Da:Martin Luther King, Il fronte della coscienza, SEI, Torino 1968, pp. 85-91 Non c'è nulla di strano in una legge che obblighi a fermarsi quando il semaforo è sul rosso. Ma quando è scoppiato un incendio, l'autopompa dei vigili del fuoco passa anche con il rosso e il traffico normale deve ritirarsi ai margini della strada. Così pure, se un uomo sta sanguinando a morte, l'ambulanza passa. Per i Negri e per i poveri della nostra società ora c'è un incendio. Essi vivono in condizioni tragiche a causa delle spaventose ingiustizie economiche che li inchiodano al rango di «cittadini di seconda classe». Questo è il nome che i sociologi hanno dovuto trovare per loro. In tutto il mondo c'è della gente che sanguina a morte per ferite profonde di ordine sociale ed economico. Costoro hanno bisogno di 85 decine e migliaia di persone che sappiano ignorare la luce rossa del presente sistema finché sia terminato il periodo di emergenza. La disobbedienza civile di massa è una strategia di mutamento sociale che ha lo stesso valore di una ambulanza che passa al suono della sirena. Nell'ultimo decennio la disobbedienza civile non violenta ha creato la storia, specialmente negli Stati Uniti del Sud. Quando noi iniziammo il reclutamento dei cristiani del Sud, ed andammo a Birmingham nell'Alabama nel 1963, prendemmo la decisione di agire sulla questione della integrazione dei servizi pubblici. Ci andammo sapendo molto bene che la Commissione per i diritti civili aveva pubblicato documenti importantissimi che suggerivano dei mutamenti, e richiedeva proprio quei diritti che noi chiedevamo. Ma il rapporto della Commissione era rimasto soltanto un rapporto. Non se ne fece nulla finché noi non incominciammo a lavorare sugli stessi problemi, e dimostrammo in tribunale e di fronte all'opinione mondiale la necessità urgente di mutamenti profondi. La stessa cosa avvenne 86 per il diritto di voto. La Commissione per i diritti civili, tre anni prima che noi andassimo a Selma, aveva raccomandato i mutamenti che causarono la nostra marcia, ma non se n'era fatto nulla, finché nel 1965 noi creammo una crisi che la nazione non poteva ignorare. Senza violenza, noi buttammo all' aria tutto il sistema di vita di Birmingham, e poi quello di Selma, con le loro leggi ingiuste e contrarie alla Costituzione. La lotta in Birmingham raggiunse il massimo quando circa 3500 dimostranti riempirono praticamente ogni prigione nella città e nelle cittadine vicine, mentre 4000 altri continuavano a marciare e a fare dimostrazioni non violente. La città allora seppe in termini troppo chiari per essere ignorati che Birmingham non poteva più continuare a vivere come città finché non si fosse venuto incontro alle richieste della comunità negra. Lo stesso tipo di crisi noi creammo a Selma due anni dopo. Il risultato in sede nazionale fu la legge per i diritti civili e poi la legge per i diritti di voto, quando sia il Presidente che il Congresso dovettero reagire di fronte al dramma e alla tensione positiva gene- 87 rata dalle nostre dimostrazioni accuratamente preparate. Naturalmente è ormai ovvio che le nuove leggi non sono sufficienti. Lo stato di emergenza che stiamo affrontando è essenzialmente economico e rappresenta una situazione disperata e in continuo peggioramento. I trentacinque milioni di poveri in America, anche senza contare, per adesso, i poveri delle altre nazioni, stanno per essere letteralmente strangolati. Nella società di oggi, psicologicamente parlando, è un delitto, un assassinio, privare un uomo di lavoro e di reddito. In pratica, questo equivale a dire a quell'uomo che non ha il diritto di esistere: equivale al privarlo della vita, della libertà, della possibilità di mirare alla felicità; equivale a privarlo della speranza. Ora, ci sono milioni di persone che sono trattate in questo modo, e il problema è internazionale e sta peggiorando, poiché si va allargando la frattura fra i popoli poveri e la « società del benessere». Il problema che ora divide coloro che vogliono mutare radicalmente questa situazione è sempre lo stesso: un programma 88 di non-violenza, sia pure attuato con la tattica della disobbedienza civile di massa, può realisticamente aspettarsi di risolvere un male così enorme, che ha tante difese dalla sua? Prima di tutto, psicologicamente, potrà ancora la non-violenza funzionare dopo gli eccessi dell'estate del 1967? C'è molta gente che crede che la non-violenza come strategia per un mutamento sociale si è bruciata, stremata, tra le fiamme delle rivolte cittadine degli ultimi due anni. Costoro ci dicono che i Negri hanno finalmente ritrovato la loro vera virilità nella violenza; ci dicono che le rivolte sanguinose provano non solo che i Negri odiano i Bianchi, ma che sentono la necessità impellente di distruggerli. Questa interpretazione sanguinaria ignora una delle caratteristiche più notevoli delle rivolte cittadine. Sono state, dobbiamo ammetterlo, rivolte violente. Ma questa violenza fu sempre destinata più contro la proprietà che non contro le persone. Ci sono stati pochi casi di danno personale, e questi pochi casi furono opera di pochi individui. I casi di morte a cui fu data 89 tanta pubblicità, e i molti feriti, furono in gran parte causati dai militari. Un'azione della polizia con ordini precisi di ferire e anche di uccidere esacerbò la rivolta, e per quanto riguarda i franchi tiratori, ogni relazione sulle rivolte prova che si trattò al massimo di un paio di dozzine di persone. Da questi fatti emerge una precisa conclusione: un piccolo gruppo di Negri usò armi da fuoco per intimidire più che per uccidere, e tutti gli altri rivoltosi ebbero come mira la distruzione di oggetti materiali. Mi rendo perfettamente conto che molti non accettano la distinzione che io faccio tra proprietà e persone: molti ritengono che ambedue siano sacre. Io la penso diversamente. La vita è sacra. La proprietà è destinata a servire la vita, e per quanto noi la circondiamo di diritti e di rispetto, non ha una essenza personale: è parte della terra su cui 1'uomo cammina: non è l'uomo. I1 fatto che le rivolte abbiano soprattutto distrutto la proprietà non è accidentale, ma ci dice qualcosa, ha un messaggio preciso. Se c'è un momento in cui 1'ostilità verso i Bianchi può spingere il Negro all'assassi90 nio, questo momento è durante una rivolta. Ma i Negri si lasciarono sfuggire questa tremenda occasione e la sprecarono nel bruciare, nel celebrare una specie di tempestoso carnevale di distribuzione di beni materiali. Perché i rivoltosi evitarono attacchi personali? La spiegazione non può risiedere nella paura di essere puniti, perché i rischi personali nell'attaccare la proprietà furono praticamente gli stessi che se avessero attaccato le persone. Da parte della polizia ci fu lo stesso trattamento per chi rubava come per chi uccideva. Perché allora i Negri furono così violenti contro la proprietà? Perché la proprietà rappresenta la struttura del potere bianco, che essi attaccano e tentano di distruggere. Una prova curiosa dell'aspetto simbolico delle devastazioni fu che dopo le rivolte la polizia ricevette centinaia di chiamate da parte di Negri che intendevano restituire ciò che avevano preso. Costoro avevano bisogno di provare a carpire, a rimettere a posto la bilancia del potere, che è rappresentata dalla proprietà. Dopo, il possedere quelle cose non aveva più significato. … 91 Da: Martin Luther King, La forza di amare, SEI, Torino 1968, pp. … 267-272 Sebbene la maggior parte dei miei studi sia stata di teologia sistematica e di filosofia, ho acquistato sempre più interesse per l'etica sociale. Nella mia prima giovinezza, mi ero occupato a fondo dei problemi di ingiustizia razziale. Consideravo la segregazione al tempo stesso razionalmente inesplicabile e moralmente ingiustifìcabile: non potevo accettare di dover sedere nel retro di un autobus o nella sezione segregata di un treno: la prima volta che mi ero seduto dietro una tenda in una carrozza-restorante, avevo sentito come se la tenda fosse stata abbassata sul mio io. Appresi anche che il gemello inseparabile dell'ingiustizia razziale è l'ingiustizia economica; vidi che i sistemi di segregazione sfruttavano sia il negro che i bianchi poveri. Queste prime esperienze mi resero profondamente consapevole delle varietà di ingiustizia nella nostra società. II Comunque, non iniziai una seria ricerca intellettuale di un metodo che eliminasse il male sociale finché non entrai nel seminario teologico. Fui immediatamente influenzato dal Vangelo sociale. Nel 1950, lessi Cristianesimo e Crisi sociale di Walter Rauschenbusch, un libro che lasciò un'impronta indelebile nel mio pensiero. Certo, vi erano punti sui quali dissentivo da Rauschenbusch: sentivo che egli era vittima del 'culto del progresso inevitabile' proprio del diciannovesimo secolo, che lo portava a un ingiustificato ottimismo nei riguardi della natura umana; più ancora, egli andava pericolosamente vicino all'identificazione del Regno di Dio con un particolare sistema sociale ed economico, una tentazione a cui la Chiesa non deve mai cedere. Ma, 267 a dispetto di queste manchevolezze, Rauschenbusch diede al protestantesimo americano un senso di responsabilità sociale che esso non dovrebbe mai perdere. Il Vangelo al suo meglio ha a che fare con l'uomo intero, non solo con la sua anima, ma anche col suo corpo, non solo col suo benessere spirituale, ma anche col suo benessere materiale. Una religione che professa interesse per l'anima dell'uomo e non si preoccupa ugualmente dei tuguri che lo fanno dannare, delle condizioni economiche che lo strangolano e delle condizioni sociali che lo paralizzano, è una religione spiritualmente moribonda. Dopo aver letto Rauschenbusch, mi volsi ad uno studio serio delle teorie sociali ed etiche dei grandi filosofi. Durante quel periodo, disperai quasi del potere dell'amore di risolvere i problemi sociali. La filosofia del porgere-l'altra-guancia e dell'amare-i-propri-nemici sono valide, pensavo, solo quando individui sono in conflitto con altri individui; ma quando sono in conflitto gruppi razziali e nazioni, è necessario un comportamento più realistico. Allora, venni in contatto con la vita e con l'insegnamento del Mahatma Gandhi. Leggendo le sue opere, rimasi profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza non-violenta. Tutto il concetto gandhiano di satyagraha (satya è verità che equivale ad amore e graha è forza; saiyagraha, perciò, significa verità-forza, o amore-forza) era profondamente significativo per me. Via via che scavavo a fondo nella filosofia di Gandhi, il mio scetticismo riguardo al potere dell'amore diminuiva gradualmente, ed io arrivai a vedere per la prima volta che la dottrina cristiana dell'amore, operante attraverso il metodo gandhiano della non-violenza, è 268 una delle armi più potenti a disposizione di un popolo oppresso nella sua lotta per la libertà. A quel tempo, comunque, io acquistai solo una comprensione intellettuale ed una stima di quella posizione, e non avevo alcuna ferma decisione di organizzarla in una situazione socialmente effettiva. Quando, nel 1954, mi recai a Montgomery, Alabama, come pastore, non avevo la minima idea che più tardi mi sarei trovato coinvolto in una crisi in cui la resistenza non-violenta avrebbe potuto essere applicabile. Dopo che ebbi vissuto in quella comunità per circa un anno, ebbe inizio il boicottaggio degli autobus. I negri di Montgomery, esasperati dalle umilianti esperienze che avevano costantemente subito negli autobus, espressero con una massiccia azione di non-cooperazione la loro decisione di essere liberi: giunsero ad accorgersi che, in fin dei conti, era più onorevole camminare dignitosamente per le strade che farsi trasportare in autobus in quella forma umiliante. All'inizio della protesta, essi si rivolsero a me perché servissi loro da portavoce. Accettando tale responsabilità, il mio pensiero, consciamente o inconsciamente, veniva riportato al Discorso della Montagna e al metodo gandhiano della resistenza non-violenta: questo principio divenne la luce che guidava il nostro movimento: Cristo forniva lo spirito e i motivi, Gandhi forniva il metodo. L'esperienza di Montgomery servì a chiarire il mio pensiero riguardo alla questione della non-violenza più di tutti i libri che avevo letti. Via via che i giorni si susseguivano, mi convincevo sempre più del potere della non-violenza. La non-violenza divenne più che un metodo a cui io davo il mio assenso intellettuale: divenne dedizione ad una forma di vita. Molte questioni che non 269 avevo chiarito intellettualmente riguardo alla nonviolenza venivano ora risolte entro la sfera dell'azione pratica. Il privilegio che ebbi di fare un viaggio in India lasciò una grande impronta su di me personalmente, perché era corroborante vedere di prima mano gli impressionanti resultati di una lotta non-violenta per la conquista dell'indipendenza. La messe di odio e di risentimento che ordinariamente segue una campagna violenta non si riscontrava da nessuna parte in India, e un'amicizia reciproca, basata sulla completa uguaglianza, esisteva tra indiani e inglesi entro il Commonwealth. Non vorrei dare l'impressione che la non-violenza possa compiere miracoli da oggi a domani: gli uomini non si lasciano facilmente smuovere dai loro binari mentali o liberare dai loro sentimenti irrazionali, frutto di pregiudizi. Quando i non privilegiati chiedono libertà, i privilegiati dapprima reagiscono con risentimento e resistenza: anche quando le richieste sono presentate in termini non-violenti, la risposta iniziale è sostanzialmente la stessa. Io sono sicuro che molti dei nostri fratelli bianchi a Montgomery e attraverso il Sud sono ancora pieni di risentimento contro i dirigenti negri, anche se questi hanno cercato di seguire una via di amore e di non-violenza. Ma l'azione nonviolenta ha un'influenza sui cuori e sulle anime di coloro che sono impegnati in essa: dà loro un nuovo rispetto di se stessi; suscita risorse di forza e di coraggio che essi non sapevano di possedere; infine, scuote a tal punto la coscienza dell'oppositore che la riconciliazione diviene una realtà. 270 III Più recentemente, sono giunto a riconoscere la necessità del metodo della non-violenza nelle relazioni internazionali. Pur non essendo convinto della sua efficacia nei conflitti tra nazioni, io pensavo che, pur non potendo mai essere un bene positivo, la guerra potrebbe servirei come bene negativo, prevenendo la diffusione e la crescita di una forza malvagia: la guerra, per quanto orribile, potrebbe essere preferibile all'arrendersi ad un sistema totalitario. Ora, però, io vedo che la distruttività potenziale delle armi moderne elimina totalmente la possibilità che la guerra rappresenti mai più un bene negativo. Se ammettiamo che l'umanità ha il diritto cli sopravvivere, allora dobbiamo trovare un'alternativa alla guerra ed alla distruzione. Nella nostra epoca di veicoli spaziali e di missili balistici telecomandati, la scelta è tra la non-violenza e la nonesistenza. Io non sono un pacifista dottrinario, ma ho cercato di abbracciare un pacifismo realistico, che considera la posizione pacifista come il male minore nelle circostanze attuali. Io non proclamo di essere libero dal dilemma morale che il cristiano non pacifista deve affrontare, ma sono convinto che la Chiesa non può rimanere in silenzio mentre il genere umano è di fronte alla minaccia dell'annientamento nucleare. Se è fedele alla sua missione, la Chiesa deve chiedere la fine della gara degli armamenti. Alcune mie personali sofferenze di questi ultimi anni sono pure servite a formare il mio pensiero. Esito sempre a menzionare tali esperienze, per timore di suscitare una falsa impressione: una persona che conti271 nuamente richiama l'attenzione sulle sue prove e sofferenze, corre il rischio di acquistare un complesso di martire e di dare agli altri l'impressione di cercare consapevolmente simpatia. È possibile che uno sia egocentrico nel sacrificio di sé. Perciò sono sempre riluttante a citare i miei sacrifici personali. Mi sento, però, in certo modo giustificato di menzionarli in questo saggio, a motivo dell'influenza che essi hanno avuto sul mio pensiero. A causa del mio impegno nella lotta per la libertà della mia gente, in questi ultimi anni ho conosciuto ben pochi giorni tranquilli. Sono stato rinchiuso nelle prigioni dell'Alabama e della Georgia dodici volte; due volte la mia casa è stata colpita dalle bombe. Raramente passa un giorno che la mia famiglia ed io non riceviamo minacce di morte; io sono stato vittima di un'aggressione quasi fatale: in senso molto reale, dunque, sono stato percosso dalle tempeste della persecuzione. Devo ammettere di aver pensato, a volte, che non potevo più sopportare un così pesante fardello, e di essere stato tentato di ritirarmi ad una vita più tranquilla e serena. Ma, ogni volta che mi si è presentata una tale tentazione, qualcosa veniva a rafforzare e a sorreggere la mia decisione. Ormai ho imparato che la soma del Maestro è leggera precisamente quando noi prendiamo su di noi il suo giogo. Le prove personali mi hanno anche insegnato il valore di una immeritata sofferenza. Quando le mie sofferenze aumentarono, io mi resi subito conto che vi erano due maniere in cui potevo rispondere alla mia situazione: o reagire con risentimento, o cercare di trasformare la sofferenza in una forza costruttiva. Decisi di seguire la seconda maniera. Riconoscendo la 272 necessità della sofferenza, avevo cercato di fame una virtù: foss'anche solo per salvarmi dall'amarezza, avevo cercato di vedere le mie prove personali come un' occasione per trasfigurare me stesso e per salvare il popolo implicato nella tragica situazione che ora prevale. Ho vissuto questi ultimi anni con la convinzione che la sofferenza immeritata è redentiva. … 273