N. 4/2016 - Processo Penale e Giustizia

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PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
4-2016
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Regole dell’esame incrociato
Direct-examination and cross-examination rules
Intercettazioni eseguite in luoghi e su utenze non autorizzati
Wiretapping and limits to its use
Sequestro preventivo e ne bis in idem
Preventive seizure: when the prosecutor cannot duplicate the question
Riparazione per l’irragionevole durata del processo
dopo la legge 28 dicembre 2015, n. 208
The equitable remedial action due to the unreasonable long-lasting duration of trial
Gli effetti processuali della depenalizzazione
The procedural effects of the decriminalization
Inchiesta preliminare e libertà fondamentali
Preliminary inquiry and fundamental freedoms
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
4-2016
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di
procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di procedura
penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea, Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, professore associato di procedura penale,
Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro
Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di
procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale,
Università di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo
– Antonio Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato – Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia
Ester Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato – Alessio Scarcella, magistrato – Giuseppe Tabasco, ricercatore di procedura penale, Università di
Napoli Federico II – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
V
Sommario
Editoriale | Editorial
PAOLO FERRUA
Lacune ed anomalie nelle regole dell’esame incrociato / Gaps and anomalies in
direct-examination and cross-examination of witnesses
1
Scenari | Overviews
Novità legislative interne / National legislative news (LORENZO BELVINI E CARLA PANSINI)
10
Novità sovranazionali / Supranational news (PIETRO ZOERLE)
16
De jure condendo (NICOLA TRIGGIANI)
22
Corti europee / European Courts (ANTONIO BALSAMO)
26
Corte costituzionale (FRANCESCA DELVECCHIO)
30
Sezioni Unite (TERESA ALESCI)
35
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
42
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Declaratoria di prescrizione e impugnazione della parte civile al vaglio della Suprema
Corte
Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza 19 gennaio 2016, n. 3789 – Pres. Izzo; Rel. Piccialli
46
La legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione: auspicabile un intervento delle Sezioni Unite? / The right of appeal by the civil party of a sentence which has declared the extinction of the crime: is necessary an
intervention by the United Sections of the S.C.? (GASPARE DALIA)
49
Intercettazioni: la Corte amplia l’autonomia del pubblico ministero
Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza 3 febbraio 2016, n. 4484 – Pres. Zecca; Rel. Bianchi
56
Intercettazioni de eadem persona eseguite in luoghi e su utenze non autorizzati / Wiretapping and limits to its use through the judgment of the Supreme Court (ELISA ZERBINI)
58
Misure cautelari reali e preclusione del ne bis in idem
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 29 gennaio 2016, n. 53877 – Pres. Grillo; Rel. Andreazza
70
Sequestro preventivo, litispendenza e quadro cautelare immutato: il pubblico ministero
non può duplicare la domanda / Preventive seizure, litispendenza and precautionary framework unchanged: the public prosecutor can not duplicate the question (SAVERIO DI LERNIA)
74
Patteggiamento: l’estinzione del reato e degli effetti penali opera senza bisogno di una
pronuncia giudiziale
Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 18 febbraio 2016, n. 6673 – Pres. Ippolito; Rel. Tronci
81
Patteggiamento tradizionale e benefici estintivi: quali effetti penali vengono meno e co-
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
me / Upon request sentence: which are the sanctionative effects that might be removed? (MARIA
VITTORIA PAPANTI-PELLETIER)
VI
83
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
L’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo penale alla luce della legge 28
dicembre 2015, n. 208 / The equitable remedial action due to the unreasonable long-lasting duration of penal trial, in light of the law of 28th December 2015, n. 208 (ROBERTO GUIDA)
93
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
Gli effetti processuali della depenalizzazione / The effects of decriminalization (LUCIANO
CALÒ)
101
Un ciclo giudiziario “travolgente” / A ruthless juridical dynamic (ADOLFO SCALFATI)
113
Indici | Index
Autori / Authors
118
Provvedimenti / Measures
119
Materie / Topics
120
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
1
Editoriale | Editorial
PAOLO FERRUA
Professore di Procedura penale – Università di Torino
Lacune ed anomalie nelle regole dell’esame incrociato
Gaps and anomalies in direct-examination and cross-examination
of witnesses
Le vigenti regole sull’esame incrociato si espongono a diversi rilievi critici. Il primo riguarda la mancata previsione
di un nuovo controesame come seguito al riesame. Il secondo l’infelice definizione delle domande nocive. Il terzo
l’ambigua struttura del divieto di domande suggestive, che ha determinato due opposti, ma parimenti inaccettabili,
indirizzi giurisprudenziali. Incerte infine le conseguenze derivanti dalla formulazione di domande nocive o suggestive. Per le prime, lesive della libertà di autodeterminazione si può fondatamente sostenere l’inutilizzabilità delle risposte, nonostante il contrario indirizzo giurisprudenziale; per le seconde tutto dipende dall’interpretazione dell’art.
191 c.p.p. A seconda di come si intende l’espressione prove ‘acquisite’ in violazione dei divieti stabiliti dalla legge –
estensivamente: prove ‘ottenute’; restrittivamente: prove ‘ammesse’ – la risposta alla domanda suggestiva dovrà
ritenersi inutilizzabile o semplicemente dotata di una minore attendibilità.
There are several aspects of the direct-examination and cross-examination’s provisions that may be criticized,
mostly because of the ambiguous wording of Art. 499.
In particular both “questions which may compromise the sincerity of the answers” and “leading questions” are
unclear. Moreover, and most of all, the consequences of asking such questions are vague.
I SILENZI DEL CODICE: IL SEGUITO DEL RIESAME E IL TESTE OSTILE
Nelle regole dell’esame incrociato – latamente inteso come comprensivo delle diverse fasi in cui si articola la testimonianza dibattimentale – si possono individuare tre profili critici. Il primo riguarda le lacune della disciplina codicistica, il secondo gli errori o, quantomeno, le ambiguità della medesima, il
terzo le conseguenze processuali derivanti dalla violazione delle regole previste.
Quanto al primo aspetto, una lacuna concerne la possibilità di un nuovo controesame successivo al riesame. L’art. 498 c.p.p. articola gli interventi delle parti in tre fasi: a) l’esame diretto condotto dalla parte
che ha indicato il testimone e da quella che ha con essa un interesse comune; b) il controesame effettuato
dalle parti avverse; c) il riesame, ovvero le ‘nuove domande’ che può rivolgere al testimone la parte che
ha svolto l’esame diretto. Nessun accenno all’eventuale, nuovo intervento della parte contro-esaminante.
In una delle poche sentenze in materia la Cassazione intende il silenzio del codice come volto ad
escludere la possibilità di un nuovo controesame. L’esclusione – dicono i giudici di legittimità – «trova
la sua ratio in evidenti ragioni di economia processuale e nel principio di concentrazione del contraddittorio. Tende ad evitare interventi meramente dilatori o ‘a catena’ e senza limiti, a stimolare una conduzione dell’esame ispirata a principi di correttezza e di lealtà e a garantire i diritti del testimone. La tutela dei diritti della difesa, ove si rendesse necessario porre altre domande o acquisire altre prove, è garantita dagli artt. 506 e 507 che consentono interventi del giudice» 1. A favore dell’ammissibilità di un
1
Cass., sez. IV, 27 marzo 1997, in Dir. pen. proc., 1997, p. 6843.
EDITORIALE | LACUNE ED ANOMALIE NELLE REGOLE DELL’ESAME INCROCIATO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
2
nuovo controesame si è, invece, espresso il Tribunale di Brescia, secondo cui «la parte che ha chiesto
l’esame del testimone può proporre all’esito del controinterrogatorio, nuove domande, non limitate a
quelle rese necessarie dal controinterrogatorio, salvo il diritto della controparte di ulteriore controesame» 2.
A nostro avviso è quest’ultimo l’indirizzo corretto. Anzitutto in base al principio di parità tra le parti
perché le possibilità di intervento nell’esame testimoniale devono essere eguali per l’accusa e la difesa.
Inoltre, è vero che il riesame è, in linea generale, delimitato dalle circostanze dedotte in lista; ma non è
detto che queste abbiano effettivamente formato oggetto di domande nell’esame diretto; e altrettanto
dicasi per le circostanze successivamente emerse. Il diritto alla controprova esige, dunque, che al riesame possa seguire un nuovo controesame.
Altra lacuna riguarda l’ipotesi in cui, durante l’esame diretto, il teste si riveli sfavorevole alla parte
che ne ha chiesto la citazione o a quella che con essa ha un interesse comune. La legge non prevede
un’esplicita eccezione al divieto di domande suggestive che vige nell’esame diretto; ma è ragionevole
ritenere che, per effetto del sopravvenuto rapporto di ostilità tra testimone e parte, quest’ultima possa
chiedere al giudice di essere autorizzata a rivolgere domande suggestive 3; facoltà di cui l’interrogante
si avvarrà con estrema cautela, non essendo suo interesse evidenziare, se non quando sia palese, il mutato atteggiamento del teste.
D’altronde, quando il teste nell’esame diretto ritratti le dichiarazioni originariamente rese, non c’è
dubbio che all’esaminante sia consentito usarle a fini contestativi; e il modo più efficace per provvedere
alle contestazioni è sicuramente rappresentato dalle domande suggestive.
DOMANDE NOCIVE
L’art. 499 c.p.p. disciplina il tenore delle domande che devono vertere «su fatti specifici». Espressione
impropria perché ‘i fatti’, in quanto estratti dal reale attraverso il linguaggio che li individua, non possono essere ‘generici’ 4. Sono le domande che vanno formulate in termini specifici, contrariamente alla
pratica seguita nei processi misti o inquisitori dove il colloquio tra giudice e testimoni si svolge col metodo della narrazione fluida (‘mi dica tutto ciò che sa ...’) 5.
È importante distinguere le domande ‘nocive’, incondizionatamente vietate in tutte le fasi dell’esame, dalle domande ‘suggestive’, espressamente vietate nel solo esame diretto: le prime sono definite
come quelle che «possono nuocere alla sincerità delle risposte», le seconde come quelle che «tendono a
suggerire le risposte» (art. 499, commi 2 e 3, c.p.p.). Scelte criticabili sia per la definizione delle domande ‘nocive’, sia per le modalità con cui è espresso il divieto di domande suggestive 6.
Ma, prima di analizzare la disciplina codicistica, vediamo quali domande in un sistema ideale dovrebbero ritenersi ‘nocive’ e quali ‘suggestive’.
Domande ‘nocive’ sono, a nostro avviso, quelle che, per la loro formulazione, impediscono al teste di
dire ciò che intende dire, ossia di esprimere il suo genuino pensiero 7. La prova dichiarativa regge su un
2
Trib. Brescia, 13 marzo 1991, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 257.
3
In tal senso P. Ferrua, La testimonianza nell’evoluzione del processo penale italiano, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, p.
102; P.P. Paulesu, Giudice e parti nella dialettica della prova testimoniale, Torino, 2002, p. 209. Quanto all’esame dei minori, è
evidente che occorra particolare cautela nella formulazione delle domande; ma, a nostro avviso, non v’è ragione per vietare
incondizionatamente le domande suggestive (incluse quelle trabocchetto), che, se effettuate con la dovuta accortezza e sotto il
controllo del giudice e del suo ausiliario, possono in determinate situazioni rivelarsi assai utili.
4
F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, p. 676.
5
Nella prassi si registra la tendenza del giudice a censurare, in sede di controesame, la riproposizione di domande a cui il
teste abbia già risposto durante l’esame diretto; a torto, perché la diversa formulazione di una domanda già proposta può essere
un metodo assai efficace per saggiare l’attendibilità del teste.
6
Infra.
7
Per l’inammissibilità di domande ambigue o equivoche, P. Ferrua, La testimonianza, cit., p. 102; F. Spaccasassi, Considerazioni
in tema di esame testimoniale, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 496; G. Gianzi, Esame diretto e controesame dei testimoni, in Enc. Dir.,
agg. III, 1999, p. 592. Per l’inammissibilità di domande suadenti che lusingano il testimone, G. Frigo, sub art. 499 c.p.p., in
Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Mario Chiavario, vol. V, Torino, 1991, p. 263; o di quelle che fanno
leva sull’emotività dell’escusso che cercano di innervosirlo o di approfittare delle sue debolezze caratteriali o culturali o lo
EDITORIALE | LACUNE ED ANOMALIE NELLE REGOLE DELL’ESAME INCROCIATO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
3
processo comunicativo, e la comunicazione si realizza solo in quanto l’emittente possa consapevolmente trasmettere un’informazione attraverso il riconoscimento della sua intenzione di trasmetterla 8. A
compromettere la comunicazione non sono le menzogne, per la cui scoperta il mezzo più efficace è
proprio l’esame incrociato; ma gli equivoci, i malintesi, le intimidazioni e, più in generale, tutto ciò che,
direttamente o indirettamente, si risolve in una costrizione o lesione della libertà di autodeterminazione. Quando il significato oggettivo di ciò che è stato dichiarato non corrisponde a ciò che si sarebbe voluto dichiarare, il danno per l’accertamento dei fatti è purtroppo irrimediabile; e poco importa che ciò
derivi da minacce, allettamenti o, più subdolamente, da errori in cui sia stato inconsapevolmente indotto il teste.
Sono ‘nocive’ le domande ambigue, espresse in un linguaggio non accessibile al testimone o che,
dando per scontato un fatto non ancora oggetto di esame, possono provocare una risposta non conforme agli intenti del testimone 9: tali le domande implicative come: «a quel tempo lei aveva già smesso di
trafficare stupefacenti?» (beninteso, in quanto l’interrogato non l’abbia in precedenza ammesso). Un
buon esempio di domanda nociva, perché maliziosamente ambigua, è anche: «lei ha preso cognizione
del fatto x durante l’interrogatorio della polizia?»; fraseologia con la quale si può alludere sia alla possibilità che la persona si sia spontaneamente ricordata del fatto x in sede di interrogatorio, sia a quella
che il resoconto del fatto le sia stato suggerito dalla polizia. La risposta, positiva o negativa, lascerebbe
irrisolto il dilemma.
Essendo lesive della libertà di autodeterminazione, le domande nocive devono ritenersi vietate non
solo negli esami in contraddittorio, ma in ogni forma di interrogazione, incluse quelle che hanno luogo
nelle indagini preliminari o nell’investigazione difensiva; e, come si vedrà, se non tempestivamente
censurate, determinano la radicale inutilizzabilità delle risposte.
DOMANDE SUGGESTIVE E DOMANDE TRABOCCHETTO
Domande ‘suggestive’ sono quelle che in un modo o nell’altro instradano il teste verso una risposta che
in forma più o meno palese gli viene suggerita 10. Sono in genere domande alle quali è sufficiente rispondere con un sì o con un no, dato che l’informazione che ci si attende dal teste è già contenuta nella
domanda, sia pure in forma ipotetica; la risposta si limita ad incidere sulla modalità epistemica, convertendo l’interrogativo in certezza positiva o negativa. «Lei ha visto transitare l’imputato al volante della
sua auto nera all’ora x nel luogo y?» è una tipica domanda suggestiva: e se fosse preceduta da un «Non
è forse vero che …» la suggestione si accrescerebbe ulteriormente.
Rientrano nelle domande suggestive, di cui costituiscono una sottospecie, anche le c.d. domande
‘trabocchetto’, formulate su presupposti scientemente falsi, il cui fine è di indurre l’interrogato a mentire per poi smascherarlo, alla luce dei fatti, come teste mendace 11. Naturalmente la domanda in tanto è
ammissibile in quanto si riferisca a fatti che il testimone conosca e sia quindi in grado di confermare o
di smentire 12. Un celebre esempio è quello del controesame svolto da Abraham Lincoln che chiedeva al
teste se, grazie al chiaro di luna, avesse visto l’imputato commettere l’omicidio; e, ottenuta una risposta
mettono in cattiva luce più di quanto necessario per accertarne la credibilità, G. Illuminati, Ammissione e acquisizione, in P.
Ferrua-F. Grifantini-G. Illuminati-R. Orlandi, La prova nel dibattimento penale, IV ed., Torino, 2010, p. 120.
8
Come illustrato da P. Grice (Logica e conversazione (1989), trad. it., Bologna, 1993, p. 58 s.), S ha voluto dire qualcosa con x
quando S ha avuto l’intenzione che x producesse un certo effetto sull’ipotetico destinatario attraverso il riconoscimento di
questa intenzione. Sui criteri identificativi della prova dichiarativa, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, III ed., Bologna, 2012, p. 62 s.
9
Secondo D. Manzione (Le nuove ‘regole’ per l’esame testimoniale (a proposito dell’art. 499), in Cass pen., 1991, p. 1482) sarebbero
nocive anche le domande implicative che danno per acclarato un fatto ancora da provare; e per L. Algeri (Esame e controesame nel
processo penale: aspetti psicologici, in AA.VV., Verso uno statuto del testimone nel processo penale. Atti del Convegno (Pisa-Lucca, 28-30
novembre 2003), Milano, 2005, p. 235) quelle che contengono presupposti non veridici.
10
M. Stone, La cross-examination [1988], trad. it., a cura di E. Amodio, Milano, 1990, p. 129 s., 172 s. Nella letteratura italiana,
sulle domande suggestive v., tra gli altri, L. De Cataldo Neuburger, Esame e controesame nel processo penale italiano, Padova, 2000,
p. 188 s.; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 676; A. Nappi, Guida alla procedura penale, IX ed., Milano, 2004, p. 513; P. Silvestri, Il
diritto al controesame nella prova testimoniale, in Cass. pen., 2009, p. 1564.
11
Per l’ammissibilità delle domande ‘trabocchetto’, P. Ferrua, La testimonianza, cit., p. 102; P. Corso, Immagini e deontologie
della cross-examination, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 161; G. Frigo, sub art. 499, cit., p. 254.
12
L. De Cataldo Neuburger, Esame e controesame, cit., 192 s.
EDITORIALE | LACUNE ED ANOMALIE NELLE REGOLE DELL’ESAME INCROCIATO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
4
affermativa, mostrava, almanacco alla mano, come quella notte non vi fosse alcun chiaro di luna 13. Altro esempio, meno fantasioso, è la domanda con la quale si chieda al testimone se il tal giorno abbia
viaggiato su un mezzo pubblico, sapendo che era sospesa la circolazione di quei veicoli.
Le domande suggestive non sono assimilabili alle domande nocive perché, a differenza di queste,
non impediscono al teste di esprimere consapevolmente il suo pensiero e, quindi non ledono la libertà
di autodeterminazione. Nondimeno, in linea di principio, anch’esse devono considerarsi vietate per la
semplice ragione che suggerire le risposte non è un buon metodo per ottenere informazioni genuine e
consentire al teste di dire ciò che sa, senza costringerlo a monosillabiche asserzioni. È, pertanto, naturale che siano vietate ovunque non sussista uno specifico motivo per ammetterle in deroga al divieto generale: nell’esame diretto, nel riesame 14, nell’esame condotto dal giudice, ma anche negli interrogatori
svolti dagli inquirenti nell’indagine preliminare o dal difensore in sede investigativa 15.
In via di eccezione, è corretto che il divieto di domande suggestive venga meno in quei contesti, come il controesame, dove la parte legittimamente può proporsi di scardinare o, comunque, di mettere a
prova la credibilità di un teste che si riveli a lei ostile.
Non bisogna, d’altro canto, trascurare che, se l’esame testimoniale ha come scopo precipuo l’accertamento della verità, questa nel controesame spesso si manifesta attraverso la scoperta delle menzogne 16. Gli indici della menzogna sono più tipici e più affidabili di quelli della verità sia sotto il profilo
linguistico sia nei tratti paralinguistici del discorso; e il mezzo più idoneo a decifrare le falsità nella testimonianza sono proprio le domande ‘trabocchetto’. Il limite invalicabile a cui soggiace ogni domanda
è, ovviamente, costituito dal rispetto della persona 17.
LE SCELTE DEL CODICE: DUE RILIEVI CRITICI
In base alle regole sin qui esposte, la disciplina codicistica si presta, nel suo tenore letterale, ad almeno
due rilievi critici 18. Il primo riguarda le domande nocive, impropriamente definite come quelle che
«possono nuocere alla sincerità delle risposte» (art. 499, comma 2, c.p.p.). Se così fosse, bisognerebbe
concludere che le domande ‘trabocchetto’, formulate allo scopo di smascherare i falsi testimoni, siano
nocive e, come tali, incondizionatamente vietate, anche nel controesame; nocive sono invece le domande che, per il loro carattere ambiguo o intimidatorio, impediscono al teste di esprimere liberamente ciò
che intende dire (il vero come il falso).
Il secondo rilievo riguarda l’ammissibilità delle domande suggestive. La scelta più corretta sarebbe
stata quella di disciplinarle con due distinte disposizioni: la prima, di carattere generale, volta a vietarle
in qualsiasi contesto processuale; la seconda, di natura eccezionale, diretta ad ammetterle nel controesame o anche nell’esame diretto allorché il teste si rivelasse ostile all’interrogante. Così sarebbe risultato
chiaro che il generale divieto di domande suggestive può venire meno solo in presenza di un rapporto
13
L’aneddoto – riportato nel manuale di Francis Wellman, L’arte della cross-examination, Milano, 2009, p. 95 s. – è citato da vari
autori (ad esempio, L. De Cataldo Neuburger, Esame e controesame, cit., 246; E. Amodio, Disciplina processuale e poteri del giudice nel
dibattimento, in Tecnica dell’esame delle parti e dei testimoni nel dibattimento, Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, n. 49,
p. 1991). Ma può essere una curiosità storica ricordare che già all’epoca della Rivoluzione francese François Tronchet ipotizzava in
Assemblea costituente il caso di un uomo accusato da due testi che falsamente affermavano di averlo visto commettere l’omicidio
al chiaro della luna (intervento del 5 gennaio 1791 in Réimpression de l’ancienne Moniteur, Paris, 1857, t. VII, p. 47). Evidentemente
questo genere di falsa testimonianza non era raro …
14
M. Colamussi, In tema di domande suggestive nell’esame testimoniale, in Cass. pen., 1993, p. 1798 s.; P.P. Paulesu, Giudice e parti
nella dialettica della prova testimoniale, Torino, 2002, p. 208.
15
Nonostante il diverso indirizzo della giurisprudenza: per l’inapplicabilità del divieto di domande suggestive nell’indagine
preliminare, Cass., sez. III, 29 ottobre 2008, n. 45857, in CED Cass., n. 241686; Id., sez. II, 16 aprile 1993, in Arch. nuova proc. pen.,
1994, p. 110; Id., sez. III, 5 dicembre 2003, n. 984, in CED Cass., n. 227679.
16
P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 131. In giurisprudenza v. correttamente Cass., sez. I, 29 aprile 2010, Ben Mansour, in
Cass pen., 2011, doc 1250, p. 3935: «È viziata da illogicità manifesta della motivazione la sentenza che, nella valutazione
dell’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese da un collaboratore di giustizia deprima il significato probatorio negativo
delle incoerenze e contraddizioni tra il dichiarato e le risultanze processuali di prova generica, attribuendo valenza negativa al
carattere suggestivo delle domande poste dalla difesa dell’imputato nel corso del controesame».
17
F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 676.
18
V. al riguardo, P. Ferrua, La prova nel processo penale, vol. I, Struttura e procedimento, Torino, 2015, p. 122 s.
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di ostilità tra teste e parte. Il codice si è, invece, limitato ad una sola disposizione che vieta le domande
suggestive nell’esame diretto: «nel corso dell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del
testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le
risposte» (art. 499, comma 3, c.p.p.).
Di qui un dilemma da cui derivano due opposte conclusioni, nessuna delle quali riesce soddisfacente. Se il divieto va inteso come un’eccezione a fronte di una generale ammissibilità delle domande suggestive 19, deve restare circoscritto al solo esame diretto; con il risultato che le domande suggestive
avrebbero via libera non solo nel controesame ma anche nell’esame condotto dal giudice; e, naturalmente anche nell’indagine preliminare e nell’investigazione difensiva. Se, viceversa, si legge il divieto
di domande suggestive nell’esame diretto come esemplificazione di un più generale principio, volto a
tutelare il teste da ogni possibile influenza, si può senz’altro applicarlo all’esame condotto dal giudice;
ma, alla stessa stregua, diventa naturale estenderlo ad ogni contesto processuale, incluso il controesame.
GLI INDIRIZZI GIURISPRUDENZIALI: DA UN ESTREMO ALL’ALTRO
Si spiega così perché la giurisprudenza, fuorviata dall’ingannevole tenore dell’art. 499, comma 2, c.p.p.,
oscilli tra due estremi parimenti criticabili: quello secondo cui anche il giudice potrebbe rivolgere domande suggestive e quello opposto secondo cui nemmeno il controesaminante sarebbe autorizzato a
formularle.
Il primo indirizzo muove dalla premessa che il divieto di rivolgere domande suggestive nell’esame
diretto abbia carattere eccezionale; e riposi sul rapporto di amicizia, di ‘simpatia’ che sussiste tra il testimone e la parte interrogante. Il giudice non ha nessun rapporto del genere con il testimone e, quindi
– conclude la Cassazione – non essendovi il rischio di precedenti accordi, il divieto di rivolgere domande suggestive non può riguardarlo 20. La conclusione è stata severamente criticata da più parti, a causa
dell’effetto di forte condizionamento che il giudice, per il suo stesso ruolo di soggetto chiamato a decidere, viene ad esercitare sul testimone; il giudice, custode della legalità e della lealtà dell’esame, rischierebbe così di inquinare la prova. Ma, come si sa, adducere inconveniens non est solvere argumentum; e, nel
ragionamento della Cassazione, il passaggio dalle premesse (la ratio del divieto di domande suggestive
sta nel rapporto di ‘simpatia’ tra interrogante e interrogato) alla conclusione (il giudice, in quanto
estraneo ad ogni rapporto empatico col testimone, può rivolgere domande suggestive) si mostra
all’apparenza ineccepibile. Se il divieto di domande suggestive si fonda sulla ‘simpatia’ tra interrogante
e testimone, non v’è ragione per estenderlo al giudice, soggetto per definizione indifferente agli interessi di parte e, quindi, estraneo a rapporti amichevoli come ostili con i testimoni. Dove sta dunque la fallacia?
Evidentemente nelle premesse, dove si registra un’inversione del rapporto tra regola ed eccezione.
La sentenza muove dal presupposto che in via generale siano consentite le domande suggestive e che
siano eccezionalmente escluse in presenza di un rapporto di simpatia con l’interrogato, quale si registra
nell’esame diretto; l’equivoco è senza dubbio favorito dall’impropria formulazione dell’art. 499 c.p.p.
che, riferendo il divieto di domande suggestive allo specifico contesto dell’esame diretto, sembra implicitamente legittimarle in ogni altra sede. Ma, come si diceva, il discorso va capovolto.
Il divieto di domande suggestive regge, in via generale, sull’esigenza di tutelare la genuinità delle risposte; e va applicato ad ogni contesto processuale, a meno che non vi sia una specifica ragione per derogarvi. Pertanto, non è il rapporto di simpatia tra interrogante e teste che, in via di eccezione, giustifica
il divieto di domande suggestive nell’esame diretto; argomento debole perché, se il divieto avesse quella ratio, sarebbe del tutto inadeguato: il rischio di risposte compiacenti nell’esame diretto, più che dalle
domande suggestive, deriva da precedenti accordi tra il teste e la parte che lo produce. Al contrario, è il
rapporto di ostilità tra teste e interrogante che, in via di eccezione, giustifica nel controesame la deroga
19
Nel senso che «l’art. 499 pone una regola generale, che vieta le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte
(comma 2); e una regola particolare, che vieta le domande suggestive, la quale vale solo per l’esame, ma non anche per il
controesame (comma 3)», Cass., sez. III, 3 giugno 1993, Tettamani, in Cass pen., 1995, p. 79.
20
Cass., sez. III, 13 febbraio 2008, n. 13981, in CED Cass., n. 239966; Id., sez. III, 12 dicembre 2007, in Cass. pen., 2009, 1555; Id.,
sez. III, 20 maggio 2008, n. 27068, in CED Cass., n. 240261; Id., sez. III, 28 ottobre 2009, n 9157, in CED Cass., n. 246205.
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al generale divieto di domande suggestive. Il ricorso alle domande suggestive è, infatti, lo strumento
più efficace di cui può legittimamente disporre la parte nel controesame per scardinare o quanto meno
porre in dubbio la credibilità del testimone a lei avverso. Ma altrettanto non può valere nell’esame condotto dal giudice che, proprio per la sua estraneità agli interessi di parte, non deve coltivare alcun rapporto di ostilità col teste; qui non vi è ragione per derogare al generale divieto di domande suggestive.
Opposte, ma egualmente viziate dal mio punto di vista, sono le conclusioni a cui giunge una successiva sentenza della Cassazione. Essa muove dal presupposto che il divieto di domande suggestive sia
espressione di un principio generale, volto ad escludere ogni domanda che in qualche modo possa
compromettere la genuinità delle risposte; e, forte della circostanza che manca una specifica previsione
di ammissibilità per le domande suggestive nel controesame, estende il divieto anche a questa sede 21,
equiparandole in tal modo alle domande nocive. L’equivoco, anch’esso favorito dal tenore dell’art. 499
c.p.p., sta, da un lato, nel ritenere incondizionatamente vietata qualsiasi domanda che possa indurre il
teste; e, dall’altro, nel dimenticare che, seppure espressione di un principio generale, il divieto in parola
non ha ragion d’essere nel contesto del controesame dove è necessario contrapporsi al testimone e dove, proprio attraverso le menzogne indotte da domande suggestive, si possono individuare i falsi testimoni.
Vi è da auspicare che i contrasti giurisprudenziali possano comporsi attraverso una più corretta definizione dei rapporti tra domande nocive e domande suggestive: le prime incondizionatamente vietate,
perché lesive della libertà di autodeterminazione, le seconde anch’esse di regola vietate, ma ammissibili, in via di eccezione, nei contesti caratterizzati da una relazione conflittuale tra parte e testimone, come
il controesame o la sopravvenuta ostilità del teste nell’esame diretto
Ma, se ciò non avvenisse a causa dell’impropria formulazione dell’art. 499 c.p.p., sarebbe opportuno
intervenire sulla disposizione con due sostanziali modifiche: a) definire le domande nocive come quelle
lesive della libertà di autodeterminazione, con la conseguente inutilizzabilità delle eventuali risposte; b)
prevedere, accanto all’inderogabile divieto di domande nocive, il divieto di domande suggestive, formulato in termini generali, così da risultare applicabile anche al giudice, ma accompagnato da
un’espressa deroga per lo svolgimento del controesame o per la sopravvenuta ostilità del teste.
LA VIOLAZIONE DELLE REGOLE SULLE DOMANDE VIETATE
Quali le conseguenze per la violazione delle regole concernenti le domande vietate? La dottrina è in genere propensa a ritenere inutilizzabili le risposte in base all’art. 191 c.p.p. 22. Di parere opposto la giurisprudenza orientata, salvo isolate sentenze 23, ad escludere la sanzione dell’inutilizzabilità o della nullità per la violazione delle regole fissate dagli artt. 498 comma 1 e 499 c.p.p.
A nostro avviso occorre distinguere. In quanto lesive della libertà di autodeterminazione, le domande nocive, se non tempestivamente censurate, determinano la radicale inutilizzabilità delle risposte.
Presupposto indefettibile della prova dichiarativa, come si diceva, è che l’interrogato sia posto in grado
di esprimere consapevolmente il proprio pensiero e, in assenza di questa elementare condizione, le ri-
21
Cass., sez. III, 18 gennaio 2012, in Giust. pen., 1012, III, c. 321 («il divieto di formulare domande suggestive è espressamente
previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a
suggerire al teste risposte utili per la sua difesa. È altresì evidente, però, che detto divieto deve applicarsi comunque a tutti i
soggetti che intervengono nell’esame testimoniale, operando ai sensi del comma 2 dell’art. 499 c.p.p. per tutti il divieto di porre
domande che possono nuocere alla sincerità della risposta e dovendo anche dal giudice o dal suo ausiliario essere assicurata in
ogni caso la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 del medesimo articolo. A maggior ragione tali divieti e precauzioni
devono essere osservati allorché il giudice procede all’esame diretto di un testimone che sia minore, ai sensi dell’art. 498 comma
4 c.p.p.»).
22
M. Colamussi, In tema di domande suggestive, cit., p. 1798; L. Fadalti, La cross-examination nel giudizio penale, in Arch. n. proc.
pen., 2008, p. 260; Frigo, sub art. 499, cit., p. 279; Illuminati, Ammissione e acquisizione, cit., p. 122; G. Gulotta, Le 200 regole della
cross-examination, Milano, 2012, p. 62 s.; A. Mambriani, Esame e controesame delle parti: spunti sistematici, in Arch. n. proc. pen.,
1999, p. 467; F. Spaccasassi, Considerazioni in tema di esame testimoniale, cit., p. 493; D. Manzione, Le nuove ‘regole’ per l’esame
testimoniale, cit., p. 1479; G. Varraso, La violazione del divieto di domande suggestive: il ruolo delle parti ed i poteri del giudice, in Cass.
pen., 2006, p. 2868.
23
Cass., sez. I, 18 marzo 1992, n. 3187; Id., sez. I, 25 febbraio 992, in Giur. it., 1993, II, p. 126.
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sposte devono considerarsi giuridicamente inesistenti, tamquam non essent 24, perché eterodirette.
Più complesso il discorso per quanto attiene alle domande suggestive, che di per sé non risultano lesive della libertà di autodeterminazione; o per lo meno non lo sono in misura tale da ricadere sotto il
divieto dell’art. 188 c.p.p.; anche perché, se vi ricadessero, dovrebbero considerarsi sempre vietate in
qualsiasi contesto processuale. Per intanto va osservato che la ‘suggestione’ prodotta da una domanda
suggestiva è purtroppo ineliminabile, anche se la domanda fosse tempestivamente censurata; il teste
ha, infatti, ormai ricevuto l’informazione che non avrebbe dovuto essergli trasmessa. Ritenere definitivamente preclusa ogni domanda sulle medesime circostanze sarebbe eccessivo, e tornerebbe ingiustamente a danno delle parti che non hanno alcuna responsabilità nella violazione del divieto di cui all’art.
499 c.p.p. Si potrebbe tutt’al più vietare la riformulazione della domanda alla parte che l’abbia indebitamente espressa; ma non si vede quale concreto vantaggio ne deriverebbe, dato che il giudice si troverebbe poi, di fatto, costretto a intervenire con domande sul tema.
Ciò premesso, quid iuris quando il teste abbia risposto ad una domanda suggestiva non tempestivamente censurata? Si può senz’altro escludere la presenza di una nullità non essendo questa testualmente prevista né deducibile dall’art. 178 c.p.p. Quanto alla possibilità di applicare la sanzione dell’inutilizzabilità, tutto dipende dall’interpretazione dell’art. 191 c.p.p. e, in particolare, dell’espressione «acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» che ivi ricorre. Se ‘acquisite’ significa ‘ottenute’,
non v’è dubbio che la risposta, in quanto legata alla domanda da un rapporto di causa-effetto, sia ottenuta in violazione del divieto delle domande suggestive; e, come tale, sia inutilizzabile. Se ‘acquisite’
significa ‘ammesse’, viceversa, la risposta è in sé del tutto ammissibile, non essendovi alcun divieto di
deporre sul tema oggetto della domanda suggestiva.
È probabile che i compilatori del codice – verosimilmente in disaccordo tra loro – abbiano scelto
l’espressione ‘acquisite’ proprio per la riluttanza ad optare per l’una o per l’altra soluzione. Entrambe
presentano, infatti, punti di forza e di debolezza. Dal punto di vista esegetico la prima tesi riduce ad
una tautologia l’art. 191 c.p.p., perché la prova ‘inammissibile’ è di per sé inutilizzabile, senza necessità
che una legge lo ricordi; se la prova non è ammessa dalla legge, il giudice non ha il potere di assumerla
e, se l’assume, è giuridicamente inesistente. La seconda ha l’inconveniente, opposto e simmetrico, di
rendere superflue tutte le specifiche previsioni di nullità e di inutilizzabilità in materia probatoria, perché, così inteso, già l’art. 191 c.p.p. renderebbe inutilizzabile ogni prova ‘ottenuta’ in violazione di un
qualsiasi divieto legislativo; e non avrebbe senso ribadire la sanzione per l’inosservanza di singole disposizioni. D’altro canto, se la prima prospettiva lascia prive di conseguenze processuali tutte le violazioni sulle modalità di assunzione della prova non specificamente previste a pena di nullità o inutilizzabilità, la seconda fulmina con più grave sanzione dell’inutilizzabilità ogni prova alla cui origine si
possa individuare anche la più innocua deviazione dagli schemi legislativi.
Nella difficile scelta tra le due letture dell’art. 191 c.p.p. appare, nel complesso, più coerente con il sistema ritenere che la disposizione alluda a veri e propri divieti probatori, ossia a prove illegittimamente
‘ammesse’. Se è così, la risposta ad una domanda suggestiva sarà acquisita al processo, ma non per
questo la violazione del divieto resterà priva di effetti. Il giudizio sull’ammissibilità di una prova non
va confuso con quello sulla sua attendibilità: la circostanza che sia positivo il primo non esclude che
possa esser negativo il secondo. Il valore probatorio di ogni risposta va definito anche in base al tenore
della domanda; e, nel valutarlo, il giudice terrà conto della suggestione in cui può essere caduto il teste.
IL PREVEDIBILE INDIRIZZO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
A conclusione di queste note, può essere interessante chiedersi quale sarebbe l’indirizzo della Corte europea dei diritti dell’uomo in un ipotetico giudizio in cui il ricorrente denunciasse la violazione delle
24
Cass., sez. I, 14 luglio 2005, in Riv. pen., 2006, p. 1247 ha affermato che «la violazione delle regole per l’esame fissate dagli
artt. 498, comma 1, e 499 c.p.p. non dà luogo alla sanzione di inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., poiché non si tratta di
prove assunte in violazione dei divieti posti dalla legge, bensì di prove assunte con modalità diverse da quelle prescritte. Deve
essere, del pari, esclusa la ricorrenza di nullità, atteso il principio di tassatività vigente in materia, e posto che l’inosservanza
delle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall’art. 178». Conclusione corretta per quanto
riguarda le domande suggestive, ma non altrettanto per le domande nocive, la cui proposizione determina l’inutilizzabilità
dell’eventuale risposta, risolvendosi in una lesione della libertà di autodeterminazione, rilevante ai sensi dell’art. 188 c.p.p.
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regole sul giusto processo per la condanna disposta in base ad una testimonianza assunta con domande
nocive o suggestive. Sicuramente la Corte europea non affermerebbe la radicale inutilizzabilità della testimonianza; si limiterebbe a sindacare la valutazione come prova più o meno ‘determinante’ o ‘decisiva’, che il giudice ha effettuato; e, a seconda dello specifico contesto di riferimento, affermerebbe o negherebbe la violazione delle disposizioni sul giusto processo.
Benché né la Convenzione né la Corte europea accennino alla regola dell’oltre ogni ragionevole
dubbio, è ad essa che in materia probatoria sono funzionali quasi tutte le interpretazioni dei giudici di
Strasburgo, anche se naturalmente i principi formalmente invocati restano quelli contenuti nell’art. 6
della Convenzione. Si pensi alle numerose sentenze in tema di dichiarazioni rese da testi assenti al dibattimento. Secondo la nostra tradizione la prova o è pienamente utilizzabile o è radicalmente inutilizzabile. La Corte europea segue un criterio empirico, più flessibile. Tenendo conto dell’intero svolgimento del processo, distingue. Se la prova era esclusiva o comunque determinante ai fini della condanna,
afferma la violazione del diritto al confronto con i testi d’accusa; altrimenti, la nega, nonostante la prova
abbia esercitato una certa influenza sulla decisione; ma non mancano pronunce nelle quali la Corte ha
negato la violazione delle regole convenzionali, sebbene la prova fosse esclusiva o determinante25.
Questa varietà di soluzioni non dipende da un mutamento di indirizzo della Corte, ma semplicemente dal diverso contesto probatorio. Ciò che guida la Corte come stella polare sul terreno delle prove
è la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Quando ritiene la colpevolezza sufficientemente provata,
nega la violazione del diritto al controesame; altrimenti, la dichiara.
Si spiega così perché alle rigide regole di esclusione probatoria, dalle quali deriva l’inutilizzabilità, la
Corte privilegi i flessibili criteri di valutazione, modellati su concetti fuzzy come quello di prova ‘determinante’ o ‘decisiva’; e, di conseguenza, perché sia così difficile estrarre dalle interpretazioni, che la
Corte europea esprime sui precetti convenzionali, massime generali incondizionatamente valide. Le interpretazioni dei giudici europei vanno lette ancorandole strettamente al contesto del singolo processo,
che costituisce l’oggetto della loro decisione. Slegate da quel contesto, risultano confuse ed incoerenti,
generando equivoci come è accaduto con le sentenze sulle dichiarazioni dei testi non controesaminati in
dibattimento: ciò, che a molti è parso frutto di un revirement giurisprudenziale, dipendeva in realtà solo
dalla diversità del caso sottoposto all’esame della Corte . È anche questa una delle molteplici ragioni
per cui non ha senso ritenere vincolanti le interpretazioni di Strasburgo oltre quanto testualmente affermato nel dispositivo.
25
Sulla vicenda cfr. P. Ferrua, Le dichiarazioni dei testi ‘assenti’: criteri di valutazione e giurisprudenza di Strasburgo, in Dir. pen.
proc., 2013, p. 393 s.; e, in termini critici sul preteso carattere vincolante delle interpretazioni della Corte europea, Id., Giustizia del
processo e giustizia della decisione, in Dir. pen. proc., 2015, p. 1204 s.
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Scenari
Overviews
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NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
NATIONAL LEGISLATIVE NEWS
di Lorenzo Belvini e Carla Pansini
DELEGA AL GOVERNO PER LA RIFORMA ORGANICA DELLA MAGISTRATURA ONORARIA E ALTRE DISPOSIZIONI SUI GIUDICI DI PACE
di Lorenzo Belvini
(Legge 28 aprile 2016, n. 57)
PREDISPOSIZIONE DI UNO STATUTO UNICO PER LA MAGISTRATURA ORDINARIA
La legge n. 57 del 2016 (in Gazz. Uff., 29 aprile 2016, n. 99; entrata in vigore il 14 maggio 2016) è un articolato provvedimento normativo che contiene un’ampia delega (da esercitare entro un anno dalla entrata in vigore) per la riforma della magistratura onoraria (artt. 1, 2 e 3). Contiene, altresì, disposizioni
normative immediatamente precettive, inerenti l’incompatibilità del giudice di pace (art. 4), il coordinamento del giudice di pace (art. 5) e la formazione professionale dei magistrati onorari (art. 7).
L’obiettivo perseguito dal legislatore, quale emerge dalla relazione illustrativa, è quello di introdurre
uno statuto unitario della magistratura onoraria. In particolare, si prevede l’accorpamento dei giudici
onorari del tribunale (introdotti con la legge 19 febbraio 1998, n. 51) e dei giudici di pace in un’unica categoria, i giudici onorari di pace, i quali dovranno essere inseriti tutti nell’ufficio del giudice di pace.
Pertanto, il Governo dovrà individuare una procedura unica e criteri uniformi per l’accesso alla magistratura onoraria (art. 2, comma 3). Sotto quest’ultimo profilo, oltre ad essere richiamati i requisiti di accesso già previsti dalla normativa vigente (art. 5 legge 21 novembre 1991, n. 347, tra cui la cittadinanza italiana, il possesso dei diritti civili e politici, l’assenza di condanne per delitti non colposi o a pene detentive
per contravvenzioni, l’onorabilità, l’idoneità psicofisica, la professionalità) vengono introdotte alcune novità, atteso che è sufficiente il conseguimento della laurea in giurisprudenza (con esclusione della laurea
breve triennale); pertanto non è più richiesto il superamento dell’esame di abilitazione per l’esercizio della
professione forense (tuttavia l’esercizio della professione di avvocato costituisce titolo preferenziale per la
nomina, al pari di coloro che hanno esercitato funzioni giudiziarie a titolo onorario, dei notai e degli insegnati di materie giuridiche presso le università). Vengono, altresì, modificati i limiti di età: infatti, l’accesso è consentito a coloro che hanno compiuto i ventisette anni e non abbiano un’età superiore a sessanta
(mentre l’attuale disciplina normativa prevede un età compresa tra i trenta e i settanta anni).
La legge delega stabilisce, inoltre, una riduzione di autonomia per il giudice di pace, il quale sarà assoggettato al coordinamento del presidente del tribunale, con la conseguente abolizione della figura del
giudice di pace coordinatore.
LE FUNZIONI DELLA MAGISTRATURA ONORARIA
L’art. 2, comma 5, prevede che il presidente del tribunale, secondo le modalità da individuare con i decreti delegati, può assegnare il giudice onorario di pace per l’espletamento di alcune funzioni presso il
Tribunale. Più precisamente, vengono individuate funzioni di ausilio al giudice professionale nella
preparazione degli atti e, su incarico del magistrato ordinario, il giudice onorario di pace potrà adottare
provvedimenti, che saranno individuati in sede di esercizio della delega, in «considerazione della natura degli interessi coinvolti e della semplicità delle questioni che normalmente devono essere risolte».
Inoltre, ai giudici onorari vengono attribuite funzioni suppletive, volte a colmare eventuali carenza di
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organico della magistratura ordinaria, con particolare attenzione ai procedimenti per i quali è stato superato il termine fissato dalla c.d. “legge Pinto” (legge 24 marzo 2001, n. 89); infatti si stabilisce (art. 2.,
comma 5, lett. b)) che il giudice onorario di pace, che abbia svolto i primi due anni di incarico, con
provvedimento del presidente del tribunale, può essere applicato come componente dei collegi giudicanti penali e civili, e che (art. 2, comma 5, lett c)) può essere assegnato alla trattazione dei «procedimenti penali e civili di competenza del tribunale ordinario». Tuttavia, per quanto concerne il settore
penale, il giudice onorario di pace non potrà esercitare le funzioni di g.i.p. e di g.u.p. e non potrà trattare procedimenti diversi da quelli per i quali è prevista (ex art. 550 c.p.p.) la citazione diretta a giudizio.
Per quanto concerne i compiti che possono essere assegnati ai vice procuratori onorari inseriti
all’interno della procura della Repubblica, vengono stabilite sia funzioni ausiliarie (art. 2, comma 6, lett.
b)) del magistrato professionale, sia funzioni di carattere suppletivo (art. 2, comma 6, lett. c)), in relazione a provvedimenti che dovranno essere individuati dal Governo sulla base dei criteri della semplicità
degli atti da compiere, della «non elevata pena edittale massima prevista per il reato per cui si procede»
e in relazione a specifici reati che andranno individuati tenendo conto anche della «modesta offensività» degli stessi.
Si delinea, quindi, un criterio di delega piuttosto ampio e ancorato a parametri poco stringenti; pertanto, in sede di attuazione della delega, il Governo dovrà ponderare attentamente le scelte, evitando di
attribuire ai magistrati onorari funzioni inerenti fattispecie di reato di particolare gravità. Resta precluso al v.p.o. l’adozione della richiesta di archiviazione, la richiesta di patteggiamento e l’esercizio
dell’azione penale.
AMPLIAMENTO DELLA COMPETENZA PER MATERIA
La legge, inoltre, delega il Governo ad ampliare la competenza del giudice di pace in ambito penale e
civile (art. 1 lett. p)). In particolare, per quanto concerne il settore penale, verranno attribuiti al giudice
di pace i procedimenti relativi a specifici reati consumati o tentati, tra cui i delitti di minaccia (art. 612,
commi 1 e 2, c.p.), purché non sussistano ulteriori aggravanti, e di furto punibile su querela (art. 626
c.p.) e delle contravvenzioni previste dagli artt. 651 c.p. (rifiuto di indicazioni sulla propria identità),
727 c.p. (abbandono di animali) e 727-bis c.p. (Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di
esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette). Verranno, inoltre, affidatigli i procedimenti
per le contravvenzioni relative alla produzione e alla vendita di sostanze alimentari e bevande previste
dall’art. 6 della legge 30 aprile 1962, n. 283. La ratio di tale delega è evidentemente quella di deflazionare il carico dei procedimenti dinanzi il Tribunale.
INCOMPATIBILITÀ DEL GIUDICE DI PACE E OBBLIGHI DI FORMAZIONE
L’art. 4 amplia, con una disposizione immediatamente precettiva, le ipotesi di incompatibilità già previste dalla legge n. 347 del 1991 istitutiva del giudice di pace. In particolare l’incompatibilità viene estesa
anche ai membri del Parlamento europeo e del Governo, nonché a coloro ai quali siano stati affidati incarichi direttivi o esecutivi nelle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative; si prevede
inoltre l’incompatibilità con l’esercizio della carica di difensore civico.
Viene, altresì, specificato (art. 4, comma 1, lett. e)) che l’incompatibilità per coloro che svolgono attività «per conto di imprese di assicurazione o bancarie» o esercitate abitualmente dai parenti o affini del
giudice di pace, è limitata al «circondario in cui il giudice di pace esercita le funzioni giudiziarie».
Per quanto concerne invece gli avvocati, l’art. 4, comma 2, estende l’incompatibilità già prevista per
gli associati di studio anche ai membri delle associazioni professionali di avvocati e ai soci delle società
tra professionisti.
Al fine di garantire e migliorare l’aggiornamento professionale dei magistrati onorari, l’art. 7 impone
specifici obblighi di formazione per i giudici di pace, i g.o.t. e i v.p.o., tra cui la partecipazione alle riunioni con cadenza trimestrale organizzate dal presidente del tribunale e ai corsi di formazione organizzati secondo le indicazioni della Scuola superiore della magistratura.
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REGOLAMENTO RECANTE DISPOSIZIONI DI ATTUAZIONE DELLA LEGGE 30 GIUGNO 2009, N. 85, CONCERNENTE L’ISTITUZIONE DELLA BANCA DATI NAZIONALE DEL DNA E DEL LABORATORIO CENTRALE PER LA
BANCA DATI NAZIONALE DEL DNA, AI SENSI DELL’ART. 16 DELLA LEGGE N. 85 DEL 2009
di Carla Pansini
(d.p.r. 7 aprile 2016, n. 87)
REGOLAMENTO SULLA ISTITUZIONE DELLA BANCA DATI NAZIONALE DEL DNA
A undici anni di distanza dalla sottoscrizione, da parte dell’Italia, del c.d. Trattato di Prüm (27 maggio
2005) e dopo sette anni dalla istituzione della banca dati del DNA e del laboratorio centrale per la banca
dati nazionale del DNA (art. 5 legge 30 giugno 2009, n. 85) è stato approvato con decreto del Presidente
della Repubblica il regolamento che ne disciplina le modalità di funzionamento e di organizzazione
(art. 1.1, d.p.r. n. 87 del 2016).
Tale regolamento, inoltre, disciplina lo scambio dei dati sul DNA per finalità di cooperazione transfrontaliera di cui alle decisioni del Consiglio dell’Unione europea n. 2008/615/GAI e n. 2008/616/GAI
del 23 giugno 2008, riguardanti «il potenziamento della cooperazione transfrontaliera soprattutto nell’ambito dei programmi di lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera e per finalità di collaborazione internazionale di polizia», secondo quanto indicato nell’art. 12 legge n. 85 del 2009 (art. 1.2
d.p.r. n. 87 del 2016).
Si è, così, completata quell’operazione normativa che aveva portato a riconoscere giuridicamente –
sulla spinta della indubbia utilità sotto il profilo investigativo, di collaborazione internazionale e di necessario adeguamento ad accordi sovranazionali – la banca dati del D.N.A., ovvero alla realizzazione di
un database nel quale convogliare tracce genetiche di indagati e condannati, che si era già rivelato di indubbia utilità in tutti quei paesi che ne hanno previsto la istituzione, ponendosi peraltro l’Italia agli ultimi posti nella classifica dei paesi membri della U.E. che non vi avevano ancora provveduto.
La Banca dati del DNA è collocata presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero
dell’interno, mentre il Laboratorio centrale presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
del Ministero della giustizia – Direzione generale dei detenuti e del trattamento.
Il Regolamento stabilisce le tecniche e modalità di acquisizione dei campioni biologici, di gestione e
tipizzazione dei profili del DNA, nonché di alimentazione della Banca dati, di trattamento e di accesso
per via informatica e telematica ai dati raccolti nella Banca dati e nel Laboratorio centrale. Per la gestione dei predetti profili la banca dati è dotata di un apposito software organizzato su due livelli: il primo
impiegato ai fini investigativi in ambito nazionale, mentre il secondo è utilizzato anche per le finalità di
collaborazione internazionale di polizia in conformità alle decisioni 615 e 616 (art. 3, commi 3 e 4).
DNA DI PERSONE SCOMPARSE, DI CADAVERI E RESTI CADAVERICI NON IDENTIFICATI
La banca dati in primis faciliterà le attività di identificazione delle persone scomparse, mediante acquisizione di elementi informativi e di oggetti ad uso esclusivo della persona di cui si sono perse le
tracce, allo scopo di ottenere il profilo del DNA e di effettuare i conseguenti confronti (art. 6.1).
Per incrementare il potere identificativo del profilo di DNA di tali persone, potrà essere richiesto ai
consanguinei di sottoporsi volontariamente al prelievo biologico. In questo caso, il soggetto sarà sottoposto ad una procedura di identificazione mediante acquisizione dei suoi dati anagrafici e degli estremi
del documento di riconoscimento, che verranno inseriti nell’AFIS (Automated Fingerprint Identification
System, ovvero sistema automatizzato per l’identificazione delle impronte digitali del casellario centrale
d’identità del Ministero dell’interno), ma saranno consultabili – unitamente al profilo del DNA – solo ai
fini del riconoscimento della persona scomparsa (art. 6.2). Le stesse disposizioni sono applicabili, in
quanto compatibili, anche nel caso di rinvenimento di cadaveri e resti cadaverici non identificati.
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DNA DI SOGGETTI CONVOLTI IN PROCESSI PENALI
Un intero articolo è, poi, dedicato alle modalità di acquisizione del campione biologico dai soggetti di
cui all’art. 9 della legge n. 85 del 2009, ovvero da coloro ai quali siano applicate le misure della custodia
cautelare in carcere o degli arresti domiciliari, dai soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a
fermo di indiziato di delitto, dai detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto
non colposo, da coloro nei cui confronti sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di
sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo e dai soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria
o definitiva, una misura di sicurezza detentiva.
Rispetto alla disciplina processuale che, per il prelievo “coattivo” di materiale biologico, individua tassativamente tre forme – prelievo di capelli, peli o mucosa del cavo orale (art. 224-bis c.p.p.) – il regolamento di cui al d.p.r. n. 87 del 2016 fa esclusivo riferimento a quello di mucosa orale, di cui verranno
prelevati due campioni, per assicurare le operazioni di estrazione del profilo genetico, qualora si verifichi che la tipizzazione del DNA del primo dei due campioni biologici fornisca esito negativo o parziale.
Particolari cautele sono individuate per le operazioni di prelevamento: il personale che effettua il
prelievo dovrà sempre indossare «i dispositivi di protezione individuale», dovrà utilizzare «un tampone orale a secco che viene strofinato sulla parte interna della guancia ovvero sulle gengive per un tempo adeguato»; ogni campione biologico andrà riposto «in un contenitore separato», conservato a temperatura ambiente e inviato al «Laboratorio centrale nel più breve tempo possibile in un unico plico chiuso con sigillo antieffrazione».
CONSULTAZIONE DELLA BANCA DATI
Sono previste disposizioni differenti a seconda che la consultazione della Banca dati sia richiesta in ambito nazionale ovvero avvenga per finalità di cooperazione transfrontaliera.
Sotto il primo profilo, va innanzitutto premesso che gli accessi alla banca dati e le operazioni di trattamento dei dati sono riservati ai soli operatori abilitati e designati incaricati del trattamento dei dati
personali (art. 3.7), che alimentano la banca dati mediante inserimento per via telematica del profilo del
DNA e del relativo numero di riferimento, del codice ente e del codice laboratorio (art. 7.1). A livello
nazionale, la consultazione dei dati da parte del personale in servizio presso i laboratori delle Forze di
Polizia e la banca dati è consentita solo caso per caso, secondo quanto disposto dall’art. 2, lett. k), della
decisione del Consiglio dell’Unione europea n. 2008/616/GAI.
Il Capo III del decreto disciplina la consultazione automatizzata della banca dati per finalità di cooperazione transfrontaliera e regolamenta lo scambio di informazioni e la protezione dei dati personali
trasmessi o ricevuti, attraverso l’individuazione della finalità del trattamento dei dati e la previsione di
verifiche in ordine alla qualità degli stessi e alla liceità del relativo trattamento. Più nello specifico, innanzitutto è individuato il punto di contatto nazionale per lo scambio dati per finalità di collaborazione
internazionale di polizia nel Servizio per la cooperazione internazionale di polizia della Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza. La consultazione dei profili del
DNA contenuti nella banca dati, sia del primo che del secondo livello, è consentita ai punti di contatto
esteri, in possesso delle credenziali di autenticazione ed autorizzazione. Una volta effettuato il raffronto
tra i profili richiesti dall’estero e quelli contenuti nella banca dati italiana, l’esito del raffronto andrà notificato solo se avrà evidenziato una concordanza di un numero di loci espressamente indicato negli
artt. 7 e 8, comma 2, della decisione del Consiglio dell’Unione europea n. 2008/616/GAI ed al Capo I
del relativo allegato e dalla risoluzione del Consiglio dell’Unione europea n. 2009/C 296/01 sullo
scambio dei risultati delle analisi del DNA.
Di contro, la polizia giudiziaria italiana che debba ricercare un profilo del DNA in ambito internazionale formula specifica richiesta al punto di contatto nazionale. Le banche dati estere potranno essere consultate tramite un’applicazione del portale della banca dati, tramite il punto di contatto nazionale, caso per caso ai sensi dell’art. 2, lett. k) della Decisione del Consiglio dell’Unione europea n.
2008/616/GAI, secondo una codifica tecnica stabilita dal responsabile della banca dati in conformità
agli artt. 7, 8, 9, 10 e 11 della decisione del Consiglio dell’Unione europea n. 2008/616/GAI, ovvero in
base ai protocolli e ai canali di comunicazione internazionali (art. 13.1). Anche in questo caso, l’esito del
raffronto sarà notificato solo se questo avrà evidenziato una concordanza di un numero di loci pari o
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superiore a quanto indicato agli artt. 7 e 8, comma 2, della decisione del Consiglio dell’Unione europea
n. 2008/616/GAI ed al Capo I del relativo allegato e dalla risoluzione del Consiglio dell’Unione europea n. 2009/C 296/01 sullo scambio dei risultati delle analisi del DNA (art. 13.3).
I dati personali trasmessi o ricevuti sono trattati unicamente per le finalità di cooperazione internazionale. Sicché, il trattamento dei dati ricevuti dal punto di contatto nazionale in risposta ad una richiesta di consultazione o di raffronto è autorizzato solo allo scopo di: a) accertare la concordanza tra i profili DNA raffrontati; b) predisporre e introdurre una domanda di assistenza giudiziaria in caso di concordanza dei dati; c) effettuare le registrazioni di cui all’art. 17. È, altresì, ammesso per scopi compatibili
con quelli per i quali sono stati trasmessi e previa autorizzazione dello Stato membro che li ha trasmessi, nel rispetto della legislazione nazionale italiana (art. 15).
Inoltre, il punto di contatto nazionale tratterà i dati che gli vengono trasmessi dal punto di contatto
di un altro Stato membro per le stesse finalità di cooperazione internazionale solo se tale trattamento «è
necessario per realizzare un raffronto, rispondere per via automatizzata alle consultazioni o effettuare
le registrazioni di cui all’articolo 17». Difatti, al termine del raffronto o della risposta automatizzata alle
consultazioni, i dati trasmessi saranno immediatamente cancellati
Il decreto disciplina poi le tecniche e modalità di analisi dei campioni biologici e dei profili di DNA
estratti e stabilisce i tempi di conservazione degli uni e degli altri.
Aldilà degli aspetti tecnici – utilizzo di «kit commerciali nell’ambito dei parametri riconosciuti a livello internazionale in termini di resa quantitativa e qualitativa del DNA estratto» (art. 19); preparazione del campione con sistemi robotizzati (art. 20); quantificazione del DNA (art. 21); amplificazione del
DNA (art. 22); lettura ed interpretazione del profilo di DNA (art. 23) – è il secondo punto che lascia
maggiormente perplessi.
In linea generale, la cancellazione dei profili del DNA e la distruzione dei campioni biologici è prevista nei seguenti casi: a seguito di assoluzione con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato; a seguito di identificazione di
cadavere o di resti cadaverici, e del ritrovamento di persona scomparsa; quando le operazioni di prelievo sono state compiute in violazione delle disposizioni previste dall’art. 9 legge 85 del 2009 in tema di
prelievo di campione biologico e tipizzazione del profilo del DNA; decorsi i termini stabiliti dall’art. 25
del Regolamento sui tempi di conservazione dei profili del DNA (art. 13 legge n. 85 del 2009).
Sempre in linea generale, il DNA estratto dai campioni biologici deve essere distrutto subito dopo la
sua completa tipizzazione e delle operazioni di distruzione deve essere redatto verbale da parte del personale del laboratorio operante. Inoltre, la parte del campione biologico non utilizzata ed il secondo campione di riserva sono conservati per un periodo di otto anni (art. 24). Nel caso di persone scomparse o di
ritrovamento di cadavere si procederà, invece, previa autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, alla cancellazione del profilo del DNA abbinato al codice reperto biologico del cadavere, dei resti cadaverici, della
persona scomparsa e dei consanguinei e alla distruzione dei campioni biologici dei consanguinei non appena si sia proceduto alla identificazione del cadavere o al ritrovamento della persona scomparsa (art. 30).
Viceversa, i profili del DNA ottenuti dai soggetti di cui all’art. 9 della legge n. 85 del 2009 sono conservati per trenta anni dalla data dell’ultima registrazione di cui all’art. 5, comma 1. Tempi molto lunghi, che si allungano ulteriormente quando il profilo del DNA si riferisce a persone condannate con
sentenza irrevocabile per uno o più dei reati per i quali la legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza, o per taluno dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. In questa ipotesi, il periodo di
conservazione è, difatti, elevato a quaranta anni dalla data dell’ultima registrazione di cui all’art. 5. Lo
stesso termine quarantennale è, poi, previsto qualora il profilo del DNA sia ottenuto da un soggetto di
cui all’art. 9 legge n. 85 del 2009 nei cui confronti, in sede di emissione di sentenza di condanna irrevocabile, sia stata ritenuta la recidiva.
Nonostante il parere favorevole del Garante per la protezione dei dati personali, lascia perplessi la
previsione di tempi di conservazione dei dati “sensibili” forse un po’ troppo lunghi, sufficienti a mediare la necessità di garantire il rispetto per la privacy con l’utilità dei campioni conservati di generare informazioni scientificamente utili, ma che rischiano di creare degli enormi e perpetui schedari.
Del resto, le potenzialità insite nell’utilizzo di un database genetico per scopi giudiziari sono innumerevoli: dalla maggior efficienza e rapidità delle indagini, alla tempestività della azione repressiva fino
all’ottenimento di un risparmio delle risorse umane e conseguentemente anche di quelle economiche
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impiegate. Tutto ciò, però, non può che aprire interrogativi etici e giuridici circa il corretto bilanciamento fra sicurezza e diritti individuali, come peraltro sembra suggerire la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che in più occasioni ha vietato agli Stati di “custodire” i dati sensibili dei
propri cittadini ove non vi fossero ragioni effettive di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica. Peraltro,
nulla è detto in ordine alla cancellazione dei profili genetici dei soggetti prosciolti con formule meno liberatorie, rispetto ai quali il termine trentennale di mantenimento dei dati appare assolutamente eccessivo.
In linea generale, poi, se questa regolamentazione si inserisce nella logica di ampliare il pannel delle
prove disciplinate, dovrà necessariamente essere accompagnata da una più rigorosa valutazione delle
modalità acquisitive, escludendo l’utilizzabilità di acquisizioni fatte in difformità con la legge e limitando la estensione del concetto di “prova atipica” come costruito dalla giurisprudenza.
In ultimo, il regolamento approvato di recente individua le attribuzioni dei responsabili della Banca
dati e del Laboratorio centrale e le attività del Comitato Nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie
e le scienze della vita, al fine di garantire che siano osservati i criteri e le norme tecniche per il funzionamento del Laboratorio centrale e dei laboratori che lo alimentano.
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Pietro Zoerle
I DUE NUOVI TRATTATI DI ASSISTENZA GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE E DI ESTRADIZIONE TRA
ITALIA E PANAMA
Con la legge 4 aprile 2016, n. 55 (in Gazz. uff., 28 aprile 2016, n. 98) è stata autorizzata la ratifica di due
Trattati in materia di assistenza giudiziaria e di estradizione, sottoscritti a Panama, il 25 novembre 2013,
dal Governo italiano e da quello della Repubblica di Panama. Entrambi i Trattati entreranno in vigore il
trentesimo giorno dalla seconda delle due notifiche con cui le Parti contraenti si saranno comunicato,
attraverso i canali diplomatici, l’avvenuto espletamento delle procedure interne di ratifica (per il Trattato di assistenza, art. 26; per quello di estradizione, art. 24). Per quanto riguarda la Repubblica panamense, è stata pubblicata la notizia che il Consiglio dei Ministri (El Consejo de Gabinete) ha autorizzato il Ministero degli Affari Esteri (Ministerio de Relaciones Exteriores) a presentare all’Assemblea Nazionale dei
Deputati (Asamblea Nacional de Diputados) il disegno di legge per l’autorizzazione alla ratifica (www.mire.
gob.pa, 1° marzo 2016).
I Trattati in questione colmano una lacuna nei rapporti bilaterali tra l’Italia e lo Stato centroamericano conseguente alla denuncia del precedente Trattato di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia
penale (Panama, 1930) da parte del Governo della Repubblica panamense il 16 maggio 1988 (in Gazz.
uff., 26 gennaio 1989, n. 21).
Nell’ambito dei Trattati multilaterali, si segnala che entrambi gli Stati hanno ratificato la Convenzione
sul trasferimento delle persone condannate (Strasburgo, 1983) e la Convenzione sulla criminalità informatica
(Budapest, 2001), nonché le convenzioni ONU in materia di crimine organizzato transnazionale (v. United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the Protocols Thereto, New York, 2000),
di traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope (v. United Nations Convention against Illicit Traffic
in Narcotic Drugs and Psychotropic Substances, Vienna, 1988) e di terrorismo (cfr. www.un.org/en/terrorism/
instruments.shtml).
Non si può non rilevare l’importanza del rafforzamento delle relazioni tra l’Italia e Panama, considerato lo scandalo c.d. Panama Papers: più in generale, la stessa relazione al d.d.l. 26 agosto 2014, n. 1600
(in Atti parlamentari, Senato della Repubblica, XVII Legislatura, n. 1600, p. 3) accenna al fatto che «l’adozione di norme che disciplinino e regolamentino in modo preciso ed accurato il settore dell’assistenza
giudiziaria penale è stata imposta dall’attuale realtà sociale, caratterizzata da sempre più frequenti ed
estesi rapporti tra i due Stati in qualsiasi settore (economico, finanziario, commerciale, flussi migratori,
ecc.)».
Peraltro, nelle relazioni tra i due Stati non sono mancate vicende di rilievo: ci si riferisce al caso Robert Seldon Lady, agente della CIA implicato nell’affair Abu Omar, condannato in via definitiva a nove
anni di reclusione e arrestato a Panama nel 2013, ma trasferito negli Stati Uniti ancor prima che il Ministero della Giustizia potesse avanzare la richiesta di estradizione, e al caso di Gianni Guido, condannato
a trent’anni per la strage del Circeo, che, invece, si concluse positivamente con l’estradizione nel 1994.
A) IL TRATTATO DI ASSISTENZA GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE
Il Trattato di assistenza giudiziaria in materia penale si compone di ventisei articoli ed è stato redatto in lingua italiana e spagnola: entrambi i testi fanno ugualmente fede. L’Accordo impegna le Parti contraenti
alla più ampia assistenza giudiziaria in materia penale (art. 1, § 1) ed è «in linea con il programma del
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Governo di rafforzamento della cooperazione giudiziaria penale per il contrasto al crimine internazionale» (Analisi tecnico normativa, Atti parlamentari, Senato della Repubblica, XVII Legislatura, n. 1600, p. 14).
L’assistenza giudiziaria che i due Stati si impegnano a fornirsi reciprocamente (art. 1, § 2) riguarda la
ricerca e l’identificazione di persone; la notifica degli atti e dei documenti relativi a procedimenti penali; la citazione di testimoni, persone offese, indagati o imputati e periti per la comparizione volontaria
dinanzi all’Autorità competente dello Stato richiedente; l’acquisizione e la trasmissione di atti, documenti e elementi di prova; l’espletamento e la trasmissione di perizie; l’assunzione di testimonianze e
altre dichiarazioni; l’assunzione di interrogatori; il trasferimento di persone detenute al fine di acquisire
la loro testimonianza o di essere interrogati, o per partecipare ad altri atti processuali; l’esecuzione di
ispezioni e l’esame di luoghi o di cose; l’esecuzione di indagini, perquisizioni, sequestri congelamenti e
confische di beni; la comunicazione dell’esito dei procedimenti penali, la trasmissione di sentenze penali e di informazioni estratte dagli archivi giudiziari; lo scambio di informazioni in materia di diritto. Infine gli Stati si impegnano a fornire qualsiasi altra forma di assistenza che non contrasti con le leggi dello Stato richiesto (art. 1, § 2).
Restano esclusi dall’ambito del presente Trattato l’esecuzione di ordini di arresto o di altre misure
limitative della libertà personale, l’estradizione (oggetto del Trattato di estradizione di cui infra B),
l’esecuzione delle sentenze penali, il trasferimento delle persone condannate ai fini dell’esecuzione della pena (per il quale v. la Convenzione sul trasferimento delle persone condannate del 1983) e il trasferimento
dei procedimenti penali (art. 1, § 3).
In base all’art. 2, l’assistenza giudiziaria può essere concessa anche qualora il fatto per il quale si
procede non sia riconosciuto come reato da entrambe le Parti contraenti. Resta, però, condizionata al
principio di doppia incriminabilità la cooperazione in materia di perquisizioni, sequestri, confisca di
beni e altri atti che, per la loro natura, incidono su diritti fondamentali delle persone o risultano invasivi
di luoghi o cose.
La richiesta di assistenza può essere rifiutata o accettata parzialmente (art. 3, § 1), qualora abbia ad
oggetto un reato politico, sempre che non si tratti (è la c.d. clausola d’attentato o clausola belga: v. Pisani, Delitto politico, estradizione, diritto d’asilo, Dir. intern., 1970, p. 225) – di omicidio o altro tipo di reato
contro la vita, l’integrità fisica o la libertà di un Capo di Stato, di Governo o di un loro familiare (lett. ii).
Parimenti, non possono essere considerati come politici atti di terrorismo o qualsiasi altro reato che
venga espressamente definito come “non politico” da altri trattati, convenzioni o accordi internazionali
di cui entrambi gli Stati sono Parti (lett. iii). A titolo esemplificativo, si ricorda l’art. 11 della Convenzione
internazionale per la repressione degli attentati terroristici con esplosivo (New York, 1997) – ratificata sia
dall’Italia (2003) sia da Panama (1999) – ai sensi del quale, ai fini dell’estradizione o dell’assistenza giudiziaria tra gli Stati parte, nessuno dei reati elencati nell’art. 2 della Convenzione può essere considerato come «politico, […] connesso a un reato politico o […] ispirato da moventi politici».
L’assistenza può essere negata anche nel caso in cui l’illecito penale sia punito nello Stato richiedente
con una pena vietata nello Stato richiesto (lett. c). In proposito, va sottolineato che la Costituzione panamense vieta la pena di morte, l’esilio e la confisca dei beni (art. 30, Constitución Política de la República
de Panamá). La legislazione penale non prevede l’ergastolo, in quanto la pena de prisión può avere una
durata massima di trent’anni e, nel caso di concurso de delitos, non può essere comunque superiore ai
cinquant’anni (art. 52, commi 2 e 3, Texto Único del Código Penal de la República de Panamá, in www.
ministeriopublico.gob.pa).
Rappresentano un motivo di rifiuto: la circostanza che la persona richiesta possa essere oggetto di
trattamento discriminatorio o persecutorio (per motivi di sesso, religione, opinioni politiche, razza)
(lett. d); il verificarsi di un’ipotesi di bis in idem processuale (lett. e); la richiesta contraria alla legislazione nazionale, alle disposizioni del Trattato (lett. a) ovvero potenzialmente idonea a compromettere la
sovranità, la sicurezza, l’ordine pubblico o gli interessi essenziali dello Stato richiesto (lett. f).
Il rifiuto deve essere sempre motivato (art. 3, § 4) e, prima del diniego, le autorità competenti delle
Parti devono valutare in concerto tra loro se sia possibile individuare delle condizioni attraverso le quali comunque prestare assistenza (art. 3, § 3). Se la domanda di assistenza interferisse con un procedimento in corso nel Paese richiesto è possibile rinviarne l’esecuzione (art. 3, § 2).
Le Autorità competenti per l’applicazione del Trattato sono il Ministero della Giustizia per l’Italia e
il Ministerio de Gobierno per la Repubblica di Panama (art. 4).
La richiesta – dal contenuto dettagliatamente disciplinato nell’art. 5, § 2 – deve essere proposta per
iscritto, debitamente autenticata con firma e timbro dell’Autorità competente (art. 5, § 1) e può essere
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inviata attraverso «mezzi di comunicazione rapida», salvo comunque l’inoltro formale nei successivi
sessanta giorni (art. 5, § 6). Devono essere inviate copie sia della richiesta sia dei documenti allegati,
tradotte nella lingua del Paese richiesto (art. 5, § 5) il quale, ritenendo non esaustivo il contenuto della
domanda, può esigere ulteriori informazioni (art. 5, § 4).
Ai fini esecutivi vige la lex loci (art. 6, § 1), salva la possibilità di seguire le modalità di attuazione indicate dallo Stato richiedente, sempre che non siano in contrasto con la legislazione interna (art. 6, § 2).
Analogamente a quanto previsto dalla Convezione europea di assistenza giudiziaria (cfr. art. 4), al compimento degli atti oggetto della domanda di cooperazione possono partecipare le persone indicate nella
richiesta e autorizzate dallo Stato richiesto. Tali soggetti possono – tramite le autorità competenti dello
Stato richiesto – «rivolgere domande in relazione alle attività di assistenza, acquisire direttamente, nel
corso dell’assunzione della prova, documentazione attinente alla prova stessa o chiedere l’esecuzione
di altri atti istruttori comunque collegati a dette attività» (art. 6, § 3). A tal fine è necessario che sia data
comunicazione della data e del luogo dell’esecuzione della richiesta.
Degli esiti della richiesta è necessario che venga trasmessa tempestiva informazione e, qualora non
sia stato possibile fornire l’assistenza, è necessario comunicarne i motivi (art. 6, § 4).
È sempre possibile che la persona nei cui confronti debba essere eseguita la richiesta invochi «immunità, diritti o incapacità»: si tratta di questioni che dovranno essere risolte dalle autorità competenti
dello Stato richiesto secondo la propria legge nazionale (art. 6, § 5).
Seguono disposizioni particolari per quanto riguarda la ricerca di persone (art. 7); le citazioni e le notifiche di documenti (art. 8); l’assunzione probatoria nello Stato richiesto (art. 9) e nello Stato richiedente
(art. 10); il trasferimento temporaneo di persone detenute (art. 12); la protezione delle vittime, dei testimoni e altri partecipanti al processo penale (art. 13); la comparizione mediante videoconferenza (art.
14); la produzione di documenti (artt. 15 e 16); perquisizioni, sequestri e confische (art. 17).
A sensi dell’art. 11 le persone che vengono citate e si trasferiscono nello Stato richiedente – al fine di
rendere interrogatorio, testimonianza o altre dichiarazioni – non possono essere indagate, arrestate,
perseguite, giudicate in relazione a reati commessi precedentemente l’ingresso nel Paese. Tale garanzia
viene meno una volta che il soggetto sia stato avvisato che la sua presenza nel territorio del Paese richiedente non è più necessaria (art. 11, § 2, lett. a).
Di particolare interesse è l’art. 18, ai sensi del quale le Parti si impegnano a fornire informazioni circa
la titolarità da parte di una persona fisica o giuridica di conti correnti presso istituti bancari ovvero istituti finanziari aventi sedi nel territorio nazionale. Devono, inoltre, essere fornite informazioni che consentano l’identificazione dei soggetti abilitati a operare sui conti correnti, la loro localizzazione e le movimentazioni a questi riferibili (art. 18, § 1). A tali richieste non può essere opposto il segreto bancario.
La disposizione non può passare inosservata nei rapporti di cooperazione con uno Stato – la Repubblica
di Panama – che occupa la tredicesima posizione nel Financial Secrecy Index (www.taxjustice.net, 2015) e
che è stato recentemente definito dal segretario generale dell’OCSE «the last major holdout that continues
to allow funds to be hidden offshore from tax and law enforcement authorities» (www.oecd.org, 4 aprile 2016).
Resta da valutare, però, quale sia l’effettiva portata pratica del divieto di opposizione del segreto bancario, visto che nel sistema finanziario panamense «non si è in grado di sapere chi esattamente detiene
il dato sensibile, né se esso effettivamente esiste» (Petese, I tax havens nelle Americhe, in Carbone-BoscoPetese (a cura di), La geografia dei paradisi fiscali, ed. II, Milano, 2015, p. 292). In proposito, va comunque
segnalato che con riferimento alle cc.dd. bearer shares (azioni al portatore), è stato introdotto un regime
di custodia dei certificati mediante il quale il Ministerio Público e l’Órgano Judicial possono risalire al
proprietario del titolo «para investigar actos relacionados con el blanqueo de capitales, el financiamiento de actividades terroristas o cualquiera actividad ilícita de acuerdo con las leyes de la República de Panamá» (art. 2, n.
4, legge 6 agosto 2013, n. 47, in Gaceta official, 6 agosto 2013, n. 27346-C, www.gacetaoficial.gob.pa).
L’art. 19 del Trattato prevede particolari modalità tramite le quali possono essere prestate anche altre forme di assistenza (squadre investigative comuni, attività di consegna controllata, ausilio a operazione sotto copertura, collaborazioni tra le forze dell’ordine in attività di pedinamento, osservazione,
controllo di persone). In questi casi, tuttavia, vige il principio di doppia incriminazione (art. 19, § 3, lett.
a). Il Trattato, inoltre, non pregiudica i diritti e gli obblighi assunti dalle Parti con altri accordi internazionali (art. 19, § 1).
È previsto anche lo scambio di informazioni sui procedimenti penali (art. 20) e sulla legislazione (art.
21).
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Tutti gli atti e i documenti forniti a norma del Trattato non necessitano di ulteriori validazioni o certificazioni ai fini probatori (art. 22).
Le Parti si impegnano a mantenere la segretezza sulle richieste ricevute o trasmesse, nonché sulle relative informazioni e documentazioni (art. 23).
Le spese relative all’esecuzione delle richieste sono a carico dello Stato richiesto, con esclusione di
alcune voci, quali, a titolo esemplificativo, le spese di viaggio, di soggiorno, di traduzione, per gli impianti di videoconferenza, per gli onorari dei periti (art. 24; per una valutazione forfettaria cfr. Relazione
tecnica, in Atti parlamentari, Senato della Repubblica, XVII Legislatura, n. 1600, p. 12 ss.).
Eventuali controversie sull’interpretazione e l’applicazione del Trattato saranno risolte tra le Autorità centrali dei due Paesi e, in seconda istanza, mediante «consultazione per via diplomatica» (art. 26).
B) IL TRATTATO DI ESTRADIZIONE
Il Trattato di estradizione si compone di ventiquattro articoli. Anch’esso è stato redatto in lingua italiana e
spagnola ed entrambe le versioni fanno ugualmente fede.
Secondo la Relazione tecnica (in Atti parlamentari, Senato della Repubblica, XVII Legislatura, n. 1600, p.
12) nelle strutture penitenziarie panamensi si trovano nove cittadini italiani e si reputa, in via prudenziale, che nel futuro almeno dieci connazionali possano trovarsi nelle condizioni previste dall’accordo
per ottenere l’estradizione.
L’Italia e Panama si impegnano alla reciproca consegna delle persone che si trovano sul proprio territorio, al fine di sottoporre l’estradato a procedimento penale ovvero dare corso a una condanna definitiva (art. 1).
Nel primo caso – estradizione processuale – è necessario che il reato oggetto di imputazione sia punibile in entrambi i Paesi con una pena detentiva superiore a un anno (art. 2, § 1, lett. a), mentre nel secondo caso – estradizione esecutiva – la pena ancora da espiare al momento dell’inoltro della domanda
deve essere di almeno sei mesi.
Vige il principio di doppia incriminazione che si considera soddisfatto anche qualora il fatto rientri
in categorie diverse di reato nelle legislazioni dei due Paesi, ovvero se viene definito con differente terminologia (art. 2, § 2).
L’estradizione può essere concessa anche per fatti commessi all’estero, sempre che nello Stato richiesto sia prevista la possibilità di perseguire «un reato della stessa natura commesso fuori dal territorio
nazionale» (art. 2, § 3).
Se la richiesta riguarda più fattispecie criminose è necessario che tutte rispettino il principio della
c.d. doppia incriminazione, ma è sufficiente che solo una soddisfi i limiti di pena precedentemente riferiti (art. 2, § 4).
Ai sensi dell’art. 3 l’estradizione non deve essere concessa qualora la domanda abbia per oggetto:
reati politici (con esclusione degli atti di terrorismo o qualsiasi altro reato che venga espressamente definito come “non politico” da altri trattati, convenzioni o accordi internazionali) (lett. a); reati punibili
con una pena vietata nello Stato richiesto (lett. c); reati militari (lett. g). La richiesta deve essere rifiutata
anche qualora la persona: possa essere oggetto nel paese richiedente di un trattamento discriminatorio
o persecutorio (per motivi di razza, sesso, religione, condizione sociale, nazionalità o opinioni politiche)
(lett. b); possa subire un procedimento che non assicuri il rispetto dei diritti minimi di difesa, un trattamento crudele inumano o degradante, o altre azioni che violino i suoi diritti fondamentali, specificando
che non costituisce violazione dei diritti fondamentali la celebrazione del procedimento in contumacia
(lett. d). Non può, inoltre, essere concessa l’estradizione quando la persona richiesta sia già stata definitivamente giudicata nel Paese richiesto (lett. e), ovvero qualora sia intervenuta una causa di estinzione
del reato o della pena (lett. f) o sia stato concesso l’asilo politico. Infine, rappresentano motivi di rifiuto
obbligatorio particolari ragioni di interesse nazionale (sovranità, ordine pubblico) (lett. i).
Costituiscono, invece, motivo di rifiuto facoltativo all’estradizione (art. 4) il fatto che lo Stato richiesto rivendichi la giurisdizione sul reato oggetto della domanda oppure sia pendente un procedimento
penale «riferibile al medesimo illecito penale» (Relazione, in Atti parlamentari, Senato della Repubblica,
XVII Legislatura, n. 1600, p. 7).
È prerogativa di ciascuna delle Parti rifiutare l’estradizione del proprio cittadino (art. 5, § 1). Lo Stato
richiesto deve – nel caso di rifiuto dell’estradizione e a domanda dello Stato richiedente – instaurare un
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procedimento penale secondo la legge interna e per il quale lo Stato di origine dell’imputato si impegna
a fornire le prove, i documenti e ogni altro elemento utile in suo possesso (art. 5, § 2). Ciò in conformità
alla massima groziana aut dedere aut punire.
Come per il Trattato di cooperazione, viene designato il Ministero della Giustizia come autorità centrale per l’Italia, mentre per Panama è il Ministerio de Relaciones. Gli stessi sono competenti alla trasmissione delle richieste e «comunicano direttamente tra loro» (art. 6).
L’art. 7 contiene una dettagliata disciplina con riguardo al contenuto della richiesta, che deve essere
sempre fornita per iscritto e contenere, nel caso di estradizione processuale, copia del mandato d’arresto, nel caso di estradizione esecutiva, copia della sentenza con l’indicazione della pena già eseguita.
Lo Stato richiesto può anche esigere informazioni aggiuntive (art. 8, § 1), qualora il contenuto della domanda trasmesso ai sensi dell’art. 7 non sia sufficiente per acconsentire alla consegna: il mancato inoltro delle informazioni supplementari entro quarantacinque giorni determina la rinuncia alla richiesta,
salva la possibilità di rinnovazione (art. 8, § 2).
Delle decisioni deve essere sempre dato avviso «prontamente» e, in ipotesi di rifiuto, è necessaria la
notifica dei motivi (art. 9, §§ 1 e 2).
Nei casi di particolare urgenza la domanda di estradizione può essere anticipata da una richiesta di
arresto provvisorio (art. 12) che, una volta effettuato, verrà mantenuto a condizione della presentazione
formale della richiesta di estradizione nei successivi sessanta giorni (art. 12, § 4).
Secondo il principio di specialità, la persona consegnata non potrà essere sottoposta a un procedimento penale, né giudicata, né detenuta, per un reato diverso da quello per cui è stata richiesta l’estradizione (art. 10, § 1). È possibile derogare al principio qualora la persona estradata, dopo aver lasciato il
territorio dello Stato, vi abbia fatto volontariamente ritorno (lett. a), non abbia lasciato lo Stato richiedente entro quarantacinque giorni da quando ha avuto la possibilità di farlo (lett. b) ovvero lo Stato richiesto vi acconsenta (lett. c). In quest’ultimo caso, lo Stato richiedente può sottoporre a misure limitative della libertà personale l’estradato in attesa dell’autorizzazione e con il consenso del Paese richiesto
(lett. ii).
Lo Stato richiedente può adottare tutte le misure necessarie, secondo la propria legislazione, per interrompere il decorso dei termini di prescrizione (art. 10, § 2).
Viene prevista l’eventualità di una modifica dell’imputazione durante il procedimento: la persona
estradata può essere perseguita e giudicata solo se per il reato, così come diversamente qualificato, sia
comunque consentita l’estradizione ai sensi delle disposizioni del Trattato (art. 10, § 3).
Una volta estradato, il soggetto non può essere consegnato a uno Stato terzo senza il consenso dello
Stato richiesto. La regola soffre due eccezioni: se la persona estradata abbia fatto volontariamente ritorno nello Stato richiedente oppure se non lo abbia lasciato quando ha avuto la possibilità di farlo (art.
11).
Nel caso di una pluralità di richieste di estradizione provenienti da più Stati per la stessa persona, il
Paese richiesto deve valutare che domanda accogliere considerando: se le richieste siano presentate a
norma di un trattato; la gravità, il tempo e il luogo dei reati; la nazionalità e il luogo di residenza abituale della persona; la data di presentazione delle diverse domande; la possibile consegna da parte del
Paese richiedente a uno Stato terzo (art. 13).
L’art. 14 prevede una dettagliata disciplina circa la consegna e, in particolare, riguardo al termine
per la consegna che è di quarantacinque giorni dalla data in cui lo Stato richiedente è informato
dell’estradizione (art. 14, § 2). È possibile il rinvio della consegna, qualora nel Paese richiesto sia in corso un procedimento penale (art. 15, § 1) ovvero per motivi di salute dell’estradando (art. 15, § 3), ed anche una consegna temporanea, al fine di consentire la celebrazione del processo nel Paese richiedente
(art. 15, § 2).
Il consenso dell’estradando – prestato con l’ausilio di un difensore (art. 16, § 2) – permette il ricorso
alla procedura di estradizione semplificata (art. 16).
Alla concessione dell’estradizione si accompagna anche la consegna di cose pertinenti al reato o che
comunque possono servire come mezzi di prova, nonché di quelle che «provenendo dal reato, sono state trovate nelle disponibilità della persona richiesta o sono rinvenute successivamente» (art. 17, § 1). Tali beni vengono consegnati allo Stato richiedente anche se non è possibile procedere all’estradizione per
morte, scomparsa o fuga del soggetto richiesto. Se lo Stato – o un terzo soggetto – avanza dei diritti sui
beni di cui ha autorizzato la consegna, gli stessi devono essere riconsegnati una volta concluso il procedimento (art. 17, § 4).
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Un’ulteriore procedura è prevista nel caso di transito sul territorio di uno degli Stati di un soggetto
estradato da un Paese terzo: è necessario ottenere l’autorizzazione – nei casi d’urgenza con l’intervento
dell’INTERPOL – a meno che il trasferimento non avvenga per via aerea senza previsione di scalo (art.
18).
Le disposizioni finali riguardano la ripartizione delle spese (art. 19); lo scambio di informazioni successive all’estradizione (art. 20); l’autorizzazione per gli Stati a cooperare secondo altri trattati di cui sono Parti (art. 21); l’impegno al segreto sulla documentazione e sulle informazioni (art. 22); la risoluzione
di eventuali controversie sull’applicazione o l’interpretazione dell’accordo (art. 23); l’entrata in vigore,
la procedura di modifica o di cessazione del Trattato (art. 24).
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DE JURE CONDENDO
di Nicola Triggiani
RIMBORSO (O DETRAZIONE FISCALE) DELLE SPESE SOSTENUTE PER LA DIFESA DALL’IMPUTATO PROSCIOLTO
È all’esame della Commissione Giustizia del Senato il d.d.l. S. 2153, a firma dei sen. Albertini e altri, recante «Modifiche all’articolo 530 del codice di procedura penale, in materia di rimborso delle spese di giudizio».
Nella seduta della Commissione del 3 marzo 2016, il d.d.l. era stato abbinato – insieme a molti altri
d.d.l. – al d.d.l. S. 2067, già approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 23 settembre 2015 e
recante «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e
la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena»;
nella successiva seduta del 31 marzo 2016, il d.d.l. in oggetto è stato, invece, stralciato insieme ad altre
proposte di legge, sul presupposto che i citati disegni di legge disciplinino materie non specificamente
trattate dal d.d.l. n. 2067 ovvero riguardino modifiche di tipo generale e sistemico del codice penale o
del codice di procedura penale, pertanto non sussumibili nell’esame del predetto testo approvato dalla
Camera dei Deputati.
Il d.d.l. S. 2153 è teso ad introdurre nell’art. 530 c.p.p. un comma 2-bis, così formulato: “Se il fatto
non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla
legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese
di giudizio, che sono contestualmente liquidate. Se ricorrono giusti motivi il giudice può compensare,
parzialmente o per intero, le spese tra le parti. Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico
ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso
magistrato che ha esercitato l’azione penale”.
Nella Relazione di accompagnamento si osserva che il d.d.l. introduce nel codice di procedura penale
“un principio di equità e di giustizia reale e concreta”, posto che “molte volte i cittadini sono costretti a
subire quella che viene definita una ‘cattiva giustizia’”, con pesanti ripercussioni anche sulle loro condizioni morali, familiari ed economiche, sicché sembra rispondere ad un principio di “civiltà giuridica”
sollevarli dalle spese di giudizio sopportate in caso di palese innocenza.
La questione affrontata nel d.d.l. in esame non è certamente nuova ed è particolarmente seria: una
coerente applicazione del “principio di soccombenza” porterebbe in effetti – specularmente all’obbligo,
a carico del condannato, di rifondere le spese anticipate dall’erario – a un obbligo dello Stato di rifondere le spese sostenute, a causa del procedimento penale, dalla persona nei cui confronti sia pronunciata
una decisione liberatoria dall’accusa (almeno nel caso in cui venisse riconosciuta una vera e propria infondatezza della medesima attraverso una pronuncia con formula “di merito”). Viceversa, ciò non è
previsto, sicché l’attività difensiva, in qualunque atto essa si estrinsechi, ha un costo che ricade sempre
sull’imputato: l’unica eccezione, com’è noto, è rappresentata dal patrocinio a spese dello stato per i non
abbienti, peraltro con le pesanti limitazioni derivanti dai limiti di reddito previsti dalla normativa vigente per l’accesso a tale istituto (v. artt. 74 ss. d.p.r. 30 maggio 2012, n. 115 e successive modificazioni).
Al di là di questa evenienza, neppure il riconoscimento della piena innocenza comporta, dunque, la rifusione delle spese all’imputato prosciolto (con la particolare deroga prevista dall’art. 18 d.l. 25 marzo
1997, n. 67, conv. con modif. in legge 23 maggio 1997, n. 135, secondo cui le spese legali relative a giudizi per responsabilità penale – oltre che civile e amministrativa – promossi nei confronti di dipendenti di
amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con
l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza, nei limiti riconosciuti congrui
dall’Avvocatura dello Stato).
Non è superfluo ricordare che la questione della mancata previsione di meccanismi compensativi in
favore dell’imputato assolto è stata in passato rimessa alla Corte costituzionale, facendo leva sull’assunto secondo cui l’art. 111, comma 2, Cost., per il quale “ogni processo si svolge in condizioni di parità”,
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esige che, simmetricamente a quanto avviene per il processo civile, retto dal principio della soccombenza, nel processo penale l’imputato abbia diritto alla condanna dello Stato al rimborso delle spese sostenute per la propria difesa: la Corte ha, però, dichiarato la questione manifestamente inammissibile (C.
cost., ord. 27 luglio 2001, n. 318). In precedenza, la Corte di cassazione aveva dichiarato manifestamente
infondata l’eccezione d’incostituzionalità della mancata previsione del rimborso delle spese sostenute
dall’imputato prosciolto sollevata con riferimento all’art. 24 Cost.: la predetta norma, ha sottolineato la
Corte, garantisce a tutti la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ma assicura soltanto ai non abbienti – in coerenza con i princìpi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. – i mezzi per agire
e difendersi davanti ad ogni giurisdizione (Cass., sez. III, 25 marzo, 1991, Drexi). La conclusione della
Suprema corte è stata nel senso che, in materia di spese processuali penali, a differenza del processo civile, nei rapporti tra Stato e imputato non vige il principio della soccombenza: “le norme del c.p.p.
escludono che lo Stato possa essere chiamato a rifondere le spese sopportate dall’imputato prosciolto,
benché l’assistenza tecnica sia obbligatoria e non gratuita (salva l’ammissione al patrocinio per i non
abbienti)”.
È verosimile ritenere che ben difficilmente il d.d.l. S. 2153 potrà diventare legge, se non altro per ragioni di bilancio. Del resto, neppure nella giurisprudenza della Cedu sono state sollevate obiezioni di
principio al rifiuto dello Stato di rimborsare all’imputato assolto le spese sostenute per la sua difesa nel
procedimento penale: talvolta, anzi, la Cedu ha affermato che né l’art. 6 § 2 (presunzione di innocenza),
né altre previsioni della Convenzione garantiscono ad una persona assolta dalle accuse che le erano state mosse il diritto di farsi rimborsare le spese sostenute (v., per tutte, Corte e.d.u., dec. 29 settembre
1995, Masson e Von Zon c. Paesi Bassi).
Sarebbe, però, auspicabile quantomeno il riconoscimento della detrazione fiscale degli oneri che, suo
malgrado, l’imputato prosciolto ha dovuto affrontare. A questo tende il d.d.l. S. 2259, d’iniziativa dei
sen. Buccarella e altri, assegnato alla Commissione Giustizia del Senato il 2 maggio 2016 e recante “Disposizioni in materia di detrazione delle spese di giudizio”. Tale d.d.l., che riprende analoghe proposte presentate in precedenti legislature, consta di un unico articolo e prevede che l’imputato assolto con sentenza definitiva – perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non
costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato – abbia facoltà di portare in detrazione nella
dichiarazione dei redditi una somma di denaro, fino ad un massimo di euro 5.000, relativa alle spese
legali sostenute per la difesa nel procedimento penale in questione (art. 1, comma 1, d.d.l.).
La detrazione – che deve essere giustificata con fattura emessa dal difensore con espressa indicazione della causale e dell’avvenuto pagamento (art. 1, comma 3, d.d.l.) – è ripartita in due quote annuali di
pari importo, nell’anno successivo all’assoluzione definitiva e in quello seguente (art. 1, comma 2,
d.d.l.). Il comma 4 del d.d.l. in esame puntualizza che la possibilità di detrazione non si applica nel caso
di estinzione del reato per intervenuta amnistia o prescrizione ovvero per intervenuta depenalizzazione
della condotta.
Vale la pena segnalare che – come ricordato nella Relazione di accompagnamento al d.d.l. – in sede di
esame della legge di stabilità 2016 è stato accolto come raccomandazione, in Commissione Bilancio,
l’ordine del giorno G/2111B/35/5, mediante il quale il Senato impegnava il Governo a valutare, alla
stregua di quanto previsto per la negoziazione assistita ai sensi del capo II del d.l. 12 settembre 2014, n.
132, conv. con modif. dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, l’adozione delle più opportune iniziative
finalizzate a prevedere che l’imputato, assolto con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge
come reato, possa portare in detrazione, nella dichiarazione dei redditi successiva all’anno di riferimento, una somma di denaro relativa alle spese legali sostenute per la difesa nel procedimento penale, fino
ad un massimo da stabilire con legge.
***
PROTEZIONE DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA
Il 17 marzo 2016 è stato assegnato alla Commissione Giustizia del Senato il d.d.l. S. 2176, d’iniziativa dei
sen. Gaetti e altri, recante «Nuove norme per la protezione dei testimoni di giustizia».
Il disegno di legge – articolato in IV capi e 24 articoli – si propone di offrire una disciplina organica e
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completa della figura del testimone di giustizia, attualmente disciplinata soltanto da due norme inserite
nel d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. con mod. nella legge 15 marzo 1991, n. 82, dalla legge 13 febbraio
2001, n. 45 (artt. 16-bis e 16-ter), rivelatesi nella pratica assolutamente insufficienti e inadeguate a governare il fenomeno.
Il capo I (artt. 1-2) – intitolato “Condizioni di applicabilità delle speciali misure di protezione per i
testimoni di giustizia” – individua l’ambito di applicazione della normativa (art. 1 d.d.l.) e provvede a
dare una puntuale definizione del testimone di giustizia (art. 2 d.d.l.), attualmente spesso confuso, anche nella percezione collettiva, con il collaboratore di giustizia. È testimone di giustizia chi: a) rende,
nell’ambito di un procedimento penale, dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca, rilevanti per le
indagini o per il giudizio anche indipendentemente dal loro esito; b) assume rispetto al fatto delittuoso
oggetto delle proprie dichiarazioni, la qualità di persona offesa dal reato ovvero di persona informata
sui fatti o di testimone; c) è terzo rispetto ai fatti dichiarati e, comunque, non ha riportato condanne per
i delitti connessi a quello per cui si procede e non ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’essere
venuto in relazione con il contesto delittuoso su cui rende le dichiarazioni; d) non è stato sottoposto a
misura di prevenzione né è sottoposto a procedimento di applicazione; e) si trova in una situazione di
grave, concreto e attuale pericolo, rispetto alla quale risulti l’assoluta inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza, valutata tenendo conto di
ogni utile elemento e in particolare della rilevanza e qualità delle dichiarazioni rese, della natura del
reato, dello stato e del grado del procedimento, delle caratteristiche di reazione dei singoli e dei gruppi
criminali oggetto delle dichiarazioni. A norma dell’art. 20 d.d.l. – collocato nel capo IV, contenente le
“Disposizioni finali e transitorie” – è da considerare testimone di giustizia anche chi, alla data di entrata
in vigore della nuova regolamentazione che si propone di introdurre, è sottoposto al programma o alle
misure speciali di protezione ai sensi del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. con modif. dalla legge 15 marzo 1991, n. 82.
Ai testimoni di giustizia, con il loro consenso, sono applicate le “Speciali misure di protezione” previste dal capo II del d.d.l. (artt. 3-8), ma tali misure possono essere applicate anche a chi risulti esposto a
grave, attuale e concreto pericolo a causa del rapporto di stabile convivenza o delle relazioni intrattenute con tali soggetti.
La tipologia delle misure di protezione applicabili è alquanto variegata (art. 3 d.d.l.), comprendendo
misure di tutela (art. 5 d.d.l.), di assistenza economica (art. 6 d.d.l.) e di reinserimento sociale e lavorativo (art. 7 d.d.l.), tra le quali, di volta in volta, individuare quelle adeguate al caso specifico, secondo la
situazione di pericolo e la condizione personale, familiare, sociale ed economica dei protetti: le misure
non possono comportare alcuna perdita né la compressione dei diritti goduti, se non per situazioni
temporanee ed eccezionali dettate dalla necessità di salvaguardare l’incolumità personale. La filosofia
di fondo – si legge nella Relazione illustrativa del d.d.l. – è di “attuare correttamente il rapporto Statotestimone riconducendolo fermamente al di fuori dello schema di un contratto sinallagmatico e modulandolo, invece, come un atto unilaterale di riconoscimento di debito del primo verso il secondo”. In tale ottica, le misure dell’allontanamento dalla località di origine e della mimetizzazione anagrafica –
conducendo allo sradicamento e all’isolamento del testimone – devono essere considerate l’extrema ratio, da adottare, quindi, quando le altre forme di tutela risultino assolutamente inadeguate rispetto alla
gravità e attualità del pericolo, e devono comunque tendere a riprodurre le precedenti condizioni di vita. In ogni caso, al testimone di giustizia deve essere garantita un’esistenza dignitosa (art. 4 d.d.l.) ed è
prevista una rigida scansione temporale per la verifica periodica delle misure tutorie ed economiche
applicate, tendenzialmente rivolta alla graduale attenuazione del sistema protettivo, al fine di restituire
una reale autonomia ai soggetti protetti, ma nel completo e totale rispetto della loro sicurezza (art. 8
d.d.l.).
Il capo III del d.d.l. disciplina dettagliatamente il procedimento di applicazione, modifica, proroga e
revoca delle speciali misure di protezione per i testimoni di giustizia (artt. 9-16), distinguendo il programma preliminare (art. 11 d.d.l.) dal programma definitivo (art. 12 d.d.l.), con la possibilità anche di
applicare “misure urgenti” tutte le volte in cui ricorrano situazioni di particolare gravità e urgenza che
non consentono di attendere la deliberazione della commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione e fino a quando tale deliberazione non intervenga (art. 16
d.d.l.).
Attualmente sono circa 80 i testimoni di giustizia in tutto il territorio nazionale. Considerata l’esperienza fin qui vissuta da molti di essi, i quali hanno denunciato spesso di sentirsi “abbandonati” da parSCENARI | DE JURE CONDENDO
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te dello Stato, merita sicuramente apprezzamento l’introduzione della figura del “referente del testimone di giustizia” (art. 14 d.d.l.), individuato tra persone di comprovata fiducia esercenti le professioni
legali: come si legge nella Relazione di accompagnamento, tale soggetto “diventa lo strumento di dialogo
tra l’apparato amministrativo e il testimone, con funzione di collaborazione nei confronti di entrambi
per il migliore svolgimento del programma di protezione”. Il referente dovrà rendere partecipe e consapevole l’interessato dell’iter del procedimento e fornirgli, se presta il suo consenso, sistematica assistenza per tutte le vicende (personali e patrimoniali) connesse con il sistema di protezione: la scelta della misura adeguata; la pronta e puntuale individuazione e quantificazione del patrimonio, attivo e passivo, al momento della collaborazione; l’idonea gestione dei beni aziendali del testimone che si trovi in
località protetta; il riavvio dell’impresa del testimone rimasto in località di origine; le altre situazioni
creditorie e debitorie connesse alla collaborazione; l’esercizio di diritti patrimoniali conseguiti in ragione della collaborazione; la risoluzione dei vari problemi inerenti all’esercizio di diritti e libertà; la predisposizione e la realizzazione di un consono progetto di risocializzazione; il sostegno psicologico, qualora necessario.
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 15 d.d.l., secondo cui gli interessati, in qualunque momento, anche nel corso del programma preliminare di protezione, possono chiedere alla commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione o al servizio centrale di protezione di poter esser ascoltati: l’audizione deve essere fissata entro 15 giorni.
Nell’ambito del già ricordato capo IV del d.d.l. (artt. 17-24), meritano di essere poi segnalati: l’art. 17
d.d.l., che dispone l’abrogazione degli artt. 16-bis e 16-ter d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. con mod. nella
legge 15 marzo 1991, n. 82; l’art. 18 d.d.l., che prevede la modifica dell’art. 392, comma 1, lett. d), c.p.p.,
allo scopo di consentire che anche l’assunzione della testimonianza del testimone di giustizia – come
già disposto per quella dei collaboratori di giustizia – possa essere assunta nelle forme dell’incidente
probatorio; nonché l’art. 21 d.d.l., che consente l’accesso al cambio delle generalità per quanti, pur non
rientranti nello status di testimone di giustizia, si trovino in una condizione di grave, concreto ed attuale
pericolo a causa della volontà di recidere il legame derivante da rapporti (di parentela, di affinità, di
coniugio o di convivenza) con indagati, imputati o condannati per gravi delitti, ovvero a causa dell’intercorrenza di tali rapporti con persone vittime di gravi delitti. Apprezzabile è anche il disposto dell’art.
22 d.d.l., che prevede l’istituzione del sito internet del Ministero dell’interno per i testimoni di giustizia,
contenente tutte le informazioni, in forma chiara e semplice, sull’applicazione dei programmi di protezione, sui relativi diritti e doveri, sulle modalità e sui luoghi di denuncia, sulle associazioni di volontariato, presenti in ciascun territorio, che svolgono attività di sostegno: ciò al fine di dare un concreto aiuto al soggetto che intende denunciare o è chiamato a rendere dichiarazioni avanti all’autorità giudiziaria e non sa come orientarsi in un momento così difficile e delicato.
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Antonio Balsamo
LA CORTE DI GIUSTIZIA ESCLUDE LA DETENZIONE PER L’INGRESSO IRREGOLARE DI MIGRANTI IN TRANSITO PRIMA DELLA CONCLUSIONE DELLA PROCEDURA DI RIMPATRIO
(C. giust. UE, 7 giugno 2016, causa C-47/15, Sélina Affum c. Préfet du Pas-de-Calais e Procureur général de la
cour d’appel de Douai)
Alcuni importanti chiarimenti sui limiti dell’intervento penale rispetto al fenomeno migratorio sono
stati compiuti dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del 7
giugno 2016, che ha deciso sulla domanda di pronuncia pregiudiziale sollevata dalla Corte di cassazione francese in relazione al procedimento riguardante una donna di nazionalità ghanese, la quale veniva
sottoposta a controllo dagli agenti della polizia francese nel punto di ingresso al tunnel sotto la Manica,
mentre si trovava a bordo di un autobus proveniente dal Belgio e diretto nel Regno Unito. La donna,
avendo esibito un passaporto belga recante la fotografia e il nome di una terza persona ed essendo
sprovvista di qualsiasi altro documento d’identità o di viaggio a suo nome, veniva sottoposta a fermo
di polizia per ingresso irregolare nel territorio francese, sulla base dell’articolo L. 621-2, 2°, del “Codice
sull’ingresso e sul soggiorno degli stranieri e sul diritto d’asilo” (c.d. “Ceseda”), che prevede un reato
punibile con una pena detentiva di un anno e con un’ammenda di € 3.750. Veniva quindi instaurato un
procedimento avente ad oggetto la regolarità del fermo di polizia e del susseguente trattenimento amministrativo.
Nel corso di tale procedimento, la Corte di cassazione francese ha sottoposto alla Corte di Giustizia
una serie di questioni pregiudiziali riguardanti la direttiva 2008/115/CE, del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al
rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (c.d. “direttiva rimpatri”).
La Corte di Giustizia ha anzitutto adottato una interpretazione estensiva dell’ambito di applicazione
della “direttiva rimpatri”. Precisamente, ha stabilito che l’art. 2, § 1, e l’art. 3, punto 2, della direttiva
devono essere interpretati nel senso che un cittadino di un paese terzo soggiorna in modo irregolare nel
territorio di uno Stato membro, ricadendo, pertanto, nell’ambito di applicazione della direttiva, quando, senza soddisfare le condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza, transita in tale Stato membro
in quanto passeggero di un autobus, proveniente da un altro Stato membro, appartenente allo spazio
Schengen, e diretto in un terzo Stato membro al di fuori dello spazio Schengen.
Sul punto, si è osservato che il soggiorno irregolare di un cittadino di un paese terzo si configura per
il solo fatto che egli sia presente sul territorio di uno Stato membro senza ivi soddisfare le condizioni
d’ingresso, di soggiorno o di residenza, senza che siano necessarie una durata minima della sua permanenza o l’intenzione di restare in tale territorio. Il carattere soltanto temporaneo o transitorio di una
siffatta presenza non è compreso tra i motivi per i quali gli Stati membri possono decidere di sottrarre
all’ambito di applicazione della “direttiva rimpatri” un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia
irregolare.
Oltre ad enucleare la suddetta delimitazione del margine di intervento degli Stati membri, la sentenza in esame si segnala perché compie un passo avanti rispetto alle precedenti pronunce del 28 aprile
2011, El Dridi, e del 6 dicembre 2011, Achughbabian, le quali, dopo avere affermato il principio secondo
cui la “direttiva rimpatri” non vieta che il diritto di uno Stato membro qualifichi il soggiorno irregolare
come reato, soggetto a sanzioni penali, hanno escluso che gli Stati membri possano applicare una normativa penale tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva, privanSCENARI | CORTI EUROPEE
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dola del suo effetto utile, ed hanno quindi affermato che gli Stati membri non possono applicare una
pena detentiva allo straniero nel corso della procedura di rimpatrio, in luogo delle misure coercitive finalizzate all’allontanamento coattivo, né prevedere una pena detentiva in conseguenza della mera violazione dell’ordine di lasciare il territorio dello Stato, emesso durante la procedura di rimpatrio.
Con la sentenza Affum, la Corte di Giustizia ha altresì riconosciuto la incompatibilità con la “direttiva rimpatri” della normativa penale interna che consenta, in conseguenza del mero ingresso irregolare
suscettibile di determinare un soggiorno irregolare, la reclusione di un cittadino di un paese terzo, nei
confronti del quale non sia stata ancora conclusa la procedura di rimpatrio.
Al riguardo, la Corte di Lussemburgo ha evidenziato che, nel contesto della “direttiva rimpatri”, le
nozioni di “soggiorno irregolare” e di “ingresso irregolare” sono strettamente connesse, dal momento
che il primo costituisce una delle circostanze di fatto che possono determinare il secondo. Ne consegue
che un cittadino di un paese terzo il quale abbia fatto irregolare ingresso nel territorio di uno Stato membro e debba conseguentemente considerarsi in situazione di irregolare soggiorno, dev’essere assoggettato
alle regole e alle procedure comuni previste dalla “direttiva rimpatri” al fine del suo allontanamento. Egli,
pertanto, deve essere oggetto di una procedura di rimpatrio, la successione delle cui fasi corrisponde ad
una gradazione delle misure da adottare ai fini dell’esecuzione della relativa decisione, e che consente,
per quanto riguarda l’eventuale privazione della libertà, tutt’al più il trattenimento in un apposito centro,
disciplinato in modo rigoroso allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali.
Sulla base di tali premesse, si è concluso che gli Stati membri non possono consentire, in conseguenza del mero ingresso irregolare che determini un soggiorno irregolare, la reclusione dei cittadini di paesi terzi, nei confronti dei quali la procedura di rimpatrio non sia stata ancora conclusa, in quanto la reclusione risulta idonea a ostacolare l’applicazione della medesima procedura e a ritardare il rimpatrio,
pregiudicando quindi l’effetto utile della “direttiva rimpatri”.
L’ESTENSIONE DEGLI OBBLIGHI PROCEDURALI DI TUTELA DI DIRITTI FONDAMENTALI NELLE ULTIME PRONUNCE DELLA CORTE DI STRASBURGO
(Corte e.d.u., 12 aprile 2016, ric. n. 64602/12, R.B. c. Ungheria; 22 marzo 2016, Elena Cojocaru c. Romania; 15
marzo 2016, M.G.C. c. m Romania)
Alcune significative pronunce emesse negli ultimi mesi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo rendono evidente la progressiva estensione del contenuto degli obblighi positivi di tutela penale di una serie di diritti fondamentali.
Com’è noto, si tratta di un tema che la Corte di Strasburgo ha sviluppato sin dagli anni ’70, esplicitando che da disposizioni come gli artt. 2, 3, 4 e 8 della Cedu, discendono a carico degli Stati, e dei loro
organi, non solo obblighi negativi di astensione dalle attività che abbiano come effetto diretto la violazione di diritti fondamentali quali la vita, l’integrità psico-fisica, la libertà individuale, la libertà sessuale, ma anche obblighi positivi di attivarsi per impedire la lesione di tali diritti da parte di terzi e per assicurare la scoperta e un’adeguata repressione della lesione già verificatasi.
Con riferimento ai diritti dell’uomo di maggiore rilevanza, una elaborazione tanto importante quanto originale della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è costituita dal riconoscimento dell’esistenza
di obblighi procedurali, la cui violazione può essere del tutto autonoma rispetto a quella degli obblighi
sostanziali. Si tratta essenzialmente di obblighi gravanti sulle autorità giurisdizionali e sulle autorità inquirenti e investigative, che devono garantire l’effettiva punizione dei comportamenti lesivi, attraverso
la corretta interpretazione e applicazione delle previsioni incriminatrici, lo svolgimento di indagini ufficiali, efficaci e imparziali, l’identificazione dei responsabili ed il corretto esercizio dell’azione penale. Il
leading case in questa materia è rappresentato dalla pronuncia del 22 settembre 1995, McCann e altri c.
Regno Unito.
Di notevole interesse, per verificare la crescente incidenza della affermazione dei predetti obblighi
procedurali, sono alcune pronunce emesse tra il marzo e l’aprile 2016 dalla Corte di Strasburgo.
In particolare, la sentenza adottata il 12 aprile 2016 nel caso R.B. c. Ungheria, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Cedu in relazione al mancato svolgimento di una indagine adeguata su una denuncia concernente abusi a sfondo razziale, presentata da una donna di origine rom che era stata sottoposta
a insulti razzisti e minacce da parte dei partecipanti ad una marcia anti-rom.
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Al riguardo, la Corte di Strasburgo ha precisato che la nozione di “vita privata”, ai sensi dell’art. 8
della Cedu, abbraccia molteplici aspetti della identità fisica e sociale della persona, compresa l’identità
etnica. Ha soggiunto che, quando una persona afferma in modo credibile di essere stata sottoposta a
molestie motivate dal razzismo, comprensive di aggressioni verbali e minacce fisiche, il crescente standard richiesto nell’ambito della protezione dei diritti umani comporta un maggior rigore nel valutare le
violazioni dei valori fondamentali delle società democratiche. Inoltre, nelle situazioni in cui vi è prova
di comportamenti violenti e intolleranti contro minoranze etniche, le obbligazioni positive gravanti sugli Stati richiedono un più elevato standard di reazione a simili condotte.
Applicando i suesposti principi al caso di specie, si è ritenuto che il modo in cui il diritto penale è
stato applicato sia stato inefficace, e che non sia stata svolta un’indagine adeguata sulla denuncia per
abusi a sfondo razziale. Si è quindi riscontrata una violazione dell’art. 8 della Cedu.
La valorizzazione degli obblighi procedurali di tutela dei diritti fondamentali sta alla base anche della sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo il 22 marzo 2016 nel caso Elena Cojocaru c. Romania,
che ha dichiarato l’esistenza di una violazione dell’art. 2 della Cedu, che tutela il diritto alla vita, in relazione alle modalità di conduzione delle indagini sul decesso di una gestante e del nascituro, e alla durata del procedimento penale, protrattosi per circa dieci anni e conclusosi con la prescrizione del reato.
In proposito, si è esplicitato che l’art. 2 richiede che, in caso di decesso d’una persona soggetta alle cure
di un esercente la professione medica, venga instaurata un’inchiesta giudiziale effettiva ed indipendente, finalizzata ad accertare le cause dell’evento e le eventuali responsabilità. Benché in caso di lesione
colposa del diritto alla della vita il ricorso alla sanzione penale non sia obbligatorio – giacché gli obblighi scaturenti dall’art. 2 possono essere soddisfatti anche attraverso strumenti risarcitori e disciplinari –
occorre, tuttavia, che l’autorità adempia in maniera adeguata agli obblighi che le sono imposti.
Una speciale rilevanza assumono anche i principi affermati dalla sentenza pronunciata il 15 marzo
2016 nel caso M.G.C. c. Romania, che ha ritenuto violati l’art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Cedu nel caso di una giovane rumena, la quale era stata vittima di abusi sessuali tra l’agosto 2008 e il febbraio 2009, all’età di 11 anni, da
parte del vicino di casa di due ragazze presso le quali andava spesso a giocare. Solo nel marzo 2009 la
ricorrente aveva parlato alla madre delle violenze subite, affermando di non averlo fatto prima per vergogna e per le minacce ricevute dall’autore del reato. A causa dell’abuso sessuale la ragazza era rimasta
incinta e con l’approvazione dei suoi genitori aveva deciso di abortire. Il 10 marzo 2009 i genitori della
giovane avevano presentato una denuncia contro l’imputato, il quale nell’interrogatorio aveva attribuito alla ragazza atteggiamenti provocatori che lo avrebbero indotto ad abusare di lei. In data 11 marzo
2009, una relazione medico-legale aveva rilevato la mancanza di tracce di violenza sul corpo della giovane. Il 7 luglio 2009, su richiesta della polizia, era stato effettuato un esame psichiatrico della giovane,
il quale evidenziava un disturbo da stress post-traumatico e riconosceva l’incapacità di intendere della
ricorrente, a causa della sua giovane età. Il processo a carico dell’imputato si era poi concluso, in primo
grado, con una condanna a tre anni di reclusione per rapporto sessuale con minore, con assenza di violenza. La Corte di Appello, in seguito, aveva condannato l’imputato alla pena di quattro anni di reclusione per stupro, concedendogli le circostanze attenuanti per effetto del suo buon comportamento sotto
processuale. La Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso della vittima che richiedeva l’irrogazione
di una pena più grave.
Nel suo ricorso alla Corte di Strasburgo, la vittima ha sostenuto che la legge e la prassi rumena non
le hanno fornito una protezione efficace contro il reato di stupro e gli abusi sessuali subiti. In particolare, ha lamentato il fatto che, per l’assenza di tracce di violenza sul suo corpo, è stato impossibile per lei
dimostrare la sua mancanza di consenso, e che i giudici hanno basato le loro decisioni esclusivamente
sulle dichiarazioni dell’imputato, ignorando elementi essenziali, tra cui l’esame psichiatrico della stessa
ricorrente.
Il ricorso è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha precisato che gli obblighi
positivi imposti agli Stati dagli artt. 3 e 8 della Cedu richiedono la punizione e l’effettivo esercizio
dell’azione penale nei confronti di ogni atto sessuale non consensuale, compresi quelli avvenuti in assenza di resistenza fisica da parte della vittima.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha osservato che, secondo la giurisprudenza addotta dalle
parti, i giudici rumeni hanno ritenuto che il consenso della persona minore coinvolta in rapporti sessuali debba essere valutato caso per caso. Tuttavia, il problema risiede negli strumenti di prova del consen-
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so e nella difficoltà di adottare un approccio sensibile alle esigenze del minore nella valutazione dei fatti. In particolare, in un numero significativo di casi, il consenso della vittima è stato dedotto da reazioni
specifiche delle persone minorenni al trauma, quali ad esempio il fatto che le vittime non abbiano riferito l’accaduto ai loro genitori o non abbiano invocato alcun aiuto. In meno della metà dei casi i giudici si
sono basati su esami psichiatrici o psicologici delle vittime, al fine di verificare l’esistenza della loro capacità di dare un valido consenso agli atti sessuali. In pochissimi casi i tribunali hanno considerato che
le vittime non potessero esprimere un consenso valido a causa della loro giovane età. Non può dunque
concludersi che sia stata sviluppato un orientamento applicativo coerente da parte della giurisprudenza
interna per tracciare una chiara differenziazione tra i casi di stupro e quelli di relazione sessuale con
minori.
La Corte ha altresì ritenuto che, pur essendo talvolta difficile provare la mancanza del consenso in
assenza di prove "dirette" di stupro, come, ad esempio, in mancanza di tracce di violenza o di testimoni
diretti, le autorità debbano tuttavia esplorare tutti i fatti e decidere sulla base di una valutazione approfondita di tutte le circostanze. Nella carenza di una siffatta valutazione, conseguente al ridotto peso attribuito alla particolare vulnerabilità della persona minore e agli speciali fattori psicologici coinvolti nei
casi riguardanti simili condotte, la Corte ha riconosciuto che l’approccio adottato dai giudici nazionali
non ha presentato i requisiti insiti nell’obbligo positivo dello Stato di assicurare l’applicazione effettiva
di un sistema penale che punisca tutte le forme di abuso sessuale e di stupro nei confronti dei minori.
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CORTE COSTITUZIONALE
di Francesca Delvecchio
IL REGIME DI UTILIZZABILITÀ DEGLI ATTI NEL PROCEDIMENTO CAUTELARE
(C. cost., ord. 13 aprile 2016, n. 87)
La Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità dell’art.
291 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, comma 2, e 111, comma 2, Cost. dal Tribunale ordinario di Grosseto, nella parte in cui tale disposizione, come interpretata dalla Corte di Cassazione, «consente al pubblico ministero di presentare a fondamento della richiesta cautelare elementi diversi da
quelli utilizzabili dal giudice che procede secondo le disposizioni regolative del procedimento o della
fase del procedimento penale di cognizione in corso di svolgimento, e comunque nella parte in cui consente al giudice dibattimentale di utilizzare in funzione decisoria sulla richiesta cautelare elementi diversi da quelli legittimamente acquisiti nel dibattimento».
Il giudice a quo muove dalla critica nei confronti di un principio «solidamente accreditato» dalla giurisprudenza di legittimità, in forza del quale gli elementi utilizzabili dal giudice ai fini della decisione in
materia cautelare, indipendentemente dalla fase o dal grado in cui versa il procedimento principale di
cognizione, siano solo quelli risultanti dagli atti delle indagini preliminari del P.M. (Cass., sez. II, 13
gennaio 2009, n. 1179; Cass., sez. II, 5 marzo 2001, n. 9395), salvo che gli atti di indagine abbiano già
condotto alla formazione in contraddittorio della prova con essi individuata, nel qual caso l’elemento
utilizzabile nel giudizio cautelare sarebbe quello assurto alla dignità di prova (Cass., sez. I, 21 marzo
2012, n. 10923).
Dopo aver evidenziato le «fallacie induttive» di una simile ricostruzione, il Tribunale toscano ne svela l’incerta tenuta costituzionale.
Innanzitutto, l’orientamento in discussione si pone in contrasto con i principi di imparzialità del
giudice e del contraddittorio processuale, sanciti dall’art. 111, comma 2, Cost., poiché il giudice del dibattimento si troverebbe ad operare una pregnante valutazione di merito sullo stesso oggetto sostanziale del processo, basandosi su atti inutilizzabili nella fase dibattimentale in corso, la cui conoscibilità altererebbe in maniera inevitabile il suo «stato psicologico», condizionandone il convincimento e, per
l’effetto, falsando il contraddittorio in giudizio.
L’interpretazione avversata violerebbe, poi, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, ex art.
27, comma 2, Cost., non potendosi ritenere coerente con quest’ultima la possibilità che il giudice del dibattimento anticipi il giudizio di responsabilità, anziché sulla base degli elementi cognitivi da lui stesso
acquisiti nel contraddittorio tra le parti, sulla base di atti assunti da organi inquirenti in altra fase del
procedimento.
Infine, risulterebbero violati anche il principio di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza dei
trattamenti giuridici, stabiliti dall’art. 3 Cost., stante «l’ingiustificata disparità di trattamento dell’ipotesi
considerata rispetto a fattispecie analoghe, nelle quali in forza di disposizioni di legge (quale l’art. 34,
comma 2-bis, c.p.p.) o di pronunce della Corte costituzionale (quali le sentenze n. 131 del 1996, n. 439
del 1993 e n. 399 del 1992) trova applicazione l’istituto dell’incompatibilità del giudice».
Alla serrata critica nei confronti dell’orientamento in auge, fa seguito l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 291 c.p.p. propugnata dal giudice a quo, stante la quale «gli elementi che il
pubblico ministero presenta a fondamento della richiesta cautelare rivolta al giudice che procede sono
soltanto quelli fisiologicamente utilizzabili ai fini della formazione del convincimento di tale giudice secondo le disposizioni di legge regolative del giudizio di cognizione che forma oggetto del procedimento o della fase del procedimento in corso di svolgimento; e che, di conseguenza, gli atti e gli elementi di
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prova utilizzabili dal giudice del dibattimento in funzione decisoria sulla richiesta suddetta sono solo
quelli legittimamente già acquisiti nel corso della istruzione dibattimentale da lui condotta» (Trib.
Grosseto, ord. 12 gennaio 2015, n. 58).
La questione, invero “sensibile”, non viene però esaminata nel merito: la Consulta rileva, infatti, come il giudizio incidentale di legittimità costituzionale sia stato, nella specie, utilizzato all’improprio
scopo di ottenere, dalla stessa Corte, un avallo dell’interpretazione ritenuta costituzionalmente adeguata, nella prospettiva di preservare l’emanando provvedimento da censure in sede di gravame. Ma, per
costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, un simile uso dell’incidente di costituzionalità rende la questione manifestamente inammissibile (ord. n. 161 del 2015, n. 205 del 2014 e n. 363 del
2010). E ciò – osserva la Corte – anche a prescindere dal rilievo che la soluzione prospettata dal giudice
a quo conduca a risultati palesemente disfunzionali, rendendo, di fatto, quasi sempre impossibile, o fortemente problematica, non solo l’applicazione delle misure cautelari, ma anche, di riflesso, la loro revoca o sostituzione a vantaggio dell’imputato, nella fase che precede l’inizio dell’istruzione dibattimentale.
***
NE BIS IN IDEM E MARKET ABUSE: DALLA CONSULTA UN MONITO PER IL LEGISLATORE
(C. cost., sent. 12 maggio 2016, n. 102)
La Corte costituzionale si confronta per la prima volta con l’onda d’urto prodotta dalla sentenza della
Corte e.d.u. Grande Stevens c. Italia, intervenendo sulla vexata quaestio della compatibilità tra doppi binari sanzionatori e il principio fondamentale del ne bis in idem.
Le questioni cui si riferisce la pronuncia sono quelle prospettate rispettivamente dalla quinta sezione
penale e dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, aventi ad oggetto entrambe la vigente disciplina sanzionatoria prevista dal t.u.f. (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) in materia di abusi di mercato.
Nello specifico, la Consulta viene investita delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187bis, comma 1, e 187-ter, comma 1, d.lgs. 58/1998 e dell’art. 649 c.p.p., ritenuti in contrasto con l’art. 117,
comma 1, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Per il Giudice delle leggi, però, nessuna delle tre eccezioni può dichiararsi ammissibile.
Innanzitutto, inammissibile è la questione formulata in via principale, in riferimento all’art. 187-bis,
comma 1, t.u.f. nella parte in cui la disposizione impugnata prevede «salve le sanzioni penali quando il
fatto costituisce reato» anziché «salvo che il fatto costituisca reato».
Nell’ordinanza di rimessione, i giudici a quibus ritenevano violato il divieto di un secondo giudizio,
essendo stato l’imputato sottoposto a procedimento penale per il delitto di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 184 t.u.f, anche se in precedenza sanzionato in via definitiva dalla CONSOB per il
parallelo illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis t.u.f.
Il difetto di rilevanza, tuttavia, oltre che evidente, viene ritenuto dalla Corte insuperabile: la disposizione censurata, infatti, è stata già applicata una volta per tutte nel procedimento amministrativo, e resta pertanto estranea al giudizio penale, nel quale invece l’imputato rischia di dover rispondere – in
violazione del ne bis in idem convenzionale – soltanto ai sensi dell’art. 184 t.u.f., che resterebbe, tuttavia,
immodificato dall’intervento sollecitato alla Consulta.
Incidenter tantum, però, il Giudice delle leggi chiarisce come, se pure il ricorso fosse stato ricevibile,
in ogni caso si sarebbe dovuta escludere la violazione convenzionale, posto che anche nell’ipotesi ove la
precedente sanzione fosse stata revocata ex art. 30, comma 4, l. 87/1953 in conseguenza della pronuncia
di incostituzionalità, il processo penale instaurato si sarebbe comunque dovuto celebrare e concludere,
con il paradossale effetto di aggravare il vulnus all’art. 4 prot. 7 Cedu, anziché porvi rimedio.
Del pari inammissibile la questione rilevata in via subordinata circa la legittimità costituzionale
dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 4 prot. 7 Cedu, nella
parte in cui la disposizione impugnata non prevede «l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla
quale debba riconoscersi natura penale» ai sensi della Cedu e dei suoi protocolli.
L’intervento additivo richiesto, come rileva correttamente la Corte, avrebbe unicamente l’effetto di
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impedire la celebrazione o la conclusione di un secondo procedimento per il medesimo fatto, senza tuttavia determinare alcun ordine di priorità tra sanzione penale e amministrativa.
Una risposta sanzionatoria incerta e casuale, dunque, che si pone in evidente frizione con altri principi fondamentali, quali la determinatezza e la legalità delle sanzioni penali, ma anche i principi di ragionevolezza e di parità di trattamento, oltre che quelli di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, imposti dal diritto dell’Unione europea; di qui, la possibile violazione degli artt. 11 e 117
Cost. (Corte e.d.u., sent., 23 febbraio 2013, C-617/10, Aklagaren c. Akerberg Fransson).
Quanto agli “abnormi” effetti pratici di una simile soluzione, sarebbero esattamente opposti a quelli
derivanti dall’accoglimento della questione sollevata in via principale: nel primo caso, la fattispecie penale assorbirebbe completamente quella amministrativa; nel secondo caso, viceversa, sarebbero le sanzioni penali a diventare residuali, in ragione della tendenziale maggiore rapidità di svolgimento dei
procedimenti sanzionatori amministrativi.
Infine, la Corte costituzionale ritiene inammissibile la questione sollevata dalla sezione tributaria
della Corte di cassazione, in ordine all’art. 187-ter, comma 1, d.lgs. 58/1998, «in quanto formulata in
maniera dubitativa e perplessa».
L’ordinanza di rimessione, infatti, pur ritenendo «non conforme ai principi sovranazionali sanciti
dalla Cedu la previsione del doppio binario e, quindi, della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, in sostanza, poi, non chiarisce se la sanzione penale già irrogata, a
prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, sia o meno preclusiva alla successiva comminatoria
della sanzione amministrativa.
Questi dubbi irrisolti, unitamente all’incertezza del petitum, costituiscono ragioni di inammissibilità
della questione sollevata.
Al termine del suo iter argomentativo la Consulta, pur trincerandosi in un non liquet, non si esime
dal porre in nuce il reale problema di fondo: non già le singole questioni dedotte, ma la contraddittorietà ex se del sistema del doppio binario, che prevede come eventualità fisiologica la duplicazione del
procedimento; il blocco del secondo procedimento una volta conclusosi il primo – senza alcuna priorità
temporale – finisce per determinare un inutile dispendio di energie e di risorse, lasciando comunque
esposto l’interessato ai costi emotivi e materiali di un doppio procedimento, uno dei quali destinato a
concludersi con un nulla di fatto.
A tali incongruenze non può di certo porre rimedio un intervento della Corte, dovendosi auspicare,
piuttosto, un innesto legislativo, che predisponga un rimedio strutturale volto a regolare i rapporti tra i
due illeciti e i relativi procedimenti, evitandone la duplicazione e assicurando il rispetto degli obblighi
sanzionatori discendenti dal diritto dell’Unione europea.
Il monito giunge – non a caso – all’alba dell’esercizio della delega conferita con la legge n. 114/2015
che vuole riformare la disciplina dell’abuso di mercato, adeguandola alla direttiva 2014/57/UE e al regolamento del 16 aprile 2014, n. 596 del Parlamento europeo e del Consiglio; sicché si aspetta, ora, la risposta del legislatore delegato.
***
LA CONSULTA TORNA SUL DIVIETO DEL BIS IN IDEM: LA COMPATIBILITÀ CON IL DOPPIO BINARIO SANZIONATORIO NEI REATI TRIBUTARI
(C. cost., ord. 20 maggio 2016, n. 112)
A distanza di pochi giorni dalla sentenza in materia di market abuse (sent. n. 102 del 2016), la Corte costituzionale torna a confrontarsi con una nuova questione inerente i tormentati rapporti tra diritto al ne bis
in idem di fonte europea e doppio binario sanzionatorio nazionale (penale e amministrativo), in conseguenza della ormai notissima sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014.
Nel mirino è ancora una volta l’art. 649 c.p.p., in relazione, però, all’art. 10-ter d.lgs. 74 del 2000,
che sanziona l’omesso versamento dell’IVA, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all’imputato sia già stata applicata, per il
medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione e.d.u. e dei relativi Protocolli»; ciò in violazione
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dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu.
Più nello specifico, il quesito sottoposto alla Consulta dal Tribunale di Bologna inerisce la compatibilità fra la sanzione penale irroganda e quella amministrativa già inflitta dall’amministrazione tributaria
per il parallelo illecito di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. 471 del 1997.
Le norme richiamate, infatti, come chiarito dalle Sezioni Unite (sentenza 28 marzo 2013, n. 37424),
non si pongono in rapporto di specialità, ma di progressione illecita, «con conseguente sussistenza di
un doppio binario sanzionatorio in relazione al quale il possibile cumulo delle sanzioni è regolato soltanto da un meccanismo di sospensione della riscossione della sanzione amministrativa sino alla definizione del giudizio penale».
L’ordinanza di rimessione, richiamando la giurisprudenza di Strasburgo su casi analoghi (sentenze
20 maggio 2014, Nykanen contro Finlandia, e 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia), ritiene tale regime sanzionatorio in palese contrasto con il divieto di un secondo giudizio: la sanzione già disposta
per il medesimo fatto in sede tributaria, infatti, avrebbe natura sostanzialmente penale (secondo i cc.dd.
Engel criteria), sicché il procedimento in corso per il reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. 74 del 2000 rappresenterebbe un duplicazione processuale vietata dalla norma convenzionale.
La Corte costituzionale, però, rileva come l’esame nel merito le sia precluso: successivamente
all’ordinanza di rimessione, infatti, è intervenuto il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, che ha profondamente modificato da un punto di vista sistematico il rapporto tra gli illeciti penali e amministrativi in
questione; sicché, in relazione a tali innovazioni, spetta al giudice rimettente valutarne le complesse ricadute nel giudizio a quo (ord. n. 225 del 2015). La Consulta dispone, così, la restituzione degli atti al
giudice rimettente perché rivaluti la rilevanza della questione alla luce del novum normativo.
Invero, la decisione di mero rito della Corte delude le aspettative di quanti, all’indomani della sentenza Grande Stevens, evidenziavano come proprio il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria
fosse l’ambito su cui intervenire con maggiore urgenza, stanti i pensanti dubbi di compatibilità con il
principio del ne bis in idem.
A ciò si aggiunga che il rinvio al giudice bolognese non sembra destinato a fugare i dubbi di legittimità, posto che la recente novella, pur innovativa sotto taluni aspetti, in parte qua non pare offrire alcun
rimedio specifico.
***
IL RESPONSABILE CIVILE ANCORA ESCLUSO DAL GIUDIZIO ABBREVIATO
(C. cost., ord. 20 maggio 2016, n. 114)
All’attenzione della Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 3,
c.p.p. sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in
cui va disposta l’esclusione del responsabile civile «senza ritardo, anche di ufficio, quando il giudice accoglie la richiesta di giudizio abbreviato».
L’eccezione era stata già sottoposta allo scrutinio della Consulta (ord. n. 247 del 2008); la Corte milanese ne riprende le argomentazioni, insistendo per l’accoglimento.
A parere dei giudici a quibus la disposizione censurata appariva del tutto logica e coerente con la
impostazione del giudizio abbreviato data dal codice appena nato, caratterizzato dalla massima celerità
nella trattazione, rispetto alla quale l’immanenza del responsabile civile si poneva come «ontologicamente incompatibile».
Oggi, però, l’emarginazione di questo soggetto in sede di rito abbreviato si mostra anacronistica: i
numerosi interventi del legislatore (la legge 16 dicembre 1999 n. 479) e della Corte costituzionale succedutisi nel tempo hanno delineato un giudizio abbreviato estremamente diverso e molto più composito
rispetto a quello in origine previsto; fa specie, dunque, e stride in maniera irragionevole con il sistema
nel tempo costruito, la circostanza che il responsabile civile continui ad essere rigidamente escluso da
tale giudizio. Di qui, il paventato contrasto sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento delle pretese risarcitorie della parte civile; sia con l’art. 24 Cost., per la lesione del
diritto di agire in giudizio di quest’ultima; sia, infine, con l’art. 111 Cost., per il vulnus alla ragionevole
durata del processo.
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In altre parole, – conclude il Giudice nell’ordinanza – le esigenze di celerità, inizialmente proprie
dell’istituto, non possono più rilevare oggi, quando le possibilità di integrazione probatoria, di rinnovazione della richiesta sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (sent. n. 169 del 2003), di revoca da parte dell’imputato della originaria richiesta in caso di nuove contestazioni (ex art. 441-bis
c.p.p.), nonché i numerosi interventi sui rigorosi limiti all’appello previsti dall’art. 443 c.p.p., hanno
profondamente modificato l’istituto.
I giudici milanesi, però, non motivano in modo adeguato l’asserita rilevanza della questione, non
specificando in quale modo il suo accoglimento inciderebbe sul giudizio a quo (discutendosi della posizione di una parte già estromessa dal giudizio di primo grado e nei cui confronti non è stato instaurato
il contraddittorio in grado di appello); la Consulta, dunque, dichiara la manifesta inammissibilità dell’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 3, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111
Cost., per difetto di congrua motivazione sulla rilevanza dell’eccezione (ex plurimis, ordinanze n. 136 e
n. 57 del 2015).
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SEZIONI UNITE
di Teresa Alesci
LA POLIZIA GIUDIZIARIA NON HA L’OBBLIGO DI AVVISARE L’INDAGATO PRESENTE DELLA FACOLTÀ DI
FARSI ASSISTERE DA UN DIFENSORE NEL COMPIMENTO DEL SEQUESTRO PREVENTIVO D’URGENZA
(Cass., sez. un., 13 aprile 2016, n. 15453)
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sull’obbligo per la polizia giudiziaria di dare avviso all’indagato,
presente nel corso di un sequestro preventivo d’urgenza, della facoltà di farsi assistere da un difensore
di fiducia.
La Terza Sezione, assegnataria del ricorso, ha riscontrato un contrasto giurisprudenziale circa
l’esatta interpretazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., che onera la p.g. di avvertire la persona sottoposta
alle indagini, se presente, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia nel compimento degli
atti indicati nell’art. 356 c.p.p.
Un primo orientamento esclude l’applicabilità delle disposizioni previste dall’art. 114 cit. al sequestro preventivo di iniziativa della p.g., perché la norma fa esclusivamente riferimento al sequestro probatorio. Del resto, la diversità ontologica tra le due forme di sequestro comporta una diversa modulazione delle garanzie difensive. Per il sequestro preventivo disposto d’urgenza dalla p.g., infatti, vi è un
controllo immediato da parte del giudice, che procede alla convalida nei termini di legge. (Cass., sez.
III, 17 ottobre 2013, n. 45321; Cass., sez. III, 23 ottobre 2012, n. 45850; Cass., sez. IV, 7 luglio 2010, n.
37937).
Secondo un diverso indirizzo esegetico, l’avvertimento all’indagato, se presente, di farsi assistere da
un difensore è obbligatorio anche per il sequestro preventivo eseguito di iniziativa dalla p.g., in virtù di
una interpretazione sistematica delle norme. L’omessa indicazione del sequestro preventivo tra gli atti
di cui al 114 disp. att. c.p.p. è causata da un difetto di coordinamento tra norme, posto che l’art. 321,
comma 3-bis è stato inserito successivamente con d.lgs. n. 15 del 1991 (Cass., sez. III, 11 marzo 2014, n.
40361; Cass., sez. III, 04 aprile 2012, n. 36597; Cass., sez. III, 27 aprile 2005, n. 20168).
Le Sezioni Unite, delineati ambito e finalità della disposizione contenuta nell’art. 114 disp. att. c.p.p.,
confermano il primo orientamento, optando per una interpretazione strettamente letterale e sistematica
della disposizione contenuta nell’art. 114 disp. att. c.p.p., limitandone l’applicazione solo agli atti di cui
all’art. 356 c.p.p., contemplati dal Titolo IV del Libro V, relativo alle indagini preliminari.
La collocazione sistemica, dunque, rende ardua di per sé, in mancanza di una disposizione espressa,
la possibilità di applicare l’art. 114 disp. att. al sequestro preventivo eseguito di iniziativa dalla p.g., disciplinato invece dall’art. 321, comma 3-bis, c.p.p. La diversa vocazione delle attività, invero, milita a favore di tale conclusione. Gli atti di cui all’art. 356 c.p.p. mirano ad assicurare le fonti di prova e il presidio difensivo è posto a garanzia della regolarità e genuinità degli atti destinati ad essere utilizzati in dibattimento. Il sequestro preventivo, invece, ha funzioni meramente cautelari; la garanzia difensiva è attenuata in virtù del controllo immediato affidato al giudice. (Così anche C. cost., 1° aprile 1993, n. 151).
Il processo di autonomizzazione dei due istituti (sequestro probatorio e sequestro preventivo) si è concluso con la modifica apportata all’art. 114 dalla L. n. 94 del 2009: il testo legislativo ha, infatti, eliminato
ogni riferimento contenuto nell’art. 114 cit. alle disposizioni concernenti le modalità di esecuzione del
sequestro probatorio.
Le disposizioni contenute nell’art. 114 cit. in tema di sequestro probatorio, dunque, secondo le argomentazioni delle Sezioni Unite, non possono essere estese al sequestro preventivo, eseguito di iniziativa dalla p.g., né attraverso una interpretazione analogica, stante la diversità strutturale e funzionale
dei due istituti, né attraverso una interpretazione adeguatrice, per la mancata violazione del diritto di
difesa, sotto il profilo dell’art. 24 Cost.
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Il principio di diritto affermato dalla Corte è il seguente: “In caso di sequestro preventivo disposto di iniziativa della polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 321, comma 3 bis, c.p.p., non vi è obbligo di dare avviso
all’indagato presente al compimento dell’atto della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ex art. 104
disp. att. c.p.p.”.
***
LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO È APPLICABILE AI REATI DI RIFIUTO EX ARTT. 186, COMMA 6 E 187,
COMMA 8 C.D.S.
(Cass., sez. un., 6 aprile 2016, n. 13682)
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sull’applicabilità dell’istituto della tenuità del fatto ai reati di cui
agli artt. 186, comma 7 e 187, comma 8 cod. strada. La Quarta Sezione, assegnataria del ricorso, non
condividendo l’orientamento fornito da una precedente pronuncia (Cass., sez. IV, 1° luglio 2015, n.
33821), che aveva ritenuto compatibile il reato in esame con la particolare tenuità del fatto, ha rimesso la
questione alle Sezioni Unite.
Le Sezioni Unite, in primis, chiariscono il contenuto del giudizio di legittimità nell’ipotesi in cui la
norma da applicare, nel caso di specie l’art. 131-bis cod. pen., introdotta con legge 16 marzo 2015, n. 28,
sia successiva alla pronuncia di merito. In conformità all’orientamento maggioritario, la Suprema corte
ribadisce la deducibilità della nuova disciplina innanzi alla Corte di cassazione, anche d’ufficio, essendo in presenza di una innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca una disciplina più favorevole, con la conseguente applicabilità retroattiva del novum, ai
sensi dell’art. 2, comma 4, c.p. (Cass., sez. III, 14 maggio 2015, n. 24358; Cass., sez. IV, 17 aprile 2015, n.
22381).
Se, dunque, la causa di non punibilità può essere rilevata anche d’ufficio nel giudizio di legittimità
per la prima volta, la Suprema corte stabilisce che l’applicazione dell’istituto della particolare tenuità
del fatto nel giudizio di legittimità va riconosciuta o esclusa senza disporre il rinvio in sede di merito,
alla luce dell’art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p.
Le Sezioni Unite, dunque, affrontano il problema dell’applicabilità della tenuità del fatto al reato di
rifiuto dell’alcooltest, condividendo le argomentazioni sostenute dalla sentenza citata, favorevole
all’applicabilità dell’istituto in esame.
In particolare, la questione non può essere esaminata in astratto, ma richiede l’analisi del dato testuale. Il legislatore ha limitato il campo d’applicazione del nuovo istituto alla gravità del reato desunta dalla pena edittale massima e dalla non abitualità del comportamento. In tale ambito, il fatto
particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre indicatori: la modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo ed il grado di colpevolezza. Secondo la Suprema
corte, dunque, l’ordinanza di rimessione pecca di astrattezza nel legare il nuovo istituto al principio
di offensività. Il giudizio sulla tenuità del fatto, invero, ha ad oggetto le modalità della condotta e
l’esiguità del danno, richiedendo una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto.
Pertanto, non vi è alcun ostacolo all’applicazione dell’istituto anche ai reati di pericolo presunto o
astratto.
Nell’ambito della fattispecie sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite, non è precluso l’accertamento della concreta pericolosità della condotta tipica, poiché tali reati non puniscono una mera disobbedienza, ma il rifiuto connesso a condotte di guida irregolari e tipicamente pericolose. Ne consegue
che l’intrigato intreccio tra le due contravvenzioni, la guida alterata di cui all’art. 186, comma 2 e il rifiuto dell’alcooltest, di cui al comma 7 dell’art. 187, consente una valutazione sulla rischiosità del contesto
nel quale l’illecito s’inscrive.
Conseguentemente l’istituto è applicabile anche in relazione alla più grave fattispecie di guida in
stato di ebbrezza, dovendosi considerare non solo l’entità dello stato di ebbrezza ma anche le modalità
della condotta e l’entità del pericolo o del danno cagionato. Se, dunque, il superamento della soglia di
rilevanza penale coglie il disvalore della situazione pericolosa o dannosa, il giudice deve compiere una
valutazione circa la peculiarità del caso concreto, poiché l’ambito applicativo dell’istituto è definito non
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solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche dal profilo soggettivo afferente alla
non abitualità del comportamento.
***
LA RICHIESTA DI PATTEGGIAMENTO O IL CONSENSO PRESTATO ALLA PROPOSTA DEL P.M. NON POSSONO
VALERE COME RINUNCIA ALLA PRESCRIZIONE
(Cass., sez. un., 6 maggio 2016, n. 18953)
Chiamate a pronunciarsi sul rapporto tra la prescrizione maturata e la richiesta di patteggiamento, le
Sezioni Unite hanno preliminarmente analizzato l’istituto della prescrizione e la sua eventuale rinuncia.
A seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 275 del 1990, recepita poi in sede di riforma dal legislatore con la legge n. 151 del 2005, la prescrizione è sempre “espressamente” rinunciabile
dall’imputato. Nonostante la chiarezza della disposizione contenuta nell’art. 157 c.p., la dottrina e la
giurisprudenza si sono interrogate sulle modalità di esternazione della rinuncia, ovvero se la stessa
debba essere espressa in forma inequivoca ovvero possa essere desunta da facta concludentia.
Dopo una breve analisi della questio iuris in prospettiva sistemica e multidisciplinare, le Sezioni Unite ritengono che la rinuncia, in quanto atto dismissivo gravido di conseguenze per l’imputato, deve essere formulata “espressamente”. A tale conclusione, peraltro, era già pervenuta la Suprema corte, secondo cui “la rinuncia alla prescrizione richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti” (Cass., sez. un., 3 dicembre 2010, n. 43055).
Formulate tali premesse sul piano dommatico, le Sezioni Unite analizzano lo specifico rapporto che
intercorre tra la rinunzia alla prescrizione e il rito speciale ex art. 444 c.p.p., oggetto di contrasto interpretativo segnalato dalla sezione rimettente.
Ad un primo orientamento, secondo il quale la rinuncia alla prescrizione necessita di una forma
espressa ad hoc (Cass., sez. V, 12 ottobre 2010, n. 45023; Cass., sez. III, 04 marzo 2010, n. 14331; Cass., sez.
I, 13 marzo 2007, n. 18391), si contrappone una diversa linea esegetica che individua nella richiesta di
patteggiamento una forma di rinuncia alla prescrizione già maturata. Nell’alveo di questo secondo
orientamento, è possibile individuare due diverse opzioni interpretative: la prima secondo cui la proposta di patteggiamento recherebbe in sé una “dichiarazione tipica di rinuncia alla prescrizione non più revocabile” (Cass., sez. V, 25 novembre 2009, n. 7021; Cass., sez. V, 15 maggio 2015, n. 38984), e la seconda
per la quale “ la richiesta di patteggiamento implica rinuncia espressa” (Cass., sez. VII, 02 luglio 2015, n.
35329; Cass., sez. VI, 30 giugno 2015, n. 36689).
Le Sezioni Unite censurano la validità dell’orientamento che ravvisa nella richiesta di patteggiamento una forma di rinuncia alla prescrizione. Tralasciando l’antinomia logico concettuale del binomio richiesta di patteggiamento - rinuncia alla prescrizione, la Suprema corte segnala la criticità del primo
sottoinsieme, che presuppone la consapevolezza da parte dell’imputato dell’esistenza della causa estintiva; del resto, la proposta di patteggiamento è opzione processuale che di per sé lascia dubitare dello
stato di consapevolezza. Se l’imputato effettivamente fosse a conoscenza della causa estintiva, e dunque, della possibile pronuncia di proscioglimento, sarebbe paradossale immaginare una richiesta di applicazione della pena.
In riferimento al secondo sottoinsieme, secondo cui la prescrizione recherebbe una rinuncia espressa
alla prescrizione, l’assunto censurato si fonda su un indebito traslato del requisito della forma espressa
della volontà di accedere al rito alternativo con altra volontà, quale la rinuncia alla prescrizione.
Secondo la Suprema corte, dunque, la tesi ammissiva di equipollenti alla forma espressa ad hoc per la
rinuncia alla prescrizione non è condivisibile, anche alla luce dei poteri di controllo attribuiti al giudice
dall’art. 444, comma 2 del codice di rito. Come è noto, la Suprema corte, in una sentenza del 1997, ha
individuato una sequenza diacronica caratterizzante il modulo procedimentale del “patteggiamento”
(Cass., sez. un., 28 maggio 1997, n. 5). In via preliminare ed assorbente, infatti, il giudice deve accertare
l’insussistenza delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p.; solo in caso di negativa delibazione
il giudice può procedere alla verifica di legittimità della richiesta di patteggiamento. Pertanto, se davvero la richiesta di patteggiamento implicasse una rinuncia alla prescrizione, si svuoterebbe di significato l’attribuzione in capo al giudice di un potere di controllo.
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Le Sezioni Unite, dunque, affermano il seguente principio di diritto: “Ai fini del valido esercizio del diritto di rinuncia alla prescrizione, è necessaria la forma espressa, che non ammette equipollenti, sicché la richiesta
di applicazione della pena da parte dell’imputato, o il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero, non
possono, di per sé, valere come rinuncia”.
***
IL RIESAME DELLE MISURE CAUTELARI REALI: LA DUPLICE NATURA DEL RINVIO CONTENUTO NELL’ART. 324
COMMA 7 C.P.P.
(Cass., sez. un., 6 maggio 2016, n. 18954)
Le Sezioni Unite sono state investite della triplice questione relativa alla natura del rinvio contenuto
nell’art. 324 c.p.p., comma 7, in riferimento ai nuovi poteri di annullamento da parte del Tribunale del
Riesame per vizi attinenti alla motivazione, al divieto di rinnovazione della misura precedentemente
dichiarata inefficace, nonché ai termini perentori per il deposito della motivazione.
La terza Sezione, invero, aveva ravvisato un potenziale contrasto tra le decisioni destinate ad essere
assunte dalla Sezioni semplici, anche in virtù delle conclusioni delle Sezioni Unite Cavalli, secondo cui
“il rinvio che l’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., effettua all’art. 309, commi 9 e 10, è riconoscibilmente recettizio, cioè fatto alla mera veste letterale dei predetti commi, e che tale modalità di "incorporazione" per relationem
comporta, inevitabilmente, la cristallizzazione della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che la richiama, ne entra a far parte integrante e non segue le eventuali "sorti evolutive" della
norma richiamata» ( Cass., sez. un., 28 marzo 2013, n. 26268).
In particolare, il collegio rimettente si domandava se il comma 7 dell’art. 324 c.p.p. richiamasse le disposizioni dell’art. 309, con un rinvio definito statico, alla versione originaria, oppure, attraverso un
rinvio dinamico, consentisse l’applicazione delle disposizioni novellate.
Preliminarmente le Sezioni Unite individuano la ratio sottesa alla recente riforma delle misure cautelari operata con la legge 16 aprile 2015, n. 47, individuata nell’incremento delle garanzie difensive e nei
corrispondenti obblighi a carico del giudice della cautela. In particolare, il legislatore ha introdotto significative modifiche sulla durata dei termini per la decisione e per il deposito della motivazione, sanzionando, nel riesame, il mancato rispetto di quest’ ultimi con l’inefficacia della misura. Il legislatore è,
altresì, intervenuto in materia di misure cautelari reali, operando con la tecnica della sostituzione, ed
inserendo nel comma 7 dell’art. 324 l’espressione “art. 309, commi 9, 9 bis”.
Considerazioni di ordine letterale e sistemico inducono le Sezioni Unite a ritenere che il legislatore
abbia inteso riconoscere forza espansiva, in materia di misure cautelari reali, anche al nuovo contenuto
dell’art. 309, comma 9 e non anche al nuovo testo del comma 10, sebbene quest’ultimo sia oggetto del
richiamo operato dall’art. 324, comma 7.
In primo luogo, le Sezioni Unite ripercorrono la successione di norme relativa all’istituto del riesame
personale e le sue ricadute in termini di rinvio del riesame reale. La scelta contenuta nel codice Vassalli
di delineare in forma parzialmente autonoma il riesame in materia di misure ablative rispetto a quello
delle misure coercitive contemplava un comune denominatore dei due precetti di riferimento (artt. 309
e 324 cod. proc. pen.) nella disposizione costituente il contenuto dei commi 9 e 10 dell’art. 309, estesa
all’art. 324 con la tecnica del rinvio. Successivamente, con la legge n. 332 del 1995, il legislatore aveva
introdotto la previsione della necessaria trasmissione degli atti da parte dell’autorità procedente al Tribunale del Riesame, non oltre il quinto giorno dall’avviso del presidente, con conseguente aggiunta nel
comma 10 dell’art. 309 della sanzione dell’inefficacia della misura per mancata osservanza del citato
termine perentorio. Né la giurisprudenza né la dottrina avevano ipotizzato che la modifica del comma
10 operasse anche con riferimento al riesame reale, poiché il comma 3 dell’art. 324 prevedeva un termine per l’inoltro degli atti al Tribunale del Riesame in materia reale di un solo giorno, termine, peraltro,
non perentorio. Per arginare tale difetto di coordinamento, intervenivano le Sezioni Unite stabilendo
“l’(in)compatibilità" delle modifiche apportate alla norma (art. 309, comma 10) richiamata dall’art. 324, comma 7,
con il resto dell’istituto del riesame reale, come delineato negli altri commi dello stesso art. 324” (Cass., sez. un.,
29 maggio 2008, n. 25932; Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 25933).
Tale approccio ermeneutico, ovvero quello della compatibilità, viene condiviso con la sentenza che si
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annota, onde eseguire la valutazione, rispetto alla procedura di riesame delineata dall’art. 324 cod.
proc. pen., delle norme dell’art. 309 - e cioè dei commi 9, 9-bis e 10 - da quello richiamate nel comma 7,
come rimodulato dal legislatore del 2015.
La legge n. 47 del 2015 ha rimodulato il comma 7 dell’art. 324 cod. proc. pen. con la tecnica della sostituzione di una intera parte del precetto contenente il rinvio ai commi dell’art. 309, ovvero non aggiungendo semplicemente il richiamo al comma 9-bis, ma introducendo la locuzione “commi 9 e 9 bis”.
Tale tecnica consente di ritenere che non tutte le modifiche relative al riesame personale sono state estese al riesame reale.
L’interpretazione sostenuta dalle Sezioni Unite, che esclude l’innesto del novellato comma 10 nel sistema dell’art. 324, risulta corroborata anche da considerazioni di carattere sistematico, legate al termine per la trasmissione degli atti, perentorio per le misure cautelari personali, e ordinatorio per quelle
reali. Tale circostanza, dunque, secondo le Sezioni Unite, conferma una enorme divergenza dei due istituti, giustificata dalla diversa graduabilità dei valori sottesi all’esercizio del potere limitativo in via cautelare. Nella stessa prospettiva, inoltre, si sono già pronunciate le Sezioni Unite, che hanno giustificato
la diversità del rito camerale da riservare ai due diversi tipi di impugnazione (partecipato ai sensi
dell’art. 127 c.p.p. per la trattazione dei ricorsi per cassazione in tema di misure cautelari personali e
non partecipato ai sensi dell’art. 611 c.p.p. per la trattazione dei ricorsi in tema di misure reali) in virtù
della differenza ontologica tra il regime cautelare e quello reale. (Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n.
51207).
Ad avviso delle Sezioni Unite, anche il legislatore del 2015 si è posto lungo tale direttrice, poiché ha
previsto una disciplina restrittiva sui tempi del giudizio di rinvio a seguito di annullamento della Cassazione, solo per alcune ipotesi di incidente cautelare personale.
Se, dunque, viene confermato il rinvio statico dell’art. 324, comma 7, al comma 10 dell’art. 309, ovvero nella formulazione precedente alla riforma del 2015, d’altro canto, la Suprema corte giunge ad una
conclusione diversa, di tipo inclusivo, in riferimento al rinvio al comma 9 dell’art. 309 c.p.p. Condividendo quanto sostenuto nella sentenza Cavalli, si ribadisce la strategica autonomia delle discipline del
riesame in materia personale e in materia reale, derivante dalla diversità dei diritti tutelati.
Il novellato comma 9 dell’art. 309 c.p.p., che attribuisce al Tribunale del Riesame il potere di annullare il titolo cautelare in peculiari casi di vizi della motivazione, non rimediabili con l’esercizio di poteri
integrativi, è considerato compatibile con il sistema del riesame del sequestro per quanto attiene alla
ipotesi di motivazione mancante. Tale principio è già stato sostenuto in una precedente pronuncia, secondo la quale è legittimo l’annullamento del decreto di sequestro probatorio radicalmente non motivato sulle specifiche finalità del provvedimento (Cass., sez. un., 31 marzo 2011, n. 25236). Inoltre, appare
compatibile con la materia del riesame reale la parte del comma 9 dell’art. 309 che oggi riconosce al tribunale del riesame il potere-dovere di annullamento della misura cautelare personale anche nell’ipotesi
in cui manchi la autonoma valutazione dei presupposti fondanti la misura stessa. Il legislatore, infatti,
con tale riforma, ha inteso sanzionare prassi di automatico recepimento, ad opera del giudice, delle tesi
dell’Ufficio richiedente. Tale finalità, dunque, non può non informare anche le regole del controllo del
Tribunale del riesame in tema di misure ablative, sebbene il riferimento che compare nel novellato art.
309, comma 9, alle «esigenze cautelari», agli «indizi» e agli «elementi forniti dalla difesa» che non siano stati
oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice, deve essere coordinato con la materia delle misure cautelari reali e del sequestro probatorio.
Il riferimento al tema degli "indizi", secondo la ricostruzione esegetica delle Sezioni Unite, deve tenere conto della esistenza di un nesso di pertinenzialità fra il bene sequestrato e la fattispecie concreta
di reato che ne costituisce il riferimento. D’altro canto anche il tema delle esigenze cautelari trova riscontro tra i requisiti che possono divenire oggetto di necessaria esposizione ed autonoma valutazione
da parte della autorità giudiziaria che dispone il sequestro, pena la nullità della misura ablativa da rilevarsi a cura del tribunale del riesame.
Le Sezioni Unite, dunque, nel risolvere il quesito posto, affermano i seguenti principi di diritto: "Il
rinvio dell’art. 324, comma 7, ai commi 9 e 9-bis dell’art. 309 cod. proc. pen. comporta, per un verso, l’applicazione integrale della disposizione di cui al comma 9-bis e, per altro verso, l’applicazione della disposizione del
comma 9 in quanto compatibile con la struttura e la funzione del provvedimento applicativo della misura cautelare reale e del sequestro probatorio, nel senso che il tribunale del riesame annulla il provvedimento impugnato se la
motivazione manca o non contiene la autonoma valutazione degli elementi che ne costituiscono il necessario fondamento, nonché degli elementi forniti dalla difesa”.
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“Il rinvio dell’art. 324, comma 7, al comma 10 dell’art. 309 cod. proc. pen. deve intendersi invece riferito alla
formulazione codicistica originaria di quest’ultima norma”.
***
NEL CASO DI INDISPONIBILITÀ DEL BRACCIALETTO ELETTRONICO, IL GIUDICE DEVE COMPIERE UN NUOVO
GIUDIZIO DI BILANCIAMENTO DELLE ESIGENZE CAUTELARI
(Cass., sez. un. , 19 maggio 2016, n. 20769)
La Prima Sezione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto giurisprudenziale
in tema di applicabilità della misura degli arresti domiciliari con la prescrizione di procedure di controllo mediante mezzi elettronici. Entrambi gli orientamenti, però, ritengono che la previsione contenuta nell’art. 275 bis c.p.p. non introduca una misura coercitiva ulteriore rispetto a quelle elencate negli
artt. 281-286 c.p.p., ma disciplini unicamente una “modalità” esecutiva degli arresti domiciliari.
Secondo una prima linea interpretativa, l’applicazione della misura degli arresti domiciliari con
l’utilizzo del braccialetto elettronico è subordinata all’accertamento preventivo della disponibilità dei
mezzi elettronici da parte della p.g., con la conseguenza che, in caso di indisponibilità, il giudice dovrà
necessariamente disporre l’applicazione della misura cautelare in carcere (Cass., sez. II, 10 novembre
2015, n. 46328; Cass., sez. II, 17 dicembre 2014, n. 520).
Un diverso orientamento giurisprudenziale ritiene che l’indisponibilità del braccialetto elettronico
non può condizionare l’effettività della misura prescelta, non potendo la valutazione di merito, effettuata dal giudice sulla pericolosità dell’indagato essere subordinata alla disponibilità del congegno
(Cass., sez. II, 23 settembre 2014, n. 50400; Cass., sez III, 1° dicembre 2015, n. 2226). Di conseguenza,
l’imposizione del braccialetto elettronico rappresenta una cautela che il giudice può adottare non già ai
fini dell’adeguatezza della misura più lieve, ma ai fini del giudizio, da compiersi nel procedimento di
scelta della misura, sulla capacità effettiva dell’indagato di autolimitare la propria libertà di movimento
(Cass., sez. I, 10 settembre 2015, n. 39529).
In via preliminare, la Suprema corte ricostruisce l’evoluzione normativa relativa al c.d. braccialetto
elettronico.
L’art. 275 bis c.p.p. è stato introdotto dalla L. n. 341 del 2000. Nella sua originaria formulazione, la
norma offriva al giudice la possibilità di applicare, se lo riteneva necessario, particolari modalità di controllo mediante strumenti elettronici. A seguito delle modifiche apportate con il d.l. n. 146 del 2013, i
meccanismi di controllo devono sempre essere ordinati dal giudice, a meno che non li ritenga “non necessari” in relazione al grado e alla natura delle esigenze da soddisfare nell’ipotesi specifica. L’evoluzione normativa non ha invece interessato la previsione contenuta nel comma 2 della citata disposizione, che subordina l’applicazione del dispositivo al consenso espresso prestato dall’interessato. In mancanza di consenso, alla luce del disposto di cui al comma 1, il giudice dispone l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Secondo le argomentazione della Suprema corte, tale dato appare dirompente. Se il legislatore ha previsto delle conseguenze per l’assenza del consenso, non si rinviene nella norma alcuna indicazione nell’ipotesi, tristemente frequente, della indisponibilità del dispositivo.
Da ultimo, con la riforma delle misure cautelari disposta con la l. n. 47 del 2015, il legislatore è intervenuto indirettamente anche sull’ istituto in oggetto, poiché ha introdotto nell’art. 275, relativo ai criteri
di scelta della misura, il comma 3-bis, secondo cui il giudice nel disporre la custodia cautelare in carcere
deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui al 275-bis c.p.p.
Dunque, per le Sezioni Unite, da un lato, la modifica apportata nel 2013, successiva alla sentenza
della Corte e.d.u. del 2013, Torregiani, evidenziava la volontà del legislatore di rafforzare, nell’ottica di
effettiva gradualità delle misure cautelari, il principio della custodia cautelare quale extrema ratio.
Dall’altro la riforma del 2015 ha inteso ridurre ulteriormente la possibilità di utilizzo della misura custodiale in carcere, sia nella fase applicativa che nel successivo svolgersi della vicenda cautelare, onerando il giudice di motivare sull’inidoneità della misura meno afflittiva corredata dal controllo elettronico.
La soluzione della questio iuris non può prescindere dall’individuazione della natura degli arresti
SCENARI | SEZIONI UNITE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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domiciliari con prescrizione del braccialetto elettronico. In conformità alle argomentazioni sostenute nei
precedenti giurisprudenziali, secondo la Suprema corte, si tratta non di una misura autonoma, come
sostenuto da parte della dottrina, da collocarsi ad un livello intermedio tra la custodia cautelare in carcere e gli arresti domiciliari semplici, quanto piuttosto di una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari. Tale conclusione è corroborata dall’analisi testuale della relazione al testo normativo che ha
introdotto per la prima volta il braccialetto elettronico, nonché dalla collocazione sistematica della disposizione, poiché l’art. 275-bis è inserito nel capo relativo alle disposizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali, subito dopo la disposizione relativa ai criteri di scelta della misura.
Le Sezioni Unite, invero, ritengono doveroso esaltare il dato testuale della norma che impone al giudice di applicare la custodia cautelare in carcere, nell’ipotesi in cui l’interessato non presti il consenso
all’uso di mezzi di controllo elettronici. Il legislatore, pertanto, ha individuato una sola causa ostativa
all’applicazione degli arresti domiciliari ex art. 275-bis, senza prevedere alcun automatismo nell’ipotesi
di carenza del dispositivo elettronico.
La previsione di un automatismo, che imponga al giudice di disporre la misura degli arresti domiciliari ovvero quella della custodia cautelare in carcere, non è ammissibile, in quanto contrasterebbe con i
principi di proporzione e ragionevolezza.
Dunque, sia nel momento di prima applicazione della misura cautelare, sia nel caso di sostituzione
della stessa, il giudice, se il dispositivo elettronico è indisponibile, deve effettuare un giudizio di bilanciamento tra l’intensità delle esigenze cautelari e la tutela della libertà personale dell’imputato.
In conclusione, le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: “Il giudice, investito di una
richiesta di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari con il c.d. ‘braccialetto elettronico’ o di sostituzione della custodia in carcere con la predetta misura, escluso ogni automatismo nei criteri di scelta dalle misure, qualora abbia accertati l’indisponibilità del suddetto dispositivo elettronico, deve valutare, ai fini dell’applicazione o della sostituzione della misura coercitiva, la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna di esse in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto”.
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
LA PRONUNCIA SULL’AZIONE CIVILE IN CASO DI ABOLITIO CRIMINIS
(Cass., sez. II, 24 maggio 2016, n. 21598)
La depenalizzazione di alcune fattispecie di reato ad opera del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 «Disposizioni
in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili» ha determinato in sede di impugnazione l’annullamento delle sentenze di condanna, pronunciate per quei reati nei precedenti gradi di giudizio, «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato». È sorto di conseguenza
l’interrogativo se sia o meno preclusa in tal caso la pronuncia sull’azione civile, posto che nel citato
provvedimento legislativo non figura alcuna disposizione transitoria in proposito, a differenza di quanto è previsto invece per le ipotesi depenalizzate in forza del successivo d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8, per le
quali l’art. 9 stabilisce che «quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai
soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
In alcune recenti pronunce la Corte di cassazione è giunta alla conclusione che il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, sia tenuto a pronunciarsi
anche sulle statuizioni civili (Cass., sez. II, 24 maggio 2016, n. 21598; Cass., sez. II, 11 aprile 2016, n.
14529). Diverse le argomentazioni portate a sostegno di questa tesi.
Il combinato disposto dell’art. 12, comma 1 e dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 7 del 2016 sembra legittimare il giudice a riconoscere il risarcimento del danno per i fatti illeciti depenalizzati, commessi
prima dell’entrata in vigore del decreto, sempre che il procedimento penale non sia definito. Non rileva
in senso contrario l’art. 8 del d.lgs. n. 7 del 2016, secondo cui “le sanzioni pecuniarie civili sono applicate dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno”, in quanto tale disposizione si limita a stabilire non tanto che il giudice civile possa disporre il risarcimento, quanto che egli
possa applicare sanzioni civili a seguito del riconoscimento del danno derivante da illeciti civili dolosi
(Cass., sez. II, 24 maggio 2016, n. 21598). Sostenere la revocabilità delle statuizioni civili presenterebbe
profili di incoerenza sistematica in quanto solo con riguardo ad alcune fattispecie depenalizzate – quelle indicate nel d.lgs. n. 7 del 2016 in cui è più frequente l’esercizio dell’azione civile nel processo penale
– sarebbe preclusa la pronuncia sulle questioni civili, mentre con riferimento ad altre fattispecie depenalizzate dal d.lgs. n. 8 del 2016 tale pronuncia sarebbe consentita in forza della disposizione transitoria
ivi contenuta. Pertanto, secondo questo orientamento, si deve attribuire valenza generale alla disciplina
dettata dall’art. 9 del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8, non essendovi ragione di riferirla solo alle fattispecie
depenalizzate da tale provvedimento e non anche da quello precedente, posto che l’art. 9 fa riferimento
genericamente a tutte le ipotesi in cui il giudice prende atto dell’intervenuta depenalizzazione, decidendo però sull’azione civile esercitata nello stesso procedimento (Cass., sez. II, 24 maggio 2016 n.
21598; Cass., sez. II, 11 aprile 2016, n. 14529). Del resto posizioni analoghe sono state assunte dalla
giurisprudenza nel caso di riformulazione della fattispecie normativa che comporti una modifica delle condotte incriminate (Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 31957), come in caso di revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis (Cass., sez. V, 20 dicembre 2005, n. 4266). Una diversa lettura
delle norme comporterebbe peraltro la violazione del principio della ragionevole durata del processo
stabilito dall’art. 111 Cost., poiché il proscioglimento «perché il fatto non è previsto dalla legge come
reato» comporterebbe la trasmissione degli atti al giudice civile competente per l’irrogazione della
sanzione civile e si imporrebbe alla parte civile la prosecuzione del giudizio in sede civile sebbene già
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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in sede penale il diritto al risarcimento sia stato accertato e il giudizio civile sia stato definito.
Una diversa sezione della Corte di cassazione, al contrario, ritiene che al giudice dell’impugnazione
sia precluso l’esame delle questioni civili a seguito dell’annullamento senza rinvio della sentenza di
condanna in relazione a una fattispecie di reato abrogata dal d.lgs. n. 7 del 2016 (Cass., sez. V, 14 aprile
2016, n. 15634). La decisione sulla domanda civile è collegata infatti alla condanna dell’imputato, con le
sole eccezioni previste dall’art. 578 c.p.p. – che ammette la decisione sulle questioni civili da parte del
giudice dell’appello e della Corte di cassazione in caso di estinzione del reato per prescrizione o amnistia, quando nei confronti dell’imputato sia stata pronunciata condanna al risarcimento del danno a favore della parte civile – e dell’art 576 c.p.p.– che attribuisce al giudice il potere di decidere sulla domanda di risarcimento e restituzioni anche su impugnazione della parte civile avverso una sentenza di
assoluzione –. Al di fuori di tali ipotesi vige il principio in forza del quale il giudice può pronunciarsi
sui capi civili in quanto contestualmente accerti la responsabilità penale. Tale tesi sarebbe confermata,
ad avviso della quinta sezione, dalla diversa disciplina contenuta nell’art. 9 del d.lgs. 15 gennaio 2016,
n. 8, che non trova applicazione, neppure analogica, nei casi di abrogazioni di cui al d.lgs. 15 gennaio
2016, n. 7, considerata l’eccezionalità della norma e la diversa ratio dei due provvedimenti: nella depenalizzazione introdotta dal d.lgs. n.8 del 2016 la sanzione prevista per l’illecito è irrogata dall’autorità
amministrativa competente e per questo è stato attribuito al giudice penale in sede di impugnazione il
potere di decidere sulle statuizioni civili; nella abrogazione prevista dal d.lgs. n. 7 del 2016 la sanzione
pecuniaria civile è irrogata dal giudice competente a conoscere della domanda di risarcimento del danno derivante da reato; pertanto attribuire al giudice penale il potere di pronunciarsi sui capi civili impedirebbe l’esercizio dell’azione sul risarcimento del danno davanti al giudice competente e quindi
l’irrogazione della sanzione pecuniaria civile. Né la soluzione indicata sarebbe in contrasto con la giurisprudenza che ha mantenuto ferme le statuizioni civili in caso di revoca della sentenza di condanna per
intervenuta abolitio criminis (Cass., sez. V, 20 dicembre 2005, n. 4266; Cass., sez. V, 24 maggio 2005, n.
28701) e in caso di riqualificazione del fatto (Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 31957): nel primo caso si
tratta di revoca di una sentenza di condanna divenuta irrevocabile; nel secondo di una situazione che
rientra nell’ambito di operatività dell’art. 578 c.p.p.
***
IL COINVOLGIMENTO DELLA VITTIMA OCCASIONALE DI DELITTI COMMESSI “CON VIOLENZA ALLA PERSONA” NELL’EVOLUZIONE DELLE MISURE CAUTELARI
(Cass., sez. I, 11 aprile 2016, n. 14831)
La categoria dei delitti commessi “con violenza alla persona” – in presenza dei quali, a norma dell’art.
299, comma 3, c.p.p., è imposto alla parte che chieda la modifica dello stato cautelare l’onere di notificare la richiesta al difensore della persona offesa e, in mancanza, alla stessa parte lesa, a pena di inammissibilità – è stata diversamente delineata in giurisprudenza.
Secondo un primo indirizzo la previsione legislativa, aperta anziché circoscritta attraverso l’elencazione delle fattispecie per le quali imporre la notifica alla vittima, richiede una lettura di stretto rigore
interpretativo: se, da un verso, appare indiscutibile che le vittime occasionali, magari solo per essersi
risolte alla denuncia, sono esposte al rischio di una vittimizzazione secondaria che può tradursi in nuovi episodi delittuosi, atteggiamenti ritorsivi o minacciosi, va tuttavia considerato che, sotto il profilo informativo, il fine che si vuole raggiungere, attraverso l’onere della notifica previsto dall’art. 299, comma
3, c.p.p., è quello di offrire alle vittime uno strumento per comunicare elementi di conoscenza ulteriori–
che solo un pregresso rapporto diretto tra vittima e aggressore può presumibilmente consentire di avere – al fine di scongiurare il pericolo di recidivazione dalla richiesta modifica di misura. Secondo questo
orientamento la maggior tutela accordata indiscriminatamente a tutte le vittime di reati con violenza
alla persona appare ridursi ad un mero formalismo, in quanto alla vittima occasionale non può derivare
ragionevolmente alcun pregiudizio dalla circostanza che all’imputato sia revocata o modificata l’originaria misura cautelare. Peraltro l’interpretazione restrittiva consente di contemperare l’esigenza di
tutela delle persone offese con l’esigenza di non rendere eccessivamente gravoso, senza un’effettiva ragione giustificativa, il diritto di difesa che si estrinseca non solo con le istanza di revoca o di sostituzio-
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ne delle misure in atto ma anche con le istanze volte a modificare le modalità di applicazione delle medesime. Conseguentemente il riferimento ai delitti commessi “con violenza” deve intendersi limitato
alle fattispecie in cui la condotta violenta si caratterizza per l’esistenza di un pregresso rapporto relazionale tra autore e vittima del reato (Cass., sez. II, 14 ottobre 2015, n. 43353).
Nella pronuncia in esame si offre invece una diversa lettura, sottolineando che nella individuazione
della tipologia dei delitti che definiscono l’area di coinvolgimento della vittima nell’evoluzione delle
misure cautelari, rilevano le concrete modalità commissive della condotta, che devono essere connotate
da “violenza alla persona”: a prescindere dall’inquadramento sistematico formale dei delitti e dal bene
giuridico protetto dalla norma incriminatrice, occorre mettere in rilievo l’effettiva manifestazione nella
condotta di atti di violenza in danno alla persona offesa. Non essendo richiesta, né richiamata implicitamente o esplicitamente dalla norma una relazione personale– affettiva tra autore e vittima del reato,
questa giurisprudenza ritiene che l’obbligo di preventiva notifica alla persona offesa sorga indipendentemente da un pregresso legame relazionale tra autore e vittima, cosicché l’art. 299, comma 3, c.p.p. trova applicazione anche nei casi di c.d. violenza occasionale (Cass., sez. I, 11 aprile 2016, n. 14831).
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Declaratoria di prescrizione e impugnazione della parte civile
al vaglio della Suprema Corte
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE IV, SENTENZA 19 GENNAIO 2016, N. 3789 – PRES. IZZO; REL. PICCIALLI
Laddove non contesti la già intervenuta prescrizione del reato, la parte civile non è legittimata ad impugnare la
sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’improcedibilità dell’azione penale per estinzione del reato. Ove, invece, contesti la già intervenuta prescrizione, la parte civile è in ogni caso priva di interesse all’impugnazione trattandosi di deliberazione che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., non pregiudica in alcun modo l’utile esercizio dell’azione
civile nella sede propria (nella fattispecie, in tema di lesioni personali colpose, la S.C. ha rigettato il ricorso della
parte civile avverso la sentenza di appello che aveva confermato la sentenza di primo grado con cui era stata dichiarata la prescrizione del reato).
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
La parte civile […] ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che ha confermato quella di primo
grado, di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di G. S., chiamato a rispondere di lesioni personali colpose ex art. 590 c.p. in danno della stessa.
Il giudice di appello, sulla doglianza proposta dalla parte civile di omessa pronuncia sulle statuizioni civili da parte del giudice di primo grado, affermava che ai sensi dell’art. 578 c.p.p. l’obbligo di pronunciarsi sugli effetti civili nel caso di estinzione del reato per prescrizione è previsto dal legislatore soltanto per il giudice di appello e la Corte di cassazione, limitatamente ai casi in cui la prescrizione sia intervenuta dopo la sentenza di condanna in primo grado dell’imputato alle restituzioni od al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Con tre motivi, strettamente connessi, la ricorrente lamenta che il giudicante, travisando i ben distinti ambiti di applicazione degli artt. 576 e 578 c.p.p., non si sia pronunciato sui capi civili. Si deduce, in
particolare, che la norma posta a fondamento dell’atto di appello era l’art. 576 c.p.p., secondo la quale la
parte civile può impugnare le sentenze di proscioglimento (quindi, anche quelle di prescrizione), sia
pure ai soli effetti civili. Lamenta altresì la violazione dell’art. 573 c.p.p. per avere il giudicante omesso
di prendere in considerazione le conclusioni del rappresentante della pubblica accusa che aveva chiesto
la condanna dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato
Il giudice di appello ha rigettato l’impugnazione proposta dalla parte civile richiamando l’art. 578
c.p.p., secondo il quale l’obbligo di pronunciarsi sugli effetti civili nel caso di estinzione del reato per
prescrizione è previsto dal legislatore soltanto per il giudice di appello e la Corte di cassazione, limitatamente ai casi in cui la prescrizione sia intervenuta dopo la sentenza di condanna in primo grado
dell’imputato alle restituzioni od al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Come è noto, la norma citata, evocata dal giudicante – che costituisce deroga al principio che il giudice penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga a una dichiarazione di responsabilità penale – ha inteso tener ferme le disposizioni dei capi della sentenza che concernono l’azione civile nei soli casi in cui, in primo grado (o in secondo grado se ci riferisca al giudizio
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | DECLARATORIA DI PRESCRIZIONE E IMPUGNAZIONE DELLA PARTE CIVILE AL VAGLIO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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di legittimità), sia sta pronunciata sentenza di condanna: ciò che trova il suo fondamento nella considerazione che il legislatore ha voluto far permanere la sentenza di condanna su restituzioni e risarcimento
solo nel caso di un duplice controllo giurisdizionale positivo sulla responsabilità penale dell’imputato.
L’art. 578 c.p.p. si riferisce, pertanto, al caso in cui l’impugnazione sia dell’imputato o del p.m. e solo
in questa ipotesi richiede che, in presenza di una declaratoria di amnistia o di prescrizione, per decidere
agli effetti civili, vi debba essere stata in precedenza una valida pronuncia di condanna alla restituzione
o al risarcimento.
Detto altrimenti: il presupposto per applicare l’art. 578 c.p.p. è costituito dalla pronuncia di una sentenza di condanna nei confronti dell’imputato, e mira, nonostante la declaratoria di prescrizione, a
mantenere, in assenza di un’impugnazione della parte civile, la cognizione del giudice dell’impugnazione sulle disposizioni e sul capo della sentenza del precedente grado che concerne gli interessi civili.
In questa prospettiva è evidente l’inapplicabilità al caso in esame dell’art. 578 c.p.p., come sostenuto
dalla ricorrente, giacché la sentenza di primo grado non è stata di condanna e l’appello è stato proposto
solo dalla parte civile.
L’art. 576 c.p.p., richiamato dalla parte civile, disciplina, invece, una situazione diversa, laddove la
norma citata riconosce alla parte civile il diritto ad una decisione sul merito della propria domanda e
conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento ed alle restituzioni.
Va, però, precisato che secondo la giurisprudenza prevalente di questa Corte (v. Cass., sez. un., 11
luglio 2006, n. 25083, e, da ultimo, Cass., sez. VI, 21 marzo 2013, n. 19540), condivisa dal Collegio, deve
escludersi, nell’ipotesi che la prescrizione preesista alla sentenza di primo grado, che il giudice della
impugnazione, pure adito ai sensi dell’art. 576 c.p.p., possa provvedere, sia pure ai limitati effetti civili,
ostandovi il chiaro disposto dell’art. 538, comma 1, c.p.p. secondo il quale il giudice decide sulla domanda di restituzione o risarcimento solo quando pronuncia sentenza di condanna.
Tale conclusione è fondata sulla condivisibile considerazione che l’art. 538 c.p.p. non potrebbe essere
derogato dall’art. 576 c.p.p., perché principio generale del sistema processuale è che il giudice dell’impugnazione non può esercitare poteri che il giudice di prime cure non avrebbe potuto esercitare.
In sostanza, l’assunto è che poiché l’art. 538, comma 1, c.p.p. impedisce al giudice di primo grado di
deliberare sulla domanda civile al di fuori dei casi di condanna (e quindi certamente non quando attesta la già intervenuta prescrizione del reato), del tutto asistematica sarebbe la previsione che un tal potere di deliberazione fosse invece riconosciuto al giudice dell’impugnazione.
La decisione di segno diverso (v. Cass., sez. V, 27 ottobre 2010, n. 3670) secondo la quale l’art. 576
c.p.p., attribuisce al giudice penale dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda di risarcimento, ancorché in mancanza di una precedente statuizione sul punto, in quanto costituisce deroga
all’art. 538 c.p.p., in realtà non affronta il tema della sussistenza dell’interesse della parte civile all’impugnazione ex art. 576 c.p.p.
Il principio affermato dalla sentenza n. 19540 del 2013 è applicabile al caso in esame in cui la sentenza di primo grado aveva deliberato l’improcedibilità dell’azione penale perché il reato ascritto
all’imputato era già estinto per prescrizione e tale decisione non è stata oggetto di contestazione dalla
parte civile, che ha lamentato esclusivamente l’omessa pronuncia sulle statuizioni civili.
Alla stessa conclusione si perviene, come evidenziato dalla richiamata sentenza, alla luce dell’art.
652 c.p.p., che disciplina l’efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno.
Come affermato dalle Sezioni unite civili, con la sentenza n. 1768 del 2011, la disposizione di cui
all’art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 c.p.p.) costituisce un’eccezione al principio
dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, in quanto tale soggetta ad un’interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti.
Ne consegue che la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che
il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima) pronunciata a seguito di dibattimento ha
effetto di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno,
mentre alle sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia
non va riconosciuta alcuna efficacia extrapenale, benché, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto.
Tale principio di diritto ha trovato conferma nella recente sentenza delle Sezioni unite penali di que-
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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sta Corte (v. Cass., sentenza 21 giugno 2012, n. 35599), in cui, sia pure con riferimento ad una fattispecie
in tema di improcedibilità per difetto di valida querela, è stato affermato che la parte civile è priva di
interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato per improcedibilità dell’azione penale dovuta a difetto di querela, trattandosi di pronuncia penale meramente processuale priva di idoneità ad arrecare vantaggio al proponente ai fini dell’azione civilistica.
La sentenza sopra indicata ha, in particolare, sottolineato che l’interesse della parte civile all’impugnazione deve essere apprezzabile non solo in termini di attualità ma anche di concretezza e deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare. L’interesse sussiste, pertanto,
solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione del contesto pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa rispetto a quella determinatasi con la pronuncia giudiziale.
In conclusione, l’impugnazione per essere ammissibile, deve tendere all’eliminazione della lesione
concreta di un diritto o di un interesse giuridico del proponente l’impugnazione. Situazione non configurabile nel caso in esame in cui, per quanto sopra esposto, va esclusa l’efficacia extrapenale delle sentenze che dichiarano estinto il reato per prescrizione.
Può, pertanto, affermarsi il principio di diritto secondo il quale «ove non contesti la già intervenuta prescrizione del reato, la parte civile non è legittimata alla impugnazione di sentenza di primo grado che abbia deliberato l’improcedibilità dell’azione penale».
Appare, peraltro, opportuno precisare che ove, invece, contesti la già intervenuta prescrizione, la
parte civile è in ogni caso priva di interesse all’impugnazione trattandosi di deliberazione che ai sensi
dell’art. 652 c.p.p. non pregiudica in alcun modo l’utile esercizio dell’azione civile nella sede propria.
Anche l’ultimo motivo è infondato.
Non è configurabile la violazione dell’art. 573 c.p.p., giacché l’appello è stato introdotto dall’impugnazione della parte civile ai sensi dell’art. 576, comma 1, c.p.p. prima parte e trattato con le forme ordinarie del processo penale, con la partecipazione e le conclusioni della parte pubblica.
Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | DECLARATORIA DI PRESCRIZIONE E IMPUGNAZIONE DELLA PARTE CIVILE AL VAGLIO
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GASPARE DALIA
Ricercatore di Procedura penale – Università degli studi di Salerno
La legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza
di proscioglimento per intervenuta prescrizione: auspicabile
un intervento delle Sezioni Unite?
The right of appeal by the civil party of a sentence which has declared the extinction of the crime: is necessary an intervention by
the United Sections of the S.C.?
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte di cassazione, partendo dal distinguo tra legittimazione e interesse alla proposizione di impugnazione della parte civile avverso una sentenza dichiarativa di prescrizione del reato resa già in primo grado, pone forti limiti alle pretese risarcitorie della vittima del reato in presenza di un proscioglimento in rito, creando un apparente contrasto giurisprudenziale per la cui risoluzione si dovrà tener conto, peraltro, del recepimento nel nostro ordinamento della direttiva 2012/29/UE.
With the judgment in question, starting from the distinction between legitimacy and interest of the civil party to
appeal a sentence which had declared the extinction of the crime, the Supreme Court of Cassation puts strong
limits to claims for compensation of crime victims in case of a ritual acquittal, creating an apparent conflict of case
law for the resolution of which it must take into consideration, however, the transposition of directive
2012/29/EU.
DISCIPLINA DELLE IMPUGNAZIONI E DIVERSIFICAZIONE DEI POTERI DI CENSURA
La sentenza in commento 1 si inserisce nell’ambito di un nutrito novero di pronunce con cui la Suprema
Corte ha preso posizione sulla controversa questione dell’impugnabilità – per mano della costituita parte civile – della sentenza di proscioglimento resa dal giudice di prime cure a cagione della estinzione del
reato per intervenuta prescrizione 2.
Com’è noto, la disciplina delle impugnazioni contenuta nel libro IX del codice di procedura penale si
sostanzia in un sistema differenziato del potere di doglianza in capo alle diverse parti 3. Per quanto qui
d’interesse, occorrerà aver riguardo alla previsione dell’art. 572 c.p.p. che, attribuendo alla parte civile
(come pure alla persona offesa e agli enti e alle associazioni intervenuti a norma degli artt. 93 e 94
c.p.p.) il mero potere di sollecitazione del pubblico ministero affinché questi proponga appello agli effetti penali 4, ne delimita in negativo la legittimazione ad impugnare, circoscrivendola all’impugnazione
1
Cass., sez. un., 19 gennaio 2016, n. 3789, in CED Cass., n. 265741.
2
Ex plurimis Cass., sez. II, 6 novembre 2009, n. 47356, in CED Cass., n. 246795; Cass., sez. VI, 21 marzo 2013, n. 19540, in CED
Cass., n. 255668; Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 35599, in Cass. pen., 2013, p. 919.
3
Sottolineano l’evidente disequilibrio tra i poteri di impugnazione delle diverse parti M.G. Aimonetto, Disfunzioni ed incongruenze in tema di impugnazione della parte civile, in M. Bargis-F. Caprioli (a cura di), Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di
riforma del 2006, Torino, 2007, p. 155; G. Frigo, Una parità che consolida disuguaglianze, in Guida dir., 2007, p. 90; E. Marzaduri, Sistema da riscrivere dopo ampie riflessioni, ivi, p. 86; A. Scalfati, Restituito il potere di impugnazione senza un riequilibrio complessivo, ivi,
p. 80.
4
Sulla richiesta motivata inoltratagli, poi, l’ufficio del pubblico ministero è tenuto a interloquire – ove ritenga di non dover
proporre appello – con un decreto motivato che dia conto delle ragioni della decisione assunta. Sul punto si veda A. Anceschi,
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ai soli effetti civili 5. Sul punto, infatti, è esplicito l’art. 576 c.p.p. nel prevedere che la parte civile «può
proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio» 6.
Ebbene, il problema che viene in rilievo nella sentenza in commento attiene proprio a tale ultima locuzione, e cioè all’ampiezza del potere di appello della parte civile in presenza di una sentenza di proscioglimento 7. Giova precisare, in effetti, come il nostro ordinamento processuale distingua, con riguardo alle sentenze diverse da quella di condanna, pronunciamenti di proscioglimento e di assoluzione. Il primo concetto può essere ritenuto di genus, giacché esso ricomprende sia le decisioni di merito
(che, per l’appunto, sono dette “di assoluzione”), sia quelle di mero rito (proscioglimento con declaratoria di non doversi procedere).
La questione che qui ci occupa attiene alla seconda delle richiamate figure e, più precisamente, ad
una decisione ex art. 531, comma 1, c.p.p., in virtù dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
LA QUESTIONE DEVOLUTA ALLA CORTE DI CASSAZIONE
Il “nervo scoperto” è connesso alla difficoltà di fornire una risposta piana al quesito inerente all’impugnabilità di una tale pronuncia ad opera della parte civile 8.
Nella vicenda sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, il ricorrente si doleva del fatto che il
giudice dell’appello – nel confermare la sentenza di primo grado dichiarativa dell’estinzione del reato
per prescrizione – avesse rigettato la richiesta di pronunciare sulle statuizioni civili, affermando che, ai
sensi dell’art. 578 c.p.p., l’obbligo di pronunciarsi sugli stessi nel caso di estinzione del reato per prescrizione risulti previsto dal legislatore limitatamente ai casi in cui la prescrizione sia intervenuta dopo
la sentenza di condanna in primo grado dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
In sede di ricorso per cassazione, alla ricostruzione de qua si contrapponeva essenzialmente l’assunto
per il quale l’art. 576 c.p.p. attribuisce alla parte civile la facoltà di impugnare, sia pure ai soli effetti civili, le sentenze di proscioglimento, dunque evidentemente anche quelle dichiarative di prescrizione.
L’ITER ARGOMENTATIVO DEL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ E LA SOLUZIONE INDIVIDUATA
La Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso infondato, muove dal presupposto che il giudice a quo ha
correttamente individuato nell’art. 578 c.p.p. la norma conferente per la risoluzione del dilemma.
Si puntualizza, infatti, che tale disposizione costituisce deroga al principio generale per il quale il
L’azione civile nel processo penale, Milano, 2012, p. 368; M. Bargis, Impugnazioni, in AA. VV., Compendio di procedura penale, Padova,
2014, p. 793.
5
Una previsione peculiare è prevista per la persona offesa che abbia chiesto la citazione a giudizio dell’imputato giacché essa può impugnare anche agli effetti penali la sentenza di proscioglimento emessa dal giudice di pace negli stessi casi in cui è
ammessa l’impugnazione del magistrato del pubblico ministero (art. 38 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274). Così, M. Bargis, Impugnazioni, in G. Giostra-G. Illuminati (a cura di), Il giudice di pace nella giurisdizione penale, Torino, 2001, p. 313; F. Brizzi, Il procedimento
davanti al Giudice penale, in Arch. pen., 2014, p. 3; L. Randazzo-E. Randazzo, Il procedimento davanti al giudice di pace, Milano, 2013,
p. 35.
6
Peraltro, va sottolineato che la disposizione, nella sua formulazione originaria, prevedeva una ulteriore limitazione giacché
si puntualizzava come l’impugnazione della p.c. dovesse realizzarsi «con il mezzo previsto per il pubblico ministero». La previsione,
infatti, era interpretata nel senso che l’appello dell’una e dell’altra parte incontrava gli stessi limiti, sicché sulla parte civile si
ripercuoteva l’inappellabilità operante con riguardo al pubblico ministero, compromettendosi la possibilità di far valere la pretesa risarcitoria in grado d’appello. La previsione è stata poi abrogata dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge 20 febbraio 2006,
n. 46 che, com’è noto, circoscriveva drasticamente le facoltà d’impugnazione del pubblico ministero e che, quindi, avrebbe determinato parimenti un sicuro depauperamento delle facoltà di interporre gravame ex latere della parte civile. Cfr., C. cost., ord.
20 giugno 2008, n. 226, in Giur. cost., 2008, p. 2545; C. cost., ord. 18 gennaio 2008, n. 3, in Cass. pen., 2008, p. 2822, con nota di V.
Maffeo, Sentenze di proscioglimento e appello della parte civile: una questione di costituzionalità che potrebbe riproporsi ed in Dir. pen.
proc., 2008, p. 287, con nota di G. Di Chiara, Legge Pecorella e appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento dell’imputato.
7
Sul punto P. Gaeta-A. Macchia, L’appello, in G. Spangher (diretto da), Trattato di procedura penale, Torino, 2009, V, p. 461.
8
A. Scalfati, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, in Guida dir., 2006, p. 60.
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giudice penale può statuire sulle domande civili solo fin tanto che ritenga di pervenire ad una pronuncia di condanna 9. In via eccezionale, dunque, si consente al giudice di sindacare le statuizioni civili per
il caso in cui vi sia stato nel grado precedente (primo grado, in caso di appello; secondo grado, in caso
di giudizio di legittimità) riconoscimento della penale responsabilità dell’imputato. In sostanza, solo allorquando sia intervenuto «un duplice controllo giurisdizionale positivo» sulla colpevolezza, il legislatore
stima opportuno, pur in presenza di una causa di estinzione del reato, far salva la condanna civilistica.
L’ipotesi in questione, quindi, è quella dell’appello agli effetti penali proposto dall’imputato (o anche, nei casi previsti, dalla parte pubblica 10) contro una sentenza di condanna e in ordine al quale, in
corso di giudizio, sopravvenga un motivo – tra quelli menzionati dalla disposizione 11 – che imponga il
proscioglimento di rito: ebbene, in questo caso (e solo in questo caso) il giudice del gravame non perde
del tutto il potere sindacatorio sul merito, sopravvivendo lo stesso – per esigenze di giustizia sociale e
di economia processuale – per quanto attiene alle domande civili.
Si badi, però, al dato per cui questa “estensione” del sindacato giurisdizionale del giudice penale
non solo non presuppone, ma addirittura esclude l’impugnazione della parte civile, giacché si fonda su
uno sviluppo processuale che abbia visto le pretese della stessa già soddisfatte in primo grado.
Del tutto diverso, invece, è il caso disciplinato dall’art. 576 c.p.p. 12, ove si muove dal caso speculare,
vale a dire quello in cui vi sia stata una doglianza della parte civile rispetto alla propria domanda, sicché si conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento e alle
restituzioni.
Nella pronuncia in commento, poi, la Corte si conforma a precedenti arresti 13 nel ritenere che l’art.
578 c.p.p. non possa essere invocato dalla parte che interpone gravame allorché la prescrizione sia già
stata dichiarata, dovendo inerire solo i casi in cui – come si diceva – essa costituisca un factum superveniens tra il momento della pronuncia della sentenza (di condanna) del grado precedente e quella (che in
forza di essa sarà di proscioglimento) del grado successivo.
Osterebbe a una ricostruzione diversa il dettato dell’art. 538, comma 1, c.p.p., ai sensi del quale è solo sulla scorta di una sentenza di condanna che può esservi pronuncia sulle statuizioni civili; se, invece,
si consentisse al giudice del gravame di interloquire sulle doglianze della parte civile, chiaramente questi dovrebbe intervenire su di una pronuncia di proscioglimento.
9
Lo si ricava agevolmente dal disposto dell’art. 538 c.p.p., a mente del quale «quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice
decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno [c.p. 185-187], proposta a norma degli articoli 74 e seguenti». Cfr.,
Cass. civ., sez. II, 21 giugno 2010, n. 14921, in www.filodiritto.com.
10
Il riferimento, com’è noto, è all’art. 593 c.p.p. e alle note vicende che lo hanno interessato a seguito dell’intervento della l.
n. 46 del 2006 successivamente a più riprese tacciata di incostituzionalità dal Giudice delle leggi. In specie, la Corte costituzionale, con sent. 24 gennaio-6 febbraio 2007, n. 26, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 1 della citata legge nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione
per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva, nonché dell’art. 10, comma 2,
della stessa legge nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile. La stessa Corte, poi, con sentenza 31
marzo-4 aprile 2008, n. 85, ha dichiarato ancora l’illegittimità dell’art. 1 della l. n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l’art.
593 c.p.p., esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva, e ancora – ut supra – del comma 2 dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006. Si v. C. cost.,
24 gennaio 2007, n. 26, in Giur. cost., 2007, p. 221, con osservazioni A. Bargi – A. Gaito, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria (a proposito della funzione del p.m. nelle impugnazioni penali) e F. Caprioli, Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e “parità delle armi” nel processo penale. In argomento, P. Ferrua, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e del diritto al “riesame” dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2007, p. 611.
11
Si ritiene, infatti, che non un qualsivoglia motivo di rito valga ad integrare l’istituto de quo, ma solamente la declaratoria di
estinzione del reato per amnistia o prescrizione.
12
È noto peraltro come la legge n. 46 del 2006 abbia eliminato l’inciso «con il mezzo del pubblico ministero» proprio per disancorare il potere d’impugnazione della parte civile da quello della parte pubblica. In questo senso, E. Randazzo, Un testo in armonia con il giusto processo che ristabiliva i principi di civiltà giuridica, in Guida dir., 2006, 5, p. 13; in senso critico, invece, G. Frigo, È
irrealistico ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali “necessarie”, in Guida dir., 2006, 19, p. 90. In generale, per
quanto attiene alle modifiche legislative intervenute sull’art. 576 c.p.p., si veda M. Gialuz, sub art. 576 c.p.p., in A. Giarda-G.
Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, IV, Milano, 2010, p. 7065.
13
Cass., sez. un., 11 luglio 2006, n. 25083, in Arch. n. proc. pen., 2006, p. 635.; Cass., sez. VI, 21 marzo 2013, n. 19540, in CED
Cass., n. 255668.
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Ad probationem viene invocato l’argomento per cui costituisce principio generale del sistema processuale quello per il quale il giudice dell’impugnazione non può esercitare poteri che il giudice di prime
cure non avrebbe potuto esercitare, sicché è chiaro che l’art. 576 c.p.p. non può costituire deroga a quanto disposto dall’art. 538, comma 1, c.p.p. perché, se quest’ultimo inibisce al giudice penale di conoscere
della fondatezza delle pretese civili al di fuori dei casi di condanna, «del tutto asistematica sarebbe la previsione che un tal potere di deliberazione fosse invece riconosciuto al giudice dell’impugnazione».
Pure si aggiunge che, in un’ipotesi quale quella di specie, ove la parte civile impugnasse nel merito
la declaratoria di prescrizione, contestandone, ad esempio, la maturazione, difetterebbe comunque
l’interesse a dolersi del mancato riconoscimento della responsabilità penale (ai fini civili), giacché le
pronunce di mero rito non dispiegano effetti nei giudizi extrapenali.
L’art. 652 c.p.p., infatti, così come ha avuto cura di precisare la Cassazione a sezioni unite 14, costituisce norma derogatoria al principio di autonomia della giurisdizione civile rispetto a quella penale, sicché è chiaro che essa dovrà esser interpretata in senso restrittivo e che, quindi, occorre circoscrivere
l’efficacia ultra fines del giudicato penale ai soli casi di pronuncia assolutoria relativi all’insussistenza
del fatto, alla mancata commissione dello stesso da parte dell’imputato o, ancora, alla commissione dello stesso in presenza di una causa di giustificazione.
Per contro, il giudicato basato sull’intervenuta prescrizione non dispiega effetti aliunde, sicché, anche
a seguito di essa, ben potrà la costituita parte civile instare per le sue ragioni dinanzi al giudice civile.
Tale percorso logico-argomentativo vale a sorreggere la conclusione secondo cui, se da un lato non è
ammissibile – per carenza di legittimazione – l’impugnazione della parte civile che non contesti
l’intervenuta prescrizione del reato (ove la stessa rappresenti solo il presupposto dell’impugnazione ex
artt. 576-578 c.p.p., considerato come non v’è ex se alcun pregiudizio derivante da una sentenza di proscioglimento ex art. 531 c.p.p.), parimenti è a dirsi ove ci si dolga nel merito della dichiarazione di estinzione del reato, giacché anche in questa ipotesi la stessa «è priva di interesse all’impugnazione trattandosi di
deliberazione che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., non pregiudica in alcun modo l’utile esercizio dell’azione civile nella
sede propria» 15.
PROFILI DI CRITICITÀ RICOSTRUTTIVA E CONTRASTO CON PRECEDENTI ARRESTI
La pronuncia in commento si scontra – nonostante un tentativo di accomodamento approntato en passant dalla Suprema Corte – con un diverso approccio ermeneutico che aveva trovato accoglimento in
talune decisioni dei Giudici di legittimità 16, che muovono dal presupposto che la disposizione di cui
all’art. 576 c.p.p., attribuendo alla parte civile il potere di impugnare le sentenze di proscioglimento, attribuisce al giudice penale dell’impugnazione il potere/dovere di decidere sulla domanda di risarcimento, ancorché in mancanza di una precedente statuizione sul punto. Ebbene, per tali vie si introdurrebbe una deroga all’art. 538 c.p.p., legittimando la parte civile «[…] a chiedere al giudice dell’impugnazione, ai fini dell’accoglimento della propria domanda di risarcimento, di affermare, sia pure incidentalmente, la
responsabilità penale dell’imputato ai soli effetti civili, statuendo in modo difforme, rispetto al precedente giudizio,
sul medesimo fatto oggetto dell’imputazione e sulla sua attribuzione al soggetto prosciolto».
Non devono sfuggire le implicazioni derivanti da un tale approccio.
14
Con una peculiare convergenza, sia in sede civile (Cass. civ., sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768, in CED Cass., n. 616366),
che in sede penale (Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 35599, in CED Cass., n. 253242).
15
In tal senso, si segnala su tutte Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 35599, in Cass. pen., 2013, p. 919, con nota di Spagnuolo, La
parte civile non ha interesse ad impugnare la sentenza di proscioglimento per difetto di querela, ove è stato affermato il principio di diritto per cui «la parte civile è priva di interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato per improcedibilità dell’azione penale dovuta a difetto di querela, trattandosi di pronuncia penale meramente processuale priva di idoneità ad arrecare vantaggio al proponente ai fini dell’azione civilistica». Cfr. G. Lattanzi-E. Lupo, Codice di Procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e
dottrina, Milano, 2013, VII, p. 106.
16
Ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 27 ottobre 2010, n. 3670, in CED Cass., n. 249698; Cass., sez. II, 14 giugno 2013, n. 40069, in
CED Cass., n. 256356; Cass., sez. II, 28 novembre 2012, n. 7041, in Dir. e giustizia online, 22 febbraio 2013, per le quali deve essere
consentito alla parte civile di impugnare la sentenza con la quale il primo giudice ha dichiarato erroneamente la prescrizione del
reato. Allo stesso modo, va riconosciuto al giudice di appello, che rilevi l’erroneità della declaratoria per prescrizione pronunziata in primo grado, sia pur ai soli fini civilistici, di entrare nel merito dell’imputazione e, quindi, ove la ritenga fondata, pronunziarsi sulla domanda proposta dalla parte civile.
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Qui si sovverte, invero, l’assetto ermeneutico delineato dalla sentenza in commento, poiché questa –
per dimostrare la carenza di legittimazione, prima, e di interesse, poi, ad impugnare le sentenze di proscioglimento dichiarative di prescrizione – si fonda a livello sistematico sull’assunto per il quale l’art.
538 c.p.p. stabilisce il principio per il quale la decisione sulle questioni civili segue sempre – e, quindi,
presuppone – la pronuncia di una sentenza di condanna.
L’argomentazione pare piuttosto discutibile, in quanto non in linea con lo spirito – se non addirittura la lettera – del disposto di cui all’art. 576 c.p.p. La previsione, infatti, nella parte in cui attribuisce alla
parte civile il potere d’impugnazione contro le sentenze di proscioglimento, necessariamente contempla
il caso in cui una decisione sulla domanda risarcitoria e/o restitutoria non vi sia stata, ma vi sarebbe
dovuta essere. In specie, ove la parte civile contesti la correttezza del proscioglimento per prescrizione,
al giudice dell’appello saranno devoluti tutti i poteri sindacatori (sia pure ai soli effetti civili) attribuiti a
quello di primo grado, sicché ben potrà egli pervenire ad una sentenza di condanna civile ove ritenga
erroneamente dichiarata la prescrizione in prime cure. Non osta certo a ciò l’art. 538 c.p.p., atteso che, se
è condivisibile quanto afferma la Corte ove sostiene che il giudice dell’impugnazione non può esercitare poteri che non spettavano al giudice a quo, è pure chiaro che il giudice dell’impugnazione può (e deve), del pari, esercitare – ove vi sia petitum – tutti i poteri attribuiti a quello contro la cui decisione
s’interpone gravame 17.
Si dirà che la pronuncia in commento distingueva in maniera puntuale tra legittimazione ad impugnare ed interesse ad impugnare. La legittimazione ad impugnare verrebbe in questione – in termini di
carenza – ove la parte civile non contesti la correttezza della prescrizione dichiarata a vantaggio dell’imputato, di modo che, certamente, il giudice dell’appello in questo caso non potrà pronunciare sulla
pretesta civilistica, ostando a ciò il dettato di cui all’art. 538 c.p.p. 18
Il vero punctum dolens della ricostruzione proposta, tuttavia, si rinviene nella posizione assunta con
riguardo all’asserito difetto di interesse della parte civile anche allorché sia contestata la correttezza della prescrizione.
Affermare che, quando la parte civile deduca una doglianza di merito rispetto alla sentenza di proscioglimento in rito, risulti titolata ma non interessata alla pronuncia di riforma del giudice ad quem comporterebbe una vera e propria caducazione parziale dell’art. 576 c.p.p. In effetti, stando all’orientamento
in questione, dovrebbe concludersi che, nonostante questo legittimi la parte civile ad impugnare anche
contro le pronunce di rito, contemporaneamente esista una presunzione iuris et de iure di carenza di interesse della stessa.
Ci troveremmo, quindi, di fronte ad una “ipocrisia” legislativa che, da un lato, introduce l’impugnazione della parte civile, dall’altro, la sterilizza.
Insomma, si giungerebbe ad affermare che, sebbene l’art. 576 c.p.p. si riferisce testualmente alle sentenze di proscioglimento (quindi, anche a quelle di mero rito), esso concettualmente inerisce solamente
alle pronunce di assoluzione, poiché solo rispetto ad esse risulta possibile un rimedio impugnatorio effettivo 19.
A parte le criticità, per così dire, sistematiche derivanti dalla decodificazione di un art. 576 c.p.p.
“monco”, le soluzioni cui perviene la Suprema Corte non convincono del tutto, anche perché viziate in
premessa da una sorta di “petizione di principio” di dubbio pregio ricostruttivo.
In effetti, come anticipato, il Collegio cerca un raccordo con altro precedente (la sentenza n. 3670 del
17
Sulle impugnazioni, si veda A. Dalia-M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 2016, p. 821 ss.
18
Sulla correttezza della funzione “preclusiva” dell’art. 538 c.p.p, del resto, approccio di segno contrario è espresso in altro
arresto del Giudice di legittimità ove si è sostenuto che «in materia di impugnazioni, la parte civile, anche dopo la l. n. 46 del 2006,
conserva il potere di impugnare le sentenze di proscioglimento ed il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto ed agli effetti della
devoluzione, i poteri che avrebbe dovuto esercitare il giudice che ha prosciolto, sicché qualora il giudice di appello ritenga che il giudice di
primo grado abbia errato nel dichiarare la prescrizione, deve statuire, ai soli fini civili, prima nel merito e, poi, sulle domande civili,
quand’anche dovesse nuovamente dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione nel frattempo sopravvenuta» (Cass., sez. II, 28 novembre 2012, cit.).
19
In fin dei conti, anche se il ragionamento qui proposto riguarda il proscioglimento in rito per prescrizione, esso si adeguerebbe bene anche al difetto di condizione di procedibilità. Tant’è che, in una fattispecie in cui la sentenza impugnata aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato e confermato la condanna per il risarcimento dei danni in favore della parte civile, si è
sostenuto che «la remissione di querela, intervenuta nel corso del giudizio di cassazione, determina l’estinzione del reato per tale causa, anche in presenza di eventuali cause di inammissibilità del ricorso, travolgendo le statuizioni civili collegate ai reati estinti» (così, Cass., sez.
II, 8 luglio 2014, n. 37688, in CED Cass., n. 259989).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA LEGITTIMAZIONE DELLA PARTE CIVILE AD IMPUGNARE LA SENTENZA
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2011), affermando che ivi non si fosse preso in considerazione il profilo della sussistenza dell’interesse
della parte civile, ma solamente quello della legittimazione. Tuttavia, la tesi con la quale si afferma che
non sussiste un interesse della parte civile ad “insistere” nelle sue pretese dinanzi alla giurisdizione penale allorché non trovi operatività l’art. 652 c.p.p. appare del tutto sbrigativa.
E, invero, anche nei casi in cui il giudicato penale non determini automaticamente effetti preclusivi
in sede civile, non può comunque ritenersi irrilevante la scelta nel senso della costituzione di parte civile operata dalla persona offesa che vanti pretese risarcitorie e/o restitutorie, e ciò per una pluralità di
ragioni, sia di carattere sistematico che di ordine pratico.
Se il legislatore ha consentito di far valere all’interno del processo penale – con le forme e le garanzie
che questo attribuisce – anche pretese di natura civilistica 20, significa che a tale scelta è stato attribuito
un certo valore che, in assenza di indici normativi espliciti di segno contrario, non pare possa essere
annullato da una lettura giurisprudenziale ultra-restrittiva quale quella in commento 21.
Se ciò vale in ordine al piano teoretico e sistematico, non mancano poi criticità di ordine squisitamente pratico. In primo luogo, non può che dubitarsi del fatto che il mutamento di giurisdizione sia
equivalente per la persona offesa, giacché esso la costringerebbe – anche volendoci limitare solo al piano meramente materiale – a instaurare ex novo un giudizio dinanzi ad altro organo (rectius, giurisdizione), con tutti gli aggravi che ne derivano in termini di adempimenti richiesti dal codice di rito civile.
Transitare dinanzi al giudice civile implica, inoltre, il mutamento dell’onere della prova, insorgendo
l’onus probandi incumbit ei qui dicit nonostante il recupero dei verbali di prova formatisi nel giudizio penale.
Tra l’altro, non può tacersi un sospetto di legittimità costituzionale che si appunta alla lettura proposta, giacché essa potrebbe anche porsi in conflitto con l’art. 25 Cost. rispetto all’inviolabile diritto a non
essere distolti dal giudice naturale e precostituito per legge 22, risultando chiaro come, nel caso di specie, la scelta dell’organo sarebbe condizionata irrimediabilmente dalle contingenze processuali: ove la
parte pubblica interponesse gravame, allora le doglianze della parte civile si radicherebbero dinanzi al
giudice dell’impugnazione penale; al contrario, laddove non vi fosse appello o ricorso del pubblico ministero, ecco che le pretese risarcitorie/restitutorie – espropriate della giurisdizione penale – sarebbero
“coattivamente” trasposte dinanzi al giudice civile, con l’aggravio di dover intraprendere ab initio un
nuovo percorso procedimentale.
LE IMPLICAZIONI PRATICHE CONSEGUENTI A TALE ORIENTAMENTO
Queste considerazioni, poi, si prestano ad essere ampliate in senso generale al fine di evidenziare un
ulteriore profilo di criticità.
Nella ricostruzione della sentenza in commento risulta chiaro come la parte civile sia, in ultima
istanza, in balìa delle decisioni del pubblico ministero 23: se questi decide di impugnare, il danneggiato
20
Su presupposti, forme e limiti della costituzione di parte civile si veda I. Iai, sub art. 74 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a
cura di), Codice di procedura penale commentato, IV, Milano, 2010, p. 911 ss.
21
Sulla dimensione sistematica da attribuirsi alla parte civile nel procedimento penale è insorto un aspro dibattito. Sul punto
si rimanda a D. Chinnici, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo, Torino, 2009, p. 60 ss.; M. Nofri, Nuovi spazi alla parte
civile nel giudizio d’appello, in Cass. pen., 2003, p. 1977; P. Nuzzo, Parte civile non impugnante e tutela delle pretese risarcitorie nella giurisprudenza di legittimità, in Arch. n. proc. pen., 2010, p. 672.
22
Sul significato di tale espressione, com’è noto, è insorta una vivace querelle tra coloro i quali la ritengono banalmente un
pleonasmo, coloro i quali parlano di endiadi e coloro i quali – come invero appare preferibile – ritengano che naturalità e precostituzione individuino ambiti semantici e concettuali differenti. Sul punto, cfr. AA. VV., Fisionomia costituzionale del processo penale, G. Dean (a cura di), Torino, 2007; R. De Liso, «Naturalità» e «precostituzione» del giudice nell’art. 25 della Costituzione, in Giur.
cost., 1969, p. 2671; E. Somma, «Naturalità» e «precostituzione» del giudice nel concetto di legge, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, p. 797.
23
È pur vero che il potere di condizionamento delle decisioni dell’ufficio del pubblico ministero è positivizzato in alcune fattispecie come quella delineata dall’art. 597, comma 2, lett. a) e b), c.p.p. di modo che l’impugnazione così proposta vincoli il giudice a statuire «sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno» anche ove la parte civile non abbia proposto appello,
ma non sfugge la differenza del caso indicato rispetto a quello in esame, giacché in questa ipotesi tale condizionamento opera
pro e non contro la parte civile. Sul punto, si vedano P. Nuzzo, Parte civile non impugnante, cit., p. 678; L. Algeri, L’impugnazione
della parte civile, Padova, 2014, p. 131 ss.; M. Nofri, Sul principio di immanenza della costituzione di parte civile, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 2001, p. 112 ss.; in senso critico A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile,
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA LEGITTIMAZIONE DELLA PARTE CIVILE AD IMPUGNARE LA SENTENZA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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potrà ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese; se questi, al contrario, presta acquiescenza alla
sentenza di proscioglimento, se ne fa derivare un automatico effetto estintivo dell’interesse ad insistere
dinanzi al giudice penale.
La soluzione genera più di qualche perplessità, atteso che sembra imporre una totale rilettura
dell’art. 572 c.p.p.: se l’ordinamento non attribuisce alcun interesse alla parte civile ad interloquire sui
profili penalistici del giudizio, consentendo alla stessa un mero potere di “impulso” alla parte pubblica
affinché essa – unica legittimata – proponga impugnazione, è chiaro che questo assunto non potrà più
valere ove dalla mancata impugnazione del pubblico ministero la parte civile dovesse patire un pregiudizio. In questo caso, infatti, del tutto inconferente si appaleserebbe il rimedio previsto dal 572 c.p.p.
per il caso in cui la parte pubblica non ritenesse di aderire alla “sollecitazione” della parte civile (ovverosia, la risposta con decreto motivato), giacché, trattandosi indubbiamente di una decisione che incide
su una situazione di diritto tutt’altro che irrilevante, dovrebbe ammettersi quantomeno il controllo di
legittimità sulla decisione assunta dall’ufficio del pubblico ministero.
Ecco che allora emerge chiaramente il corto-circuito che si determinerebbe in conseguenza dell’ossequio alle tesi esposte nella pronuncia in commento. Considerato che non pare oggettivamente sostenibile che la permanenza o il mutamento della giurisdizione siano del tutto indifferenti per la parte
pubblica, è evidente come, eliminando il potere della parte civile di appellare avverso le pronunce di
rito, dovrebbe specularmente ammettersi il potere di sindacare la legittimità della decisione dell’ufficio
del pubblico ministero che – non aderendo alla sollecitazione di appello agli effetti penali – determini la
“estinzione della giurisdizione penale ai fini civili”.
In ultima analisi, va aggiunto che la pronuncia in commento sembra sorretta essenzialmente da logiche di tipo “deflattivo”, che si sostanziano nel frapporre ostacoli alle pretese civilistiche nell’ambito di
un giudizio penale allorché siano intervenute ragioni che abbiano determinato la consumazione del potere repressivo dello Stato. Non si creda, però, che così facendo si perseguano finalità di economia processuale, dal momento che, come si è detto, non si farebbe altro che accrescere gli oneri (anche solo materiali) di cui è gravata la parte privata danneggiata dal reato. Anziché di economia processuale, dunque, dovrebbe forse parlarsi di economia dei giudizi penali, volendosi intendere con tale espressione il
mero “abbattimento” del numero di giudizi in essere dinanzi alla giurisdizione penale; che poi a tale
abbattimento corrisponda (probabilmente) un eguale incremento di quelli pendenti dinanzi alle corti
civili, nonché una generale diminuzione dell’efficienza della tutela degli interessi civili intaccati da un
reato, non è questione della quale la pronuncia in commento si fa particolare cruccio.
A margine, si segnala pure come l’approccio di cui si è fatta latrice la Suprema Corte nella pronuncia
in commento sembra pure porsi in conflitto con lo spirito della direttiva 2012/29/UE – di recente recepimento 24 – e in particolare con l’articolo 16 della stessa, laddove si esprime un chiaro favor per la difesa
degli interessi di cui è portatrice la vittima all’interno di un procedimento penale 25, tendente proprio a
rafforzare la tutela ad essa riconosciuta nell’ambito della giurisdizione penale. È chiaro, infatti, che la
direttiva in questione, al di là del puntuale dettato normativo, non può non incidere sulle opzioni ermeneutiche, imponendosi di privilegiare quelle che rinsaldano la posizione della vittima nel procedimento penale e non già quelle che la “diluiscono”.
In conclusione, stanti le plurime criticità di cui si è cercato di dar sommario conto e, soprattutto, una netta
contrapposizione tra le soluzioni cui sono pervenuti i giudici di legittimità nei loro arresti, appare quanto
mai auspicabile che sul punto intervengano, ci si augura in maniera “illuminata”, le Sezioni Unite.
in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 550, secondo cui la posizione de qua varrebbe ad introdurre una deroga all’effetto devolutivo delle impugnazioni, prevedendosi che esso non operi con riguardo alla posizione della parte civile in caso di gravame interposto
dal pubblico ministero (essendo allora la devoluzione automatica).
24
Si veda in proposito il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 (in G.U. del 5 gennaio 2016), attuativo, appunto, della direttiva
2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, recante «Norme minime in materia di diritti, assistenza e
protezione di vittime del reato». Sul punto, v. C. Marinelli, Ragionevole durata e prescrizione del processo penale, Torino, 2016, p. 351.
25
In specie, se da un lato è vero che la disposizione in questione fa salvi i casi in cui l’ordinamento preveda la devoluzione
delle domande della parte civile ad una giurisdizione diversa, è pure chiaro che tale ipotesi è immaginata come eccezione alla
regola generale per la quale la vittima ha diritto – da parte del giudice penale – ad una pronuncia sul merito delle proprie domande, sicché sicuramente dovranno privilegiarsi, dinanzi a soluzioni alternative, quelle che favoriscono l’ottenimento di tale
pronuncia rispetto a quelle che la osteggiano.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA LEGITTIMAZIONE DELLA PARTE CIVILE AD IMPUGNARE LA SENTENZA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Intercettazioni:
la Corte amplia l’autonomia del pubblico ministero
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE IV, SENTENZA 3 FEBBRAIO 2016, N. 4484 – PRES. ZECCA; REL. BIANCHI
Sono utilizzabili i risultati delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti anche quando nel corso dell’esecuzione
intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione, purché tale variazione rientri nella specificità dell’ambiente oggetto dell’intercettazione autorizzata. In particolare, qualora la persona presa in osservazione
abbia acquisito in uso un’altra autovettura, in sostituzione di quella indicata nel decreto autorizzativo della captazione, sussiste la medesima specificità dell’ambiente, concretamente individuato attraverso il riferimento alla frequentazione da parte di quella stessa persona fisica.
Parimenti, per le intercettazioni telefoniche effettuate attraverso schede telefoniche diverse da quelle originariamente utilizzate, qualora la persona nei confronti della quale l’intercettazione telefonica sia stata ritualmente autorizzata, utilizzi, per la comunicazione mediante apparecchi di telefonia mobile, schede telefoniche diverse da quella
per la quale l’autorizzazione sia stata originariamente disposta, non è necessario un nuovo provvedimento autorizzativo, dovendo ritenersi implicita la sua estensione a tutte le successive utenze telefoniche in uso alla medesima
persona.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. La corte di appello di Firenze con sentenza in data 13 novembre 2013, ha confermato la sentenza
del Gup di Siena, resa all’esito di giudizio abbreviato, con cui è stata ritenuta la responsabilità degli imputati (Omissis) e (Omissis) per una numerosa serie di reati ex art. 73 d.p.r. 309 del 1990; più precisamente, la Corte assolveva (Omissis) del reato di cui al capo O e (Omissis) da quello di cui al capo P e
conseguentemente diminuiva la pena loro inflitta, confermando nel resto. In particolare, per quanto qui
rileva, la contestazione formulata nei confronti di (Omissis) e (Omissis) riguardava il reato di cui al capo
F, cioè il concorso nell’importazione dall’(Omissis) di nove chili di cocaina sequestrati il 1 novembre
2008 in un appartamento di (Omissis), aggravato ex articolo 80, co.2, nonché il concorso di altre specifiche cessioni di cocaina avvenute nel corso dell’ottobre 2008 a favore di diversi soggetti (capi K, M, O, P,
Q, R, S, T). In rito è opportuno precisare che il procedimento si era incardinato a seguito di indagini
condotte dal pubblico ministero di Siena che in data 18/9/2009 disponeva il rinvio a giudizio degli attuali ricorrenti con richiesta di giudizio immediato e che precedentemente, il 5/11/2008, aveva trasmesso gli atti al PM di Firenze in relazione al reato ex articolo 74 d.p.r. 309/90 nei confronti dei medesimi imputati; per tale ultimo reato era stata richiesta l’archiviazione in data 19/1/2009, richiesta respinta dal Gip distrettuale con provvedimento che disponeva l’imputazione coatta emesso il
6/11/2009.
2. Hanno presentato ricorso per cassazione tutti gli imputati per il tramite dei rispettivi difensori.
2.1 L’avv.to (Omissis), nell’interesse di (Omissis), deduce: [Omissis]
3) Omessa dichiarazione di inutilizzabilità delle intercettazioni: sia di quelle ambientali effettuate in
luoghi diversi da quelli indicati nei relativi decreti autorizzativi e tra di loro non omogenei; sia di quelle
“estero su estero” per violazione dell’art. 727 c.p.p. Nel primo caso si lamenta che ottenuta l’autorizzazione per effettuare l’intercettazione a bordo di una certa autovettura, il PM disponeva poi il mutamento dell’auto intercettando su auto diverse risultate nell’uso dell’imputato; analogamente, per gli
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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appartamenti (autorizzate le ambientali nell’appartamento aretino, il solo PM disponeva il trasferimento delle relative apparecchiature nel nuovo appartamento bolognese sinché non interveniva proroga dal
Gip).
[Omissis]
2.2. Per (Omissis) l’avv.to (Omissis) deduce: [Omissis]
b) Inutilizzabilità dei risultati probatori frutto di intercettazioni telefoniche e ambientali diverse da
quelle originariamente autorizzate, avendo il pubblico ministero disposto che le intercettazioni fossero
“spostate” su altre utenze telefoniche senza però il necessario provvedimento del giudice; la corte di
appello si è richiamata al principio, affermato da questa Corte, che consente lo spostamento nei limiti in
cui vi è una modifica della scheda SIM ma rimane lo stesso codice IMEI; ma, secondo il ricorrente, nel
caso di specie vi sono intercettazioni su dispositivi aventi codici IMEI diversi come è facilmente verificabile dall’analisi dei codici IMEI registrati al momento dell’intercettazione e visionabili nei supporti
digitali presenti nel fascicolo delle indagini; per analoga ragione sarebbero inutilizzabili le intercettazioni in ambientale disposte sulle autovetture a disposizione del (Omissis), anche in questo caso essendosi provveduto a modificare il veicolo individuato originariamente dal Gip solo con decreto del pubblico ministero; si sostiene che la modifica dell’autovettura intercettata non può considerarsi semplice
modalità esecutiva.
[Omissis]
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi non meritano accoglimento risultando infondati e talvolta inammissibili i motivi dedotti.
[Omissis]
4. Vanno disattese le reiterate eccezioni in tema di legittimità delle intercettazioni. Sul punto la sentenza motiva correttamente facendo pertinente riferimento a corretti principi giurisprudenziali che meritano assoluta condivisione.
4.1 Così per quanto attiene alle censure relative al mutamento delle autovetture oggetto di intercettazione ambientale, in relazione al fatto che le intercettazioni sono state estese alle diverse autovetture
noleggiate dall’imputato, è da condividere la giurisprudenza di questa Corte secondo cui sono utilizzabili i risultati delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti anche quando nel corso dell’esecuzione
intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione, purché tale variazione rientri
nella specificità dell’ambiente oggetto dell’intercettazione autorizzata (v. sez. 5, 06/10/2011, n. 5956,
Rv. 252137). Con tale sentenza, proprio relativa ad un caso in cui la captazione ambientale era stata trasferita dalla vettura oggetto di autorizzazione ad altra vettura successivamente acquistata dall’indagato
sottoposto ad intercettazione, si è infatti chiarito che nel caso in cui la persona presa in osservazione abbia acquisito in uso un’altra autovettura, in sostituzione di quella indicata nel decreto autorizzativo della captazione, sussiste la medesima specificità dell’ambiente, concretamente individuato attraverso il
riferimento alla frequentazione da parte di quella stessa persona fisica.
4.2 Parimenti per le intercettazioni telefoniche effettuate attraverso schede telefoniche diverse da
quelle originariamente utilizzate, è stata già richiamata dai giudici di merito la giurisprudenza secondo
cui qualora la persona nei confronti della quale l’intercettazione telefonica sia stata ritualmente autorizzata utilizzi, per la comunicazione mediante apparecchi di telefonia mobile, schede telefoniche diverse
da quella per la quale l’autorizzazione sia stata originariamente disposta, non è necessario un nuovo
provvedimento autorizzativo, dovendo ritenersi implicita la sua estensione a tutte le successive utenze
telefoniche in uso alla medesima persona (sez. 1, 13/1/2009, n. 7455, Rv. 242875). Si sostiene da uno dei
ricorrenti che vi sarebbero state anche intercettazioni, non autorizzate, su dispositivi aventi non solo
scheda SIM ma anche codici IMEI diversi, ma l’eccezione è inammissibile sotto un duplice profilo: in
primo luogo in quanto non tiene conto dell’efficacia autorizzatoria da riconoscersi ai decreti di proroga
del Gip, via via intervenuti, che avevano preso atto e autorizzato il mutamento della utenza intercettata, nulla deducendo al riguardo, e dall’altro non evidenzia, così come necessario secondo la giurisprudenza di questa Corte, quale sarebbe il rilievo probatorio delle conversazioni che si assumono viziate.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI: LA CORTE AMPLIA L’AUTONOMIA DEL PUBBLICO MINISTERO
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ELISA ZERBINI
Dottore in Giurisprudenza
Intercettazioni de eadem persona eseguite in luoghi
e su utenze non autorizzati
Wiretapping and limits to its use through the judgment
of the Supreme Court
La Corte di cassazione ribadisce la legittimità delle intercettazioni eseguite, su impulso del pubblico ministero, in
luogo e su utenza telefonica diversi da quelli individuati nell’originario decreto di autorizzazione, ancorché in funzione dei colloqui dello stesso soggetto. La pronuncia si iscrive nella generale tendenza a privilegiare la conservazione del risultato probatorio forzando le regole. Ma le implicazioni influiscono sul fragile equilibrio tra libertà ed autorità che percorre la disciplina dell’istituto.
The Supreme Court reiterates that wiretapping performed over a different phone-line from the one on which it
had been originally authorized by the judge is comply with the law. The sentence reveals the general trend that
favours the preservation of the evidence to the detriment of the legal provisions.
LA QUESTIONE
La materia delle intercettazioni rappresenta, da molto tempo, il luogo di confronto tra opposte esigenze: l’efficacia dell’azione investigativa, da un lato, e la protezione dei fondamentali diritti di libertà
dell’individuo, dall’altro 1. Si tratta del mezzo di ricerca della prova 2 attorno al quale si coagulano le
maggiori speranze ed insidie, motivate entrambe dalla straordinaria capacità intrusiva che lo connota,
funzionale – nell’ottica di chi lo utilizza – all’accertamento giudiziario, ma foriera – nella prospettiva di
chi lo subisce – di una significativa compressione di quella libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione 3 che la Carta Costituzionale eleva a valore inviolabile della persona 4.
1
P. Bruno, voce Intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 175 ss.; C.F. Grosso,
voce Intercettazioni telefoniche, in Enc. dir., Milano, 1971, vol. XXI, p. 889 ss.; G. Illuminati, Intercettazione o semplice “ascolto” di comunicazioni tra presenti?, in Cass. pen., 1982, p. 180; Id., La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, p. 37 ss.; G. Fumu, Commento agli artt. 266-271 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990,
II, p. 771 ss.; L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, passim; D. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E. Zappalà,
Diritto processuale penale, Milano, 1999, vol. I, p. 424 ss.; G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 253 ss.; F. Cordero,
Procedura penale, Milano, 2001, p. 271 ss.; A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, passim; P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra costituzione e legge ordinaria, Milano, 2002, passim.
2
Così disegna le differenze tra ispezione, perquisizione e sequestri da un lato ed intercettazioni dall’altro, F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 827: «L’inspìciens e i perquirenti operano ingerenze coattive su persone o cose, mirando ai segni dell’accaduto:
uno guarda, l’altro rovista; e scovato qualcosa, lo sequestra. Sono “mezzi” scopertamente diretti alla “ricerca della prova”. Non
è tale il quarto (e ultimo: artt. 266-271): l’intrusione vi risulta inavvertita da chi la subisce o, almeno, vuol esserlo; sfuma l’effetto
utile quando gli spiati sappiano».
3
Sul concetto di “comunicazione”, v. P. Barile-E. Chieli, voce Corrispondenza (libertà di), in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, p.
744 ss.
4
La Consulta ha costantemente evidenziato come il connotato di inviolabilità che la Costituzione riconosce alla segretezza
della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione «non è altro che un aspetto essenziale della stessa inviolabilità della per-
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI DE EADEM PERSONA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Nella comunicazione, infatti, l’individuo esprime la propria «socialità», ossia la sua capacità a «collegarsi spiritualmente con i propri simili» 5, in una corrispondenza verbale che è specchio di quella
emotiva. L’espressione del pensiero, in qualunque forma essa si esplichi, merita quindi una protezione
privilegiata, che ne limiti il sacrificio soltanto a fronte dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse
pubblico primario costituzionalmente rilevante e con il duplice presidio rappresentato dalla riserva assoluta di legge 6 e dall’atto motivato dell’autorità giudiziaria 7.
La pronuncia in commento rappresenta l’occasione per tornare a sondare l’effettiva tenuta dei limiti
faticosamente disegnati dal legislatore a tutela della sfera intangibile dell’individuo nell’impatto con la
prassi giurisprudenziale.
La vicenda trae origine dai ricorsi con i quali le difese degli imputati lamentavano l’inutilizzabilità
dei risultati probatori frutto di intercettazioni telefoniche ed ambientali eseguite su utenze e a bordo di
autovettura diverse da quelle individuate nell’originario decreto autorizzativo del gip. Secondo i ricorrenti, infatti, la modifica del “luogo” teatro della captazione non può considerarsi semplice modalità
esecutiva dell’operazione, come tale rimessa all’iniziativa del pubblico ministero, con la conseguenza
che lo “spostamento” dell’intercettazione su altri dispositivi telefonici e all’interno di diverso veicolo
renderebbe necessario un nuovo intervento da parte del giudice.
La Corte di cassazione liquida la censura con brevi, laconici, argomenti, limitandosi a richiamare la
giurisprudenza che considera «utilizzabili i risultati delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti anche
quando nel corso dell’esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione, purché
tale variazione rientri nella specificità dell’ambiente oggetto dell’intercettazione autorizzata» 8. Siffatta condizione – proseguono i giudici di legittimità – è certamente soddisfatta ove la persona presa in osservazione abbia acquisito in uso un’altra autovettura, in sostituzione di quella indicata nel provvedimento
di autorizzazione, sussistendo in tal caso «la medesima specificità dell’ambiente, concretamente individuato
attraverso il riferimento alla frequentazione da parte di quella stessa persona fisica».
sona e perciò direttamente riconducibile nella categoria dei diritti inviolabili dell’uomo». La stretta attinenza della libertà della
comunicazione e del segreto al nucleo essenziale dei valori della personalità, impone di qualificare il corrispondente diritto
«parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana» e come tale sottratto a revisione costituzionale. Così, C. cost., sent. 23 luglio 1991, n. 366,
in Cass. pen., 1991, II, p. 914; C. cost., sent. 26 febbraio 1993, n. 81, ivi, 1993, II, p. 2741; C. Cost., 6 aprile 1973, n. 34, in Giur. cost.,
1973, p. 341, con nota di V. Grevi, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale.
5
A. Pace, Commento all’art. 15, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, artt. 13-20, Bologna, 1977, p. 80.
6
Secondo la dottrina maggioritaria il richiamo contenuto nell’art. 15 Cost. alle garanzie stabilite dalla legge non equivale
esattamente ai “soli casi e modi stabiliti dalla legge” di cui all’art. 13 della Carta. La locuzione impiegata sembrerebbe implicare
un quid pluris, «cioè che, oltre alle garanzie consistenti nelle riserve anzidette, altre debbano essere istituite dalla legge». Così L.
Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 42; P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, cit.,
pp. 38-39. Negli stessi termini, G. Conso, I limiti delle intercettazioni telefoniche, in Arch. pen., 1972, p. 354.
7
L’intensità dei presidi garantisti fissati dall’art. 15 Cost. si rende evidente dal confronto con le contigue tutele apprestate alla libertà personale e domiciliare. Emerge, infatti, «non solo – per ciò che attiene all’interpretazione dell’inciso «con le garanzie
stabilite dalla legge» – un rafforzamento della garanzia giurisdizionale, ma anche la mancanza, nel secondo comma della disposizione costituzionale in esame, di una norma di competenza che attribuisca all’autorità di pubblica sicurezza un potere autonomo di iniziativa, consentendole di limitare preventivamente, e salvo il necessario provvedimento giurisdizionale di convalida, la libertà e la segretezza delle comunicazioni». Così, P. Balducci, Le garanzie delle intercettazioni tra costituzione e legge ordinaria,
cit., p. 44. Secondo A. Pace, Commento all’art. 15, cit., p. 106 la ragione del maggior rigore «potrebbe risiedere in ciò che – mentre
nelle limitazioni della libertà personale e, entro certi limiti, di quelle della libertà domiciliare, esse colpiscono soltanto il soggetto
inquisito – nelle limitazioni della libertà di corrispondenza e di comunicazione, le misure restrittive incidono sempre anche su
un altro soggetto, sia esso l’interlocutore telefonico, il mittente o il destinatario di una lettera. Altra ragione giustificatrice potrebbe poi consistere nella considerazione della maggiore facilità con cui di fatto una qualsivoglia intercettazione può essere
compiuta dalla polizia, a fronte delle perquisizioni personali o domiciliari nelle quali la stessa presenza fisica dell’interessato (e
comunque la consapevolezza, da parte dell’inquisito, della limitazione che sta subendo) costituisce già di per sé un limite psicologico all’arbitrio dei funzionari e degli agenti di polizia».
È lecito, poi, invocare pure un argomento di carattere storico, che evoca il contesto socio-culturale che ha assistito la nascita
della nostra Carta fondamentale, «approvata all’esito d’un periodo nel quale metodici controlli sulle comunicazioni erano stati
una potente arma di ricatto e di rafforzamento del regime», sicché «non potrebbe stupire se l’art. 15 Cost. avesse voluto accordare una speciale guarentigia alla libertà e segretezza della corrispondenza», così A. Camon, L’acquisizione dei dati sul traffico delle
comunicazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, pp. 595-596, per sostenere l’inclusione nella protezione costituzionale pure dei “dati
estrinseci” delle comunicazioni telefoniche.
8
Cass., sez. V, 6 ottobre 2011, n. 5956, in CED Cass., n. 252137.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI DE EADEM PERSONA
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Analoga argomentazione è invocata a sostegno della utilizzabilità delle captazioni effettuate tramite
telefono, atteso che «qualora la persona nei confronti della quale l’intercettazione telefonica sia stata ritualmente
autorizzata, utilizzi (…) schede telefoniche diverse da quella per la quale l’autorizzazione sia stata originariamente disposta, non è necessario un nuovo provvedimento autorizzativo, dovendo ritenersi implicita la sua estensione
a tutte le successive utenze telefoniche in uso alla medesima persona» 9.
È lecito interrogarsi sulla compatibilità della soluzione pacificamente accolta dalla giurisprudenza
con l’impianto codicistico 10, il quale assegna al giudice il monopolio nell’autorizzare (anche) i limiti
dell’intercettazione 11 e presidia con rigorosa sanzione il rispetto dei parametri che debbono orientarne
le scelte. La natura e la gravità del reato per il quale si procede, la situazione probatoria esistente al
momento della richiesta 12, l’impossibilità di ottenere gli elementi necessari con mezzi diversi e meno
intrusivi 13, insieme con l’intera gamma di scansioni temporali e modali che governano il procedimento
(richiesta, autorizzazione, esecuzione e documentazione), compongono una fattispecie unitaria al cui
compiuto perfezionamento il legislatore condiziona molto spesso l’utilizzabilità dei relativi risultati. Lo
scostamento dal modello legale, reca con sé un rischio per i diritti dell’individuo che sovrasta l’esigenza
di giustizia e che, a rigore, dovrebbe confinare il prodotto dell’operazione nel limbo del “processualmente superfluo” 14.
Senonché, come sempre accade, il “dover essere” è chiamato a confrontarsi con la realtà fattuale e
con una prassi progressivamente orientata a legittimare attriti con le regole, che paiono trasformare la
macchina punitiva in un sistema sempre più informale 15. Sullo sfondo, lo spettro di una menomazione
della «giurisdizione di garanzia» 16 spettante al giudice in ordine alla tutela delle posizioni soggettive di
libertà della persona sottoposta ad indagini.
CAPTAZIONI DI COLLOQUI E DERIVE SOSTANZIALISTICHE
La disciplina delle intercettazioni, con i suoi approdi e le sue lacune, ha costituito terreno fecondo per la
costruzione della reale fisionomia dell’istituto dell’inutilizzabilità 17.
La materia, invero, rappresenta il laboratorio in cui la Corte di cassazione, «stretta tra un codice da9
Cass., sez. I, 13 gennaio 2009, n. 7455, in CED Cass., n. 242875.
10
Sulla conformità o meno della disciplina codicistica in materia di intercettazioni al dettato costituzionale e alle indicazioni
della Consulta, v. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 49 ss.; P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni, cit., p. 41 ss.
11
Solo in casi eccezionali, infatti, e cioè quando il ritardo potrebbe recare grave pregiudizio al prosieguo delle indagini, il potere di limitare la segretezza delle comunicazioni è attribuito al pubblico ministero. In tali casi il controllo giurisdizionale si
esplica successivamente ed entro termini brevi attraverso il potere di convalida (o meno) del decreto emesso d’urgenza dall’organo d’accusa, atto questo che presuppone l’accertamento della sussistenza non solo dei requisiti fondanti l’autorizzazione,
ma pure del periculum in mora. Così P. Bruno, Intercettazioni di comunicazioni, cit., p. 189.
12
Per l’esegesi della formula «gravi indizi» in rapporto agli artt. 273 e 192 c.p.p., v. P. Balducci, Le garanzie delle intercettazioni,
cit., p. 103 ss.; A. Camon, Le intercettazioni, cit., p. 68 ss.
13
Sul presupposto della «assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini», v. P. Bruno, Intercettazioni di comunicazioni, cit., p. 189; A. Camon, Le intercettazioni, cit., p. 77; G. Spangher, La disciplina italiana delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in Arch. pen., 1994, p. 7.
14
Come noto, infatti, l’art. 271 c.p.p. commina l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni sia ove le stesse siano state
eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge che per i casi di inosservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi
1 e 3, c.p.p.
15
L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2002, p. 337.
16
La funzione svolta dal giudice in ordine alle attività di intercettazione rientra nella c.d. «giurisdizione di garanzia», ossia
quella che è esercitata «senza (previa) azione» e che ha ad oggetto la tutela delle libertà della persona. Sull’argomento, V. Grevi,
Funzioni di garanzia e di controllo, cit., p. 25 ss.; M. Ferraioli, Il ruolo di «garante» del giudice per le indagini preliminari, Padova, 2001,
passim.
17
In argomento, N. Galantini, voce Inutilizzabilità (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg., vol. I, Milano, 1997, p. 701; Ead.,
L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 464; A. Nappi, Guida al codice di procedura penale, IX ed., Milano,
2004, p. 123; A. Scella, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 203 ss. Sottolineano A. Scalfati-D. Servi, Premesse sulla prova penale, in A. Scalfati (a cura di), Prove e misure cautelari, Le prove, (Trattato di procedura
penale diretto da G. Spangher), Torino, 209, p. 40 che «la parola «inutilizzabilità» descrive due aspetti del medesimo fenomeno. Da
un lato, indica il “vizio” di cui può essere affetto il dato probatorio; dall’altro, esprime il regime giuridico cui è sottoposto il
prodotto viziato, ossia la sua definitiva esclusione dall’ottica del convincimento giudiziale».
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tato; un legislatore inerte; una Consulta che, quando interviene, suggerisce interpretazioni che spetta ai
Giudici di legittimità portare avanti o precisare nei dettagli; un progresso tecnologico inseguito in tempo reale a livello di attività investigative» 18, sperimenta le soluzioni più idonee a comporre il conflitto
tra autorità e libertà 19.
Ai sensi dell’art. 271 c.p.p., la mannaia dell’inutilizzabilità – peraltro rafforzata 20 dalla distruzione
della relativa documentazione, salvo che essa costituisca corpo del reato – colpisce le intercettazioni
eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge 21 o senza l’osservanza delle disposizioni di cui agli artt. 267
e 268, commi 1 e 3, c.p.p. 22 La previsione si pone in rapporto di genere a specie rispetto all’art. 191 c.p.p.
ed è finalizzata a sottrarre al metro interpretativo la valutazione in ordine alla sussistenza della sanzione 23.
Il diritto vivente, tuttavia, non sempre si fa specchio del rigore preteso dal dato positivo.
Una prima deviazione dai parametri legali si riscontra nell’idea della irrilevanza del mutamento
dell’addebito che emerga dopo l’espletamento del mezzo di ricerca della prova. Ogniqualvolta, cioè, ritualmente autorizzata l’intercettazione per un reato che la ammette, all’esito del suo svolgimento il reato risulti diverso da quello ipotizzato in origine ed esuli dall’elenco dell’art. 266 c.p.p., la giurisprudenza consente l’utilizzo processuale dei relativi risultati, sol che i presupposti richiesti ex lege fossero sussistenti al momento dell’atto autorizzativo 24. La modifica della qualificazione giuridica non consegna
alla patologia l’intercettazione nata “sana” 25.
Affine all’ipotesi esaminata è il caso in cui dall’intercettazione, ritualmente autorizzata per un certo
reato, emergano prove di un fatto storico nuovo ed ulteriore. In tale evenienza, a rigore, il pubblico ministero dovrebbe procedere ad una distinta iscrizione della notitia criminis nel registro delle notizie di
reato, e i risultati della captazione sarebbero utilizzabili in relazione al diverso reato – previa valutazione di indispensabilità per il relativo accertamento – solo ove per esso fosse obbligatorio l’arresto in flagranza 26. Ed invece la giurisprudenza fornisce una lettura recessiva dei limiti previsti dall’art. 270
c.p.p., in virtù della quale «la nozione di “diverso procedimento” va ancorata a un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle
18
C. Conti, Intercettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, in Cass. pen., 2011, p. 3683.
19
Molteplici gli aspetti, dalla fisionomia normativa incerta o inesistente, sui quali si è esercitato il potere creativointerpretativo della Cassazione. Il riferimento corre anzitutto ai mezzi c.d. “atipici” di ricerca della prova “limitrofi” alle intercettazioni, prodotto di una modernità soffocata dal dato positivo – quali, ad es., le videoriprese, l’acquisizione dei tabulati telefonici, il pedinamento elettronico, la captazione effettuata dal c.d. agente attrezzato per il suono – per la cui esaustiva analisi si
rinvia ad A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, Torino, 2014. Ma pure restando entro i confini “tipici” dell’istituto delle intercettazioni, e dei suoi rapporti con la sanzione ad esso precipuamente connessa, lo sforzo ermeneutico della giurisprudenza di
legittimità si è ampiamente prodigato nel fornire una più compiuta definizione ai divieti d’uso tratteggiati dal codice.
20
L’espressione «inutilizzabilità rafforzata» risale a M. Pisani, Le prove, in A.M. Stile (a cura di), Prospettive del nuovo processo
penale, 1978, p. 165.
21
Nella formula rientra la violazione degli artt. 266, 266-bis, 343 e 103, comma 5, c.p.p.; norma, quest’ultima, la cui ratio di tutela è completata dalla previsione di cui all’art. 271, comma 2, c.p.p., che vieta l’utilizzazione delle «intercettazioni relative a
conversazioni o comunicazioni delle persone indicate dell’articolo 200 comma 1, quando hanno a oggetto fatti conosciuti per
ragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro
modo divulgati». A proposito del segreto difensivo, v. A. Scalfati, Interessi in conflitto: testimonianza e segreti, in AA.VV., Verso
uno statuto del testimone nel processo penale, Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Pisa-Lucca,
28-30/11/2003, Milano, 2005, p. 164 ss.
22
La casistica è estremamente varia, trattandosi di norme volte a disciplinare, da un lato, presupposti e forme dei provvedimenti coinvolti, a vario titolo, nel procedimento di intercettazione, e, dall’altro, le modalità esecutive dell’operazione.
23
P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, cit., p. 185.
24
Così, Cass., sez. III, 22 settembre 2010, n. 39761, in CED Cass., n. 248557. In senso contrario, Cass., sez. VI, 22 marzo 1994, n.
9247, ivi, n. 200131.
25
Secondo C. Conti, Intercettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, cit., p. 3646, sul tema sarebbe «utile prospettare una distinzione tra l’ipotesi in cui l’addebito si modifichi per motivi sopravvenuti e quella in cui la diversità emergesse
già all’origine», di modo che, nel primo caso, «in linea di massima, non dovrebbe ravvisarsi una patologia: è pacifico che, specialmente all’inizio delle indagini, l’addebito sia provvisorio e la fluidità degli elementi raccolti lo renda suscettibile di modificazioni. (…) Viceversa, la diversità emergente dagli atti all’epoca in cui l’intercettazione era stata chiesta rappresenta il sintomo
di un errore doloso o colposo», con la conseguenza che «gli esiti dovrebbero essere considerati inutilizzabili qualora l’addebito,
così come modificato, non rientri all’interno dei casi in cui l’intercettazione è consentita».
26
L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., pp. 197-198.
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notizie di reato, essendo invece decisiva, ai fini dell’individuazione dell’identità dei procedimenti, l’esistenza di
una connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico tra il contenuto della originaria notizia di reato,
per la quale sono state disposte le intercettazioni, e i reati per i quali si procede» 27. Non sfugge come l’interpretazione “sostanziale” del diverso procedimento, seppur idonea a rendere utilizzabile il prodotto della captazione solo qualora il fatto nuovo rientri nei limiti desumibili dall’art. 266 c.p.p. 28, rischia di
svuotare di contenuto il divieto probatorio di cui all’art. 270 c.p.p., «il quale ha un senso proprio perché
circoscrive la legittima limitazione del diritto alla riservatezza all’interno di un determinato procedimento e per un dato reato per cui vi sia stato il preventivo vaglio giurisdizionale» 29.
Un nutrito capitolo riguarda, poi, l’ampia gamma di vizi che attengono alla motivazione dei provvedimenti di autorizzazione, esecuzione, convalida o proroga delle intercettazioni 30.
L’obbligo di motivazione, prima che impegno di rango costituzionale, rappresenta una elementare
regola di civiltà giuridica, poiché attraverso la spiegazione delle ragioni fondanti il provvedimento «la
collettività giudica il giudice ed (…) il giudice filtra e governa le proprie idee» 31.
A fortiori quando la decisione sia destinata a legittimare l’eccezionale intrusione dell’agire investigativo
nella sfera intangibile dell’individuo, la funzione di garanzia e di controllo assegnata alla motivazione potrà dirsi assolta solo ove la stessa sia sostenuta da una struttura formale adeguata, che renda effettivo il
raccordo tra la valutazione dei requisiti previsti dalla legge e la giustificazione della loro concreta ricorrenza 32. Il percorso argomentativo diviene qui strumentale a consentire alle parti e al giudice di verificare
l’effettiva prevalenza dell’interesse pubblico sui diritti di libertà del singolo, rendendo questi ultimi temporaneamente serventi al primo. In quest’ottica «la riserva di legge riceve garanzia proprio dalla valutazione (interpretazione) dei presupposti e dalla decisione motivata dell’organo giurisdizionale, al quale è
affidata la tutela di un segmento “probatorio” che di fatto travolge un diritto inviolabile (art. 15 Cost.)» 33.
Ebbene, l’espresso collegamento che l’art. 271 c.p.p. instaura tra motivazione ed inutilizzabilità
viene riservato dalle pronunce della Corte alle sole ipotesi di mancanza tout court dell’apparato giustificativo; prevalendo, per converso, nei casi di mera incompletezza o insufficienza motivazionale,
l’esigenza di garantire la conservazione del provvedimento e degli effetti ad esso conseguenti 34. Si
riconosce in capo al giudice un vero e proprio “potere di emenda”, che lo onera della integrazione,
correzione e sostituzione della motivazione carente, così confinando l’invalidità alle sole ipotesi “irrecuperabili” 35.
L’intervento surrogatorio del giudice è invocato pure al fine di colmare le lacune del decreto con il
quale il pubblico ministero provvede “d’urgenza” a disporre l’intercettazione nei casi di cui all’art. 267,
comma 2, c.p.p. L’eventuale difetto motivazionale in ordine al «fondato motivo che dal ritardo possa
derivare grave pregiudizio alle indagini», è sanato dall’intervenuta convalida del gip, la quale «assorbe
27
Cass., sez. un., 26 giugno 2014, n. 32697, in Guida dir., 2014, n. 36, p. 88, che conferma il consolidato orientamento delle sezioni semplici: ex multis, Cass., sez. VI, 14 giugno 2011, n. 34735, in Cass. pen., 2012, p. 1767, con nota di M. Valieri, Sulla utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi.
28
Cass., sez. VI, 15 gennaio 2004, n. 4942, in CED Cass., n. 229999; Cass., sez. III, 31 marzo 2010, n. 12562, ivi, n. 246594.
29
Così, P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, cit., p. 185. Paventa il rischio di «una interpretatio abrogans dell’art. 270 c.p.p.», soprattutto rispetto all’ipotesi di collegamento ex art. 371, comma 2, lett. c), c.p.p., C. Conti,
Intercettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, cit., pp. 3646-647.
30
G. Fumu, Commento all’art. 266 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol.
II, p. 784; V. Campilongo, L’obbligo di motivazione in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni: questioni interpretative e
problemi applicativi, in Cass. pen., 2005, p. 3196 ss. Secondo L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., pp. 204-205, il difetto di
motivazione comporta insieme la nullità del decreto ex artt. 125, comma 3, e 267, comma 1, c.p.p., e l’inutilizzabilità dei risultati
dell’intercettazione ex artt. 267, comma 1, e 271, comma 1, c.p.p. Tale ultima disposizione, invero, dettando una disciplina specifica per l’intercettazione, è norma speciale e quindi prevalente sull’art. 125, comma 3, c.p.p. Nello stesso senso, F.M. Grifantini,
voce Inutilizzabilità, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 246.
31
F.M. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 1.
32
Sulla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, E. Amodio, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., Vol.
XXVII, Milano, 1922, p. 231 ss.; M. Menna, La motivazione nel giudizio penale, Napoli, 2000, passim.
33
A. Vele, Le intercettazioni nel sistema processuale penale, cit., p. 112.
34
C. Conti, Intercettazioni e inutilizzabilità, cit., p. 3644; A. Vele, Le intercettazioni, cit., p. 120.
35
Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in Cass. pen., 2001, p. 69. In dottrina, G. Giostra, Intercettazioni: un sacrosanto richiamo
alla legalità e sciagurati propositi di riforma, in Questione giustizia, 2009, p. 208.
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integralmente il provvedimento originario e rende utilizzabili i risultati delle operazioni di intercettazione precludendo qualsivoglia discussione sulla sussistenza del requisito dell’urgenza» 36.
Efficacia sanante è attribuita, altresì, al provvedimento con cui il giudice, previa verifica della permanenza dei presupposti legittimanti l’intercettazione, disponga il prolungamento della durata del
mezzo di prova 37. È ricorrente in giurisprudenza l’assunto che riconnette al decreto, formalmente di
proroga ma dotato di tutti i requisiti necessari per l’autorizzazione, l’idoneità a validare ex tunc le operazioni di captazione 38.
Parimenti ispirata all’istanza conservativa la soluzione escogitata con riguardo ai requisiti minimi
della motivazione per le captazioni extra moenia 39; questione che interseca quella, assai spinosa, attinente ai limiti di tolleranza del provvedimento motivato per relationem.
In proposito, la giurisprudenza meno recente si era mostrata disponibile ad attenuare il rigore della
norma che subordina la deroga all’impiego degli impianti installati presso la Procura della Repubblica
alla adozione, da parte del pubblico ministero, di un provvedimento motivato in ordine alla insufficienza o inidoneità degli stessi e all’esistenza di eccezionali ragioni di urgenza. In particolare, si riteneva
sufficiente a garantire l’attendibilità dell’accertamento probatorio 40 che la sussistenza dei presupposti
fattuali pretesi dalla norma fosse oggettivamente rilevabile ex post dal giudice e, persino, dalla stessa
Corte di legittimità, a prescindere dalla motivazione addotta dal magistrato inquirente 41. Il vizio motivazionale del decreto esecutivo, e finanche la mancanza del provvedimento, venivano facilmente superati attraverso l’ideazione di una inedita cesura – nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 268,
comma 3, c.p.p. – tra il momento materiale, che doveva sussistere ex ante, e quello motivazionale, che
ben poteva affidarsi alla verifica postuma in fatto da parte del giudice 42. Proseguendo e specificando il
percorso già intrapreso sul tema della motivazione per rinvio 43, le Sezioni Unite sono intervenute a
36
Cfr. Cass., sez. V, 16 marzo 2010, n. 16285, in CED Cass., n. 247266. La dottrina maggioritaria critica tale impostazione, in
quanto idonea a determinare una disparità di trattamento tra l’intercettazione ordinaria e quella urgente: «nel primo caso, ogni
valutazione dei presupposti di ammissibilità (limiti edittali, indizi, motivazione eccetera) resterebbe rilevabile in ogni stato e
grado del procedimento, secondo la regola generale sulle prove inutilizzabili (art. 191, comma 2, c.p.p.); nel secondo, tutti i vizi
risulterebbero fulmineamente sanati, oltretutto per effetto di un provvedimento che, essendo adottato fuori dal contraddittorio,
estromette la difesa da qualunque possibilità di verifica. Se l’interpretazione corretta fosse questa, non sarebbe azzardato sospettare di incostituzionalità l’art. 267, comma 2, c.p.p.; anche a prescindere da altri profili, una simile discrepanza non sarebbe ragionevole; e se proprio si volesse introdurre un regime differenziato, sarebbe logico che la disciplina più severa valesse per
l’intercettazione disposta dal pubblico ministero, non per quella concessa dal giudice»; così, A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 109.
37
In generale, sui presupposti sostanziali e formali del decreto di proroga, v. A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale,
cit., p. 141 ss.; L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 119 ss.; A. Vele, Le intercettazioni nel sistema processuale penale,
cit., p. 132 ss.
38
Cass., sez. I, 13 maggio 2010, n. 24161, in Giur. it., 2011, p. 652, con nota di M. Antinucci, I controlli del giudice sulla proroga
per intercettazioni tra divieto di integrazioni successive e sanatorie; Cass., sez. II, 15 febbraio 2006, n. 7788, in Giur. it., 2007, p. 1496,
con nota di E.N. La Rocca, Condizioni per la utilizzabilità delle intercettazioni tramite decreti successivi; Cass., sez. V, 21 gennaio 2002,
n. 10090, in Cass. pen., 2003, p. 2359; Cass., sez. I, 26 gennaio 1999, n. 668, ivi, 2000, p. 128.
39
In argomento, F. Insom, Sussulti giurisprudenziali sulla questione delle intercettazioni telefoniche mediante l’impiego di impianti
esterni alla procura, in Giur. it., 2010, p. 1416.
40
Questo, secondo L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 208, l’obiettivo di tutela sotteso all’art. 268, comma 3,
c.p.p.
41
Cass., sez. V, 12 aprile 2006, n. 16956, in Cass. pen., 2007, p. 2511; Cass., sez. V, 12 aprile 2006, n. 16960, ivi, 2007, p. 2153;
Cass., sez. VI, 31 maggio 2006, n. 33533, ivi, 2007, p. 2538; sulle quali, in dottrina, G. Biondi, La giurisprudenza in tema di motivazione dei decreti relativi alle intercettazioni con particolare riferimento alla motivazione del decreto emesso ai sensi dell’art. 268, comma 3,
c.p.p., in Giur. merito, 2008, p. 92; M. Panzavolta, Ancora sull’inutilizzabilità delle intercettazioni fuori dalla procura: la Cassazione si
attribuisce il potere di controllare i presupposti dell’art. 268, comma 3, c.p.p., ivi, p. 2522; A. Scella, Intercettazioni mediante impianti
“esterni”, obbligo di motivazione del decreto autorizzativo e poteri della Cassazione, ivi, p. 2514.
42
Cfr. C. Conti, Intercettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, cit., nota n. 45, p. 3653.
43
Con la sentenza sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in Cass. pen., 2001, p. 69, il Supremo Collegio ha precisato che, per essere
assolto l’obbligo motivazionale, il giudice deve far riferimento, anche tramite mero rinvio, a un legittimo atto del procedimento,
il quale, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, dev’essere conosciuto o conoscibile da parte
dell’interessato. Inoltre, dal decreto autorizzativo deve potersi dedurre «che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale
delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione». Lo stesso principio è stato
espresso da Cass., sez. un., 31 ottobre 2001, n. 42792, in Cass. pen., 2002, p. 944, con nota di G. Borrelli, Interpretazione delle norme
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«domare le spinte alla deformalizzazione e alla conservazione» 44, escludendo che il giudice, in sede di
giudizio di merito o di legittimità, possa surrogare le carenze del decreto esecutivo del pubblico ministero, individuando le ragioni effettive dell’insufficienza o inidoneità sulla base di atti diversi dal decreto e da quelli che lo integrano per relationem 45.
Resta però salda, sullo sfondo, anche al netto degli interventi del Supremo Collegio, la legittimità
della motivazione per rinvio, purché – e la cautela non sempre soddisfa 46 – «l’apparato motivazionale del
provvedimento, in chiaro o succinto che sia, dia dimostrazione dell’iter cognitivo e valutativo seguito dal decidente
per giungere al dato risultato decisorio» 47.
La portata dell’inutilizzabilità risulta, infine, sensibilmente compressa da quelle pronunce che, in
nome della scarsa “deviazione” dal modello legale, salvano l’impiego processuale dell’intercettazione
nonostante il deterioramento del supporto magnetico di registrazione 48 ovvero affermano l’irrilevanza
dei vizi relativi alla verbalizzazione 49.
V’è da chiedersi se le scelte cristallizzate nel codice, segno forse di un «garantismo iperbolico» 50, siano
così agilmente superabili senza che ne consegua una reale compromissione dell’attendibilità della prova 51.
FOCUS SULLA PRONUNCIA
Alla luce della breve panoramica fin qui svolta, non stupisce l’argomentazione proposta dalla pronuncia in esame. La salvezza degli esiti delle intercettazioni ambientali, per quanto ottenuti a seguito di una
ed evoluzione degli strumenti tecnici di indagine: il rischio di «travisamento tecnologico». La sentenza è, inoltre, commentata da altri
Autori, tra i quali E. Aprile, L’intervento delle Sezioni unite in tema di modalità di esecuzione delle intercettazioni ambientali: una questione definitivamente risolta?, in Cass. pen., 2002, p. 2820; L. Capraro, Intercettazioni in autovettura, eccezionali ragioni d’urgenza e motivazione per relationem, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1441.
44
C. Conti, Intecettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, cit., p. 3644.
45
Cass., sez. un., 12 luglio 2007, n. 30347, in Corr. merito, 2007, p. 1326, con nota di P. Piccialli, Le intercettazioni; puntualizzazione
sull’obbligo di motivazione del P.M.; in Guida dir., 2007, p. 69, con nota di A. Cisterna, Solo poche altre questioni giuridiche vantano tanti
interventi a Sezioni unite; in Dir. pen. proc., 2008, p. 593, con nota di N. Ventura, Esecuzione delle operazioni di intercettazione e locus captationis alternativo; in Giur. it., 2008, p. 187, con nota di E.N. La Rocca, L’obbligo di congrua motivazione per l’utilizzo di impianti esterni
nelle intercettazioni telefoniche; in Cass. pen., 2008, p. 69, con nota di G. Santalucia, Sulla motivazione del decreto per l’uso di impianti esterni
di intercettazione: un altro intervento, si spera risolutivo, delle Sezioni unite. La sentenza riprende la linea già tracciata da Cass., sez. un.,
26 novembre 2003, n. 919, in Dir. e giust., 2004, p. 14, con nota di G. Fumu, È valido il provvedimento motivato per relationem; in Guida
dir., 2004, p. 49, con nota di R. Bricchetti, Basta il riferimento alla indisponibilità dei mezzi in dotazione alla Procura.
46
Critica la prassi della motivazione per relationem, affatto conforme al modello della motivazione esplicita imposto dalla
Corte Costituzionale (sent. 6 aprile 1973, n. 34, cit.) P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra costituzione e legge ordinaria, cit.,
p. 136. Ma ancora prima, Amodio, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 231, individuava il rischio insito in tale tipo di motivazione nella diminuzione del livello di attenzione e di coinvolgimento del giudice
nell’operazione decisoria, rendendolo naturalmente incline ad accondiscendere alle valutazioni del pubblico ministero.
47
Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, cit.
48
Cfr., Cass., sez. IV, 28 febbraio 2001, n. 8437, in Arch. nuova proc. pen., 2001, p. 307.
49
Per la Corte di legittimità, quando l’attività captativa è legalmente disposta ed eseguita, l’inutilizzabilità «non può essere
dilatata sino a comprendervi l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 89 disp. att. c.p.p., non espressamente richiamato
dall’art. 271 c.p.p.». Cfr., ex plurimis, Cass., sez. IV, 17 settembre 2004, n. 49306, in CED Cass., n. 229922; Cass., sez. IV, 14 gennaio
2004, n. 17574, ivi, n. 228173; Cass., sez. I, 2 dicembre 2009, n. 8836, ivi, n. 246377; Cass., sez. VI, 26 ottobre 1993, n. 11421, ivi,
198560. Per questa via si superano tutti i casi in cui il verbale ometta di indicare, ad es., gli estremi del decreto di autorizzazione,
o il luogo in cui è stata svolta l’attività, o l’orario di chiusura delle operazioni, o il nome e la sottoscrizione di chi le ha eseguite.
50
F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 724.
51
C. Conti, Intercettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, cit., p. 3647. A ben vedere, sottolinea A. Vele, Le
intercettazioni nel sistema processuale penale, pp. 149-150, l’attività di registrazione «simboleggia il paradigma delle garanzie, in
quanto la stessa è parte strutturale del tipico mezzo di ricerca della prova, (…) nel senso che in tanto ha rilievo il predetto strumento in quanto vi sia registrazione integrale dei dati vocali (sonori)». Ne consegue che la fonte probatoria da essa generata non
potrebbe dirsi esistente nel caso in cui, pur esistendo formalmente il supporto, esso sia andato deteriorato. Ancora, «sul piano
della conformità al modello legale, lo stesso vale per il verbale delle operazioni che, invece, rappresenta la forma tipica di documentazione delle attività procedimentali o processuali, con funzione di necessario sostegno alla primaria attività di registrazione». L’inosservanza delle prescrizioni fissate dall’art. 89 disp. att. c.p.p. per la redazione del verbale, «atte a consentire una
complessiva ed effettiva controllabilità delle operazioni compiute» varrebbe a far «scattare il “rimedio punitivo” consistente
nell’inutilizzabilità».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI DE EADEM PERSONA
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procedura formalmente “anomala”, è facilmente realizzata collegando la persona oggetto della captazione investigativa all’ambiente da questa frequentato; la “specificità” di tale rapporto (ambientepersona) è sufficiente ad avallare lo spostamento dell’operazione su autovettura diversa da quella individuata nell’originario decreto autorizzativo, benché tale variazione sia avvenuta in forza di una scelta
assunta dal pubblico ministero. La stessa connessione funzionale ai colloqui di una determinata persona legittima l’utilizzabilità dell’intercettazione eseguita, sempre su iniziativa del magistrato inquirente,
su utenza telefonica diversa da quella oggetto di autorizzazione.
L’analisi della compatibilità di una simile conclusione con l’impianto codicistico esige un richiamo
alle scelte di fondo del sistema.
In linea con l’impronta accusatoria che lo caratterizza, il codice del 1988 restituisce al pubblico ministero «un definito ruolo di parte», sicché «gli interventi gravemente limitativi di libertà individuali sono
riservati al giudice; oltre che per le misure cautelari è quanto avviene per l’intercettazione» 52.
La particolare insidiosità del mezzo ha indotto il legislatore a disegnare una precisa ripartizione dei
ruoli, che rispecchia la netta dicotomia tra funzioni: quella investigativa, rimessa all’organo d’accusa, e
quella di garanzia, assegnata al giudice. L’indispensabile premessa risiede nella considerazione che «solo un soggetto terzo (istituzionalmente preposto a funzioni diverse da quella investigativa) può verificare la conduzione delle indagini nei suoi momenti critici, allorché si manifesta il conflitto tra libertà
inviolabili ed esigenze investigative, laddove la funzione di ricerca della prova viene inevitabilmente
ad intaccare il precetto dell’art. 15 Cost». 53
Pertanto, se al pubblico ministero è assegnata, in via esclusiva, la richiesta in ordine all’intervento intercettivo nonché la gestione esecutiva della relativa attività, soltanto al giudice è riservato il potere di
attivarlo. La riserva di giurisdizione assicurata in materia di autorizzazione (e di convalida) all’intercettazione rappresenta un’ineludibile garanzia di giustizia, perché testimonia l’avvenuto bilanciamento
tra valori in conflitto e giustifica la prevalenza delle impellenze pubbliche sull’interesse privato 54.
«L’estraneità connessa al ruolo», consente al giudice di controllare «che il perseguimento dei fini corrisponda al mantenimento di una società democratica» 55, sì da trasformare l’atto da cui origina la compressione della libertà alla riservatezza delle comunicazioni nell’emblema di quella «giurisdizione di
garanzia» che si esplica in funzione di tutela dei diritti della persona 56.
Escludere parzialmente l’intervento dell’organo di garanzia, come ammette la pronuncia in commento, significa obliterare l’unico presidio al corretto incedere dell’azione repressiva ed avallare un ulteriore indebolimento del meccanismo di tutela delle posizioni giuridiche soggettive messe in pericolo
dalle esigenze investigative 57.
Invero, l’estensione della captazione su utenze ed in luoghi non inclusi nel provvedimento autorizzativo del gip, lungi dall’integrare una mera modalità esecutiva suscettibile di essere direzionata dal
magistrato d’accusa, realizza un’operazione intrusiva del tutto autonoma. L’argomento invocato dalla
Corte a sostegno della conclusione criticata, imperniato sulla identità soggettiva tra la persona origina-
52
A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 89. L’Autore prosegue evidenziando come l’ambigua definizione,
fornita dai relatori, dell’intercettazione come «atto del pubblico ministero» va intesa nel senso che in capo al magistrato inquirente residua solo la competenza a verificarne l’utilità investigativa e a disporne poi le concrete modalità esecutive e la durata;
non, invece, il potere di decidere in via autonoma, riconosciutogli dall’abrogato art. 266-ter c.p.p.
53
P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, cit., pp. 100 e 119 ss.
54
P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, cit., p. 120.
55
L. Kalb, Un binomio inscindibile: intercettazione di comunicazioni e garanzie tra prassi operative e prassi di riforma, in R.E. Kostoris
(a cura di), Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei diritti, Atti del convegno 5-7 ottobre 2007, Milano, 2009, p. 304.
56
M. Ferraioli, Il ruolo di «garante» del giudice per le indagini preliminari, cit., passim; F. Ruggeri, La giurisdizione di garanzia nelle
indagini preliminari, Milano, 1996, p. 15 ss.
57
Non può tacersi, infatti, come la funzione di garanzia svolta dal giudice per le indagini preliminari risulti già gravemente
menomata dal carattere necessariamente parziale della sua cognizione, essendo egli destinatario dei soli flussi informativi provenienti dall’accusa. L’argomento è ampiamente sviluppato da E. Zappalà, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e
di ricerca della prova, in Libertà e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari. Atti del Convegno dell’Associazione tra
gli studiosi del processo penale (Noto Marina, 30 settembre-2 ottobre 1993), Milano, 1995, passim.
Con specifico riferimento alla materia delle intercettazioni, ove l’esclusione dell’apporto della difesa è fisiologicamente imposta dalla natura dello strumento quale mezzo a sorpresa, A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 115.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI DE EADEM PERSONA
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riamente raggiunta dall’intrusione investigativa e quella che utilizza le utenze telefoniche ovvero abitualmente frequenta i luoghi oggetto della nuova captazione, mal si concilia con il reale contenuto dei
presupposti normativamente fissati.
Come noto, il giudice concede l’autorizzazione quando accerta la sussistenza di «gravi indizi» relativi ad uno specifico fatto di reato, rientrante tra quelli tassativamente elencati nell’art. 266 c.p.p., per il
cui accertamento l’intercettazione appaia «assolutamente indispensabile».
È pacifico che l’“indizio” rilevante ai sensi dell’art. 267 c.p.p. non equivale né alla prova critica di cui
all’art. 192 c.p.p. né al quantum indiziario preteso dall’art. 273 c.p.p. per l’adozione di una misura cautelare. Il requisito in parola, se da un lato impone «un vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche» 58, dall’altro assume una connotazione eminentemente oggettiva, che individua quale parametro di verifica il fatto oggetto di indagine e non la persona
dell’intercettato. I «gravi indizi» fondanti l’intercettazione attengono, cioè, all’esistenza di una fattispecie delittuosa, e non alla colpevolezza di un determinato soggetto; con la conseguenza che l’originaria
captazione ben potrebbe essere stata disposta in mancanza di un qualsivoglia orientamento soggettivo
del quadro indiziario. Se, dunque, la compressione del diritto alla segretezza delle comunicazioni può
legittimamente realizzarsi anche quando non sia riscontrabile un collegamento diretto tra la persona
dell’intercettato e la notitia criminis da indagare, non si capisce come tale connotazione possa invece assurgere a ragione giustificativa dell’estensione dell’intercettazione a tutte le utenze telefoniche o a tutte
le autovetture in uso al medesimo soggetto. Piuttosto, nesso rilevante dovrebbe ritenersi quello tra la
persona, l’indagine in corso e la specifica utenza (o lo specifico luogo) che si ritenga indispensabile sottoporre a controllo 59; elementi questi la cui individuazione spetta al giudice soltanto.
Emerge poi l’ulteriore presupposto indicato dall’art. 266 c.p.p., direttamente connesso alla funzione
propria dello strumento in esame, specificamente teso alla «ricerca di elementi di indagine la cui mancanza mortificherebbe il procedimento per l’azione» 60. L’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini è chiaro predicato del carattere residuale dell’intercettazione; equivale, cioè, ad
escluderne la praticabilità qualora gli elementi istruttori appaiano acquisibili mediante strumenti o procedure investigative differenti e meno insidiose. Ne discende, come corollario, non solo la preclusione
ad impiegare il mezzo investigativo come strumento per l’acquisizione della notizia di reato 61, ma pure
la necessità che il giudizio in ordine alla sussistenza del menzionato requisito venga replicato ogniqualvolta l’“osservazione” amplifichi il suo raggio d’azione. Non può infatti escludersi a priori che l’ulteriore intercettazione si riveli esorbitante rispetto alle attuali necessità investigative 62.
Infine, è dubbio che l’asserita «efficacia autorizzatoria» – secondo i Giudici di legittimità – possa «riconoscersi ai decreti di proroga del gip, via via intervenuti, che avevano preso atto e autorizzato il mutamento
della utenza intercettata»: il controllo sui limiti di ammissibilità dell’ingerenza deve necessariamente collocarsi ex ante, parametrarsi, cioè, al quadro probatorio disponibile al momento che immediatamente precede
l’attivazione dello strumento 63. Al provvedimento di proroga del giudice non può, dunque, riconoscersi
l’attitudine ad attestare, ora per allora, la ricorrenza delle condizioni legittimanti la diversa intercettazione.
(SEGUE) LA PROBLEMATICA INDIVIDUAZIONE DEI LUOGHI DOMICILIARI
Sul fronte delle intercettazioni inter praesentes, la pronuncia offre l’occasione per richiamare l’attenzione
su di un nodo esegetico che, per quanto non espressamente affrontato nella vicenda in esame, merita
un breve cenno.
58
Ex plurimis, Cass., sez. VI, 21 dicembre 2006, n. 42178, in CED Cass., n. 235318.
59
In argomento, V. Grevi, Sul necessario collegamento tra «utenze telefoniche» e «indagini in corso» nel decreto autorizzativo delle intercettazioni, in Cass. pen., 2009, p. 3344 ss.
60
A. Vele, Le intercettazioni nel sistema processuale penale, cit., p. 83.
61
A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 77; L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 73; C. Di Martino-T. Procaccianti, Le intercettazioni telefoniche, Padova, 2001, p. 97.
62
Come sottolinea P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, cit., p. 116, il requisito
dell’assoluta indispensabilità va correlato alla particolare captazione considerata, sicché nello specifico contesto investigativo
nel quale essa opera, i risultati probatori non possono essere altrimenti acquisiti.
63
G. Spangher, La disciplina italiana delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in Arch. pen., 1994, p. 7.
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Come noto, si definiscono ambientali, le intercettazioni di dialoghi che, svolgendosi tra persone
presenti nello stesso luogo, non richiedono l’ausilio di strumenti tecnici per la trasmissione del suono 64. È la modalità del colloquio a segnarne la distanza rispetto alle captazioni ordinarie, nonché una
idoneità intrusiva inedita 65, che rende condivisibile l’opinione di chi intravede in tale forma di intercettazione non una mera compressione del diritto alla riservatezza delle comunicazioni, quanto una più
radicale, seppur temporanea, soppressione dello stesso 66.
Nel codificare l’istituto, il legislatore del 1988 colloca le intercettazioni ambientali accanto alle captazioni di conversazioni telefoniche, estendendovi gli stessi presupposti e limiti, con un’unica ma rilevante eccezione. Qualora, infatti, “l’orecchio investigativo” penetri in luoghi rientranti nella nozione penalistica di domicilio, alle forme di salvaguardia tipicamente correlate al mezzo di ricerca della prova in
esame devono affiancarsi quelle contemplate dall’art. 14 Cost., e la captazione può ritenersi legittima
solo se sussista il «fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa» 67.
La scelta di costruire «confini “territoriali” di maggiore o minore tutelabilità del diritto alla segretezza delle comunicazioni» 68 a seconda del luogo ove si svolge il dialogo riservato, accolta dall’art. 266,
comma 2, c.p.p., impone all’interprete l’esatta individuazione del concetto di domicilio rilevante a fini
penal-processualistici.
La copiosa elaborazione sulla categoria dei “luoghi riservati”, ai fini della individuazione delle condizioni e dei limiti di ammissibilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, evidenzia, infatti,
una certa divaricazione rispetto al concetto di domicilio accolto dal diritto penale 69.
Le opinioni della giurisprudenza si rincorrono nell’affermare che la nozione di privata dimora non
evoca solo i luoghi ove si svolge la vita domestica, e cioè la casa di abitazione, ma comprende anche
ogni altro spazio che assolva alla funzione di proteggere la vita privata – e che sia perciò destinato al
riposo, all’alimentazione, alle occupazioni professionali e all’attività di svago – e rispetto al quale, il
soggetto che ne dispone, abbia la titolarità dello ius excludendi alios a tutela della propria riservatezza 70.
Per questa via, la Corte è giunta a riconoscere la possibilità di estendere la qualificazione in parola
all’ufficio privato 71 nonché al luogo di esercizio di talune attività commerciali 72, rendendo così operati-
64
Sull’argomento S. Caprioli, Intercettazioni e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice
di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 151 ss.; F.M. Iacoviello, Intercettazioni ambientali: l’audace intrusione di una norma tra garanzie costituzionali ed esigenze dell’etica sociale, in Cass. pen., 1992, p. 1565 ss.; M. Scaparone, Intercettazione di conversazioni
tra presenti, in Riv. it. dir e proc. pen., 1977, p. 802.
65
A differenza delle tradizionali intercettazioni telefoniche, nelle quali la percezione è limitata a quanto fluisce nel mezzo di
comunicazione a distanza, l’ascolto ambientale ha un perimetro di invasività ben più ampio, estendendosi a tutto quanto venga
detto in un certo luogo. Ciò, unitamente alla considerazione per la quale la captazione in parola ha una attitudine alla sorpresa
ben maggiore dell’intercettazione che avvenga per il tramite del telefono, oggi avvertito come strumento tipicamente sorvegliabile dall’autorità.
66
F.M. Iacoviello, Intercettazioni ambientali: l’audace intrusione di una norma tra garanzie costituzionali ed esigenze dell’etica sociale,
in Cass. pen., 1992, p. 1565 ss. L’idea della idoneità delle intercettazioni ambientali a svuotare di contenuti il diritto al segreto e
alla riservatezza della persona è condiviso da P. Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra costituzione e legge ordinaria, cit., p. 2.
67
Deroga a tale rigore la disciplina dettata dall’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (come modificato, in sede di conversione,
dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 e, da ultimo, dalla legge 1° marzo 2001, n. 63) in relazione ai delitti di criminalità organizzata
nonché al reato di minaccia col mezzo del telefono. Sull’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di intercettazioni
effettuate nell’ambito di procedimenti per criminalità organizzata, v. C. Carmona, Le intercettazioni ambientali in relazione alla
normativa del 1991 sui reati di criminalità organizzata, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 344 ss.; G. Melillo, La ricerca della prova fra
clausole generali e garanzie costituzionali: il caso della disciplina delle intercettazioni nei procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1997, p. 3500 ss.
68
S. Caprioli, Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, cit., p. 172, il quale, in aperta critica, prosegue affermando che «il dialogo riservato è tale a prescindere dal luogo in cui avviene, e dovunque si svolga merita la medesima tutela».
69
Sull’esigenza di una maggiore estensione del concetto a fini processuali, P. Balducci, voce Perquisizione, in Enc. dir., Vol.
XXXIII, Milano, 1983, p. 139.
70
Sez. un., 20 marzo 2006, n. 26795, in Dir, pen. proc., 2006, p. 1347, con nota di C. Conti, Le video-riprese tra prova atipica e prova
incostituzionale: le Sezioni unite elaborano la categoria dei luoghi "riservati"; Cass., sez V, 5 maggio 2010, n. 22725, in CED Cass., n.
247969; Cass., sez. I, 18 dicembre 2008, n. 4422, ivi, n. 242793; Cass., sez. II, 21 aprile 1997, n. 2873, ivi, n. 208756.
71
Cass., sez. VI, 29 settembre 2003, n. 49533, in CED Cass., n. 227835.
72
Cass., sez. I, 19 ottobre 1992, n. 4141, in Cass. pen., 1995, p. 990, con nota di A. Scella, Dubbi di legittimità costituzionale e que-
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI DE EADEM PERSONA
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va la protezione “accresciuta” contro le intercettazioni di cui all’art. 266, comma 2, c.p.p. Per converso,
ha escluso dal novero degli spazi riservati quelli in cui l’aspettativa alla privatezza è ostacolata dalla
durata minima del soggiorno 73, ovvero rispetto ai quali il potere di esclusione altrui è rinvenibile in capo a soggetti diversi da coloro che invocano la protezione 74.
Ebbene, uno degli aspetti più delicati è quello della riconducibilità dell’abitacolo di un’autovettura al
concetto di privata dimora. La soluzione negativa, accolta da molte pronunce, fa leva sulla mancanza,
all’interno del veicolo, «dei comfort minimi necessari per potervi risiedere in modo stabile per un apprezzabile lasso di tempo» nonché sulla natura funzionale del bene, cioè sull’essere lo stesso normalmente deputato al trasporto di persone ed oggetti 75. Diverso orientamento, poggiando su un’interpretazione più evolutiva del concetto di privata dimora, ne àncora la definizione non ad una valutazione astratta di abitabilità dell’ambiente bensì all’attività ivi compiuta, basandosi sulla considerazione
della sua inerenza anche in via transitoria alla vita privata personale. In questa ottica, anche al mezzo di
trasporto, quando destinato allo svolgimento di attività strettamente personali, è estensibile la portata
del concetto di privata dimora, con la conseguente applicabilità della disciplina di cui all’art. 266, comma 2, c.p.p. 76
I confini appaiono quanto mai sfocati. Non pare, dunque, inopportuno sollecitare il legislatore, affinché si faccia carico di recuperare quella sensibilità al tema della tutela della riservatezza nelle comunicazioni che ispira la Carta, anche in considerazione dell’insopprimibile diritto dell’individuo a scegliere liberamente lo spazio più idoneo alla esplicazione della propria personalità.
BREVI CENNI DI SINTESI
L’excursus condotto lungo i binari della prassi, cui è demandato il difficile compito di far vivere le norme, sollecita un necessario richiamo al rispetto delle forme.
Non si vuol negare l’importanza delle ragioni sottese all’argomentare della Corte. I risultati conoscitivi delle intercettazioni sono destinati a rivestire un ruolo primario, finanche decisivo, nell’accertamento della res iudicanda. Ed è chiaro che, a voler rispettare in senso rigoroso la lettera della legge, si determinerebbe una interruzione dell’attività intercettiva in itinere, nell’attesa che sopraggiunga l’autorizzazione del g.i.p. ad iniziare le operazioni sull’utenza o sull’autovettura diverse.
Tuttavia, l’attribuzione al giudice del potere di disporre della libertà alla segretezza delle comunicazioni è «costitutivo di un dovere di verificare la realizzazione della fattispecie da cui dipende la legittimità
nell’esercizio del potere stesso» 77; dovere che si esplica anche nella necessità che sia l’organo giurisdizionale ad individuare specificamente, per ciascuna operazione di intercettazione, l’utenza o l’ambiente
stioni applicative in tema di intercettazioni ambientali compiute in luogo di privata dimora. Secondo Cass., sez. IV, 12 dicembre 2003, n.
45323, in CED Cass., n. 226887, non rientra nella nozione in esame una agenzia di pompe funebri, essendo un luogo aperto al
pubblico, dove si esercita attività commerciale, in contatto diretto e continuo con la clientela, e, quindi, con accesso indiscriminato di persone, e non potendosi affermare, al contrario, che esso assolva alla funzione di proteggere la vita privata, nelle sue
diverse esplicazioni concernenti il riposo, l’alimentazione, l’amministrazione, l’occupazione professionale o lo svago, di chi vi si
intrattiene.
73
È il caso dei bagni pubblici, cfr. Cass., sez. VI, 10 gennaio 2003, n. 3443, in Cass. pen., 2004, p. 1305.
74
Così per l’ambiente carcerario, sia esso la cella o la sala colloqui dell’istituto di detenzione: trattasi infatti di uno spazio lato
sensu pubblico, sotto il diretto e immediato controllo dell’amministrazione penitenziaria che su di esso esercita la vigilanza e cui
compete lo ius excludendi onde non equiparabile al domicilio o comunque ai luoghi di privata dimora. Cfr. Cass., sez. II, 20 novembre 1996, n. 2103, in Riv. giur. sarda, 1998, p. 785; Cass., sez. VI, 23 febbraio 2004, n. 36273, in Giur. it., 2005, p. 1925; Cass.,
sez. II, 20 novembre 1997, n. 2103, in Cass. pen., 1999, p. 1518.
75
A mero titolo d’esempio, Cass., sez. I, 5 agosto 2008, n. 32851, in CED Cass., n. 241229; Cass., sez. I, 31 marzo 2009, n. 13979,
ivi, n. 243556.
76
Cass., sez. I, 3 marzo 1997, n. 1339, in Cass. pen., 1998, p. 2402; Cass., sez. II, 12 marzo 1998, n. 1141, ivi, 2000, p. 2026, con
nota di F. Falato, Intercettazioni telefoniche e dettato costituzionale. A proposito di una consolidata giurisprudenza; Cass., sez. I, 18 ottobre 2000, n. 1350, ivi, 2001, p. 2746 ss. con nota di C. Fanuele, Il concetto di privata dimora ai fini delle intercettazioni ambientali; Cass.,
sez. II, 4 novembre 2014, n. 45512, in Dir. e giust., 2014, 1, p. 42, con nota di S. Gentile, L’autovettura è luogo di privata dimora solo se
vi è prova della sua destinazione ad uso abitativo.
77
E. Zappalà, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e di ricerca della prova, cit., p. 69.
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da sottoporre a controllo, prima che questo abbia inizio 78. Come autorevolmente osservato, «un provvedimento autorizzativo che tacesse sul punto sarebbe una delega in bianco, sostanzialmente paragonabile, quanto agli effetti sanzionatori, alla mancanza di autorizzazione» 79.
Le caratteristiche strutturali e funzionali che contraddistinguono l’istituto delle intercettazioni, «affilato strumento dell’indagine penale» 80, suggeriscono estrema cautela nel maneggiare la privata intimità
dell’individuo, la cui sfera di rilevanza senz’altro abbraccia la libertà e la segretezza dell’espressione
comunicativa. Nel confermarsi quale luogo concettuale del più significativo ritorno giurisprudenziale
alla vecchia regola del “male captum bene retentum” 81, la materia de qua, ove non ricondotta entro i solidi
binari della legalità, rischia di trasformarsi in potere insindacabile, esponendo il nucleo intangibile dei
valori afferenti alla persona ad un sacrificio che non trova congrua proporzione nell’esigenza di amministrazione della giustizia.
78
Converge verso la conclusione sostenuta anche il rispetto del criterio della pertinenza di cui all’art. 189 c.p.p., che a parere
della dottrina maggioritaria è ben applicabile, insieme con il complesso di regole dettate dal titolo I del Libro III del codice anche agli atti a natura probatoria compiuti nel corso delle indagini preliminari, salvo che, nella disciplina dello specifico provvedimento, si rinvengano deroghe espresse o impliciti profili di incompatibilità. Nella disciplina delle intercettazioni, non solo
mancano profili ostativi all’estensione di tali principi, ma «una rigorosa applicazione del principio di pertinenza (…) è indispensabile: altrimenti il decreto autorizzativo potrebbe legittimamente glissare proprio sul punto più delicato e le intercettazioni, in
definitiva, si ridurrebbero ad uno strumento per cercare prove al buio». Così, A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit.,
pp. 124-125.
79
A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., pp. 120-121.
80
L’espressione è di A. Scalfati, Manuale di diritto processuale penale, Torino, 2015, p. 28.
81
A. Pennisi, La degenerazione della prova penale nella prassi giurisprudenziale, in Proc. pen. giust., 2013, n. 2, p. 2.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | INTERCETTAZIONI DE EADEM PERSONA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
70
Misure cautelari reali e preclusione del ne bis in idem
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 29 GENNAIO 2016, N. 53877 – PRES. GRILLO; REL. ANDREAZZA
Il principio del ne bis in idem cautelare opera anche tra procedimenti e non solo tra provvedimenti, in quanto
dev’essere tutelato l’interesse dell’indagato a non essere sottoposto a due iniziative cautelari in contemporanea;
la pendenza del primo procedimento cautelare preclude l’avvio del secondo, salvo che questo non si fondi su elementi nuovi.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. (Omissis), quale legale rappresentante della (omissis) s.r.l. e socio della (omissis), (omissis) quale
rappresentante legale della (omissis), società socia della (omissis), hanno presentato ricorso avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Belluno ha rigettato la richiesta di riesame nei confronti del decreto di
sequestro preventivo del G.i.p. dello stesso Tribunale depositato in data 13/5/2015 per il reato di cui all’art. 4 del D. Lgs. n. 74 del 2000, per avere posto in essere una complessiva condotta fraudolenta in violazione della disciplina antielusiva dell’interposizione prevista dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600 del 1973.
2. Nella sostanza, si è addebitato agli imputati di avere, al solo fine di fruire di un trattamento fiscale
più favorevole, in luogo di procedere a perfezionare la cessione dei diritti di concessione, ancora da ottenere, per la costruzione di una centrale idroelettrica da (omissis) a (omissis), creato una società intermedia, ovvero la (omissis), priva di sostanziale oggetto sociale, attività economica e dipendenti, e formata dagli stessi soci della (omissis) e dai loro familiari, cui sono stati ceduti il progetto relativo e gli oneri
accessori per la costruzione della centrale, venendo poi successivamente alienato nel giro di poche settimane l’intero pacchetto societario alla (omissis), vera destinataria sin dall’origine della cessione
dell’autorizzazione unica; con tale operazione, anche considerando che, poco prima della cessione, grazie all’operazione di affrancamento delle azioni alla data del 1/7/2011, si era venuta a creare una minusvalenza e che la suddivisione delle azioni della (omissis) tra sette soci e non più tra i soli tre originari
della (omissis), aveva portato la quota di ognuno al di sotto del 25% del complessivo valore del capitale
sociale, si era fruito di una minusvalenza con imposta sostituiva del solo 2% a norma del c.d. "decreto
sviluppo" del 2011 (art. 7, comma 2 lett. dd) del d.i. n. 70 del 2011).
3. (omissis), con un primo motivo, deduce inosservanza di legge per mancanza di motivazione in relazione alla violazione del principio del ne bis in idem cautelare, premettendo che il provvedimento impugnato rappresenta l’esatta reiterazione di altro precedente che, emesso per lo stesso addebito, per i
medesimi importi e nei riguardi degli stessi indagati a seguito di richiesta di riesame, è stato annullato
dal Tribunale del riesame in data 8/5/2015 a causa della mancata notifica del verbale di esecuzione agli
interessati (con decisione poi impugnata per cassazione dal P.M. in data 13/5/2015). Deduce, inoltre,
che il tribunale non ha ritenuto violato il principio del ne bis in idem da un lato, perchè il primo provvedimento è stato dichiarato inefficace unicamente per vizi meramente formali, sicché il giudice non è stato chiamato a riesaminare nel merito gli stessi elementi già ritenuti insussistenti o insufficienti;
dall’altro perché, comunque, alla data della richiesta dei P.M. di pronuncia del nuovo decreto non era
ancora pendente il ricorso per cassazione presentato contro l’ordinanza del Tribunale del riesame dell’
8/05/2015.
Ciò posto, deduce che il G.i.p. non ha considerato il principio secondo cui non sarebbe comunque
consentita la moltiplicazione dei titoli cautelari relativi al medesimo oggetto all’interno dello stesso
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MISURE CAUTELARI REALI E PRECLUSIONE DEL NE BIS IN IDEM
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procedimento cosi da avere più decreti di sequestro in contemporanea, come avviene laddove, a seguito di decisione di annullamento del tribunale del riesame, venga richiesta una nuova misura coercitiva
per lo stesso fatto e contemporaneamente proposto ricorso avverso la decisione negativa del Tribunale.
E, nella specie, il secondo provvedimento di sequestro sarebbe stato emesso in pendenza dei termini
per proporre ricorso per cassazione.
4. Con un secondo motivo lamenta l’inosservanza della legge penale per mancanza di motivazione
in ordine alla insussistenza del fumus commissi delicti, giacché l’ordinanza impugnata, tra l’altro per relationem rispetto al provvedimento impugnato, si è limitata a scrivere, in termini del tutto generici e validi per qualunque provvedimento in materia, di anomalie delle operazioni poste in essere e di un contesto verosimilmente elusivo sicché, pur tra l’altro ritenendo sussistere ragioni economiche a giustificazione delle stesse, ha ritenuto di individuare comportamenti tesi ad utilizzare in modo strumentale
operazioni e negozi giuridici finalizzati a evitare l’insorgenza dell’imposizione fìscale.
5. Con un terzo motivo lamenta l’inosservanza di norme giuridiche in riferimento all’art. 37 bis del
d.P.R. n. 600 del 1973; in particolare, riepilogando particolareggiatamente le vicende societarie che
avrebbero dato luogo all’accusa, deduce che il giudice ha errato laddove non ha correttamente considerato le molteplici e solide ragioni di natura economica che hanno determinato le operazioni e che fanno
venir meno la natura elusiva della condotta; al contrario, sia la costituzione della "società-veicolo”
(omissis), sia la sottoscrizione del capitale sociale di quest’ultima da parte delle persone fisiche e non
delle stesse persone giuridiche socie della (omissis), sia l’operazione di affrancamento fiscale delle azioni
della (omissis) s.p.a., tutte consentite dall’ordinamento, sono dipese da precise ragioni economiche segnatamente indicate in ricorso; inoltre non è stata comunque considerata la mancanza del dolo specifico
di evasione, ontologicamente non sussistente laddove l’operazione sia stata posta in essere (come è accaduto nella specie) per perseguire appunto obiettivi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.
Precisa poi che - in particolare in relazione alla determinazione del valore della frazione del patrimonio
netto che ha in effetti comportato l’insussistenza di plusvalenze tassabili - la stessa è il frutto di attività
valutativa del professionista incaricato, espressa in completa autonomia e senza istruzioni dell’assemblea o del consiglio di amministrazione della società, non riconducibile al ricorrente, quale socio della
(omissis), che ha unicamente espresso parere favorevole in ordine alla scelta del regime di affrancamento.
6. Con un quarto motivo lamenta l’erronea applicazione della legge penale per totale mancanza di
motivazione in ordine al terzo motivo di riesame con il quale si era addotta l’insussistenza del fumus,
giacché la disposizione contestata, disciplinante il delitto di dichiarazione infedele, sanzionerebbe
esclusivamente le condotte giuridicamente qualificabili come evasive, e non quindi come elusive. Sul
punto, in particolare, contesta l’orientamento giurisprudenziale che ha equiparato le fattispecie penali
di evasione fiscale e le condotte meramente elusive, giacché fondamentalmente adottata, come anche
rilevato dalla dottrina, in violazione del principio di legalità e richiama, invece, la giurisprudenza di segno contrario espressa dalla sentenza n. 36859 del 2013 di questa Corte le cui argomentazioni sono state
sostanzialmente riprese dal legislatore intervenuto con la legge delega n. 23 dell’ 11/03/2014 che ha incaricato il governo di individuare i confini tra fattispecie di elusione da una parte e di evasione fiscale
dall’altra e delle relative conseguenze sanzionatorie.
7. (Omissis) e (omissis) lamentano, con un unico articolato motivo, la violazione degli artt. 111 Cost.,
649 c.p.p. e 12, comma 2, delle preleggi in relazione all’istituto della preclusione procedimentale. Deducono come del tutto ininfluente l’affermazione del Tribunale secondo cui non era preclusa ai G.i.p.
l’emissione di un nuovo decreto di sequestro atteso che il primo era stato annullato per un vizio di forma; infatti la questione non era quella di stabilire se, a fronte di un precedente annullamento per vizi di
forma, fosse possibile emettere nuovo decreto di sequestro, essendo ciò pacificamente ammissibile, ma
quella della possibilità o meno che, in presenza di un procedimento cautelare non conclusosi, essendo
pendente il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza riattiva dei tribunale del riesame, il P.M. potesse
avviare, come avvenuto nella specie, un nuovo procedimento cautelare basato sulla medesima ipotesi
di reato e sugli stessi elementi di fatto e relativo ai medesimi beni. In realtà, proprio la presentazione
del ricorso per cassazione rendeva illegittimo, secondo i ricorrenti, il secondo procedimento cautelare e,
in particolare, il secondo decreto di sequestro preventivo in quanto instaurato in violazione del principio della preclusione procedimentale. Richiamano a tali fini la sentenza n. 39902 del 2014 di questa Corte che ha affermato non essere consentito al P.M., a seguito di decisione del riesame di annullamento
per motivi formali del sequestro preventivo, richiedere al giudice l’emissione di nuovo provvedimento
per lo stesso fatto proponendo contemporaneamente ricorso per cassazione avverso la decisione di rieAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MISURE CAUTELARI REALI E PRECLUSIONE DEL NE BIS IN IDEM
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same. Invero, la garanzia di non violazione del principio si potrebbe avere solo qualora il nuovo decreto fosse intervenuto una volta esaurito il primo procedimento cautelare, ovvero, una volta decorsi i
termini per proporre ricorso in cassazione; diversamente ragionando, si correrebbe il rischio o di avere
due provvedimenti contrastanti tra loro, oppure, addirittura, la sovrapposizione di due sequestri. Dal
canto suo, il Tribunale del riesame ha valutato esclusivamente la trattazione dei provvedimenti senza
considerare che ciò che deve rilevare non sono i singoli provvedimenti che si inseriscono in un determinato procedimento, bensì i procedimenti complessivamente intesi; da qui l’irrilevanza del fatto che il
ricorso per cassazione sia stato proposto il giorno successivo rispetto all’emissione del secondo decreto
di sequestro, giacché, al momento dell’emissione di questo, il procedimento relativo al primo decreto di
sequestro era ancora pendente, risultando non trascorsi i termini per ricorrere. Inoltre, a dire dei ricorrenti, il Tribunale ha errato nel ritenere di non potere considerare i dati di formazione successiva alla
data di emanazione del provvedimento impugnato, essendo invece di costante affermazione il fatto che
il Tribunale del riesame debba tener conto anche di tutta la documentazione sopravvenuta all’emissione dei provvedimento della cui legittimità si discute, tanto più trattandosi di atti inerenti al procedimento cautelare stesso. Quanto ai merito, i ricorrenti richiamano integralmente le considerazioni di
cui al ricorso presentato dinanzi al Tribunale del riesame di Belluno.
CONSIDERATO IN DIRITTO
8. I ricorsi sono fondati laddove pregiudizialmente deducono la violazione dei principio del ne bis in
idem cautelare.
Va ricordato che, in esito all’elaborazione sulla applicabilità, all’interno dei giudizio cautelare, della
previsione di cui all’art. 649 c.p.p. in ordine al divieto di un secondo giudizio, questa Corte a Sezioni
Unite, con sentenza n. 18339 del 31/03/2004, Donelli e altro, Rv. 227358, pur intervenendo nell’ambito
delle misure cautelari di natura personale ha affermato, con valenza evidentemente estensibile anche
alle misure cautelari reali, che qualora il P.M. si determini a coltivare contemporaneamente, da un lato,
la richiesta di rinnovazione della misura, già "in prima battuta" negata, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto e dall’altro, una impugnazione avverso il provvedimento reiettivo, deve ritenersi preclusa al G.i.p., in pendenza di quest’ultima, la potestà di statuire ancora in ordine alla medesima domanda devoluta in sede di gravame al vaglio del Tribunale del riesame; infatti, ha proseguito la
Corte, "non si potrebbe consentire all’organo dell’accusa, nell’investire della decisione sulla stessa azione cautelare diversi giudici, di perseguire l’abnorme risultato di un duplice, identico, titolo". Sulla scia di tale arresto,
poi, Sez. 3, n. 39902 del 28/05/2014, Ramasso ed altri, Rv. 260383, in fattispecie nella quale, a seguito di
declaratoria di inefficacia da parte del Tribunale del riesame di un provvedimento di sequestro preventivo, il G.i.p., a fronte di intervenuta presentazione di ricorso per cassazione, aveva, su richiesta dello
stesso P.M., emesso un secondo provvedimento per i medesimi fatti, ha ulteriormente specificato che
non è consentito al P.M., a seguito di una decisione del tribunale del riesame che abbia annullato per
motivi formali un provvedimento cautelare, richiedere nei confronti dell’indagato una nuova misura
coercitiva per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi della precedente, e, contemporaneamente,
proporre ricorso avverso la decisione del riesame, al fine di conseguire, attraverso il suo annullamento,
una nuova pronuncia di merito sul medesimo fatto oggetto della nuova iniziativa cautelare (così anche,
Sez. 6, n. 11937 del 26/02/2009, P.M. in proc. Mautone, Rv. 242930).
Ha anche, significativamente, precisato che il principio del ne bis in idem cautelare opera anche tra
procedimenti e non solo tra provvedimenti, in quanto deve essere tutelato l’interesse dell’indagato a
non essere sottoposto a due iniziative cautelari in contemporanea e che la pendenza del primo procedimento cautelare di regola preclude l’avvio del secondo, salvo che quest’ultimo si basi su elementi
nuovi; in tale ultima ipotesi è quest’ultimo a prevalere sul primo, ma in nessun caso il P.M. può coltivare entrambi.
In definitiva, dunque, non è consentita la moltiplicazione dei titoli cautelari relativamente al medesimo oggetto ed all’interno del medesimo procedimento così da avere più decreti di sequestro in contemporanea (Sez. 6, n. 16668 dell’11/03/2009, P.M. in proc. Silvestri, Rv. 243533).
9. Ciò posto in via di principio, emerge allora che, nella specie, analoga a quella già considerata da
questa Corte con la sentenza n. 39902 del 2014 cit., il G.i.p. non poteva, stante la preclusione processuale
appena ricordata, adottare un secondo provvedimento di sequestro reiterativo di quello già annullato
dal Tribunale del riesame.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MISURE CAUTELARI REALI E PRECLUSIONE DEL NE BIS IN IDEM
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Risulta infatti dagli atti, che, annullato dal Tribunale del riesame, per ragioni di carattere processuale, in data 08/05/2015, il provvedimento di sequestro già emesso dal G.i.p. in data 09/04/2015, il P.M.,
nella pendenza dei primo procedimento cautelare, oltre a richiedere, in data 12/05/15, un secondo
provvedimento di sequestro, presentava altresì ricorso per cassazione in data 13/05/15 avverso l’ordinanza di annullamento del Tribunale; nella medesima giornata, poi, il G.i.p. depositava in cancelleria
il secondo provvedimento cautelare richiesto (in tal data avendo infatti acquistato rilevanza esterna lo
stesso pur a fronte della apposta data di emissione nel precedente giorno: cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 1317
del 23/11/2004, P.M. in proc. Sufaj, Rv. 230969). Sennonché, giusta quanto già affermato da questa Corte, l’adozione di tale secondo provvedimento, pendente il primo procedimento e pendente il ricorso per
cassazione interposto dallo stesso P.M. richiedente avverso l’ordinanza di annullamento del primo decreto, era preclusa.
E che il ricorso debba ritenersi temporalmente precedente alla adozione del secondo decreto (benché
entrambi riferibili alla medesima giornata senza ulteriore indicazione oraria) è un dato che non solo
scaturisce dalla considerazione che, ove fosse stato il contrario, la presentazione del gravame non
avrebbe più avuto senso ai fini perseguiti dal P.M., ma anche da una necessaria interpretazione in favorem rei sottesa alla disciplina della preclusione processuale, chiaramente connotata da finalità di garanzia nei confronti dell’indagato.
Né, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, la preclusione dovrebbe ritenersi esclusa per il
fatto che la richiesta del P.M. di adozione del secondo provvedimento sia intervenuta anteriormente alla presentazione del ricorso, giacché, una volta interposto quest’ultimo, come già chiarito dalle Sezioni
Unite, non era più consentito al giudice decidere in merito alla stessa domanda cautelare.
10. L’impugnata ordinanza va, dunque, annullata senza rinvio, con coevo e conseguenziale annullamento anche del provvedimento di sequestro in data 13/05/2015.
[Omissis]
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SAVERIO DI LERNIA
Avvocato
Sequestro preventivo, litispendenza e quadro cautelare
immutato: il pubblico ministero non può duplicare
la domanda
Preventive seizure, litispendenza and precautionary framework
unchanged: the public prosecutor can not duplicate the question
La litispendenza cautelare è ormai divenuta principio di sistema, che impedisce la riproposizione, da parte del pubblico ministero, di istanze prive di alcun elemento di novità rispetto a quelle oggetto di precedente valutazione giurisdizionale, per le quali pende impugnazione proposta dallo stesso organo di accusa. Difatti, la valorizzazione della
preclusione del ne bis in idem anche nei procedimenti cautelari ha consentito l’avvio di un articolato percorso giurisprudenziale, finalizzato, da un lato, a garantire il soggetto accusato da un’indebita duplicazione dei titoli cautelari
per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi e, dall’altro, a conferire stabilità ai provvedimenti emessi. Le
misure cautelari, reali e personali, si confermano, così, terreno di applicazione dei principi generali sottesi al processo penale.
The precautionary litispendenza has become a system principle to prevent the repetition, by the public prosecutor,
the instances without any elements of novelty than did previous judicial evaluation, for which pending appeal by
the prosecution organ. In fact, the exploitation of the exclusions of ne bis in idem in the precautionary proceedings has enabled the start of a complex process of case law, aimed, on the one hand, to ensure the person accused of undue duplication of precautionary titles for the same facts and on the basis of the same elements, and
secondly, to give strength to the output measures. Precautionary measures, real and personal, are confirmed as
well, the ground application of the general principles underlying the criminal trial.
PREMESSA: IL GIUDICANDO CAUTELARE COME ESIGENZA DI GARANZIA E STABILITÀ
La sentenza in oggetto costituisce una rapida sintesi degli approdi giurisprudenziali maturati in tema
di litispendenza cautelare (anche definita “giudicando cautelare”) e della sua operatività in caso di misure cautelari reali.
Preliminare ad ogni successiva analisi, pare la considerazione di come tale istituto, unitamente al più
noto “giudicato cautelare”, sia l’esito di una elaborazione giurisprudenziale piuttosto corposa, tesa a
dare corpo e limiti ad una esigenza procedurale pur avvertita ma non codificata o, almeno, privata di
uno specifico riferimento normativo in ambito cautelare.
In particolare, spesso si è avvertita la necessità di comprendere il valore e gli effetti delle decisioni
assunte all’interno di un incidente cautelare in ordine alle ulteriori iniziative delle parti, interrogandosi
sulla possibilità che gli attori del procedimento de libertate possano incorrere in preclusioni determinate
dalla pendenza di procedimenti d’impugnazione (giudicando) ovvero dagli esiti giurisdizionali degli
stessi (giudicato).
Ed invero, se da un lato vi è chi ha ritenuto che, già con l’elaborazione dell’originario e differente
concetto di giudicato cautelare 1, la giurisprudenza abbia compiuto un’operazione interpretativa al-
1
Cfr. F. Terrusi, Le misure personali di coercizione, Torino, 2000, p. 219; C. Santoriello, Vizi formali del provvedimento coercitivo e
giudicato cautelare, in Giur. it., 2000, p. 142.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO PREVENTIVO, LITISPENDENZA E QUADRO CAUTELARE IMMUTATO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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quanto audace, perché determinata dall’esigenza di arginare le ripetute impugnazioni del diniego pronunciato dal giudice ad opera dell’imputato 2, dall’altro la prassi giudiziaria ha spesso riscontrato – come nel caso di specie – l’opposta necessità di scoraggiare reiterate e contemporanee iniziative cautelari
del pubblico ministero, che possano avere come conseguenza un’inaccettabile moltiplicazione dei titoli
relativamente al medesimo oggetto ed all’interno del medesimo procedimento 3. Nei casi citati, il comune denominatore perseguito dalla Cassazione è stato quello di riscontrare la maggiore stabilità possibile dell’accertamento incidentale, evitando la sovrapposizione di iniziative e rimedi 4.
LA PRECLUSIONE: RIFLESSIONI DELLA DOTTRINA E SCELTE DELLA GIURISPRUDENZA
Come si vedrà più compiutamente di seguito, in ambito cautelare il fulcro del sistema elaborato è ravvisabile nella preclusione del ne bis in idem che, attraverso una serie continuativa di arresti giurisprudenziali, è passata dal fondare il giudicato cautelare al diventare criterio di sistema per tutta la materia
de qua, segnando una profonda maturazione, nella corte di legittimità, dei confini e degli effetti ad essa
sottesi 5.
Il punto iniziale di tale riflessione è stata la generale acquisizione, anche in ambito processualpenalistico, della nozione di preclusione quale strumento di sviluppo armonico, di ordine e di progressione
funzionale del processo 6, concettualmente assertore di esigenze di economia e di stabilità processuale.
I primi e lungimiranti studi su tale istituto sono stati condotti dal Chiovenda 7, che gli ha attribuito
una portata generale nell’ambito dei vari settori del diritto processuale. In particolare, nella concezione
del predetto studioso, una preclusione ricorrerebbe allorquando si fosse impossibilitati a compiere un
atto processuale a causa o del decorso dei termini o del compimento di atti che appaiano incompatibili
con l’esercizio di questo o del precedente valido compimento dell’atto stesso. Per questo, il suo fondamento risiederebbe nel concetto di autoresponsabilità, in quanto ordinariamente collegata alla condotta
tenuta dalle parti ed alle scelte che esse compiono nell’esercizio del loro potere dispositivo all’interno
del processo 8.
Appare utile ricordare, per le implicazioni che ciò comporterà in ordine alle riflessioni dottrinali e
giurisprudenziali successive, come l’Autore abbia ritenuto che la massima espressione di tale concetto
2
Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2015, p. 403; spiegazione simile si rinviene anche in Cass., sez. un., 24
maggio 2004, n. 29952, in Cass. pen., 2005, p. 3934, con nota di C. Vitiello, Sui limiti del giudicato cautelare, in cui la Corte afferma
che «l’intento [dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale della nozione e dei limiti del cd. giudicato cautelare] risponde ad
un generale principio di economia processuale che mira ad impedire l’indefinita riproposizione di istanze sulle misure cautelari,
fondate sui medesimi presupposti di richieste già vagliate e respinte, esonerando il giudice investito di successive istanze
dall’onere di ripetere le stesse argomentazioni ed evitando un inutile spreco di energie processuali».
3
Cfr. Cass., sez. VI, 11 marzo 2009, n. 16668, in CED Cass., n. 243533.
4
Cfr. P. Maggio, “Con la “litispendenza cautelare” le Sezioni Unite intervengono sul catalogo delle preclusioni alle iniziative del
pubblico ministero”, in Proc. pen. giust., I, 5, 2011, p. 82, (nota a Cass., sez. un., 16 dicembre 2010, n. 7931).
5
Cfr. Cass., sez. III, 25 marzo 2014, n. 26367, ove si chiarisce che «da tempo la giurisprudenza di questa Corte ha decisamente abbandonato, anche dal punto di vista terminologico, il riferimento al c.d. “giudicato cautelare” in materia di provvedimenti inerenti alla libertà personale o reale, preferendo ispirarsi al principio, più proprio e dunque più pertinente della preclusione endoprocessuale per spiegare il fenomeno del “ne bis in idem cautelare”. Alla materia cautelare non si addice, infatti,
l’idea del “giudicato”, che evoca i concetti di definitività e di stabilità estranei alla teoria del processo cautelare»; vd. anche
Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29952, cit., in cui si afferma che «il richiamo ai principi del “giudicato” in senso proprio deve
considerarsi per certi aspetti fuorviante, in quanto la funzione e la peculiarità dei provvedimenti cautelari impedisce di porli
sullo stesso piano delle decisioni giudiziarie definitive. L’efficacia dei provvedimenti cautelari è, infatti, per sua natura, contingente e subordinata alla presenza ed al perdurare delle condizioni genetiche di applicabilità delle misure stesse, mentre il
concetto di giudicato evoca generalmente una situazione di immutabilità e definitività. Appare opportuno, conseguentemente,
utilizzare, con riferimento agli effetti delle pronunce sui provvedimenti cautelari, il più limitato criterio della “preclusione
processuale”, che rende inamissibile la reiterazione di provvedimenti aventi il medesimo oggetto».
6
Cfr. G. Silvestri, Le preclusioni nel processo penale, in Arch. pen., 2011, p. 547; secondo Cass., sez. un., 16 dicembre 2010, n.
7931, in Proc. pen. giust., I, 5, 2011, p. 69, si tratta di un «istituto attinente all’ordine pubblico processuale e coessenziale alla
stessa nozione di processo come sequenza ordinata di atti coordinati fra loro, ciascuno dei quali condizionato da quelli che lo
hanno preceduto e condizionante quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali».
7
Cfr. G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, p. 858.
8
Cfr. G. Silvestri, Le preclusioni nel processo penale, cit., p. 549.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO PREVENTIVO, LITISPENDENZA E QUADRO CAUTELARE IMMUTATO
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sarebbe costituita dal “giudicato”, che assicurerebbe «la intangibilità del risultato del processo, cioè il
riconoscimento o il disconoscimento di un bene» 9. Si parlerebbe, così, di “somma preclusione” in quanto, a differenza della preclusione ordinaria, il giudicato spingerebbe i suoi effetti indefinitamente nel futuro, impedendo una volta per tutte la proponibilità di ogni altra questione 10.
Preclusione e cosa giudicata, così, si delineerebbero come fenomeni diversi, che tenderebbero a scopi
differenti, in quanto la prima renderebbe possibile l’ordinato svolgimento del giudizio con la progressiva e definitiva eliminazione di ostacoli acquistando, solo a processo ultimato, la funzione di impedire
il mutamento del risultato ottenuto.
Estremizzando tale impostazione, la dottrina processualpenalistica prevalente ha conferito maggior
rilevanza alla figura della preclusione-consumazione, correlandola, secondo un’accezione più restrittiva, esclusivamente alle situazioni di esaurimento del potere precedentemente già esercitato 11 mentre,
secondo altri autori, la preclusione coinciderebbe semplicemente, con l’inadempimento di un onere, in
quanto conseguente al mancato svolgimento di una determinata attività nei termini previsti 12.
A fronte di tali pur variegate riflessioni, la giurisprudenza sembra aver preferito l’impostazione più
lata offerta dal Chiovenda, il cui ventaglio di ipotesi consente di ottenere più chiavi risolutive delle
problematiche ermeneutiche di volta in volta affrontate, con possibilità di optare per quella ritenuta più
confacente al caso concreto 13.
In proposito, dibattuta sembra essere anche l’identificazione della ratio sottesa all’istituto in esame
che, in quanto fenomeno tipico dell’iter procedimentale, viene solitamente invocata come espressione
del principio di ragionevole durata del processo 14, teoricamente confliggente con l’aspirazione alla ricerca di giustizia 15: quest’ultima, difatti, richiederebbe l’assenza di alcun limite preclusivo all’accertamento della verità storica, con conseguente possibilità di regressione del processo in ogni caso di necessità a fasi e gradi antecedenti 16.
Tuttavia, appare estremamente condivisibile l’opinione di coloro che, in dottrina, hanno rimarcato
l’assenza di contrapposizione concettuale tra esigenza di certezza e celerità processuale da un lato ed
esigenza di giustizia dall’altro, poiché sia la certezza che la celerità «sono pure determinate da esigenze
di giustizia» 17.
A ciò si aggiunga come le medesime Sezioni Unite 18 abbiano proposto un’applicazione dell’istituto
in commento che, partendo dalla base logico-normativa rinveniente dall’art. 12 disp. sulla legge in generale, si àncora all’art. 111 Cost. (il giusto processo regolato dalla legge), da cui discende la considerazione «che nessun tipo di processo, neppure quello più rapido, può meritare la qualifica di “giusto”,
quando la celerità dei ritmi processuali sia il risultato del sacrificio di valori di rango costituzionale superiore o paritario» 19.
Orbene, le riflessioni della dottrina processualpenalistica non hanno avuto ad oggetto solo il rapporto, precedentemente accennato, tra preclusione e giudicato, ma si sono concentrate, inevitabilmente,
9
Cfr. G. Chiovenda, Cosa giudicata e preclusione, in Riv. it. sc. giur., 1933, p. 3.
10
Per la distinzione tra giudicato e preclusione, cfr. G. Chiovenda, Cosa giudicata e preclusione, cit., p. 45, nonché S. Riccio, La
preclusione processuale penale, Milano, 1951, p. 94; difforme G. Lozzi, Preclusioni (dir. proc. pen.), in Enc. giur., Roma, 1990, p. 3.
11
Così E. Marzaduri, Opinioni a confronto. Preclusioni processuali e ragionevole durata del processo, in Criminalia, 2008, p. 242; per
una critica a tale posizione vd. G. Silvestri, Le preclusioni nel processo penale, cit., p. 550.
12
Cfr. M. Taruffo, Preclusioni istruttorie e diritto alla prova, in Riv. dir. proc. 1998, p. 973; L. P. Comoglio, Preclusioni istruttorie e
diritto alla prova, in Riv. dir. proc., 1998, p. 976.
13
Cfr. Cass., sez. un., 28 settembre 2005, n. 34655, in Cass. pen., 2006, p. 239.
14
Cfr. Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29952, cit. sub nota 1.
15
Cfr. G. Guarnieri, Preclusione (dir. proc. pen.), in Noviss. dig. it., Torino, 1966, p. 570.
16
Cfr. V. Andrioli, Preclusione (dir. proc. civ.), in Noviss. dig.it., Torino, 1966, p. 568.
17
Così G. Lozzi, Preclusioni (dir. proc. pen.), cit., p. 2, che specifica come è sufficiente «rilevare come la eccessiva lunghezza dei
tempi processuali porti sempre ad una «ingiustizia», in quanto è sentito come tale il ritardo che tale lunghezza determina
nell’emanazione di una sentenza di proscioglimento di un imputato innocente ed è altresì sentito come grave ingiustizia il
proscioglimento dovuto a tale ritardo (che ha reso possibile l’applicazione della sopravvenuta e provvida amnistia o ha reso
possibile il maturare della prescrizione)».
18
Cfr. Cass., sez. un., 28 settembre 2005, n. 34655, cit.
19
Così G. Silvestri, Le preclusioni nel processo penale, cit., p. 550.
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sull’ulteriore inquadramento dogmatico delle preclusioni derivanti da quelle pronunce che, tuttavia,
non abbiano l’autorità e gli effetti della cosa giudicata. In questa situazione, riscontrabile eminentemente con riguardo ai provvedimenti di natura processuale (che si caratterizzano per il dar luogo ad un
giudicato avente esclusivamente effetti preclusivi), mutuando la corrispondente nozione del diritto
processuale civile, si è parlato di “preclusione pro iudicato” proprio per segnare la differenza rispetto ad
una vera e propria preclusione, che, in quanto tale, può spiegare i suoi effetti solo all’interno del processo 20.
LA PRECLUSIONE DEL NE BIS IN IDEM QUALE PRINCIPIO GENERALE
Si segna, così, un percorso, prontamente battuto dalla giurisprudenza, finalizzato ad individuare la valenza, esterna ed interna al processo, dei provvedimenti adottati da un giudicante, con diverse modulazioni ed intensità dei divieti connessi alle decisioni già assunte, siano esse definitive o meno.
E la chiave per garantire tale modulazione viene individuata nella differente operatività del divieto
del ne bis in idem, la cui matrice è stata ricondotta alla categoria della preclusione processuale 21.
In particolare, ripetutamente, le Sezioni Unite hanno confermato come tale divieto operi in misura e
con pregnanza differente a seconda che sia considerato quale effetto di una semplice preclusione ovvero derivante dal giudicato 22. Difatti, se prima facie esso è normalmente collegato all’istituto del giudicato
esecutivo disciplinato dall’art. 649 c.p.p., è anche vero che la Cassazione ha successivamente e definitivamente chiarito come tale norma costituisca «un singolo, specifico, punto di emersione del principio
del ne bis in idem, che permea l’intero ordinamento dando linfa ad un preciso divieto di reiterazione dei
procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di
funzionalità connaturate al sistema. A tale divieto va attribuito, pertanto, il ruolo di principio generale
dell’ordinamento» 23.
Siffatto assunto, ha consentito alla Suprema Corte non solo di risolvere il problema dell’estensione
del divieto del ne bis in idem stabilito dall’art. 649 c.p.p. anche alle sentenze non ancora irrevocabili, ma
oltretutto di ricondurre tale preclusione proprio all’attività del pubblico ministero. In altri termini, le
Sezioni Unite hanno ritenuto “consumato” il potere di esercizio dell’azione penale da parte di un medesimo ufficio del pubblico ministero già a seguito di una precedente e valida iniziativa da questi adottata nei confronti della stessa persona e per il medesimo fatto, non essendo necessario l’intervento di
una sentenza passata o meno in giudicato 24.
20
Cfr. S. Riccio, La preclusione processuale penale, cit., p. 99, che lo spiega come «un fenomeno collaterale ed affine al giudicato
propriamente detto»; per una critica al concetto vd. G. Lozzi, Preclusioni (dir. proc. pen.), cit., p. 3.
21
Secondo Cass., sez. un., 28 settembre 2005, n. 34655, cit., «l’esattezza della qualificazione è confermata dalla considerazione
che il divieto di cui all’art. 649 è esso stesso nient’altro che una preclusione: quella finale che si consolida a chiusura del
processo».
22
Cfr. in tema di misure cautelari, la storica sentenza Cass., sez. un., 08 luglio 1994, in Foro it., 1995, c. 455, che, affrontando la
questione dell’ammissibilità della richiesta di riesame successivamente ad una richiesta di revoca della misura cautelare, hanno
indicato come «la formazione e la portata del giudicato e, ancor più, della preclusione processuale, non vanno individuate in
astratto sulla base di concezioni aprioristiche, ma con riferimento al diritto positivo vigente ... Peraltro, considerata la minore
efficacia che connota la semplice preclusione processuale rispetto alla cosa giudicata, anche con particolare riguardo al tema su
cui incidono le dette pronunzie, costituita dalla tutela dello status libertatis, è da ritenere che tale preclusione non copra anche le
questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte nei procedimenti di impugnazione avverso ordinanze in materia di misure cautelari personali, in forma sia esplicita che implicita»; Cass., sez. un., 31 marzo 2004, n. 18339, in Cass. pen., 2004, p. 2746;
Cass., sez. un., 19 dicembre 2006, n. 14535, in Cass. pen., 2007, p. 3238, secondo cui «è principio consolidato attraverso reiterate
pronunce delle Sezioni Unite ... che rispetto alle ordinanze in materia cautelare, all’esito del procedimento di impugnazione, si
forma una preclusione processuale, anche se di portata più modesta, di quella relativa alla cosa giudicata, perché è limitata allo
stato degli atti e copre solo le questioni esplicitamente o implicitamente dedotte. Di conseguenza una stessa questione, di fatto o
di diritto, una volta decisa con efficacia preclusiva non può essere riproposta, neppure adducendo argomenti diversi da quelli
già presi in esame». Sullo stesso tema, cfr. anche G. Silvestri, Le preclusioni nel processo penale, cit., p. 557, secondo cui «la distinzione tra preclusione e giudicato è alla base delle posizioni della giurisprudenza di legittimità».
23
Così Cass., sez. un., 28 settembre 2005, n. 34655, cit.
24
Secondo Cass., sez. un., 28 settembre 2005, n. 34655, cit., «è evidente, inoltre, che un sistema che non riconoscesse al divieto
del ne bis in idem il carattere di principio generale dell’ordinamento potrebbe dischiudere la via a prassi anomale ed a condotte
qualificabili come vero e proprio “abuso del processo”, perché idonee a vulnerare la regola dell’immediatezza e della concen-
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Pertanto, la classificazione del ne bis in idem quale principio generale, consente di tracciare un sistema con forme e gradi di intensità differenti, in cui il livello più alto è rappresentato dal giudicato, avente una portata generale, il livello intermedio è costituito dall’effetto preclusivo della sentenza non irrevocabile, limitato all’ufficio in cui è pronunciata e che si estingue a seguito dell’eventuale annullamento
della sentenza nei gradi d’impugnazione ed il livello più basso, rappresentato dal divieto connesso
all’esercizio dell’azione penale, che pone preclusioni solo per l’ufficio del pubblico ministero che ha già
promosso un giudizio e si risolve in tutti gli eventuali casi in cui il procedimento regredisca alla fase
delle indagini 25.
APPLICAZIONE AL SETTORE CAUTELARE
A riprova della serrata riflessione condotta dalla giurisprudenza, tesa ad individuare nella preclusione
il principio cardine dell’ordine processuale, è dato riscontrare come, poco prima della pronuncia citata,
le medesime Sezioni Unite fossero intervenute per affermare il divieto, per il giudice per le indagini
preliminari, di decidere in ordine ad una nuova istanza cautelare del pubblico ministero fondata su
elementi nuovi, nelle more della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale 26.
In particolare, la Cassazione, adottando la categoria delle preclusioni endoprocedimentali come una
delle chiavi ermeneutiche mediante le quali risolvere il contrasto giurisprudenziale insorto, aveva rilevato come sarebbe stato abnorme consentire all’organo dell’accusa di ottenere un duplice, identico titolo – l’uno a sorpresa e immediatamente esecutivo, l’altro disposto all’esito di contraddittorio camerale e
del quale sarebbe restata sospesa l’esecutività fino alla decisione definitiva– mediante la proposizione
della stessa azione cautelare a giudici diversi. In questo caso, pertanto, sarebbe stato proprio il precedente esercizio dell’azione cautelare, con la relativa consumazione del potere, a fondare la preclusione
del ne bis in idem ed a impedire la duplicazione dell’iniziativa.
Rilevante, a questo punto, è stata la conseguenza logica tratta da tale approdo interpretativo, ovvero
l’ulteriore effetto preclusivo, per il giudice per le indagini preliminari, in ordine alle questioni già valutate in sede di appello, rispetto all’adozione di un successivo provvedimento cautelare richiesto dal
pubblico ministero nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso fatto, qualora non fossero state dedotte, dall’organo dell’accusa, nuove e significative acquisizioni che potessero implicare un mutamento
della situazione di riferimento. Si è così chiarito come il sistema fosse caratterizzato dalla alternatività
delle iniziative riconosciute al titolare del potere d’accusa, il quale doveva evitare, al contrario, di far
concorrere entrambe le soluzioni a causa degli inaccettabili risultati cui si sarebbe potuti pervenire.
Pare opportuno evidenziare come la direttrice ermeneutica dell’alternatività sia anche alla base della
valutazione operata dalla Corte di Cassazione nella sentenza oggetto di odierno commento, la quale ha
potuto avvalersi anche della definizione e dell’utilizzo che di tale concetto hanno fatto le medesime Sezioni Unite in un’altra decisione, di qualche anno posteriore a quella appena considerata 27.
Ed invero, già successivamente alle due pronunce dianzi analizzate, la Corte di Cassazione sembrava pure orientata a mutuare le linee ermeneutiche tracciate, operando la trasposizione, nel settore incidentale, dei dettami relativi alla consumazione del potere da parte del pubblico ministero che, nella
sentenza precedente, erano stati delineati solo con riguardo a processi di merito incardinati dal medesimo ufficio di accusa nella stessa sede giudiziaria.
In particolare, in un breve lasso temporale, erano intervenute alcune decisioni in ambito cautelare
che avevano enucleato il suddetto sforzo interpretativo da parte del Collegio, affermando, in primo
luogo, che il pubblico ministero non poteva contemporaneamente esperire una impugnazione avverso
trazione della formazione della prova in contraddittorio, rendendo possibile un uso strumentale del potere di azione per finalità
inconciliabili con la legalità e l’ordine processuali».
25
Cfr. P. Troisi, La nozione giurisprudenziale di litispendenza penale, in Dir. pen. proc., 2006, p. 732.
26
Cass., sez. un., 31 marzo 2004, n. 18339, cit., ha statuito che «qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione
sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, rinnovi la domanda nei confronti
dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, è precluso al giudice,
in pendenza del procedimento di appello, decidere in merito alla medesima domanda cautelare».
27
Cfr. Cass., sez. un., 16 dicembre 2010, n. 7931, cit.
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una decisione sfavorevole del riesame e richiedere una nuova misura personale nei confronti dell’indagato per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi della precedente 28. Successivamente, la Corte
aveva confermato tale impostazione, esplicitando come, in caso di pendenza di procedure diverse per
fatto identico (l’identità del fatto sussistendo ove vi fosse corrispondenza storico-naturalistica con riguardo alle circostanze di tempo, luogo e persona), dovesse trovare applicazione il principio del ne bis
in idem, inteso come preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e dei provvedimenti sull’identica
regiudicanda. E, considerata l’operatività generale di tale preclusione, si era specificato, con riguardo al
pubblico ministero, che anche l’esercizio di un’azione cautelare, basata su un determinato fatto e su determinate esigenze nell’ambito di un medesimo procedimento, avrebbe comportato la consumazione di
quell’azione, rendendola non riproponibile in assenza di diversi, nuovi e non valutati presupposti cautelari; presupposti che mai avrebbero potuto consistere nel contenuto sfavorevole di una pronuncia del
giudice di quel procedimento 29.
Dunque, si poteva assistere alla formulazione di uno sfondo logico-giuridico in cui la preclusione
del ne bis in idem era ormai divenuta architrave ermeneutico di sistema che, conseguentemente, doveva
trovare concreta applicazione anche nel settore cautelare 30.
E tale ambito doveva intendersi come omnicomprensivo tanto delle misure cautelari personali quanto di quelle reali. Tale specificazione non appare superflua ma, al contrario, contribuisce a chiarire
maggiormente la portata generale del principio in oggetto, soprattutto se letta alla luce dei differenti
trattamenti che, a parità di condizioni, in taluni casi la Cassazione aveva riservato ai procedimenti incidentali personali rispetto a quelli reali.
Ci si riferisce, a titolo esemplificativo, proprio agli effetti del giudicato cautelare che, con riferimento
alle misure reali, erano stati delineati come aventi efficacia più pervasiva di quanto non fosse per quelle
personali. Difatti, riguardo alle prime, sempre le Sezioni Unite avevano già precisato che la riproposizione di istanze di revoca basate su motivi già dedotti in sede di riesame, senza alcun mutamento del
quadro processuale di riferimento, dovevano condurre ad un giudizio di inammissibilità 31, ponendo
un’evidente divergenza rispetto a quanto più volte affermato rispetto alle seconde, per le quali il giudice adito con la richiesta di revoca poteva limitarsi a richiamare le decisioni conclusive di precedenti
procedure de libertate, ma non dichiararle inammissibili 32. La ragione di tale diversità era da rinvenirsi
nel favor libertatis, con il conseguente obbligo di valutare, anche di ufficio, la permanenza delle condizioni legittimanti la misura personale.
A fronte di ciò, tuttavia, la medesima pronuncia delle Sezioni Unite, aveva avvertito anche l’esigenza di trovare un terreno interpretativo comune tra misure reali e personali, partendo dalla considerazione di quanto affermato nella Relazione al progetto preliminare del codice. In essa, infatti, si era
evidenziato che, pur non vertendosi in tema di libertà personale dell’individuo, il sequestro esercitava
comunque una particolare influenza sui diritti fondamentali dell’uomo; pertanto, anche alla luce
dell’analoga e simmetrica formulazione dell’art. 321, comma 3, c.p.p. rispetto all’art. 299 c.p.p. nonché
dell’identità della ratio tra le due norme, ovvero l’esigenza di una verifica costante in ordine alla correlazione delle misure cautelari, intese in senso lato, ai principi generali di adeguatezza e proporzionalità,
la Corte aveva concluso che, in ordine all’aspetto preclusivo, non vi fosse alcuna ragione per distinguere tra la cautela personale e quella reale.
Orbene, i tentativi ermeneutici su esposti di trasporre il concetto di litispendenza anche nel settore
28
Cfr. Cass., sez. VI, 18 marzo 2009, n. 11937, in CED Cass., n. 242930.
29
Così Cass., sez. VI, 11 marzo 2009, n. 16668, in CED Cass., n. 243533, che, affrontando una problematica inerente le misure
cautelari reali, ha affermato: «l’istituto della preclusione procedimentale opera anche quando siano attivate più misure cautelari
reali relative allo stesso bene e volte alla salvaguardia della medesima esigenza cautelare (probatoria, preventiva, conservativa),
ancorché relative a concorrenti imputazioni di reato ciascuno dei quali in astratto legittimante l’adozione della misura».
Conforme anche Cass., sez. V, 13 ottobre 2009, n. 43068, in CED Cass., n. 245092, che ripropone una sintesi dei principali
orientamenti giurisprudenziali maturati in materia.
30
Per una riflessione generale sulle problematiche afferenti il complesso cautelare cfr. A. Scalfati, La procedura penale, la
retroguardia autoritaria e la compulsione riformista, in Dir. pen. proc., 2009, p. 937, secondo cui, con riguardo alle misure cautelari
«emerge, in definitiva, una materia assai articolata che plasma un insieme di meccanismi talmente complesso da assurgere a
settore dell’accertamento giudiziario connotato da radicale autonomia».
31
Cfr., Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29952, cit.
32
Cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 15 gennaio 2007, n. 5701, in CED Cass., n. 236517.
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cautelare hanno trovato, infine, definitiva consacrazione in una successiva pronuncia delle Sezioni Unite, mediante la quale sono stati tracciati i capisaldi logico-interpretativi del giudicando cautelare, così
conferendo a tale concetto una collocazione sistematica e giurisprudenziale affine ma non sovrapponibile a quella del giudicato cautelare 33.
In particolare sono state mutuate le riflessioni e gli approdi ermeneutici maturati nelle sentenze delle
Sezioni Unite considerate in precedenza, per arrivare a vincolare il pubblico ministero a scelte cautelari
alternative tra loro in caso di utilizzo di materiale probatorio nuovo. Difatti, si è statuito che l’organo
dell’accusa che avesse inteso utilizzare, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de
libertate, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori nuovi, poteva scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta
cautelare, ma la scelta, una volta effettuata, gli avrebbe precluso di coltivare l’altra iniziativa cautelare.
Orbene, tale decisione ha avuto il merito di focalizzare la propria speculazione giuridica sulle modalità e sull’impiego dei nova offrendo una “regolamentazione” che consentisse anche al pubblico ministero di poter intervenire tempestivamente in un contesto, come quello cautelare, caratterizzato dalla necessità di pronta risposta dell’ordinamento alle emergenti esigenze di tutela della collettività. D’altro
canto, pur avendo glissato sulle ontologiche differenze del procedimento ordinario rispetto a quello incidentale, la pronuncia de qua non è stata certamente esente da critiche anche per la distonia interpretativa rispetto alle sentenze precedenti (che pure ha tentato di colmare), posto che la regola di diritto elaborata è sembrato non porre preclusioni in ordine alla possibilità di duplicare la domanda da parte del
pubblico ministero – come invece accade nei richiamati concetti di litispendenza e di giudicato – ma solo con riguardo all’utilizzabilità processuale dei nova 34.
In ogni caso, il criterio guida della Corte, anche in tale decisione, sembra essere stato quello di scongiurare «il rischio del conseguimento di un duplice titolo per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi» da parte dell’organo inquirente 35.
E tale linea ermeneutica, ovviamente, ha condizionato le decisioni successive, nelle quali si è ribadito
che il discrimine nella possibilità di reiterazione della domanda cautelare da parte del pubblico ministero, in pendenza di impugnazione, è proprio l’apporto o meno di nuovi elementi probatori a suffragio
del quadro cautelare già tracciato in precedenza 36, giungendo ad applicazioni del principio validato
dalle Sezioni Unite anche alla parte privata 37.
In mancanza di tale ulteriore apporto, dunque, l’inizio di una nuova procedura cautelare per lo stesso fatto è impedita dalla preclusione del ne bis in idem che, come detto, insiste non solo sulle decisioni
ma anche sui procedimenti: difatti, in tal caso, anche l’impugnazione proposta dal pubblico ministero,
avverso un annullamento per motivi esclusivamente formali pronunciato in sede di riesame, determina
un effetto impeditivo alla nuova riproposizione della medesima istanza cautelare posto che, in caso
contrario, diverrebbero concreti i rischi paventati dalla Corte.
E tale conclusione, ovviamente, viene in rilievo tanto per le misure personali quanto per quelle reali,
con riferimento alle quali è possibile individuare una contiguità applicativa della sentenza in commento
rispetto ad altro precedente specifico 38, e dal quale, dunque, è possibile cogliere un adeguamento ed
una conferma dei criteri ermeneutici delineati.
33
Cass., sez. un., 16 dicembre 2010, n. 7931, cit.
34
Cfr. P. Maggio, “Con la “litispendenza cautelare” le Sezioni Unite intervengono sul catalogo delle preclusioni alle iniziative del
pubblico ministero”, cit., p. 86; sul punto interessante appare anche la posizione di G. Silvestri, Le preclusioni nel processo penale,
cit., p. 558.
35
Cass., sez. un. 16 dicembre 2010, n. 7931, cit.
36
Cfr. ex plurimis Cass., sez. I, 20 giugno 2013, n. 36679, in CED Cass., n. 256887; Cass., sez. II, 14 febbraio 2012, n. 6459, in
CED Cass., n. 252112, entrambe in materia di misure cautelari personali.
37
Così Cass., sez. II, 26 aprile 2012, n. 19536, in CED Cass., n. 252819, secondo cui «in tema di misure cautelari, qualora la
parte privata, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, in ordine allo stesso
fatto oggetto di cautela, elementi probatori nuovi, non può reiterare l’istanza che ha condotto al provvedimento poi impugnato
ma deve riversare i nuovi elementi nel giudizio di impugnazione (sempre che gli stessi siano ammissibili nel tipo di giudizio
instaurato)».
38
Cfr. Cass., sez. III, 28 maggio 2014, n. 39902, in CED Cass., n. 260383.
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Patteggiamento: l’estinzione del reato e degli effetti penali
opera senza bisogno di una pronuncia giudiziale
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 18 FEBBRAIO 2016, N. 6673 – PRES. IPPOLITO; REL. TRONCI
Il decorso del quinquennio dal passaggio in giudicato dell’unico precedente esistente a carico dell’imputato – costituito da una sentenza di applicazione della pena su richiesta – comporta l’estinzione del relativo reato e dei connessi effetti penali, ivi compresa, pertanto, la rilevanza dell’illecito ai fini della contestazione della recidiva. Tali
conseguenze si producono ipso iure, senza necessità di una formale declaratoria in tal senso da parte del giudice
dell’esecuzione.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 13.06.2014, il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, applicava ad
[Omissis], in relazione ai contestati reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali aggravate
(ai sensi del combinato disposto degli artt. 585 e 586, n. 1, c.p.), unificati di fatto per continuazione, la
pena complessiva di mesi dieci di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, valutate
equivalenti alla parimenti ascritta recidiva, ex art. 99 c.p.
Avverso detta pronuncia ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, il difensore di fiducia
dell’imputato, avv. [Omissis], lamentando violazione di legge, nonché manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione: tanto per aver indebitamente fatto luogo a giudizio di valenza, nonostante
che gli effetti penali derivanti dall’unico precedente penale a carico dell’imputato dovessero essere considerati estinti, per effetto del decorso di cinque anni dalla irrevocabilità della relativa sentenza, anche
in tal caso emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Donde l’erronea contestazione della recidiva e, per l’effetto, l’erronea qualificazione giuridica del fatto, da ritenersi estesa alle circostanze, come tale suscettibile di essere sottoposta al controllo del giudice di legittimità.
Il p.g. in sede, con propria requisitoria scritta, ha chiesto il dichiararsi l’inammissibilità dell’illustrato
ricorso.
Con successiva memoria, il difensore dell’imputato ha ribadito le già illustrate doglianze, in particolare
significando come la correttezza della contestazione delle circostanze rientri nell’ambito dei compiti di verifica demandati al «giudice chiamato a sindacare la legittimità dell’accordo intervenuto tra le parti».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e merita pertanto accoglimento.
Invero, è fuor di dubbio che, nella vicenda in esame, concernente fatti posti in essere il 6.05.2014, il
decorso de quinquennio dal passaggio in giudicato (30.10.2007) dell’unico precedente esistente a carico
dell’imputato, costituito dalla sentenza di applicazione della pena emessa il 28.09.2007, abbia comportato l’estinzione del relativo reato e dei connessi effetti penali, ivi compresa, pertanto, la rilevanza
dell’illecito ai fini della contestazione della recidiva (cfr., esattamente in termini, Cass., sez. III, 12 dicembre 2012, n. 7067, in CED Cass., n. 254742). E può parimenti convenirsi con la difesa del ricorrente
che tali conseguenze si producono ipso iure, senza necessità di una formale declaratoria in tal senso da
parte del giudice dell’esecuzione (cfr., da ultimo, Cass., sez. V, 22 dicembre 2015, n. 20068, in CED Cass.,
n. 263503).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO: L’ESTINZIONE DEL REATO E DEGLI EFFETTI PENALI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Tanto premesso, è appena il caso di significare che il controllo della corretta qualificazione giuridica
del fatto, che la legge pone espressamente a carico del giudice, si estende pacificamente alle circostanze
che connotino l’imputazione formulata e, dunque, ove risulti contestata la recidiva – come nel caso in
esame – anche a quest’ultima. Ne consegue che, stante l’intervenuta estinzione, ex lege, del solo precedente in forza del quale era stata elevata all’imputato la circostanza di cui all’art. 99 c.p., si è qui in presenza di un errore che inficia la stessa legittimità dell’accordo intervenuto fra le parti, con conseguente
invalidità dello stesso e della sentenza che lo ha recepito (cfr., esattamente in termini, in relazione ad
un’ipotesi di erronea contestazione della recidiva per assenza di pregresse condanne, Cass., sez. II, 15
dicembre 2010, n. 36, in CED Cass., n. 249488). Il che integra senza meno l’esigenza di “specificità” rafforzata che – giusta l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, cui si è richiamato anche il requirente P.G.: cfr., Cass., sez. un., 28 febbraio 2013, n. 25939, in CED Cass., n. 255348 – deve assistere le
doglianze mosse avverso una sentenza di applicazione della pena che abbia fatto proprie le richiesta
formulate dalle parti, posto che la critica svolta vale in effetti a disarticolare il provvedimento che pure
ha recepito la domanda proveniente dallo stesso odierno ricorrente.
P.Q.M.
Annulla la sentenza e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Roma per nuovo giudizio.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO: L’ESTINZIONE DEL REATO E DEGLI EFFETTI PENALI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
83
MARIA VITTORIA PAPANTI-PELLETIER
Dottoranda in Diritto pubblico – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Patteggiamento tradizionale e benefici estintivi:
quali effetti penali vengono meno e come
Upon request sentence:
which are the sanctionative effects that might be removed?
Il beneficio previsto dall’art. 445, comma 2, c.p.p., è idoneo a determinare l’estinzione del reato e di «ogni effetto
penale». La norma, tuttavia, paralizza la disciplina di favore rispetto alle statuizioni in tema di sospensione condizionale della pena quando la sentenza di patteggiamento irroghi una pena detentiva; la qual cosa presuppone anche la permanenza di tale sentenza tra le iscrizioni del casellario giudiziale. La Corte manifesta un’importante inversione di tendenza rispetto al passato: l’estinzione degli effetti penali avviene ipso iure, non essendo necessaria
una declaratoria giudiziale.
Notwithstanding the prevision set by the article 445 paragraph 2, code of criminal procedure, not every sanctionative effects set by the upon request sentence might be removed under the positive time course. In some cases
the possibility to be given a suspended sentence remains ruled out. Moreover the sentence remains included in
the criminal record. At any rate, the Supreme Court states that is no longer required any sentence which declares
erased those of sanctionative effects which can be removed by the time course, since the benefit must be considered as working ipso iure.
IL QUADRO GIUDIZIARIO
La sentenza in commento, discostandosi dall’indirizzo tradizionale 1, aderisce ad un’unica recente pronuncia 2: l’utile decorso dei termini previsti in tema di patteggiamento “semplice” (art. 445, comma 2,
c.p.p.) determina l’estinzione automatica del reato e di ogni effetto penale. Il condannato viene, perciò,
sollevato dall’onere di adire il giudice dell’esecuzione perché provveda in conformità.
Occorre precisare che la vicenda racchiude, quale premessa, la presenza di un’altra sentenza di
patteggiamento riportata dal ricorrente. Questi, in particolare, denunzia l’illegittimità del più recente
accordo posto a fondamento della sentenza a pena concordata, asserendo l’erroneità del bilanciamento eseguito tra le circostanze: precisamente, la recidiva – contestata in virtù della commissione di precedente delitto giudicato con sentenza di patteggiamento – non avrebbe dovuto assumere rilievo nella vicenda oggetto di ricorso; lo avrebbe impedito l’utile decorso dei termini a cui la disciplina del rito negoziato tradizionale riconnette l’estinzione di ogni effetto penale. La Corte accoglie la doglianza,
ritenendo che la contestazione della circostanza prevista ex art. 99 c.p. abbia determinato «un errore
capace di incidere sulla stessa legittimità dell’accordo»; in proposito, poi, si statuisce che gli effetti estintivi
previsti dall’art. 445, comma 2, c.p.p. operino ipso iure, «senza necessità di una formale declaratoria» giudiziale.
1
Per tutte, v. Cass., sez. IV, 21 marzo 2002, n. 498, in CED Cass., n. 221240.
2
Si tratta di Cass., sez. V, 14 marzo 2015, n. 20068, in CED Cass. n. 263503. Sulle argomentazioni sottese alla pronuncia si
tornerà in seguito.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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GLI EFFETTI PENALI DELLA CONDANNA: UN’AREA DAI CONFINI INCERTI
Le note difficoltà definitorie sottese alla categoria degli effetti penali della condanna si riverberano sul
modus operandi delle corrispondenti cause estintive. A tale premessa non si sottrae la disciplina descritta
in materia con riguardo al patteggiamento, ove il meccanismo estintivo, delineato al secondo comma
dell’art. 445 c.p.p., risulta per alcuni versi ambiguo. In quest’ambito, tra l’altro, il tema è reso ancor più
complesso considerando la sua predisposizione ai rapporti con altri istituti e, su tutti, con la sospensione condizionale della pena.
La pronuncia suggerisce di dare preventivamente conto della cospicua elaborazione sugli effetti penali della condanna 3; in proposito, gli sforzi ermeneutici sono stati tesi, già sotto l’egida della codificazione del 1889, a conferire compiutezza teorica all’istituto 4 e, nel vigore dell’odierno corpus normativo,
a sopperire al mancato inquadramento di tali effetti in una specifica categoria giuridica nell’area delle
sanzioni 5.
Nel codice penale Zanardelli, sconosciuto ancora il genus delle sanzioni accessorie, erano previste,
accanto alle pene principali limitative della libertà personale e del patrimonio, numerose restrizioni incidenti, in modo più generale, nella sfera giuridica del soggetto 6; queste talvolta assumevano la veste di
sanzione principale (ed erano perciò oggetto della pronuncia giudiziale), altre volte venivano in considerazione quali effetti penali 7 discendenti dalla condanna come «appendice automatica» 8 di questa,
indipendente dalla statuizione del giudice 9.
La codificazione del 1889 si dotava dunque della categoria in discorso, facendovi confluire talune
«pene che nei codici preunitari formavano il contenuto di pene accessorie infamanti» 10. Il contesto era
nutrito dall’idea che la pena irrogata, ed eventualmente espiata, non fosse comunque sufficiente ad
esprimere tutto il disvalore attribuito al reo: «la reimmissione del soggetto nel contesto sociale non [poteva] prescindere dalla contemporanea presenza di preclusioni che [discriminassero] chi [aveva] subìto
una condanna penale rispetto ai soggetti che non [avevano] mai violato la legge penale» 11. Così anzitutto si stabilirono effetti (incidenti in ambito strettamente penalistico, ad es. la recidiva) operanti su coloro
che, già condannati, commettessero in seguito nuovi reati. In secondo luogo, si previdero anche effetti
operanti al di fuori della sfera penalistica (ad es. incapacità di ricoprire cariche elettive), che incidevano
sulla sfera giuridica del condannato, limitandone la capacità d’agire in campo privatistico e amministrativo, valido a segnare un discrimine in questi ambiti tra il reo e colui che non aveva mai violato la
legge penale 12.
Con l’avvento del codice Rocco la categoria degli effetti penali ha subìto una trasformazione, essendosi introdotta la classe delle pene accessorie. Peraltro, il riconoscimento espresso di queste ultime ex
3
In letteratura, v., tra gli altri, R. Pannain, Le incapacità giuridiche quali effetti – penali o non – delle sentenze penali, Napoli,
Jovene, 1938; Id., Manuale di diritto penale italiano, Torino, Utet, 1962, I, p. 820 ss.; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano,
Torino, Utet, 1948, III, p. 680 ss.; P. Frisoli, Effetti penali della sentenza di condanna, in Enc. dir., XIV, Milano, Giuffrè, 1965, p. 408
ss.; G. Cerquetti, Pene accessorie, in Enc. dir., XXXII, Milano, Giuffrè, 1982, p. 822 ss.; Id., Gli effetti penali della condanna, Padova,
Cedam, 1990; S. Larizza, Effetti penali della sentenza di condanna, in Dig. pen., Torino, Utet, 1990, IV, p. 203 ss.; Ead., Pene accessorie,
in Dig. pen., Torino, Utet, 1995, IX, p. 421 ss. In giurisprudenza, per una definizione compiuta degli effetti penali della condanna,
v. Cass., sez. un., 20 aprile 1994, Volpe, in Cass. pen., 1994, 11, p. 2404 ss.
4
V. Titolo III, libro I, del codice penali Zanardelli, intitolato «Degli effetti e della esecuzione delle condanne penali».
5
Si vedrà infra che il codice Rocco allude in talune disposizioni agli effetti penali. Questi, tuttavia, non sono ricompresi in
una categoria unitaria, né di essi è fornita una definizione.
6
V. P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 408.
7
V. ancora P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 408, note 1 e 2, che, in proposito, propone l’esempio dell’interdizione perpetua e
temporanea dai pubblici uffici che figurava nel codice Zanardelli ora quale pena in senso proprio (artt. 168, 171 c.p.), ora quale
mero effetto penale della sentenza di condanna (artt. 31 e 35 c.p.).
8
Così, P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 408.
9
Come si vedrà infra, tale carattere rimane ancora l’unico incontestabilmente attribuito agli effetti penali.
10
Così, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 205.
11
Testualmente, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 205.
12
È la tesi di R. Pannain (su cui infra), che distingue gli effetti penali, intesi come restrizioni che incidono in via esclusiva su
rapporti di diritto penale (sostanziale o processuale) in caso di ulteriore condanna, dagli effetti non penali, che, al contrario,
limitano la sfera giuridica in ambito extrapenale (es. nei rapporti civilistici o di diritto amministrativo).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
85
art. 20 c.p. – valido a distinguerle dalle sanzioni principali – consente anche di cogliere in controluce
almeno due caratteristiche degli effetti penali: se «le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di
condanna [mentre] quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa» 13, ciò significa, anzitutto, definire i rapporti tra le due categorie; in questo senso, si è efficacemente detto che pene
accessorie ed effetti penali della condanna «si presentano come cerchi concentrici con raggio differenziato, dei quali il meno ampio corrisponde al settore delle sanzioni accessorie» 14. Inoltre, conseguenza
indiretta dell’art. 20 c.p. è che gli effetti penali non necessitano di apposita statuizione giudiziale per la
loro operatività, discendendo automaticamente, «di diritto» 15, dalla sentenza di condanna 16.
Il rapporto tra effetti penali e pene accessorie 17 non esclude, peraltro, «una sorta di contrapposizione» 18 tra le due figure, presente in alcune disposizioni del codice, destinata a spiegare ricadute soprattutto in relazione ai rispettivi modi di estinzione. In proposito, è appena il caso di notare, ad esempio,
che l’amnistia impropria, per esplicita previsione dell’art. 151, comma 1, c.p., oltre a estinguere il reato,
fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie, ma non anche tutti gli altri effetti penali: a
norma del quinto comma della disposizione richiamata, si dovrà, infatti, tenere conto, salvo che sia diversamente disposto, della recidiva, della dichiarazione di abitualità o professionalità, della esclusione
della sospensione condizionale della pena 19.
La disciplina è pressoché analoga per quanto concerne gli istituti dell’indulto e della grazia, le cui
implicazioni estintive attengono alla pena e, subordinatamente ad espressa previsione, alle pene accessorie e mai agli altri effetti penali 20.
Quanto alla sospensione condizionale della pena, questa estingue, a determinate condizioni, il reato
e determina la cessazione delle pene accessorie (art. 167 c.p.); sopravvivono, invece, gli altri effetti penali.
Si è rilevato, infine, che solamente «l’inosservanza delle sanzioni accessorie – e non invece quella dei
semplici effetti penali – può costituire oggetto di incriminazione» 21 ex art. 389 c.p.
Alla luce di ciò, può agevolmente ritenersi che «gli effetti penali offrano una resistenza maggiore
delle affini pene accessorie ad essere travolte da vicende estintive […]. La causa di estinzione potrà tradursi in una rinuncia dello Stato a fare valere la propria pretesa punitiva non dando corso all’esecuzione della pena principale e, talora, della pena accessoria, ma non potrà spingersi sino al punto da
precludere la produzione, da parte della sentenza di condanna […], di determinati effetti» 22. In tal senso, solamente la perdita di illiceità del fatto ovvero la sua degradazione ad illecito amministrativo 23 può
comportare la caducazione di ogni effetto penale 24.
13
V. art. 20 c.p.
14
Così, P. Frisoli, Effetti penali, cit. p. 409.
15
V. art. 20 c.p.
16
Cfr. art. 20 c.p. Tale carattere è unanimemente sottolineato dalla dottrina. Già in passato A. Rocco, Grazia sovrana e
menzione della condanna nei certificati del Casellario giudiziale richiesti dai privanti, in Ann. dir e proc. pen., 1939, 10, p. 846, intendeva
gli effetti penali come «incapacità giuridiche […] derivanti da una sentenza penale irrevocabile, quali effetti giuridici […] che si
verificano immediatamente, necessariamente e ipso iure»; nello stesso senso, V. Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 680; R.
Pannain, Manuale di diritto penale, cit., p. 832; Id., Le incapacità giuridiche, cit., p. 111 ss. Più di recente, tra gli altri, v. G. Cerquetti,
Gli effetti penali della condanna, cit., passim; S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 206.
17
Anche su questo aspetto la letteratura è unanime, cfr. V. Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 679; R. Pannain, Manuale
di diritto penale, cit., p. 833; P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 409, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 206; G. Cerquetti, Gli effetti penali
della condanna, cit., p. 33, sebbene con alcune precisazioni (v. p. 35 ss.).
18
Così, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 206.
19
Si anticipa, in tal modo, che la recidiva, la delinquenza qualificata, l’esclusione della sospensione condizionale sono effetti
penali della condanna, non rientranti nella classe delle pene accessorie. Per una ricognizione degli altri effetti penali previsti dal
codice e da leggi speciali, v. infra.
20
La disposizione dell’art. 174 c.p. è così interpretata da P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 410, nota 11; nello stesso ordine di idee
anche G. Cerquetti, Effetti penali della condanna, cit., p. 35. Contra G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale – parte generale, Bologna,
Zanichelli, 2009, p. 811. Secondo tali ultimi Autori, anche gli effetti penali, come le pene accessorie, possono essere estinti
dall’indulto ove sia espressamente previsto dal relativo decreto.
21
Così, P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 410, nota 11; la questione è sottolineata anche da G. Cerquetti, Effetti penali della
condanna, cit., p. 35.
22
Così, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 215.
23
Il riferimento è, rispettivamente, al meccanismo di abolitio criminis ex art. 2 comma 2 c.p., e all’oblazione ex artt. 162 e 162-bis, c.p.
24
L’osservazione è ancora di S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 215.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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A ben vedere, neanche la riabilitazione, che pure estingue, per previsione espressa dell’art. 178 c.p.,
le pene accessorie ed ogni altro effetto penale, riesce ad eliminare del tutto questi ultimi: della sentenza
di condanna, rispetto alla quale sia intervenuta successivamente la riabilitazione, si dovrà continuare a
tenere conto, ad esempio, ai fini della sospensione condizionale della pena, che non potrà essere concessa una seconda volta 25.
Quanto al dato positivo, indubbiamente molto scarno, spiccano due sole disposizioni che assegnano,
indirettamente, natura di effetti penali a talune situazioni soggettive: gli artt. 12, comma 1, c.p. e 106 c.p.
lasciano intendere che la recidiva e la dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere rientrino nel genus degli effetti penali 26.
Sulla base dei pochi appigli normativi (e delle norme in tema di pene accessorie e di cause estintive
del reato e della pena), la letteratura ha tentato l’elaborazione della teorica degli effetti penali. In proposito, due sono le principali tesi che si fronteggiano, entrambe autorevolmente sostenute ed argomentate.
La prima rinviene il criterio precipuo degli effetti penali nel fatto di incidere in via esclusiva «su veri
e propri rapporti di diritto penale sostantivo o processuale» 27, indipendentemente dalla fonte dalla
quale originano 28. Correlativamente, effetti non penali sarebbero le «incapacità giuridiche che derivano
dalla sentenza di condanna (talvolta da provvedimenti di natura diversa) e incidono su rapporti […] di
natura civile, amministrativa ecc.» 29.
Sarebbero, dunque, sicuramente effetti penali 30, data la loro incidenza sul piano penalistico, l’ostacolo alla successiva concessione della sospensione condizionale (art. 164, comma 1, n. 1, c.p.), l’aumento
di pena previsto per la recidiva (art. 99 c.p.) e per l’ubriachezza (art. 688 c.p.), la punibilità per il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (art. 707 c.p.), la dichiarazione dell’abitualità e della
professionalità nel reato (artt. 102 ss. c.p.) 31. Tali effetti si caratterizzerebbero, inoltre, per il loro carattere di mera eventualità, poiché pur «derivan[do] dalla sentenza di condanna, in realtà si concretano e si
attuano nel momento in cui, commesso un altro reato o aperto un nuovo procedimento penale, il soggetto viene a trovarsi in una situazione nella quale la capacità giuridica resta influenzata dai precedenti» 32.
Maggiore seguito ha riscontrato l’opposta teoria 33 che sussume nell’ambito degli effetti penali molteplici restrizioni, tra loro anche molto differenti. La tesi trascura, rispetto all’altra, il profilo dell’unità
concettuale della categoria, ma tenta di perseguire un risultato maggiormente garantistico: ampliando i
confini della classe degli effetti penali, infatti, rimarrebbero saldi i meccanismi estintivi che, sia pur entro i modesti limiti supra segnalati, possono determinare la caducazione di tali restrizioni 34. L’orientamento in discorso, in particolare, ritiene che gli effetti penali siano «quelle conseguenze giuridiche sfavorevoli, diverse dalle pene accessorie, che [non enunciate dalla pronuncia giudiziale], derivano direttamente dalla condanna e che consistono nell’incapacità (indegnità) di conservare, esercitare o di acquisire di25
V. S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 215.
26
In precedenza, anche l’art. 541, comma 2, c.p. forniva ulteriori esempi di effetti penali, individuati nella perdita del diritto
agli alimenti e nella perdita dei diritti successori verso la persona offesa. La norma è stata abrogata dall’art. 1 della l. 15 febbraio
1996, n. 66. Altre ipotesi di effetti penali sono state elaborate in via ermeneutica dalla letteratura; in proposito, si è ritenuto che
effetti penali siano, ad esempio, anche l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale, l’impossibilità di concedere la
sospensione condizionale, la revoca della sospensione condizionale. V. infra.
27
Così, R. Pannain, Manuale di diritto penale, cit., p. 833; Id., Le incapacità giuridiche, cit., p. 111. Pur partendo da premesse
differenti, anche A. Rocco perviene alla medesima conclusione (v. Grazia sovrana e menzione della condanna nel casellario giudiziale,
cit.).
28
«La natura penale di tali effetti non viene desunta dalla natura della fonte di essi, bensì dal rapporto sul quale incidono,
che è sempre di diritto penale (sostantivo o processuale) quando anche in esso si producano conseguenze di natura amministrativa». Così, ancora R. Pannain, Manuale di diritto penale, cit., p. 833.
29
Così, ancora R. Pannain, Manuale di diritto penale, cit., p. 833. L’Autore, indica quali effetti non penali, ad esempio,
l’impossibilità di accesso a pubblici concorsi, discendente dallo stato di condannato.
30
Derivanti dallo status di condannato.
31
V. R. Pannain, Manuale di diritto penale, cit., p. 833.
32
Così, R. Pannain, Manuale di diritto penale, cit., p. 833.
33
Aderiscono a tale orientamento V. Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 860 ss.; P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 411; S.
Larizza, Effetti penali, cit., p. 208; G. Cerquetti, Pene accessorie, cit., p. 825; Id., Effetti penali della condanna, cit., p. 51 ss.
34
La riflessione è di S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 208.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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ritti soggettivi pubblici o privati o altre facoltà giuridiche o conseguire benefici di diritto penale, ovvero
nella soggezione ad eventuali particolari aggravii derivanti dallo stato di già condannato» 35. Sicché, penali sarebbero anche gli effetti non incidenti in rapporti penalistici 36, purché la relativa fonte si rinvenga
in una condanna 37 e da questa derivino in via automatica. Gli effetti penali, secondo questa prospettiva,
potrebbero anche richiedere una declaratoria (ricognitiva) da parte di un organo diverso dal giudice
che abbia emesso la condanna: in tal caso, non perderebbero comunque la loro natura di effetti penali,
sempre che, peraltro, si tratti di una mera declaratoria che non si sostanzi in un nuovo giudizio. All’opposto, «se la condanna penale non produce essa medesima un determinato effetto, ma serve soltanto da base per un [ulteriore] giudizio non penale (disciplinare, ecc.), che può portare all’applicazione di
sanzioni [pur] analoghe agli effetti penali propriamente detti, non si tratta di effetti penali» 38.
Al netto di questa disputa, rispetto alle pene accessorie, l’individuazione degli effetti penali sarebbe
rimessa al criterio dell’esclusione; in tal senso, «nell’ambito delle genuine compressioni sfavorevoli da
giudicato di responsabilità penale, rientreranno nel novero degli effetti penali tutte quelle restrizioni cui
non sia possibile attribuire natura di autentiche sanzioni complementari» 39. Gli effetti penali, insomma,
non avrebbero natura di sanzione 40, configurandosi piuttosto come «disciplina giuridica […] alla quale
il condannato è, in quanto tale, soggetto» 41.
Inoltre, «non si potrebbe ipotizzare un’attività di esecuzione nei loro confronti [a differenza delle
pene accessorie, delle quali è il pubblico ministero a curare l’esecuzione ex art. 662 c.p.p.], dal momento
che derivano solo allo stato potenziale dalla sentenza di condanna; sarà poi la peculiare condizione del
condannato a far insorgere preclusioni, ponendo barriere all’accesso, limitatamente a specifici contesti
di volta in volta presi in considerazione dati testi normativi, nei quali il condannato si vorrà inserire» 42.
35
Così,V. Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 680.
36
Ad es. «indegnità a conservare un pubblico impiego, o a rimanere iscritto in un albo professionale» (così, V. Manzini,
Trattato di diritto penale, cit., p. 681).
37
In quest’ordine di idee, v. anche P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 411; G. Cerquetti, Effetti penali della condanna, cit., p. 80; F.
Peroni, La sentenza di patteggiamento, Padova, 1999, p. 141 ss.
38
Così, V. Manzini, Trattato di diritto penale, cit., p. 681. A tale orientamento, che fornisce una nozione ampia di effetti penali,
ha aderito la giurisprudenza. Precisamente, ad avviso della Suprema Corte, i caratteri degli effetti penali, sarebbero: il discendere soltanto da una sentenza irrevocabile di condanna e non da altri provvedimenti che pure possano determinare quello
stesso effetto; l’essere una conseguenza ope legis della condanna, non potendo derivare da altri provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la sentenza di condanna quale necessario presupposto; l’avere natura sanzionatoria, indipendentemente dall’incidere in ambito penale ovvero extra-penale (v. Cass., sez. un., 20 aprile 1994, Volpe, in Cass.
pen., 1994, 10, p. 2404 ss.).
39
Così, P. Frisoli, Effetti penali, cit., p. 111. E, per ricondurre nell’ambito delle pene accessorie una restrizione, si dovrà tenere
conto, secondo l’Autore, anzitutto dell’eventuale esplicita qualificazione attribuita dal legislatore alla limitazione e poi dell’equivalenza strutturale con sanzioni espressamente definite come pene accessorie. Infine, soccorrerà il criterio dell’esclusione (v. P.
Frisoli, Effetti penali, cit., p. 410 ss.).
40
V. G. Cerquetti, Effetti penali della condanna, cit., p. 77.
41
Così, G. Cerquetti, Effetti penali della condanna, cit., p. 77.
42
Testualmente, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 209 ss. Volendo elencare, senza pretesa di completezza, i principali effetti
penali della condanna elaborati dalla letteratura e incidenti in ambito strettamente penalistico, possono indicarsi l’iscrizione
della sentenza di condanna nel casellario giudiziale ex art. 5, d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313 (ma sul punto non c’è convergenza
di opinioni, v. infra); l’aumento di pena determinato dalla recidiva (art. 99 c.p.); la dichiarazione di abitualità professionalità e
tendenza al delitto (artt. 102 ss., c.p.); l’ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per chi abbia
riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto e per chi sia stato dichiarato delinquente o contravventore
abituale o professionale (v. art. 164, comma 2, n. 1, c.p.); la preclusione del perdono giudiziale alle medesime condizioni (v. art.
169, comma 3, c.p.); la revoca della sospensione condizionale della pena nelle diverse ipotesi indicate all’art. 168, comma 1, n.1 e
2, c.p.; la revoca della non menzione della sentenza di condanna ove il condannato commetta successivamente un delitto (art.
175, comma 3, c.p.). Per quanto riguarda gli effetti penali che pongono restrizioni in ambiti diversi da quello penale, possono
richiamarsi, a titolo di esempio, la preclusione a partecipare a taluni concorsi pubblici ove sia stata riportata condanna penale (v.
art. 2, lett. d, d.p.r. 3 maggio 1957, n. 686); la cancellazione e l’impossibilità di iscrizione ad albi professionali o registri (ad. es., ai
sensi dell’art. 17 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, l’avere riportato condanne penali per taluni tipi di reato o essere sottoposto ad esecuzione di pena detentiva ostano all’iscrizione all’albo degli avvocati); l’avere riportato condanna penale per taluni
tipi di reato determina l’immediata operatività della richiesta di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti
civili del matrimonio concordatario (art. 3, legge 1°dicembre 1970, n. 898). Si rinvia, in ogni caso, a S. Larizza, Effetti penali, cit., p.
210 ss. e a G. Cerquetti, Effetti penali della condanna, cit., passim.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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PATTEGGIAMENTO SEMPLICE ED ESTINZIONE DEGLI EFFETTI PENALI
Su tali premesse, conviene ora tornare alle questioni affrontate dalla sentenza: l’estinzione del reato e di
ogni effetto penale, previsto, a determinate condizioni, a norma dell’art. 445, comma 2, c.p.p. e l’operatività ipso iure di tali benefici.
Come noto, in caso di patteggiamento semplice, il decorso di cinque anni, qualora la sentenza a pena
concordata abbia riguardato un delitto, ovvero di due anni, quando oggetto del patteggiamento sia stata una contravvenzione, determina, rispettivamente, l’estinzione del delitto e della contravvenzione, a
condizione che, nel tempo necessario alla produzione del suddetto effetto, l’imputato non commetta altro delitto o altra contravvenzione della stessa indole. 43 In tal caso, specifica la norma, «si estingue ogni
effetto penale» 44.
Ebbene, il problema maggiore concerne senza dubbio la conciliabilità dell’estinzione – che, alla luce
dell’espressa previsione normativa, dovrebbe riguardare ogni effetto penale – con la sopravvivenza,
indirettamente deducibile dalla medesima disposizione, di alcune conseguenze di carattere afflittivo,
inquadrabili nella categoria degli effetti penali, ovvero, delle conseguenze non dichiarate dalla pronuncia ma dipendenti indissolubilmente dalla condanna. La questione riguarda, anzitutto, il perdurante
ostacolo alla concessione di una seconda sospensione condizionale della pena per l’ipotesi in cui il patteggiamento abbia comportato l’irrogazione di una pena detentiva e, quale situazione a questa logicamente antecedente, la sopravvivenza dell’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale 45.
Prima di esaminare i profili problematici sottesi a tali eccezioni, occorre, tuttavia, individuare come
operi la regola e, dunque, quali siano gli effetti penali suscettibili di estinguersi, insieme con il reato, alle condizioni previste dall’art. 445, comma 2, c.p.p. In proposito, la letteratura sembra unanime nel ritenere che della sentenza di patteggiamento non debba tenersi conto ai fini della recidiva, della dichiarazione di abitualità, professionalità, tendenza a delinquere 46, nonché dell’applicabilità dell’art. 707 c.p. 47
Come accennato, alla regola generale il codice, tuttavia, giustappone almeno una deroga: la precisazione della non ostatività di una successiva sospensione condizionale, quando sia stata emessa una sentenza di patteggiamento che abbia applicato una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva 48; il che lascia intendere, a contrario, che il medesimo risultato resta precluso ove la sentenza a pena concordata
abbia irrogato una pena detentiva 49. In tal senso, si è rilevato che il beneficio estintivo derivante dalla
43
La formulazione letterale della norma ha sollevato perplessità sulla necessità di riferire l’identità di indole alla sola ipotesi
di nuova contravvenzione ovvero anche all’ipotesi di nuovo delitto. Milita per la prima soluzione una parte della dottrina, v. F.
Tafi, Sugli aspetti premiali connessi al ricorso alla «applicazione della pena su richiesta delle parti», in Arch. Nuova proc. pen., 1993, p.
495; A. Chiliberti – F. Roberti, Applicazione della pena su richiesta, in A. Chiliberti-F. Roberti-G. Tuccillo, Manuale pratico dei
procedimenti speciali, Milano, Giuffrè, 1994, p. 345; F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, cit., p. 142; G. Brizi, Il patteggiamento,
Torino, Giappichelli, 2008, p. 230. Tale orientamento è stato accolto anche dalla giurisprudenza (cfr. Cass., sez. II, 1° dicembre, n.
4853, in CED Cass., n. 214666). L’altro orientamento è sostenuto, tra gli altri, da A. Macchia, Il patteggiamento, Milano, Giuffrè,
1992, p. 64; D. Vigoni, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, Milano, Giuffrè, 2000, p. 475; G. Lozzi, Lezioni di procedura
penale, Torino, Giappichelli, 2012, p. 496. Va precisato, in ogni caso, che l’ostacolo all’estinzione, determinato dalla commissione
di un nuovo delitto o di una nuova contravvenzione nei termini indicati dalla norma, opera solo in presenza di un accertamento
di responsabilità, quanto al nuovo delitto o alla nuova contravvenzione, consacrato in una sentenza di condanna divenuta
irrevocabile, ancorché intervenuta successivamente ai termini di cinque e due anni (v. C. cost., ord. 6 aprile 1997, n. 107, in Giur.
cost, 1998, p. 920 ss.). A completamento dell’argomento, deve dirsi che l’effetto estintivo non opera per il caso la persona nei cui
la persona nei cui confronti è stata applicata la pena si sottragga volontariamente alla sua esecuzione (art. 136 norme att. c.p.p.),
ad eccezione, naturalmente, dei casi in cui la pena sia stata condizionalmente sospesa.
44
V. comma 2, ultimo periodo, art. 445, c.p.p.
45
Nulla quaestio, invece, rispetto al beneficio, operante automaticamente per entrambi le tipologie di patteggiamento, della
non menzione della sentenza di patteggiamento nel certificato del casellario richiesto da privati.
46
V. G. Lattanzi, L’applicazione della pena su richiesta, in Cass. pen., 1989, 11, p. 2108; A. Macchia, Il Patteggiamento, cit., p. 65; F.
Nuzzo, Estinzione del reato per effetto del patteggiamento e declaratoria in executivis, in Cass. pen., 2003, 2, p. 552; R. Giustozzi, I
procedimenti speciali, in E. Fortuna-S. Dragone-E. Fassone-R. Giustozzi, Manuale pratico del processo penale, Padova, Cedam, 2007,
p. 803; G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, cit., p. 496; V. Bevilacqua, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in A. Bassi-C.
Parodi (a cura di), I procedimenti speciali, Milano, Giuffrè, 2013, p. 456.
47
V. G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, cit., p. 496.
48
V. art. 445, comma 2, ultimo periodo, c.p.p.
49
In tal senso, A. Macchia, Il patteggiamento, cit., p. 66; A. Chiliberti-F. Roberti, Applicazione della pena su richiesta, cit., p. 346; F.
Peroni, La sentenza di patteggiamento, cit., p. 143; V. Bevilacqua, La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., p. 454.
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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sentenza di patteggiamento che applica pene pecuniarie o sostitutive ai fini di una nuova concessione
del beneficio della sospensione della pena «sembrerebbe sulle prime discendere dalla portata globale
propria del congegno di estinzione [relativo ad ogni effetto penale, ex art. 445, comma 2, c.p.p.]; tuttavia, o si ritiene che il dettato di cui si tratta esprima un pleonasma dovuto a disattenzione del legislatore
o – come pare più attendibile – si attribuisce alla locuzione un autonomo significato correttivo della
premessa» 50.
Se così è, deve dedursi che, nonostante l’espressa previsione del codice in tal senso, non ogni effetto
penale viene meno attraverso il meccanismo estintivo previsto ex art. 445, comma 2, c.p.p.: sopravvive
l’ostatività della sentenza patteggiata a pena detentiva alla nuova concessione della sospensione condizionale. In effetti, «solo quando si tratta di pena pecuniaria o di sanzione sostitutiva […] si realizza compiutamente l’estinzione di ogni effetto penale che la norma delinea come regola di carattere generale» 51.
Inoltre, si è osservato che l’ostacolo alla successiva concessione del beneficio sospensivo postula, da
un punto di vista logico e giuridico, la permanenza nel casellario giudiziale dell’iscrizione relativa alla
sentenza di patteggiamento, almeno nei casi in cui quest’ultima abbia irrogato una pena detentiva 52.
Ebbene, ove si ritenga che tale iscrizione costituisca un tipico effetto penale della condanna 53, risulterà
chiaro che il legislatore ha sotteso ancora un’eccezione alla completa estinzione delle conseguenze sfavorevoli della sentenza penale di patteggiamento.
CUMULO (PARZIALE) DEGLI EFFETTI PREMIALI NEL CASO DI SOSPENSIONE CONDIZIONALE CONCESSA CON
SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO
Conviene ora accennare al diverso tema dei rapporti intercorrenti tra il meccanismo estintivo previsto
ex art. 445, comma 2, c.p.p. e quello connesso alla sospensione condizionale della pena accordata con
patteggiamento semplice.
In particolare, ove il giudice sospenda la pena 54 e l’imputato nei termini di cinque o due anni, a seconda che si tratti di delitto o contravvenzione 55, si astenga dal commettere un delitto o una contravvenzione della stessa indole, si produrrà una parziale sovrapposizione degli effetti estintivi: la pena applicata dalla sentenza di patteggiamento rimarrà sospesa e, al termine del decorso dei cinque o due anni, «gli effetti estintivi propri della sospensione si cumuleranno a quelli del rito semplificato» 56. Con
una precisazione tuttavia, ossia che l’estinzione degli effetti penali discenderà esclusivamente dal meccanismo estintivo del patteggiamento, giacché la sospensione condizionale della pena ha per effetto
l’estinzione del reato ma non anche l’estinzione degli effetti penali 57.
50
Testualmente, F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, cit., p. 143.
51
Così, A. Macchia, Il patteggiamento, cit., p. 66.
52
V. F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, cit., p. 143.
53
In tal senso, S. Larizza, Effetti penali, cit., p. 210, secondo la quale l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale
«costituisce sicuramente il primo effetto penale della sentenza di condanna che rende possibile la produzione di tutti gli altri sia
in àmbito penale che extrapenale. Difatti, se la sentenza penale non risultasse iscritta, il giudice non ne potrebbe tenere conto ai
fini, ad esempio, del diniego della sospensione condizionale […]». Nello stesso senso, anche F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, cit., p. 143. Contra F. Cordero, il quale attribuisce al casellario giudiziale funzione di mera «anagrafe penale» (testualmente, F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1995, p. 1076) e D. Vigoni, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., p. 480
ss. L’orientamento contrario ad attribuire all’iscrizione nel casellario giudiziale natura di effetto penale è condiviso dalla
giurisprudenza (cfr., tra le altre, Cass., sez. VI, 3 dicembre 1997, n. 4315, in Cass. pen., 1999,1, p. 246. Più di recente, Cass., sez. III,
10 febbraio 2005, n. 4868, in CED Cass., n. 230955 sul presupposto della denegata natura di effetto penale all’iscrizione della
sentenza nel casellario giudiziale, ha affermato che l’estinzione del reato per effetto dell’art. 455, comma 2, c.p.p. non ne
comporta anche la cancellazione dal casellario; d’altra parte – si sottolinea nella pronuncia – ai sensi dell’art. 5 del d.p.r. n. 313
del 2002 la cancellazione è prevista per i soli reati di competenza del giudice di pace).
54
Come noto, il terzo comma dell’art. 444 c.p.p. espressamente prevede che «la parte, nel formulare la richiesta [di patteggiamento], può subordinarne l’efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena. In questo caso il giudice, se ritiene che la
sospensione condizionale della pena non può essere concessa, rigetta la richiesta».
55
Come si vede, i termini ex art. 163 c.p. coincidono con quelli previsti per il meccanismo estintivo previsto ex art. 445,
comma 2, c.p.p. e ciò determina la parziale sovrapposizione degli effetti generati dai due istituti, v. appena infra.
56
Così, A. Chiliberti-F. Roberti, Applicazione della pena su richiesta, cit., p. 345.
57
La questione si è brevemente analizzata supra, esaminando gli effetti penali in rapporto alle pene accessorie.
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Ove, invece, non sia concessa la sospensione condizionale, la pena dovrà essere eseguita e si produrrà soltanto «il beneficio a lungo termine» 58 previsto dal patteggiamento ex art. 445, comma 2, c.p.p.,
sempre che all’utile decorso del tempo si aggiunga la mancata commissione di ulteriori delitti o contravvenzioni 59.
OPERATIVITÀ IPSO IURE DEGLI EFFETTI ESTINTIVI
Con una netta inversione di tendenza, che merita senz’altro di essere condivisa, la Suprema Corte stabilisce il principio per il quale il fenomeno estintivo del reato e di ogni effetto penale previsto dall’art.
445, comma 2, c.p.p. opera senza necessità che intervenga una pronuncia da parte del giudice dell’esecuzione. In questo modo, mediante il richiamo ad un recente arresto espressosi in tal senso 60, si inaugura un orientamento favorevole che, rispetto a non molto tempo fa, sembrava lontano, stante la consolidata giurisprudenza diretta a pretendere, in ogni caso, la previa verifica dei presupposti di estinzione
da parte di una pronuncia giudiziale 61.
A tale proposito, a lungo si è sostenuto che «la situazione di fatto da cui origina la causa di estinzione del
reato per divenire condizione di diritto abbisogna per espressa previsione di legge dell’intervento […] del giudice
dell’esecuzione, il quale è tenuto nell’assolvimento di un suo preciso dovere funzionale ad emettere il relativo
provvedimento» 62; sarebbe l’art. 676 c.p.p. ad attribuire al giudice dell’esecuzione il dovere di decidere,
mediante pronuncia di tipo costitutivo, in ordine alle cause di estinzione del reato che si verifichino successivamente al passaggio in giudicato della condanna 63.
Del resto, in questi termini si era già espressa la stessa Corte costituzionale, affermando la legittimazione dell’interessato a promuovere un incidente di esecuzione diretto a fare dichiarare l’avvenuta
estinzione del reato per utile decorso dei termini 64.
L’orientamento era stato successivamente recepito anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, in ordine alla verifica dei requisiti soggettivi di cui devono essere in possesso i partecipanti a procedure concorsuali o di appalto al momento della presentazione delle offerte. Facendo proprio l’insegnamento della Suprema Corte, il giudice amministrativo aveva infatti precisato, in riferimento ad un’ipotesi di depenalizzazione, che all’abolitio criminis non consegue in via automatica l’estinzione della condanna, occorrendo in proposito il provvedimento del giudice competente, con l’ulteriore conseguenza
che, ove detto provvedimento sia emesso a seguito della chiusura delle procedure concorsuali, ciò non
influirà retroattivamente sui requisiti esistenti al momento della presentazione delle offerte 65.
La opposta prospettiva – quella accolta dalla sentenza in esame – sembra invece ricongiungersi all’opinione emersa in tempi recenti nella giurisprudenza delle Sezioni unite 66, in merito all’individuazione
del dies a quo per il decorso del termine prescrizionale della pena nel caso di revoca dell’indulto: in proposito, si è affermato che il termine di prescrizione decorre «dalla data d’irrevocabilità della sentenza di
condanna, quale presupposto per la revoca del beneficio» 67. Di fronte a differenti opzioni ermeneutiche, insomma, andrebbe preferita quella che àncora la decorrenza degli effetti al momento in cui si sono veri-
58
L’espressione è presa in prestito da G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, cit., p. 496.
59
L’interpretazione discendente dalla concorrenza degli istituti della sospensione condizionale e del meccanismo estintivo
previsto dal patteggiamento tradizionale è condivisa in letteratura. Sul punto, v. anche R. Giustozzi, I procedimenti speciali, cit., p.
803.
60
Cass., sent. n. 20068 del 2015, cit.
61
Cfr., ex multis, Cass., sez. IV, 21 marzo 2002, n. 498, cit. e C. cost., ord. n. 107 del 1998, cit.
62
Testualmente, Cass., n. 498 del 2002, cit., la quale, a propria volta, si riporta alle argomentazioni presenti nella requisitoria
scritta del Procuratore generale.
63
Cfr. ancora sent. Cass., n. 498 del 2002, cit. Nello stesso senso, v. anche Cass., sez. I, 30 dicembre 2009, n. 49987, in CED
Cass., n. 245968 e, in letteratura, F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, cit., p. 142 ss; M. Maniscalco, Il patteggiamento, Torino,
Utet, 2006, p. 215.
64
V. C. cost., ord. n. 107 del 1998, cit.
65
Cfr. Cons. St., sez. V, 9 giugno 2003, n. 3241 e, nello stesso senso Cons. St., sez. V, 20 marzo 2007, n. 1331.
66
In riferimento è a Cass., sez. un., 2 gennaio 2015, n. 2, in CED Cass., n. 261399.
67
Così, Cass., sent. n. 2 del 2015, cit.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
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ficati i presupposti indicati di volta in volta dalla legge, rispetto alla scelta di riferire quell’effetto ad un
atto ricognitivo giudiziale di un risultato già in essere.
Su tali premesse, un attento filone esegetico ha osservato, in merito al beneficio estintivo previsto dal
patteggiamento tradizionale, che l’art. 676 c.p.p., nell’attribuire al giudice dell’esecuzione la competenza a decidere sull’estinzione del reato dopo la condanna, in realtà «nulla stabilisce in ordine al momento a
partire dal quale si produrrebbero gli effetti propri dell’intervenuta causa estintiva, lasciando, pertanto all’interprete chiarire se tale pronuncia abbia un effetto costitutivo o non piuttosto dichiarativo» 68; in proposito, il dubbio, andrebbe risolto nel senso della autosufficienza del dato testuale: l’art. 445, comma 2, c.p.p. pare
subordinare l’estinzione del reato al mero verificarsi della condizione temporale, unitamente alla mancata commissione di altri illeciti penali, sicché un’eventuale pronuncia avrebbe natura di mero accertamento, rispetto al meccanismo estintivo già operante ipso iure.
Tale prospettiva merita di essere accolta con favore, dimostrandosi anzitutto attenta alla formulazione delle norme in esame. In questo senso, le competenze assegnate al giudice dell’esecuzione ex art.
676 c.p.p. non sembrano contrastare con l’efficacia automatica della causa di estinzione delineata
dall’art. 445, comma 2, c.p.p.; tale interpretazione anzi valorizza il dato letterale di quest’ultima disposizione che descrive l’utile decorso del tempo come condizione necessaria e sufficiente per il prodursi
del beneficio estintivo.
Ancora, abbracciando questo orientamento, si accede ad un’interpretazione più conforme ai principi
di rango costituzionale e sovranazionale; ove, infatti, il meccanismo estintivo delineato ex art. 445, coma
2, c.p.p. restasse subordinato alla pronuncia giudiziale, la diversità dei tempi delle decisioni finirebbe
inevitabilmente per ledere l’eguaglianza del trattamento. Inoltre, un’opposta lettura si sconterebbe con i
principi di ragionevole durata del processo e del minore sacrificio esigibile, desumibili, oltre che dal testo costituzionale, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo 69.
Infine, non sarebbe accettabile obbiettare che tale linea tendenza consenta il determinarsi degli effetti
estintivi senza che il giudice verifichi le condizioni per il loro operare; il beneficio descritto dall’art. 445,
comma 2, c.p.p. è pur sempre apprezzato dal giudice quando dovrà valutare la permanenza o meno
delle conseguenze afflittive in rapporto alla decisione che dovrà emettere. Sotto tale profilo, pertanto, il
mancato previo intervento in executivis non pregiudica affatto la verifica giudiziale dei presupposti
estintivi.
68
Così, Cass., sent. n. 20068 del 2015, cit., le cui argomentazioni sono richiamate dalla sentenza in commento.
69
V. artt. 5 e 6 Cedu, nonché le argomentazioni di Cass., sent. n. 20068 del 2015, cit.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE E BENEFICI ESTINTIVI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | L’EQUA RIPARAZIONE PER L’IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO PENALE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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ROBERTO GUIDA
Avvocato
L’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo
penale alla luce della legge 28 dicembre 2015, n. 208
The equitable remedial action due to the unreasonable long-lasting duration of penal trial, in light of the law of 28th December 2015, n. 208
La legge 28 dicembre 2015 n. 208 ha profondamente modificato le condizioni di ammissibilità del ricorso per
l’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo penale disciplinato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d.
legge Pinto).
Il contributo affronta gli istituti introdotti dalla legge n. 208 del 2015, ponendo in particolare risalto gli effetti sul sistema processuale penale dei cd. “rimedi preventivi” previsti dall’art. 1 ter della legge n. 89 del 2001.
Law of 28th December 2015, n. 208 has deeply amended the eligibility terms of legal petition for the equitable
remedial action due to the unreasonable long-lasting duration of penal trial, disciplined by law of 24th March 2001,
n.89 (so-called Pinto law).
The contribution deals with the institutions introduced by law n. 208 of 2015 notably highlightning the effects of
penal trial system of so-called “preventive redresses” expected by article 1 ter of law n. 89 of 2001.
LA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: LA CD. LEGGE PINTO, LA COSTITUZIONE E LA CONVENZIONE
EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Il comma 777 dell’art. 1 della legge 28 dicembre del 2015, n. 208 ha innovato, sia pure profondamente,
la disciplina inerente la presentazione del ricorso per l’equa riparazione per l’irragionevole durata del
processo penale. Tuttavia, l’analisi delle modifiche normative apportate alla cd. “legge Pinto” dalla legge di stabilità per il 2016 non può prescindere da una sintetica illustrazione del principio di ragionevole
durata del processo, introdotto al comma secondo dell’art. 111 Cost. dalla legge costituzionale del 23
novembre 1999, n. 2.
In proposito, va immediatamente detto che l’inserimento del principio nella grundnorm ha finalmente 1 consentito di conferire al dato temporale della definizione del giudizio la connotazione di elemento
essenziale e caratterizzante nell’ontologia del giusto processo 2, per giunta riferendolo all’efficienza
stessa della giurisdizione.
1
Già G. Conso, alla fine degli anni ’60, sosteneva che la celerità del processo fosse un valore da perseguire, individuando,
però, nel diritto di difesa un limite invalicabile alla tutela di quel principio (cfr. Costituzione e processo penale, Milano, 1969, p. 43).
2
Sul punto i riferimenti dottrinari sono molteplici. Solo in via esemplificativa e senza alcuna presunzione di completezza, si
veda: E. Amodio, Ragionevole durata del processo penale e nuove esigenze di tutela dell’imputato, in AA. VV., Per una giustizia penale
più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, 2006, p. 56; B. Nacar, Premesse allo studio sulla sistematica dei termini nel procedimento penale, Napoli, 2011, p. 79 ss; A. Nappi, La ragionevole durata del processo, in Cass. pen., 2000, p. 468; P. Ferrua, Il processo penale
dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Questioni Giustizia, 2000, p. 52; A. Furgiuele, La ragionevole durata delle indagini preliminari, in Dir. pen. proc., 2004, p. 1193; R. Kostoris, La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della giustizia penale, Torino, 2005, p. 4; D. Siracusano, La durata ragionevole del processo quale “metodo” della giurisdizione, in Dir. pen. proc., 2003, p. 763; A.
Scalfati, A proposito della durata ragionevole del processo, in questa Rivista, 2011, p. 2; G. Ubertis, Azione penale, contraddittorio e ragionevole durata del processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 130.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | L’EQUA RIPARAZIONE PER L’IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO PENALE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Ed infatti, mediante la ricordata innovazione costituzionale si è voluto dare a tale “valore” una tutela ancor più pregnante rispetto a quella assicurata dall’art. 6 Cedu, ove esso presenta una connotazione
meramente soggettiva, essendo inserito nell’ambito della tutela dei diritti riconosciuti all’accusato.
Appare opportuno ricordare, quindi, sia pure in via di estrema sintesi, i risultati dell’elaborazione
dottrinaria in ordine al significato da attribuire all’aggettivo “ragionevole” che accompagna il sostantivo “durata” 3; e ciò al fine di comprendere l’obbiettivo che il legislatore costituente ha inteso perseguire
allorché ha affermato che la “durata” del processo dovesse essere “ragionevole”.
A ben vedere, infatti, si tratta di un concetto di matrice anglosassone che, una volta importato nel
nostro ordinamento costituzionale, abbisogna ancora di un approfondimento che sia ampiamente condiviso 4. In questa prospettiva, appare apprezzabile la considerazione proveniente da attenta dottrina,
secondo cui la ragionevolezza potrebbe essere letta come la regola che induca «un bilanciamento tra il
far bene ed il far presto» 5. Nel senso che è da considerare “ragionevole” la durata di un processo che
non ne dilati oltremodo l’arco temporale, ma contemporaneamente non comprima, in nome di una
formale efficienza, i diritti connaturati alla difesa dell’imputato. Si dovrebbe, cioè, giungere ad un sistema processuale in cui la speditezza del procedimento sia comunque tale da assicurare all’imputato
di non vedere pregiudicato il suo inviolabile diritto di difesa 6.
Il principio di ragionevole durata del processo, da intendersi alla stregua di una regola pre-giuridica, ha indotto il legislatore ordinario a prevedere degli strumenti processuali che consentano di pervenire ad una “decisione affidabile” 7, attraverso un accertamento che, pur garantendo i diritti dell’imputato, sia ispirato ad esigenze di efficienza e, appunto, di “ragionevole” celerità. Tanto, fino ad assicurare l’equa riparazione a colui che abbia subito un processo in un tempo non conforme ad uno Stato di
diritto moderno 8. Così, all’indomani del riconoscimento a livello costituzionale del principio della ragionevole durata del processo, il legislatore ebbe ad introdurre nell’ordinamento una disciplina – dettata con la legge 24 marzo del 2001, n. 89, la c.d. legge Pinto – che avesse, come ratio ispiratrice, quella di
garantire l’equo indennizzo all’imputato che, per ragioni a lui non ascrivibili, avesse subito un processo
celebratosi in un arco temporale ritenuto legislativamente irragionevole.
L’originaria formulazione della legge attuativa del precetto costituzionale e di quello desumibile
dall’art. 6 Cedu, però, non forniva indicazioni utili ad individuare quale fosse un termine di durata del
processo tale da essere ritenuto “irragionevole”; l’art. 2 della legge n. 89 del 2001, infatti, conteneva soltanto un diretto richiamo al mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1,
della convenzione, in conseguenza del quale sarebbe sorto il diritto ad ottenere l’equa riparazione. Proprio il generico tenore della norma, nel corso del primo decennio di vigenza della disciplina in parola,
ha determinato l’accoglimento di numerosi ricorsi volti ad ottenere il riconoscimento dell’equo indennizzo; di conseguenza, l’irragionevole durata del processo e la successiva necessità di ristorare
l’imputato, incolpevole ostaggio di una giustizia troppo lenta, ha finito per comportare un costo eccessivo a carico delle finanze dello Stato 9. Al precipuo fine di rimediare alla gravosa situazione venutasi a
3
Ben prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 Cost., R. Garofoli (Il mito del tempo ragionevole nel processo penale, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1133) poneva in rilievo che: «il concetto di ragionevolezza rimane nozione particolarmente elastica, di non immediata evidenza. Insomma, dire che un processo non deve essere né troppo lungo né troppo corto resta una semplice enunciazione di principio, un concetto vago e generico che lascia ai singoli legislatori notevoli margini di discrezionalità nel momento
della sua attuazione concreta. Dopo tutto, la ragionevole durata del processo non può essere un concetto astratto ma necessita di essere specificato, di acquisire effettività, di essere contestualizzato ed in assenza di parametri indicativi da parte della Carta internazionale rende il concetto della ragionevolezza suscettibile di essere riempito a piacimento nel momento in cui si pensa alla sua concreta attuazione».
4
Così P. Ferrua, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, cit., p. 52.
5
Testualmente, E. Amodio, Riforme urgenti per il recupero della celerità processuale, in Dir. pen. proc., 2010, p. 1270. L’Autore, sul
punto, prosegue affermando che: «Tempi irragionevoli sono anzitutto quelli in cui la giustizia si impantana in mille rivoli di interminabili accertamenti, facendo gravare sull’imputato la dilatazione dell’arco temporale del processo. La irragionevolezza si riscontra però anche là
dove, in omaggio ad esigenze di efficienza, si tagliano spazi difensivi e sequenze necessarie alla assunzione delle prove, così da offrire
l’immagine di una giustizia celebrata in piedi da giudici che frettolosamente siglano con la condanna un rito condotto per placare l’allarme
sociale».
6
Così V. Grevi, Il Principio della ragionevole durata come garanzia oggettiva del giusto processo penale, in Cass. pen., 2003, p. 3211.
7
In tal senso, A. Furgiuele, La Prova per il giudizio nel processo penale, Torino, 2007, p. 6.
8
In questa prospettiva si pone, A. Nappi, La ragionevole durata del giusto processo, in Cass. pen., 2002, p. 1541.
9
In tal senso, si è espresso anche F. Vitale, La legge “Pinto”: profili critici tra diritto intertemporale e disciplina a regime dopo la l. n.
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creare, quindi, è stato ritenuto opportuno incidere sull’originaria disciplina, modificandola (rectius: rivisitandola) pressoché completamente.
Dunque, al di là di talune previsioni obbiettivamente riconducibili all’esigenza di limitare la sfera di
discrezione di cui godeva il giudice nel valutare la fondatezza dei ricorsi, la ratio sottesa alle modifiche
apportate, dapprima con la legge 7 agosto del 2012, n 134 e, successivamente, con la legge n. 208 del
2015, sembra essere la medesima; cioè quella di restringere l’ambito di ammissibilità delle richieste di
equo indennizzo, come di seguito si avrà modo di chiarire.
Il legislatore, già nel 2012, si persuase della necessità di fissare dei criteri volti a stabilire quando la
durata del processo dovesse essere ritenuta “irragionevole”. In particolare, con la legge n. 134 del 2012
fu, ex novo, introdotto il comma 2-bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, in virtù del quale poteva ritenersi “ragionevole” il termine di durata di un processo che fosse stato celebrato in un massimo tre anni,
per ciò che riguarda il primo grado di giudizio, di due per il secondo e di un anno per il giudizio di legittimità. Il successivo comma 2-ter dell’art. 2, sempre introdotto con la medesima novella legislativa,
costituiva una previsione di carattere generale in virtù della quale: «si considera comunque rispettato il
termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei
anni».
In buona sostanza, cioè, l’intervento del legislatore fu, innanzi tutto, volto a sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla, invece, ad una previsione
legale di carattere generale 10.
A prescindere dalla condivisibile esigenza di definire il concetto di “ragionevole” durata, il legislatore – nel 2012, ed ancor di più con la novella del 2015 –, si è determinato ad introdurre nel sistema una
serie di requisiti destinati a caratterizzare la domanda volta ad ottenere l’equo indennizzo, condizionandone l’ammissibilità. Ciò, unitamente all’introduzione di regole predeterminate volte a limitare, entro certi importi, la misura massima dell’indennizzo 11. In altre parole, il legislatore, al fine di ridurre i
costi per lo Stato, piuttosto che farsi carico della necessità di introdurre nel sistema degli strumenti che,
sotto il profilo dell’efficienza, garantissero una ragionevole durata del processo, magari anche attraverso interventi normativi volti a rafforzare l’organico dell’Ordine giudiziario e/o della sua struttura amministrativa, ha preferito dettare una disciplina che, sottoponendo a plurime condizioni l’ammissibilità
del ricorso strumentale all’ottenimento dell’indennizzo, assicuri solo ad una minima parte di essi la
possibilità di trovare accoglimento.
La scelta operata, in realtà, appare essere in diretto contrasto con i principi desumibili dal comma
secondo dell’art. 111 Cost., nonché dal precetto contenuto nell’art. 6 della Cedu. Ed invero, se il principio della ragionevole durata del processo deve necessariamente connotare ogni sua fase, appare innegabile che l’eventuale violazione del precetto costituzionale, incidendo in modo sensibile sul diritto
dell’imputato di subire un processo giusto in quanto di durata equa, debba trovare nell’ordinamento
giuridico uno strumento di riparazione effettivo; soprattutto slegato da una valutazione ex post dell’incidenza, sulla sua durata, delle strategie che l’imputato ha inteso adottare nel corso del processo al fine di
esercitare il proprio inviolabile diritto di difesa.
Ragionare diversamente renderebbe il sistema processuale, nel suo insieme, in contrasto con il principio costituzionale introdotto dal legislatore al secondo comma dell’art. 111 Cost.
LE MODIFICHE APPORTATE DALLA LEGGE N. 208 DEL 2015 ALLA C.D. “LEGGE PINTO”
Allo scopo di procedere all’inquadramento sistematico della novellata disciplina afferente il diritto ad
ottenere un equo indennizzo in conseguenza dell’irragionevole durata del processo, è necessario preliminarmente porre in rilievo le specifiche novità apportate alla cd. legge Pinto dalla legge n. 208 del 2015
134 del 2012, in questa Rivista, 2016, p. 129, secondo cui: «La riforma del 2012 ha investito profondamente la normativa di riferimento,
incidendo in modo decisivo sulle concrete possibilità di azionare il ricorso per l’irragionevole durata dei processi tramite l’inserimento di una
serie di disposizioni filtro e di barriere evidentemente dirette ad un generale risparmio della spesa pubblica, pur a detrimento delle giuste pretese individuali, considerando i notevoli esborsi connessi all’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo».
10
C. cost., sent. 16 febbraio 2016 n. 36, in www.cortecostituzionale.it, che ha dichiarato incostituzionale il comma 2-bis dell’art.
2 della legge n. 89 del 2001 nella parte in cui prevedeva l’applicazione dei termini in esso contenuti anche al processo di primo
grado.
11
Cfr. art. 2 bis della legge n. 89 del 2001 introdotto con legge n. 134 del 2012 e modificato dalla legge n. 208 del 2015.
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(la c.d. legge di stabilità del 2016) che, secondo parte della dottrina, ha sostanzialmente introdotto una
“nuova figura” d’imputato.
Il legislatore, con l’art 1-bis 12, ha inserito un’inedita condizione di ammissibilità del ricorso per
l’equa riparazione, prevedendo che esso può essere riconosciuto soltanto se l’interessato abbia già esperito tutti i “rimedi preventivi” di cui all’articolo 1 ter. Con particolare riferimento al processo penale,
poi, il successivo art. 1-ter, comma 2, ha introdotto un “nuovo” istituto, denominandolo “rimedio preventivo”, cui l’imputato può fare (rectius: deve fare) ricorso onde scongiurare che, durante la sua pendenza, il processo abbia una irragionevole durata. In particolare, la norma prevede che l’imputato, al
pari delle altre parti processuali, abbia il diritto di depositare, personalmente o a mezzo di procuratore
speciale, “un’istanza di accelerazione”, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini individuati
dal legislatore nell’articolo 2, comma 2-bis”. Con le stesse modalità, anche innanzi alla Suprema Corte
di Cassazione, l’imputato avrà diritto a depositare “un’istanza di accelerazione”, almeno due mesi prima
che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis.
In sintesi, la domanda volta ad ottenere un equo indennizzo in conseguenza della “irragionevole”
durata del processo sarà inammissibile, qualora l’imputato, durante la pendenza del processo, non abbia esercitato il proprio “diritto” (rectius: onere) di depositare alla Autorità Giudiziaria procedente una
“istanza di accelerazione”.
In altri termini, dunque, in virtù delle novità introdotte nel 2015, il diritto dell’imputato ad ottenere
un equo indennizzo nell’eventualità in cui dovesse essere violato il proprio diritto, costituzionalmente
garantito, di subire un processo che venga definito in tempi ragionevoli, resta condizionato alla proposizione di una sorta di diffida con la quale venga intimato alla Autorità Giudiziaria procedente il rispetto dei termini previsti dall’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001. In questo modo, però, sembra che il legislatore abbia finito per “soggettivizzare” eccessivamente l’interesse alla definizione del processo in un
tempo ragionevole. Infatti, trascurando il dato obbiettivo che il precetto è inserito nell’art. 111 Cost. che
“apre” la Sezione II del Titolo IV della Carta fondamentale, dedicata alla Giurisdizione, ha sostanzialmente equiparato l’inerzia degli organi pubblici preposti ad assicurare il rispetto del principio all’omissione di una “sollecitazione” da parte del soggetto su cui ricade il pregiudizio inevitabilmente derivante dalla sola pendenza del processo.
Va, poi, rilevato come, al di là della peculiare condizione di ammissibilità della domanda proveniente dall’imputato, cui si è appena fatto riferimento, il legislatore, all’art. 2 quinques indichi i casi in cui
non è riconosciuto alcun indennizzo, anche in relazione ad istanze originariamente ritenute ammissibili
ai sensi degli artt. 1-bis e 1-ter della novellata legge Pinto. Ciò si verifica in tutti i casi in cui il giudice accerti che la dilatazione dei tempi di durata del processo sia stata determinata dall’ “abuso dei poteri
processuali”. Il tenore letterale dell’art. 2 quinques è, a dire il vero, così generico (e, come tale, equivoco)
da lasciare al giudice un ampio ed insindacabile margine di discrezionalità nell’individuare i casi in cui
l’uso dei poteri processuali rientri in tale fattispecie.
In tal modo, a prescindere da potenziali interpretazioni palesemente arbitrarie, qualsivoglia eccezione formulata dal difensore dell’imputato potrebbe essere considerata tale da rientrare nella nozione
delle “macrocategoria” dell’abuso del diritto 13. E ciò in virtù dell’opinabile (ed in realtà inaccettabile)
presupposto che tali attività, legittimamente esercitate in attuazione del diritto di difesa, rispondano
unicamente a strategie di carattere dilatorio. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi dell’eccezione della nullità
della richiesta di rinvio a giudizio a causa della omessa notifica all’imputato dell’avviso di conclusione
delle indagini preliminari. Per giurisprudenza pacifica, siffatta nullità rientra tra quelle a regime intermedio (art. 180, comma 1, c.p.p.), rilevabile, per tale ragione, entro la pronuncia della sentenza di primo
grado. Ebbene, la scelta della difesa di riservarsi, nel perfetto rispetto della legge, di dedurre il vizio
immediatamente prima della deliberazione nel giudizio di primo grado potrebbe essere interpretata, in
sede di procedura ex legge 89 del 2001, alla stregua di un abuso dei poteri processuali. In questa maniera, il vizio ascrivibile unicamente all’autorità giudiziaria procedente finirebbe per pregiudicare la pos12
D’ora in avanti, per snellezza espositiva, i numeri degli articoli non seguiti da uno specifico riferimento legislativo vanno
intesi come riferiti alla legge n. 89 del 2001, così come modificata dalla legge n. 208 del 2015.
13
Sulla categoria dell’abuso di diritto, sviluppata principalmente nell’ambito della dottrina civilistica, si veda: Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, in Contratto e impresa, 1998, p. 19. Secondo tale Autore, con la formula abuso
del diritto si tende ad indicare un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto, del diritto soggettivo, il cui riconoscimento, come si insegna, implica l’attribuzione al soggetto di una duplice posizione, di libertà e di forza.
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sibilità di ottenere l’indennizzo all’imputato che, nel legittimo esercizio di scelte strategiche consentite,
avrebbe ritardato la regressione del processo alla fase delle indagini preliminari.
L’irragionevolezza della conclusione appare in tutta la sua platealità ove si osservi che la previsione
in ordine al termine ultimo entro cui dedurre la nullità in parola risponde proprio all’esigenza, evidentemente sentita dal legislatore, di consentire all’imputato di scegliere legittimamente il momento più
opportuno per eccepire l’invalidità. In altri termini, in virtù di quanto previsto dall’art. 2 quinquies potrebbe essere ritenuto quale abuso di poteri processuali l’esercizio di diritti e facoltà che, pur essendo
strettamente connessi all’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, siano potenzialmente idonei a
comportare una dilatazione dei tempi di durata del processo. Ciò denuncia un’inquietante matrice di
stampo inquisitorio che considera il diritto di difesa come una necessità da “tollerarsi” sol perché è
previsto come inviolabile dal secondo comma dell’art. 24 Cost., ma che non serve a fornire un irrinunciabile contributo alla realizzazione del “giusto processo”.
Parimenti discutibile è, poi, la previsione contenuta nell’art. 2 sexies che fa riferimento all’eventualità
in cui il processo sia stato definito con una declaratoria di estinzione del reato a causa del decorso del
termine di prescrizione. In siffatta ipotesi, infatti, si presume, salvo prova contraria, l’insussistenza del
danno connesso alla irragionevole durata del processo. Ebbene, la scelta operata dal legislatore risulta,
in questo caso, davvero incomprensibile, perché non appare chiara la ragione in virtù della quale, con
riferimento al maturare di una causa di estinzione del reato, sia stata prevista un’inversione dell’onere
della prova. La disposizione in parola, infatti, appare unicamente finalizzata a far ricadere sull’imputato l’onere di dimostrare che la prescrizione non sia stata la conseguenza di una sua condotta acquiescente nel corso del processo.
D’altro canto, il legislatore sembra avere trascurato che, rispetto al decorso del termine di prescrizione, l’imputato non può in alcun modo incidere; se non altro, in ragione della previsione contenuta
nell’art. 159 c.p., che disciplina espressamente i casi di “sospensione” ascrivibili, perfino, ai ritardi dovuti all’ipotesi di un legittimo impedimento dell’imputato. Si dimentica, cioè, che la disciplina dettata
nel codice penale in ordine all’estinzione del reato in conseguenza del decorso del termine di prescrizione, risponde innanzitutto all’esigenza di evitare che l’imputato possa essere sottoposto sine die all’accertamento giurisdizionale di un reato ipotizzato a suo carico. Il suo verificarsi, lungi dal potersi ascrivere ad una condotta dilatoria dallo stesso tenuta, è fisiologicamente (rectius patologicamente) connesso
al carico eccessivo degli affari penali che affligge determinati uffici giudiziari. Né il pregiudizio riservato all’imputato può legittimamente correlarsi alla scelta di costui di non rinunciare alla prescrizione.
Ciò perché essa è certamente del tutto indipendente dal verificarsi dell’estinzione del reato ascrivibile,
invece, unicamente ai ritardi ed alle disfunzioni del “sistema giudiziario”.
In sintesi, appare profondamente ingiusta, oltre che contraria ai principi desumibili dall’intero sistema processuale, l’opzione legislativa di ribaltare gli effetti in termini d’irragionevole durata del processo causati – nella maggior parte dei casi – dalla patologica carenza d’organico dell’amministrazione
della giustizia, sul comportamento “neutro” dell’imputato, che non abbia ritenuto di rinunciare ad un
proprio diritto.
Tutto ciò, dunque, ribadisce quanto accennato in premessa, ovverosia che la ratio sottesa alla novella
del 2015 sia, in realtà, unicamente quella di cercare di contenere, per esclusive ragioni legate a seppur
comprensibili esigenze del bilancio dello Stato, le risorse finanziarie da destinare all’equa riparazione.
Viceversa, appare condividibile la scelta del legislatore di individuare un rapporto di alternatività tra
l’istituto previsto dalla c.d. legge Pinto e quello riconnesso alla ingiusta detenzione. Con l’art. 2-septies,
infatti, si è inteso ritenere parimenti insussistente il danno nell’eventualità in cui la parte abbia conseguito, per effetto della irragionevole durata del processo, vantaggi patrimoniali eguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo che le sarebbe stato altrimenti dovuto.
Sembra, quindi, che tale norma debba essere interpretata nel senso di escludere l’equa riparazione
per l’irragionevole durata del processo ogni qual volta l’imputato, sottoposto a custodia cautelare e poi
assolto, abbia conseguito l’indennizzo di cui all’art. 314 c.p.p.
Infine, con le altre innovazioni introdotte dalla legge n. 208 del 2015, da un lato, si sono determinate le
soglie d’indennizzo massimo e minino, riportandole a somme di denaro davvero esigue (art. 2-bis) e,
dall’altro, si è modificata la competenza funzionale del giudice innanzi al quale proporre il ricorso (art. 3) 14.
14
La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d’appello del distretto in cui ha sede il
giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto. Si applica l’articolo 125 c.p.c.
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L’art. 5 sexies, poi, ha puntigliosamente disciplinato la procedura volta all’erogazione dell’indennizzo, appesantendola con l’onere di produrre autocertificazioni telematiche e con ulteriori orpelli burocratici; e ciò, ancora una volta, sembra essere in perfetta sintonia funzionale con lo “scopo” della novella.
Alla luce delle novità sin qui descritte, dunque, sembrerebbe potersi affermare che la riforma partorita con la c.d. legge di stabilità 2016 abbia finito per rendere di fatto inefficace lo strumento dell’equa
riparazione dipendente dalla irragionevole durata del processo. Ciò con la conseguenza di lasciare inattuato il principio desumibile dal comma secondo dell’art. 111 Cost. e, soprattutto, quello sancito
dall’art. 6, § 1, della Cedu.
LA RESPONSABILITÀ DELL’IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO QUALE “COLPA” DELL’IMPUTATO.
CAPOVOLGIMENTI DOGMATICI AI SENSI DELL’ART. 1-TER, COMMA 2, DELLA LEGGE N. 89 DEL 2001
Si è precedentemente accennato come la legge n. 134 del 2012, prima, e la n. 308 del 2015, poi, abbiano
inteso introdurre nel sistema dei “rimedi preventivi” alla risoluzione della situazione di stasi processuale da cui deriverebbe l’irragionevole durata del processo. In tal modo, il legislatore ha attribuito
all’imputato, che intenda preservarsi la possibilità di richiedere – all’esito della definizione del processo
– l’equo indennizzo, l’onere di fare ricorso agli strumenti di sollecitazione ed “accelerazione” attraverso
i quali evitare che venga leso il proprio diritto di subire un processo “ragionevolmente” celere.
Ebbene, proprio l’istituto previsto dall’art. 1-ter, comma 2, desta non poche perplessità in ordine alla
sua compatibilità con la figura dell’imputato, così come delineata dal codice di procedura penale attualmente vigente, in ossequio all’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. All’imputato
(libero), infatti, sono ricondotti pochissimi obblighi che ineriscono esclusivamente al momento della sua
identificazione (art. 66, comma 1, c.p.p.), nonché ad un dignitoso comportamento in udienza (art. 475
c.p.p.). Viceversa, il sistema, nel suo complesso, è ispirato ad assicurare una serie di diritti da ritenersi
inviolabili, ex art. 24 Cost. Tra questi v’è, innanzitutto, quello di scegliere liberamente e consapevolmente di partecipare o meno attivamente al processo, a cui si aggiunge la facoltà di attuare le proprie strategie difensive nei tempi e con le modalità ritenute più idonee (art. 111, comma 3, Cost.). Cosicché, la
previsione di un onere in capo all’imputato di “mettere in mora il giudice” affinché definisca il grado di
giudizio nel più breve tempo possibile, appare davvero in manifesto contrasto con l’inviolabilità del diritto di difesa, da intendersi quale libero esercizio delle facoltà e dei diritti riconosciuti all’imputato
dall’ordinamento giuridico.
Del resto, sul punto, attenta dottrina ha inteso porre in rilievo come l’idea dell’“imputato acceleratore” si ponga in netto contrasto anche con la logica stessa del giudizio penale e con la sua fisionomia 15.
Se è fuor dubbio, infatti, che nel nostro ordinamento giuridico tutte le parti processuali debbano contribuire al corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia, il ruolo centrale affinché il processo raggiunga il suo scopo 16 è riservato innanzitutto al pubblico ministero, che è il titolare dell’azione
15
Cfr., sul punto, F. Vitale, La legge “Pinto”: profili critici tra diritto intertemporale e disciplina a regime dopo la l. n. 134 del 2012,
cit., p. 133.
16
Con riferimento alla funzione del processo penale si veda A. Furgiuele, Le prove formate fuori dal giudizio, Torino, 2012, p. 3,
in cui si ripercorre la copiosa letteratura susseguitasi nel tempo in relazione ai rapporti tra diritto penale sostanziale e processo.
Tradizionalmente, infatti, si riteneva che la funzione del processo penale fosse unicamente quella di dare attuazione al diritto
sostanziale e di costituire, dunque, il mezzo per assicurare l’accertamento dell’esistenza della fattispecie penale incriminatrice e
la punizione del colpevole. Si sosteneva, cioè, che la norma penale sostanziale fosse “completa” nel prevedere il precetto e la
corrispondente sanzione, adeguata quest’ultima a soddisfare le esigenze sia di prevenzione (generale e speciale) che di
repressione dei comportamenti devianti. Pertanto, il principio nulla pena sine iudicio, svolgeva unicamente la funzione di
permettere che la sanzione penale fosse applicata solo quando, all’esito del processo, l’imputato fosse stato considerato
colpevole del fatto illecito contestatogli.
Era, dunque, questa la logica in virtù della quale si affermava che il processo penale avesse una funzione meramente
strumentale rispetto al diritto sostanziale (cfr. Sul punto, Vannini, Diritto processuale penale, Milano, 1941, p. 3). Con l’evolversi
della cultura giuridica, poi, si è affermata definitivamente la peculiarità funzionale del processo penale e la sua indipendenza
dal diritto sostanziale, in ragione della molteplicità degli interessi e dei diritti soggettivi che il processo penale, e soprattutto le
norme processuali, tendevano a tutelare (Cfr., tra i tanti Maestri che hanno scritto sul punto: Malinverni, Studi sul processo penale,
Torino, 1983, p. 16).
Fino a giungere a chi, condivisibilmente, ritiene che la funzione del processo penale non risieda tanto e solo nell’ac-
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penale e, in funzione di controllo, al giudice il quale, oltre a verificare la fondatezza dell’accusa, deve
provvedere alla direzione e speditezza del giudizio (art. 470 c.p.p.).
D’altro canto, il fatto che in capo all’imputato non sia previsto alcun obbligo di preoccuparsi del corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia, ma al più, solo quello di lealtà nei confronti
delle altre parti processuali, è testimoniato dal fatto che, in ipotesi di assenza del giudice dall’aula di
udienza, non gli venga riconosciuto alcun ruolo attivo, essendo onere del pubblico ministero quello di
disciplinarla (art. 470, comma 2, c.p.p.).
Ulteriore conferma della natura opinabile della scelta legislativa di porre a carico dell’imputato
l’onere di diffidare l’autorità giudiziaria al rispetto dei tempi di ragionevole durata del processo è costituita dalla ontologica incompatibilità fra eventuali obblighi di fare connessi allo status di imputato quale, appunto, è l’istanza di accelerazione - e le garanzie sottese agli istituti disciplinati dagli artt. 63,
64 e 65 c.p.p. Le norme appena richiamate, infatti, oltre a dare attuazione al Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 14, § 3, lett. g), costituiscono il nucleo centrale delle facoltà
dell’imputato nella misura in cui gli riconoscono il diritto di non rispondere alle domande inerenti al
merito delle accuse, sin dal primo momento in cui siano sorti elementi di prova a suo carico.
Coniugare, dunque, il diritto a preparare la difesa “nel tempo necessario” (art. 111, comma 3, Cost.)
con l’idea di un imputato che debba “avere e dare fretta” per addivenire ad una decisione, appare davvero “irragionevole”, ai sensi dell’art. 3 Cost.
Come affermato dalla Corte costituzionale, infatti, i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si:
«trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare la prevalenza assoluta di uno
di essi sugli altri. La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed
in potenziale conflitto tra loro» 17. Con tale sentenza la Corte ha inteso rammentare come la valutazione
della razionalità di una disposizione non vada vagliata unicamente facendo riferimento alla singola situazione giuridica protetta, bensì mediante la sua immersione nella complessa dinamica processuale, sì
da verificare gli eventuali effetti distorsivi del singolo istituto su tutto il modello processuale. Proprio
alla luce di tale visione offerta dalla Corte costituzionale di un ordinamento giuridico in cui le fattispecie processuali si integrano in modo logicamente coerente le une con le altre, appaiono molteplici i profili d’incostituzionalità della nuova figura “dell’imputato acceleratore”.
In conclusione, dunque, condizionare il diritto dell’imputato all’equo indennizzo per l’irragionevole
durata del processo ad una partecipazione al giudizio che si spinga fino a “mettere in mora” il giudice,
appare essere contrario, per le ragioni sin qui indicate, agli artt. 3, 24, 102, 111, comma 3, e 117, comma
1, Cost.
certamento garantito del “fatto”, quanto nella possibilità concreta di “punire” un soggetto per il reato commesso (A. Furgiuele,
Le prove formate fuori dal giudizio, cit., p. 8).
17
Testualmente, C. cost., sent. 28 novembre 2012, n. 264, in www.cortecostituzionale.it.
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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LUCIANO CALÒ
Dottore di ricerca in Diritto e processo penale – Università degli Studi del Salento
Gli effetti processuali della depenalizzazione
The effects of decriminalization
La pubblicazione dei d.lgs. 15 gennaio 2016, nn. 7 e 8, noti, entrambi, col nome «pacchetto depenalizzazioni», ha
dato luogo ad un articolato dibattito in ordine agli effetti processuali ad essi connessi. L’Autore ne fornisce una
dettagliata rappresentazione alla luce degli obiettivi perseguiti dal legislatore delegante, della volontà del legislatore delegato e dei primi orientamenti interpretativi.
The introduction of new law of decriminalization (d.lgs. 15 gennaio 2016, nn. 7 e 8) caused a great number of
question on the procedural effects. The Author examines these matter, taking into account of the aim of the enabling act, the intention of the legislator and the first interpretative guidelines.
IL C.D. PACCHETTO DEPENALIZZAZIONI. TRA FATTI E BUONE INTENZIONI
Non erano ancora avviati i lavori del legislatore delegato, che già, con particolare riferimento alle conseguenze processuali della prevista riforma della disciplina sanzionatoria, suggestioni contrastanti accompagnavano le previsioni contenute nella legge delega 1.
Da un lato, infatti, c’erano quanti sottolineavano gli effetti positivi della depenalizzazione tanto sul
disorientamento provocato nei consociati dall’inflazione penalistica, quanto sul sovraccarico degli uffici
giudiziari 2. Dall’altro lato, invece, c’era chi denunciava il rischio di cortocircuiti tra «efficienza “recitata” ed efficacia» 3, con conseguenti possibili «disconnessioni tra ratio legis e norme di legge; disnomie ed
eterogenesi dei fini» 4. Dall’altro lato, ancora, c’erano quanti segnalavano possibili profili di illegittimità
costituzionale 5 ed auspicavano il decorso infruttuoso del termine per l’esercizio della delega 6.
1
Il riferimento è alla legge 28 aprile 2014, n. 67, contenente «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie
e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili».
2
F. Palazzo, Fatti e buone intenzioni. A proposito della riforma delle sanzioni penali, in http://www.penalecontemporaneo.it/area/3societa/16-/-/2827-fatti_e_buone_intenzioni__a_proposito_della_riforma_delle_sanzioni_penali/; Id., Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture (a proposito della legge n. 67/2014), in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1693 ss. Sulle strategie di riduzione dell’area del
penalmente rilevante, perseguite con la legge n. 67 del 2014, cfr. N. Selvaggi, La depenalizzazione e le altre politiche deflattive nelle
più recenti iniziative di riforma (con particolare riferimento alle novità introdotte dalla l. 28 aprile 2014, n. 67), in Arch. pen., 2014, p. 417.
3
G. Losappio, Depenalizzazione, tranquillità personale e inquinamento acustico, in http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-//4254-depenalizzazione__tranquillit___personale_e_inquinamento_acustico/, p. 2.
4
Così, ancora, G. Losappio, Depenalizzazione, cit., p. 2 e p. 24.
5
C. Masieri, Decriminalizzazione e ricorso alla “sanzione pecuniaria civile”, in http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-//3807-decriminalizzazione_e_ricorso_alla_____sanzione_pecuniaria_civile__/, p. 14, il quale, con riferimento alle sanzioni pecuniarie
civili, segnala che queste ultime, «oggetto dell’art. 2, comma 3, legge n. 67 del 2014, risultano non sufficientemente definite sia
dalla legge stessa, che dall’ordinamento civile previgente. Manca infatti un vero e proprio complessivo contesto normativo nel
quale si inseriscono la legge delega ed i relativi principi e criteri direttivi, poiché la legge n. 67 del 2014 fa riferimento ad un istituto, quello della sanzione civile pecuniaria, rispetto a cui non vi è una disciplina legislativa generale previgente. E gli sforzi in
sede interpretativa di ricondurre le sanzioni pecuniarie civili alle c.d. “pene private” non permettono di riempire il vuoto lasciato dal formante legale, che riguarda problemi di fondamentale importanza come l’individuazione dei beneficiari di tali somme».
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
102
La pubblicazione del c.d. pacchetto depenalizzazioni 7 ha riproposto opinioni simili, caratterizzate,
forse, da giudizi ancor più netti in ordine alle ricadute sulla prassi giudiziaria.
Le Relazioni, invero, descrivono i provvedimenti come «tesi a deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale» 8, nella prospettiva del rafforzamento «dei principi di proporzionalità, sussidiarietà
ed effettività dell’intervento penale» 9; e, nell’assenza di qualsiasi indicazione nella legge delega, presentano le norme processuali quali soluzioni interpretative ispirate sia ad esigenze di prudenza, sia ai
principi giurisprudenziali consolidatisi nell’applicazione di precedenti leggi di depenalizzazione 10. I
primi commentatori, di contro, presagiscono un ampliamento del carico giudiziario per via delle questioni di diritto intertemporale che dovranno essere affrontate, soprattutto con riferimento alle istanze
di revoca delle sentenze passate in giudicato; intravedono verosimilmente benefici sul processo penale
soltanto in tempi medio-lunghi 11; ed additano la disciplina delineata come a tratti lineare, a tratti poco
ponderata 12. Tutti, però, concordano nell’affermare la particolare delicatezza 13 della disciplina processuale dettata, tanto da renderla oggetto, in varie sedi, di commenti e linee guida, al fine di garantire
un’immediata, tendenziale uniforme applicazione delle nuove disposizioni da parte di tutti i soggetti
coinvolti, dall’autorità giudiziaria alla polizia giudiziaria e, ancora, al personale amministrativo.
IL D.LGS. 15 GENNAIO 2016, N. 8. LA DISCIPLINA TRANSITORIA
Assente nella legge delega qualsiasi indicazione in ordine ai profili di natura temporale, il legislatore
delegato si è confrontato con il dubbio interpretativo se tale mancanza fosse il segno della volontà del
delegante di affidarsi alle regole fissate dall’art. 2 c.p. e dall’art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689. In
6
Così, ancora, C. Masieri, Decriminalizzazione, cit., p. 18.
7
D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 e d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8.
8
Cfr. Relazione al d.lgs. n. 8 del 2016.
9
Cfr. Relazione al d.lgs. n. 7 del 2016. V., anche, F. Palazzo, La depenalizzazione nel quadro delle recenti riforme sanzionatorie, in
Dir. pen. proc., 2016, p. 287 ss.
10
Il c.d. pacchetto depenalizzazioni segue, nel tempo, una serie di analoghi interventi normativi succedutisi, con cadenza
quasi regolare, da più di trent’anni: la legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»; la legge 28 dicembre 1993, n. 561, contenente «Trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi»; il d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, rubricato «Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 legge 25 giugno 1999, n. 205». Non
sono mancati nemmeno interventi di depenalizzazione mirata per particolari materie (v. il d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, dedicato alla «Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro») o per specifici reati (cfr., ad esempio, l’art. 33, comma 1, lett. a), n. 1, legge 29 luglio 2010, che ha trasformato in illecito amministrativo la guida in stato di ebbrezza per un tasso
alcolemico superiore a 0,5 g/l e inferiore a 0,8 g/l, sanzionata dall’art. 186, comma 2, lett. a), c. str. A tale riguardo, cfr. A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni (dd.lgs. 15 gennaio 2016, nn. 7 e 8), Milano, 2016, p. 7. Sulla depenalizzazione nei lavori delle
Commissioni ministeriali Nordio, Fiorella e Palazzo, cfr. G. Losappio, Depenalizzazione, cit., p. 4.
11
G.L. Gatta, Depenalizzazione e nuovi illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili: una riforma storica, in http://www.penale
contemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/4427-depenalizzazione_e_nuovi_illeciti_sottoposti_a_sanzioni_pecuniarie_civili__una_riforma_storica/; in
linea V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio della delega per la riforma della disciplina sanzionatoria: una prima lettura, in http://www.penale
contemporaneo.it/novita_legislative_e_giurisprudenziali/1-/4510-l_esercizio_della_delega_per_la_riforma_della_disciplina_sanzionatoria__
una_prima_lettura/, p. 30, i quali, con particolare riferimento al d.lgs. n. 7 del 2016, sottolineano, a p. 6, come la finalità deflattiva
per il contenzioso penale «potrebbe non essere tale in relazione al contenzioso civile, se ci si sofferma sulla circostanza che
sull’illecito in questione è competente a decidere il giudice civile»; G. Ianni, La riforma sulla depenalizzazione, in http://www.il
caso.it/articoli/dpi.php?id_cont=867.php, p. 1; A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 69, il quale, emblematicamente scrive
che «pecca verosimilmente di ottimismo la previsione, esplicitata nella relazione del governo al d.lgs. n. 7 del 2016, che l’intervento in esame “libererà le procure da affari di scarsa rilevanza che troppo spesso non trovano sanzione a causa dell’ingolfamento degli affari in ambito penale” e che “la certezza di una sanzione pecuniaria civile di carattere economico e del risarcimento del danno abbia più forza di prevenzione e di tutela della persona offesa”».
12
V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 15.
13
Così, tra i tanti, G. Amato, La “depenalizzazione” realizzata in attuazione della legge delega n. 67 del 2014 [decreti legislativi nn. 7 e
8 del 15 gennaio 2016]. Indicazioni operative, in http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/4436-depenalizzazione_in_attuazione_
della_legge_delega_n__67_del_2014__le_linee_guida_della_procura_di__font_color__red__trento__font/, p. 2; V. Bove-P. Cirillo,
L’esercizio, cit., p. 16; F. Menditto, Linee guida per l’applicazione dei decreti legislativi 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di
abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili) e n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione), in
http://www.penalecontemporaneo.it/area/1-/4510-/-/4457-depenalizzazione_in_attuazione_della_legge_delega_n__67_del_2014__le_linee_
guida_della_procura_di_lanciano/, p. 17; G.L. Gatta, Depenalizzazione, cit.
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
103
mancanza di disposizioni transitorie, infatti, l’infrazione commessa, se successivamente depenalizzata,
non è più sanzionabile, nemmeno a livello amministrativo 14, con conseguente conclusione del procedimento a mezzo di provvedimento di archiviazione o di sentenza di proscioglimento perché il fatto
non è (più) previsto dalla legge come reato. Tuttavia, allo scopo dichiarato di scongiurare il rischio di
una sperequazione tra chi ha commesso il fatto depenalizzato prima della riforma e chi lo ha commesso
dopo 15, il codificatore, nonostante il silenzio della delega, ha previsto l’applicabilità retroattiva delle
sanzioni amministrative agli illeciti commessi anteriormente 16, con obbligo di trasmissione degli atti del
procedimento penale all’autorità amministrativa competente 17. Sempre che il procedimento penale non
sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili 18 e secondo un iter differente a seconda della fase in cui si trova il procedimento.
LE RICADUTE PROCESSUALI DELLA TRASFORMAZIONE DEI REATI IN ILLECITI AMMINISTRATIVI. I PROCEDIMENTI DEFINITI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO CON SENTENZA DI CONDANNA O DECRETO PENALE DI CONDANNA
L’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 8 del 2016 disciplina gli effetti della depenalizzazione sui procedimenti definiti con sentenza di condanna o decreto penale di condanna 19 sulla base del principio generale di cui
all’art. 2, comma 2, c.p. Il giudice dell’esecuzione, con provvedimento emesso de plano e nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 667, comma 4, c.p.p. 20, revoca la condanna, dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti 21.
La formulazione, che ricalca quella adoperata dall’art. 673, comma 1, c.p.p., non chiarisce se, oltre
all’eventuale revoca del sequestro penale 22, il giudice dell’esecuzione debba trasmettere gli atti
all’autorità amministrativa tenuta ad applicare la relativa sanzione, né precisa la sorte delle pene accessorie e della confisca eventualmente disposta.
14
Cfr., per tutte, Cass., sez. un., 29 marzo 2012, n. 25457, in CED Cass., n. 252694. Seppur indirettamente, v., anche, Cass., sez.
IV, 9 settembre 2015, n. 44132, in CED Cass., n. 264826, la quale rammenta, da un lato, che secondo l’interpretazione consolidata
della giurisprudenza di legittimità l’illecito amministrativo è dotato di piena autonomia normativa rispetto all’illecito penale, in
forza della c.d. “teoria della diversità” che nega qualsiasi rapporto di continuità tra illecito penale ed illecito amministrativo (cfr.
Cass., sez. un., 16 marzo 1994, n. 7394, in Cass. pen., 1995, p. 1806), ed argomenta, dall’altro lato, che l’interpretazione avallata
dalle Sezioni unite non trova ostacolo nella giurisprudenza della Corte e.d.u., che sembra esprimere invece adesione alla tesi di
una distinzione unicamente di grado tra illecito penale ed illecito amministrativo, in quanto l’insegnamento del giudice sovranazionale è dettato al solo fine di estendere le garanzie della Convenzione ad ogni forma di espressione di un diritto punitivo.
Sul conflitto giurisprudenziale precedente l’intervento delle Sezioni unite citate, cfr. G. Ianni, La riforma, cit., p. 7.
15
Nel silenzio normativo, soltanto a quest’ultimo (e non al primo) sarebbe applicabile la sanzione amministrativa prevista
per il nuovo illecito.
16
Sebbene mancassero precise indicazioni al riguardo, i primi commentatori escludono possa prospettarsi un eccesso di delega. Sul punto, cfr. F. Menditto, Linee guida, cit., p. 18; P. Molino-L. Barone-A. D’Andrea-M. E. Guerra, Gli interventi di depenalizzazione e di abolitio criminis del 2016: una prima lettura, in http://www.penalecontemporaneo.it/area/1-/4510-/-/4609-la_relazione_
dell___ufficio_del_massimario_su_depenalizzazione_e_nuove_sanzioni_pecuniarie_civili/, p. 14. La disciplina, tuttavia, è stata rimessa
allo scrutinio della Corte costituzionale da Trib. Bari, sez. II, 4 aprile 2016, inedita.
17
Per le prime applicazioni, cfr. Cass., sez. IV, 9 marzo 2016, n. 13014, inedita; Cass., sez. IV, 3 marzo 2016, n. 14485, inedita;
Cass., sez. IV, 3 marzo 2016, n. 14483, inedita; Cass., sez. IV, 26 febbraio 2016, n. 10726, inedita; Cass., sez. IV, 24 febbraio 2016, n.
12969, inedita; Cass., sez. IV, 18 febbraio 2016, n. 12695, inedita. Tutte ricordano il principio di diritto enunciato da Cass., sez. un.,
29 marzo 2012, n. 25457, in CED Cass., n. 252694, in forza del quale, in caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, il giudice non ha l’obbligo di
trasmettere gli atti all’autorità amministrativa competente a sanzionare l’illecito amministrativo qualora la legge di depenalizzazione non preveda norme transitorie analoghe a quelle di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, artt. 40 e 41.
18
Cfr. art. 8, comma 1, d.lgs. n. 8 del 2016.
19
I provvedimenti di condanna devono essere irrevocabili. Non si pone, evidentemente, alcun problema di ordine applicativo nel caso di procedimento definito con sentenza di proscioglimento (di qualunque natura) ovvero con decreto di archiviazione, dal momento che, qualunque sia la formula adottata, il reato depenalizzato è stato già oggetto di valutazione definitiva favorevole all’interessato.
20
Con possibilità, quindi, per il p.m., per l’interessato e per il difensore di proporre opposizione avverso l’ordinanza davanti
allo stesso giudice. Cfr. F. Menditto, Linee guida, cit., p. 20.
21
La disciplina ricalca quella prevista dall’art. 101 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507.
22
«Che sicuramente va disposta». In questi termini V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 16.
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104
Nella prima direzione, almeno a livello esegetico, i primi commentatori escludono l’obbligo di trasmissione «nei (soli) casi in cui la pena sia stata eseguita, e ciò per evitare che il condannato si trovi ad
essere sottoposto, per lo stesso fatto, ad una duplice sanzione (una penale, già scontata, e l’altra amministrativa, ancora da scontare)» 23.
Nella seconda direzione, invece, non vi è una norma analoga a quella contenuta nell’art. 101, comma
3, d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, secondo cui «restano salve la confisca nonché le pene accessorie, nei
casi in cui queste ultime sono applicabili alle violazioni depenalizzate come sanzioni amministrative».
Sicché, tenuto conto dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016, in forza del quale ai fatti commessi prima
della data di entrata in vigore del provvedimento in esame «non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie», gli interpreti richiamano il principio generale, contenuto nell’art. 41, comma 3, legge n. 689
del 1981 per il quale «restano salve le pene accessorie e la confisca, nei casi in cui le stesse sono applicabili» ai sensi delle disposizioni sulle sanzioni amministrative 24.
Di certo, l’intervenuta depenalizzazione comporta che non possa tenersi conto della precedente condanna ad ulteriori effetti, ad esempio ai fini della contestazione della recidiva; tuttavia, l’accertamento
del fatto, in ogni caso già effettuato, potrà essere valutato, per quanto rilevante, ai fini della non abitualità del comportamento di cui alla causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. 25.
SEGUE: I PROCEDIMENTI PENDENTI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO PER I QUALI NON È
STATA ESERCITATA L’AZIONE PENALE
L’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 8 del 2016 regolamenta gli effetti della depenalizzazione sui procedimenti
pendenti alla data di entrata in vigore del decreto per i quali non è stata esercitata l’azione penale.
Segnatamente, con una disposizione articolata in più previsioni, la norma appena richiamata distingue le diverse ipotesi prospettabili a seconda che sia intervenuta una qualunque causa di estinzione 26.
Laddove il reato risulta estinto 27, impone l’archiviazione 28, con possibilità di elenchi cumulativi tanto per la richiesta, quanto per il conseguente decreto di accoglimento 29.
Nel caso contrario, richiede al pubblico ministero la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa 30, nel termine, ordinatorio 31, di novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto. In tale direzione, se
23
Così V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 16. Sulla problematica v., anche, F. Menditto, Linee guida, cit., p. 20, il quale ricorda come «la Corte costituzionale, con sentenza n. 169 del 2001 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 101, comma 2, d.lgs. n.
507 del 1999 secondo cui le multe e le ammende inflitte con le sentenze o i decreti revocati dal giudice dell’esecuzione dovevano
essere “riscosse, insieme alle spese del procedimento, con l’osservanza delle norme sull’esecuzione delle pene pecuniarie”».
24
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 21. V., altresì, G. Ianni, La riforma, cit., p. 10, la quale ricorda che, «in passato, la giurisprudenza formatasi su fattispecie depenalizzate ha ritenuto, [...] rispetto a casi in cui non vi fossero specifiche disposizioni transitorie sul punto, che poiché, con il passaggio in giudicato della sentenza che dispone la confisca, si ha un trasferimento a titolo originario dei beni sequestrati nel patrimonio dello Stato, una volta divenuta irrevocabile la sentenza, la relativa situazione giuridica deve considerarsi ormai esaurita, e quindi l’abrogazione della norma incriminatrice, in base alla quale la confisca è stata ordinata, non può incidere su di essa».
25
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 21.
26
A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 43, precisa che «nel caso, tutt’altro che raro, in cui lo stesso procedimento abbia per oggetto reati depenalizzati e reati non depenalizzati, occorrerà procedere a stralcio».
27
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 23, precisa che «il tenore letterale della disposizione non consente letture estensive con riferimento ad altre cause di archiviazione (come per ipotesi previste da altre leggi in materia di depenalizzazione)».
28
Rispetto all’analoga previsione contenuta nell’art. 102 d.lgs. n. 507 del 1999, Cass., sez. III, 24 giugno 2004, n. 38756, in Cass.
pen., 2005, p. 3975 aveva precisato che se il reato è già estinto per prescrizione o per altra causa alla data di entrata in vigore della norma di depenalizzazione «non può essere trasformato in illecito amministrativo», non potendo, quindi, derivare l’effetto
positivo per l’interessato dal dato casuale dell’avere o meno l’autorità giudiziaria provveduto (ovvero ricevuto la notizia di reato) tempestivamente.
29
Similmente a quanto disposto dall’art. 415, comma 4, c.p.p. per le richieste cumulative di archiviazione delle denunce a carico di ignoti trasmesse con elenchi mensili ai sensi dell’art. 107-bis norme att. c.p.p.
30
Si ricordi però che ai sensi dell’art. 24 legge n. 689 del 1981 (sicuramente applicabile, in virtù del rinvio generale contenuto
nell’art. 6 d.lgs. n. 8 del 2016, nonché in forza del richiamo specifico operato, per le sanzioni accessorie, dall’art. 4, comma 2, d.lgs. n.
8 del 2016), la competenza è ancora del tribunale o del giudice di pace per tutti quei casi in cui «l’esistenza di un reato dipenda
dall’accertamento di una violazione non costituente reato, e per questa non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta».
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
105
il procedimento è stato già iscritto, il p.m. «annota la trasmissione nel registro delle notizie di reato»; se,
invece, il procedimento non è stato ancora iscritto, sembrerebbe prevedere la sola trasmissione degli atti
all’autorità amministrativa, senza apparente necessità di annotazione nel registro.
Nell’ipotesi appena prospettata – procedimenti non iscritti ed assenza di obbligo di annotazione –, la
previsione parrebbe derogare all’obbligo di immediata iscrizione della notizia di reato e sembrerebbe,
altresì, stridere con le ragioni di trasparenza e di conservazione degli esiti dell’attività, che pure devono
guidare gli uffici del p.m. Per questo motivo, talune linee guida propongono comunque l’iscrizione nel
relativo registro (mod. 21 o 21-bis) e la successiva annotazione di trasmissione 32.
Nella diversa eventualità – procedimenti già iscritti – permangono dubbi sulla legittimità della c.d.
autoarchiviazione e sulla necessità dell’avviso alla persona offesa.
In ordine alla definizione del procedimento da parte del p.m., i primi lettori ritengono che la mancanza di un controllo del g.i.p. 33 e la trasmissione diretta degli atti non comporta, in linea generale, un
eccesso di delega, in primo luogo perché la previsione ripropone modalità operative già adottate in
passato 34 in un’ottica di semplificazione della definizione del procedimento; in secondo luogo perché,
se la fattispecie è trasformata in illecito amministrativo e non è più un fatto costituente reato, la determinazione di “cestinazione” è consentita al pubblico ministero 35.
Con riferimento alla necessità dell’avviso alla persona offesa che, ai sensi dell’art. 408, comma 2,
c.p.p., ovvero dell’art. 17, comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ha avanzato istanza di essere avvisata
della richiesta di archiviazione, gli interpreti, nonostante l’assenza di previsioni espresse, prediligono
una lettura diretta a tutelare i diritti dell’offeso 36, anche alla luce della direttiva 2012/29/UE recante
«norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato» e dei principi di cui
al d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 attuativo della direttiva appena richiamata 37.
31
«Si tratta di un termine ordinatorio, tenuto conto che manca una sanzione per i casi in cui venga rispettato». Così V. BoveP. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 15. Negli stessi termini, G. Ianni, La riforma, cit., p. 9.
32
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 23.
33
Si tratta evidentemente di una deroga all’art. 411 c.p.p. e all’art. 17 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 che prevedono l’archiviazione del g.i.p. competente se il «fatto non è previsto dalla legge come reato». In tale direzione, secondo A. Leopizzi, Pacchetto
depenalizzazioni, cit., p. 44, «appare [...] eccentrica la scelta di bypassare il controllo del giudice», eppure, sottolinea l’Autore, la
disciplina delineata «replica in qualche modo il modello – disegnato però sotto la vigenza del codice di procedura penale del
1930 – previsto dall’art. 41 legge n. 689 del 1981 (“L’autorità giudiziaria, in relazione ai procedimenti penali per le violazioni non
costituenti più reato, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, se non deve pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di proscioglimento, dispone la trasmissione degli atti all’autorità competente”)». Nella stessa direzione V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 15, a parere dei quali, la disposizione «suscita non poche perplessità [...]: a fronte di una scelta
legislativa di questo tenore, sarebbe stato più corretto prevedere la richiesta di archiviazione al g.i.p.». Nonostante il tenore letterale della previsione, C. Gittardi, Linee guida, cit., p. 25, suggerisce il controllo del g.i.p. poiché la definizione del procedimento
con richiesta di archiviazione appare soluzione «preferibile e maggiormente coerente dal punto di vista sistematico. Tale modalità infatti consente di definire formalmente il procedimento penale con un provvedimento conclusivo emesso dal Giudice e
quindi a seguito di un controllo giurisdizionale sulla effettiva sussistenza dei presupposti per la depenalizzazione del fatto.
Trattasi inoltre di modalità definitoria che per inciso meglio tutela la posizione della eventuale persona offesa e il relativo contraddittorio anche davanti all’autorità giudiziaria, in quanto la persona offesa verrà avvisata della presentazione della richiesta
di archiviazione ove abbia formulato richiesta in tal senso. A ciò si aggiunga che l’esistenza di una decisione in sede giurisdizionale sulla depenalizzazione del fatto oggetto del procedimento contribuisce ad una migliore definizione dei rapporti e dei poteri
di intervento dell’autorità amministrativa».
34
Il riferimento è all’art. 102 d.lgs. n. 507 del 1999.
35
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 24.
36
Rimane il dubbio, tuttavia, se il g.i.p. disporrà archiviazione ai sensi dell’art. 411 c.p.p., oppure se restituirà gli atti ritenendo che, alla luce del tenore letterale del d.lgs. n. 8 del 2016, la richiesta non rientri tra le sue competenze.
37
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 24, a parere del quale «nella prospettiva indicata, pur se non vi è (più) reato e non può trovare diretto ingresso il diritto di cui all’art. 408, comma 2, c.p.p. (e 17 d.lgs. n. 274 del 2000), un’interpretazione costituzionalmente orientata consente di dare comunque avviso alla “persona offesa” per esercitare il diritto all’opposizione (ad esempio
prospettando l’esistenza di una fattispecie non depenalizzata ricorrendo l’aggravante dell’art. 527, comma 2)». Analogamente C.
Gittardi, Linee guida in tema di applicazione dei Decreti legislativi 15 gennaio 2016, n. 7 e 15 gennaio 2016, n. 8 in materia di abrogazione
di reati e di introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67 in materia di depenalizzazione a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67, in http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-//4500-depenalizzazione_in_attuazione_della_legge_delega_n__67_del_2014__le_linee_guida_della_procura_di__font_color__red__sondrio__font/,
p. 25. Contra A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 44, il quale, tenuto conto del tenore letterale delle disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 8 del 2016, propende per la soluzione negativa, nonostante riconosca le possibilità di dare luogo a «tensioni
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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SEGUE: I PROCEDIMENTI PENDENTI INNANZI AL G.I.P.
Nessuna disposizione disciplina la sorte dei fascicoli per i quali non è stata esercitata l’azione penale ed
in attesa di una decisione da parte del g.i.p. in relazione a richieste diverse dall’archiviazione per estinzione del reato.
Il dubbio, in particolare, riguarda la possibilità stessa, per il g.i.p., di adottare un qualunque provvedimento 38. Talché, quanti hanno letto per primi le diposizioni in esame ritengono che i fascicoli dovrebbero essere riportati nelle segreterie dei p.m. e, cioè, dovrebbero essere messi a disposizione dell’unica autorità onerata della trasmissione alle amministrazioni competenti. Non manca, però, chi, «con un
briciolo di praticità in più ma senza copertura normativa» suggerisce la possibilità che sia il g.i.p. a
«provvedere direttamente all’inoltro» 39.
SEGUE: I PROCEDIMENTI PENDENTI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO PER I QUALI È STATA
ESERCITATA L’AZIONE PENALE
Secondo l’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016, per i procedimenti per i quali è stata esercitata l’azione
penale alla data di entrata in vigore del decreto, il giudice deve pronunciare, ai sensi dell’art. 129 c.p.p.,
sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, e deve disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa.
La disposizione formulata dal legislatore delegato conferma solo in parte la disciplina, pur richiamata più volte nella Relazione, di cui all’art. 102, comma 3, d.lgs. n. 507 del 1999 40. In questa si rinvia alla
scansione procedimentale dell’art. 469 c.p.p. che prevede l’udienza camerale e la necessità di non opposizione delle parti; in quella introdotta dalla novella legislativa, si richiama soltanto l’art. 129 c.p.p. 41 e
si ribadisce l’inappellabilità della sentenza.
La semplificazione comporta, da un lato, l’immediata declaratoria di improcedibilità in qualunque
fase si trovi il procedimento 42, e, dall’altro lato, la sola ricorribilità per cassazione del provvedimento
dichiarativo la depenalizzazione, indipendentemente dal giudice che l’ha pronunciato.
Con riferimento all’iter procedimentale da seguire, gli operatori del diritto sembrano dividersi tra
quanti, in deroga alla disciplina di cui all’art. 129, comma 1, c.p.p. ed all’interpretazione datane dalla
giurisprudenza di legittimità 43, affermano la possibilità di una sentenza de plano 44, e quanti, invece, ridifficilmente sostenibili» dal punto di vista della logica del sistema.
38
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 26.
39
A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 44.
40
In forza del quale «se l’azione penale è stata esercitata, il giudice, ove l’imputato o il p.m. non si oppongano, pronuncia, in
camera di consiglio, sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge
come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1».
41
In sede di approvazione definitiva del testo, è stato eliminato l’inciso che subordinava la declaratoria di proscioglimento
alla mancata opposizione delle parti ed è stato inserito il riferimento all’art. 129 c.p.p. al fine di non creare equivoci sulla natura
e tipologia del provvedimento adottabile.
42
Sono note le differenze e i diversi campi di applicabilità tra sentenza ex 129 c.p.p. e sentenza predibattimentale di cui
all’art. 469 c.p.p. Tra le tante, v. Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 51513, in CED Cass., n. 258075; Cass., sez. II, 7 febbraio 2012, n.
8667, in CED Cass., n. 252481.
43
Cfr. Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 12283, in CED Cass., n. 230530, secondo la quale, in motivazione, «soltanto la disposizione dell’art. 459, comma 3, c.p.p. consente al g.i.p. di pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 con procedura de plano. Trattasi chiaramente di eccezione al sistema, giustificata dalla particolare tipologia del rito che governa il procedimento per decreto, contrassegnato dall’assenza di contraddittorio (soltanto eventuale, in caso di opposizione) per il provenire la richiesta dal p.m. senza la partecipazione di altri soggetti processuali. Tale previsione, peraltro, è stata più volte sottoposta all’attenzione della Consulta, che ha ritenuto non in contrasto con la Carta fondamentale gli artt. 459 e 460 c.p.p. anche sotto
il profilo della mancanza del contraddittorio in ordine alla sussistenza delle condizioni di proscioglimento ai sensi dell’art. 129
c.p.p. e, richiamando l’indirizzo in precedenza espresso, ha ribadito che “il dettato costituzionale, da un lato, non impone che il
contraddittorio si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e, soprattutto, che debba essere collocato nella fase iniziale del procedimento stesso, dall’altro non esclude che il diritto dell’indagato di essere informato nel più breve tempo possibile dei motivi dell’accusa a suo carico possa essere variamente modulato in relazione alla peculiare struttura dei singoli riti alternativi” (C. cost., ord. 15 gennaio 2003, n. 8, in Dir. pen. proc., 2003, p. 279)».
44
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 27.
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
107
tengono necessaria l’udienza camerale, tanto da prevedere un inevitabile allungamento dei tempi ed un
aggravio del carico di lavoro delle cancellerie, almeno nei casi in cui i processi sono stati già fissati o
rinviati ben oltre i novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo 45.
La sentenza di improcedibilità perché il fatto non è previsto dalla legge come reato deve essere pronunciata, «salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa» e sempreché, ai sensi dell’art.
129, comma 2, c.p.p. non emergano «dagli atti, con assoluta ed immediata evidenza, le ragioni assolutorie più ampie» 46.
SEGUE: I PROCEDIMENTI PENDENTI INNANZI AL GIUDICE DELL’IMPUGNAZIONE. LA DECISIONE SUGLI EFFETTI CIVILI
In forza dell’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016, quando è stata pronunciata sentenza di condanna 47, il
giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato 48, decide
sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi
civili.
La previsione, priva di una copertura nella legge delega, estende, per esigenze di celerità e di tutela
della persona offesa, la disciplina, di carattere eccezionale, contenuta nell’art. 578 c.p.p. La definizione
del processo per non essere il fatto più previsto come reato, di conseguenza, non travolge l’eventuale
condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno pronunciata in primo grado, dal momento che il
giudice dell’impugnazione dovrà decidere sul gravame in ordine alle sole statuizioni civili, salvo trasmettere gli atti all’autorità competente ad applicare la sanzione amministrativa, anche se la sentenza
non è irrevocabile 49.
I PROFILI PROCEDIMENTALI DELLA TRASFORMAZIONE DEI REATI IN ILLECITI AMMINISTRATIVI. LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI ALL’AUTORITÀ AMMINISTRATIVA COMPETENTE
Ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 8 del 2016, per gli illeciti amministrativi derivanti dalla depenalizzazione
“cieca”, procedono le autorità competenti ad irrogare le altre sanzioni amministrative già originariamente previste dalle medesime leggi speciali. In caso di mancata previsione, ricevono il rapporto ed
applicano le sanzioni gli uffici periferici dei Ministeri competenti per materia o, in assenza, il prefetto.
Per gli illeciti amministrativi derivanti dalla depenalizzazione “nominativa” di reati del codice penale è competente il prefetto.
45
V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 16.
46
Giurisprudenza costante a partire da Cass., sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, in CED Cass., n. 244274, secondo la quale,
«in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art.
129, comma 2, c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu oculi,
che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento».
47
G. Amato, La “depenalizzazione”, cit., p. 11, precisa che «quando, all’esito del giudizio di primo grado, l’imputato sia stato
assolto con formula piena e avverso tale decisione sia stato proposto gravame del p.m., il giudice d’appello potrebbe dichiarare
che il fatto non è [più] previsto dalla legge come reato [rimettendo gli atti all’autorità amministrativa], solo ove ritenga fondata
l’impugnazione, fornendo adeguata motivazione sul punto [arg. ex Cass., sez. V, 24 marzo 2015, n. 19268, in CED Cass., n.
263709]».
48
Con specifico riguardo ai giudizi pendenti in Cassazione, l’esito ordinario dovrebbe individuarsi nell’annullamento senza
rinvio, salva l’ipotesi di rinvio per la rideterminazione della pena quando la condanna abbia riguardato altri reati non oggetto
dell’intervento legislativo. Più problematica appare l’ipotesi in cui la Corte debba apprezzare la depenalizzazione a fronte di
ricorso manifestamente infondato o comunque inammissibile. In tale ipotesi, l’operatività della previsione intertemporale sembrerebbe da escludere nel solo caso di ricorso inammissibile perché tardivamente proposto. Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, invero, il ricorso tardivamente proposto non è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale
(Cass., sez. un, 26 febbraio 2015, n. 33040, in CED Cass., n. 264207), di conseguenza l’interessato dovrebbe agire in sede esecutiva
per far rilevare che il fatto non è più previsto come reato (Cass., sez. un, 26 giugno 2015, n. 47766, in CED Cass., n. 265106). Così
G. Amato, La “depenalizzazione”, cit., p. 12; P. Molino-L. Barone-A. D’Andrea-M. E. Guerra, Gli interventi, cit., p. 15.
49
G. Amato, La “depenalizzazione”, cit., p. 10; V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 16.
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Per quelli, ancora, derivanti dalla depenalizzazione nominativa dei reati previsti da leggi speciali
sono competenti:
a) la SIAE per le violazioni di cui alla legge 22 aprile 1941, n. 633; la sede provinciale dell’INPS 50 per
le violazioni di cui al d.l. 12 settembre 1983, n. 463 conv. con modificazioni dalla legge 11 novembre
1983, n. 638; il prefetto per gli illeciti di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309;
b) il Ministero dello sviluppo economico per le violazioni in materia di apparecchi e materiali radioelettrici (art. 11 legge 8 gennaio 1931, n. 234);
c) il Comune per le violazioni in materia di installazione ed esercizio di impianti di distribuzione di
carburante (art. 1 d.lgs. 11 febbraio 1998, n. 32);
d) il prefetto per tutti gli altri illeciti.
IL D.LGS. 15 GENNAIO 2016, N. 7. LA DISCIPLINA TRANSITORIA
Nella mancanza, all’interno della legge delega, di criteri puntuali in relazione alle questioni di diritto
transitorio, il legislatore delegato ha riaffermato il principio generale previsto dall’art. 2, comma 2, c.p.
per cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato;
ed ha previsto, al fine di evitare disparità di trattamento, l’applicabilità delle nuove disposizioni anche
ai fatti commessi anteriormente, «salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con
decreto divenuti irrevocabili».
LE RICADUTE PROCESSUALI DELLA TRASFORMAZIONE DEI REATI IN ILLECITI CIVILI.
FINITI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO
I PROCEDIMENTI DE-
Per i procedimenti penali definiti con sentenza e decreti divenuti irrevocabili, l’art. 12, comma 2, d.lgs.
n. 7 del 2016 conferma il principio generale di cui all’art. 2, comma 2, c.p. 51 e stabilisce che «il giudice
dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come
reato e adotta i provvedimenti conseguenti» alla perdita del carattere di illecito penale.
Tuttavia, per quanto riguarda le statuizioni civili, contenute nella sentenza o nel decreto irrevocabile, i primi lettori 52 ricordano che, secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, «la revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis – nel caso di perdita del carattere di illecito
penale del fatto – non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la
conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da
reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata» 53.
50
Come chiarito dal Ministero del lavoro nella circolare del 5 febbraio 2016, n. 6 in http://www.lavoro.gov.it/documenti-enorme/normative/Documents/2016/Circolare_5_febbraio_2016_n_6.pdf.
51
V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 29, prevedono un ampliamento del carico di lavoro per il giudice dell’esecuzione, che
sarà chiamato a revocare la sentenza o il decreto divenuti irrevocabili.
52
V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 30.
53
Così Cass., sez. V, 20 dicembre 2005, n. 4266, in CED Cass., n. 233598. Negli stessi termini, Cass., sez. V, 24 maggio 2005, n.
28701, in CED Cass., n. 231866. Il principio è fatto proprio anche dalla giurisprudenza costituzionale, cfr. C. cost., ord. 17 giugno
2002, n. 237, in www.cortecostituzionale.it, secondo la quale «nel caso di condanna passata in giudicato, l’abolitio criminis comporta
sì la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673 c.p.p., ma solo relativamente ai suoi capi penali (in questa logica si è mossa questa Corte nell’ordinanza n. 57 del 2001), non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha luogo
secondo le norme del codice di procedura civile, con la conseguenza che, se vi è stata costituzione di parte civile e condanna al
risarcimento dei danni, quest’ultima resta ferma, mentre, in ogni altro caso, permane per la persona che abbia subito un ingiusto
pregiudizio la possibilità di esercitare l’azione civile nella sede sua propria fino al termine di prescrizione, giacché la formula
assolutoria per l’ipotesi di sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice (“il fatto non è previsto dalla legge come reato”) non è fra quelle alle quali l’art. 652 c.p.p. attribuisce efficacia nel giudizio civile». Sulla scorta degli illustrati principi, con
riguardo, però, alla questione della conservazione delle statuizioni civili a seguito di introduzione di una nuova norma incriminatrice, riqualificazione del fatto e conseguente estinzione del reato per intervenuta prescrizione, Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013,
n. 31957, in CED Cass., n. 255598, ha altresì affermato che, «quando un fatto costituisce illecito civile nel momento in cui è stato
commesso, su di esso non influiscono le successive vicende riguardanti la punibilità del reato ovvero la rilevanza penale di quel
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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In prosecuzione, operatori ed interpreti ritengono pure applicabile al caso in esame il principio di diritto in forza del quale «non è nullo il provvedimento di revoca della sentenza di condanna, per sopravvenuta abolitio criminis del reato, emesso dal giudice dell’esecuzione senza l’avviso alle parti civili
dell’udienza camerale ex art. 666, comma 3, c.p.p., in quanto i soggetti costituiti parte civile nel processo
di cognizione non hanno interesse a partecipare all’incidente di esecuzione dal quale non potrebbe derivare alcun vantaggio o pregiudizio per le situazioni soggettive di cui essi sono titolari, dal momento
che il loro diritto al risarcimento permane anche a seguito dell’abrogazione del reato, trovando applicazione non l’art. 2, comma 2, c.p., ma l’art. 11 delle preleggi» 54.
E, con riferimento al procedimento applicabile, quanti hanno apprestato per primi un commento alle
norme in esame interpretano il rinvio all’art. 667, comma 4, c.p.p., senza la previsione di alcuna distinzione tra ammissibilità/inammissibilità della richiesta e rigetto nel merito, come volontà del legislatore
delegato di superare l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale «il giudice dell’esecuzione,
ove rigetti per motivi di merito l’istanza di revoca della sentenza di condanna per sopravvenuta abolitio
criminis, deve adottare necessariamente la procedura camerale prevista dall’art. 666, comma 3, c.p.p., e
non può emettere il provvedimento de plano, consentito solo nel caso si verta in tema di ammissibilità
della richiesta» 55.
SEGUE: I PROCEDIMENTI PENDENTI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL DECRETO
Nell’ipotesi in cui non sono state pronunciate sentenze o decreti irrevocabili, qualunque sia la fase 56 in
cui si trova il procedimento, il giudice 57 dichiara che il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato 58 ed adotta tutti i provvedimenti conseguenti, in tema, ad esempio, di dissequestro, confisca e sanzioni accessorie.
Con particolare riferimento agli interessi civili, però, nel caso in cui la declaratoria avvenga in primo
grado, pur in presenza di costituzione di parte civile, il giudice non deve pronunciarsi sulla domanda
di risarcimento 59.
fatto». Ripropongono i principi innanzi ricordati, con riferimento all’abrogazione effettuata a mezzo del d.lgs. n. 7 del 2016,
Cass., sez. V, 23 febbraio 2016, n. 7125, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/14410.pdf; Cass., sez. V, 23 febbraio 2016, n.
7124, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/civ.php?id_cont=14474.php.
54
Cass., sez. V, 24 maggio 2005, n. 28701, in CED Cass., n. 231866.
55
Cass., sez. I, 27 settembre 2013, n. 42900, in CED Cass., n. 257159.
56
Per i procedimenti per i quali non è stata esercita l’azione penale, F. Menditto, Linee guida, cit., p. 39, suggerisce di avanzare tempestivamente richiesta di archiviazione, dopo aver dato avviso alla persona offesa che ne abbia fatto richiesta.
57
L’ufficio del giudice chiamato a dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato potrà essere il g.i.p., il
g.d.p., il Tribunale, ma anche la Corte di appello e la Corte di cassazione, che, in questi casi, adotterebbe un provvedimento di
annullamento senza rinvio. Potrà essere il g.u.p. solo nell’ipotesi in cui il reato abrogato sia connesso a fatti per i quali occorre
fissare udienza preliminare, poiché nessuna delle fattispecie abrogate prevede, di per sé, l’udienza preliminare, così V. Bove-P.
Cirillo, L’esercizio, cit., p. 28; A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 68.
58
«La presenza di una abolitio criminis non esime il giudice dall’obbligo di applicare una formula di assoluzione o di proscioglimento più favorevole nel merito, a condizione tuttavia che esista già agli atti la prova evidente per una assoluzione in fatto». In questi termini, in giurisprudenza, v. Cass., sez. III, 21 novembre 2001, n. 45562, in CED Cass., n. 220740. In dottrina, cfr. A.
Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 68.
59
P. Molino-L. Barone-A. D’Andrea-M. E. Guerra, Gli interventi, cit., p. 29, desumono dall’assenza di una disposizione transitoria analoga a quella indicata dall’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016, l’obbligo per il giudice di limitarsi alle statuizioni penali,
«essendo onere della parte offesa (anche ove costituita come parte civile nel processo penale così definito), di promuovere eventuale azione davanti al giudice civile, competente anche per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili; la parallela regola individuata per la depenalizzazione pare, infatti, costituire un’eccezione, nominativamente prevista (al pari dell’art. 578 c.p.p.),
alla disciplina generale di cui all’art. 538 c.p.p. – secondo cui il giudice penale decide anche sulla responsabilità civile solo
quando pronuncia sentenza di condanna – e come tale, dunque, non suscettibile di applicazione analogica». Sulla stessa linea C.
Gittardi, Linee guida, cit., p. 9; nonché V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 29, i quali ritengono che «la parte civile potrà (se lo
vorrà) riassumere il procedimento innanzi al giudice civile: depone in questo senso il chiaro dettato dell’art. 538 c.p.p., a norma
del quale il giudice decide sulla domanda per le restituzioni ed il risarcimento del danno quando pronuncia (ma solo quando
pronuncia) sentenza di condanna, non anche quando prosciolga l’imputato» e precisano che «gli illeciti sottoposti a sanzioni
pecuniarie si prescrivono in cinque anni dal giorno in cui il fatto è stato commesso, ai sensi dell’art. 2947 c.c.: ne deriva che la
riassunzione del procedimento innanzi al giudice civile sarà possibile solo se non sia decorso il termine di prescrizione quinquennale e, non essendo previsto quali atti diano luogo a interruzione e dunque a sospensione, sembra doversi ritenere che la
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Nel caso in cui, invece, la declaratoria avvenga nel corso del giudizio di impugnazione, in mancanza
di una previsione simile all’art. 9 d.lgs. n. 8 del 2016 60, è discusso (tanto che la questione è stata rimessa,
in via preventiva, alle Sezioni unite) 61 se il giudice sia tenuto a disporre in ordine agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono le questioni di natura civile.
Un indirizzo interpretativo, nel richiamare l’art. 11 delle preleggi ed i c.d. diritti quesiti, ritiene che la
disciplina transitoria dettata dal d.lgs. 8 del 2016 ha «valenza generale» 62, con la conseguenza che la
pronuncia di proscioglimento per abolitio criminis non travolge l’eventuale condanna per la responsabilità civile, e che il giudice dell’impugnazione, «nel momento in cui dichiara non doversi procedere perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, [è] comunque tenuto a pronunciarsi sugli effetti
civili, non diversamente da quanto accade nell’ipotesi in cui (ad esempio) dichiari estinto il reato per
prescrizione» 63. Senza che tale obbligo possa considerarsi venuto meno per effetto della non definitività
della condanna ancora soggetta ad impugnazione 64.
L’orientamento esegetico contrario asserisce, invece, che, «venendo meno la possibilità di una pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso
l’esercizio nel processo penale dell’azione civile» 65. Né, a parere dell’indirizzo in esame, potrebbero vali-
costituzione di parte civile nell’ambito del processo penale debba essere comunque avvenuta entro il suddetto termine». Su tale
ultimo aspetto, cfr., anche, A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 66; F. Menditto, Linee guida, cit., p. 38, secondo il quale,
in forza del richiamo all’art. 2947 c.c., sono fatte salve le «cause interruttive di cui all’art. 2943 c.c., ivi compreso l’esercizio
dell’azione civile nel processo penale per l’intera durata del processo».
60
Assumono una posizione critica: P. Grillo, Allarme sulle statuizioni civili: che sorte avranno dopo la depenalizzazione? Si passa la
parola alle Sezioni unite, in Dir. e giustizia, 2016, 10, p. 45, il quale pone provocatoriamente la domanda: «Lapsus del legislatore o
consapevole omissione?»; F. Menditto, Linee guida, cit., p. 20, a parere del quale, una previsione simile all’art. 9 d.lgs. n. 8 del
2016 poteva avere maggiori effetti pratici nel caso di abrogazione dei reati e trasformazione in illeciti sottoposti (anche) a sanzioni civili.
61
Cass., sez. V, 23 febbraio 2016, n. 7125, cit., p. 7, afferma che i dati normativi risultano «non del tutto lineari e coerenti» e
denuncia profili di irragionevolezza nella «selettività della scelta legislativa».
62
Cass., sez. II, 23 marzo 2016, n. 14529, inedita, secondo la quale, mentre il comma 1 dell’art. 9 d.lgs. n. 8 del 2016 «richiama
espressamente le ipotesi di cui al precedente art. 8, la disciplina di cui al comma 3 è dettata genericamente, senza alcuna specificazione riguardante i delitti depenalizzati nel solo d.lgs. n. 8 del 2016, sicché può ritenersi applicabile a tutti i fatti oggetto di
depenalizzazione in forza dell’unica legge delega e poi disciplinati con i distinti decreti».
63
V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 29. In giurisprudenza cfr. Cass., sez. V, 15 febbraio 2016, n. 14041, inedita, la quale legge nell’art. 578 c.p.p. «la logica applicazione del principio di unicità della giurisdizione e di quelli di economia e concentrazione
processuale – cui l’ordinamento italiano deve, anche in osservanza di norme convenzionali, ispirarsi – oltre a costituire esplicazione del diritto – riconosciuto “a tutti” a livello costituzionale – di agire in giudizio per la tutela delle situazioni giuridiche rilevanti (diritti soggettivi e interessi legittimi): diritto certamente compromesso da una ipotetica, completa e incondizionata subordinazione dell’azione civile ai principi del diritto penale e al concreto sviluppo del procedimento penale, laddove l’ordinamento prevede e consente che i diritti della persona possano esercitarsi – a scelta dell’interessato – dinanzi alla giurisdizione
penale o a quella civile». Con la conseguenza che «la soluzione prevista dal legislatore per le fattispecie estintive costituite dalla
prescrizione e dall’amnistia non può essere diversa per il fenomeno estintivo rappresentato dall’abolitio criminis, non tanto in
virtù di un’applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p. [...] quanto in applicazione dei principi che regolano l’efficacia della legge
nel tempo, secondo cui, salvo espresse deroghe, essa non dispone che per l’avvenire. Ne consegue che l’azione civile non può
essere caducata, sempre e comunque, per effetto di vicende che riguardano la diversa e autonoma azione penale, una volta che è
stata esercitata secondo le norme in vigore nel momento del suo avvio».
64
Così Cass., sez. II, 23 marzo 2016, n. 14529, inedita, che spiega che nel caso «dovesse ritenersi obbligata la trasmissione al
giudice civile competente per l’irrogazione delle sanzioni civili a seguito della declaratoria di assoluzione dell’imputato perché
il fatto di danneggiamento non è più previsto dalla legge come reato, dovrebbe imporsi alla parte civile costituita la prosecuzione del giudizio in sede civile sebbene lo stesso abbia già trovato definizione, pur non irrevocabile, in sede penale ove veniva
proposta la domanda risarcitoria ed accertato un fatto dannoso all’esito dei giudizi di merito. Tale interpretazione appare prospettare una soluzione in palese violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. obbligando la parte civile alla prosecuzione del giudizio in altra sede benché il fatto sia già stato acclarato e comunque appare foriera di
possibili contrasti di giudicati che l’ordinamento vuole sempre evitare poiché a fronte dell’accertamento della sostanziale sussistenza del fatto illecito da parte del giudice penale il giudice civile chiamato ad irrogare la sanzione sarebbe chiamato ad una
completa rivalutazione del medesimo fatto al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione».
65
Cass., sez. V, 23 febbraio 2016, n. 7125, cit., p. 4. In dottrina, P. Grillo, Allarme, cit., p. 45 spiega che «il venir meno del presupposto dell’obbligazione risarcitoria o restitutoria deve comportare anche la caducazione delle statuizioni civili. Questo accade, essenzialmente, perché l’azione civile è ospite del processo penale e ne segue le sorti. Nel bene e, ovviamente, anche nel male. È il precipitato, possiamo aggiungere, della vera essenza del processo penale accusatorio, al quale l’azione civile è ontologi-
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
111
damente richiamarsi le norme dettate per l’ipotesi di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, che
attribuiscono al giudice dell’appello e a quello di legittimità il potere di decidere l’impugnazione ai soli
fini civili, semplicemente perché quelle previsioni costituiscono eccezione alla regola generale 66 e non
possono essere oggetto di interpretazione estensiva e/o analogica 67. Per di più, nel caso in cui il giudizio
penda innanzi alla Corte di cassazione, si imporrebbero al giudice di legittimità inammissibili valutazioni
di merito, sulla base di elementi fattuali che potrebbero essere rimasti estranei al contraddittorio nel processo penale e che, quindi, potrebbero dare luogo a lesioni del diritto di difesa dell’imputato 68.
I PROFILI PROCEDIMENTALI DELLA TRASFORMAZIONE DEI REATI IN ILLECITI CIVILI. L’AUTORITÀ COMPETENTE AD IRROGARE LE SANZIONI
Il d.lgs. n. 7 del 2016 non reca una norma che indica, in modo espresso, l’autorità giudiziaria cui è affidata la procedura di irrogazione delle sanzioni. Eppure, è possibile desumere la competenza del giudice civile, esplicitata in modo chiaro nella Relazione illustrativa, dall’art. 8 d.lgs. n. 7 del 2016 che, dedicato al «procedimento», statuisce, in primo luogo, che «le sanzioni pecuniarie civili sono applicate dal
giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno», in secondo luogo che «il giudice decide sull’applicazione della sanzione civile pecuniaria al termine del giudizio, qualora accolga la
domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa», e, in terzo luogo, che «al procedimento, anche
ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniarie civile, si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili con le norme del presente capo».
Mancando nella delega una scelta espressa tra l’irrogazione della sanzione ex officio oppure su apposita richiesta della persona offesa, il codificatore ha preferito la prima opzione, in considerazione della
camente estranea: è tollerata, potremmo dire, ma con la consapevolezza che dovrebbe essere esercitata in altra sede: quella della
giustizia civile, appunto».
66
La Corte costituzionale ha ripetutamente sottolineato «come l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in
essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo
civile [...], e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a
subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze,
di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi». In questi termini, C. cost., sent.
27 luglio 1994, n. 353, in Giur. cost., 1994, p. 2877; in senso analogo, C. cost., sent. 14 luglio 2009, n. 217, in Giur. cost., 2009, p.
2522; C. cost., ord. 23 dicembre 1998, n. 424, in Giur. cost., 1998, p. 3644; C. cost., ord. 16 maggio 1994, n. 185, in Cass. pen., 1994, p.
2397; C. cost., sent. 12 ottobre 1990, n. 443, in Cass. pen., 1992, p. 525.
67
F. Menditto, Linee guida, cit., p. 39, afferma che «per il giudizio d’appello, l’art. 578 c.p.p. trova applicazione solo nel caso
di estinzione del reato per prescrizione o amnistia». Cfr., anche, G. Ianni, La riforma, cit., p. 15. Peraltro, nella giurisprudenza costituzionale, è reiterato il rilievo per cui «l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei
giudizi, penale e civile», essendo «prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo» (C. cost., sent.
21 aprile 2006, n. 168, in Giur. cost., 2006, p. 1489; in linea, C. cost., sent. 27 febbraio 2015, n. 23, in Giur. cost., 2015, p. 134). Nella
cornice delineata dal codice di rito, l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in
modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta ferma la possibilità
di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del
processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, poiché la
configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (C. cost., sent. 21
aprile 2006, n. 168, cit., p. 1489; C. cost., ord. 16 aprile 1999, n. 124, in Giur. cost., 1999, p. 1036; C. cost., sent. 23 dicembre 1997, n.
433, in Giur. cost., 1997, p. 3865; C. cost., sent. 2 maggio 1991, n. 192, in Giur. cost., 1991, p. 1797). In forza di tali consolidate affermazioni di principio, C. cost., sent. 29 gennaio 2016, n. 12, in Foro it., 2016, I, c. 756, ha ribadito la legittimità della scelta di non
mantenere la competenza del giudice penale a pronunciare sulle pretese civilistiche anche quando l’affermazione della responsabilità non abbia luogo, giacché «l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale
si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578 c.p.p.) costituisce, dunque, uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei
vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte».
68
Cass., sez. V, 9 marzo 2016, n. 14044, inedita, argomenta come «la soluzione [...] della generale caducazione delle statuizioni
civilistiche, per effetto dell’abrogazione del reato oggetto del procedimento, lascia aperta la questione della violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), in quanto, per i procedimenti in corso, costringe la parte civile a promuovere un nuovo processo nel quale far valere le proprie pretese. E, tuttavia, il carattere transitorio dell’inconveniente
e la sua riconducibilità all’alea alla quale si espone il danneggiato che scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale rendono tali dubbi manifestamente infondati».
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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destinazione pubblicistica dei proventi 69. Tuttavia, ha finito per costruire una disciplina composita, dal
momento che se è vero che il giudice, all’esito del giudizio civile per il risarcimento, in caso di accoglimento della domanda 70, può disporre d’ufficio 71 la sanzione pecuniaria qualora accerti che il fatto è stato commesso dolosamente 72, è altrettanto vero che l’applicazione del nuovo istituto richiede, pur sempre, l’impulso della persona offesa 73, attraverso la proposizione dell’azione di risarcimento del danno,
al quale la sanzione pecuniaria accede in funzione accessoria ed aggiuntiva. Il giudicante non può irrogare alcuna sanzione, però, nell’ipotesi in cui l’atto introduttivo sia stato notificato nella peculiare forma stabilita dal c.p.c. per le persone irreperibili 74, salvo il caso in cui emerga con certezza che il convenuto, sebbene non costituitosi, abbia avuto conoscenza della pendenza del procedimento.
Modalità e termine di pagamento, nonché forme di riscossione dell’importo dovuto, saranno oggetto
di un successivo decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle
finanze 75. Di sicuro, però, sin da ora, è stato determinato di devolvere a favore della Cassa delle ammende i proventi delle sanzioni pecuniarie civili irrogate 76; è stato ammesso il pagamento frazionato,
con rate da due a otto 77; ed è stata espressamente esclusa la trasmissibilità della sanzione agli eredi 78.
69
Cfr. Relazione al d.lgs. n. 7 del 2016.
70
P. Molino-L. Barone-A. D’Andrea-M. E. Guerra, Gli interventi, cit., p. 25, sottolineano che, ai fini dell’irrogazione della sanzione, è sufficiente il raggiungimento dello standard di prova occorrente ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento del
danno anche senza un’ulteriore attività istruttoria; in linea, V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 28.
71
A. Leopizzi, Pacchetto depenalizzazioni, cit., p. 64, spiega la scelta del legislatore «tenuto conto delle connotazioni fortemente
pubblicistiche dell’istituto e della destinazione parimenti erariale delle somme», ma ammonisce che «l’attività officiosa del magistrato potrebbe incontrare seri ostacoli pratici alla luce del principio dispositivo che regola il processo civile, in particolare
quanto alla allegazione in giudizio dei fatti storici rilevanti ed ai poteri istruttori ad essi correlati, riservati alle parti».
72
Cfr. art. 3 d.lgs. n. 7 del 2016.
73
Questa la ragione per cui V. Bove-P. Cirillo, L’esercizio, cit., p. 7, argomentano che «non scatta dunque, ed in automatico,
un aumento del contenzioso civile, o un aggravio nell’istruzione della causa di risarcimento del danno, in quanto l’azione è e
resta (come prima della riforma) procedibile solo su istanza di parte e non è necessaria alcuna ulteriore domanda in tal senso, né
alcuna ulteriore attività istruttoria per potere applicare la sanzione pecuniaria civile, sulla quale il giudice decide d’ufficio in
caso di accoglimento della domanda di risarcimento del danno».
74
La previsione è in linea con le disposizioni immediatamente applicabili contenute nella legge n. 67 del 2014 sulla sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili ed ha lo scopo di assicurare analoghe garanzie nell’ambito della tutela
sanzionatoria civile. Così la Relazione al d.lgs. n. 7 del 2016. Sul tema v. P. Molino-L. Barone-A. D’Andrea-M. E. Guerra, Gli interventi, cit., p. 25.
75
Cfr. art. 9, comma 1, d.lgs. n. 7 del 2016.
76
Si legge nella Relazione illustrativa che la decisione di devolvere allo Stato la somma irrogata a titolo di sanzione «è stata
adottata sul presupposto secondo cui, tenuto conto della funzione general-preventiva e compensativa sottesa alla minaccia della
sanzione pecuniaria civile, nonché della vocazione pubblicistica di quest’ultima, appare incoerente prevedere che del provento
della sanzione debba beneficiare la persona offesa». Peraltro, a favore della soluzione adottata, P. Molino-L. Barone-A.
D’Andrea-M. E. Guerra, Gli interventi, cit., p. 26, indicano, pure, «la necessità di non accrescere il contenzioso civile che, invero,
sarebbe alimentato facendo intravedere all’offeso una seria possibilità di arricchimento».
77
Cfr. art. 9, comma 2, d.lgs. n. 7 del 2016.
78
Cfr. art. 9, comma 6, d.lgs. n. 7 del 2016. La disposizione ricalca quanto previsto dall’art. 7 legge n. 689 del 1981.
ANALISI E PROSPETTIVE | GLI EFFETTI PROCESSUALI DELLA DEPENALIZZAZIONE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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ADOLFO SCALFATI
Professore ordinario di Procedura penale – Università degli studi di Roma “Tor Vergata”
Un ciclo giudiziario “travolgente”
A ruthless juridical dynamic
Lo stadio delle indagini non è semplicemente un’inchiesta in funzione del giudizio: quando si sperimentano le armi
più appuntite, vi si anticipa un verdetto sociale sull’uomo; la sfera individuale, complice la diffusione di notizie riservate, è definitivamente travolta anche se la vicenda si chiudesse con un proscioglimento.
Preliminary investigations are not only activities carried out by the Public Prosecutor and criminal police in order to
decide if the trial is necessary or not. When taking a look at reality, infact, the scenario is far from the Code’s provisions: when the Prosecutor takes the direction of modern investigative instruments, the future judgment becomes indifferent, since social media has already given its verdict.
FOCUS SULL’INCHIESTA PRELIMINARE
Al di là delle (troppe) riforme in cantiere, sulle quali si consuma il dibattito degli esperti, l’interesse
pubblico sul processo penale si concentra nella fase delle indagini preliminari; è qui che la collettività
percepisce il potere repressivo: l’attacco alla libertà irrompe quasi d’improvviso, sgomenta senza avvertire, colpisce la persona nell’intimo, la mette a nudo senza pudore dinanzi all’opinione pubblica tramite
stampa, web, televisione, social network.
Nel contempo, in questi momenti serpeggia la percezione di sicurezza, sia perché si svela un potenziale autore del reato, sia perché l’intervento giudiziario si mostra rapido, efficace, esemplare; così,
l’arsenale del processo rivela le sue attitudini di prevenzione generale, supplisce all’inadeguatezza del
controllo amministrativo, tende a sostituirsi alla risposta sanzionatoria fronteggiando il diffuso timore
del suo manifestarsi tardivo. Insomma, se l’accertamento penale ha i propri tempi, le misure preliminari irrompono sulle libertà individuali provocando una catarsi collettiva.
Intercettazioni, spionaggi sulla vita privata, misure cautelari, amplificati dai media, trasferiscono il
loro peso su un terreno meta-processuale, assumendo un ruolo “esterno” alla fase preparatoria del giudizio, con vibranti ricadute sul versante sociale, politico, economico, umano. L’arsenale impiegabile durante le indagini preliminari sembra autorizzato ad sottovalutare ogni proporzione tra gli scopi investigativi e la misura del sacrificio dei diritti individuali. La potenzialità afflittiva, persino sul terreno simbolico, è maggiore di quanto accade al momento in cui si dispone la condanna; la presunzione di non
colpevolezza resta un principio sulla carta.
Al contrario di quanto si potrebbe ingenuamente pensare, tutto ciò non avviene per caso. Il fenomeno, che si manifesta dove il potere giudiziario tocca le corde più sensibili, cela conflitti e protagonismi
tra istituzioni dello Stato, campo nel quale i mezzi di informazione giocano una partita dirimente, potendo determinare il vantaggio delle une e delle altre; nel turbillon di una contesa ultraventennale, le libertà fondamentali, compromesse dall’apparato, non vivono di luce autonoma ma diventano un argomento retorico della diatriba.
Gli operatori giudiziari hanno ben capito quanto sia importante far circolare notizie sulle iniziative
intraprese; gli eterogenei obbiettivi conseguibili esulano dalla fisiologia processuale (anzi, la condizionano) e sono amalgamati dall’esigenza di visibilità, aspetto che, nella migliore delle ipotesi, risponde
alla strategia del consenso sociale: le ragioni del potere (motivazioni cautelari, contenuti dei colloqui riservati, risultati investigativi, ecc.) sono proditoriamente diffuse con l’assenso della magistratura e nascondono l’esigenza di guadagnare (o riguadagnare) una legittimazione popolare.
ANALISI E PROSPETTIVE | UN CICLO GIUDIZIARIO “TRAVOLGENTE”
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
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Stando così le cose, la fase del giudizio, soprattutto quello dibattimentale, passa in secondo piano,
lontana com’è dal tempo in cui scoppia il caso, da quando si compromettono le libertà, dal momento in
cui si rincorrono le informazioni. La sentenza è mediaticamente meno appetibile, contiene informazioni
molto sfruttate; conta per chi la subisce e, se si tratta di proscioglimento, fa addirittura meno notizia.
CONVERSAZIONI CAPTATE IN OCCULTO
Le voci, tramite dispositivi telefonici o informatici, i contenuti di sms o di email, la messaggistica attraverso social, comunicazioni pin to pin o skype, niente è a riparo dall’ascolto dell’inquirente; non è difficile essere autorizzati all’intrusione, nonostante le norme ne richiedano l’impiego come ultima ratio,
nemmeno se il gestore delle utenze si trovi all’estero e abbia criptato la lettura dei dati, sempre che i
flussi s’immettano in Italia “per istradamento”. Il fenomeno campeggia da molti anni, provocando un
vivace dibattito su riforme mancate, al quale non è estranea la magistratura associata: nell’ipotesi di restrizioni legislative all’uso delle captazioni, sarebbe ridimensionato il potere di conoscere “le vite degli
altri”, con l’effetto di depotenziare l’impatto dell’indagine.
La tendenza attuale, anzi, è quella di prevedere soluzioni normative capaci rendere più agevole il ricorso alle intercettazioni nei procedimenti relativi a reati contro la pubblica amministrazione; la maggior premura, piuttosto che ridurre il ricorso a pratiche intrusive disinvolte, è di scongiurare la diffusione arbitraria dei flussi intercettati 1. Le prospettive dei compilatori sono dirette a tutelare la riservatezza, in particolare nei casi di captazioni irrilevanti o illegittime; ma è un rimedio blando, che servirà a
poco contro la prepotenza della circolazione mediatica. Peraltro, vi si annida il pericolo che la cura verso la massima segretezza dei contenuti captati in occulto comprometta la partecipazione difensiva nel
dibattito sullo “stralcio”.
La magistratura, dal canto suo, preoccupata di fronteggiare un’immagine negativa dipendente dalla
usuale circolazione mediatica, anticipa il legislatore ed escogita “circolari” interne agli uffici giudiziari,
tramite cui intende controllare praeter legem la procedura di ostensione dei supporti informatici contenenti le captazioni. Ma la faccenda, molto delicata, è coperta da una riserva di legge.
NEW TECHNOLOGY INVESTIGATIONS
Irrompe pervicacemente sulle libertà individuali il nutrito apparato delle nuove tecnologie, molte delle
quali sfuggono alla disciplina legislativa.
Internet e strumenti digitali hanno radicalmente mutato il modo di essere degli individui, permettendo sviluppi dell’identità umana impensabili fino a poco fa; persino le relazioni, individuali e di
gruppo, hanno cambiato volto, generando archivi privati dalle proporzioni straordinarie. Lo ha capito
la Corte di Giustizia UE, quando ha ritenuto contraria al rispetto della vita privata la direttiva
2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che contempla la conservazione dei dati personali
da parte dei servizi di comunicazioni 2. La Corte sottolinea, secondo un principio non certo nuovo in
sede europea, che occorre “proporzionalità” tra la compressione dei diritti individuali e gli obbiettivi
che la rendono necessaria, fenomeno che implica precise scelte in ordine all’an e al quomodo dell’intrusione nella sfera dei dati riservati. È una prospettiva di rilievo generale, capace di pretendere limiti
all’intervento giudiziario sui dati accumulati dall’individuo. Tuttavia, è l’idea stessa di proporzionalità
– perlomeno in un sistema di civil law – che richiede una disciplina legislativa volta a fissare un ragionevole punto di equilibrio; invece, in Italia è la giurisprudenza che tenta di individuare limiti e forme
dell’intrusione, con una inclinazione a sottovalutare i diritti della personalità emersi con il dilagare
dell’informatica.
Ed ecco che campeggiano strumenti di varia natura, poche volte sussumibili nei modelli disciplinati:
pedinamenti elettronici (anche inframurari), videoriprese e videosorveglianze in locali privati, verifiche
manuali dei dati sensibili sul dispositivo telefonico durante una perquisizione, controlli telematici di
fonti parzialmente “aperte”, attività dell’agente provocatore informatico, captazioni tra presenti in luo1
In questi termini, la delega per la riforma della disciplina delle intercettazioni contenuta nel dd. n. 2067 – S.
2
Sentenza 8 aprile 2014, cause riunite C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland e Seitlinger.
ANALISI E PROSPETTIVE | UN CICLO GIUDIZIARIO “TRAVOLGENTE”
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ghi diversi da quelli autorizzati, tracciamenti mediante celle telefoniche, acquisizione di dati esterni
delle comunicazioni, ecc.
Di recente, è alla ribalta un devastante mezzo investigativo, il troyan horse; dal nome allusivo, è capace di inserirsi in ogni dispositivo elettronico, captandone l’intero contenuto e tutto ciò che vi transita 3:
voci, immagini, archivi, frequentazioni on line, ecc.; al di là della copertura normativa (non sempre calzante) da taluno richiamata quando invoca la disciplina contemplata dagli artt. 266 ss. c.p.p., è allarmante come si azzeri la tutela del cd. domicilio informatico, cioè, della sfera riservata indicativa delle
tendenze religiose, sessuali, politiche o di ogni altra inclinazione personale, fino al punto di ottenere
una mole di dati utile a tracciare un profilo psicologico dell’individuo. L’assenza di una regolamentazione normativa sacrifica l’esigenza di legalità – unica fonte di componimento tra interessi di rango
primario –, compromette il principio di proporzione e sterilizza ogni riparo dall’intrusione altrui.
In proposito, non è convincente il principio espresso dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, secondo
cui il troyan horse sarebbe consentito solo in vista dei procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata 4. La decisione ha contenuti parziali e riguarda la captazione tra presenti nel domicilio; ma ignora le altre potenzialità dello strumento, abile a rovistare tra dati personali d’ogni genere, accumulati o
in transito nel dispositivo, così, fungendo da grimaldello dei profili più intimi.
ARNESI CAUTELARI
Soprattutto nei procedimenti per delitti a sfondo economico, il sottoposto all’inchiesta o (se necessario)
un terzo presenta un’elevata probabilità di subire un sequestro di beni, anche immateriali (quote sociali,
diritti reali minori, blog o testate on line); astrattamente, il potere si giustifica per evitare il protrarsi di
effetti criminosi.
Oggi è una misura largo impiego, che può generare influenze persino nella soluzione di rapporti di
natura civilistica; a causa della facilità applicativa, interviene in molti casi, inclusi i procedimenti per
talune contravvenzioni (in materia edilizia, ambientale, beni culturali, ecc.).
La portata applicativa del sequestro è estesa alle ipotesi in cui la disciplina consente l’adozione della
confisca; ed è proprio in tale settore che la normativa sull’aggressione al patrimonio è diventata molto
fiorente, in particolare nelle forme di confisca per equivalente o per sproporzione, figure assai efficaci,
ad elevata portata dissuasiva. La tendenziale quanto patologica sovrapposizione tra sequestro e confisca permette di arretrare l’intervento parapunitivo alla fase preliminare, conseguendo “l’esproprio” anticipato di beni che costituiscono oggetto dell’eventuale misura finale; il corollario è ineludibile: gli obbiettivi securitari o di prevenzione – perseguibili tramite la confisca – contaminano l’intervento cautelare che rischia di costituirne un’impropria anticipazione 5. Fumus e periculum, presupposti tipici del potere di cautela, si dissolvono nella pratica giudiziaria del sequestro preventivo che, in tal modo, confluisce nella categoria eterodossa dei “ mezzi processuali di contrasto”.
Passando alla privazione della libertà ante judicium, sappiamo come il metodo custodiale intervenga
in misura equivalente o maggiore di quanto si realizzi nei casi di esecuzione della pena: spicca la tendenza a una risposta giudiziaria fulminante e anticipata, (patologicamente) indotta dall’ineffettività
(dei tempi) del processo e, tuttavia, in controtendenza ad una etica penitenziaria che si muove nell’ottica della decarcerizzazione.
L’uso giudiziario del potere cautelare si fa “condizionare” poco dalla legge e di fatto dipende dalle
opzioni culturali relative all’immanenza dell’art. 27 comma 2 Cost.; l’eccesso d’intervento normativo
nel settore (6 riforme solo negli ultimi 4 anni), sinora poco efficace, è il sintomo di una divergenza tra
l’ampio ricorso alle misure e le prospettive del legislatore.
Sulla scia, si colloca la legge 16 aprile 2015 n. 47 6, laddove tenta di attenuare l’eccesso custodiale; ma
3
In tema, M. Trogu, Sorveglianza e “perquisizioni on line su materiale informatico, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche,
Giappichelli, Torino, 2014, p. 431 ss., anche per il corredo bibliografico di pertinenza.
4
Sentenza 28 aprile 2016.
5
Volendo, A. Scalfati, L’ombra inquisitoria del sequestro preventivo in funzione di confisca, in questa Rivista, 2016, 3, p. 1 ss.
6
Una prima lettura del testo normativo è stata offerta da T. Bene (a cura di), Il rinnovamento della misure cautelari,
Giappichelli, Torino, 2015.
ANALISI E PROSPETTIVE | UN CICLO GIUDIZIARIO “TRAVOLGENTE”
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si tratta (more solito) di scaglie normative disperse nella fitta trama positiva, farraginosa e ridondante. I
punti più significativi della riforma stanno nell’introduzione della “attualità” delle esigenze (art. 274
c.p.p.) e nel rafforzamento della motivazione cautelare (artt. 292 comma 2 lett. c) e 306 comma 9 c.p.p.),
irrobustita anche in tema di arresti domiciliari con “braccialetto elettronico” (art. 275 comma 3-bis
c.p.p.) o di ripristino della misura dopo la sua decadenza per mancata decisione nei termini da parte
del tribunale del riesame (art. 309 comma 10 c.p.p.).
Ma dinanzi ad una volontà legislativa volta a circoscrivere il potere giudiziario, si manifestano retaggi autoritari, pronti ad appiattire la novità delle riforme. Ed ecco il tentativo di ritenere il requisito
della “attualità” – soprattutto in funzione del pericolo recidivante – come una ricognizione normativa
della prassi, argomentando che già nella precedente versione normativa la giurisprudenza avesse messo in luce la necessità di individuare la nozione di “pericolo probabile” non desumendolo esclusivamente dalla gravità del reato o dai precedenti penali dell’incolpato 7; ancora, emerge la tendenza a neutralizzare il (nuovo) requisito della “autonomia”, introdotto a proposito della motivazione cautelare,
additandolo come un fenomeno già assodato dalla prassi 8; infine, a fronte della preferenza legislativa –
in luogo della custodia in carcere – degli arresti domiciliari assistiti dal “braccialetto elettronico” 9,
nemmeno le Sezioni Unite esprimono univocamente la linea da seguire, nonostante un vibrante contrasto, trincerandosi dietro formule tutt’altro che risolutive 10.
QUALI RIMEDI
La meta ideale è (recuperare) la centralità del giudizio, riducendo i tempi dell’inchiesta preliminare e
(qui) comprimendo le incursioni de libertate al minimo sacrificio necessario; occorre riguadagnare il
momento in cui le parti dialogano dinanzi al giudice tramite percorsi ben regolati, dove la pubblicità
degli atti migliora la qualità della conoscenza mediata.
Allo stato, tuttavia, sottrarre alla fase delle indagini il peso che ha si rivela una prospettiva concretamente poco attuabile, per un complesso di ragioni alle quali non è estraneo l’acceso confronto tra i poteri dello Stato.
Una via più accettabile, per evitare che la conduzione dell’inchiesta preliminare (e il circuito delle
notizie) travolga definitivamente l’individuo, è la terapia delle piccole dosi, tanto sulle dinamiche giudiziarie, quanto sui mezzi di informazione.
L’attacco alle libertà potrebbe essere fronteggiato irrobustendo, com’è già stato attentamente detto,
l’autonomia del giudice per le indagini preliminari. Sul piano ordinamentale, rispetto al magistrato del
pubblico ministero, si potrebbero meglio rimarcare i criteri di permanenza nelle funzioni assegnate, la
specificità professionale nella formazione, la scelta dei parametri d’idoneità allo svolgimento del ruolo.
Quanto alla disciplina processuale, il rafforzamento del giudice preliminare richiederebbe di introdurre una modesta attività istruttoria a suo vantaggio, con limiti precisi: da esercitarsi solo al momento
in cui egli provvede su richieste che influenzano le libertà e diretta unicamente a chiarire i contenuti di
atti investigativi oscuri o scarsamente perspicui. Infine, bisognerebbe estendere l’intervento del giudice
ad autorizzare attività investigative non specificamente disciplinate dalla legge ma comunque in grado
di compromettere il domicilio, la privatezza dei dati personali (soprattutto sensibili), la segretezza di
comunicazioni.
Si dovrebbe inoltre intervenire anche sulla “custodia” giudiziaria degli atti d’indagine: a monte, occorre intensificare il controllo sull’apparato di supporto (cancellerie, polizia, segreterie), con riferimento
specifico al pericolo di consegna indebita di atti o alla rivelazione abusiva di circostanze, realizzando
7
Ex plurimis, Cass, sez., VI, 12 ottobre 2015, n. 43113; Cass., sez. IV, 18 giugno 2015, n. 28153; Cass., sez. V, 24 settembre 2015,
n. 43083; Cass., sez. VI, 1 ottobre 2015, n. 44605; Cass., sez. I, 21 ottobre 2015, Calandrino. Contra, tuttavia, sostenendo che la
novità normativa (art. 274 comma 1 lett. c) c.p.p.) richieda la presenza di un’elevata probabilità o quasi certezza di occasioni
delittuose, tra le altre, Cass. sez. III, 27 ottobre 2015, n. 43113; Cass., sez. II, 18 aprile 2016 n. 15924; Cass., Sez. II, n. 50343 del 3
dicembre 2015, Capparelli; Cass., sez. II, 3 marzo 2016 n. 9908.
8
Non isolatamente, Cass., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 44605.
9
Art. 275 comma 3-bis c.p.p. inserito dall’art. 4, comma 3, legge n. 47 del 2015; art. 275-bis comma 1 c.p.p., interpolato da art.
1 comma 1 lett. a), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10.
10
Cass., sez. un., 19 magio 2016, n. 20769.
ANALISI E PROSPETTIVE | UN CICLO GIUDIZIARIO “TRAVOLGENTE”
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
117
modelli organizzativi diretti a prevenire il fenomeno e articolando procedure disciplinari più solerti ed
effettive.
Passando ai mass-media, bisogna superare l’idea che l’informazione, comunque ottenuta, sia incondizionatamente protetta dal diritto della collettività a conoscere le notizie giudiziarie; l’essere informati
non è prerogativa senza limiti, ma si confronta con altre garanzie individuali, quali il diritto a non apparire colpevole prima del giudizio o la libertà alla vita privata. Emerge, pertanto, la necessità di applicare con effettività la disciplina legislativa esistente quanto ai previsti limiti di pubblicazione delle notizie, attuando gli strumenti di segnalazione agli organi competenti (da parte della magistratura) affinché
promuovano le dovute azioni disciplinari; en pendant, è auspicabile una disciplina più stringente, anche
sotto forma di codici di autoregolamentazione, che permetta di condurre più seriamente le procedure
di disciplina.
La circolazione delle notizie, tuttavia, non avviene solo attraverso testate giornalistiche; chiunque
può servirsi di siti internet o social networks per diffondere informazioni. Tali veicoli, per le loro attitudini intrinseche, sono estremamente efficaci e, pertanto, molto pericolosi quando si usano per divulgare
dati riservati. Occorre un intervento legislativo che operi in un campo dove chi lancia la notizia riesce
facilmente ad occultarsi: è necessario disciplinare il ruolo dei gestori del servizio, ai diversi livelli di
competenza, senza indulgere all’idea bislacca che internet è una macchina intoccabile perché incarna la
democrazia della conoscenza.
ANALISI E PROSPETTIVE | UN CICLO GIUDIZIARIO “TRAVOLGENTE”
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
118
Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Teresa Alesci
Sezioni Unite
35
Antonio Balsamo
Corti europee / European Courts
26
Lorenzo Belvini
Novità legislative interne / National legislative news
10
Luciano Calò
Gli effetti processuali della depenalizzazione / The effects of decriminalization
101
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
42
Gaspare Dalia
La legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione: auspicabile un intervento delle Sezioni Unite? / The right of appeal by the civil
party of a sentence which has declared the extinction of the crime: is necessary an intervention by the
United Sections of the S.C.?
49
Francesca Delvecchio
Corte costituzionale
30
Saverio di Lernia
Sequestro preventivo, litispendenza e quadro cautelare immutato: il pubblico ministero non
può duplicare la domanda / Preventive seizure, litispendenza and precautionary framework unchanged: the public prosecutor can not duplicate the question
74
Paolo Ferrua
Lacune ed anomalie nelle regole dell’esame incrociato / Gaps and anomalies in direct-examination and cross-examination of witnesses
1
Roberto Guida
L’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo penale alla luce della legge 28
dicembre 2015, n. 208 / The equitable remedial action due to the unreasonable long-lasting duration
of penal trial, in light of the law of 28th December 2015, n. 208
93
Carla Pansini
Novità legislative interne / National legislative news
12
Maria Vittoria Papanti-Pelletier
Patteggiamento tradizionale e benefici estintivi: quali effetti penali vengono meno e come /
Upon request sentence: which are the sanctionative effects that might be removed?
83
Adolfo Scalfati
Un ciclo giudiziario “travolgente” / A ruthless juridical dynamic
INDICI
113
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
119
Nicola Triggiani
De jure condendo
22
Elisa Zerbini
Intercettazioni de eadem persona eseguite in luoghi e su utenze non autorizzati / Wiretapping
and limits to its use through the judgment of the Supreme Court
58
Pietro Zoerle
Novità sovranazionali / Supranational news
16
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., ord. 13 aprile 2016, n. 87
C. cost., sent. 12 maggio 2016, n. 102
C. cost., ord. 20 maggio 2016, n. 112
C. cost., ord. 20 maggio 2016, n. 114
30
31
32
33
Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 6 aprile 2016, n. 13682
sentenza 13 aprile 2016, n. 15453
sentenza 6 maggio 2016, n. 18953
sentenza 6 maggio 2016, n. 18954
sentenza 19 maggio 2016, n. 20769
36
35
37
38
40
Corte di Cassazione – Sezioni semplici
Sezione IV, sentenza 19 gennaio 2016, n. 3789
Sezione III, sentenza 29 gennaio 2016, n. 53877
Sezione IV, sentenza 3 febbraio 2016, n. 4484
Sezione VI, sentenza 18 febbraio 2016, n. 6673
46
70
56
81
Decisioni in contrasto
Sezione II, sentenza 24 maggio 2016, n. 21598
Sezione I, sentenza 11 aprile 2016, n. 14831
42
43
Corte europea dei diritti dell’uomo
Corte e.d.u., 15 marzo 2016, M.G.C. c. m Romania
Corte e.d.u., 22 marzo 2016, Elena Cojocaru c. Romania
Corte e.d.u., 12 aprile 2016, R.B. c. Ungheria
27
27
27
Corte di giustizia dell’Unione europea
C. giust. UE, 7 giugno 2016, Sélina Affum c. Préfet du Pas-de-Calais e Procureur général de la
cour d’appel de Douai
26
Atti sovranazionali
Legge 4 aprile 2016, n. 55 di ratifica dei Trattati di assistenza giudiziaria e di estradizione
sottoscritti a Panama il 25 novembre 2013, dal Governo italiano e da quello della Repubblica di Panama
16
Norme interne
Legge 28 aprile 2016, n. 57 «Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace»
INDICI
10
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
120
Decreto del Presidente della Repubblica 7 aprile 2016, n. 87 «Regolamento recante disposizioni
di attuazione della legge 30 giugno 2009, n. 85, concernente l’istituzione della banca dati nazionale
del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA, ai sensi dell’art. 16 della
legge n. 85 del 2009»
12
De jure condendo
Disegno di legge S. 2153 «Modifiche all’articolo 530 del codice di procedura penale, in materia di rimborso delle spese di giudizio»
Disegno di legge S. 2176 «Nuove norme per la protezione dei testimoni di giustizia»
22
23
MATERIE / TOPICS
Applicazione della pena su richiesta delle parti
 La richiesta di patteggiamento o il consenso prestato alla proposta del p.m. non possono
valere come rinuncia alla prescrizione (Cass., sez. un., 6 maggio 2016, n. 18953)
 Patteggiamento: l’estinzione del reato e degli effetti penali opera senza bisogno di una pronuncia giudiziale (Cass., sez. VI, 18 febbraio 2016, n. 6673), con nota di Maria Vittoria Papanti-Pelletier
Cooperazione giudiziaria
 Due nuovi Trattati di assistenza giudiziaria in materia penale e di estradizione tra Italia e
Panama (Legge 4 aprile 2016, n. 55)
37
81
16
Depenalizzazione
 Gli effetti processuali della depenalizzazione / The effects of decriminalization, di
Luciano Calò
101
Dibattimento
 Lacune ed anomalie nelle regole dell’esame incrociato / Gaps and anomalies in
direct-examination and cross-examination of witnesses, di Paolo Ferrua
1
Difesa e difensori
 La polizia giudiziaria non ha l’obbligo di avvisare l’indagato presente della facoltà di farsi
assistere da un difensore nel compimento del sequestro preventivo d’urgenza (Cass., sez.
un., 13 aprile 2016, n. 15453)
35
Diritti fondamentali (tutela dei)
 L’estensione degli obblighi procedurali di tutela di diritti fondamentali nelle ultime pronunce della Corte di Strasburgo (Corte e.d.u., 15 marzo 2016, M.G.C. c. m Romania; Corte
e.d.u., 22 marzo 2016, Elena Cojocaru c. Romania; Corte e.d.u., 12 aprile 2016, R.B. c. Ungheria)
27
Giudizio abbreviato
 Il responsabile civile ancora escluso dal giudizio abbreviato (C. cost., ord. 20 maggio 2016, n. 114)
33
Immigrazione
 La Corte di giustizia esclude la detenzione per l’ingresso irregolare di migranti in transito
prima della conclusione della procedura di rimpatrio (C. giust. UE, 7 giugno 2016, Sélina Affum c. Préfet du Pas-de-Calais e Procureur général de la cour d’appel de Douai)
26
Impugnazioni
 Declaratoria di prescrizione e impugnazione della parte civile al vaglio della Suprema Corte (Cass., sez. IV, 19 gennaio 2016, n. 3789), con nota di Gaspare Dalia
46
INDICI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
Indagini preliminari
 Un ciclo giudiziario “travolgente”/A ruthless juridical dynamic, di Adolfo Scalfati
121
113
Mezzi di ricerca della prova
– intercettazioni di comunicazioni
 Intercettazioni: la Corte amplia l’autonomia del pubblico ministero (Cass., sez. IV, 3 febbraio
2016, n. 4484), con nota di Elisa Zerbini
Misure cautelari personali
 Vittima occasionale nei delitti commessi “con violenza alla persona” e disciplina cautelare
(Cass., sez. I, 11 aprile 2016, n. 14831)
 Il regime di utilizzabilità degli atti nel procedimento cautelare (C. cost., ord. 13 aprile 2016, n.
87)
 Indisponibilità del braccialetto elettronico e nuovo giudizio di bilanciamento delle esigenze
cautelari (Cass., sez. un., 19 maggio 2016, n. 20769)
56
43
30
40
Misure cautelari reali
– impugnazioni
 Il riesame delle misure cautelari reali: la duplice natura del rinvio contenuto nell’art. 324,
comma 7, c.p.p. (Cass., sez. un., 6 maggio 2016, n. 18954)
 Misure cautelari reali e ne bis in idem (Cass., sez. III, 29 gennaio 2016, n. 53877), con nota di
Saverio di Lernia
70
– sequestro preventivo
 La polizia giudiziaria non ha l’obbligo di avvisare l’indagato presente della facoltà di farsi
assistere da un difensore nel compimento del sequestro preventivo d’urgenza (Cass., sez.
un., 13 aprile 2016, n. 15453)
35
38
Ne bis in idem
 Ne bis in idem e market abuse: dalla Consulta un monito per il legislatore (C. cost., sent. 12
maggio 2016, n. 102)
 La Consulta torna sul divieto del bis in idem: la compatibilità con il doppio binario sanzionatorio nei reati tributari (C. cost., ord. 20 maggio 2016, n. 112)
32
Ordinamento giudiziario
 Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni
sui giudici di pace (Legge 28 aprile 2016, n. 57)
10
31
Parti processuali
– parte civile
 La pronuncia sull’azione civile in caso di abolitio criminis (Cass., sez. II, 24 maggio 2016, n.
21598)
42
– responsabilità civile
 Il responsabile civile ancora escluso dal giudizio abbreviato (C. cost., ord. 20 maggio 2016, n.
114)
33
Particolare tenuità del fatto
 La particolare tenuità del fatto è applicabile ai reati di rifiuto ex artt. 186, comma 6 e 187,
comma 8, C.d.S. (Cass., sez. un., 6 aprile 2016, n. 13682)
36
INDICI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2016
122
Prescrizione
 Declaratoria di prescrizione e impugnazione della parte civile al vaglio della Suprema Corte (Cass., sez. IV, 19 gennaio 2016, n. 3789)
46
Processo
– durata
 L’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo penale alla luce della legge 28
dicembre 2015, n. 208 / The equitable remedial action due to the unreasonable long-lasting duration of penal trial, in light of the law of 28th December 2015, n. 208, di Roberto Guida
93
Prova scientifica
 Regolamento recante disposizioni di attuazione della legge 30 giugno 2009, n. 85, concernente l’istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 85 del 2009 (D.p.r. 7 aprile 2016,
n. 87)
12
Spese processuali
 Rimborso (o detrazione fiscale) delle spese sostenute per la difesa dall’imputato prosciolto
(D.d.l. S. 2153 «Modifiche all’articolo 530 del codice di procedura penale, in materia di rimborso delle spese di giudizio»)
22
Testimone di giustizia
 Protezione dei testimoni di giustizia (D.d.l. S. 2176 «Nuove norme per la protezione dei testimoni di giustizia»)
INDICI
23
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