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Dal conflitto all”’alleanza di ferro”. A proposito delle
relazioni tra il Papato e la Spagna nella crisi religiosa del
Cinquecento; Rec. di G. Marcocci, L’invenzione di un
Impero. Politica e cultura nel mondo portoghese
Daniele Santarelli
To cite this version:
Daniele Santarelli. Dal conflitto all”’alleanza di ferro”. A proposito delle relazioni tra il Papato
e la Spagna nella crisi religiosa del Cinquecento; Rec. di G. Marcocci, L’invenzione di un
Impero. Politica e cultura nel mondo portoghese. 2011. <halshs-00649381v2>
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Daniele Santarelli
Dal conflitto all’«alleanza di ferro». A proposito delle relazioni tra il Papato e
la Spagna nella crisi religiosa del Cinquecento
Dal conflitto all’alleanza
Il papato, Venezia e la Spagna: fu questo il nerbo dell’alleanza che sconfisse i Turchi
nella battaglia di Lepanto (1571). La «lega santa» contro i Turchi fu un capolavoro
politico di Pio V (1566-72), papa-inquisitore per eccellenza, che riuscì a coalizzare
contro gli «infedeli» le forze dell’Europa cattolica e controriformata. Non si poteva
più fare affidamento sulla Francia, fino a pochi anni prima considerato il regno più
cristiano, più obbediente e più unito d’Europa (in proposito scriveva nel 1547 un
acuto osservatore della realtà del suo tempo come Marino Cavalli che i re di Francia
avrebbero avuto giusto titolo di farsi chiamare «rex servorum» piuttosto che «rex
Francorum»1), ormai caduta nel baratro delle divisioni e delle guerre religiose.
La Spagna era una monarchia «composita» e «recente», che ancora risentiva nel pieno
Cinquecento dell’influenza delle presenze araba e giudea, di cui si era sbarazzata alla
fine del XV secolo. Per questo un pontefice come Paolo IV, di cui per molti osservatori dell’epoca Pio V rappresentava la «reincarnazione», odiava gli Spagnoli, definendoli «mistura di giudei, mori e luterani» e dando dell’«imperatore eretico» a Carlo
V2.
E non a caso i primi biografi dell’imperatore Carlo V, impegnati ad esaltare la casa
d’Austria come protettrice del cattolicesimo romano in un contesto in cui la Controriforma, frutto maturo dell’alleanza tra il Papato e gli Asburgo, si era saldamente affermata in Italia e in Spagna, ebbero non poche difficoltà a giustificare i suoi non
sempre felici rapporti con il Papato3. Dalla guerra contro Clemente VII de’ Medici
(alleato dei Francesi nella lega di Cognac), culminata nel terribile sacco di Roma del
1527, alla guerra (1556-57) contro Paolo IV, costretto alla pace con le truppe spagnole giunte ormai alle porte di Roma, cosa che evocava nell’immaginazione del vecchio pontefice napoletano, testimone dei fatti del 1527, lo spettro di un «secondo
sacco», le relazioni tra l’imperatore e il Papato videro il susseguirsi inquieto di innumerevoli momenti di scontro e tensione e furono dominate dal dubbio e dal sospetto reciproci. Dopo il 1523, l’unico papa filospagnolo fu il «debole» Giulio III Del
M. CAVALLI, Relazione di Francia [1547] in E. ALBERI, Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, s.
I, vol. I, Firenze 1839, pp. 219-288: p. 232.
2 Cfr. D. SANTARELLI, Il papato di Paolo IV nella crisi politico-religiosa del Cinquecento: le relazioni con
la Repubblica di Venezia e l’atteggiamento nei confronti di Carlo V e Filippo II, Roma 2008.
3 Cfr. M. FIRPO, «Sempre soggetto al santissimo papa et alla santa Chiesa». I primi biografi italiani di Carlo V in ID., «Disputar di cose pertinente alla fede». Studi sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, Milano 2003, pp. 175-196.
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Monte (1550-1555). Clemente VII (1523-1534) e Paolo IV (1555-1559) furono tenacemente avversi all’imperatore e filofrancesi, per quanto potettero. Paolo III Farnese
(1534-1549) optò per una politica più cauta ed equilibrata, ma morì in pessimi rapporti con Carlo V, deluso dalla politica di repressione troppo debole condotta in
Germania contro i protestanti ed essendogli stato per di più ucciso il figlio Pier Luigi in una congiura filoimperiale (1547).
La guerra di Paolo IV, alleato dei Francesi, contro il regno di Napoli fu l’ultimo conflitto che oppose un papa ad un Asburgo. I decenni che seguirono videro il felice
consolidamento dell’alleanza di ferro tra il Papato e la Spagna di re Filippo II, puntello dell’Europa della Controriforma. Fu in particolare Pio V Ghislieri (1566-72) a
dare la spinta decisiva, consacrando di fatto Filippo II «campione» della causa del
cattolicesimo romano contro eretici ed infedeli.
È opportuno esaminare l’evoluzione delle relazioni tra il Papato e la Spagna in un
periodo decisivo della storia europea e mediterranea, che vide innanzi tutto il dispiegarsi e quindi il progressivo sfaldarsi della costruzione politica di Carlo V. Una costruzione politica, così come era teorizzata dagli umanisti stessi che formavano il
nerbo dell’entourage del giovane imperatore (come il grande cancelliere Mercurino
Gattinara o il segretario Alfonso de Valdés), costituita da un insieme eterogeneo di
elementi sovrastatali e sovranazionali, indissolubilmente legata all’idea dell’unità del
cristianesimo occidentale, al cui vertice era posto un monarca universale, capace di
svolgere la missione provvidenziale di restaurare un ordine politico «ideale», salvando la cristianità al contempo dal pericolo turco, da Lutero e dalla corruzione del Papato4.
Contemporaneamente la curia romana era lacerata dal durissimo scontro tra le visioni opposte e inconciliabili degli «spirituali», ispirati dalla dottrina di Juan de Valdés e
guidati dai due potenti cardinali, a più riprese «papabili», Reginald Pole e Giovanni
Morone, e degli «intransigenti», guidati dal cardinal Gian Pietro Carafa, capo del Santo Uffizio dal 1542 e papa dal 1555 al 1559 col nome di Paolo IV.
Ripercorrere le vicende politiche e religiose nel loro intreccio può aiutare a comprenderne meglio il senso.
Le relazioni tra Roma e la Spagna nel quadro delle guerre d’Italia
Le «guerre d’Italia», e in generale il conflitto tra Francia e Spagna protrattosi dal 1494
al 1559 per l’egemonia sull’Europa costituiscono il contesto politico in cui queste
vicende si collocano. In effetti la Spagna dei Re Cattolici era stata piuttosto «trascinata» nel conflitto in seguito alla rottura degli equilibri di potere provocata dalla conquista del Regno di Napoli da parte del re francese Carlo VIII (febbraio 1495). I
Francesi furono ben presto cacciati da Napoli, ma ritentarono l’impresa italiana con
Luigi XII (1498-1515), che nel 1499, con l’avallo di Alessandro VI Borgia (14931503), conquistò Milano. La tregua di Blois (1504) sanciva un primo equilibrio: il
Regno di Napoli agli Spagnoli, lo Stato di Milano ai Francesi. Dopo i vari sconvolgimenti degli anni del papato di Giulio II Della Rovere (1503-1513), che fu sempre
Cfr. J. PÉREZ, L’idéologie de l’Etat in C. HERMANN (a cura di), Le premier âge de l’État en Espagne,
Paris 2001, pp. 191-216.
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fieramente antifrancese, tale equilibrio era confermato dal trattato di Noyon del 13
agosto 1516, siglato dal giovane Carlo d’Asburgo, appena asceso al trono spagnolo, e
dal re francese Francesco I (1515-1547).
Tre anni dopo, com’è noto, lo stesso Carlo era eletto al trono imperiale col nome di
Carlo V5. Di fronte alla disputa per il trono imperiale tra questi e Francesco I, papa
Leone X in un primo tempo aveva avallato la candidatura di un principe tedesco, che
per la propria debolezza non avesse potuto estendere le proprie ambizioni al di fuori
della Germania, quindi, di fronte all’inevitabile, aveva appoggiato le ragioni del giovane Carlo.
Alla testa di un aggregato di stati plurinazionale, difficilmente governabile, egli dovette affrontare sin da subito una serie di difficili problemi: in Germania i disordini
politici e sociali legati all’affermazione della Riforma dal 1517; in Italia la ripresa del
conflitto con i Francesi, che peraltro assumeva sempre più una dimensione europea;
in Castiglia la rivolta dei comuneros, espressione del malcontento di una società poco
disposta ad accettare un sovrano straniero che per di più era costretto ad imporre
una notevole pressione fiscale per finanziare le sue guerre. Il successo gli arrise negli
anni venti: le rivolte dei cavalieri e dei contadini in Germania, la rivolta in Castiglia
furono sedate, i Francesi furono sbaragliati. Il re Francesco I, catturato a Pavia
(1525) e trasportato in Spagna, fu costretto all’umiliante tregua di Madrid (1526); la
guerra condotta contro l’imperatore dalla lega di Cognac (1527-29), che vedeva il re
di Francia alleato con Clemente VII, si traduceva in un altro disastro per i Francesi: i
lanzichenecchi calavano in Italia e mettevano Roma a sacco, la spedizione del maresciallo Lautrec nel regno di Napoli aveva esito fallimentare. La pace di Cambrai
(1529) e il trattato di Bologna (1530) sancivano il primato degli imperiali in Italia e in
Europa.
Ricordare questi ben noti avvenimenti giova perché nulla dimostra meglio come il
progetto politico-religioso di Carlo V sembrasse a un certo punto vittorioso, nonostante le ovvie grandissime difficoltà. Bologna fu per Carlo V un grande trionfo. La
concezione imperiale di Carlo V e del suo entourage si fondava sull’esaltazione della
vocazione cristiana della sua carica, sulla rivendicazione della superiorità del potere
dell’imperatore su quello papale. A Bologna nel febbraio 1530 Carlo V fu incoronato
e consacrato da Clemente VII, costretto tre anni prima a barricarsi per diversi mesi a
Castel Sant’Angelo mentre i lanzichenecchi saccheggiavano orrendamente Roma e le
sue chiese: la cerimonia fu magnifica ed ebbe un forte impatto simbolico. Ai contemporanei sembrò veramente giunto il tempo dell’imperatore universale, che avrebbe inaugurato un regno millenario di pace.
Schierandosi contro Carlo V, Clemente VII aveva compiuto una scelta opportunistica, in questo seguendo in tutto e per tutto l’esempio di Leone X, da cui aveva appreso l’arte «di spostare di volta in volta le proprie forze tra i contendenti tenendo coperte le proprie intenzioni il più a lungo possibile onde guadagnare il “beneficio del
tempo”»6. Ma la scelta era stata sfortunata. L’Impero tornava al massimo del suo
splendore e questo comportava un ridimensionamento del Papato, non solo sul piano politico ma anche su quello religioso.
Sulla storia politica del cui lungo regno resta fondamentale la «classica» opera di K. BRANDI,
Carlo V, Torino 19713.
6 Così A. PROSPERI, Clemente VII in Enciclopedia dei Papi, vol. III, Roma 2000, pp. 70-91: p. 81.
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Ma né da parte del Papato né da parte dei Francesi si ebbero remore a utilizzare ogni
mezzo contro l’imperatore, a partire dai principi protestanti tedeschi. Sin dal 1524
Carlo V aveva insistito con Clemente VII per la convocazione di un concilio generale per risolvere sul nascere il problema della spaccatura religiosa, invano. I Francesi
dal canto loro appoggiarono strumentalmente le rivendicazioni dei principi tedeschi
contro l’imperatore e sfruttarono anche a loro vantaggio la crescente potenza acquisita dai Turchi nel Mediterraneo: per esempio nel 1536 i Francesi invasero e conquistarono la Savoia (il duca Carlo III di Savoia era alleato fedele degli imperiali), sfruttando il fatto che Carlo V fosse allora appena reduce dalla spedizione di Tunisi contro Barbarossa e ancora in Italia del sud. La lotta contro l’infedele era fondamentale,
anche sul piano ideologico, per l’imperatore cristiano; i Francesi furono più pragmatici e ne approfittarono.
Nel 1538 il Papato ebbe un ruolo fondamentale nell’armistizio di Nizza, concluso
con l’intermediazione di Paolo III, ma fu marginalizzato rispetto ai conflitti successivi, riaccesisi a partire dal 1542, arginati dai fragili equilibri sanciti dal trattato di Crépy
del 18 settembre 1545 tra l’imperatore Carlo V ed il re di Francia Francesco I, dalla
tregua conclusa da Ferdinando d’Asburgo con i Turchi (10 novembre 1545) e dal
trionfo di Carlo V sui principi protestanti tedeschi a Mühlberg (24 aprile 1547). Paolo III aveva adottato in sostanza una politica di neutralità, attento soprattutto da un
lato alle esigenze della sua famiglia, dall’altro ai problemi della Chiesa7.
Nel 1545 si era aperto il concilio di Trento, fortemente voluto dall’imperatore, che
velatamente pareva rivendicare sulla Cristianità la stessa tutela praticata dagli imperatori romani, patrocinatori di concili ecumenici nei momenti cruciali del cristianesimo
dell’antichità: insomma, un novello Costantino o Teodosio. Da parte di Paolo III
tuttavia si voleva mantenere un certo controllo sull’assemblea, e il trasferimento del
concilio a Bologna nel 1548 rese furente Carlo V: esso era ridotto a un «affare romano»; si trattava di uno schiaffo alla tanto declamata universalità del potere imperiale.
Il trionfo di Mühlberg pareva comunque rendere possibile il sogno dell’Impero universale: l’Interim di Augusta del 1548 preparava la riapertura del concilio di Trento
con la partecipazione obbligata di delegati protestanti. Ma ancora una volta i Francesi trassero profitto dell’ostilità dei principi tedeschi contro l’imperatore e della guerra
condotta dai Turchi contro le forze cristiane nel Mediterraneo. L’ultimo atto della
partita tra Francesi e Imperiali si svolse negli anni tra il 1551 e il 1559, che furono
per l’Europa intensi anni di guerra8. Il re di Francia, adesso Enrico II (1547-1559),
approfittava nuovamente dell’azione militare turca, diretta stavolta contro i Cavalieri
di Malta (conquista di Tripoli, 1551), che costrinse Carlo V a ritirare le truppe
d’occupazione dalle piazzeforti tedesche per dislocarle in Sicilia. Oltre a rompere le
tregue in Italia, i Francesi attaccarono guerra sul fronte renano, coordinando la loro
azione con quella del leader del fronte protestante tedesco, Maurizio di Sassonia, che
nel 1552 «liberava» la Germania dalla «tirannide» dell’imperatore. Carlo V si trovava
allora a Innsbruck per seguire da vicino le sedute del concilio di Trento, riconvocato
Cfr. in proposito le riflessioni di G. BENZONI, Paolo III, ibid., pp. 91-111.
La più lucida esposizione di fatti e problematiche relative alla storia politica di questo decennio si ha in F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. II, Torino 1986,
pp. 965 sgg.
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dal filo imperiale Giulio III nel 1551: fu colto di sorpresa dall’offensiva di Maurizio
di Sassonia e costretto a una precipitosa fuga. Ed il concilio fu di nuovo sospeso…
Con la tregua di Vaucelles del febbraio 1556 i Francesi conservavano la Savoia e il
Piemonte, gli Imperiali il predominio sull’Italia. Ma sin dai suoi primi mesi di pontificato Paolo IV mirò alla costituzione di una lega anti-imperiale. Le cose cambiavano
radicalmente rispetto alla parentesi del papato di Giulio III, filospagnolo. La guerra
di papa Carafa contro gli Spagnoli ha un valore ideologico profondo; e le pressioni
di Paolo IV e del cardinal Carlo Carafa furono determinanti nell’indurre di nuovo
Enrico II alla guerra. Il vecchio papa napoletano era sì nemico personale di Carlo V,
che gli aveva negato a suo tempo il possesso dell’arcivescovado di Napoli e si era
dichiarato ostile alla sua elezione al papato sin dal conclave di Giulio III; e coltivava
anche il sogno di impadronirsi militarmente della propria patria soggetta agli Spagnoli e di elargire benefici territoriali ai proprio famigliari. Ma i motivi principali della
guerra vanno ricercati nella rivendicazione del primato del papa, spirituale e politico,
contestato apertamente dagli imperiali che difesero i diritti dei Colonna, ribelli al papa, e nella sua convinzione che Carlo V fosse un «imperatore eretico», che mirava
alla rovina della Chiesa insieme ai suoi consiglieri e ai cardinali «spirituali» come il
Pole e il Morone. Nel frattempo Carlo V, convinto ormai del proprio fallimento politico e radicalmente trasformatosi nella vecchiaia in un personaggio brusco, autoritario e imprevedibile, aveva già attuato la sua ben nota rinuncia ai poteri (gennaio
1556: abdicazione ufficiale ai regni spagnoli, e italiani e d’oltreoceano a favore di Filippo II; febbraio 1557: abdicazione ufficiale all’impero a favore di Ferdinando, riconosciuta dai principi tedeschi nel marzo 1558). La guerra di Paolo IV contro gli Spagnoli ebbe esito catastrofico: le truppe del duca d’Alba, viceré di Napoli, giunsero
sino alle porte di Roma e si temette un «secondo sacco». Ed i Francesi furono annientati nelle Fiandre (battaglia di San Quintino, 10 agosto 1557). La pace di Cave
del settembre 1557 sancì la conclusione dell’ultima guerra tra un papa e un Asburgo,
e con la pace di Cateau-Cambrésis (1559) si chiudeva il conflitto franco-spagnolo: la
dominazione spagnola calava sull’Italia, mentre la Francia piombava nel sanguinoso
baratro delle guerre di religione. Allo stesso tempo si ponevano le basi della decisiva
uniformazione religiosa del regno di Spagna (e dell’Italia).
Il doppio «trionfo» dell’Inquisizione in Italia e in Spagna: spunti di ricerca
Occorre porre in rilievo la «svolta» rappresentata dalla fine degli anni ’50 del Cinquecento, insistendo sull’intreccio tra politica e religione. La Francia precipitava nel disordine in seguito alla morte di Enrico II e alla congiura di Amboise (1560), che di
fatto inauguravano un quarantennio di atroce lotta religiosa e politica. E sarebbe più
che opportuno muoversi sul campo di una storia comparata, sull’esempio, in particolare, degli studi di Alain Tallon9 e Stefania Pastore10. La storiografia ha ben descritto
A. TALLON, La France et le concile de Trente (1518-1563), Rome–Paris 1997.
S. PASTORE, Il Vangelo e la spada. L’Inquisizione di Castiglia e i suoi critici (1460-1598), Roma
2003; EAD., Un’eresia spagnola. Spiritualità conversa, alumbradismo e Inquisizione (1449-1559), Firenze
2004.
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gli aspetti politici e istituzionali dell’affermazione della Controriforma in Spagna come in Italia, ma le situazioni nazionali sono state isolate l’una dell’altra.
Un personaggio fondamentale e studiatissimo costituisce il trait d’union tra la storia
religiosa italiana e quella spagnola: quel Juan de Valdés approdato a Napoli nel 1536
per fuggire dall’Inquisizione spagnola, e nella città partenopea morto nel 1541, che
col suo magistero diede l’avvio alla setta degli «spirituali». La presenza valdesiana, e
quindi l’eredità alumbrada spagnola, rappresentano l’originalità più marcata della Riforma italiana. Ma ci furono anche casi inversi, poco approfonditi, di italiani che seminarono l’eresia in Spagna. Il più intrigante di tutti è senz’altro «il misterioso italiano Carlo de Seso»11, morto sul rogo nell’autodafé di Valladolid dell’ottobre 1559.
Questi si era trasferito in Spagna giovanissimo nel 1532, seguendo il vescovo di Calahorra Alfonso di Castiglia, di cui prese in sposa la nipote Isabella. Rientrato temporaneamente in Italia nel 1550, era entrato in contatto con il gruppo calvinista di
Francesco Negri a Verona e si era imbevuto di idee valdesiane. Al ritorno in Spagna
fu l’ispiratore del circolo protestante di Valladolid ed ebbe stretti contatti e dialoghi
in materia di fede con Bartolomé de Carranza, che conosceva dal 1545. La storiografia spagnola ha ignorato sinora le esatte origini di Carlo Sesso (questo il suo vero
nome), che non era veronese né legato alla potente famiglia milanese dei Trivulzio,
come ipotizzava Tellechea12, ma proveniva da una famiglia vicentina, i Sesso di Sandrigo, le cui vicende si intrecciano spesso in modo intrigante con la storia politicoreligiosa del Cinquecento, e un suo cugino, Oliviero, fu un collaboratore di Paolo
IV13.
Legate e intrecciate dunque indissolubilmente le origini della Riforma in Italia e in
Spagna, così come, non a caso, le vicende della loro repressione. E le vicende
dell’Inquisizione rappresentano un punto d’osservazione privilegiato per comprendere l’evoluzione delle relazioni tra la Santa Sede e la Spagna.
Sotto Carlo V l’Inquisizione spagnola era assai «decaduta» rispetto ai fasti di fine
Quattrocento e della prima decade del Cinquecento, quando la sua travolgente azione era stata fondamentale nel rafforzare il potere regio contro le resistenze delle famiglie conversas delle città della Castiglia. Già Filippo il Bello, figlio dell’imperatore
Massimiliano d’Asburgo e marito di Giovanna la Pazza, unica figlia dei Re Cattolici
(regina di Castiglia dal 1504) e padre di Carlo V, aveva manifestato un orientamento
anti-inquisitoriale, ma la sua prematura morte nel 1506 gli aveva impedito di tradurlo
Così ibid., p. 206.
Cfr. J.I. TELLECHEA IDÍGORAS, Don Carlos de Seso y el arzobispo Carranza. Un veronés introductor
del protestantismo en Espana in R. BELVEDERI (a cura di), Miscellanea Card. Giuseppe Siri, Genova
1973, pp. 63-124, J.I. TELLECHEA IDÍGORAS, Don Carlos de Seso. Bienes y biblioteca confiscados por
la Inquisicion (1559), «Revista Espanola de Teologia», 43, 1983, pp. 193-197 ; ID. Don Carlos de
Seso, luterano en Castilla, in Homenaje a Pedro Sáinz Rodríguez, vol. 1, Madrid 1986 , pp. 295-307.
L’ipotesi di Tellechea è ripresa nella recentissima voce di T. LOPEZ MUÑOZ, «Sesso, Carlo di»
in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. PROSPERI, vol. III, Pisa 2010, pp. 1416-1417.
13 Si rimanda alle indagini di Francesca Rizzo, concentratesi in particolare sugli affreschi della
cinquecentesca villa di famiglia (il cui committente fu il conte Silvio Sesso, fratello di Oliviero e
cugino di Carlo), nell’ambito della sua tesi di laurea specialistica, Villa Sesso Schiavo Nardone in
Sandrigo. Vicende di una famiglia vicentina e committenze artistiche, discussa il 12 novembre 2008 (a.a.
2007/2008) presso il Dipartimento di Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici
dell’Università Cà Foscari di Venezia.
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in atto e la follia di Giovanna consentì a Ferdinando d’Aragona di continuare a favorire l’Inquisizione spagnola fino alla sua morte, avvenuta nel 1516. Di lì a poco le
cose cambiarono radicalmente. Carlo V nominò inquisitore generale di Castiglia Adrian Florensz di Utrecht, un umanista erasmiano fiammingo che era stato suo precettore, e dopo l’elezione papale di questi (Adriano VI) lo sostituì con Alonso Manrique de Lara, altro erasmiano, che fu a capo dell’Inquisizione dal 1523 al 1538, e
non mancò di proteggere e favorire gli «spirituali» spagnoli (e italiani), a loro volta
attratti dal suo progetto politico.
Dagli anni quaranta, tuttavia, iniziò la scalata al potere di un personaggio che ebbe
un ruolo fondamentale nel trionfo dell’Inquisizione spagnola, Fernando de Valdés,
arcivescovo di Siviglia dal 1546 e inquisitore generale di Castiglia dal 1547.
I processi contro i protestanti di Siviglia e Valladolid (1557-59) rappresentarono un
punto di svolta fondamentale nella storia spagnola: sancirono il definitivo trionfo
dell’Inquisizione, dopo la sua «decadenza» sotto il regno di Carlo V (almeno fino agli
anni quaranta), un personaggio sempre combattuto tra l’anima «spirituale» e quella
«inquisitoriale» della Spagna. La partita decisiva si svolse negli anni tra il 1554 e il
1558 e fu uno scontro tra Bartolomé Carranza, arcivescovo di Toledo e primate di
Spagna, e Fernando de Valdés, e si concluse col trionfo di quest’ultimo e la disfatta
del Carranza, incarcerato e processato per eresia prima dall’Inquisizione spagnola
(1559-67) e poi da quella romana (1567-76). La «svolta» spagnola coincise con quella
romana: il papato di Paolo IV (1555-59) costituiva un punto di non ritorno e sanciva
il trionfo dell’Inquisizione e della Controriforma, a scapito del potente partito romano degli «spirituali» dei cardinali Pole, morto nel 1558, e Morone, arrestato e sottoposto a un estenuante processo inquisitoriale (1557-59).
Lo stesso papa Carafa pareva scorgere il radicale cambiamento dei tempi, e se ne
compiaceva, come confermano i brevi diretti a Filippo II e ai suoi ministri successivi
alla battaglia di San Quintino, che attestano l’approvazione papale della politica del
giovane re di Spagna14. Come afferma Achille Olivieri, commentando l’edizione dei
dispacci dell’ambasciatore veneziano presso Paolo IV, Bernardo Navagero, «un elemento emerge nella sua importanza dirompente, che aveva la possibilità di modificare l’assetto politico dell’Europa […] Si affaccia il pericolo che, dopo l’apparizione
dell’anglicanesimo in Inghilterra, anche il regno di Francia potesse distaccarsi dalla
Chiesa di Roma e fondare una dimensione religiosa autonoma […] Si forma una
propensione ad una propaganda sempre più a favore della Spagna mentre dei Francesi e del loro re si tende a porre in rilievo il carattere instabile»15.
Filippo II, il figlio dell’«imperatore eretico», diventava dunque l’eroe della Controriforma. La sua stessa educazione era stata molto diversa rispetto a quella del padre,
più rigida e meno umanistica, oltre che assai militaresca16: suo precettore non era
Cfr. J. I. TELLECHEA IDÍGORAS, El papado y Felipe II. Colección de breves pontificios, t. I, Madrid
1999, pp. XXV-XXXV; pp. 67 sgg., docc. XXXVIII, XXXIX,, XL, XLI, XLVI.
15 A. OLIVIERI, Prefazione: i dispacci e la istoria in D. SANTARELLI (a cura di), La corrispondenza di
Bernardo Navagero, ambasciatore veneziano a Roma (1555-1558). Dispacci al Senato, 7 settembre 1555–6
novembre 1557, Roma 2011 pp. 17-19: p. 18.
16 Cfr. I. CLOULAS, L’image de Charles Quint dans la formation de Philippe II in J. MARTÍNEZ
MILLÁN (a cura di), Carlos V y la quiebra del humanismo politico en Europa, vol. I, Madrid 2001, pp.
377-384.
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stato un umanista erasmiano come nel caso di Carlo V (al quale Erasmo stesso aveva
dedicato l’Institutio principis christiani), bensì l’intransigente Juan Martínez Siliceo (nominato cardinale da Paolo IV, che ne apprezzava molto la rigida ortodossia). A leggere le relazioni degli ambasciatori veneziani nel passaggio dagli ultimi anni di Carlo
V al regno di Filippo II si nota l’avvicendamento, tra i consiglieri politici, tra fiamminghi e spagnoli «umanisti» a spagnoli «intransigenti»17.
Insomma, il giovane Filippo risultava molto più adatto del padre per incarnare l’eroe
della Controriforma. E la decisiva alleanza tra il Papato e il potere politico permise
attraverso l’uso dello strumento inquisitoriale sul versante interno e della forza militare spagnola sul versante esterno di soddisfare un interesse che, per motivi diversi,
era reciproco. Il segreto del successo dell’Inquisizione consisteva, com’è stato finemente notato, nel saper coniugare senza ambiguità «deux des quatre sources du pouvoir de juger, les deux plus pures, les deux plus libres: l’absolutisme royal et la légitimité ecclésiastique du service de Dieu», cosa che la rendeva «le plus légitime de tous
les tribunaux» in quanto «expression suprême d’une alliance de l’Eglise et du Roi»18.
Certo, durante il papato di Pio IV de’ Medici di Melegnano (1559-1565), nemico
personale del suo predecessore e oltretutto tollerante nei confronti degli «spirituali»,
si ebbe un tentativo di contenere l’Inquisizione, anche se negli stessi anni i valdesi
furono massacrati in Piemonte e Calabria: il cardinal Giovanni Morone, processato e
incarcerato da Paolo IV, era scagionato ed inviato a dirigere le ultime sessioni del
concilio di Trento (1562-63). Ma con l’ascesa al trono pontificio di Michele Ghislieri,
papa Pio V (1566-1572), il trionfo dell’Inquisizione e della Controriforma giunse a
compimento insieme al matrimonio politico tra il Papato e la Spagna, con la disfatta
del partito curiale degli «spirituali» e l’affermazione finale degli «intransigenti».
Il risultato dell’alleanza tra il Papato e il potere politico fu sul piano religioso la «confessionalizzazione», su quello politico l’affermazione della monarchia assoluta e di
diritto divino. L’uscita dall’«incertezza» avveniva dunque attraverso la «fondazione»
di una nuova entità politica fondata sul potere del re e sull’autorità della Chiesa, sulla
«convenzione reale» e su quella «divina», una «monarchia assoluta» quasi perfetta che
accompagnò i destini dell’Europa sino alla sua dissoluzione politica e, soprattutto,
ideologica in epoca napoleonica19. Quello che accadeva in Spagna anticipava ciò che
sarebbe accaduto gradualmente in Francia alla conclusione dell’epoca tormentata
delle guerre di religione. Una svolta decisiva nella storia europea.
E si trattava di una costruzione politica ben diversa rispetto a quella prospettata dal
giovane Carlo V e dai suoi consiglieri umanisti, che assomigliava piuttosto a una «federazione» di Stati con privilegi ed autonomie molto forti, uniti nelle forza simbolica
di un monarca universale dal sapore antico o medievale.
Riflettere sull’evoluzione delle relazioni tra la Santa Sede e la Spagna nel Cinquecento, tenendo in particolare considerazione l’inquieta situazione politico-religiosa del
regno di Spagna e la lotta tra «spirituali» e «intransigenti» all’interno della curia romana (e presso la corte spagnola), appare fondamentale per penetrare in questo tornanCfr. D. SANTARELLI, Itinerari di ambasciatori veneziani alla corte di Carlo V in «Medioevo Adriatico», II, 2008, pp. 121-152.
18 J.-P. DEDIEU, L’administration de la foi. L’Inquisition de Tolède XVIe-XVIIIe siècle, Madrid 19922,
p. 64.
19 Cfr. ID., Après le roi: essai sur l'effondrement de la Monarchie Espagnole, Madrid 2010.
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te storico eccezionale e decisivo. Se ci concentriamo sugli attori del mondo politicoamministrativo spagnolo, notiamo che il nuovo orientamento della politica religiosa
spagnola si tradusse in un forte ricambio del personale politico-amministrativo e diplomatico. Tali avvicendamenti furono il segno e lo strumento della «svolta», così
come il campo di battaglia nel quale si affrontarono le opposte fazioni: gli studi effettuati sulle più alte cariche della Monarchia spagnola alla metà del XVI secolo20
hanno mostrato come la scelta delle diverse opzioni politiche si svolse attraverso
lotte tra fazioni fortemente personalizzate.
Quali furono le «manifestazioni» della «svolta»?
Innanzi tutto la spietata eliminazione di un forte gruppo di autorevoli prelati e la sostituzione complessiva di gruppi dirigenti che in Italia e in Spagna premevano per
una riconciliazione tra cattolici e protestanti e proponevano una concezione di ortodossia agli antipodi di quella affermatasi e a lungo ritenuta costitutiva dell’identità
italiana così come di quella spagnola.
Quindi la riorganizzazione complessiva della presenza spagnola nella penisola italiana: il rapporto con Roma, prima conflittuale, diveniva il perno del sistema delle relazioni internazionali dell’Europa della Controriforma.
Un altro aspetto finora non adeguatamente studiato è il cambiamento del personale
politico spagnolo adoperato in Italia: umanisti «erasmiani», spesso in odore di eresia,
e in relazione con gli esponenti più in vista del gruppo degli «spirituali», sono sostituiti con intransigenti e rigorosi sostenitori della Controriforma, cosa che costituisce
un importante riflesso del cambiamento radicale dei tempi. La parabola discendente
di un personaggio come Diego Hurtado de Mendoza appare paradigmatica21.
Sarebbe anche interessante valutare il livello di consapevolezza che i contemporanei
ebbero della «svolta», concentrandosi sulla «materialità» delle sostituzioni del personale politico-amministrativo e diplomatico, e cercando di contestualizzare la posizione di ciascun personaggio nella lotta ideologica in corso, nonché determinare attraverso lo studio dei processi di selezione le ragioni e l’orientamento dei ricambi.
Tutti questi fenomeni ci mostrano quanto sia stata contorta la via attraverso la quale
si sono affermati i mutamenti politico-istituzionali dell’età della Controriforma insieme alla ridefinizione del concetto di ortodossia nell’età tridentina e posttridentina: fu infine il figlio di un «imperatore eretico» che aveva fatto saccheggiare la
città del papa da un esercito di lanzichenecchi in larga misura «luterani», a imporre
con le armi la Controriforma nell’Europa cattolica, con l’appoggio di un alto clero
rinnovato dall’applicazione dei decreti tridentini, e depurato dalla sua componente
erasmiana e «spirituale».
Cfr. in particolare M. RIVERO, Felipe II y el Gobierno de Italia, Madrid 1998; A. ÁLVAREZOSSORIO ALVARIÑO, Milán y el legado de Felipe II, Madrid 2001.
21 Cfr. S. PASTORE, Una Spagna anti-papale: gli anni italiani di Diego Hurtado de Mendoza in «Roma
moderna e contemporanea», XV, 2007, pp. 63-94. Sul tema cfr. anche M. A. VISCEGLIA, Roma
papale e Spagna. Diplomatici, nobili e religiosi fra due corti, Roma 2010.
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Daniele Santarelli
Giuseppe Marcocci, L’invenzione di un impero. Politica e cultura nel mondo
portoghese (1450-1650), Roma, Carocci, 2011
Il presente lavoro di Marcocci affronta le vicissitudini di un piccolo regno periferico
che, trasformandosi radicalmente e progressivamente, fondò il primo impero coloniale d’età moderna. Impero che, nonostante il lento declino parallelo a quello della
vicina Spagna, fu anche l’ultimo a sgretolarsi, con la fine del regime salazarista nel
1974, che aveva riportato in auge grottesche pretese di grandezza che facevano riferimento a un passato molto lontano. L’idea “moderna” di Impero fu di fatto fondata
dai portoghesi, poi ripresa da altre monarchie. Nonostante ciò il Portogallo è rimasto
escluso da molti studi di storia comparata sull’idea di Impero, primo tra tutti quello
celeberrimo di A. Pagden. Marcocci, dunque, facendo costante riferimento alla storiografia classica e più recente e lamentando il ritardo e le lacune degli studi, si muove all’interno di un secolo e mezzo di storia lusitana, “che separa le prime razzie di
schiavi sulle coste atlantiche in Africa dall’approdo a una riflessione globale sui moderni imperi coloniali iberici nel pieno dell’età dell’unione dinastica fra Spagna e Portogallo” (p. 21). E nonostante le ammissioni, di fatto una captatio benevolentiae, delle
difficoltà di trattare di storia imperiale in cui incorre qualsiasi storico, di qualsivoglia
impero voglia trattare (p. 9), si districa brillantemente tra storia politica, sociale, religiosa ed economica. Marcocci divide il volume in tre parti, proponendo una periodizzazione della storia lusitana: 1) 1450-1540, periodo che corrisponde alla fase fondativa dell’Impero; 2) 1540-1570, periodo di riflessione sui suoi “caratteri”, con dibattiti appassionati sul diritto di guerra contro i non cristiani e sul commercio degli
schiavi; periodo anche di “confronto” non sempre cordiale con Roma, in cui si formò un gruppo omogeneo di teologi di corte (tra i quali spiccava Francisco de Vitoria) e si svilupparono censura e Inquisizione; 3) 1570-1600, periodo in cui la cultura
politica portoghese dovette affrontare con elasticità le sfide poste dall’evoluzione
degli imperi coloniali e particolarmente dell’Impero portoghese stesso che, in seguito
all’estinzione della dinastia degli Avis, si accorpò alla Spagna; molto spazio è dato, in
questa parte del libro, all’attività dei missionari e al loro rapporto con gli indios.
Il risultato, nonostante il libro sia poco voluminoso, è un ritratto à part entière
dell’impero portoghese nella prima età moderna, un viaggio tra esploratori e conquistatori, politici ed ecclesiastici, umanisti e giuristi che contribuirono alla formazione
dell’impero e al dibattito sulla sua idea. Una sintesi ben fatta, insomma, che fornisce
molti spunti per ricerche puntuali su aspetti specifici trattati nei capitoli del libro oppure fare da base a una ricostruzione più ampia e più ambiziosa della grande epopea
del piccolo impero lusitano.
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