria di
convinzione) per creare l’istinto: un istinto di consenso e sottomissione proclamato con ragione e
memoria. «…non esiste niente di più terribile e misterioso della mnemotecnica … questa è la lunga
storia della origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale cui sia concesso
promettere, include l'impegno più diretto di rendere l'uomo necessario, uniforme, uguale tra gli
uguali, conforme alla regola e di conseguenza prevedibile». (II,3,1).
3.2.4. l’autoalimentarsi del circolo debolezza – morale: è la debolezza («l’istinto della debolezza») a
far sorgere la morale e la morale alimenta i valori della debolezza (sudditanza, ubbidienza, rispetto,
dipendenza…)
3.3. una genesi economico-giuridica: la morale deriva la propria logica dalla natura
costitutivamente "valutante" dell'uomo: la colpa crea il debito, il risarcimento comporta la pena, il
danno vuole la punizione.
«In questa sfera, nel diritto delle obbligazioni, dunque, ha il suo primo focolare il mondo dei
concetti morali di colpa, coscienza, sacralità del dovere.» (II,6)
3.4. una genesi linguistica (ermeneutica): le connessioni linguistiche dominanti e diffuse chiamano
a raccolta il mondo dei valori morali fissando legami destinati a imporsi come senso comune. Sulla
premessa che l’origine della lingua è espressione di chi è al potere (I,2). Il termine buono indica il
nobile, guerriero aristocratico; il cattivo indica l’infimo, il volgare, il plebeo.
«L'indicazione della via giusta mi è stata offerta dal problema di ciò che le definizioni di buono,
coniate dalle diverse lingue, debbano realmente significare dal punto di vista etimologico, e così ho
scoperto che esse conducono tutte alla stessa metamorfosi concettuale; che dovunque 'aristocratico',
'nobile', nel senso di condizione sociale, sono i concetti fondamentali da cui discende
necessariamente il concetto di 'buono'...» (I,4); in ricorrente e rigorosa dicotomia.
3.5. una genesi religiosa: la morale è il modo con cui la religione sopravvive alla morte di Dio;
anche dopo la morte di Dio (in un mondo che si definisce ateo) persistono valori, principi, regole
cui viene attribuito il carattere dell’assoluto e della certezza; e, come la religione, la morale resta
una prassi che ruota sui concetti del sospetto (disprezzo, condanna e risentimento), della redenzione
(ascesi e salvezza).
«Si potrebbe definire il cristianesimo, in modo particolare, come la grande tesoreria dei più
spirituali mezzi di conforto, tanta consolazione, pietà, narcotizzazione si accumulano in esso...
Quella insoddisfazione dominante si combatte in primo luogo con mezzi che riducono il senso della
vita in generale a livello infimo.» (III,17)
3.6. una genesi epistemologica: la scienza è il luogo moderno, in apparente veste laica, dell'idea
ascetica e teologica della verità e dell’assoluto; essa, più o meno consapevolmente, ricava
dall’ambito religioso e morale il metodo della causalità (necessità), la volontà di verità e di assoluto.
«Dio...nascosto dietro la grande trama a traliccio della causalità (III,9). A partire dal momento in cui
la fede nel Dio dell'ideale ascetico viene negata, si crea anche un nuovo problema: quello del valore
della verità. La volontà di verità ha bisogno di una critica - con ciò definiamo il nostro proprio
compito.» (III,24)
3.7. una genesi metafisica: la genealogia della morale è, in sintesi unitaria e in forma di “sostanza”,
genealogia della coscienza e della sua variante metafisica, l’anima. Gli atteggiamenti molteplici e
contrastanti, individuali e collettivi storici, prendono il nome unico di “coscienza”, si
sostanzializzano e danno vita ed esistenza ad una sede unica di moralità: la coscienza morale,
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l’anima. Inizia da qui una costruzione e spiegazione circolare secondo causalità reciproca: l’analisi
morale si esprime attraverso un continuo rapporto reciproco di causa ed effetto tra coscienza, da una
parte, che si manifesta negli atteggiamenti morali diversi e contrastanti di risentimento, disprezzo,
dominio, debolezza, paura, snaturamento… di cui è causa e, dall’altra, l’insieme dei molti
atteggiamenti morali che generano formano e definiscono (sono causa) la coscienza morale e
l’anima. Compare anche qui una circolarità genealogica, quella tra anima (coscienza) e morale.
«Tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno - questo è quello che io
chiamo interiorizzazione dell'uomo: solo così si sviluppa nell'uomo quella cosa che più tardi
riceverà il nome di anima. Tutto il mondo interiore, all'inizio sottile come se fosse teso tra due strati
epiteliali, si è espanso e spalancato, ha guadagnato, profondità, larghezza, altezza, tanto quanto le
possibilità dell'uomo di scaricarsi all'esterno sono state impedite.» (II,16)
4. l’urgenza dell’oltrepassamento e della trasmutazione
Come divenire naturale: «Tutte le grandi cose si annientano da sole, con un atto di
autoeliminazione: così vuole la legge di natura, la legge del necessario 'autooltrepassamento'
nell'essenza della vita...Così è crollato il cristianesimo come dogma, a causa della sua stessa morale;
così anche il cristianesimo come morale deve ancora andare in rovina: noi siamo alle porte di questo
avvenimento.» (III,27)
4.1. smascherare l’innocenza mascherata, essenza strategica dell’inganno morale. Come
compito della filosofia, che è ermeneutica, critica, smascheramento, chiarificazione. «Poiché non
dobbiamo ingannarci a questo proposito: ciò che costituisce il segno distintivo più tipico delle
anime moderne, dei libri moderni, non è la menzogna, ma l'innocenza incorporata nella mendacia
moralistica. Dover mettere ovunque allo scoperto questa innocenza, ciò costituisce forse la parte più
disgustosa del nostro lavoro di tutto quel lavoro in sé non trascurabile, cui oggi deve sobbarcarsi
uno psicologo.» (III,19) La morale si diffonde e si difende dietro e con la maschera dell’innocenza;
la critica genealogica fa crollare la maschera… smaschera e libera. Questo è l’evento che attende un
recente accadere. È la strada che apre al diventare naturali.
4.2. contro le persistenti ed “eterne” (costanti) virtù, elogio delle brevi abitudini
4.2.1. Le abitudini sono la leggerezza dell’agire. Habitus è il termine con cui i latini indicano la
virtù, cioè l’acquisita disposizione all’agire secondo modelli che permettono la snellezza
dell’azione e definiscono il modo di essere proprio della persona, la sua riconoscibilità, per sé e per
gli altri, e la “salda reputazione”.
4.2.2. Si tratta di un concetto, l’abitudine, che porta con sé il concetto di ripetizione e quasi di
fissità, ma si deve trattare di abitudini brevi, per consegnare ad esse la propria unità e il proprio stile
(abitudini, qualità), ma in cammino (brevi) e nell’oltrepassamento (l’oltreuomo); «tu sei sempre un
altro» (Gaia scienza § 307). In natura il divenire definisce la sostanza, già a partire dai concetti di
Aristotele: la sostanza naturale diviene in quanto tende alla propria forma…un fine (una causa
finale) che non trova mai una definitiva realizzazione.
La posta in gioco contenuta nei paradossi del divenire non si ferma alla sfida logica e matematica
che essi lanciano, ma si colloca in sede metafisica e quindi generale; diventa il modo di considerare
la natura di ogni realtà nella sua essenza propria e nel suo divenire. In sede antropologica si
trasforma nella domanda del divenire e del mutamento che ogni singolo vive, dei livelli e del diritto
al proprio essere in mutamento.
«296 La salda reputazione. Una volta la salda reputazione era una cosa estremamente utile, e
ovunque, almeno laddove la società continua sempre a essere dominata dall’istinto del gregge, è
ancor oggi quanto mai consono al fine di ogni individuo far passare per inalterabili il proprio
carattere come la propria occupazione, anche se questi, in fondo, non lo sono. «Si può fare
assegnamento su di lui, egli è sempre coerente a se stesso»: questa è, in tutte le contingenze
pericolose della società, la lode che deve considerarsi maggiormente significativa. La società sente
con soddisfazione di avere nella virtù di questo, nell’ambizione di quello, nella riflessione e nella
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passione di quell’altro, uno strumento fidato, pronto ad ogni momento: essa tiene in sommo onore
questa natura strumentale, questa costante fedeltà a se stessi, questa irremovibilità nelle opinioni,
nelle aspirazioni e anche nelle non virtù. Un siffatto apprezzamento che è e fu in auge ovunque,
unitamente all’eticità del costume, educa «caratteri» e getta il discredito su ogni cambiamento, su
ogni diverso orientamento, su ogni autotrasformazione. Per quanto grande possa essere del resto il
vantaggio di un tal modo di pensare, si, tratta comunque per la conoscenza della forma di giudizio
universale più nociva di tutte: infatti proprio la buona volontà dell’uomo della conoscenza, di
dichiararsi intrepidamente, in ogni tempo, in antitesi alla sua preesistente opinione e di nutrire in
generale diffidenza per tutto quanto in noi voglia stabilizzarsi — è qui condannata e sottoposta al
discredito. I sentimenti dell’uomo della conoscenza, in quanto sono in contraddizione con la «salda
reputazione», sono considerati come disonorevoli, mentre la pietrificazione delle opinioni ha per sé
ogni onore: in balìa d’un siffatto criterio di valore dobbiamo vivere ancor oggi! Come è difficile
vivere, quando si sente contro e intorno a sé il giudizio di molti millenni! È probabile che per molti
millenni sia gravato sul conoscere il peso dalla cattiva coscienza, e che debbano esserci stati nella
storia dei più grandi spiriti molto disprezzo di sé e molta segreta miseria.»
Nietzsche Friedrich 1886 La gaia scienza, A. Mondadori, Milano 1878
«105. L’egoismo apparente. La maggior parte degli uomini, qualunque cosa possano ognora
pensare e dire del loro « egoismo », ciononostante, in tutta la loro vita, non fanno nulla per il loro
ego, bensì soltanto per il fantasma dell’ego, che si è formato, su di essi, nella testa di chi sta intorno
a loro, che si è loro trasmesso; in conseguenza di ciò vivono tutti insieme in una nebbia di opinioni
impersonali e semipersonali, e di arbitrari, quasi poetici, apprezzamenti di valore; ciascuno di
costoro vive sempre nella testa di un altro e questa testa ancora in altre teste: un curioso mondo di
fantasmi che sa darsi, in tutto questo, un’aria così assennata! Questa nebbia di opinioni e di
abitudini si sviluppa e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge; risiede in essa
l’enorme influsso dei giudizi generali sull’uomo, — tutti questi uomini sconosciuti a se stessi
credono nell’esangue entità astratta « uomo », vale a dire in una finzione; e ogni trasformazione
introdotta in questa astratta entità attraverso i giudizi di singoli potenti (come principi e filosofi)
influisce straordinariamente ed in misura irrazionale sulla grande maggioranza: tutto questo per la
ragione che ogni singolo, in questa maggioranza, non è in grado di contrapporre un reale ego, a lui
accessibile e da lui scrutato fino in fondo, alla pallida finzione universale, e non può, quindi,
annullarla.» (Nietzsche Friedrich 1886 Aurora, A.Mondadori, Milano 1981)
5. trasmutazione dei valori (trasvalutazione)
Nella descrizione che Nietzsche traccia di sé in Ecce homo le sue scelte di vita e di pensiero si
animano di una tensione, di un «movimento» che trova il suo culmine nel tema della
«trasvalutazione»: presentati come momenti di un processo di liberazione (dai valori morali, dalle
credenze religiose, dai miti della scienza e della storia, dai principi assoluti della filosofia), gli atti e
gli scritti di Nietzsche rivelano la loro natura di «colpi di sparo» diretti contro gli inganni, contro le
«falsità di millenni» da cui il gregge degli uomini si è lasciato raggirare. Cadono le antitesi
tradizionali che vogliono il mondo e l’uomo divisi tra il bene e il male, la verità e la falsità, la salute
e la malattia; si rivaluta la dimensione del «sì alla vita», al suo divenire non prevedibile e sempre
mobile ma non ingestibile e priva di coraggio. Alla tra svalutazione è affidato l’attacco a ogni tipo
di fatalismo, alibi rinunciatario e radice di schiavitù. Il sì alla vita è fedeltà alla terra e au suoi
enigmi, recupero della componente dionisiaca dell’esistenza. Crolla ogni forma di rinuncia, di
annullamento di sé (quali sono per esempio la virtù, l’ascesi, la fede nella verità, nell’aldilà… in
ogni forma di doppio mondo); il cammino si apre a un «grande mezzogiorno di sublime
autocoscienza.., a una salute riconquistata», a una piena guarigione dell’anima. Quella che d’ora in
poi il filosofo andrà perseguendo sarà una trasmutazione dei valori, un rovesciamento delle più
comuni prospettive di vita e di conoscenza: l’etica del risentimento e della colpa lascerà il campo
all’ebbrezza della vita, il fraintendimento del corpo si trasformerà nella «grande salute», all’ombra
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che l’immagine di Dio per secoli ha gettato sull’umanità subentreranno i raggi della nuova aurora
del primo giorno senza Dio.
Molti sono i modi con cui Nietzsche delinea il sorgere di una nuova Aurora e una nuova umanità, o
meglio l’uomo va oltre se stesso. La descrizione della nuova umanità liberata dalla morsa plurima
del nichilismo si affida a espressioni molto varie, allusive, poco concettualizzabili ma per questo
(non per questo meno) efficaci: vivere (nel nulla), ridere, danzare, creare, giocare, vivere nel
divenire, fedeltà alle proprie brevi abitudini, restare in cammino, amore della lentezza e della
contemplazione, vivere nella transizione, aprirsi all’intera meravigliosa incertezza e ambiguità
dell’esistenza, e… passione, istinto, follia … All’apparenza intuizioni frammentarie, si tratta invece
di schemi che si organizzano in una totalità che non è per nulla inferiore, quanto a densità, coerenza
e ampiezza, alle più solide costruzioni della filosofia classica.
5.1. l’eterno ritorno (la nuova temporalità dell’atto di volontà)
5.1.1. una rivelazione improvvisa. Al termine del Libro IV della Gaia scienza Nietzsche riferisce di
un concetto che gli si è improvvisamente presentato, come una rivelazione, nell’agosto dell’anno
precedente (il 1881), provocando un mutamento «improvviso e profondamente decisivo» del suo
gusto. Si tratta del tema dell’«eterno ritorno» che si affaccia nel testo di Nietzsche con questi
interrogativi: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più
solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai
viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma
ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa
della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte - nella stessa sequenza e successione, e così pure questo
ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra
dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!” Non ti
rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai
forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio
e mai intesi cosa più divina”?»
5.1.2. Nell’aforisma successivo Nietzsche presenta Zarathustra, futuro protagonista dell’opera Così
parlò Zarathustra, che egli scriverà in pochi mesi, nel corso del 1882. Tema centrale di quest’opera
è l’eterno ritorno, «la più sublime formula di affermazione che in generale possa essere raggiunta».
5.1.2.1. contro l’interpretazione tradizionale. L’idea dell’eterno ritorno non si affaccia alla mente di
Nietzsche con i tratti di un ricorrere fatale e doloroso degli stessi attimi, degli stessi eventi, come
fosse un tempo destinato inesorabilmente a svelare l’inutilità degli atti di volontà degli esseri
(questa è l’interpretazione fatalistica di coloro che rinunciano alla vita, alla salute, alla gaiezza), ma
si presenta come la negazione della possibilità di porsi fuori dal tempo, al principio o alla fine, e di
emettere dall’esterno giudizi sul tempo, sul mondo, sull’uomo; tali giudizi si risolverebbero in una
calunnia alla vita, come accade ai «predicatori di penitenza con o senza cristianesimo» e ai «cultori
della verità immutabile». Dunque contro l’ignoranza oppressiva di coloro che pensano di stare fuori
dal tempo e di possedere e gestire visioni della storia nella sua completezza
5.1.2.2. la retta e la circonferenza. Il concetto di eterno ritorno, richiamato da Nietzsche, nella sua
concezione circolare del tempo mette in critica la più recente ma più diffusa e tradizionale
concezione lineare del tempo, consacrata dalla civiltà occidentale e dal cristianesimo, e sottrae
valore ai principi morali, religiosi e metafisici fondati proprio su tale concezione lineare.
Ammettere la linearità del tempo significa infatti riconoscere l’esistenza di un principio e di una
fine, significa pensare che tutto tende a una meta e a una definitiva stabilità in relazione alla quale i
singoli momenti del cammino sono transitori e irrilevanti; in tale prospettiva i principi e le verità
assoluti che la cultura occidentale (e in particolare la metafisica, la morale, la religione, la scienza)
propone assumono il valore di totali certezze. Se invece «non vi è una fine» e tutto eternamente
ritorna, non vi sono momenti privilegiati, né direzioni prescritte; cade la possibilità di orientarsi nel
tempo in vista di principi e di scopi; l’eterno ritorno svela anzi il nulla di ogni progetto etico,
religioso, scientifico, fondato sulla visione lineare del tempo. L’eterno ritorno dello stesso
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appartiene ad una temporalità divina per la quale non si prevede che possa esserci o accadere
qualcosa di nuovo; se il tema antico dell’eterno ritorno ha un senso, e lo conserva nella
consapevolezza della “morte di Dio” allora si configura diversamente. Si tratta dell’eterno ritorno
nell’attimo dell’atto di volontà dell’uomo.
5.1.2.3. l’attimo (Augenblick, letteralmente un battito di ciglia). La figura circolare viene però da
Nietzsche ricondotta alla sua forma schematica più essenziale: l’incontro e la coincidenza del
passato e del futuro nel momento presente, nell’attimo della decisione e della volontà. La circolarità
ripetitiva del passato e futuro, propria della idea dell’eterno ritorno e della concezione circolare del
tempo, viene spiegata nella sua origine in quanto il passato ed il futuro accadono realmente nel
tempo solo nell’atto di volontà e nell’istante (un “battito di ciglia”) in cui il soggetto decide. La
teoria dell’eterno ritorno introduce così una nuova forma di orientamento del pensiero e dell’azione
che consiste nel partire sempre dall’attimo, dal presente, cioè da un inizio totalmente affidato alla
decisione, al coraggio, alla volontà soggettiva; vivendo nell’attimo l’uomo libera pienamente la
propria volontà di potenza, rimuove ogni ostacolo (i valori, i progetti, le norme consolidate dalla
tradizione) che si frappongono alla piena realizzazione della dimensione libera, creativa, vitale, del
fanciullo e dell’oltreuomo. Non si tratta, tuttavia, di un processo gratuitamente distruttivo;
nell’attimo in cui si incontrano i due sentieri del passato e del futuro, l’atto di volontà presente è il
momento in cui l’uomo vuole il suo passato, annullandone così il condizionamento, e, decidendo,
dà forma e avvia il proprio futuro.
Il tempo del vivere è allora istante e frammento che non annulla ma pone in connessione e porta a
realtà di scelta e volontà le componenti irrinunciabili del passato e del futuro; senza l’eterno ritorno
dell’attimo, il passato è imperativo esterno, il futuro è sogno velleitario. Nell’etica come nell’arte:
«Al contrario della rappresentazione, che tende a prolungarsi nel tempo come nello spazio,
l'immagine percettiva è istantanea, praticamente aspaziale. Il massimo della chiarezza si ha quando
il processo distruttivo della rappresentazione coincide col processo formativo dell'immagine, ed, è
un istante.» (Argan Giulio Carlo 2004, Kandinsky, Rizzoli/Skira, 12)
Noto ed esplicito è il capitolo di Così parlò Zarathustra, intitolato: La visione e l’enigma.
«Alt, nano! dissi, O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io —: tu non conosci il mio pensiero
abissale! Questo — tu non potresti sopportarlo!» —
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito!
Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta
carraia.
«Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui:
nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e
in avanti — è un’altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta
carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo”.
Ma, chi ne percorresse uno dei due — sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che
questi sentieri si contraddicano in eterno?». —
«Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è
un circolo». […]
E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato,
convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il
serpente gli era strisciato dentro le fauci e — lì si era abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava — invano! non riusciva a strappare il serpente
dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi», così
gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me —
buono o cattivo — gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. […]
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— Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò
la testa del serpente —: e balzò in piedi. — Non più pastore, non più uomo, — un trasformato, un
circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio
nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere
ancora! Come sopporterei di morire ora! — Così parlò Zarathustra.
(Così parlò Zarathustra)
5.1.2.4. «non più uomo – un trasformato» Rifiutata l’antica, banale concezione dell’eterno ritorno
(con il simbolico gesto del morso al capo del serpente, simbolo storico del circolo dell’eterno
ritorno) il pastore afferma la nuova e più profonda natura dell’eterno ritorno. Il passato non incombe
come ciò che è già avvenuto, come ciò che condiziona e obbliga; il futuro non si presenta come un
dovere che distoglie l’uomo da se stesso, dalla terra e dal presente; i due sentieri «sbattono la testa
l’un contro l’altro» nell’attimo. Esso si presenta non solo come la perfetta sospensione, ma anche
come il pieno possesso del tempo: mentre nella visione cronologica lineare ogni momento acquista
significato in quanto si lega ad altri e con essi a un fine, nella visione dell’eterno ritorno ogni
momento può essere vissuto per se stesso come presente ed eterno; poiché ogni attimo può essere
eternamente ripetuto, l’eternità è un eterno ritorno dell’uguale in forza della decisione di chi
possiede il tempo della volontà, dell’“io voglio”; l’attimo è dunque l’eternità e la totalità.
5.1.2.5. L’attimo, come rilettura dell’eterno ritorno, e l’atto di volontà che lo definisce, non ha lo
scopo di porre il soggetto di fronte alla possibilità di liberarsi dalla ripetizione, quanto piuttosto di
sceglierla, di soggettivarla in modo inedito. È l'idea di fondo che ispira tutto l'impianto teorico di
Nietzsche nel suo progetto di restituire all’uomo il tempo. Il motivo dell’eterno ritorno indica in
anticipo quanto si tenta di raggiungere in analisi propria della cura psicanalitica. Utilizzando (con
molta libertà) le osservazioni espresse in proposito da Recalcati Massimo 2016, Jacques Lacan,
Volume II. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina editore, Milano, pp.
280-281: «Ma come si trasforma la violenza inesorabile della ripetizione? In questione è il
problema della soggettivazione: […] Come si eredita il proprio passato? Quando un passato può
diventare davvero "proprio"? Può un passato diventare "proprio"? Che cosa significa ereditare? […]
l'effetto generale dell'attraversamento del fantasma [che decide, in prima istanza speculare, della
nostra soggettivazione] è quello di un allentamento della sua presa rigida sul desiderio che consente
una nuova apertura del soggetto alla contingenza illimitata dell'esistenza. Più il fantasma si allenta,
più c'è possibilità di separarsi dalla ripetizione dello Stesso. Nondimeno […] il Nuovo che viene
alla luce non si oppone mai, in realtà, allo Stesso, ma è sempre una sua torsione singolare. […]
fantasma [si configura perciò] come una "linea di destino" che orienta tutta la vita del soggetto e
che l'analisi ha il compito di disvelare non affinchè il soggetto se ne liberi, ma perché, in modo
nuovo, possa acconsentire a quel destino. […] L'incontro che il soggetto fa nella propria analisi è
con il proprio destino, ovvero con il proprio fantasma fondamentale, se in tale fantasma si è
"fissato" […] il desiderio del soggetto. Nondimeno, l'analisi implica anche la possibilità di dare un
senso nuovo al proprio passato risignificando après coup - secondo la logica del futuro anteriore - il
proprio destino: non tutto è già scritto nell'Altro. La contingenza dell'incontro apre su di una
necessità (quella del destino), ma la necessità non inghiotte completamente la contingenza, bensì
può ricevere da quest'ultima una significazione inedita. In questo senso il cammino dell'analisi
realizza retroattivamente il processo di soggettivazione: se i casi della vita ci sospingono a destra e a
manca, siamo noi che, risignificandoli après coup, forgiamo quella trama che chiamiamo destino.»
Ritorna qui il concetto di amor fati degli stoici, ma non come adattamento alla legge generale degli
eventi ma come gestione diretta di sé che è insieme accettazione e annullamento del fato: voglio il
mio destino. L’attimo è dunque al centro della temporalità etica; qui i due sentieri «sbattono la testa
l’un contro l’altro». È volontà di potenza e oltre-uomo: voglio il mio passato nel gioco del creare.
5.2. l’oltreuomo (il Superuomo, l’uomo va oltre se stesso: la nuova umanità oltre l’inganno)
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Comincia così il tramonto di Zarathustra: giunto in città annuncia agli uomini: «Ecco, io vi insegno
l’oltreuomo! L’oltreuomo è il senso della terra... Vi scongiuro fratelli miei restate fedeli alla terra e
non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Si tratta di avvelenatori, che lo
sappiano o no. Spregiatori della vita, moribondi, essi stessi avvelenati, di loro la terra è stanca:
possano scomparire! Un tempo il peccato contro Dio era il peccato più grande, ma Dio è morto e
quindi sono scomparsi anche i peccatori». (Così parlò Zarathustra, dalla Prefazione)
Zarathustra è dunque venuto ad annunciare una liberazione e una rinascita: per l’oltreuomo che
accoglie consapevolmente la morte di Dio si apre una nuova esistenza libera dai valori, dalle catene
che lo legano al bene e al male, dai fini che lo orientano verso l’aldilà; l’annuncio di Zarathustra
schiude all’oltreuomo il senso della terra e della salute.
Colui che si dimostra pronto ad accogliere il suo annuncio è infatti disposto a sbarazzarsi di ogni
inganno, ad accettare il rischio di un’esistenza senza eredità né mete; Nietzsche indica quest’uomo
con il termine Übermensch, per indicare la sua capacità di stare sempre «oltre», liberandosi dei lacci
che l’esistenza e la società continuamente creano. L’uomo è un ponte: «La grandezza dell’uomo è
di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione.» (Così
parlò Zarathustra. Si nota la distanza di Nietzsche nei confronti di Kant, in particolare del secondo
imperativo categorico). L’oltreuomo è infatti in costante movimento per superare se stesso e gli
eventi, non è spaventato dalle tragiche contraddizioni della vita, non è attratto dalle confortanti mete
del bene e dell’aldilà.
5.3. la volontà di potenza (un nichilismo creativo)
Nell’oltreuomo si esprime con forza la «volontà di potenza», cioè il desiderio di affermarsi
positivamente, autonomamente, dal nulla dei pesi e degli obblighi nelle sue azioni e creazioni; la
sola radice cui egli si sente fedele è la terra, la naturalità del suo corpo e della realtà materiale. In
quanto rifiuta le seduzioni offerte dai fini, dagli scopi cui gli altri uomini dirigono tutti i loro atti,
l’oltreuomo si colloca in una temporalità diversa da quella comune. L’oltreuomo non può che
rifiutare il tempo lineare nel quale tutto passa, «tutto è vano, tutto è indifferente e, ancora, tutto fu»;
il tempo nel quale egli sceglie di vivere è quello dell’«eterno ritorno»: nel tempo circolare
dell’eterno ogni istante è vissuto nella sua pienezza e nella pienezza della potenza della volontà.
«Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io
contemplo.
E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è
frammento ed enigma e orrida casualità.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e
redentore della casualità!
Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” — solo
questo può essere per me redenzione!
Volontà — è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così io vi ho insegnato, amici miei! Ma
adesso imparate ancor questo: la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata.
Volere libera: ma come si chiama ciò che getta in catene anche il liberatore?
“Così fu” — così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria.
Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. […]
Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: «la volontà è qualcosa che crea».
Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea
non dica anche: «ma così volli che fosse!».
— Finché la volontà che crea non dica anche: «ma io così voglio! Così vorrò!».
(Così parlò Zarathustra)
5.4. il fanciullo che gioca, «il giuoco della creazione»
È bene ricordare un frammento di Eraclito: «52. Il tempo è un fanciullo che giuoca spostando i dadi:
il regno di un fanciullo.»
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Oltreuomo (superuomo), volontà di potenza … non esprimono progetti di dominio e sopraffazione,
ma declinano il tema centrale di Nietzsche (motivo costante di Così parlò Zarathustra): la fedeltà
alla terra, alla natura nella sua enigmatica complessità e la conseguente condanna per le cultura del
disprezzo dell’uomo, della natura, della vita; disprezzo tanto più dannoso e devastante quanto più si
presenta nei toni della compassione, della misericordia e del perdono, oltre che nelle forme più
esplicite del dominio e della sopraffazione; forme di cui il disprezzo dell’uomo costituisce la base e
il terreno di coltura. La figura più adatta ad esprimere l’oltreuomo è indicata in apertura di Così
parlò Zarathustra: è un fanciullo che gioca.
«Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il
leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un
giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì.
Si, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua
volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.
Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello,
e infine il leone fanciullo.» (Così parlò Zarathustra, Delle tre metamorfosi)
5.5. la contemplazione (una «dimenticanza attiva»)
Dimenticanza come distanza, sospensione di giudizio, giusto sospetto; attiva poiché è sguardo di
analisi critica (genealogia), posizione creativa, spirito di gioco.
«Oh come siamo felici noi che ci interessiamo alla conoscenza, ammesso che si sappia tacere
abbastanza a lungo (prefazione. 2) E' chiaro che per esercitare così la lettura come arte, è
necessaria soprattutto una cosa che al giorno d'oggi si è disimparata più di tante altre - e perciò per
arrivare alla leggibilità delle mie opere, ci vorrà ancora tempo - una cosa, cioè, per cui si deve
essere piuttosto simili a una vacca e in nessun caso a un "uomo moderno": il ruminare.(pref. 8)
Chiudere ogni tanto le porte e le finestre della coscienza, non farsi molestare dal fracasso e dalla
lotta con cui il mondo occulto degli organi al nostro servizio manifesta la sua collaborazione e
opposizione, un po’ di tranquillità, un po’ di tabula rasa della coscienza, per fare ancora spazio a
qualcosa di nuovo...questo è il vantaggio di una dimenticanza attiva (II,1).» (Genealogia della
morale).
«È passato il tempo in cui la Chiesa possedeva il monopolio della meditazione, quando la vita
contemplativa doveva essere sempre in primo luogo vita religiosa: e tutto quanto la Chiesa ha
costruito esprime questo pensiero. Io non saprei come potremmo lasciarci appagare dalle sue
costruzioni, anche se queste fossero spogliate della loro destinazione ecclesiastica: queste
costruzioni parlano un linguaggio anche troppo patetico e parziale, in quanto case di Dio e sfarzose
sedi di un commercio ultramondano, perché noi, i senza Dio, si possa qui dar vita ai nostri pensieri.
Quando andiamo errando in questi loggiati e giardini, è noi che vogliamo aver tradotto in pietra e
pianta, è in noi stessi che vogliamo passeggiare.» (Gaia scienza § 280)
Contemplazione è dar vita ai propri pensieri in noi stessi, staccando il legame antico tra pensiero,
verità, realtà (e la preoccupazione venerante che quel legame crea), e procedere con il gusto della
lentezza. «…nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione
indecorosa e sudaticcia», imparare la lentezza: «Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa
anche parte del mio gusto — un gusto malizioso forse? — non scrivere più nulla che non porti alla
disperazione ogni genere di gente « frettolosa ». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige
dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire
lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento
lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento.» (Aurora, § 5)
5.6. imparare se stessi (e ascoltare l’inconscio)
«Che cos’è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi» (Gaia
scienza § 275); la fedeltà al proprio essere continuamente diversi, al proprio divenire, l’amore per le
proprie «brevi abitudini» (ivi § 295), al «tu sei sempre un altro» (ivi § 307); il «divenire quello che
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tu sei» (ivi § 270) e il non consegnarsi ai giudizi generali (con la conseguente scoperta del pregio e
della necessità della solitudine). «L’egoismo apparente. La maggior parte degli uomini, qualunque
cosa possano ognora pensare e dire del loro «egoismo», ciononostante, in tutta la loro vita, non
fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell’ego, che si è formato, su di essi, nella
testa di chi sta intorno a loro, e che si è loro trasmesso; in conseguenza di ciò, vivono tutti insieme
in una nebbia di opinioni impersonali e semipersonali, e di arbitrari, quasi poetici, apprezzamenti di
valore; ciascuno di costoro vive sempre nella testa di un altro e questa testa ancora in altre teste: un
curioso mondo di fantasmi che sa darsi, in tutto questo, un’aria così assennata! Questa nebbia di
opinioni e di abitudini si sviluppa e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge;
risiede in essa l’enorme influsso dei giudizi generali sull’uomo, — tutti questi uomini sconosciuti a
se stessi credono nell’esangue entità astratta « uomo », vale a dire in una finzione; e ogni
trasformazione introdotta in questa astratta entità attraverso i giudizi di singoli potenti (come
principi e filosofi) influisce straordinariamente ed in misura irrazionale sulla grande maggioranza:
tutto questo per la ragione che ogni singolo, in questa maggioranza, non è in grado di contrapporre
un reale ego, a lui accessibile e da lui scrutato fino in fondo, alla pallida finzione universale, e non
può, quindi, annullarla.» (Aurora § 105)
5.6.1. ascoltare il nostro inconscio: «Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano
il suo sviluppo, le sue intermittenze!» (Gaia scienza § 11) « Noi, che siamo consapevoli delle
ultime scene di conciliazione e della liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò
che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente
contrapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro. Per
lunghissimo tratto di tempo, si è considerato il pensiero consapevole, come il pensiero in generale:
soltanto oggi, ci balugina la verità che la maggior parte del nostro produrre spirituale si svolga
senza che ne siamo coscienti, a noi inavvertito; penso tuttavia che questi impulsi — qui in lotta
l’uno con l’altro — sapranno benissimo farsi sentire tra loro e procurarsi vicendevolmente del
male: quel forte improvviso sfinimento, da cui sono afflitti tutti i pensatori, potrebbe avere qui la
sua origine (è lo sfinimento del campo di battaglia). Sì, forse esiste nelle nostre lotte interiori
parecchio eroismo nascosto, non certo alcunché di divino, di eternamente riposante in se stesso,
come pensava Spinoza. Il pensiero consapevole, e particolarmente quello dei filosofi, è il più
svigorito e perciò stesso anche il relativamente più temperato e più quieto modo del pensiero: e così
precisamente il filosofo può essere indotto in errore, con la maggior facilità, sulla natura del
conoscere.» (Gaia scienza § 333)
5.6.2. la scoperta del pregio e della necessità della solitudine. Solitudine non è isolamento. «L'essere
umano esige la solitudine come esige il legame. In realtà può stare in un legame solo se sa
sopportare la condizione della sua solitudine. La solitudine non è isolamento. L'isolamento è il
richiudersi accidioso della vita in se stessa; è un modo per rifugiarsi dall'instabilità che condiziona
ogni legame. Nell'isolamento non c'è pace ma risentimento; fuga rabbiosa o rassegnata dal mondo.
[…] Diversamente la solitudine non è rifiuto del legame, ma il suo unico fondamento positivo.
Sapere stare soli, teorizzava Winnicott, è il criterio minimo, ma essenziale, della salute mentale.
Nello stare soli affermiamo il nostro diritto alla sconnessione. La solitudine non è fuga rabbiosa o
rassegnata dal mondo. È invece il tempo giusto della pausa, del silenzio, dell'interruzione delle
attività, della contemplazione. Mentre l'isolato sceglie di chiudere l'apertura del mondo, niente come
la solitudine la può mantenere aperta. […] L'isolato vive in un'isola che esclude ponti, mentre la
solitudine, come affermava Nietzsche, è uno stato di "convalescenza" che può essere vissuto come
una "ebbrezza". È un ricaricamento libidico della vita, dunque il contrario di una fuga dalla vita.»
(Recalcati Massimo, La differenza tra la fuga e l’estasi mistica della solitudine, articolo in la
Repubblica 26.07.2015)
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