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Francesco Hoch
DUETTI
PER SOPRANO E TENORE
sulle poesie di:
Roberto Bernasconi: Kultur
Aurelio Buletti: Modestia
Gilberto Isella: Conviviali
Antonio Rossi: Usualmente o con foga
Dubravko Pušek: Addio illustre Europa
Soprano: BARBARA ZANICHELLI
Tenore: MASSIMILIANO PASCUCCI
voci alla chiara fonte
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Paolo Repetto: RITRATTO DI HOCH
Agli inizi degli anni '70, quando Hoch cominciò a concepire le sue
prime opere, il vasto panorama della cultura non era ancora così
drammaticamente diviso tra un cielo alto, puro, inarrivabile, ed
una terra eccessivamente semplicistica e commerciale. Era il
tempo, "attorno all'ideterminazione", in cui i vari sperimentatori
del nuovo, e lo stesso Hoch, si erano spinti fino a quelle regioni di
azzardo aleatorio e rarefatte atmosfere timbriche, dove la forma
della musica pareva trovare una giustificazione soltanto attraverso il gioco della casualità, ed il sorriso dell'improvvisazione. Se,
negli anni '50 e '60, lo strutturalismo aveva portato a concepire
dei suoni forse eccessivamente freddi, geometrici e calcolati,
quell'indeterminazione, quella casualità, al contrario, erano programmate sul limite opposto di un'incontrollata libertà. Per queste ragioni, di fronte a quelle ricerche estreme, molti compositori
ritornarono su posizioni più moderate, riscoprendo una musica
meno sperimentale e più riflessiva.
Nel decennio 1970-'80, anche Francesco Hoch ritornò ad una
scrittura classica, temperato tra le benevoli sentinelle del tradizionale pentagramma, per verificare i molteplici rapporti compositivi con i "vari tipi di materiale musicale". Formatosi sotto il magistero compositivo di Franco Donatoni, che, tra le altre cose, lo
indirizzò verso una coscienza critica estremamente attenta e
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profonda, egli è sempre stato convinto dell'importanza di un gesto artistico mai fine a se stesso, mai gratuito; un fare musicale,
un artigianato sonoro sempre vagliato attraverso un'accurata
ricerca ed una ricca riflessione. Al di là della musica tonale, al di
là delle linee melodiche della tradizione; oltre l'armonia classica,
basata sulla sovrapposizione degli intervalli di terza, oltre il pantonalismo, oltre la costrittiva dodecafonia, le possibilità di un
compositore sono veramente immense. Vi è la musica concreta quella che nobilita anche il rumore - vi è la musica elettronica quella che artificialmente può riprodurre qualsiasi suono - vi è soprattutto la musica per strumenti tradizionali, quella maggiormente amata da Hoch, ma secondo una prospettiva particolare
ed inedita. A partire dalla cosiddetta "musica figurale", attraverso
opere importanti come Riflessioni sulla natura di alcuni vocaboli
(1972/74), Arcano (1975/76), Trasparenze per nuovi elementi
(1976), Figura esposta (1977), egli elabora un linguaggio, del tutto originale che, partendo da premesse informali si struttura in
ampie campiture di motivi e figure, "come incrocio tra pensiero
lineare tradizionale e nuovo pensiero di gruppo o di agglomerato".
Come nella pittura informale, in queste sue musiche, Hoch sembra ricercare un universo materico ricolmo di luce, pervaso da un
ordinato disordine. Come un Pollock dei suoni, egli affronta con
orgoglio la superficie bianca del tempo. Scava la luce, incide sulla
materia, disfa e rielabora la struttura delle battute. Intreccia
infinite curve melodiche. Ordisce un contrappunto fittissimo di
linee, macchie, tracce, segni, gesti, colori. Un caos diviene for6
ma, una forma si disfa nel caos. I segni delle note, precise, nette,
pulite, si sovrappongono in un ordito magmatico che esplora il
tempo, ne indaga i confini, trapassandolo come una freccia di vibrante, impetuoso lirismo. Tutto è ordine, tutto è caos. Come il
granello di sabbia impazzito nel vento, la nota di Hoch - il suo
scintillante, minuscolo suono - descrive traiettorie improbabili,
confini ipotetici, linee eleganti e bizzarre. L'oro del timbro diviene
ritmo, la curva delle fittissime melodie, come schegge di suono,
rimbalzano in grumi d'aria, il tempo deflagra in una polifonia di colori invisibili.
Ma quale relazione ci può essere tra invenzione e ripetizione? tra
qualcosa di caotico, "informale" e qualcosa di ordinato,
"figurativo"? Certo, in quelle opere la figura musicale si poneva
come magico confine tra l'idea tradizionale di "motivo" e quella
molto più recente di "aggregato" informale; sino ad esplorare, in
un'elegante "danza spericolata", corrispondenze e collegamenti
nell'infinito repertorio della musica di tutto il Novecento. In questo senso, nella musica di Hoch, c'è sempre qualcosa di apollineo,
luminoso, geometrico, che dialoga con un furore dionisiaco, una
tenebra abbagliante fatta di grovigli, intrecci, grumi sonori - ora
implosivi ora esplosivi. Un'antitesi che cerca una conciliazione, un
doppio alla ricerca dell'armonia, della sua unità. In questa prospettiva, tra il 1980 e l'83, Hoch mette a fuoco un nuovo procedimento compositivo che, con un felice ossimoro, un lirico paradosso, lui stesso chiamerà degli "ostinati variabili". Ancora ricerca
di un equilibrio, un'armonia tra elementi apparentemente inconci-
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liabili. Strutture fisse, ordinate, motiviche, che dialogano con momenti più aperti e improvvisati e liberi. Un percorso sonoro che,
partendo da aloni figurativi, figure schematizzate, alla maniera di
De Kooning - un pittore storico particolarmente amato e visto da
Hoch - si confondono e scompaiono in una marea di segni impetuosi e gesti fulminei. Così, in opere come Leonardo e/und Gantenbein (1980-82) - spettacolo multimediale per danza, proiezioni, cinque strumenti e tre voci - Lo specchio e la differenza
(1982) per violoncello e contrabbasso, e soprattutto la serie dei
quattro lavori da camera dal titolo stesso di Ostinato variabile,
per clarinetto basso (I), per clarinetto basso e pianoforte (II), per
due chitarre (III) e per violino e pianoforte (IV), alcune sezioni trasparenti prefissate, gli ostinati, vengono presentati e presto dissolti in un'ampia fantasia, una lirica trasgressione al progetto
originale stesso.
Tuttavia, lo spirito delicato di Hoch, il suo lato orfico amarevole e
utopico, sembra aver patito questa distanza dalle cose del mondo; ma, lontano da una prospettiva religiosa, distante da uno
sbocco metafisico, il suo gesto estetico, in positivo o in negativo,
continua a dialogare con gli enigmi della società e i paradossi della storia. Così il "tempo della dissoluzione, dove le strutture si
dissolvono fino all'isolamento del singolo elemento nelle vicinanze
del precipizio sul vuoto e sul nulla", caratterizza le opere successive, dal 1983 agli anni del "silenzio", '87'-89, quando quel vuoto e
quel nulla, da preziosa metafora, si trasforma in un'incontenibile
presenza. In realtà, opere come Endlich (1984) per pianoforte,
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Kurzatmend (1985) per flauto e clarinetto, Sans jeu (1985) per
clarinetto e pianoforte, e Sans (1985) per oboe e orchestra considerata dall'autore stesso una sorta di opera conclusiva, finale, dove il materiale sonoro acquista una fisicità ed una vitalità
prorompenti - proprio perché forgiate su quella disperazione, e su
di un linguaggio completamente aperto ai lirismi e alle emorragie
dell'inconscio, sono tra le musiche più alte scritte in Europa, in
quegli anni. Musiche dove, dissolvendosi il discorso legato alla
speranza di procedere secondo linguaggi costruiti, si individuano
tensioni inedite, grumi elettrici, melodie infuocate, grovigli armonici, il tutto fuso e saldato da un'altissima temperatura dell'ispirazione.
Poco più tardi, a partire dal 1989 - dopo gli anni del silenzio Hoch scelse un percorso paradossale concepito come un operare
postumo, post mortem, un osservare con le proprie composizioni
il mondo, la società, la storia, da una posizione virtualmente metastorica, metareale. Un gioco della coscienza che ha voluto estraniarsi dall'impossibile presente, per proiettarsi in uno spazio
senza tempo. Una riflessione aperta, lirica, al di là dell'effettivo
impatto sociale. Una cultura del postumo, che si imponeva "come
distanza dello sguardo dal mondo e unica possibilità di sopravvivenza, grazie a una vita in un al di là che vede il mondo attraverso
la trasparenza del vetro della propria bara." Così, a partire da Il
mattino dopo (1986) per orchestra - una sorta di autobiografia
musicale dove si ascolta "la nascita e la dissoluzione della sua
musica figurale" - passando per le Sette bagatelle d'oltretomba
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(1990) per orchestra, il Tableau Infernal (1990) per coro e orchestra, Der Tod ohne das Maedchen (1990) per quartetto d'archi concepito su di un pessimismo radicale, un Schubert completamente rovesciato - fino alle grandiose Memorie da Requiem (1991/92)
per coro, soprano e orchestra, Hoch incide il proprio ispirato pessimismo sulle lapidi scintillanti che via via i confini del tempo e dell'aria,
della memoria e della notte miracolosamente gli offrono. Come uno
Chateaubriand dei suoni, in realtà, egli si diverte della contemplazione distante, distaccata, disillusa che può effettuare sul mondo, attraverso uno spazio mentale del tutto sgombro da concrete tensioni
sociali. Un tempo creativo che, disgustato e nauseato dalla vita,
come dice Karl Kraus, paradossalmente rinasce attraverso un suicidio che ridona la vita.
Un antico saggio cinese una volta disse: "Se vuoi essere felice un'ora, beviti una bottiglia di vino. Se vuoi essere felice un anno, sposati
una bella donna. Se vuoi essere felice per tutta la vita, coltiva un bel
giardino." Deluso di come vanno le cose di questo mondo, ormai profondamente scettico sul potere della musica di fronte alle realtà
sociali, con un sorriso degno di un volto buddista, Hoch, oggi, ha rivalutato il valore del disincanto, della leggerezza, della grazia, dell'ironia - la capacità stessa di eludere una domanda - riscoprendo il
suo fiorente giardino: luogo di meditazioni, di intense memorie; spazio fittamente profumato dove gli infiniti colori che attraversano la
sua pupilla si trasformano in ghirlande di luce e di suono. A partire
dal 1994, fino al nostro impietoso presente, la sua musica è ritornata ad una visione della vita forse più appassionata, ma molto più
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ironica, modulando una ricca rete di relazioni tra interno ed esterno, individuo e mondo. Così, considerando The magic ring,
opera multimediale e monumentale per tre voci femminili, tre maschili, tre chitarre elettriche, tre percussioni e nastro magnetico, fino a queste ultime musiche vocali, il suo sguardo contempla
e commenta il grande fenomeno della realtà, attraverso i lucidi
filtri della coscienza, dell’ironia e dell’ispirazione.
Paolo Repetto è nato nel 1965. Ha pubblicato numerosi saggi, una raccolta di scritti sulla musica, Il silenzio dei suoni, un libro su Debussy, Il
sogno di Pan (il melangolo, 2000), e L'orizzonte dell'eternità-La musica
romantica (il melangolo 2003). E' critico musicale del mensile Amadeus.
Collabora con la Radio Svizzera Italiana e la rivista Dissonanz di Zurigo. E'
visiting professor all'Università Ebraica di Gerusalemme.
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Davide Monopoli
I DUETTI DI FRANCESCO HOCH: QUANDO LA POESIA TORNA A
CANTARE…
Luciano Berio, il celebre compositore scomparso nel 2003, ha
sottolineato un aspetto, tanto concreto quanto spesso
trascurato, della rappresentazione musicale: “La musica non è mai
pura… e indivisibile dai suoi gesti… è da ascoltare come teatro, da
vedere come musica”. La musica va vista, oltre che ascoltata. Ciò
è tanto più vero quando si ha a che fare con la musica
contemporanea: poiché essa cela in sé la dimensione teatrale che
al tempo stesso la svela. Basti pensare, a titolo di esempio,
all’esecuzione di un pezzo di Luigi Nono – dove i musicisti fanno di
tutto fuorché suonare in modo canonico i rispettivi strumenti – o
ad una composizione di Stockhausen “per palla da baseball e gong”.
E nell’aver saputo “mettere in voce” proprio questa singolarità sta
la grande forza dell’ultimo lavoro di Francesco Hoch.
Poesia e musica: è la storia di una lunghissima relazione, storia
che sarebbe vano tentare di ritracciare dal principio, in questa
sede. In tempi moderni, è praticamente impossibile non pensare al
celebre verso del poeta simbolista Paul Verlaine, che rinnova,
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recuperando tale tradizione, la poesia moderna: “De la musique
avant toute chose”, o a Mallarmé, che in un Coup de dés
trasforma la pagina in spartito per “costellazioni di parole”,
spianando il terreno a una nuova poesia a venire. Ma è a partire dai
primi esperimenti dada (dai poemi fonetici recitati da Hugo Ball nel
1916 al Cabaret Voltaire di Zurigo, fino a Kurt Schwitters, con la
celebre UrSonate, pubblicata sulla rivista Merz nel 1932), e
parallelamente, con la creazione della lingua zaum (la lingua
transmentale forgiata dai futuristi russi – Chlebnikov in primis)
nonché attraverso le sperimentazioni sonore del futurista italiano
Giacomo Balla (in particolare le Verbalizzazioni astratte), che si
delinea sempre più chiaramente uno spazio poetico singolare a
partire dal quale, sul finire degli anni Cinquanta, soprattutto in
area francese, prende consistenza, con il Lettrisme prima, e la
poésie concrète poi (che prolifera e si sviluppa, in forme diverse, in
Francia, Brasile, Italia, Stati Uniti, Germania, Cecoslovacchia,
Danimarca, Svezia, Giappone, ecc.), quella pratica che diventerà, a
partire dagli anni Sessanta, la poésie sonore. Ricerca poetica che,
attraverso il lavoro sul linguaggio (testo/spartito e suono/vocalità),
tende a sintetizzare poesia e musica, sullo sfondo di una
riscoperta della voce, o meglio della vocalità, spingendo il linguaggio
sempre più verso il proprio limite, sorta di fuori del linguaggio
stesso: fatto di visioni e audizioni non-linguistiche, ma che solo il
linguaggio rende possibili. Una ricerca, questa sul linguaggio inteso
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come materia sonora in grado di produrre energia, che trova per
esempio nel rumeno Ghérasim Luca (“Prender corpo”, alla chiara
fonte, 2005) uno dei percorsi più straordinari ed intensi del
ventesimo secolo.
Nemmeno la collaborazione tra poeti e musicisti è cosa nuova,
anzi: basti menzionare, per limitarsi questa volta al panorama
italiano, la stretta e duratura amicizia tra il poeta Edoardo
Sanguineti e Luciano Berio o la collaborazione di Angelo Maria
Ripellino col compositore Luigi Nono. Ma il connubio fra poesia e
musica, non è certo la novità di questo curioso progetto, il cui
pregio – enorme – è semmai quello di saper cogliere una filiazione
storicamente nota, in modo però del tutto imprevisto – e quasi
minore: a fil di voce.
Francesco Hoch prende la cosa sul nascere, per così dire – punta
sulla semplicità, va all’essenziale: la poesia, è innanzitutto voce (in
principio erat verbum? ); il testo, è spartito; le parole, soffi –
vibrazioni. Qui sorge l’enorme difficoltà di tale intento: mettere in
musica il testo poetico, ricreando però tutta quanta la ricchezza di
tale permutazione. E proprio qui, Hoch si rivela quale maestro delle
intensità: poiché è davvero difficile per l’ascoltatore il non restare
immediatamente accattivato da questo suo sapiente gioco di
equilibrazione, mentre il musicista distribuisce magistralmente
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intensità variabili nello spazio acustico – per parafrasare il pittore
Paul Klee, egli “rende udibile”, rende sonoro questo sottile campo
di forze, creato a colpi di sobrietà.
Il compositore stana la voce: in un sottile gioco di vibrazioni, di
rimandi che vanno dal testo al cantato, e viceversa, creando una
sorta di “entre-deux” – una zona neutra, vibratile, ricettiva –
intensiva, che trasporta la complessità dell’intreccio (la trama del
testo) verso una zona di indiscernibilità, dove la voce si fonde nel
canto, e dove il canto, coi suoi intermezzi, fa risuonare una sorta
di “parola prima delle parole”.
Attraverso la rete di risonanze che Hoch riesce a creare in un
tempo brevissimo, la campitura sonora satura l’aria, capta microparticelle in grado di regalare momenti di forte emozione, di grande
risonanza nel plesso – in breve, di vibrazione interiore.
D’altrocanto, niente come la voce è in grado di far vibrare l’animo
umano.
Poesia e musica contemporanea hanno qualcosa in comune nel loro
procedere, parola per parola, nota dopo nota, attraverso lo spazio
– qualcosa che le accomuna nel profondo: la lotta (il corpo a corpo
quasi) con la forma. Nell’affrontare i Problemi della lirica, Gottfried
Benn, uno dei creatori dell’espressionismo tedesco, mette in
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guardia: la forma è il contenuto più alto. Poiché nella lotta formale
– sia essa poetica o musicale – risiede l’arcano di ogni ricerca in
grado di farci fare un passo avanti. Testo poetico o spartito,
campo testuale o campo sonoro, varia lo sfondo – ma analoga è la
tensione che anima questa morfomachia comune. E forse è proprio
questo il “mezzo gaudio” che risuona così brillantemente nella
ricerca di Hoch, alle prese coi suoi poeti. Questo è, per così dire, il
campo di battaglia. Michel Foucault, a proposito di Pierre Boulez,
scrive: “si crede volentieri che una cultura si aggrappi più ai suoi
valori che alle sue forme; che queste, facilmente, possano essere
modificate, abbandonate, riprese; che solo il senso si radica
profondamente. È misconoscere fino a che punto le forme, quando
esse si disfano o nascono, hanno potuto provocare stupore o
suscitare odio; è misconoscere il fatto che si è più attaccati ai
modi di vedere, di dire, di fare e di pensare che a quel che si pensa,
si dice o si fa. La lotta delle forme in Occidente è stata altrettanto
accanita, se non maggiore, di quella delle idee e dei valori”.
Il lavoro di Hoch sul testo è singolare, anche se la declinazione è,
per l’appunto, duale: a partire dai testi poetici alquanto eterogenei
(si pensi ad esempio alla distanza fra un Aurelio Buletti, “poeta
minimo” e un Gilberto Isella, poeta, tutto sommato,
“sperimentale”), la soprano Barbara Zanichelli di Parma, e il tenore
Massimiliano Pascucci di Roma, amalgamano le loro voci in modo
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ineccepibile, e sublimano con la loro arte quel che accomuna tutti
questi poeti: il cercare, ognuno alla propria maniera, di dire.
L’intreccio – il dialogo – vocale impasta le immagini in suono, e trae
da questo magma vibratile di voci, linee di una purezza inaudita,
toccante.
È interessante vedere, sentire a che punto (a che contrappunto)
Hoch riesce, attraverso i cinque Duetti, a rendere puntualmente
l’ardua trasposizione. La serata inaugurale – tenutasi il 9 marzo
2005 al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano – è stata
un’entrata in materia degna di nota. L’ouverture, lasciata a
Roberto Bernasconi, che col testo Kultur (una sorta di “pastiche”
affidato alla mimesi ironica e divertita di un proto-slogan
pubblicitario) ha rotto il ghiaccio coinvolgendo da subito il pubblico,
raccolto nella sala gremita, ha decisamente fatto breccia. E si è
subito capito che ci si trovava di fronte a una ricerca
personalissima del compositore: vitale e di grande impatto. Dopo il
bell’esordio – quasi uno scherzo, il secondo poeta chiamato sulla
scena a “dare il la” ai suoi versi, è stato Aurelio Buletti: “Sono
poeta minimo/ ospite occasionale e sconosciuto/ della signora
musa” – che ha così dato voce a Modestia – quasi una “toccata e
fuga”, un bel “segmento” di quella “lode più grande” alla quale
Buletti ci ha introdotti con l’ultima raccolta omonima (alla chiara
fonte, 2003) – dolcemente, e sempre per accenni.
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Molto convincente è stata soprattutto, da un punto di vista più
formale, la resa dei versi di Gilberto Isella e di Antonio Rossi – per
le evidenti assonanze (e dissonanze) testuali proprie di questi
scrittori, rispettate dalla puntuale distribuzione sonora di Hoch.
Con le sue Diafonie, Rossi sembrerebbe essere il più “vicino” al
lavoro del compositore, operando pure lui nell’infinita distanza che
separa il poeta dal dire: “Usualmente o con foga/ un parametro o
abitacolo/ vischioso incorpore/ o asporta soggetti/ riluttanti e
additivi/ copiosi e dopo/ trazioni o pericoli/ estromette in tracciati/
dislocati e insidiati/ da particelle”. Ma anche Isella, dal suo canto,
non è all’oscuro di questo tipo di ricerca, intendendo la poesia
come una pratica che tenta di “nominare il caos”, di rilegare cioè
attraverso il sottile filo della scrittura l’eterogeneità e la
complessità del mondo. Così, attraverso le Conviviali, in un sorso di
quel “poderoso quarto di barbera” – che è tutt’uno col respiro
dell’interpretazione di Hoch – si “colma l’immagine/ vetro
moltiplicato/ sei ugole d’oro lo decantano/ ch’erano una sola/ pare
ora l’universo”.
Particolare risulta invece la scelta, inedita per lo stesso Hoch, del
canto “quasi gregoriano” utilizzato per adattare il testo di
Dubravko Pusek (certo, fra i cinque, il più “ortodosso”) – scelta
questa, forse in parte dovuta anche alla tematica non facile delle
deportazioni: “Sempre si ripete, tra lo sferragliare delle carrozze/ il
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destino dei non nati” (…) “Ma come nascondere il fremito
dell’albero/ che, prima della morte, improvvisamente fiorisce./ La
parola nell’ultimo sgomento abbandono/ s’avvolge in un dolore
ancora più grande/ nell’attesa di un domani uguale a ieri…”. Dalla
parola scavata, refrattaria, del poeta rumeno Paul Celan dunque, ai
suoni stridenti degli archi del Kronos Quartet, che graffiano
insieme alle testimonianze dei deportati in Different trains
dell’eclettico compositore americano Steve Reich – si profila un
orizzonte greve di significati. Una scelta insomma, questa di Hoch,
che sta quasi a suggerire, attaverso l’uso austero di un codice
lontano nello spazio e nel tempo, una funzione liturgica, catartica
del canto – e potrebbe forse insinuare, sulle tracce di Pusek, la
possibilità di una ciclicità storica, e quindi anche del ritorno
dell’identico.
“Un sogno, si prepara con cura” ha detto Pierre Boulez. Con i
Duetti per soprano e tenore, Francesco Hoch condensa il risultato
di una ricerca appassionata e coinvolgente, che non mancherà
certo di piacere agli addetti ai lavori, ma che si spera possa essere
una piacevole scoperta anche per chi ama semplicemente la
poesia… e la sua voce.
Davide Monopoli, poeta, è nato a Lugano nel 1977. Ha curato per la chiara fonte:
l’antologia della durata (2003) e tradotto un testo del poeta Ghérasim Luca (2005).
Ha inoltre pubblicato la raccolta a titolo provvisorio (2004).
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Francesco Hoch: “Duetti” per soprano e tenore (2004)
La nascita di questi “Duetti” per soprano e tenore è avvenuta grazie al desiderio del pittore Mauro Valsangiacomo di presentare una mia nuova composizione vocale su testo appositamente scritto dal poeta Dubravko Pušek
all’inaugurazione di una sua mostra.
Questo desiderio ha in seguito creato una serie occasionale di incontri con
poesie e poeti, alla ricchezza e diversità dei quali mi sono potuto avvicinare
più facilmente grazie alla mia recente esperienza compositiva sulla letteratura italiana del ‘900 sfociata in un vasto lavoro intitolato Percorso Novecento
composto negli anni 2003 e 2004.
Nei cinque brevi “Duetti”, dall’invettiva multilinguistica di Roberto Bernasconi
(“Kultur”) e dal timido porsi nel mondo attraverso l’arte di Aurelio Buletti
(“Modestia”), si passa all’esuberante caogena prelogica surreale di Gilberto
Isella (“Conviviali”), al suo opposto geometrico oggettivismo di una materia
che si detta alla soggettività di Antonio Rossi (“Usualmente o con foga”), e
si approda, alla fine, alla sconsolante ripetitività tragica della Storia nel componimento di Dubravko Pušek (“Addio illustre Europa”), dopo il quale implacabilmente il silenzio si è imposto.
Cantare in DUE una poesia, in queste composizioni, significa esplicitare
quell’intimo dialogo interno dell’artista con il proprio io che si stabilisce durante l’atto creativo prima della decisione di proiettarsi fuori nel mondo esterno: l’uno si fa ombra o luce dell’altro, predomina o si sottomette, dialoga in modo equilibrato o si fonde mimeticamente, trascinatore o trascinato,
si separa, si riunisce, propone o ascolta, vive e si nutre dell’altro oppure lo
rinforza, nutrendolo lui stesso.
dicembre 2004
F. Hoch
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Francesco Hoch
Fotografia di Max Kellenberger
Nato a Lugano nel 1943, dopo gli studi magistrali si è diplomato in composizione con F.
Donatoni e in canto artistico presso il Conservatorio G. Verdi di Milano dove ha studiato
anche direzione d’orchestra e musica elettronica. Ha seguito anche corsi di composizione
con S. Bussotti, K. Stockhausen e G. Ligeti.
Compone dal 1968 e le sue opere sono state
eseguite e trasmesse nella maggior parte dei
paesi europei, in Russia, U.S.A., Medio oriente, Giappone e America Latina.
Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi
sia per singole composizioni che per la sua
attività complessiva di compositore.
Ha pubblicato un’ottantina di opere strumentali, vocali, teatrali, per scene, danza, elettroniche, multimediali, presso Suvini Zerboni di
Milano.
Per molti anni ha svolto intense attività didattiche musicali e sperimentali nel Cantone Ticino, fondando anche l’Associazione per la diffusione della musica contemporanea Oggimusica.
La sua attività di compositore ha visto i seguenti periodi creativi:
1968-1970 “Attorno all’indeterminazione”,
1970-1975 “Ricerca polidirezionale”, 19751980 “Musica figurale”, 1980-1983
“Ostinati variabili”, 1983-1985 “Il tempo della
dissoluzione”, 1987-1988 “Silenzio”, 1986/89-1993 “Opere postume”, dal 1994
“L’impietoso presente”.
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Roberto Bernasconi: Kultur
Kultur, “culture”, “culture”,cultura. La cültüra,
IT MUST BE POLITICALLY CORRECT – cultura
e turismo, nulla che possa urtare,
valori universalmente riconosciuti,
accettati, assimilati, predigeriti. BIG BUSINESS,
la cultura
DOIT ÊTRE RENTABLE – Kultur macht GELD –
GELD
“is the only value” – ‘Na cültüra da barlafüs ?
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Roberto Bernasconi è nato Lugano
nel 1959, vive a Bedano (TI). Ha pubblicato: Sul taglio dell’orizzonte, 1982, I
passi nel cielo, 1983, Pianeta Nelly,
1986 (Mazzuconi, Lugano); Blues e
ballate, 1988 (Comune di Bedano); Tra
zero e tutti, 1989, Schermografia con
passaggio d’aquiloni, 1992 (Ibiskos,
Empoli); Alba solstiziale, 1997 (Edizioni
Ulivo, Balerna); Stella ipogea, NEM,
2000; Piccole inadempienze, (Edizioni
Ulivo Balerna), 2003.
È presidente dell’Associazione degli
Scrittori della Svizzera Italiana.
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Aurelio Buletti : Modestia
(da Segmenti di una lode più grande, 2003)
Per breve tempo, per minuto spazio
mi prosciolgo dal cereo silenzio
per scrivere, se posso, lievemente.
Sono poeta minimo,
ospite occasionale e sconosciuto
della signora musa.
24
Aurelio Buletti è nato nel 1946 a
Giubiasco , vive a Lugano. Docente di
scuola media, ha pubblicato: Riva del
sole, Lugano, Pantarei, 1973; Né al
primo né al più bello, Iniziative Culturali,Sassari 1979; Terzo esile libro di
poesie; Lugano, Mazzuconi, 1989;
Brevi, 2001 e Segmenti di una lode
più grande, 2002, Alla Chiara Fonte,Lugano-Viganello. Suoi testi sono
tradotti in tedesco e francese.
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Gilberto Isella: Conviviali.
da “Nominare il caos”
poderoso quarto di barbera
di taglio colma l’immagine
vetro moltiplicato
sei ugole d’oro lo decantano
ch’erano una sola
pare ora l’universo
filtrarsi in metodici scatti
di suoneria
versare quel tanto alloro
nel posticino
deporlo
che al buio rimanga
accanto al cuore
bugigattolo briaco
*
lameggìo d’aroma
che nel convito s’insalda,
riverbero cupido
o stola
ne tange il cielo, papilla,
purchè macere annusi salvie
il canestro dei piccoli cani
*
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culmina nell’acqua madre
un canto ebbro,
meraviglioso vomito di mare
se alliscia
i suoi capelli d’eco,
ombra nubile deviata
dal suo coltello, quel cibo
ridente
in mammella di medusa,
quel teatro spiritale della spuma
Gilberto Isella, poeta e saggista, è
nato nel 1943 e vive a Lugano. È coredattore della rivista "Bloc notes", collabora a giornali e riviste letterarie svizzeri e italiani. Le sue principali raccolte
poetiche sono: Le vigilie incustodite,
Bellinzona, Casagrande, 1989; Discordo, Locarno, Dadò, 1993: Apoteca,
Torino, Ed. L'Angolo Manzoni, 1996:
Krebs, Balerna, Edizioni Ulivo, 2000;
Nominare il caos, Locarno, Dadò, 2001;
In bocca al vento, Faloppio (CO), LietoColle, 2005. Ha tradotto testi poetici
di C.Racine e J.Daive.
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Antonio Rossi : Usualmente o con foga
da Diafonie
Usualmente o con foga
un parametro o abitacolo
vischioso incorpora
o asporta soggetti
riluttanti e cela
freghi e additivi
copiosi e dopo
trazioni o pericoli
estromette in tracciati
dislocati e insidiati
da particelle.
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Antonio Rossi, nato nel 1952 a
Maroggia, ha studiato letteratura
italiana alle Università di Friburgo
e di Firenze. Ha pubblicato le raccolte di poesie Ricognizioni
(Bellinzona, Casagrande 1979),
Glyphé (Mendrisio, Stucchi 1989,
con acqueforti di S. Gabai) e Diafonie (Milano, Scheiwiller 1995). Si
è occupato di poesia italiana del
Quattro-Cinquecento, in particolare di Serafino Aquilano; ha tradotto le Poesie di Robert Walser
(Bellinzona, Casagrande 2000).
Insegna presso il Liceo cantonale
di Mendrisio.
Fotografia di Yvonne Böhler
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Dubravko Pušek: Addio illustre Europa.
Là dove il viburno rosso s’inchina
ancora partono e non tornano più i treni
da San Sabba, da Ravensbrück e da Treblinka
non partono e ancora tornano
da Mauthausen e da Srebrenica.
Sempre si ripete, tra lo sferragliare delle carrozze,
il destino dei non nati,
tra fumi aspri di carbone
la musica sotterranea accennata nel terrore,
la parola privata della parola.
Là dove il viburno rosso s’inchina
è la stessa ombra su questo abisso,
partono e tornano i treni
con cenere e mucchi d’ossa
i vagoni sono sempre pronti…
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Ma come nascondere il fremito dell’albero
che, prima della morte, improvvisamente fiorisce.
La parola nell’ultimo sgomento abbandono
s’avvolge in un dolore ancora più grande
nell’attesa di un domani uguale a ieri…
Dubravko Pušek è nato nel 1956 a
Zagabria. Dal 1966 vive a Lugano
dove lavora per i servizi culturali della
RSI. Ha pubblicato vari libri di prosa
e di poesia, tra i quali Carni trasparenti (Manduria, 1980), Pietra di labbra (Bergamo, 1988) ed Effetto Raman (Locarno, 2001). Traduce dal
croato, francese, tedesco, ucraino e
ceco
Fotografia di Pierre-Antoine Grisoni/STRATES 2004
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Barbara Zanichelli.
Nata a Parma e diplomata in Violino nel Conservatorio della stessa città, si è in
seguito dedicata al Canto, studiando tecnica vocale con l’insegnante russo
Anatoli Goussev a Milano. Si è perfezionata nella prassi esecutiva della musica
barocca, presso la Civica Scuola di Musica di Milano con C.Miatello e R.Gini. Ha
seguito i corsi sul repertorio belcantistico tenuti da Luciana Serra e Sergio
Bertocchi.
Dal 2001 al 2003 frequenta il corso di canto presso il Conservatorio della
Svizzera Italiana a Lugano dove consegue ‘con lode’ il “Diploma di Perfezionamento” sotto la guida di Luisa Castellani.
Come soprano del quintetto vocale "Vox Àltera", ha vinto il Primo Premio al
Concorso internazionale "Luca Marenzio" per formazioni vocali madrigalistiche.
Svolge intensa attività concertistica sia come solista che in ensemble, come
interprete del repertorio antico e contemporaneo in importanti sale e rassegne italiane ed estere come “Accademia di S.Cecilia”e “Nuova Consonanza” a
Roma, a “Musica e poesia a S.Maurizio” e “Milano Musica” a Milano,
“Fondazione Cini” a Venezia, “Abbazia di Rouyemont” a Parigi, “I Vesperali 2004”, “Musica nel Mendrisiotto”, “Cantar di Pietre” e “Novecento-passato e
presente” in Ticino, “Festival Resonanzen”, “Sala del Musikverein” e
“Konzerthaus” a Vienna, Festival di Saintes, Festival di Innsbruck, Festival di
Anversa, Festival di Bruges, Festival di Uthrecht, Festival de Musiques Sacrées Fribourg, Festival di Cremona, Festival di Urbino, Festival di Ravenna,
con musicisti quali M.W.Chung, P.Memelsdorff, E.Gatti, O.Dantone,
G.Bernasconi, V.Parisi, C.Cavina, A.Cetrangolo, G.Capuano, F.M.Bressan, con
ensemble quali “Mala Punica”, “La Venexiana”, “Ensemble Aurora”, “Dèdalo
Ensemble”, “Accademia Bizantina”, “Athestis Chorus”, “I Madrigalisti Ambrosiani”, “Cappella Artemisia” , “Solisti Vox Altera” e ha partecipato a registrazioni televisive e radiofoniche italiane ed europee.
Ha registrato per varie case discografiche tra cui ERATO, ARCANA, CHANDOS, VIRGIN.
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Massimiliano Pascucci
Direttore, cantante, compositore e pianista. Nato a Roma, dopo gli studi pianistici, si diploma nel 1995 alla Scuola Sperimentale di Composizione nel Conservatorio
di S. Cecilia. Affronta poi lo studio del canto con Claudine Ansermet, Sherman
Lowe, Anatoly Goussev, Luciana Serra e Luisa Castellani, con cui studia anche nel
CSI di Lugano.
Ha partecipato nella duplice veste di cantante e direttore a numerose masterclass sulle prassi esecutive vocali, tenute in Italia e all'estero da Rinaldo Alessandrini, Roberto Gini, Pedro Memelsdorff, Herve Niquet, Peter Phillips, Andrew Lawrence-King, Jonathan Rathbone, Peter Holman, "The Parley of Instruments", "The
Hilliard Ensemble" e Tõnu Kaljuste.
Nel Gennaio 1997 a Graz (Austria) si qualifica nel turno semifinale del concorso
internazionale di liederistica "Schubert e la musica del XX° secolo" in duo con il
pianista Gregorio Nardi.
Nel Maggio 2003 è invitato a Bellinzona come tenore solista per i festeggiamenti
statali dei 200 anni del Cantone Ticino, con un'aria operistica di Carlo Soliva trasmessa in diretta televisiva dalla Televisione Svizzera Italiana (TSI).
A Brescia ha debuttato nell'agosto 2003 nell'opera buffa "Arlecchinata" di A.Salieri
nel ruolo di 'Arlecchino', e nel maggio 2004 nel ruolo di 'Christus' nella 'Passio Christi' di G.Facchinetti per soli, coro e orchestra, eseguita in prima mondiale al Teatro Grande di Brescia.
E' fondatore, direttore e coreografo dell'ensemble solistico vocale "Vox ŒAltera
Ensemble", specializzato in musica a cappella contemporanea e rinascimentale.
Ha collaborato come solista con gli ensemble "Capella Ducale" di Venezia diretta da
L.Picotti, "Interensemble" di Padova diretto da B.Beggio, "Gruppo madrigalistico
Fosco Corti" di Piacenza diretto da R.Dell'acqua, "Cantilena Antiqua" di Bologna
diretta da S.Albarello, "Ensemble Les Nations" di Bologna diretto da L.Baldassari,
"Accademia S. Felice" di Firenze diretta da F.Bardazzi, "Homme Armé" di Firenze
diretto da F.Lombardo, " Modo Antiquo" di Lugano diretto da G.Conti.
Come direttore ha debuttato nel Giugno 2004 dirigendo un concerto del Divertimento Ensemble di Milano dedicato a compositori svizzeri contemporanei (Huber e
Zinstag). Ha frequentato corsi del M° Donato Renzetti e del M° Maurizio Dones.
E' attualmente allievo nella classe di Direzione d'orchestra di Daniele Agiman nel
Conservatorio di Musica di Milano.
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L’editore ringrazia:
Radio svizzera di lingua italiana, Rete 2
Finter Bank Lugano, in particolare
il direttore signor Luigi Rezzonico
un donatore che vuole restare anonimo,
i signori Sonja e Mario Buzzolini,
gli amici della “collezione Aurora 2005”,
il compositore, gli esecutori, i poeti;
e tutte le persone che seguendoci ci aiutano.
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Registrazione effettuata il 29 marzo 2005
presso l’Auditorio Studio Molo
della Radio Svizzera di Lingua Italiana
di Lugano.
Regia musicale (registrazione e montaggio): Manuel Veronesi.
Produttore responsabile: Giuseppe Clericetti.
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DUETTI
per soprano e tenore
di Francesco Hoch
sulle poesie di
Roberto Bernasconi: Kultur
Aurelio Buletti: Modestia
Gilberto Isella: Conviviali
Antonio Rossi: Usualmente o con foga
Dubravko Pušek: Addio illustre Europa
Soprano: BARBARA ZANICHELLI
Tenore: MASSIMILIANO PASCUCCI
é il nr 1 della collana
voci
L’immagine è un frammento dell’opera “Addio illustre Europa”
di M. Valsangiacomo
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settembre 2005
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