Stefanini n. 34 it - Aspen Institute Italia

Stefanini n. 34 it
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Atlanticus
La politica estera…
nazionale
L’Iraq prima, il Libano poi sono due facce della stessa medaglia. Decisioni difficili prese dal governo italiano sulla base di una valutazione degli interessi nazionali nella crisi mondiale, quella mediorientale, che tocca più da vicino, e minaccia, l’Italia. Le alternative? Chiamarsi fuori o delegare le scelte ad altri che non ci rappresentano.
Dopo le scelte fondamentali dell’immediato dopoguerra, che allora segnarono una
generazione e le “due Italie” degli anni Cinquanta (Don Camillo e Peppone), la politica estera italiana ha vissuto di rendita per oltre quarant’anni. L’Italia ha dovuto
prendere decisioni talvolta difficili (vedi la crisi degli euromissili, nel 1979); ma il
solco era tracciato. Il gioco e il merito dei governi della prima repubblica (e in certa
misura dell’opposizione, dopo il 1976) era di rimanere saldamente ancorata a quelle
scelte iniziali. Così è stato.
I due pilastri (quasi superfluo ricordarli) erano costruire l’Europa e l’alleanza con gli
Stati Uniti. La loro esistenza consentì alla “Italia della disfatta” di trovare un posto
centrale (più che ritrovare: prima non c’era, tant’è che lo inseguivamo nelle avventure coloniali…) in Occidente e di sviluppare vertiginosamente le proprie potenzialità
economiche (ma non solo): una traiettoria culminata in campo internazionale con l’ingresso nel Gruppo dei Sette negli anni Settanta. L’esistenza di questo quadro di riferimento, consentì anche al paese di dedicare le proprie energie alla ricostruzione, alla crescita civile, a ritrovare fiducia in sé stesso – al riparo da lacerazioni indotte dagli eventi internazionali. Ci risparmiò la fatica e il costo di prendere decisioni da soli, in quanto venivano prese in altri consessi (Bruxelles, G7) ai quali partecipavamo
e contribuivamo - ma dai quali le decisioni uscivano spersonalizzate e oggettivizzate. All’Italia non restava che adattarvisi, pena la marginalizzazione o, nei casi estremi, l’uscita dal consesso.
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Quella del “vincolo esterno” è stata una politica di (grande) successo. Ha servito
egregiamente gli interessi nazionali dell’Italia nella seconda metà del secolo scorso.
Ma è finita. Fra il novembre 1989 e il settembre 2001 è venuto meno il contesto internazionale che la consentiva. Le priorità italiane (e lo stesso vale per i maggiori
partner europei) non possono più identificarsi nella meta dell’ Europa – perché ormai esiste: che sia o meno quella ideale o idealizzata è un tema affascinante ma accademico, il punto è che gestire l’Europa che esiste (vedi la vicenda della costituzione) è sempre più fatto di politica e opinione pubblica interna. D’altra parte, le
priorità italiane non possono neanche più identificarsi nella protezione americana da
una minaccia che è sparita. L’atlantismo in chiave difensiva è diventato inutile; l’europeismo è passato dalla poesia degli architetti alla prosa degli amministratori di
condominio (attenzione a non sottovalutarne l’importanza: l’URSS è caduta anche per
mancanza di manutenzione).
Gli obiettivi italiani del dopoguerra e della guerra fredda – che siano stati definiti ed
esplicitati come tali poco importa, sono stati intuiti, certo perseguiti - sono stati raggiunti. Ma proprio il loro successo ha fatto venir meno gli ancoraggi ai quali ci eravamo assuefatti. E impone invece la responsabilità delle scelte. Nessuno può più
prendere decisioni per noi. Non a Bruxelles e non a Washington, tanto meno a New
York. E se anche ciò avvenisse, non sarebbero decisioni nelle quali i nostri interessi
si identifichino automaticamente. Dobbiamo decidere da soli e poi regolarci di conseguenza a Bruxelles, Washington e New York.
Quanto sopra non significa evocare una politica estera italiana autarchica (già provato…) o unilaterale. Se l’unilateralismo mostra la corda per l’unica superpotenza
mondiale, per una media potenza è un lusso che essa non può permettersi. Pur di
non farne una religione (è un mezzo, non un fine) e di averne presenti i limiti, il multilateralismo è un metodo obbligato per l’Italia. Va tuttavia preso atto che nel “brave New World” dove l’URSS è un ricordo e al Qaeda una realtà, i grandi paesi – da
quelli europei alle potenze asiatiche e latinoamericane – sono costretti a prendere
decisioni di politica estera al di fuori di un copione prestabilito: le decisioni sono
prese su base nazionale, di valutazione dei propri interessi (nazionali) e di responsabilità verso i propri elettorati (nazionali). La cartina di tornasole delle reazioni
post 11 settembre è illuminante: a caldo, dalla risposta americana in Afghanistan
ignorando l’offerta dell’art. 5 della NATO alle convulse riunioni ristrette fra le principali cancellerie europee; a freddo, dall’iniziativa dei “Tre” europei (Gran Bretagna, Germania, Francia) sull’Iran all’inseguimento del seggio permanente in Consi-
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glio di Sicurezza da parte dei “Quattro” (Giappone, Germania, Brasile, India).
Accanto al (e malgrado il) processo di istituzionalizzazione della politica estera e di
sicurezza, in ambito europeo assistiamo a una rinazionalizzazione della politica estera. Piaccia o non piaccia. È una realtà di cui l’Italia non può non tenere conto (e, nei
fatti se non nelle parole, ne ha tenuto conto). Una realtà che impone una chiara coscienza e visione degli interessi nazionali.
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SAPERE COSA VOGLIAMO… Il dibattito sugli interessi nazionali è per forza di
cose molto vasto: da una parte richiede lucidità e concretezza; dall’altra scivola facilmente nei grandi sistemi. Non è un problema solo italiano; si è posto ad esempio sia
nella Russia postsovietica (fra i meriti di Putin vi è quello di aver fatto scelte spregiudicate, giuste o sbagliate, che presuppongono la consapevolezza di quello che è
bene o male per Mosca1) che negli Stati Uniti degli anni Novanta (vedi le incertezze
in Somalia e nei Balcani). Discutere del metodo e del processo per l’identificazione e
il perseguimento degli interessi nazionali non solo è importante, è fondamentale in un
sistema democratico e aperto come il nostro: è sterile, infatti, qualsiasi operazione che
non coinvolga l’opinione pubblica, i media, gli attori non istituzionali (fra cui naturalmente il mondo economico e imprenditoriale).
Eppure, stanti tali vincoli, non dovrebbe essere difficile “sapere” cosa conta e cosa
conta di meno per l’Italia nel mondo contemporaneo. Si può pensare cioè di identifi-
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care in prima approssimazione un quadro degli interessi e priorità nazionali che, spogliato della faciloneria verbale e degli eccessi ideologici, rifletta un largo consenso
degli addetti ai lavori così come dell’opinione pubblica. Uno schema di riferimento,
per quanto qui solo abbozzato, dimostra come il tema sia meno controverso di quanto non appaia, o di quanto lo si voglia fare apparire in chiave partisan. Si invoca regolarmente la “bipartisanship” in politica estera; in realtà, si fa spesso lo sforzo opposto di appropriarsene a fini interni, che poco hanno a che vedere con gli affari internazionali. La bipartisanship è spesso in re ipsa; ma la strumentalizzazione è più
conveniente. Dalle reazioni al discorso di Berlusconi al Congresso americano nello
scorso febbraio, ai commenti sulla passeggiata di “D’Alemmah” fra le macerie di Beirut, gli esempi si potrebbero moltiplicare (meglio risparmiarli per carità di patria, essendo in tema d’interessi nazionali).
In questo schema, gli interessi nazionali non possono che essere la risultante dell’identità storico-culturale (paese europeo, cultura occidentale), collocazione geografica (frontiera mediterranea e balcanica) e degli imperativi economico-produttivi (deficit energetico, sistema internazionale di trasformazione, terziarizzazione avanzata,
relativa dipendenza dalle esportazioni) dell’Italia. Tutti questi sono fattori obiettivi.
Non sono nuovi e depongono a favore di una continuità di fondo, adottata alle mutate circostanze internazionali di questo scorcio di XXI secolo. Di conseguenza, rimangono ferme le due linee di tendenza fondamentali. Un’Italia fuori o eccentrica rispetto
al nocciolo europeo è impensabile. Il rapporto politico-militare-economico-scientifico-ecc. con gli Stati Uniti, e con il Nord America, rimane un cordone ombelicale indispensabile. Non è occasionale: è il frutto di legami che si sono creati nel tempo (anche attraverso l’emigrazione italiana oltreoceano) e continuano a riprodursi costantemente (investimenti, collaborazione scientifica, università, mondo dello spettacolo,
turismo, ecc.). D’altro canto, la novità delle sfide del XXI secolo non deve far dimenticare che la scelta di fondo della seconda metà del XX, quella di appartenere all’Europa e all’Atlantico, ha dato all’Italia prosperità e statura internazionale senza
precedenti.
Cavallo che vince non si cambia. Il problema oggi non è di cambiare scelta ma di
adottarla a una diversa realtà internazionale.
La geografia rileva particolarmente perché l’ovvia priorità delle aree vicine (a ciascuno il suo near abroad) fa dell’Italia un paese front line rispetto alla regione europea meno integrata nel sistema euroatlantico (Balcani, ma anche Mar Nero e Ucraina), direttamente esposto alla pressione emigratoria dell’Africa via Mediterraneo, al-
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le crisi del Medio Oriente e del Golfo. Fondamentalismo, terrorismo e proliferazione
sono una minaccia per tutti (docet 11 settembre, come pure Bali, Madrid, Londra, Casablanca e altri); per l’Italia sono anche, letteralmente, i barbari alle porte. Punto cospicuamente assente nel dibattito italiano sull’Iran, tutto imperniato sul dialogo o non
dialogo con Teheran, è l’interrogativo su come una corsa agli armamenti atomici nel
Medio Oriente (dopo l’Iran, Turchia, Egitto, Arabia Saudita….) trasformerebbe l’intero Mediterraneo sul quale si affaccia Italia e Europa meridionale.
Sul piano politico e della sicurezza, l’interesse nazionale si identifica in primis con
la stabilità delle aree che ci circondano a Sud, Est e Sudest. “Mediterraneo” sì, ma
visto concretamente per quello che è, senza la mitologia del “crocevia delle civiltà”:
epicentro di tensioni, caratterizzato da un divario economico macroscopico, teatro di
guerre e crisi. La nostra priorità non può essere che disinnescarle, lo abbiamo fatto
con un certo successo nei Balcani. Adesso è il turno del Medio Oriente. Se questa è
la tela di fondo, non stupisce che, negli ultimi undici anni, successivi governi italiani abbiano inviato missioni militari di stabilizzazione (peacekeeping o peacemaking)
in Bosnia, Albania, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libano. Siamo intervenuti esattamente dove il nostro interesse nazionale lo richiedeva.
Interessi geopolitici, economici ed energetici ci portano a guardare alla Russia come
a un partner fondamentale per l’Europa e per l’Occidente. “Pratica di Mare” non è
un caso. Riavvicinare Mosca all’Atlantico, evitando clamorose rotture con Washington, specie in questa fase di involuzione autoritaria e assertiva di Putin, è una costante (bipartisan) della nostra politica estera. Sul piano economico, non possiamo
(più: lo dimostra il recente viaggio del presidente del Consiglio in Cina) ignorare il
dinamismo prorompente dell’Asia; esportatori nati, non possiamo battere i nuovi concorrenti asiatici, per cui non ci rimane che trovare il modo di lavorare con loro e stabilire sinergie che facciano sì che la loro crescita non avvenga a scapito della nostra.
Il discorso potrebbe allargarsi ad Africa e America Latina, dove pure vi sono interessi italiani importanti.
Nel perseguire, su piani diversi e con mezzi diversi, gli interessi italiani nel mondo,
vanno tenuti presenti sia i limiti fisiologici di una potenza regionale (per cui la penisola coreana non ha, per l’Italia, lo stesso grado di priorità dell’Iran); sia la competizione e/o diversità di vedute con i partner quando ci muoviamo fuori area. I nostri
principali concorrenti economico-commerciali in India, come in America Latina, sono gli altri principali paesi europei; gli Stati Uniti hanno un diverso approccio alla
Russia. Essere fermamente europeisti e atlantisti non significa ovviamente che tutto
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sia sempre rose e fiori in ambito UE o attraverso l’Atlantico. Anche questo ci deve essere chiaro.
…E SAPERE COME OPERARE. Ammesso di aver identificato gli “interessi
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nazionali”, cioè di sapere quello che vogliamo, come intendiamo poi operare? Il nuovo contesto internazionale non è ancora stratificato; incognite e incertezze si traducono in necessità di intervenire o reagire con rapidità (vedi crisi libanese), spesso
senza copione e senza rete di sicurezza. Per una politica estera da inventare di volta
in volta, l’Italia ha essenzialmente tre alternative (e ciascuna ha i suoi sostenitori).
Può chiamarsi fuori dalla mischia, rifuggendo da impegni compromissori sul piano
della moralità internazionale, nei quali gli obiettivi possono essere nobili, ma occorre usare la forza, rischiare vite umane nostre e altrui. Questo atteggiamento emerge
chiaramente nell’opposizione alla continuazione della nostra presenza militare in Afghanistan. È la scelta di fare dell’Italia una grande Svizzera o Svezia. Pronta ad aiutare economicamente e a predicare il bene, evitando di sporcarsi le mani. Il che non
significa rinunciare a proteggere i nostri interessi nazionali in senso lato, quali, ad
esempio, la sicurezza dal terrorismo. In parte, continueremo a farlo con i nostri mezzi (attività di polizia, collaborazione internazionale contro i traffici e così via); in parte, ci difendono gli altri. Siamo tranquilli perché tanto siamo convinti che i “duri”
(Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Pakistan, persino Israele…) non permetteranno ai
bin Laden di questo mondo di trionfare. Insomma, che ci pensi qualcun altro, mentre noi coltiviamo il nostro orticello italo-comunitario e magari cerchiamo di estenderlo in Cina e in Argentina. È il free ride della neutralità; storicamente, ha spesso
avuto successo.
Oppure, possiamo delegare ad altri le decisioni. Convinti multilateralisti, vaccinati
contro gli errori del nazionalismo, ci affidiamo alla rete delle istituzioni internazionali di cui facciamo parte per indirizzare la nostra politica estera: innanzitutto l’Unione Europea, seguita dalle Nazioni Unite e dalla NATO. Opereremo di conseguenza,
pronti a impegnarci nel solco tracciato dalle decisioni multilaterali che offrono anche
la garanzia di ferro della legittimità internazionale. Una iniziativa internazionale è
“giusta” se sanzionata dall’ONU, “ingiusta” se non lo è, indipendentemente dal fatto
che recepisca o meno l’interesse nazionale (e indipendentemente dal fatto che risolva o meno il problema – vide Ruanda o Darfur o Srebrenica). Fra il subordinare il nostro interesse nazionale (all’ONU o all’UE) a priori o a posteriori vi è una sottile ma significativa differenza. È inevitabile che venga subordinato ex post; ma identificarlo e
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perseguirlo ex ante impone di recitare un ruolo particolarmente attivo per spingere il
sistema multilaterale nella direzione voluta. È la differenza fra l’attendere e il prendere l’iniziativa. Se si identifica l’interesse nazionale nel multilateralismo “senza se
e senza ma”, si finisce col delegarlo, in concreto, alle istanze multilaterali stesse.
Ad esempio, la forza d’interposizione internazionale in Libano era chiaramente nell’interesse italiano, perché si tratta di un’area strategica per l’Italia (motivazione geopolitica), perché si inserisce in un recupero del ruolo “europeo e multilaterale” considerato negli interessi di un paese che altrimenti rischia sempre l’emarginazione dai
fori decisionali (motivazione di metodo e rango: l’inclusione) e perché rivolta ad arrestare o prevenire ulteriori disastri umanitari (motivazione gradita a sinistra e quindi capace di creare consenso interno). Per di più, compensava il ritiro dall’Iraq, con
un beneficio accessorio di tipo atlantico. Ma avendo stabilito tutto questo, toccava
anche all’Italia operare affinché si creasse (e avesse una fisionomia “europea”). Come è stato. Alla fine, la soluzione multilaterale (la risoluzione 1701 del Consiglio di
Sicurezza) ha coinciso con l’interesse nazionale italiano, ma anche perché l’Italia si
è fatta parte attiva per arrivarvi e ha subito impegnato le proprie truppe per attuarla.
Il caso Libano porta alla terza via, sostanzialmente seguita in questo caso. Fra i precedenti, il più evidente è quello dell’Operazione Alba del 1996 in cui Roma dovette
addirittura forzare la mano all’ONU, alla NATO, all’UE, per ottenere la benedizione e la
partecipazione internazionale a un’operazione di polizia internazionale e di stabilizzazione di nostra assoluta priorità. L’Italia così sceglie autonomamente come perseguire i propri interessi nazionali, salvo poi, per l’attuazione, operare attraverso la propria rete bilaterale e multilaterale. Questo significa avere una visione del multilateralismo come mezzo anziché come fine. E, per inciso, sottrarre all’accademia il dibattito sul multilateralismo “efficiente” o meno; lo sarà (efficiente) nella misura in
cui consegue il fine prefisso.
Quest’ultima è l’alternativa di fatto seguita dai maggiori paesi europei (non solo i
“Tre”, anche altri come Spagna, Polonia, Olanda). Conduce a una politica estera di
nazionalizzazione delle scelte, di europeizzazione (via Solana) e multilateralizzazione (via fori istituzionali, quali G8 o Consiglio di Sicurezza, e ad hoc, quali P5 più uno
sull’Iran o Quint sui Balcani) dell’attuazione. È indubbiamente quella che offre la
maggior rispondenza agli interessi nazionali, ma anche la più difficile da percorrere
perché impone, appunto, di scegliere e di assumere la responsabilità (nazionale) delle scelte fatte, anziché scaricarle all’esterno (quest’ultimo è il vantaggio del sistema
della delega). E impone, talvolta, su specifiche questioni, anche di “schierarsi” da
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una parte o dall’altra: della Francia o degli Stati Uniti, dell’Iran o di Israele, della Cina o del Giappone. Non si può sempre solo invocare l’equidistanza o il “dialogo”. In
diplomazia e in politica internazionale il dialogo è fondamentale, ma a condizione
che sia indirizzato a uno sbocco, anche modesto, interinale, ma concreto, non sia “il
dialogo per il dialogo”. Non per lo meno in un’ottica di politica estera secolare quale quella italiana. Ben diverso parlare di dialogo per il Vaticano, che si colloca su un
altro piano di tempi secolari e respiro ecumenico.
IL NOCCIOLO DURO. Il nocciolo duro della politica estera italiana, che è quel-
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lo intorno al quale gira più o meno apertamente il dibattito interno, è se (o piuttosto
quanto) essa debba ancora essere ispirata prezzo dalla scelta atlantica, e dal rapporto speciale con gli Stati Uniti, che l’ha dominata dagli anni Cinquanta, in parallelo
con quella europea. La questione si posta in particolare dal 2003, che ha visto spaccato l’Atlantico (e spaccato l’Europa; forse è comodo dimenticare questa seconda
parte). L’alveo Unione Europea e l’assenza di una minaccia che richieda l’ombrello
convenzionale-nucleare americano rendono meno determinante per l’Italia il rapporto con gli Stati Uniti e, si sostiene, secondario rispetto al quadro comunitario.
L’esperienza di questi primi anni della “nuova era” induce a guardare con molta prudenza a questa tesi. Rinunciare alla priorità atlantica ha il prezzo di restituirci allo
storico ruolo di “ultima delle grandi potenze” in Europa e di farci necessariamente
comprimari e/o subalterni di priorità e interessi altrui. Nella crisi del 2003, per Parigi, la posta in gioco non era l’Iraq quanto la supremazia in Europa (e il tentativo di
escludere gli Stati Uniti dal continente); se Chirac avesse voluto veramente evitare la
guerra, avrebbe fatto esattamente l’opposto e collaborato, anziché antagonizzato Blair
e Powell, gli unici che (forse) potevano fermare la decisione già presa della Casa
Bianca. Il risultato è stato che la guerra si è fatta comunque, ma il prezzo in termini
politici e di rapporti con Washington ha finito col pagarlo la Germania di Schröder
(e, dopo il ritiro affrettato, la Spagna di Zapatero) molto più della Francia di Chirac,
che un anno e mezzo dopo collaborava attivamente con Washington per espellere la
Siria dal Libano dopo l’assassinio di Rafik Hariri).
Dove sarebbe oggi l’Italia se si fosse schierata con Parigi e Berlino, anziché offrire
solidarietà politica a Washington durante l’intervento e partecipazione militare nella
fase di stabilizzazione?
Né la condotta dei principali partner europei è molto rassicurante nei confronti del
ruolo internazionale dell’Italia. Basti pensare alle due principali iniziative con le Ro-
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ma si è confrontata negli ultimi tre anni. Primo, il rilancio tedesco, col pieno appoggio della Francia e, in misura appena minore, della Gran Bretagna, per il seggio permanente in Consiglio di Sicurezza; quello che è peggio, in un’ottica europea, con il
sostegno anche della grande maggioranza dei paesi UE, nonostante i nostri ripetuti
tentativi di risvegliarne l’interesse per il mitico “seggio europeo”. Alla fine, chi ci ha
salvato, oltre alle vischiosità onusiane, ai veti incrociati, all’imperscrutabilità del
grande blocco di voti africani, è stata la netta e aperta opposizione degli Stati Uniti.
Nel proprio interesse, non certo nel nostro, ma con una certa considerazione dei meriti acquisiti sul campo dall’Italia.
Secondo, l’impossessarsi da parte dei “Tre” della voce europea sull’Iran, cooptando
poi anche quella istituzionale dell’alto rappresentante, che agisce ormai come loro
spalla, e la successiva istituzionalizzazione di formati (Tre più USA, P5 più Germania)
che ci escludono su una questione dove sono in gioco nostri rilevanti e concreti interessi e, l’ultimo dei quali, permette a Berlino di assicurarsi uno strapuntino surrettizio nel Club dei permanenti. Il cambio di governo in Italia nulla ha cambiato nell’atteggiamento ad excludendum dei nostri tre partner, in particolare di Berlino. A oggi,
invece, gli unici riconoscimenti, verbali ma pubblici, del ruolo italiano in Iran sono
del dipartimento di Stato americano, prima e dopo l’avvicendamento Prodi-Berlusconi a Palazzo Chigi. E l’unica apertura, a una partecipazione italiana a consultazioni
ristrette sull’Iran è stato finora l’invito di Condoleezza Rice a Massimo D’Alema alla
“cena informale” sul Medio Oriente (Iran compreso) il 19 settembre a New York. Se
questo porterà prima o poi (al momento di andare in stampa lo si può solo sperare) a
un’inclusione definitiva dell’Italia, dovremo ringraziare innanzitutto Washington, non
certo gli europei che vi guardano (e non lo nascondono) piuttosto controvoglia.
Per converso, è difficile immaginare che l’Italia avrebbe potuto assumere il ruolo trainante che ha avuto sul Libano, dalla Conferenza di Roma alla leadership della nuova UNIFIL, senza la piena collaborazione e sintonia con gli Stati Uniti. Sulla concorrenza francese per il comando, meglio stendere un velo pietoso.
A oggi, la conclusione è che, per fermo e rafforzato che sia l’ancoraggio europeo, la
sponda americana costituisce ancora per l’Italia un atout enorme. Nel mondo a crisi
diffuse e minacce disperse, si “conta” nella misura in cui si impegnano risorse, non
solo economiche (altrimenti, la Commissione UE sarebbe il principale attore internazionale) ma anche politiche e militari. Burro e cannoni. Specie in presenza di una linea di politica estera ormai consolidata, dal 1995 a oggi, dai Balcani al Medio Oriente e all’Afghanistan, che ci vede “contribuire” alla sicurezza comune anziché esser-
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ne semplicemente beneficiari (ombrello nucleare) o paese ospitante (basi americane
e NATO), è l’America più “dell’Europa” che riconosce all’Italia il merito e la capacità di assumere responsabilità e di portarle a termine. La nostra statura internazionale e lo stesso peso all’interno dell’UE non potrebbero che essere diminuiti dalla perdita dell’Atlantic connection.
La prova: il fatto che sia stata mantenuta (e per certi aspetti persino rafforzata) nel
passaggio dal governo di centro-destra a quello di centro-sinistra e che, in termini
d’impiego militare, il Libano finisca col sostituire l’Iraq. “Giusto” il primo, “sbagliato” (illegittimo) il secondo? può darsi, ottima materia per un dibattito storico-politico-giuridico. La realtà che il “nuovo” governo italiano continua l’impegno mediorientale del “vecchio”, con notevoli modifiche di contesto (che nel frattempo è comunque cambiato), ma mantenendo la stessa partnership di fondo con gli Stati Uniti. E, quanto a continuità (cartina di tornasole degli interessi nazionali), l’Italia non
era forse andata in Libano nell’82-84 (Craxi primo ministro, Andreotti ministro degli
Esteri) con un’altra “forza multinazionale”, insieme ad americani e francesi?
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Si veda l’articolo di Dmitri Trenin in questo stesso numero di Aspenia.