INDICE pag. 4 1. La successione delle leggi penali e i principi costituzionali 7 12 16 INTRODUZIONE CAPITOLO I LA SUCCESSIONE DELLE LEGGI PENALI NEL TEMPO 1.1 L’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. 2. Il principio di retroattività della legge più favorevole 2.1 Il principio di retroattività della legge più favorevole alla luce del diritto internazionale e comunitario 22 2.2 La legge intermedia 24 2.3 Il tempo del commesso reato 26 3. Abolitio criminis 29 3.1 Abolitio criminis totale 30 3.2 Abolitio criminis parziale 32 3.3 Abolitio criminis e cause di giustificazione 34 3.4 Abolizione o modificazione del reato? 36 47 4. Le novità introdotte dalla legge n. 85 del 2006 52 5. Le leggi eccezionali e temporanee 54 6. Il decreto legge non convertito o convertito con emendamenti 57 3.5 La depenalizzazione 7. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice 1
60 CAPITOLO II LA SUCCESSIONE DI NORME INTEGRATRICI 1. Premessa 65 2. Integrazione reale o apparente 67 2.1 Integrazione normativa 67 2.2 Esempi di integrazione della legge penale 69 2.2.1 Gli elementi normativi della fattispecie 69 2.2.2 Le norme penali in bianco 74 2.2.3 Le definizioni legali o norme definitorie 77 80 3.1 La successione di norme integratrici e abolitio criminis 82 3.2 La successione di norme realmente integratrici 83 3.2.1 Abolitio criminis e le norme penali in bianco 83 3.2.2 Abolitio criminis e le norme definitorie 86 88 88 92 3. La successione di norme integratrici 3.3 La successione di norme apparentemente integratrici 3.3.1 Abolitio criminis e gli elementi normativi 4. La soluzione nella giurisprudenza CAPITOLO III LA NOZIONE DI “PICCOLO IMPRENDITORE” 1. Cenni introduttivi 103 2. L’originario art. 1 L.fall. 109 3. La nuova formulazione introdotta dal D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5 112 4. Il decreto correttivo del 2007 119 5. I problemi di diritto intertemporale e gli orientamenti della 2
giurisprudenza 125 6. La sentenza delle Sezioni Unite Niccoli 130 7. La giurisprudenza successiva 133 136 2. Le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale 138 2.1 La sentenza dichiarativa di fallimento 138 2.2 L’efficacia nel procedimento penale della sentenza dichiarativa di CAPITOLO IV CRITICHE ALLA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE NICCOLI 1. I punti critici della sentenza Niccoli fallimento 143 148 3. La questione irrisolta: la successione “mediata” 156 158 2.3 Il potere del giudice penale 3.1 Bancarotta individuale ed il soggetto attivo del reato 4. Gli strumenti di difesa per l’imprenditore 160 CONCLUSIONI 164 171 BIBLIOGRAFIA 3
INTRODUZIONE L’art. 1 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, c.d. legge fallimentare, disciplina i presupposti soggettivi necessari per l’applicazione della disciplina del fallimento e del concordato preventivo. La disposizione ha subito delle rilevanti modifiche con le riforme degli anni 2005-­‐‑2007. In particolare, mediante il D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5, con cui si è data attuazione alla legge delega del 14 maggio 2005 n. 80 (a sua volta di conversione del D.L. n. 35/2005), il legislatore ha cercato di realizzare una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nella legge fallimentare. Tale riforma intendeva garantire una gestione rapida ed efficiente della crisi d’impresa, incentivando l’emersione precoce della crisi stessa ed offrendo procedure alternative per la risoluzione preventiva e stragiudiziale. Per quanto ci interessa, il citato D.Lvo aveva provveduto a rivisitare i requisiti soggettivi di fallibilità con una formulazione che, tuttavia, aveva comportato una drastica riduzione delle procedure aperte, forse al di là delle previsioni del legislatore stesso. In realtà tutta la disciplina introdotta dalla normativa de qua, già nei primi mesi di applicazione, fu fortemente criticata soprattutto per la sua esposizione a profili di incompatibilità con il dettato costituzionale che ebbe come conseguenza la necessità di un decreto correttivo (il D.Lvo 12 settembre 2007 n. 169) che intervenne nuovamente sull’art. 1 L.fall. Viene così riscritta la disposizione in parola, abolendo ogni riferimento alla nozione di “piccolo imprenditore”, fissando determinati parametri dimensionali per l’esclusione del fallimento e prevedendo espressamente che l’onere della prova della mancanza dei requisiti di fallibilità gravi sul fallendo. 4
Tale novazione legislativa ha comportato problemi di diritto intertemporale in relazione alle fattispecie penali di bancarotta individuale disciplinate dagli artt. 216 e 217 L.fall. Nello specifico, ci si chiedeva se si fosse determinato un fenomeno di successione di norme integratrici con la conseguente abolitio criminis parziale ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., in relazione ai reati di bancarotta accertati in seguito all’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006. La questione si poneva con riguardo a quei casi in cui, dopo la riforma, il soggetto attivo del reato avrebbe rivestito la qualità di piccolo imprenditore. Sul punto, a seguito di un’ordinanza di rimessione per la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale in seno alla V Sezione, sono intervenute le Sezioni Unite con una pronuncia a dir poco discutibile1. Tale sentenza, lungi dall’aver risolto definitivamente la questione posta all’attenzione del Supremo Collegio, offre lo spunto per una serie di rilievi critici. Due sono i punti che verranno trattati nell’elaborato: la successione delle norme integratrici (c.d. successione mediata) come conseguenza della modifica dei requisiti soggettivi di cui all’art. 1 L.fall. e le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale. Quindi, partendo da una prima parte in cui verrà ampiamente trattato il tema della successione delle leggi penali nel tempo, ci si soffermerà specificamente sulla successione delle disposizioni integratrici, giungendo poi al cuore della trattazione, ossia alla modifica della nozione di “piccolo imprenditore” analizzando la sentenza delle Sezioni Unite n. 19601 del 2008. Nel capitolo conclusivo, si criticherà l’interpretazione fornita dagli Ermellini con la quale sembra essersi riacceso il dibattito sulla vincolatività 1
Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, in Guida al dir., 2008, 26, p. 88. 5
dell’accertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice fallimentare agli effetti della legge penale. Tema tutt’altro che superato nella prassi in cui un problema di riparto di ruoli e competenze tra la giurisdizione penale e quella fallimentare rischia di amplificare le possibili disarmonie di disciplina e, dunque, di esiti applicativi. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite comporta il rischio che si verifichino soluzioni divergenti, da un lato, in ordine alla fallibilità e, dall’altro, in ordine al possesso della qualifica di imprenditore e, perciò, della reità. Per tale ragione la ricerca si prefigge di trovare quali siano gli strumenti di difesa a disposizione di un soggetto chiamato a rispondere dei reati di bancarotta propria (fraudolenta o semplice) poiché dichiarato fallito dal giudice civile in quanto “imprenditore”. 6
CAPITOLO I LA SUCCESSIONE DELLE LEGGI PENALI NEL TEMPO SOMMARIO: 1. La successione delle leggi penali e i principi costituzionali – 1.1 L’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. – 2. Il principio di retroattività della legge più favorevole – 2.1 Il principio di retroattività della legge più favorevole alla luce del diritto internazionale e comunitario – 2.2 La legge intermedia – 2.3 Il tempo del commesso reato – 3. Abolitio criminis – 3.1 Abolitio criminis totale – 3.2 Abolitio criminis parziale – 3.3 Abolitio criminis e cause di giustificazione – 3.4 Abolizione o modificazione del reato? – 3.5 La depenalizzazione – 4. Le novità introdotte dalla legge n. 85 del 2006 – 5. Le leggi eccezionali e temporanee – 6. Il decreto legge non convertito o convertito con emendamenti – 7. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice 1. LA SUCCESSIONE DELLE LEGGI PENALI E I PRINCIPI COSTITUZIONALI Nel diritto penale la disciplina della successione delle leggi nel tempo presenta dei profili peculiari rispetto agli altri rami dell’ordinamento giuridico. Infatti, in un sistema in cui dall’applicazione dell’una o di un’altra norma in successione temporale dipende la rilevanza penale del fatto e, perciò, la libertà personale dell’uomo2, le regole di diritto intertemporale assumono un ruolo centrale, tale da caratterizzare persino il modello di diritto penale accolto dallo Stato3. In via generale è l’art. 11 disp. prel. c.c. a disciplinare l’efficacia della legge nel tempo sancendo il principio di irretroattività4. Soltanto per le leggi penali tale principio (detto anche divieto di retroattività) è sancito al più alto livello della gerarchia delle fonti nell’art. 25 In quanto destinatario della pena. GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008, p. 117. 4 L’art. 11 disp. prel. c.c., comma 1, testualmente prevede: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». 2
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comma 2 Cost., quale aspetto del principio di legalità: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»5. Il divieto di retroattività inderogabile da parte del legislatore ordinario6, è previsto altresì dal codice penale al primo comma dell’art. 2: «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituisce reato». Pertanto, l’art. 25 comma 2 Cost. vieta al legislatore di attribuire efficacia retroattiva ad una legge che contenga una nuova disposizione, mentre l’art. 2 comma 1 c.p. vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge di tale contenuto7. Il divieto in parola riguarda: da un lato, la punizione di fatti che al tempo della loro commissione non integravano nessuna figura di reato (nuova incriminazione); dall’altro, la punizione più severa di fatti che già in precedenza costituivano reato (norma aggravatrice)8. La ratio ispiratrice del principio di irretroattività si ravvisa nell’esigenza di garantire la libertà personale del cittadino, cioè di assicurargli di non essere punito (o punito più severamente) a causa di una norma che non esisteva nel momento in cui ha commesso il fatto e della quale non poteva essere a conoscenza9. Merita notare che diversa è l’ipotesi in cui vi sia un mutamento della giurisprudenza contra reum. GAMBARDELLA, Sub Art. 2, in LATTANZI, LUPO (a cura di), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. I, Milano, 2010, p. 137. 6 In questi termini MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, p. 78; DOLCINI, MARINUCCI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 253. In giurisprudenza cfr. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, con nota di MARINUCCI, in Giur. cost., 2006, 6, p. 4160; di GAMBARDELLA, in Cass. pen., 2007, p. 449; di LA ROSA, in Dir. pen. e proc., 2007, p. 324. 7 DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed., Milano, 2012, p. 95. 8 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 137. 9 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VI ed., Bologna, 2010, p. 85; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 2004, p. 46. 5
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A proposito la migliore dottrina afferma che l’improvviso revirement giurisprudenziale non contrasterebbe con il principio di irretroattività ma potrebbe comportare il riconoscimento di un errore scusabile sul precetto ai sensi dell’art. 5 c.p., secondo i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza n. 364 del 198810. Al contrario la Corte di Strasburgo ha evidenziato che poiché nell’art. 7, n. 1, della CEDU11, viene consacrato il principio di previsione legale dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), ci si può opporre all’applicazione retroattiva di un’interpretazione nuova di una norma che descriva un’infrazione. Tale ipotesi avviene, in particolare, nel caso in cui si tratti di un’esegesi il cui risultato non fosse ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l’infrazione fosse stata commessa alla luce, soprattutto, dell’orientamento giurisprudenziale vigente all’epoca in ordine alla disposizione legale in questione12. Se viceversa i mutamenti di giurisprudenza sono favorevoli al reo, allora si ritiene ammissibile la riproposizione in sede esecutiva della richiesta di applicazione dell’indulto, rigettata in precedenza alla luce di un’interpretazione poi superata da una decisione delle Sezioni Unite13. Ancora con riguardo ai mutamenti di giurisprudenza in bonam partem, non si può fare a meno di ricordare una recentissima sentenza della Corte costituzionale in cui si è affermato che «la Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi Cfr. Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364, con nota di PULITANÒ, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p. 686. 11 Si ricorda che la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950. 12 In tal senso CEDU, 8 febbraio 2007, C-­‐‑3/06, in www.eur-­‐‑lex.europa.eu; CEDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, in Dejure; CEDU, 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna, in www.eur-­‐‑lex.europa.eu. 13 Cass. pen., sez. un., 21 gennaio 2010, Beschi, in D&G, 2010. 10
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[…] solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore. È, peraltro, da escludere – contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo – che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza “convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem». Pertanto, il Giudice delle leggi conclude che «la stessa Corte di Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in termini generali, come, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento non possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata: infatti, «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento)»14. Nel giudizio a quo il Tribunale di Torino aveva sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale, in riferimento a più parametri, l’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna passata in Così Corte cost., 12 ottobre 2012, n. 230, in D&G, 2012. 14
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giudicato (e delle pronunce ad essa assimilate) anche nel caso di un mutamento giurisprudenziale15, determinato da una decisione delle Sezioni Unite, in base al quale il fatto già giudicato non è previsto dalla legge come reato16. Tornando alla ratio del divieto in parola, esso è imposto anche da altri principi che fondano il nostro sistema penale17. In primo luogo, dal principio costituzionale di colpevolezza, in quanto la conoscibilità della norma penale violata presuppone logicamente l’esistenza e la vigenza della norma stessa nell’ordinamento giuridico: infatti, è proprio la possibilità di conoscere le norme penali a garantire l’affidamento dell’individuo circa la «sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione»18. In secondo luogo, l’applicazione retroattiva delle norme incriminatrici è incompatibile con la legittimazione della pena in chiave di prevenzione generale: in particolare, affinchè la minaccia della pena possa rappresentare uno strumento di prevenzione generale dissuadendo i possibili destinatari dal Il mutamento giurisprudenziale che veniva in rilievo nella fattispecie concreta riguardava la sfera soggettiva di applicabilità della contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identità e di soggiorno da parte dello straniero delineata dall’art. 6 comma 3 del T.U.Imm. A seguito della riscrittura della norma incriminatrice ad opera della legge del 15 luglio 2009 n. 94, era sorto il problema della perdurante riferibilità del paradigma punitivo agli stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato: interrogativo al quale la Corte di cassazione, con una terna di decisioni della prima sezione aveva inizialmente risposto in senso affermativo. Successivamente la tesi era stata sconfessata dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 27 aprile 2011, n. 16543), le quali avevano ritenuto che la previsione punitiva si rivolgesse attualmente soltanto agli stranieri regolarmente soggiornanti: secondo il Supremo Collegio, in tale prospettiva la novella del 2009 avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, rilevante agli effetti dell’art. 2 comma 2 c.p., abrogando la fattispecie contravvenzionale preesistente nella parte in cui si prestava a colpire anche gli stranieri irregolari. 16 NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont., 2012, 3-­‐‑4, p. 164. 17 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 120. 18 Cfr. Corte cost. 23 marzo 1988, n. 364, cit.; Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. In dottrina si veda BETTIOL, Diritto penale (Parte generale), V ed., Palermo, 1962, p. 127; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 255; DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 95; PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, II ed., Torino, 2008, p. 146. 15
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compimento di una determinata condotta, è logicamente necessario che quella minaccia preesista alla condotta stessa19. Inoltre, come vedremo più dettagliatamente, alla regola della retroattività della legge più favorevole al reo si attribuisce un fondamento costituzionale, pur se “indiretto”, nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., il quale in linea generale impone di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice20. 1.1 L’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. L’art. 2 c.p. non si applica alle leggi processuali penali21 per le quali vige il diverso principio del tempus regit actum di cui al già citato art. 11 disp. prel. c.c. Pertanto gli atti processuali già compiuti conservano validità anche sotto l’impero della legge successiva (irretroattività della legge processuale), mentre gli atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla nuova legge processuale anche se collegati ad atti compiuti in precedenza22. È controversa l’applicazione al caso concreto del principio in parola, sia in quanto la nuova legge processuale interviene su situazioni necessariamente in In tal senso Corte cost., 8 novembre 2006, n. 394, cit. Ancora Corte cost., 8 novembre 2006, n. 394, cit. Si veda altresì FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 76; VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, p. 377. 21 Le quali si individuano con riguardo al contenuto della materia disciplinata e allo scopo, cui la regola giuridica appare orientata: così CRISTIANI, voce Legge processuale penale, in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990, p. 2. Per un esame approfondito della questione si veda MAZZA, La norma processuale nel tempo, Milano, 1999. 22 In tal senso Cass. pen., 4 marzo 1996, Trovato, in Cass. pen., 1997, p. 136. In dottrina cfr. DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 100. 19
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itinere, sia per l’imprecisione e/o l’incompletezza delle disposizioni transitorie di volta in volta dettate dal legislatore23. Secondo la giurisprudenza il principio de quo non si applica all’interpretazione giurisprudenziale delle norme processuali penali: invero in presenza di una successione di interpretazioni difformi di tali norme, in sede di legittimità il provvedimento assunto alla luce di un orientamento non più condiviso non si può considerare legittimo alla stregua di tale principio24. In caso di successione di norme in materia di competenza si applica il principio del tempus regit actum, salvo il limite che deriva dal diverso principio della perpetuatio iurisdictionis qualora il provvedimento sia già pervenuto alla fase dibattimentale25. Diversa sarà, viceversa, l’ipotesi in cui la competenza per un determinato reato muta a seguito di una modifica della norma penale sostanziale: ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p. lo spostamento della competenza – fermo il limite della perpetuatio iurisdictionis – si verificherà in coincidenza con l’eventuale applicazione della nuova disposizione sostanziale, in quanto più favorevole al reo, rispetto a quella vigente al momento del fatto, e sarà precluso dal divieto di applicazione retroattiva di una disposizione meno favorevole26. Si evidenzia altresì che secondo la Suprema Corte non sono leggi penali sostanziali le norme che disciplinano l’esecuzione della pena e le condizioni di applicazione di misure alternative alla detenzione e per tale ragione non sono soggette al principio di irretroattività bensì a quello del tempus regit actum27. DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, Codice penale commentato, Milano, 2011, p. 71. Cfr. ex multis Cass. pen., sez. II, 6 maggio 2010, Merlo, in CED, 247114; Cass. pen., sez. II, 26 maggio 2008, Sorce e altri, in Cass. pen., 2009, p. 1947. 25 In tal senso Cass. pen., sez. un., 17 gennaio 2006, Timofte, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 328; Cass. pen., sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3613, in Giur. it., 2007, p. 440. 26 Cass. pen., sez. II, 12 gennaio 2000, Castellazzi, in CED, 215362; Cass. pen., sez. II, 12 febbraio 1997, Noschese, in CED, 207181; Cass. pen., sez. II, 5 febbraio 1997, Tralucco, in CED, 206972. 27 Cfr. Cass. pen., sez. un., 30 maggio 2006, n. 24561, in Cass. pen., 2006, p. 3963. 23
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Controversa è, invece, la natura sostanziale o processuale delle norme che prevedono le condizioni di procedibilità. L’orientamento dominante, considerato lo stretto legame che intercorre tra le suddette e gli istituti che incidono sulla punibilità, predilige l’applicazione dell’art. 2 comma 4 c.p. anche nei casi di modificazione del regime di procedibilità di un determinato reato. Quindi, la nuova disciplina sarà immediatamente applicabile soltanto se più favorevole all’imputato restando preclusa la retroattività dell’eventuale modifica in senso sfavorevole28. Circa le cause di estinzione del reato, sembra che si possa adottare la medesima soluzione indicata per le condizioni di procedibilità, trattandosi di istituti di carattere sostanziale29. Si sottolinea che con specifico riguardo alla prescrizione, alcuni autori affermano che sia applicabile retroattivamente l’allungamento dei termini di prescrizione nel caso in cui quest’ultima non sia ancora maturata e, quindi, la pretesa punitiva dello Stato non si sia già definitivamente estinta: si salvaguarderebbe in tal modo l’esigenza di consentire l’acquisizione di elementi di prova in materie particolarmente complesse che costituisce la ratio del mutamento della disciplina30. Rientrano nel campo di applicazione dell’art. 2 c.p. anche le modifiche dei criteri di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 c.p., in tutti i casi in cui gli effetti della riforma si producano su di un istituto di Cass. pen., sez. III, 27 maggio 2009, D., in CED, 244086; Cass. pen., sez. II, 24 settembre 2008, Calabrò e altri, in CED, 241862. In dottrina si veda FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 86; ROMANO, Commentario, cit., p. 69. Nel senso dell’applicazione del principio tempus regit actum MAZZA, La norma processuale, cit., p. 185; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. II, 23 ottobre 2000, in Dir. pen. e proc., 2002, p. 221. 29 ROMANO, Commentario, cit., p. 68; MAZZA, La norma processuale, cit., p. 191. In giurisprudenza tra le tante si veda Cass. pen., sez. III, 6 marzo 2008, Brignoli, in CED, 239868; Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2007, Venturi, in CED, 237457. 30 Si veda per tutti DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 263. Si richiama l’attenzione sulla recente sentenza della Corte Costituzionale (22 luglio 2011, n. 236, in Giur. cost., 2011, 4, p. 3021) in tema di limiti all’efficacia retroattiva della più favorevole disciplina della prescrizione introdotta dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251. 28
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diritto sostanziale dovendosi altrimenti applicare la disciplina degli istituti di natura processuale31. Parte della dottrina evidenzia che in tal caso considerando che il richiamo, espresso o implicito all’art. 135 c.p. – presente nelle disposizioni del codice penale, del codice di procedura penale e delle leggi speciali – è sempre finalizzato alla determinazione dell’entità della pena, il mutamento del criterio di ragguaglio dovrebbe sempre essere ricondotto all’art. 2 c.p. e, soprattutto, al comma 4 che sancisce l’applicabilità retroattiva della nuova disciplina soltanto se più favorevole al reo rispetto a quella vigente nel momento in cui il fatto è stato commesso32. Al di fuori dell’operatività dell’art. 2 c.p. sono ritenute, viceversa, le misure di sicurezza, le quali sarebbero applicabili retroattivamente a reati commessi quando la misura non era ancora legislativamente prevista ovvero era diversamente disciplinata33. Invero, l’art. 25 comma 3 Cost. si limita soltanto a sottoporre le misure di sicurezza a riserva di legge; inoltre, l’art. 200 comma 1 c.p., derogando alla disciplina dettata dall’art. 2 c.p., esclude l’applicazione di una misura di sicurezza ai fatti che al momento della loro commissione non costituivano reato o quasi-­‐‑reato34. Cass. pen., sez. un., 27 settembre 1995, Siciliano, in Foro it., 1996, II, p. 65; in seguito alla modifica dell’art. 135 c.p. apportata dalla legge n. 94/2009 si veda Cass. pen., sez. I, 14 gennaio, 2010, n. 10966, in CED, 246335. 32 Nei seguenti termini ROMANO, Commentario, III, cit., p. 329 33 Cass. pen., sez. I, 1 marzo 2006, Colombari, in Cass. pen., 2007, 5, p. 2063 34 Secondo DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 260, l’art. 200 c.p. disciplinerebbe esclusivamente la successione di leggi relative alle modalità concrete di esecuzione della misura di sicurezza, restando quindi impregiudicata l’applicabilità dell’art. 2 c.p. alla successione di leggi che prevedano i presupposti, il tipo e la durata delle misure di sicurezza. Inoltre i medesimi Autori di recente hanno evidenziato che da tale interpretazione dell’art. 200 c.p. ne discendono due corollari: 1) non può essere applicata una misura di sicurezza a chi abbia commesso un fatto che, al momento della sua realizzazione, non era preveduto dalla legge come reato; 2) una misura di sicurezza prevista da una legge posteriore non può trovare applicazione nel caso in cui la legge del tempo in cui il soggetto ha agito configurasse il fatto come reato, ma non prevedesse l’applicabilità di quella misura (così DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, 31
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2. IL PRINCIPIO DI RETROATTIVITA'ʹ DELLA LEGGE PIU'ʹ FAVOREVOLE Il principio di retroattività della legge penale favorevole (c.d. retroattività in bonam partem, o della lex mitior) è oggi stabilito dai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 2 c.p. Come si vedrà più nel dettaglio, nel caso di abolitio criminis (comma 2) la retroattività della legge più favorevole al reo travolge anche l’eventuale giudicato; nel caso in cui, al contrario, la sanzione penale sia mantenuta, pur essendo stata resa più mite, la retroattività trova un limite insuperabile nel giudicato35. cit., p. 97). Sulla confisca si veda Corte cost., 4 giugno 2010, n. 196, in cui si è chiarito che «la pressoché unanime giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’ipotesi di confisca obbligatoria prevista dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada (nel testo novellato dall’art. 4, comma 1, lettera b, del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 2008) si applica anche alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della novella (in tal senso, Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 4 giugno 2009, n. 32932; sentenza 3 aprile 2009, n. 38179; sentenza 27 gennaio 2009, n. 9986). È rimasta, dunque, del tutto isolata la decisione della stessa Corte secondo cui il «richiamo all’art. 240, secondo comma, cod. pen.» (contenuto nel testo dell’art. 186, comma 2, lettera c, del codice della strada) avrebbe «solo l’intento di rimarcare l’obbligatorietà della confisca e non quello di affermare che il caso disciplinato rientri tra quelli che detta disposizione contempla», ciò che renderebbe, pertanto, «non estensibile» alla misura qui in esame «la regola dettata dall’art. 200 cod. pen.», vale a dire quella dell’applicazione retroattiva della misura di sicurezza (così sezione IV penale, sentenza 29 aprile 2009, n. 32916). In queste condizioni, pertanto, è preclusa a questa Corte la possibilità di una soluzione del tipo di quella che è stata proposta, di recente, con riferimento ad analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto – ancora in relazione all’art. 7 della CEDU – la cosiddetta “confisca per equivalente”, ex art. 322-­‐‑ter del codice penale. È stata, infatti, proprio la constatazione di quanto «affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce» ad aver permesso a questa Corte di riconoscere a tale ipotesi di confisca «una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 cod. pen.». Su tali basi questa Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza, per erroneità del presupposto interpretativo, della questione allora sollevata (ordinanza n. 97 del 2009)». 35 Si veda PALAZZO, Correnti superficiali e correnti profonde nel mare delle attualità penalistiche (a proposito della retroattività favorevole), in Dir. pen. e proc., 2012, 10, p. 1173, in cui viene messo in forse lo stesso limite del giudicato almeno quando si tratta di modifiche di trattamento che incidono sugli aspetti più importanti della situazione personale del reo, come la libertà. 16
Tuttavia, vi sono delle ipotesi in cui il legislatore decide di regolamentare in modo specifico il regime transitorio – derogando, quindi, ai commi citati dell’art. 2 c.p. – per mantenere inalterata la soglia di punibilità al livello massimo anche per le condotte realizzate prima della modifica normativa36. Tale possibilità è pacifica in quanto, come già evidenziato, il principio di retroattività della disposizione più favorevole non ha fatto esplicito ingresso nella Carta costituzionale, non essendo stata accolta l’iniziale proposta avanzata in seno all’Assemblea Costituente37. Il non aver attribuito espressamente rango costituzionale al principio in parola ha determinato la creazione di due indirizzi distinti in relazione all’individuazione del parametro–fonte38. Secondo una prima impostazione la retroattività in bonam partem deriverebbe dal favor libertatis, individuato come cardine del principio di stretta legalità di cui all’art. 25 comma 2 Cost.: cioè discenderebbe da una ratio di natura sistematica, poiché sottesa alla complessiva trama dei vincoli che presidiano le relazioni tra autorità ed individuo39. Pertanto l’attribuzione di rango costituzionale al principio – dal quale scaturirebbe l’obbligo di privilegiare il diritto più mite vigente al tempo del giudizio rispetto alla disciplina più severa esistente al momento del fatto – non può che ripercuotersi in una conclusione segnata da logica consequenzialità40. DELLI PRISCOLI, FIORENTIN, La Corte costituzionale e il principio di retroattività della legge più favorevole al reo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 3, p. 1180. 37 Sui lavori preparatori si veda Corte Cost., 31 maggio 1990, n. 277, in Giur cost., 1990, p. 1673. 38 Cfr. MAIELLO, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente giurisprudenza comunitaria e costituzionale italiana, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 4, p. 1614. 39 PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, p. 116. 40 Così MICHELETTI, Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2006, p. 273. 36
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Una seconda tesi, invece, richiama la garanzia costituzionale facendo rientrare il principio in esame all’interno dell’art. 3 Cost., ossia nel principio di eguaglianza41. Si sostiene, infatti, che questa disposizione, vietando ogni forma di “irragionevole” discriminazione tra situazioni omogenee, non può che ricomprendere anche la retroattività della legge penale più favorevole, asseverandone la caratteristica efficacia vincolante nei confronti del legislatore ordinario42. Occorre quindi salvaguardare l’esigenza della parità di trattamento tra fatti dello stesso tipo realizzati prima o dopo l’entrata in vigore della nuova norma più favorevole: diversamente si punirebbe, oppure si punirebbe più severamente, una persona per un fatto che chiunque altro, dopo l’entrata in vigore della nuova legge, può commettere impunemente o con conseguenze più miti43. Il canone della ragionevolezza è stato utilizzato, ad esempio, dalla Corte Costituzionale con riferimento alla valutazione di costituzionalità di una deroga ad una lex mitior emanata in materia di prescrizione44. Con la celebre sentenza n. 393 del 200645 il Giudice delle leggi ha affermato che, nonostante l’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli al reo non abbia valore costituzionale, la sua deroga sarebbe, tuttavia, possibile soltanto se essa superasse un vaglio positivo di ragionevolezza, in quanto volta a tutelare interessi di analoga o superiore In tal senso VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, p. 388. Sostengono la medesima posizione fra i tanti anche DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 268; PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 160. Riconducono la garanzia ad entrambe le ratio prospettate, rispettivamente quella della ragionevolezza ex art. 3 Cost. e quella del favor libertatis, FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 92. 42 VASSALLI, Abolitio criminis, cit., p. 713; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, loc. cit. 43 DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 102. 44 DELLI PRISCOLI, FIORENTIN, La Corte costituzionale, cit., p. 1182. 45 In cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 della legge n. 251/2005, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonchè». 41
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importanza rispetto a quelli soddisfatti dalla prescrizione (efficienza del processo, salvaguardia dei diritti soggettivi destinatari della funzione giurisdizionale), o comunque afferenti a beni dell’intera collettività correlati a valori costituzionali46. La Consulta ha pertanto ritenuto che la scelta di escludere l’applicazione retroattiva della norma sulla riduzione dei termini di prescrizione del reato ai processi pendenti in primo grado alla data della sua entrata in vigore, ove sia intervenuta l’apertura del dibattimento, non assolvesse al predetto canone di ragionevolezza, in quanto la norma censurata individuava il discrimine fra i processi di primo grado soggetti ai nuovi termini di prescrizione (più brevi) e quelli nei quali continuano ad applicarsi i termini vecchi (più lunghi) in un adempimento processuale (ossia la dichiarazione di apertura del dibattimento), il quale nel complesso della disciplina del processo di primo grado, non è indefettibile, ne è incluso tra gli atti considerati rilevanti dall’art. 160 c.p. ai fini dell’interruzione della prescrizione47. Con tale pronuncia si chiarisce quindi, per la prima volta, che «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole»48. È evidente come la decisione segni un mutamento di rotta importante nell’aver adottato un dispositivo di accoglimento che amplia la sfera di efficacia retroattiva di una lex mitior. Tuttavia, non si raggiunge il grado di chiarezza e di precisa individuazione del parametro–fonte che caratterizza, viceversa, la sentenza n. Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 393, in Riv. pen., 2007, 2, p. 145. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 393, loc. cit. 48 Testualmente Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 393, cit. 46
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39449, a cui va attribuito il merito di aver consacrato, espressamente, il fondamento costituzionale del principio individuandolo nella uguaglianza–
ragionevolezza concepita quale direttiva suprema dei pubblici poteri50. In particolare la Consulta in quest’ultima decisione, nell’ammettere il controllo di costituzionalità in malam partem sulle norme penali di favore, ha dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., una disposizione incriminatriche che stabiliva un trattamento penale migliorativo51. In linea con il suo costante orientamento, la Corte ha innanzitutto escluso che il principio di retroattività della lex mitior sia stato costituzionalizzato dall’art. 25 comma 2 Cost., ma ha riconosciuto il principio costituzionale di eguaglianza come suo fondamento e, allo stesso tempo, come suo limite52. Infatti la ratio del principio di cui all’art. 3 Cost. rende irragionevole l’applicazione di una sanzione penale ad un fatto che, successivamente, il legislatore non reputa più reato (avendo valutato diversamente il suo disvalore sociale) oppure sanziona con una pena più lieve (rispecchiando un nuovo giudizio in ordine alla sua gravità)53. Circa il limite che il principio di uguaglianza–ragionevolezza pone alla portata della disciplina più favorevole, esso si sostanzia sotto un duplice profilo. Da un lato, in relazione alle deroghe ragionevoli che possono essere apportate dal legislatore, come quelle che il nostro codice penale introduce per le leggi eccezionali e temporanee ai sensi dell’art. 2 comma 5 c.p.54. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit., p. 4160. In tal senso MAIELLO, Il rango della retroattività della lex mitior, cit., p. 1617. 51 Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, con nota di MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le «zone franche», in Giur. cost., 2006, 6, p. 4160; di GAMBARDELLA, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cass. pen., 2007, 2, p. 467. 52 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 267. 53 MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale, cit., p. 4162. 54 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 283. 49
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Dall’altro, la Consulta afferma che la nuova valutazione del disvalore del fatto può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole solamente nel caso in cui il nuovo apprezzamento non contrasti con i precetti della Costituzione. Pertanto, una volta dichiarata incostituzionale, la norma penale di favore sarà inapplicabile ai fatti pregressi55. In una successiva pronuncia56 si ritrova una diversa impostazione sulla questione della costituzionalizzazione della retroattività in bonam partem. Secondo quest’ultima posizione, a fondamento del principio di retroattività della norma più favorevole al reo non c’è né la garanzia del favor libertatis – la quale assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello vigente al momento del fatto e quello previsto dalle leggi successive – né il principio di uguaglianza inteso come canone volto ad evitare ingiustificate ed irragionevoli disparità di trattamento57, ma si ritrova la ragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore. In altri termini, in presenza di più principi o interessi di rilevanza costituzionale coinvolti nella questione, è necessario che il legislatore operi un bilanciamento ragionevole tra di essi, dal momento che, nonostante siano principi o interessi riconosciuti a livello costituzionale, nel caso di specie essi non appaiono suscettibili di essere congiuntamente realizzati58. Questo sindacato di ragionevolezza in senso stretto sembra essere sganciato dal parametro di cui all’art. 3 Cost., poiché mira a cogliere le «oggettive irrazionalità delle leggi»: è un’irragionevolezza intrinseca della scelta Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. Corte Cost., 18 giugno 2008, n. 215, in Giur cost., 2008, p. 2408, con nota di GAMBARDELLA, Retroattività della legge penale favorevole e bilanciamento degli interessi costituzionali. 57 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 143. 58 Per tutti si veda DAMIANI, Le disposizioni transitorie. Studio sulla ragionevolezza dell’efficacia della legge nel tempo, Padova, 2008, p. 10. 55
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legislativa, poiché non richiede un tertium comparationis per dichiararne l’incostituzionalità59. 2.1 Il principio di retroattività della legge più favorevole alla luce del diritto internazionale e comunitario Il principio in esame trova la sua consacrazione anche a livello di diritto internazionale e dell’Unione Europea: in particolare, nell’art. 15 par. 1 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici60, nell’art. 7 CEDU61 e nell’art. 49 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza62. Si sottolinea che con la famosa sentenza Scoppola c. Italia63 la Corte Europea, superando la propria precedente giurisprudenza, ha riconosciuto che l’art. 7 della Convenzione ha fatto proprio il principio di retroattività della legge penale più favorevole64. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Aggiornamento, vol. I, Milano, 1997, p. 900. 60 Il Patto è stato adottato il 16 dicembre 1966 a New York, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881. L’art. 15 par. 1 nell’ultima parte prevede che «Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne». 61 Testualmente «1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili». 62 Oggi richiamata dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009 che sancisce testualmente «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'ʹapplicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». 63 CEDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, n. 10249/03, in Cass. pen., 2010, 5, p. 2020, con nota di GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”: per la Corte Europea l'ʹart. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole. 64 Nel caso di specie la Corte – ritenuto l’art 442 c.p.p. ascrivibile alla categoria delle disposizioni di diritto penale sostanziale concernenti la severità della pena, per le quali trovano applicazione le regole sulla retroattività contenute nell’art. 7 – ha constatato la violazione dell’art. 7, par. 1, CEDU, in quanto lo Stato sarebbe venuto meno al proprio obbligo di far beneficiare l’imputato dell’applicazione della pena a lui più favorevole ed entrata in vigore dopo la commissione del 59
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La Corte di Strasburgo, in primo luogo, ha ricordato il proprio orientamento sulla disposizione in parola in cui affermava che essa non garantisce il diritto a beneficiare dell’applicazione di una pena più mite prevista da una legge posteriore al reato65. In secondo luogo, la pronuncia in commento ha chiarito che occorre tener presente che la Convenzione, in quanto meccanismo di protezione dei diritti dell’uomo, si deve interpretare ed applicare nel senso di rendere le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed illusorie, occorrendo un approccio dinamico ed evolutivo. Secondo la Corte è vero che la disposizione de qua non menziona espressamente l’obbligo per gli Stati contraenti di far beneficiare al reo di un mutamento legislativo entrato in vigore dopo la commissione del reato, ma in ogni caso l’art. 7 – il quale vieta di infliggere una pena maggiore a quella applicabile al momento in cui il reato era stato commesso – non esclude neppure che possa essere applicata all’imputato una sanzione più mite prevista da una legge emanata dopo la consumazione del fatto illecito66. Pertanto, ove si verifichi un mutamento legislativo favorevole all’imputato prima della fine del processo, il giudice deve applicare al caso da decidere la pena che il legislatore in quel momento ritiene “proporzionata” e non quella antecedente più afflittiva che ormai né l’ordinamento né la collettività reputano più adatta al fatto realizzato67. Inoltre, i Giudici di Strasburgo evidenziano che l’obbligo di applicare, tra le varie leggi penali che si sono succedute nel tempo, quella più favorevole al reo, soddisfa anche un altro elemento essenziale dell’art. 7 CEDU, cioè la prevedibilità delle sanzioni: se è stabilita, in linea di principio, l’applicazione reato. Infatti al ricorrente era stata inflitta la pena più severa fra tutte quelle contemplate dalle leggi succedutesi prima della condanna definitiva. 65 Si veda ad esempio CEDU, 30 settembre 2004, Zaprianov c. Bulgaria. 66 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, cit., p. 2021. 67 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, loc. cit. 23
della lex mitior tra quelle che si susseguono durante lo svolgimento del procedimento penale, la pena diventa prevedibile a priori dal cittadino68. Sulla base di queste premesse la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha modificato la propria giurisprudenza ed ha affermato che l’art. 7 § 1 della Convenzione non garantisce soltanto il principio di irretroattività delle leggi penali peggiorative, ma anche quello di retroattività della legge penale più favorevole69. In conseguenza, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori vigenti prima della decisione definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. 2.2 La legge intermedia Non si può fare a meno di evidenziare che nel caso Scoppola la legge penale più favorevole da applicare era una legge intermedia, ossia una legge sopravvenuta più mite rispetto a quella vigente all’epoca del fatto, ma non più in vigore nel momento conclusivo del giudizio perchè sostituita da una legge meno favorevole70. La legge intermedia più mite, sulla base delle regole di cui alla disposizione codicistica in esame, anche se abrogata (o sostituita) si applica retroattivamente ai fatti realizzati prima della sua entrata in vigore71. Si esclude però il caso in cui la legge intermedia sia costituita da una norma dichiarata incostituzionale oppure da un decreto legge non convertito: in CEDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, cit. GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, loc. cit. 70 Circa il fenomeno della legge intermedia si veda PECORELLA, Legge intermedia: aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, DOLCINI, PALIERO (a cura di), vol. I, Milano, 2006, p. 611. Cfr. altresì PULITANÒ, Diritto penale, Torino, 2009, p. 165. 71 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 144. 68
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tale ipotesi, posta l’efficacia ex tunc, non si applicano, come stabilito dalla Corte costituzionale72, le regole contenute nei commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p. La giurisprudenza ha affermato che si deve applicare la legge che prevede un trattamento sanzionatorio ritenuto più favorevole al reo, anche quando la legge posteriore, che l’ha modificata, abbia ripristinato le pene più severe previste da un’altra legge anteriore che la stessa aveva a sua volta modificato73. La ratio dell’applicazione retroattiva della legge intermedia più favorevole non sembra essere la medesima di quella posta a fondamento dalla dottrina all’efficacia rispetto al passato della comune lex mitior74. Infatti, non si può evocare il principio di eguaglianza per giustificare la prevalenza della legge intermedia più mite: per lo stesso fatto, commesso prima o dopo la vigenza della legge intermedia più favorevole meramente modificativa (senza abolitio criminis come nell’esaminato caso Scoppola), si potranno avere condanne nello stesso giorno davanti al medesimo giudice sulla base di figure di reato che prevedono conseguenze giuridiche diverse75. Inoltre, secondo autorevole dottrina il fenomeno della legge intermedia comportando l’applicazione ai fatti pregressi di discipline non più attuali, viene utilizzato per stabilizzare gli effetti delle leggi ad personam76. Corte cost., 22 febbraio 1985, n. 51, in Cass. pen., 1985, p. 816. Cfr in tema di guida in stato di ebbrezza Cass. pen., sez. IV, 21 settembre 2007, n. 38548, in CED, 23765; in senso conforme Cass. pen., sez. II, 7 luglio 2009, n. 35079, in CED, 244631. Inoltre, si è anche affermato che l’art. 2 comma 4 c.p. considera tutti i mutamenti legislativi intervenuti, stabilendo che si deve applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli al reo; quindi, una volta che sia entrata in vigore una legge più favorevole, questa deve applicarsi sempre anche se, successivamente, il legislatore ritenga di modificarla in senso meno favorevole: Cass. pen., sez. IV, 18 marzo 2004, n. 23613, in Riv. pen., 2004, p. 970, con nota di PARISI, Guida in stato di ebrezza e applicabilità ai fatti pregressi della legge penale intermedia. 74 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, cit., p. 2022. 75 Si deve tener presente che i fatti di reato quando sono stati commessi erano assoggettati allo stesso trattamento sanzionatorio. 76 PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 165. 72
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Ciò nonostante, la regola dell’applicazione retroattiva della legge intermedia77 non può essere messa in discussione essendo contenuta, nella sua soglia di rilevanza minima, nell’art. 2 comma 4 c.p.78. Pertanto, le ragioni della prevalenza della legge favorevole intermedia sono state giustificate sotto vari profili. Secondo un’impostazione, se è una delle leggi intermedie a risultare più favorevole, allora è questa da preferirsi: in particolare, se le leggi anteriori ritornano alla severità originaria, o l’aumentano, le nuove pene non saranno applicabili al reo poiché egli ha acquisito il diritto di essere trattato alla stregua della legge meno severa79. Secondo altri autori, viceversa, la prevalenza della legge intermedia garantisce che l’eventuale lunghezza dei processi non vada a discapito dell’imputato, al quale verrebbe inflitta una condanna più severa di quella che avrebbe avuto se il processo fosse terminato prima80. 2.3 Il tempo del commesso reato Giunti a questo punto, è necessario determinare in termini puntuali il tempo del commesso reato, al fine di valutare se una legge penale sia o meno in vigore quando si verifica un dato fatto e quale delle due leggi che si succedono l’una all’altra si debba applicare. Il legislatore non ha espressamente previsto questo momento, ma tale individuazione non può basarsi su criteri adottati per l’applicazione di altri Pertanto anche in presenza di un successivo inasprimento della disciplina per i processi in cui non vi è stata condanna passata in giudicato. 78 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, loc. cit. 79 MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino, 1981, p. 400. 80 CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Del delitto, della pena, Bologna, 1993, p. 450. 77
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istituti, dovendo piuttosto riflettere la ratio dell’art. 2 c.p. e, innanzitutto, quella del principio di irretroattività della legge penale, sancito dall’art. 25 Cost.81. La dottrina ritiene che la funzione di garanzia del principio anzidetto imponga di reputare applicabile la legge vigente al momento della condotta, cioè al momento in cui si è realizzata l’azione o l’omissione82. Circa i reati istantanei, non sussiste alcun problema in ordine all’applicazione di tale criterio: infatti il tempo del commesso reato si può facilmente individuare nel compimento dell’azione tipica – se si tratta di un reato a forma vincolata – oppure – per le fattispecie a forma libera – rispettivamente, nell’ultimo atto sorretto dalla volontà colpevole (in caso di reato doloso) e nell’azione che per prima contrasti con un dovere obiettivo di diligenza (se reato colposo). Al contrario, per i reati omissivi propri sussiste qualche incertezza poiché è controverso se si debba ritenere decisivo il momento in cui scade il termine per agire83 oppure, alla luce della configurabilità del tentativo, il momento in cui il soggetto si è messo nella condizione di non poter adempiere84. La questione dell’individuazione del tempus commissi delicti appare, viceversa, particolarmente problematica con riguardo ai reati di durata, vale a dire per i reati permanenti e per i reati abituali. Si pensi al caso in cui nel corso del periodo consumativo del reato permanente, il legislatore inasprisce la risposta punitiva verificandosi in tal modo una successione di legge meramente modificativa: in altre parole, ad una FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 91. GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 146. Per completezza si evidenzia che, per determinare il tempo del commesso reato, sia assolutamente da respingere sia il criterio dell’evento, sia quello misto, il quale facendo indifferentemente riferimento alla condotta o all’evento – sulla falsariga dell’art. 6 c.p. per il locus commissi delicti – contrasta con l’esigenza di stabilire in modo certo quale sia la legge applicabile al fatto. 83 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 106; ROMANO, Commentario, cit., p. 55. 84 GROSSO, Brevi note su di un aspetto problematico del reato omissivo proprio: il luogo della consumazione (osservazioni in margine alla fattispecie di omesso versamento di contributi sociali o assicurativi), in Riv. it. dir. pen. e proc., 1964, p. 241. 81
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legge vigente nel momento dell’inizio della permanenza, succede, prima che la condotta illecita cessi, una nuova legge meno favorevole85. In questo modo lo stato di permanenza del reato si protrae, con la condotta volontaria dell’agente, anche sotto il vigore della nuova legge meno favorevole. Una parte della dottrina considera rilevante, ai fini dell’art. 2 c.p., il momento della cessazione della permanenza sottolineando che fino a quel momento la norma penale potrebbe esercitare la sua funzione deterrente86. Tuttavia il fondamento del principio di irretroattività della legge penale sembra avvalorare piuttosto la soluzione che considera decisivo il momento iniziale della fase consumativa del reato, vale a dire il momento in cui inizia a protrarsi la situazione di permanenza richiesta per la punibilità87. La giurisprudenza ritiene, invece, che nel caso di successione di una legge penale più severa, quando la permanenza continua durante la vigenza della nuova legge, è questa soltanto che deve trovare applicazione, in quanto sotto il suo vigore è commesso il reato con la realizzazione di tutti gli elementi costitutivi88. Problema similare si rinviene nei reati abituali, i quali sono integrati non da una singola condotta, ma dalla reiterazione nel tempo di condotte della stessa specie. GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 147. DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit. p. 289; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 140; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 167. 87 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 106; ROMANO, Commentario, cit., p. 55. 88 Cfr. Cass. pen., sez. I, 30 gennaio 1992, Altadonna, in Cass. pen., 1993, p. 1698; Cass. pen., sez. III, 28 gennaio 1993, Guadalupi, in Cass. pen., 1993, p. 2403; Cass. pen., sez. I, 1 marzo 1993, Verdoliva, in Riv. pen., 1994, p. 214; Cass. pen., sez. I, 21 febbraio 1995, Gullo, in Giust. pen., 1996, II, p. 36; di recente Cass. pen., sez. III, 5 febbraio 2008, n. 13225, in CED, 239847. 85
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Per questa categoria di reati il tempus commissi delicti viene ravvisato nel momento in cui si pone in essere l’atto che, unito al precedente, conferisce agli episodi la particolare rilevanza giuridica89. 3. ABOLITIO CRIMINIS L’espressione abolitio criminis indica l’ipotesi dell’abolizione del reato disciplinata dal secondo comma dell’art. 2 c.p., secondo il quale «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»90. Tale fenomeno nell’ordinamento italiano ha come necessario presupposto il principio di legalità, quale principio di tipicità della fattispecie penale, ed è speculare all’ipotesi contemplata nel primo comma91. Pertanto, premesso che il sistema penale è costituito dall’insieme di norme incriminatrici92, l’abolitio criminis si deve considerare un fenomeno normativo che si sostanzia nell’eliminazione o riduzione di una fattispecie astratta che condiziona l’applicazione della sanzione penale, cioè la fattispecie quale elemento costitutivo della norma incriminatrice93. L’abolizione del reato è la manifestazione di una scelta politico-­‐‑criminale del legislatore, il quale considera non più meritevole o bisognoso di repressione penale un gruppo di fatti che prima erano inclusi nell’elenco dei reati: in questo ROMANO, Commentario, cit., p. 56. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 143. 91 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione della norma incriminatrice, Napoli, 2008, p. 117. 92 In quest’ottica l’ordinamento penale viene visto come un insieme sistematico ed ordinato di norme incriminatrici. 93 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 119. Di diverso avviso IACOVIELLO, Bancarotta fraudolenta e successione di leggi: la scelta tra sano pragmatismo e cattiva metafisica, in Cass. pen., 2003, p. 624, in cui l’Autore chiarisce che la successione delle leggi non è un fenomeno esclusivamente normativo, poiché nell’art. 2 comma 2 c.p. per fatto si intende fatto storico. 89
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modo, viene meno il precedente giudizio di disvalore astratto, eliminando la qualifica di illecito penale da un certo tipo di comportamento94. Inoltre, si ritiene che la locuzione abolitio criminis denoti l’ipotesi di abrogazione di una norma incriminatrice in cui la norma successiva prevale su quella anteriore cancellandola dall’ordinamento penale, quando le stesse derivano da fonti poste al medesimo livello gerarchico95. Le forme in cui si può manifestare tale scelta legislativa, espressa per mezzo dell’abolizione del reato, sono molteplici: tuttavia, una fondamentale distinzione è quella tra abolitio criminis totale e parziale96. 3.1 Abolitio criminis totale Si definisce abolitio criminis totale (o integrale) l’ipotesi in cui viene soppressa una figura di reato97. Ciò che rileva ai fini dell’applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p. è che il fatto, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante a seguito dell’abrogazione di una norma incriminatrice98. È opportuno evidenziare fin da subito che non sempre la formale abrogazione di una norma incriminatrice dà luogo al fenomeno in esame. Invero l’abolizione del reato si concreta soltanto quando una certa classe di fatti, in precedenza penalmente rilevante in quanto conforme ad una data fattispecie legale, dopo la soppressione integrale di quest’ultima non risulta più ROMANO, Commentario, cit., p. 56. È il tipico meccanismo dell’abrogazione basato sull’idoneità dell'ʹatto legislativo susseguente a produrre l’inefficacia del precedente: così GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 121. 96 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 146. 97 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 269; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 178. 98 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 147. 94 95
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conforme a nessun’altra fattispecie: sia già prevista dall’ordinamento giuridico, sia ad una introdotta contestualmente alla soppressione di quella previgente99. L’abrogazione di una norma incriminatrice non esclude che il sistema giuridico risultante dalla modificazione legislativa continui a conferire rilevanza penale a classi di fatti già riconducibili alla norma penale abrogata. Nello specifico ciò avviene attraverso un’altra figura di reato già vigente al tempo della commissione del fatto e che diventa applicabile soltanto dopo quella modifica legislativa, oppure mediante una fattispecie che viene introdotta contestualmente alla modifica legislativa stessa100. Queste ipotesi vengono comunemente definite abrogatio sine abolitio e si verificano nel caso in cui ad essere abrogata è una norma incriminatrice in rapporto di specialità con una norma o più norme diverse, preesistenti all’abrogazione di quella, ovvero introdotte contestualmente in sua sostituzione101. PULITANÒ, Diritto penale, loc. cit.; PULITANÒ, Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di diritto intertemporale, in Riv. it. dir. pen. e proc., 2002, p. 1271. 100 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 148. 101 Si veda a titolo esemplificativo MUSCO, I reati societari, 3° ed., Milano 2007, p. 107; in giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. III, 11 novembre 2003, n. 2583, in Il lav. nella giurispr., 2005, p. 954, con nota di PERINI, La successione di leggi penali in materia di somministrazione di lavoro: l'ʹorientamento della Suprema Corte. Tipico esempio del primo caso (abrogazione di una norma incriminatrice speciale rispetto ad un’altra generale, preesistente all’abrogazione) si rinviene nella formale abrogazione della norma incriminatrice dell’omicidio o lesioni personali per causa d’onore (art. 578 c.p.), ad opera della legge 5 agosto 1981 n. 442. Quest’ultima non ha comportato un’abolitio criminis, bensì soltanto una successione di leggi modificative della disciplina rilevante ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p. Infatti, in seguito all’abrogazione di quella norma i fatti di omicidio o lesioni personali per causa d’onore continuano ad essere penalmente rilevanti, perchè rientrano nella fattispecie generale di omicidio punito ai sensi dell’art. 575 c.p. Quindi, venuta meno la fattispecie speciale, si applica quella generale preesistente all’abrogazione che rileva come «legge posteriore» agli effetti dell’art. 2 comma 4 c.p. Al contrario, si rinviene un esempio della seconda ipotesi (ossia l’abrogazione di una norma incriminatrice e contestuale introduzione di una norma incriminatrice generale rispetto a quella abrogata) nella formale abrogazione della norma di cui all’art. 270 bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico) e la sua contestuale sostituzione con un’altra norma incriminatrice, inserita nel medesimo articolo (associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ʹordine democratico) ad opera della legge 15 dicembre 2001, n. 438, che non ha comportato un’abolitio criminis. In particolare, con l’abrogazione della norma contenuta nel previgente art. 270 bis c.p., il legislatore non ha 99 31
3.2 Abolitio criminis parziale La diversa ipotesi di abolitio criminis parziale si ravvisa quando si è prodotta una mera successione modificativa tra le norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo, rispetto alla quale tuttavia una o più sottofattispecie astratte non risultano più penalmente rilevanti102. In altri termini, in quest’ipotesi si circoscrive l’area di punibilità connessa a quella particolare incriminazione: si comprime l’area del penalmente illecito rispetto al campo di applicazione della previgente norma103. È doveroso precisare che il fenomeno in esame si sostanzia comunque in un’abrogazione, cioè nell’eliminazione di una o più tipologie di comportamenti penalmente sanzionati. Qui l’abolizione si definisce “parziale” nella misura in cui la specifica figura di reato, oggetto di limitata abolizione, continua ad essere presente nell’ordinamento ed a sanzionare penalmente altre sottofattispecie astratte: in questo modo, non si produce abolitio dell’intera incriminazione con il suo nomen juris, ma unicamente della classe di sottofattispecie che viene esclusa dal ritaglio compiuto dal legislatore104. espresso il venir meno della rilevanza penale dei fatti antecedentemente commessi, conformi tanto alla precedente quanto alla successiva fattispecie legale. Anche in questo caso si è in presenza di una successione di norme modificative della disciplina del reato: in relazione ai fatti commessi prima della sostituzione della norma incriminatrice in parola, ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p., il giudice, salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, dovrà applicare, tra quelle in successione, la norma le cui disposizioni risultino più favorevoli al reo. Viceversa, con riguardo ai fatti che acquistano rilevanza penale per effetto della modifica normativa de qua dovrà invece trovare applicazione il divieto di retroattività previsto nel primo comma dell’art. 2 c.p. In tal senso GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 148-­‐‑149. 102 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 165. 103 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 153. 104 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 165; GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 150. 32
In definitiva, l’abolitio criminis parziale è un’abrogazione limitata di una norma incriminatrice: ossia la nuova norma speciale riduce rispetto a prima l’area della illiceità penale105. La situazione alla quale si fa riferimento si verifica qualora la fattispecie risultante a seguito della modifica normativa di cui si tratta è speciale rispetto a quella precedente106. Il risultato suddetto può derivare da modifiche di tipo diverso, le quali comportano, in ogni caso, la sostituzione di una fattispecie legale con un’altra, che rispetto ad essa, è speciale. In primo luogo, l’abolitio criminis parziale nella sua forma di manifestazione più semplice si realizza quando il legislatore modifica la fattispecie legale amputandone una parte107. In secondo luogo, nel caso in cui ci sia un’abrogazione di una norma incriminatrice e la contestuale introduzione di un’altra, speciale rispetto a quella abrogata108. In terzo luogo, una parziale abolizione del reato può conseguire anche da interventi legislativi su disposizioni di parte generale109. Conclusivamente il fenomeno in commento è regolato, per la parte relativa all’incriminazione eliminata, dal comma 2 dell’art. 2 c.p. (cioè GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 166. PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 179. 107 Ad esempio ove vi sia una figura di reato realizzabile con diverse modalità alternative della condotta ritenute equivalenti viene sostituita con un’altra figura che si limiti a ridurre nel numero quelle stesse modalità alternative della condotta. 108 Cfr. Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, in Riv. it.. dir pen. e proc., 2003, p. 1503. In dottrina si veda PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 1354; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 178. L’esempio in questa ipotesi è offerto dalla riforma attuata con il D.Lvo 11 aprile 2002 n. 61 che ha interessato, tra gli altri reati societari, anche il falso in bilancio. 109 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 270; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 179. Si pensi all’ipotetica ridefinizione in senso restrittivo del concetto di colpa e, quindi, ad un intervento sul testo dell’art. 43 c.p. che limiti la colpa ai casi di colpa grave: qui sarebbero parzialmente abolite tutte le fattispecie di reato colposo, limitatamente ai fatti commessi con colpa grave. Per l’esempio cfr. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 152. 105
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immediato proscioglimento o, se vi è stata condanna passata in giudicato, cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali di essa), viceversa per la parte che continua ad essere vigente dal nuovo comma 4 della citata disposizione codicistica (si applica la disposizione più favorevole al reo, se non sia stata già pronunciata una sentenza irrevocabile, con l’eccezione che vedremo dettagliatamente prevista ora dal comma 3, della trasformazione di una pena detentiva in pecuniaria)110. 3.3 Abolitio criminis e cause di giustificazione A questo punto è necessario verificare come l’introduzione di una nuova causa di giustificazione o l’estensione del suo ambito di operatività possa influenzare le vicende abolitive in campo penale111. Partendo dall’assunto che le cause di giustificazione sono contenute in autonome norme112, a rigore non strettamente penalistiche, la loro introduzione o l’ampliamento del loro campo di applicazione, pur incidendo sulla complessiva area di illiceità penale del nostro ordinamento penalistico, non si ripercuote in nessun modo sulla disciplina dell’abolitio criminis, in quanto AMBROSETTI, Abolitio criminis e modifica della fattispecie, Padova, 2004, p. 212; GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 166. 111 Si veda MARINUCCI, Cause di giustificazione, in DOLCINI, MARINUCCI (a cura di), Studi di diritto penale, Milano, 1991, p. 114. L’Autore ha chiarito che diverso è il caso in cui la riduzione dell’ambito di operatività di una incriminazione (la sua parziale abolitio criminis) renda oggi il comportamento illo tempore giustificato, penalmente illecito. L’antigiuridicità esistente al momento della commissione del reato non viene eliminata, e quindi la condotta tipica – ma all’epoca scriminata – resta legittima. 112 Infatti, sono autonome norme che si rinvengono in tutto l’ordinamento giuridico e che si pongono in contrasto con le singole norme incriminatrici, autorizzando o imponendo la realizzazione di una condotta conforme ad una figura di reato. Il conflitto tra le regole antinomiche, nel rispetto del principio dell’unitarietà e coerenza dell’ordinamento giuridico si deve risolvere con l’individuazione della norma prevalente, mediante i criteri normativi offerti dal nostro ordinamento. Così GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 156. 110
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quest’ultimo è un fenomeno legato soltanto alla riduzione o all’eliminazione di una norma incriminatrice113. Pertanto l’innovazione legislativa, affinchè possa dar luogo alla vicenda abrogativa, deve incidere sulla fattispecie astratta di una incriminazione non rilevando che il suo ambito normativo possa «in concreto» ridursi a seguito di una nuova o più ampia norma scriminante: in questa ipotesi la modificazione si ripercuote sull’ordinamento penale in genere e non sulle singole incriminazioni114. Al contrario, per aversi il fenomeno abolitivo, ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., l’innovazione legislativa deve riguardare una norma incriminatrice e non una norma scriminante che si pone in conflitto con la prima115. Le modifiche alle norme scriminanti si applicano solo ove il procedimento penale è ancora in corso, non potendo disciplinare i fatti storici verificatisi in precedenza alla loro entrata in vigore qualora esista una sentenza di condanna definitiva e, quindi, esse non possono determinare la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato ai sensi dell’art. 673 c.p.p. Parte della dottrina ha, infatti, evidenziato che l’applicazione retroattiva della norma che stabilisce una nuova o più ampia causa di giustificazione non comporterà il venir meno della sua antigiuridicità esistente al momento del fatto ma imporrà soltanto che si decida – chiaramente agli effetti penali – come se quella norma successiva fosse già in vigore al momento della commissione del fatto, essendo la disciplina più favorevole al reo ex art. 2 comma 4 c.p.116. GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, loc. cit. In questi termini ancora IBIDEM, L'ʹabrogazione, cit., p. 157. 115 Di diverso avviso ROMANO, Commentario, cit., p. 57, a detta del quale se la nuova legge introducesse una causa di giustificazione per alcune delle condotte previste dalla norma, si applicherebbe, con riferimento a quei tipi di comportamento, l’art. 2 comma 2 c.p. In questi termini cfr. VALENTINI, Tre osservazioni sulla disciplina intertemporale (artt. 5, 6 del progetto Pisapia), in www.isisc.org. L’Autore ritiene applicabile la regola di cui all’art. 2 comma 2 c.p. all’introduzione o all’ampliamento di una causa di giustificazione. 116 MARINUCCI, Cause di giustificazione, cit., p. 115. 113
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Secondo una diversa impostazione, viceversa, l’introduzione di una nuova causa di giustificazione o l’allargamento dell’ambito di operatività della stessa si possono ricondurre direttamente alla disciplina dell’art. 2 comma 2 e 4 c.p. e, perciò, alle regole codicistiche che impongono la retroattività della lex mitior, travolgendo anche le sentenze definitive di condanna117. 3.4 Abolizione o modificazione del reato? Arrivati a questo punto della trattazione, non si può fare a meno di rilevare che non sempre è facile individuare se dall’innovazione legislativa sia derivata l’abolizione del reato, con la conseguente applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p., oppure si sia verificata una semplice modificazione della norma incriminatrice, con l’applicazione del comma 4 della medesima disposizione. Si è già avuto modo di notare, che nell’ambito delle successioni delle leggi penali sussistono tipologie di ipotesi difficili quali: − la riformulazione della disposizione di legge118; VALENTINI, Cause di giustificazione e abolitio criminis, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1326. Si veda la posizione contraria di GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 158-­‐‑159, il quale esclude che l’applicazione, ai procedimenti in corso, della nuova o più ampia causa di giustificazione possa fondarsi direttamente sul comma 4 della disposizione in esame, poiché la legge nuova è più favorevole. In realtà, il comma 4 riguarda le modifiche di incriminazioni che mantengono la loro illiceità penale, ma sono più favorevoli. Qui non sussiste nessuna modifica di una incriminazione. In particolare l’art. 2 comma 4 c.p. presuppone due norme incriminatrici in successione tra loro che presentino un trattamento giuridico diverso: nell’ipotesi in questione non si ravvisa un fenomeno abolitivo ma di continuità normativa, né si è introdotta un’ipotesi in senso lato di non punibilità di una qualsiasi tipologia di condotta. Secondo l’Autore, infatti, si tratta di un’antinomia in concreto, cioè il conflitto sorge in concreto, in relazione ad un determinato fatto storico e va risolto in relazione a quell’accadimento, non essendo un conflitto che può individuarsi in astratto. Pertanto, per risolvere tale conflitto, individuando la norma prevalente, è necessario far riferimento alle norme antinomiche che vigevano al momento della commissione del fatto. Posto, quindi, che l’antigiuridicità di una condotta deve essere accertata nel momento in cui essa è stata tenuta, allora se in quel momento il caso concreto non ricadeva simultaneamente in due norme in conflitto tra loro non c’è alcuna antinomia normativa. Perciò se all’epoca della sua commissione il fatto era illecito, il fatto era, e rimane, antigiuridico. 118 Come nel caso della riformulazione della bancarotta fraudolenta impropria di cui all’art. 223 comma 2 n. 1 L.fall. 117
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− l’abrogazione espressa di una disposizione penale mentre nell’ordinamento è presente un’altra disposizione, la quale ricomprende i casi abrogati ovvero tutti i casi della disposizione abrogata119; − l’abrogazione espressa di una disposizione con contestuale riformulazione di un’altra, che ricomprende successivamente i casi inclusi (tutti o in parte) nel testo di legge abrogato120; − l’abrogazione espressa di una disposizione con la simultanea introduzione di un’altra che ricomprende i casi inclusi (tutti o in parte) nel testo di legge abrogato121. Nel prosieguo andremo, quindi, ad analizzare le diverse teorie che sono state elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per distinguere tra abrogazione e modificazione. a) Il criterio del fatto concreto. La prima teoria è rappresentata dalla c.d. valutazione del fatto concreto122, secondo la quale nel valutare se l’abrogazione di una fattispecie e la contestuale introduzione di un nuovo reato abbia effettivamente comportato un’abolitio criminis, si deve procedere ad applicare le due normative al fatto concreto sub iudice: quindi, se la condotta illecita rientra in entrambe le Per la prima ipotesi si pensi ad esempio all’abrogazione dell’oltraggio ex art. 341 c.p. rispetto al reato di ingiuria di cui all’art. 594 c.p.; per la seconda, invece, all’omicidio per causa d’onore (art. 587 c.p.) e all’omicidio comune ex art. 575 c.p. 120 Cfr. l’interesse privato in atti d’ufficio ex art. 324 c.p. ed il nuovo abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 c.p. nel 1990; oppure il peculato per distrazione ex art. 314 c.p. e l’abuso d’ufficio. 121 Ad esempio l’espressa abrogazione dell’art. 27 della l. 29 aprile 1949 n. 264, il quale puniva i fatti di illecita mediazione nella fornitura di manodopera, ex art. 85 D.Lvo n. 276 del 2003 ed il contemporaneo inserimento con lo stesso provvedimento normativo, all’art. 18 comma 1 di una fattispecie che punisce l’esercizio abusivo dell'ʹattività di intermediazione. In tal senso GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 159. Si ricorda che la distinzione tra abolitio criminis e la successione di leggi penali meramente modificative nel casi difficili è ancora più complicata dalla circostanza che non sempre l’abrogazione espressa di una disposizione incriminatrice comporta l’abolizione della rilevanza penale delle condotte in essa tipizzate (verificandosi un'ʹipotesi di abrogatio sine abolitione). 122 Questa tesi è stata elaborata in Germania all’inizio del Novecento ed è stata proposta da OPPENHOF, Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reichsgericht, 13. Aufl, Berlino, 1896, p. 24. In Italia è stata illustrata da PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 148. 119
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previsioni, si dovrebbe ragionevolmente concludere che si sia in presenza di una successione di leggi penali e che il fatto resterebbe penalmente rilevante. Si segue lo schema logico del brocardo: «prima punibile, dopo punibile; dunque ancora punibile». In altri termini, se un fatto concreto costituisce reato sia per la legge precedente che per quella successiva, il fatto continua a costituire reato e si applicherà la legge più favorevole al reo (art. 2 comma 4 c.p.), indipendentemente dalla diversità degli elementi costitutivi o dalla diversità di nomen juris tra i due reati, non essendo richiesta altresì una continuità tra le ragioni dell’incriminazione123. Parte della dottrina critica tale teoria escludendo che si possa ravvisare una successione modificativa tra le fattispecie incriminatrici che presentano elementi eterogenei fra di loro, anche ove l’accadimento storico sia sussumibile sia sotto la fattispecie costituita sia sotto quella nuova124. Esaminando le regole contenute nell’art. 2 c.p. ed indagando le sue matrici storiche si può ragionevolmente affermare che la logica codicistica della successione delle leggi nel tempo è fondata proprio sulla teoria del fatto concreto125. Si evidenzia, tuttavia, che aderire a tale tesi, accertando se l’accadimento in concreto verificatosi sia rilevante penalmente in base sia alla norma sostituita sia alla norma introdotta al suo posto (o comunque già presente nell’ordinamento) a prescindere dal confronto tra le relative fattispecie tipiche, che potrebbero quindi essere costituite anche da requisiti eterogenei, viola il PAGLIARO, Principi di diritto penale, loc. cit. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1359. 125 GAMBARDELLA, L’art. 2 del codice penale, tra nuova incriminazione, abolitio criminis, depenalilizzazione e successione di leggi nel tempo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1195. 123
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principio di irretroattività sancito dagli artt. 25 comma 2 Cost e 2 comma 1 c.p., attribuendo rilevanza penale ad elementi che prima ne erano privi126. b) Il criterio dei rapporti strutturali. Secondo una diversa impostazione, l’interprete per accertare l’abolitio criminis dovrebbe procedere mediante un confronto strutturale (ossia tra le strutture normative) fra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo127. Dal momento che le fattispecie legali sono descritte attraverso il linguaggio, il confronto strutturale tra le fattispecie deve avere ad oggetto le relative strutture lessicali. Tale confronto può portare a due esiti contrapposti: la loro omogeneità ovvero la loro eterogeneità128. Nel caso in cui il confronto tra le fattispecie legali astratte in successione temporale metta in luce figure di reato strutturalmente omogenee, si sarà in presenza di un’abolitio criminis parziale oppure, in caso di modifica avente ad oggetto oltre alla fattispecie legale astratta anche la sua disciplina, di una successione di norme modificative, rilevante ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p.129. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1360; più di recente cfr. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 217; DEL CORSO, voce Successione di leggi penali, in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 99. In giurisprudenza, le stesse Sezioni Unite nella famosa sentenza Giordano hanno affermato che alla tesi in esame «si è giustamente obiettato che è possibile che un fatto concreto rientri per aspetti diversi nella previsione di due norme incriminatici che si succedono, in una situazione cioè in cui in realtà tra le due leggi penali c’è un rapporto di contiguità temporale ma non una coincidenza contenutistica, di modo che debba concludersi che il fatto previsto dalla norma successiva prima non costituiva reato, anche se la nuova legge è diretta a regolare una situazione che in precedenza, ma per aspetti diversi, era regolata dalla norma incriminatrice abrogata. Se si optasse per la continuità quando un fatto concreto commesso sotto il vigore della legge abrogata rientra, per aspetti diversi, nella previsione della nuova legge si farebbe di questa un’applicazione retroattiva, in quanto quel fatto verrebbe punito solo per aspetti che prima erano privi di rilevanza penale»: cfr. Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, in Cass. pen., 2003, p. 3310, con nota di PADOVANI, Bancarotta fraudolenta impropria e successione di leggi: il bandolo della legalità nelle mani delle Sezioni unite. 127 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 153. 128 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1369. 129 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 157. 126
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Si sottolinea che due fattispecie legali astratte sono omogenee non soltanto nell’ovvio caso in cui siano esattamente identiche, ma anche qualora descrivano modelli di condotta assimilabili, in quanto riconducibili l’uno all’altro. Quest’ultima ipotesi si verifica quando sussiste tra le fattispecie in questione un rapporto di specialità, cioè quella previgente è speciale rispetto a quella successiva, o viceversa130. Al contrario, due fattispecie sono strutturalmente eterogenee qualora descrivano modelli di condotta diversi, cioè condotte tipiche eterogenee, incentrate su dei comportamenti che sono strutturalmente non assimilabili131: ciò ricorre non soltanto qualora le figure di reato di cui si tratta non hanno alcun elemento costitutivo in comune, ma anche quando ne condividono alcuni, mentre altri sono difformi132. Se all’esito del confronto strutturale risulta che una fattispecie astratta è strutturalmente eterogenea rispetto ad un’altra, alla quale sia succeduta, siamo dinanzi ad un fenomeno di abolitio criminis e all’introduzione di una nuova figura di reato: i fatti precedentemente commessi non sono più punibili, in quanto non costituiscono più reato, e le eventuali sentenze di condanna passate in giudicate devono essere revocate a norma dell’art. 673 c.p.p.; mentre, la nuova figura di reato, sulla scorta del principio di irretroattività, non può essere applicata ai fatti commessi prima della sua introduzione133. All’interno della concezione in esame si collocano anche le Sezioni Unite, con la già citata decisione Giordano134, le quali hanno chiarito che affinchè «non vi sia una totale abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1370. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1369; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 181. 132 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 280; DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 116. 133 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 156. Quanto affermato vale di regola e salvo un’altra verifica: in quanto non c’è abolitio criminis qualora, venuta meno la norma incriminatrice abrogata, risulta applicabile al fatto un’altra norma incriminatrice generale, già vigente nell’ordinamento prima della modifica normativa. 134 Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., p. 3317. 130
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sostituita (oppure abrogata con la contestuale introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) occorre che la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente, rientrasse cioè nell’ambito della previsione di questa, il che accade normalmente quando tra le due norme esiste un rapporto di specialità, tanto nel caso in cui sia speciale la norma successiva quanto in quello in cui speciale sia la prima. Però se è la norma successiva ad essere speciale ci si trova in presenza di un'ʹabolizione parziale, perché l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che pur rientrando nella norma generale venuta meno sono privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla regola del secondo comma dell’art. 2 c.p., anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale continuità. Perciò per questi fatti non opera il limite stabilito dall’ultima parte del terzo comma dell’art. 2 c.p. e quando è stata pronunciata una condanna irrevocabile il giudice dell’esecuzione deve provvedere a revocarla a norma dell’art. 673 c.p.p. Risponde al senso comune, oltre che al disposto dell’art. 2 c.p., la regola che mantiene la punibilità di un fatto se questo, astrattamente considerato, rientra nell'ʹambito normativo di due disposizioni che si sono succedute nel tempo. Quando avviene ciò infatti, e nei limiti in cui avviene, di regola non opera, e non avrebbe ragione di operare, l’ffetto abolitivo retroattivo della disposizione successiva»135. Infatti secondo il Supremo Collegio «il criterio normale deve essere quello che porta a ricercare un’area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario rinvenire conferme della continuità attraverso criteri valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e alle modalità di offesa, assai spesso incapaci di condurre ad approdi Testualmente in Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., p. 3318. 135
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interpretativi sicuri, come dimostrano i numerosi contrasti che si sono manifestati tanto nella giurisprudenza quanto nella dottrina quando si è trattato di farne applicazione in numerose recenti vicende legislative in materia penale»136. Nel caso di abrogazione di una norma speciale, con possibile espansione applicativa della preesistente norma generale, a detta delle Sezioni Unite è una valutazione legislativa meramente negativa della disposizione abrogata, si tratta infatti di un’ipotesi in cui anche ove si ritenesse applicabile il comma 4 dell’art. 2 c.p, le determinazioni sulla continuità normativa e soprattutto quelle più specifiche sulla conservazione o sulla revoca di un’eventuale sentenza di condanna irrevocabile dovrebbero derivare oltre che da criteri strutturali anche da criteri valutativi137. c) La teoria della discontinuità del tipo di illecito. Secondo una terza teoria138 si può avere abrogazione del tipo di illecito anche quando un singolo comportamento concreto rientri in entrambe le norme. In base a tale paradigma, si ammette la possibilità di un’abolizione senza depenalizzazione: in altri termini, seppure in presenza di alcune tipologie di incriminazioni riconducibili altresì alla nuova fattispecie penale, i fatti commessi prima dell’innovazione legislativa – anche se sussumibili all’interno della nuova ipotesi criminosa e, dunque, tuttora punibili – si ritengono non più perseguibili, perchè l’incriminazione non esiste più come “tipo di illecito”139. È necessario, quindi, indagare non soltanto utilizzando il criterio logico−strutturale tra fattispecie, ma anche usando ulteriori valutazioni che Ancora Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, loc. cit. Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., p. 3319. 138 Per un esame approfondito della tesi in esame si veda DONINI, Discontinuità del tipo di illecito e amnistia: profili costituzionali, in Cass. pen., 2003, p. 2877. 139 L’effetto abolitivo si estende anche alle sentenze passate in giudicato. Così AMBROSETTI, Abolitio criminis, cit., p. 169. 136
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concernono il bene giuridico tutelato e le modalità di offesa: in tal modo, si aggiungono ai criteri formali anche criteri di tipo sostanziale o valutativi. Si precisa che in ogni caso l’utilizzo di questi criteri di tipo valutativo non possono mai sostituirsi all’analisi dei rapporti strutturali tra fattispecie, ma devono integrare quest’ultima: per tale ragione, è necessario utilizzare congiuntamente i criteri dell’applicazione in concreto, dei rapporti logico−strutturali e della continuità del tipo di illecito fondata su parametri più valutativi come il bene giuridico e le modalità di lesione140. Gli Ermellini sono giunti perfino ad affermare che, nonostante la nuova norma sia in rapporto di specialità (criterio formale) e tuteli lo stesso bene giuridico (criterio sostanziale), qualora vi sia una volontà di politica criminale di disciplinare in modo innovativo un certo settore penale, la conclusione dovrà essere necessariamente quella dell’abolizione del tipo di reato141. Conclusivamente, seguendo questa posizione, per accertare se siamo in presenza di un fenomeno modificativo o abrogativo è necessario considerare oltre alla relazione strutturale in cui si trovano le fattispecie incriminatrici (quindi le modalità di offesa), anche il bene giuridico che tutelano al fine di ricostruire l’effettiva norma incriminatrice142. d) La tesi della continuità del tipo di illecito. Da ultimo, si annovera la teoria c.d. della continuità del tipo di illecito, secondo la quale ponendo a confronto le due fattispecie astratte di reato, la nuova legge si presenta modificativa quando, pur abrogando una norma penale, riproduce (o mantiene ad altro titolo) nel sistema un tipo di reato che DONINI, Discontinuità del tipo di illecito, cit., p. 2878; DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali dopo il d.lg. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen., 2002, p. 1263. 141 Cfr. Cass. pen., sez. un., 13 dicembre 2000, Sagone, in Cass. pen., 2001, p. 2054, con nota di MUSCO, L'ʹabolitio criminis nell'ʹomessa presentazione della dichiarazione annuale di cui al previgente art. 1 comma 1 l. n. 516 del 1982: la svolta delle Sezioni Unite in tema di successione di leggi penali. 142 DONINI, Discontinuità del tipo di illecito, cit. p. 2879. Per le critiche alla teoria esaminata si veda PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 182; PULITANÒ, Legalità discontinua?, cit., p. 1280. 140
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nel raffronto con il primo mostra, per modalità di condotta ed offesa, uno stesso nucleo essenziale di disvalore, cioè permane, per lesione del bene giuridico e violazione dell’obbligo, in un’area di illiceità sostanzialmente corrispondente143. Ciò comporta che, ove dalla modifica della fattispecie consegua un radicale abbandono del vecchio bene giuridico tutelato, con l’emergere di una nuova oggettività giuridica, si deve concludere nel senso dell’abolito criminis144. Pertanto, fino a quando la nuova norma insiste anche per il futuro su di un nucleo comune, ovvero su di un disvalore prossimo a quello della norma abrogata, non vi è alcuna ragione per cui i fatti pregressi riconducibili anche sotto la nuova norma debbano rimanere impuniti145. Alla luce di tali considerazioni, qualora la legge successiva generalizzi quella precedente estendendone l’area di applicazione è evidente che si determina una continuità dell’illecito: infatti, l’ordinamento pur con una legge formalmente nuova, conferma il disvalore delle condotte, ampliandone la portata negativa. La medesima situazione di continuità dell’illecito si riscontra ove sia una fattispecie successiva a specializzare quella preesistente, in quanto qui la specializzazione, insistendo su uno schema normativo sino allora presente, indicherà un ambito sostanzialmente corrispondente, omogeneo a quello della legge anteriore146. Quindi, il fenomeno della specializzazione, delimitando ovvero circoscrivendo la fattispecie, comporta così un’abrogazione parziale: invero la nuova norma non copre più l’intera area di illecito della norma precedente147. ROMANO, Commentario, cit., p. 62. MUSCO, La riformulazione dei reati. Profili di diritto intertemporale, Milano, 2000, p. 115. 145 ROMANO, Commentario, loc. cit. Critica questa posizione GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 207. 146 ROMANO, Irretroattività della legge penale e riforme legislative: reati tributari e false comunicazioni sociali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 1250. 147 ROMANO, Irretroattività della legge penale, cit. p. 1258. In giurisprudenza favorevole alla tesi della continuità del tipo di illecito cfr. Cass. pen., sez. un., 20 giugno 1990, Monaco, in Foro it., 1990, II, p. 637, con nota di FIANDACA, Questioni di diritto transitorio in seguito alla riforma dei reati di interesse privato e abuso innominato di ufficio. 143
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È doveroso precisare che il tema affrontato in questo paragrafo si è scontrato anche con il diritto dell’Unione Europea, che come abbiamo già evidenziato sopra, ha importanti ripercussioni sulla materia della successione delle leggi penali148. In particolare si fa riferimento alla riforma che ha investito il reato di cui all’art. 14 comma 5 ter T.U.Imm., il quale è stato riscritto dalla legge n. 94 del 2009, così come anche il comma 5 quater149. In data precedente all’emanazione della suddetta legge, tuttavia, era entrata in vigore la direttiva 16 dicembre 2008, n. 2008/115/CE, del Parlamento e del Consiglio europeo recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (la cd. direttiva rimpatri). Cfr. supra Cap. I, § 2.1. Oggi i commi richiamati dell’art. 14 T.U.Imm. così prevedono «5-­‐‑bis. Allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione o di respingimento, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di sette giorni, qualora non sia stato possibile trattenerlo in un Centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza presso tale struttura non ne abbia consentito l’allontanamento dal territorio nazionale. L’ordine è dato con provvedimento scritto, recante l’indicazione, in caso di violazione, delle conseguenze sanzionatorie. L’ordine del questore può essere accompagnato dalla consegna all'ʹinteressato, anche su sua richiesta, della documentazione necessaria per raggiungere gli uffici della rappresentanza diplomatica del suo Paese in Italia, anche se onoraria, nonché per rientrare nello Stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, nello Stato di provenienza, compreso il titolo di viaggio. 5-­‐‑ter. La violazione dell'ʹordine di cui al comma 5-­‐‑bis è punita, salvo che sussista il giustificato motivo, con la multa da 10.000 a 20.000 euro, in caso di respingimento o espulsione disposta ai sensi dell’articolo 13, comma 4, o se lo straniero, ammesso ai programmi di rimpatrio volontario ed assistito, di cui all'ʹarticolo 14-­‐‑ter, vi si sia sottratto. Si applica la multa da 6.000 a 15.000 euro se l'ʹespulsione è stata disposta in base all’articolo 13, comma 5. Valutato il singolo caso e tenuto conto dell'ʹarticolo 13, commi 4 e 5, salvo che lo straniero si trovi in stato di detenzione in carcere, si procede all'ʹadozione di un nuovo provvedimento di espulsione per violazione all'ʹordine di allontanamento adottato dal questore ai sensi del comma 5-­‐‑bis del presente articolo. Qualora non sia possibile procedere all’accompagnamento alla frontiera, si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 5-­‐‑bis, nonché, ricorrendone i presupposti, quelle di cui all’articolo 13, comma 3». Si precisa che queste disposizioni sono state prima modificate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 e successivamente così sostituiti dal D.L. 23 giugno 2011, n. 89, come modificato dalla legge di conversione 2 agosto 2011, n. 129. 148
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Mediante la normativa richiamata, l’Unione Europea ha tracciato una normativa comune in materia per tutti gli Stati aderenti, assegnando agli stessi il termine fino al 24 dicembre 2010 per l’adeguamento degli ordinamenti nazionali150. Immediatamente sorsero dubbi sulla compatibilità della normativa interna con quella comunitaria, confermati anche dalla decisione della Corte di Giustizia del 2011151, con la quale è stato evidenziato che osta con gli artt. 15 e 16 della direttiva la normativa di uno Stato membro, come nel caso di specie l’art. 14 comma 5 ter T.U.Imm., che irroghi la pena della reclusione al cittadino di un Paese terzo irregolarmente soggiornante soltanto perchè questi permane nel territorio dello stato senza giustificato motivo in violazione di un ordine di lasciarlo entro un determinato termine. Soltanto a distanza di sei mesi dalla scadenza del termine ricordato per l’adeguamento, il legislatore italiano ha provveduto ad uniformarsi con il D.L. 23 giugno 2011 n. 89152, convertito con modificazione in legge 2 agosto 2011 n. 129153. L’intervento del legislatore ha sollevato il dubbio che si trattasse di una nuova incriminazione o di una mera modifica del profilo sanzionatorio per la difficile collocazione dell’incompatibilità comunitaria nel contesto del sistema delle fonti. DEGL’INNOCENTI, ANTONUCCIO, L’art. 14, c. 5-­‐‑ter e 5-­‐‑quater, TUIMM, l’incompatibilità comunitaria e la successione di leggi penali nel tempo, in Riv. pen., 2012, 11, p. 1066. 151 Cfr. CGE, sez. I, 28 aprile 2011, n. 61, in www.eur-­‐‑lex.europa.eu. 152 «Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari». 153 Sul tema si veda per tutti PISA, Nuove norme penali in tema di immigrazione irregolare, in Dir. pen. proc., 2011, p. 800. 150
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Pertanto, la questione posta dalla novella consisteva nell’applicabilità della nuova formulazione dei reati ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legge154. Con l’intervento del D.L. n. 89/2011 si sono susseguite due distinte vicende modificative, costituite rispettivamente dall’incompatibilità sopravvenuta con la disciplina comunitaria e dalla successiva riforma, con la sostituzione di pene pecuniarie alla sanzione detentiva originariamente comminata: quindi, la questione andava rimeditata tenendo conto del richiamato jus superveniens e alla luce dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo155. A fronte di una variegata risposta in seno alla dottrina156, la Suprema Corte ha negato la continuità normativa facendo riferimento al distacco temporale, alla diversità strutturale e alla differente tipologia delle condotte, oltre che alla modifica del procedimento amministrativo che precede l’intimazione di allontanamento, confermando quindi l’avvenuta abolitio criminis157. 3.5 La depenalizzazione Al concetto di abolitio criminis, inteso come abrogazione di una norma incriminatrice, si deve ricondurre anche il fenomeno della depenalizzazione (in Ciò era stato evidenziato anche dalla Corte costituzionale investita della medesima questione del rapporto tra l’art. 14 commi 5 ter e 5 quater D.Lvo 286/1998 e direttiva rimpatri risolta in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia europea. 155 Cfr. Corte cost., ord., 21 novembre 2011, n. 311. 156 Per una disamina delle teorie si veda DEGL’INNOCENTI, ANTONUCCIO, L'ʹart. 14, c. 5-­‐‑ter e 5-­‐‑
quater, TUIMM, cit., p. 1067. 157 In tal senso Cass. pen., sez. I, 10 ottobre 2011, n. 36446, in Cass. pen., 2012, p. 49; Cass. pen., sez. I, 10 ottobre 2011, n. 36451, in www.penalecontemporaneo.it; Cass. pen., sez. I, 10 maggio 2012, n. 17544, inedita. 154
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senso stretto): cioè la degradazione legislativa dell’illecito penale in illecito amministrativo158. Anche qui, come per l’abolitio criminis ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., viene eliminata dall’ordinamento giuridico una norma incriminatrice, ma il legislatore contestualmente inserisce una figura di illecito amministrativo159. Entrambi i fenomeni coincidono da un punto di vista logico−formale, in quanto vi è sempre un’abrogazione di una norma incriminatrice per intervenuta incompatibilità tra la norma previgente e quella successiva che prevale (stessa fattispecie legale, conseguenze opposte: sanzione penale/sanzione non penale). Tuttavia, si riduce l’area del penalmente illecito160. Anche la giurisprudenza condivide questa impostazione, affermando che in caso di cessazione del carattere penale della violazione a seguito di depenalizzazione si applica l’art. 2 comma 2 c.p., con la conseguente cessazione degli effetti penali della condanna irrevocabile eventualmente pronunciata161. Pertanto, per gli illeciti penali depenalizzati l’autorità giudiziaria deve dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato162. È opportuno notare che la disciplina della successione modificativa di leggi penali ex art. 2 comma 4 c.p. non può essere estesa al passaggio di un illecito da penale ad amministrativo (o civile): infatti, nessuna continuità GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 143. DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 269. 160 CANESTRARI, CORNACCHIA, DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, p. 148. 161 Cfr. Cass. pen., 18 aprile 1985, Piccolo, in Cass. pen., 1986, p. 1547. 162 Cass. pen., sez. un., 16 marzo 1994, Mazza, in Cass. pen., 1994, p. 2659. Di conseguenza, qualora il fatto per cui è intervenuta condanna irrevocabile sia stato depenalizzato, l’interessato può chiedere al giudice dell’esecuzione la revoca della relativa sentenza o del decreto penale di condanna ai sensi dell’art. 673 c.p.p. 158
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normativa sussiste nella trasformazione di una fattispecie costituente reato in un mero illecito amministrativo163. Infatti, la disposizione da ultimo citata disciplina soltanto l’ipotesi di successione tra norme incriminatrici, e non quella in cui sopravvenga una legge che trasformi il fatto costituente reato in illecito amministrativo164. Tale soluzione è condivisa, altresì, dalla celebre pronuncia delle Sezioni Unite Mazza165, in cui si è ritenuto che il principio della retroattività della norma più favorevole, che assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al momento del fatto e quello previsto dalle leggi successive, purchè precedenti la sentenza definitiva di condanna, opera soltanto con riferimento all’ipotesi della successione tra fattispecie incriminatrici, e non è estensibile al caso della successione che degradi un fatto previsto come illecito penale a illecito amministrativo. Dunque, l’art. 2 comma 4 c.p. non si applica alle sanzioni amministrative: sia nell’ipotesi in cui ad una legge che prevede una sanzione amministrativa ne succeda un’altra dello stesso tipo, sia nell’ipotesi in cui ad una legge che puniva determinate violazioni con la sanzione penale se ne avvicendi una che punisce le stesse violazioni con la sanzione amministrativa166. Nonostante l’illecito amministrativo che sostituisce l’illecito penale non possa, come norma favorevole, applicarsi ai fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore in base alla regola di cui all’art. 2 comma 4 c.p., il nuovo illecito amministrativo può al contrario applicarsi retroattivamente se una legge lo prevede espressamente: è, quindi, necessaria una norma ad hoc che imponga retroattivamente l’applicazione dell’illecito depenalizzato. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1382; GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 150. Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2004, n. 21064, in CED, 229236; Cass. pen., sez. III, 3 maggio 1996, n. 5617, in Cass. pen., 1998, p. 813, con nota di GARGIULO, Sulla successione di leggi sanzionatorie nel caso di depenalizzazione. 165 Cfr. Cass. pen., sez. un., 16 marzo, 1994, Mazza, cit. 166 Ancora Cass. pen., sez. un., 16 marzo, 1994, Mazza, cit. 163
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Tale necessità deriva dal principio di irretroattività sancito dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981167, in base al quale l’illecito amministrativo non si applica retroattivamente, cioè ai fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore della disposizione che lo ha previsto168. Da ciò ne consegue che in mancanza di una norma in tal senso, si configura una chiara irrilevanza, anche sotto il profilo amministrativo, dei fatti già costituenti reato commessi prima della depenalizzazione169. Si evidenzia che, da un punto di vista pratico, è opportuno derogare al canone dell’irretroattività della sanzione amministrativa in presenza di una depenalizzazione per evitare che un comportamento prima punito con sanzione penale e poi represso solo con sanzione amministrativa risulti non sanzionabile in alcun modo: in particolare, la sanzione penale non è più applicabile non essendo più in vigore nel procedimento penale ancora non irrevocabilmente definito, né a sua volta risulta applicabile la sanzione amministrativa che non era vigente quando venne posta in essere la condotta illecita170. Tale impostazione è stata accolta, altresì, dalle già citate Sezioni Unite Mazza in cui si è osservato che, in mancanza di specifiche norme transitorie, l’autorità giudiziaria deve dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., senza dover rimettere gli atti all’autorità amministrativa competente e ciò sia in virtù del principio di legalità dell’illecito amministrativo consacrato nell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, sia per l’assenza di norme transitorie analoghe a quelle negli artt. 40 e 41 della Il quale testualmente prevede: «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati». 168 PALIERO, TRAVI, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, p. 173. 169 GALLUCCI, Commento alla depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio (l. n. 205 del 1999), sub art. 102, in Leg. pen., 2001, p. 973; PALIERO, TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 177. 170 AGHINA, La disciplina transitoria e le norme finali, in LATTANZI, LUPO (a cura di), Depenalizzazione e nuova disciplina dell'ʹillecito amministrativo, Milano, 2001, p. 319. 167
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legge citata, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda, quindi, gli altri casi di trasformazione di reati in illeciti amministrativi171. Non si può fare a meno di richiamare l’attenzione sulla recentissima pronuncia delle Sezioni Unite del 2012172, in cui era stata rimessa una questione circa la sussistenza o meno dell’obbligo per il giudice penale di trasmettere gli atti all’autorità amministrativa qualora avesse accertato che il fatto di reato contestato era stato depenalizzato successivamente alla sua commissione e non era stata disposta nessuna specifica norma transitoria. Anche in quest’occasione si sono ribaditi i principi poc’anzi illustrati chiarendo in un passaggio ben motivato della decisione che «il principio di cui all’art. 2 c.p., comma 4 (retroattività della legge più favorevole al reo), in particolare, non è stato recepito nella L. n. 689 del 1981, art. 1 e non è estensibile alla disciplina della “successione” dell’illecito amministrativo rispetto all’illecito penale, essendo, invece, necessarie apposite norme, affidate alla discrezionalità del legislatore ordinario (pur sempre nel rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.), per poter superare l’autonomo principio d'ʹirretroattività, vigente per il primo tipo d’illecito ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 1, peraltro estraneo alla costituzionalizzazione ex art. 25 Cost., comma 2, che riguarda solo quello penale. b) In assenza di disposizioni transitorie espresse, va escluso che si possa fare riferimento alla L. n. 689 del 1981, artt. 40 e 41 intesi quali norme generali di inquadramento valide per tutti i futuri casi di depenalizzazione. Tenuto conto del contenuto dei lavori preparatori della legge di depenalizzazione del 1981, va rilevato che una deroga all’irretroattività era stata inizialmente prevista nell’art. 1, comma 3 evidentemente come correttivo di Così Cass. pen., sez. un., 16 marzo, 1994, Mazza, cit. Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2012, n. 25457, in Dir. pen. e proc., 2012, 10, p. 1211, con nota di BIANCHI, La cd. “successione impropria”: una questione di garanzie. 171
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fondo parallelo al principio generale dell'ʹirretroattività sancito nei primi due commi. È stato proprio il legislatore dell’epoca, però, per il dichiarato scopo di non creare equivoci, ad eliminare dall’art. 1 quella disposizione che ricollegava un “effetto retroattivo” alla “depenalizzazione” (sebbene si trattasse di una norma contra reum e non a suo favore) ed a darle invece un'ʹautonoma collocazione, ben lontana da quella riservata ai principi generali e divergente rispetto al generale principio di irretroattività, nell’art. 40 sotto l'ʹanonima rubrica “Disposizioni transitorie e finali”. Si è voluto così sottolineare il carattere del tutto eccezionale della norma transitoria, derivante dal collegamento con il fenomeno della “depenalizzazione”, che veniva all’epoca considerato come destinato storicamente ad esaurirsi. La soluzione della non retroattività, dunque, è stata ritenuta e deve ritenersi ragionevole alla luce della riconosciuta applicabilità al sistema amministrativo dei principi di legalità e di irretroattività, e ciò a salvaguardia di esigenze di fondo della regolamentazione dei rapporti tra autorità dello Stato e libertà del cittadino»173. 4. LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE N. 85 DEL 2006 L’art. 14 della legge 24 febbraio 2006 n. 85174 ha inserito il nuovo comma 3175 alla disposizione codicistica in commento: il legislatore ha introdotto una disciplina che fa eccezione alla regola generale della non applicabilità Testualmente Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2012, n. 25457, cit. Intitolata «Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione». 175 Art. 2 comma 3 c.p. prevede testualmente: «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135». 173
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retroattiva della legge più favorevole al reo in caso di successione modificativa, qualora sia presente una sentenza di condanna irrevocabile176. È doveroso notare che la nuova disposizione è stata erroneamente inserita all’interno dell’originaria sequenza di regole contenuta nell’art. 2 c.p. La dottrina stessa ha evidenziato che il nuovo comma che introduce una deroga alla regola generale della immodificabilità del giudicato nella successione modificativa, avrebbe dovuto essere collocato dopo la regola (quindi come nuovo comma 4) e non prima (come nuovo comma 3), come viceversa ha fatto il legislatore del 2006177. L’innovazione legislativa riguarda soltanto le ipotesi di sostituzione della pena detentiva originaria con la sola pena pecuniaria: perciò sono esclusi i casi di passaggio da una comminatoria alternativa di pena detentiva e pecuniaria, nonchè le ipotesi di sensibile riduzione del limite massimo della pena detentiva178. In base alla nuova disciplina la legge più favorevole al condannato si applica retroattivamente ove la condanna sia a pena detentiva e la legge posteriore preveda soltanto la pena pecuniaria: per «condanna a pena detentiva» si intende una sentenza definitiva, ossia irrevocabile, passata in giudicato179. Pertanto, in questo caso la pena detentiva si converte immediatamente in pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 c.p.: vale a dire 250 euro di pena pecuniaria equivalgono ad un giorno di pena detentiva. GAMBERINI, INSOLERA, Legislazione penale compulsiva, buone ragioni ed altro. A proposito della riforma dei reati di opinioni, in INSOLERA (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Padova, 2006, p. 142. 177 Per tutti si veda AMATO, Scardinata l’intangibilità del giudicato, in Guida dir., 2006, 14, p. 29; PASCARELLI, La riforma dei reati d'ʹopinione: un commento alla nuova disciplina, in Ind. pen., 2006, p. 714; PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche, in Dir. pen e proc., 2006, p. 1207. 178 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, cit., p. 102. 179 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 78. 176
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Si è precisato che, nonostante non sia stato espressamente previsto, nella conversione della pena detentiva in pecuniaria l’ammontare di quest’ultima non può superare il limite massimo della pena pecuniaria stabilito dalla nuova legge. Cosicchè, se il risultato della commutazione eccede questo limite, il giudice deve ridurre la pena pecuniaria da applicare entro il limite massimo della pena pecuniaria comminata180. A proposito del procedimento, competente ad effettuare la conversione è il giudice dell’esecuzione, che procederà su richiesta del pubblico ministero, dell’interessato o del suo difensore, con le modalità di cui all’art. 666 c.p.p.181. La conversione deve avvenire, secondo il dettato legislativo, «immediatamente», con la conseguenza che ove il condannato stia scontando la pena il giudice deve sospenderne l’esecuzione, disponendo la liberazione dell’interessato, analogamente a quanto previsto dall’art. 670 c.p.p. per l’ipotesi in cui accerti che la sentenza o il decreto penale di condanna non sono divenuti esecutivi. Viceversa, negli altri casi la tempestività del provvedimento di conversione si impone per evitare l’inizio dell’esecuzione di pene detentive destinate ad essere convertite in pena pecuniaria182. 5. LE LEGGI ECCEZIONALI E TEMPORANEE Il principio della retroattività della legge penale più favorevole, non vale qualora si tratti di leggi eccezionali o temporanee, ai sensi dell’art. 2 comma 5 c.p.183. DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, cit., p. 102; PADOVANI, Diritto penale, IX ed., Milano, 2008, p. 42. 181 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, cit., pag. 103. 182 ID., Artt. 1-­‐‑240, loc. cit. 183 ID., Manuale di diritto penale, cit., p. 117. 180
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Pertanto, non si applicheranno al passato gli effetti favorevoli della legge eccezionale o temporanea che direttamente introduca un trattamento più favorevole184 e neppure quelli provocati dall’eliminazione della stessa legge dal sistema, che qui assume il carattere dell’ultrattività185. La previsione all’interno della disciplina della successione delle leggi penali di una norma ad hoc in tema di leggi eccezionali e temporanee rappresenta una novità del codice Rocco rispetto al codice Zanardelli186. È doveroso, quindi, fornire una definizione di queste leggi. Le leggi eccezionali sono quelle emanate per fronteggiare situazioni oggettive di carattere eccezionale, la cui disciplina è dunque legata a tali situazioni di fatto187. Viceversa, le leggi temporanee sono quelle che hanno vigore entro un limite di tempo da esse stesse determinato188. Tuttavia, parte della dottrina definisce queste ultime come delle leggi che contengono la predeterminazione espressa del periodo di tempo in cui avranno vigore189, cioè leggi la cui vigenza è sottoposta ad un termine esplicito prefissato dal legislatore stesso190. La ratio della disposizione in esame si rinviene nella necessità di salvaguardare l’efficacia generalpreventiva delle leggi eccezionali e temporanee, che altrimenti sarebbe compromessa dalla preventivabile disapplicazione della disciplina normalmente più rigorosa in esse contenuta, in Vale a dire mitigare l’aspetto sanzionatorio, sia nel senso di determinare una abolitio criminis. PECORELLA, L’efficacia nel tempo della legge penale favorevole, Bologna, 2008, p. 7. 186 CAPUTO, Quale disciplina per la successione di leggi temporanee?, in Cass. pen., 2009, p. 510. 187 Cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, vol. V, pt. I, p. 24. Per tali eventi si fa riferimento a guerre, epidemie, terremoti ecc. 188 Così Lavori preparatori, cit., p. 24. 189 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 283. 190 In tal senso MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 88. 184
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conseguenza dello scadere del periodo di vigenza che implicitamente o esplicitamente è loro assegnato191. Pertanto, tali leggi si continuano ad applicare ai fatti commessi durante la loro vigenza, anche se tale fatti non costituiscono più reato per la legge ordinaria successiva, o sono da essa assoggettati ad una disciplina più favorevole192. Ove la legge temporanea o eccezionale subentri al posto di un’altra legge dello stesso genere ed abbia sia la medesima ratio sia risponda ad una logica di una più organica disciplina dell’identica peculiare situazione di fatto, manca il pericolo di una preventiva svalutazione dell’efficacia intimidatoria della legge temporanea o eccezionale e non sussiste, per tale ragione, alcun motivo per disattendere il principio della retroattività della legge penale favorevole, applicandosi di conseguenza i commi 2 e 4 dell’art. 2193. Si sottolinea che alcuni Autori, al contrario, ritengono che il principio di retroattività della legge favorevole non vale neanche qualora sia la medesima situazione di emergenza a perdurare nel tempo e si palesi opportuno un Lavori preparatori, cit., p. 23. Ampiamente sull'ʹintroduzione della disposizione de qua si veda VASSALLI, Successione di più leggi eccezionali, in Riv. it. dir. pen., 1943, p. 207. 192 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, cit., p. 115. 193 In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. I, 27 maggio 2008, n. 26316, in Cass. pen., 2009, p. 508, con nota di CAPUTO, Quale disciplina, cit., in cui si era affrontato il problema dell’individuazione della disciplina (del codice penale di guerra ovvero di quello di pace) applicabile al fatto commesso nella vigenza della normativa anteriore alla legge n. 274 del 2006 ma giudicato successivamente ad essa. Il Supremo Collegio in quell’occasione ha risolto la questione nel senso dell’applicabilità della più favorevole normativa prevista dal codice penale militare di pace. La pronuncia, nel caso di specie, esclude l’applicabilità della disciplina derogatoria di cui all’art. 2 comma 5 c.p. che «rispondente alla necessità di salvaguardare l’efficacia general-­‐‑
preventiva delle leggi eccezionali e temporanee, non trova ragione alcuna di applicazione allorquando trattasi di norme parimenti temporanee od eccezionali succedutesi l’una all'ʹaltra durante il decorso del termine di vigenza ovvero durante la permanenza della situazione eccezionale, aventi la medesima ratio e dirette ad una migliore messa a punto della normativa destinata a fronteggiare la medesima situazione. In siffatti casi, invero, la norma posteriore, proprio perchè emanata durante il perdurare della situazione che aveva imposto la normativa temporanea o eccezionale e proprio perchè rispondente alle medesime esigenze temporanee ed eccezionali, non si pone in contrasto con le ragioni sottese alla emanazione della normativa eccezionale o temporanea ma, lungi dall’essere volta al ripristino della legge ordinaria, è di contro tesa ad una più organica regolamentazione della situazione temporanea od eccezionale». 191
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secondo provvedimento sostitutivo di quello precedente, poiché l’applicabilità di una legge eccezionale ai fatti commessi mentre era in vita è un dato naturale che nessuna norma del nostro sistema smentisce194. Diversa è l’ipotesi in cui la nuova legge, eccezionale o no, succeda ad un’altra legge, eccezionale oppure no. Ci si chiede, quindi, se essa stessa possa disporre la sua retroattività, in quanto più favorevole al reo: qui la risposta sarà positiva, poichè non si oppone alcun ostacolo di carattere costituzionale195. 6. IL DECRETO LEGGE NON CONVERTITO O CONVERTITO CON EMENDAMENTI L’originario comma 5 dell’art. 2 c.p. (oggi comma 6) dichiarava applicabili le diverse disposizioni dettate in materia di successione di leggi penali nel tempo anche a quella particolare ipotesi di successione che si realizzava nei casi di decadenza o di mancata ratifica del decreto legge così come della sua conversione in legge con emendamenti196. Tale disposizione era in linea con la facoltà che era stata riconosciuta al potere esecutivo dall’art. 3 della legge 31 gennaio 1936, n. 100, di emanare decreti legge, la cui immediata efficacia obbligatoria non poteva più essere posta nel nulla, neppure in caso di decadenza o di mancata ratifica da parte del Parlamento poiché era prevista solo la perdita di efficacia ex nunc197. L’entrata in vigore della Costituzione, in particolare l’art. 77 comma 3 Cost., ha sancito la perdita di efficacia ex tunc dei decreti legge non convertiti entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione, salvo il potere delle Camere di PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 137; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 97. ROMANO, Commentario, cit., p. 72. 196 Lavori preparatori, cit., p. 24. 197 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, cit., p. 117. 194
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regolare con legge i rapporti giuridici che siano sorti sulla base di tali provvedimenti poi non convertiti. La cessazione dell’efficacia ex tunc comporta, quindi, che gli stessi debbano reputarsi come mai esistiti, con la conseguenza che non vi è alcuna successione di legge in senso proprio198. Sull’originaria disposizione è intervenuta la Corte costituzionale con la celebre sentenza del 1985 n. 51199, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2 comma 6, in relazione all’art. 77 ultimo comma Cost., nella parte in cui rende applicabili le disposizioni in tema di successione di leggi di cui agli attuali commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p., in caso di mancata conversione di un decreto legge che comprende una norma penale favorevole e in caso di un decreto avente analogo contenuto convertito in legge con emendamenti che implicano in parte la mancata conversione. Il Giudice delle leggi ha pertanto, chiarito che «la norma impugnata (comma quinto dello stesso art. 2 c.p.), ravvisando la ricorrenza di un fenomeno identico o analogo al primo e adottando il trattamento di questo (cioè rendendo applicabili le disposizioni suindicate) nel caso di sopravvenienza di una norma contenuta in un “decreto−legge non convertito”, si pone in contrasto con l’art. 77, ultimo comma, Cost. e va pertanto dichiarata illegittima. La conclusione […] deve intendersi formulata (secondo l'ʹimpostazione data alla questione di legittimità costituzionale) limitatamente alla sancita applicabilità delle disposizioni di cui ai commi secondo e terzo art. 2 c.p. al caso del “decreto-­‐‑legge non convertito”, e quindi alla sancita operatività della “norma penale favorevole”, se in esso contenuta, relativamente ai “fatti pregressi”. A questi soltanto, d'ʹaltronde, le cennate disposizioni si riferiscono, e in relazione a tali fatti soltanto è avvertita con particolare intensità l'ʹesigenza di DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 284; ROMANO, Commentario, cit., p. 73; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 98. 199 Cfr. Corte cost., 22 febbraio 1985, n. 51, in Giust. pen., 1985, I, p. 132. 198
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una visuale riduttiva degli effetti del decreto-­‐‑legge, in quanto connessa a quella di impedire manovre governative “indirette”, discriminatrici o mitigatrici del trattamento di fatti costituenti reato individuati o individuabili, destinate altrimenti al successo malgrado l’esito negativo del controllo parlamentare. Non viene qui − com’è ovvio − in considerazione (sempre secondo la suddetta impostazione) alcun problema concernente l’operatività della “norma penale favorevole”, introdotta con “decreto−legge”, relativamente ai fatti commessi durante il vigore − anche se provvisorio − di esso»200. Pertanto alla luce del passaggio della pronuncia riportato: per i fatti concomitanti, le norme dei decreti legge non convertiti si applicano se più favorevoli201; viceversa, per i fatti pregressi trova applicazione la legge in vigore al momento del fatto202. Inoltre, la mancata conversione di un decreto legge contenente una norma incriminatrice comporta, applicando il principio di cui all’art. 77 comma 3 Cost., la perdita di efficacia, fin dall’inizio, della suddetta norma: di conseguenza il fatto in essa previsto non potrà più essere considerato come reato, quando sia stato commesso nel periodo di vigenza dello stesso decreto legge, a nulla rilevando che quest’ultimo sia stato, alla scadenza, sostituito da un altro decreto legge, poi convertito, contenente analoga disposizione203. Nel caso in cui si verifichi la reiterazione di un decreto legge decaduto, la perdita di efficacia ex tunc delle disposizioni del decreto non convertito non può essere infatti impedita dalla circostanza che disposizioni di identico tenore Così testualmente Corte cost., 22 febbraio 1985, cit. In tal senso Cass. pen., 18 febbraio 1995, Mondini, in Cass. pen., 1996, p. 503, ove la Suprema Corte ha chiarito che, in materia tributaria, devono ritenersi efficaci le dichiarazioni integrative di sanatoria degli illeciti presentate durante la vigenza del d.l. 27 aprile 1992, n. 269 e 25 giugno 1992, n. 319. 202 Per una diversa impostazione si veda ROMANO, Commentario, cit., p. 73. L'ʹAutore, infatti, afferma che la norma favorevole del decreto legge poi convertito non si può applicare nemmeno ai fatti concomitanti, essendo venuto meno definitivamente ex tunc. 203 Cass. pen., sez. I, 4 ottobre 1993, n. 3869, in CED, 195566. 200
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siano contenute in un nuovo decreto legge, sia esso entrato in vigore il medesimo giorno della decadenza del precedente o successivamente204. In relazione al caso in cui la legge di conversione abbia introdotto disposizioni che modificano quelle dettate dal decreto legge, è necessario distinguere tra emendamenti innovativi, soppressivi e modificativi: ai secondi e ai terzi si attribuisce efficacia abrogativa o sostitutiva della norma originaria ex tunc, viceversa ai primi si dovrà attribuire efficacia di validità temporale ex nunc, ossia dal momento dell’entrata in vigore della legge di conversione, momento che coincide con quello della pubblicazione della stessa, non essendo concettualmente compatibile l’immediata efficacia da riconoscersi a questo provvedimento con il periodo di una vacatio legis durante la quale la materia, pure ritenuta di urgente regolamentazione, resterebbe invece senza disciplina205. 7. LA DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA INCRIMINATRICE Una situazione analoga a quanto visto in caso di decreto legge non convertito si ha nel caso di dichiarazione di illegittimità di una norma da parte della Corte costituzionale, in cui non si determina una successione di leggi Ex multis circa l’ipotesi di disposizioni incriminatrici o comunque meno favorevoli al reo, contenute sia nel decreto legge decaduto che in quello reiterato, Cass. pen., sez. I, 16 dicembre 1997, n. 7058, in CED, 209351; Cass. pen., sez. I, 22 maggio 1996, Sakho, in Riv. pen., 1996, p. 1096. Nello stesso senso in relazione all’ipotesi in cui sia intervenuta una legge a regolamentare i rapporti sulla base del decreto non convertito facendone salvi gli effetti, Cass. pen., sez. I, 22 aprile 1999, Litim, in Cass. pen, 2000, p. 2642; di diversa opinione, Cass. pen., sez. I, 27 febbraio 1995, Pangrazi, in CED, 202065, in cui si afferma l’esistenza di un fenomeno di successione di leggi penali disciplinato dall’art. 2 c.p., nel caso di reiterazione di decreti legge non esaminati dal Parlamento e succedutisi nel tempo senza soluzioni di continuità. 205 Cfr. Cass. pen., sez. I, 20 settembre 1993, n. 3443, in Cass. pen., 1995, p. 2890. Di conseguenza con la legge di conversione del decreto legge possono essere apportati tre specie di emendamenti: 1) innovativi, i quali entrano in vigore dalla data di conversione della legge; 2) soppressivi, che eliminano la norma soppressa ex tunc; 3) sostitutivi, i quali entrano in vigore fin dall’origine, sostituendo con effetto retroattivo la norma soppressa. 204
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penali alla quale sia applicabile l’art. 2 c.p.206, in quanto la legge dichiarata incostituzionale perde efficacia ex tunc e va quindi considerata come mai esistita207. Tuttavia, l’annullamento di una norma incriminatrice che consegue alla dichiarazione della sua illegittimità costituzionale deve tenersi distinto dal fenomeno dell’abrogazione208. Infatti, mentre quest’ultimo si fonda sul criterio cronologico, il primo trova la sua ragione d’essere nel criterio gerarchico: pertanto, in caso di conflitto tra norme provenienti da fonti disposte su gradi diversi nella gerarchia delle fonti, la norma gerarchicamente inferiore si considererà priva di validità209. La giurisprudenza ha specificato che i due fenomeni vanno tenuti distinti sia concettualmente che giuridicamente: l’abrogazione di una norma o di una disposizione ricade nella normalità dell’evoluzione di qualunque ordinamento; la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma investe un evento che al contrario riguarda la patologia ordinamentale. La norma illegittima è espunta dall’ordinamento perchè inficiata di un’invalidità originaria che ne ha condizionato l’applicazione e che giustifica la proiezione sui rapporti giuridici pregressi, che da tale norma incostituzionale siano stati disciplinati, della pronuncia di incostituzionalità, eliminando definitivamente dall’ordinamento una norma geneticamente nata morta210. In ordine agli effetti, mentre – di regola – l’abrogazione opera ex nunc, l’annullamento che deriva da una dichiarazione di illegittimità costituzionale ROMANO, Commentario, cit., p. 75. Si veda per tutti FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 101. 208 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 287. 209 CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1984, p. 381. 210 Sul punto cfr. Cass. pen., sez. un., 27 febbraio 2001, n. 4, in Cass. pen., 2002, p. 2664; Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2007, n. 9270, in Cass. pen., 2007, p. 1957. 206
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agisce ex tunc: pertanto, le norme dichiarate costituzionalmente illegittime sono estromesse irrevocabilmente dal nostro ordinamento con effetti retroattivi211. Tale retroattività secondo la dottrina non significa che la sentenza di accoglimento della Corte rivaluta accadimenti del passato alla luce di una diversa disciplina, ma che essa estingue, anche per il passato, l’efficacia della norma dichiarata illegittima costituzionalmente212. Appare opportuno evidenziare che circa le norme incriminatrici, il fenomeno abrogativo (l’abolitio criminis) e quello dell’annullamento di norme incostituzionali, quanto al loro ambito di efficacia, tendono a coincidere, accomunati dalla retroattività degli effetti che producono: è coerente, quindi, la scelta del legislatore del 1988 di unificare sotto l’art. 673 c.p.p., la disciplina processuale degli effetti di entrambi i due istituti213. Problematica è l’attribuzione di efficacia retroattiva alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma favorevole, alla quale consegua la reviviscenza o la riespansione della norma che prevede un trattamento più gravoso per il reo214. Il controllo di legittimità in malam partem sulle norme penali di favore è ammesso dalla sentenza della Corte costituzionale del 1983 n. 148215. In seguito con la celebre sentenza già citata n. 394 del 2006, il Giudice delle leggi ha chiarito che devono ritenersi precluse le sentenze di accoglimento CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 382; in giurisprudenza si veda Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2007, n. 9270, cit. 212 MAZZA, La norma processuale, cit., p. 320. 213 L’art. 673 c.p.p. testualmente prevede che «Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'ʹesecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Allo stesso modo provvede quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità». Così GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 136. 214 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-­‐‑240, cit., p. 121. 215 Corte cost., 3 giugno 1983, n. 148, in Cass. pen., 1983, p. 1909, con nota di LATTANZI, La non punibilità dei componenti del Consiglio superiore al vaglio della Corte costituzionale: considerazioni e divagazioni; in Foro it., con nota di PULITANÒ, La «non punibilità» di fronte alla Corte costituzionale. 211
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che riguardano vicende successorie (art. 2 c.p.) tra una norma incriminatrice generale e una norma speciale di favore: altrimenti si giungerebbe a risultati incompatibili con il principio di riserva di legge in materia penale, incidendo quindi sulle scelte politico-­‐‑criminali attribuite dall’art. 25 comma 2 Cost. in via esclusiva al legislatore216. Inoltre in quell’occasione si è precisato, altresì, che la norma incriminatrice speciale non rientra nella categoria delle norme penali di favore in senso stretto: ossia norme sindacabili perchè – nonostante il controllo ricada nell’area delle decisioni in malam partem – la loro invalidazione non confligge con il principio di riserva di legge in materia penale (art. 25 comma 2 Cost.)217. Infatti, «la nozione di norma penale di favore è la risultante di un giudizio di relazione fra due o più norme compresenti nell'ʹordinamento in un dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'ʹarea di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente nell'ʹordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa, senz’altro preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte»218. Quindi, la norma penale di favore deve necessariamente derivare da un giudizio di relazione tra due o più norme presenti nell’ordinamento giuridico nello stesso momento temporale. Il rapporto di genere a specie si deve Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. Circa la riserva di legge come principio fondamentale del sistema delle fonti in materia penale, si veda TRAPANI, voce Legge penale, I, Fonti, in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, p. 1. 218 Testualmente cfr. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. 216
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instaurare tra due norme che coesistono nel sistema penale allo stesso tempo (art. 15 c.p.)219. In ordine agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale di favore, rispetto ai fatti commessi prima dell’invalidazione della norma, va applicata la norma penale di favore (anche nel giudizio a quo): la dichiarazione di illegittimità costituzionale non ha in questo caso efficacia retroattiva, non impedendo ai giudici di applicare egualmente la norma annullata ai fatti verificatisi durante la sua vigenza. Viceversa la disciplina più sfavorevole andrà applicata ai fatti commessi dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Corte220. D’accordo con tale impostazione della Corte costituzionale PULITANÒ, Principio d'ʹuguaglianza e norme penali di favore (Nota a Corte cost. nn. 393-­‐‑394 del 2006), in Corr. Mer., 2007, p. 210. 220 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 287; GAMBARDELLA, Specialità sincronica, cit., p. 467. 219
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CAPITOLO II LA SUCCESSIONE DI NORME INTEGRATRICI SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Integrazione reale o apparente – 2.1 Integrazione normativa – 2.2 Esempi di integrazione della legge penale – 2.2.1 Gli elementi normativi della fattispecie – 2.2.2 Le norme penali in bianco – 2.2.3. Le definizioni legali o norme definitorie – 3. La successione di norme integratrici – 3.1 La successione di norme integratrici e abolitio criminis – 3.2 La successione di norme realmente integratrici – 3.2.1 Abolitio criminis e le norme penali in bianco – 3.2.2 Abolitio criminis e le norme definitorie – 3.3 La successione di norme apparentemente integratrici – 3.3.1 Abolitio criminis e gli elementi normativi – 4. La soluzione della giurisprudenza 1. PREMESSA Dopo aver esaminato in modo approfondito la disciplina della successione delle leggi penali nel tempo, prima di occuparci del tema centrale dell’elaborato, appare doveroso ai nostri fini affrontare un ulteriore argomento piuttosto controverso nel diritto penale intertemporale. In particolare nel prosieguo ci si occuperà della successione di disposizioni integratrici (c.d. modifica mediata) e si cercherà di fornire una soluzione al seguente quesito: la modifica di norme diverse dalla norma incriminatrice, in diverso modo richiamate a sua integrazione (reale o apparente), può dar vita al fenomeno di abolitio criminis? Leggendo l’interrogativo appare subito evidente ad un attento lettore come la risposta possa avere delle grosse ripercussioni nella pratica. La modifica mediata221 è definita dalla tradizionale dottrina come quella situazione intertemporale che si verifica quando muta il campo di applicazione Sulla successione mediata di norme penali si veda in generale CAMAIONI, Successioni di leggi penali, Padova, 2003, p. 46; GROSSO, Successione di norme integratrici di legge penale e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1960, p. 1206; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1354; ROMANO, Commentario, cit., p. 9. 221
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di una disposizione incriminatrice in seguito al cambiamento dell’informazione giuridica secondaria alla quale il precetto penale rinvia222. In altri termini, la norma incriminatrice non è il risultato dell’interpretazione di una singola disposizione: infatti, l’innovazione legislativa non incide direttamente sulla disposizione incriminatrice principale, ma modifica un qualsiasi enunciato normativo richiamato dalla disposizione stessa, il quale contribuisce in tal modo a determinare la vera e propria norma incriminatrice223. La scienza penalistica, nella prospettiva della norma incriminatrice integrata – e nello specifico della fattispecie legale da quella descritta – si esprime in termini di «eterointegrazione», nel senso di integrazione tramite il ricorso a parametri estranei alla fattispecie penale in questione224. Questi parametri possono ricondursi a due tipologie distinte: da un lato, l’integrazione della norma penale può essere il frutto dell’attività di interpretazione giudiziale225; dall’altro lato, può essere il risultato (legittimo o meno) dell’apporto di norme diverse da quella incriminatrice oggetto dell’integrazione226. Quest’ultimo caso è definito integrazione normativa ed è un fenomeno che riguarda assieme al piano dei rapporti internormativi quello della tecnica di normazione: proprio in tale contesto si parla di norme integratrici. Espressione inventata da DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 227. Modifica «mediata», attributo usato dalla dottrina per differenziare tale ipotesi dalle vicende intertemporali che interessano direttamente la disposizione incriminatrice e si risolvono nella sua introduzione o abrogazione, o nella modifica del trattamento ivi previsto. 223 GAMBARDELLA, L’art. 2 del codice penale, tra nuova incriminazione, abolitio criminis, depenalilizzazione e successione di leggi nel tempo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1213. 224 BRICOLA, Scritti di diritto penale. Opere monografiche, Milano, 2000, p. 168. 225 Nel nostro ordinamento, retto dal principio della riserva di legge in materia penale, ciò non è legittimo di regola. 226 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 6-­‐‑8. 222
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Queste ultime possono, quindi, definirsi come quelle norme chiamate a rendere la legge penale compiuta e completa, aggiungendo ad essa ciò che le manca227. Fra la norma integratrice e la norma integrata si crea un collegamento strutturale tale per cui quest’ultima, per essere completa e per esprimere il proprio significato ha bisogno dell’apporto della prima, la quale si pone rispetto ad essa come complementare. Di conseguenza, qualora sussista un rapporto di integrazione normativa, l’interprete deve ricavare il significato della norma penale oggetto di integrazione leggendo la stessa assieme ad una o più norme integratrici228. 2. INTEGRAZIONE REALE O APPARENTE 2.1 Integrazione normativa L’integrazione normativa pone, come già accennato, un problema di struttura della norma penale. È necessario perciò individuare le norme penali che devono essere completate da altre oppure, in un’altra prospettiva, le norme integratrici che completano le norme penali bisognose di integrazione. La presenza nell’ordinamento giuridico di norme penali integrate da altre norme crea una questione circa la disciplina da riservare alle norme integratici in alcuni ambiti della parte generale del diritto penale: ossia quello della riserva di legge229, dell’errore di diritto230 e della successione di leggi231. È chiaro che l’esistenza di questo tipo di norme implica l’esistenza di leggi penali incomplete che necessitano, pertanto, di essere completate (integrate) da norme diverse da quella incriminatrice. 228 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 8. 229 In un sistema come il nostro in cui vige il principio della riserva di legge in materia penale, il fatto che esistano delle norme penali incomplete, quando queste attendano di essere integrate 227
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Per quanto a noi interessa ci troviamo davanti al problema della successione di norme integratrici (o di leggi extrapenali): si tratta, quindi, di individuare l’ambito di applicabilità dell’art. 2 c.p. e di stabilire se la disciplina della successione di leggi penali – in particolare dell’abolitio criminis – debba oppure no essere applicata nell’ipotesi di successione nel tempo di norme, in vario modo richiamate dalla legge penale, che siano o soltanto sembrino essere integratrici232. Il quesito in parola presenta uno stretto parallelismo con il tema dell’errore di diritto: in altri termini, si tratta di chiarire se con il termine «legge» l’art. 2 c.p. si riferisce soltanto alla legge penale, oppure anche a norme (di fonte legislativa o meno) da questa richiamate. È evidente come la distinzione tra norme integratrici e non integratrici è imposta dalla legge e dal sistema: il diritto positivo obbliga l’interprete a discernere i diversi rapporti internormativi ed a tracciare la distinzione tra le suddette norme o, detto altrimenti, tra le norme richiamate dalla legge penale da norme di fonte non legislativa, pone un problema di compatibilità con l’art. 25 comma 2 Cost. e, quindi, di legittimità costituzionale della norma integrata. Infatti, nel diritto penale l’integrazione normativa si presenta in primo luogo come un problema di fonti del diritto: è necessario stabilire se e in quali limiti abbiano diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento norme incriminatrici integrate da norme di fonte sublegislativa o sovranazionale, cioè se la garanzia apprestata dal principio della riserva di legge debba o meno essere estesa alle norme integratrici della legge penale. 230 Il fenomeno di cui si tratta ha un decisivo rilievo anche con riguardo al tema dell’errore di diritto, in relazione alla distinzione tra errore sulla legge penale ed errore sulla legge extrapenale. Si tratta, dunque, di stabilire se l’ignoranza o l’erronea interpretazione di una norma richiamata dalla legge penale dia luogo ad un errore sulla legge penale – che ai sensi dell’art. 5 c.p. è irrilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza, se dovuto a colpa – e non già invece a quell’errore su una legge diversa dalla legge penale – che, ex art. 47 comma 3 c.p., esclude il dolo qualora abbia cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato. Per fornire una soluzione a questa alternativa è essenziale stabilire se quella norma richiamata sia o meno integratrice della legge penale assumendo, per effetto del richiamo, natura di «legge penale». 231 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 9. 232 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 10. 68
che sono realmente integratrici e quelle che, pur essendo richiamate dalla legge penale, sono solo apparentemente integratrici233. 2.2 Esempi di integrazione della legge penale Individuare le norme realmente integratrici da quelle solo apparentemente integratrici significa accertare in quali casi una norma venga richiamata da una norma incriminatrice per apportare un contributo alla descrizione della figura di reato, e in quali casi viceversa lo sia per uno scopo diverso. Per tale ragione è necessario esaminare i possibili modi mediante i quali una norma incriminatrice possa richiamare norme diverse, cioè determinare i modelli di (apparente o reale) integrazione della legge penale234. Questi ultimi sono sostanzialmente le seguenti categorie dogmatiche. 2.2.1 Gli elementi normativi della fattispecie penale La prima categoria che verrà esaminata è quella degli elementi normativi della fattispecie235, i quali si definiscono come quei elementi che si comprendono soltanto sul presupposto logico di una norma giuridica o etico–sociale diversa da quella in cui sono contenuti236. Sulla distinzione tra norme integratrici e norme non integratrici cfr. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 189; ROMANO, Repressione della condotta antisindacale. Profili penali, Milano, 1974, p. 121. 234 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 18. 235 Per una disamina approfondita della materia ex multis BETTIOL, La dottrina del Tatbestand nella sua ultima formulazione, in Scritti giuridici, I, Padova, 1966, p. 91; BRICOLA, Scritti di diritto penale, cit.; DONINI, Teoria del reato, cit.; ENGISCH, Die normativen Tatbestandselemente im Strafecht, in Festschrift für E. Mezger, Berlino e Monaco, 1954, p. 127; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 136; PALAZZO, L'ʹerrore sulla legge extrapenale, Milano, 1974; RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale: profili generali e problemi applicativi, Milano, 2004. 236 Tale definizione deriva da ENGISCH, Die normativen Tatbestandselemente, cit., p. 147. 233
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La suddetta categoria si differenzia, quindi, dagli elementi descrittivi della fattispecie i quali sarebbero gli elementi che fanno sempre riferimento a dati della realtà empirico–naturalistica, come tali percepibili con i sensi e non bisognosi di particolari mediazioni o filtri interpretativi. Nell’ambito della dogmatica penalistica italiana vi è d’accordo nel collocare gli elementi normativi nel corpus strutturale della fattispecie delittuosa e vengono definiti in virtù del caratteristico meccanismo dell’eterointegrazione che li contraddistingue237. Un’altra affermazione comune in dottrina riguarda il procedimento conoscitivo relativo agli elementi in parola: essi, invero, implicherebbero sempre la mediazione interpretativa del giudice. Peraltro, tale filtro rappresenterebbe la più importante peculiarità della categoria di cui si tratta: nello specifico, mentre per gli elementi descrittivi il giudice dovrebbe limitarsi a compiere una mera operazione ricognitiva avente ad oggetto un dato della realtà naturalistica; per gli elementi normativi egli dovrebbe anche esprimere una valutazione per accertare quella particolare nota di qualificazione di cui il fatto è investito238. Il riconoscimento dell’autonomia strutturale e funzionale dei concetti normativi nella dottrina italiana si deve ad un attento Autore che ha ribadito il carattere meramente teorico dell’equivalenza tra la qualificazione normativa e la riduzione descrittiva239. Infatti, la qualificazione normativa rappresenta una decisiva semplificazione della tecnica legislativa. Pertanto, nessuna traduzione degli elementi normativi in descrittivi potrebbe considerarsi stabile ed esaustiva, Così PALAZZO, L’errore sulla legge extrapenale, cit. p. 16. RUGGIERO, Gli elementi normativi della fattispecie penale. Lineamenti generali, Napoli, 1965, p. 122. 239 PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 225, il quale reputa più corretto, a livello di esegesi normativa, parlare di «concetti» più che di «elementi» normativi della fattispecie. 237
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essendo i concetti normativi espressione e realizzazione di un’esigenza non di mera tecnica, ma di politica legislativa240. Ciò nonostante il medesimo Autore giunge alla conclusione che i concetti normativi sono comunque aperti al soggettivismo: un potenziale vulnus al carattere tassativo della fattispecie penale ed un ostacolo all’immediata comprensione del senso del divieto, destinato quindi ad essere filtrato dall’interprete. Per quest’ultimo motivo il giudice, nell’interpretare l’elemento valutativo–culturale, dovrebbe far riferimento a parametri obiettivamente rilevabili nella realtà socio–culturale ed individuabili in base a direttive espresse nella norma penale stessa241. La scienza penalistica si è inoltre concentrata sul rapporto esistente tra gli elementi normativi e le norme da questi richiamate: ossia se a concorrere alla descrizione della fattispecie legale siano i soli elementi normativi ovvero anche le norme cui questi si riferiscono. In altri termini, si tratta di indagare la natura integratrice o meno delle norme, giuridiche o extragiuridiche, richiamate dagli elementi normativi242. Per risolvere tale quesito è necessario interrogarsi a fondo circa la struttura e la funzione di questi elementi. Secondo parte della dottrina le norme richiamate dagli elementi normativi non hanno natura integratrice. In particolare, gli elementi normativi sono concetti impiegati nella descrizione della fattispecie legale astratta, dotati di un significato autonomo da quello delle norme a cui si riferiscono: essi soltanto concorrono a descrivere la figura di reato, contribuendo ad esprimere il disvalore in essa incarnato, non PULITANÒ, L’errore di diritto, loc. cit. PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 230. 242 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 42. 240
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anche le norme giuridiche o extragiuridiche che essi richiamano e che ne costituiscono soltanto i presupposti o criteri di applicazione243. Il legislatore seleziona i fatti penalmente rilevanti attraverso la configurazione di modelli legali di comportamento (ossia le fattispecie legali astratte), la cui integrazione è sanzionata dalla pena244. Pertanto, le fattispecie normative hanno la forma di proposizioni linguistiche e gli elementi delle fattispecie legali astratte non sono dei dati della realtà, ma dei termini linguistici (in altri termini dei concetti)245. Alla luce di tali considerazioni, l’idea degli elementi normativi come concetti−qualificatori è decisiva per distinguere l’elemento normativo – elemento facente parte della fattispecie legale astratta, che contribuisce a descrivere – dalle norme da questo richiamate (i criteri di attribuzione della qualifica espressa dall’elemento normativo−concetto qualificatore). Infatti, le norme alle quali gli elementi normativi si riferiscono servono soltanto, contingentemente, a determinare l’effetto di qualificazione (cioè l’attribuzione della qualifica normativa) rilevante per la norma incriminatrice. Esse, tuttavia, non si identificano con la qualifica espressa degli elementi normativi: consentono solo di attribuirla a determinate cose, persone o situazioni. Quindi, il significato della qualifica, cioè dell’elemento normativo, come concetto che esprime appunto una qualifica da operarsi in base ad un certo tipo di norme giuridiche o extragiuridiche, è invero del tutto indipendente dal significato e dal contenuto delle norme da esso richiamate246. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 44. ID., op. loc. cit. 245 PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 217; PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, p. 482. 246 Così si veda GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 52. 243
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In tal modo, si giunge alla considerazione che gli elementi normativi sono dotati di una loro autonomia concettuale, strutturale e funzionale rispetto alle norme richiamate per l’attribuzione della qualifica che essi esprimono. Come evidenziato dallo stesso Autore, le norme richiamate da un elemento normativo della fattispecie247, sono sì necessarie «a verificare se a una certa situazione di fatto si attagli la qualifica x, ma la previsione di x come elemento del reato è indipendente da esse. Di qui la legittimità del considerarle comunque estranee (anche se collegate) alla norma penale perfetta, riconoscendosi già nella norma-­‐‑madre incriminatrice la tipizzazione di tutti gli elementi del reato, quale che sia la natura (descrittiva o normativa) dei concetti usati»248. Lo stesso Autore, quindi, conclude nel senso che «il significato degli elementi normativi […] è del tutto indipendente dal contenuto delle fattispecie integratrici, cui pure occorre riferirsi per poter applicare tali elementi a situazioni concrete. Queste situazioni […] possono variare, senza che con questo muti il significato e la portata della qualificazione normativa ad esse riconnessa»249. Di conseguenza, i criteri di applicazione dei concetti normativi (vale a dire le norme da questi richiamate), pur essendo condizioni della loro Si consideri ad esempio l’«altruità» nel delitto di furto. Citato espressamente PULITANÒ, Illiceità espressa e illiceità speciale, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1967, p. 100; negli stessi termini PULITANÒ, voce Ignoranza (dir. pen.), in Enc. del Dir., vol. XX, Milano 1970, p. 39; e in L'ʹerrore di diritto, cit., p. 233. 249 Testualmente PULITANÒ, Illiceità espressa, cit. p. 102. Alla medesima conclusione è giunto anche ROMANO, Repressione, cit. p. 140, il quale ha sottolineato come una cosa è il significato del concetto normativo di «altrui», un altro viceversa sono le norme alla stregua delle quali si determina come l'ʹaltruità viene di volta in volta a prodursi. Queste ultime, infatti, non divengono mai parte integrante della norma incriminatrice, in quanto non aggiungono nulla alla valutazione normativa già tutta contenuta nella regola di condotta immessa nell'ʹordinamento, non predicano la condotta né l’altruità, ma garantiscono solo la produzione dell'ʹeffetto giuridico penalmente rilevante, non entrano a costituire la materia del divieto, ma costituiscono le fattispecie astratte e indipendenti, sulla base delle quali si accerta se la singola cosa, del cui concreto impossessamento si discute appartiene a B o a C, comunque non ad A. Negli stessi termini si è pronunciato anche PAGLIARO, Riserva di legge, elementi normativi, e questioni pregiudiziali, in Scritti in memoria di Girolamo Bellavista, Il Tommaso Natale, 1977, p. 369. 247
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riferibilità a fatti concreti, non attengono al significato di concetto normativo: essi costituiscono solamente i presupposti per l’attribuzione a date realtà di fatto della qualifica espressa dal concetto normativo, qualifica che sola determina la rilevanza di quei dati di fatto cui si riferisce entro la fattispecie penale250. Sulla scorta di quanto affermato si può ragionevolmente concludere che la ragion d’essere degli elementi normativi è la necessità imposta dal carattere accessorio che il diritto penale possiede rispetto agli altri rami dell’ordinamento, quando le norme incriminatrici disciplinano una realtà già preformata dal diritto, apportando la loro regolamentazione su di una situazione preliminarmente qualificata da altri rami dell’ordinamento. A volte, infatti, è una realtà normativamente filtrata che si riversa nelle figure di reato e, proprio in questi compaiono nella fattispecie legale, cioè nella descrizione legale dei fatti incriminati, gli elementi normativi. La loro presenza, imposta dalla necessità poc’anzi delineata, assolve, alla funzione di elastico adattamento della fattispecie all’eventuale mutamento della realtà giuridica preformata, sulla quale le fattispecie legali astratte riposano e vengono costruite251. 2.2.2 Le norme penali in bianco Un secondo esempio di integrazione della legge penale è costituito dalle norme penali in bianco252. Esse vengono designate da una parte della dottrina come un modello di norme penali il cui precetto è posto, in tutto in parte, da una norma diversa da PULITANÒ, voce Calunnia e autocalunnia, in Dig pen., vol. II, Torino, 1988, p. 20; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 262. 251 Così GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 67. 252 Cfr. PETRONE, La costruzione della fattispecie penale mediante rinvio, in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, p. 151. 250
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quella che prevede la sanzione253: le norme di riempimento del precetto in bianco sono pacificamente ritenute vere e proprie norme integratrici della legge penale in bianco. Secondo una diversa posizione dottrinale le norme penali in bianco sarebbero un sinonimo di norme penali incomplete che nascono, cioè bisognose di essere integrate da altre norme254. Allontanandosi dalla definizione poc’anzi delineata la nozione della categoria in questione diventa notoriamente controversa: da un lato, secondo una parte della dottrina si tratterebbe di norme del tutto prive di precetto e, quindi, meramente sanzionatorie255; dall’altro lato, una diversa opinione afferma che esse sarebbero norme che presentano un contenuto precettivo, seppur minimo, bisognoso di specificazione256. Inoltre è discusso se di norma penale in bianco si possa parlare: − unicamente quando la legge penale richiama, ad integrazione (totale o parziale) del precetto, una norma di fonte sublegislativa (o comunitaria); − anche qualora la legge penale richiama un provvedimento individuale e concreto del potere esecutivo (ad esempio l’art. 650 c.p., il quale è il caso più noto di norma penale in bianco); − unicamente quando la legge penale richiama, ad integrazione totale o parziale) del precetto una fonte sublegislativa (o comunitaria) di emanazione futura, operando in questo modo un rinvio mobile257. Vi è poi chi distingue tra norma penale totalmente in bianco (ossia quella contenuta in una legge, che contiene soltanto la sanzione, e non il precetto) e norma penale parzialmente in bianco (quella in cui soltanto una parte del DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 114; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 57; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 25; PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 207. 254 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 71; ROMANO, Commentario, cit., p. 38. 255 Per tutti si veda CARBONI, L’inosservanza dei provvedimenti dell'ʹautorità. Lineamenti dogmatici e storico-­‐‑costituzionali dell'ʹarticolo 650 del codice penale, Milano, 1970, p. 149. 256 In tal senso PETROCELLI, Norma penale e regolamento, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1959, p. 377 257 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 73. 253
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precetto – uno o più elementi costitutivi del reato – è descritta da una norma diversa da quella che prevede la sanzione)258. Inoltre, la norma richiamata dalla norma penale in bianco deve avere immancabilmente il carattere della generalità e dell’astrattezza, che come è noto, è per definizione proprio della legge, ossia della fonte che contiene la norma penale da completare259. Alla luce di tale considerazione ogni norma che abbia i caratteri suddetti può, in linea generale, qualunque ne sia la fonte, funzionare da norma di riempimento di una norma penale in bianco. Pertanto, il precetto della norma penale in bianco può essere riempito, in tutto o in parte, da: a) una norma contenuta in una legge formale dello stato260; b) una norma di fonte sublegislativa, contenuta in un provvedimento generale ed astratto del potere esecutivo261; c) una norma generale ed astratta di fonte sovranazionale come, ad esempio, quelle del diritto comunitario262. Le norme richiamate possono in particolare essere: preesistenti di fonte legale; preesistenti di fonte sublegislativa o sovranazionale e, in particolare, comunitaria; future di fonte legale; future di fonte sublegislativa o sovranazionale e, in particolare, comunitaria263. Si evidenziano le difficoltà riscontrate in dottrina ed in giurisprudenza nel distinguere le norme penali in bianco dagli elementi normativi264. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 77. In tal senso DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 109; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 315. 260 DOLCINI, MARINUCCI, loc. cit., p. 115. 261 PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 120. 262 GRASSO, Comunità europee e diritto penale. I rapporti tra l'ʹordinamento comunitario e i sistemi penali degli stati membri, Milano, 1988, p. 292; MAZZINI, Prevalenza del diritto comunitario sul diritto penale interno ed effetti nei confronti del reo, in Il dir. dell'ʹUn. eur., 2000, p. 371; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 117 263 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 79. 264 Per un quadro riassuntivo delle varie tesi si veda ad esempio CERQUETTI, Teoria degli atti giuridici previsti nella norma incriminatrice, Napoli, 1973, p. 49. 258
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Invero tra questi due modelli di eterointegrazione della legge penale, il confine risulta tutt’altro che nitido265, anche a causa dell’elaborazione di varie categorie dogmatiche intermedie, quali le norme penali parzialmente in bianco o l’illiceità espressa o speciale. Lungi dal poter desumere in termini formali, la distinzione tra i vari modelli di eterointegrazione della legge penale non sembra dunque potersi prescindere da un’indagine di tipo funzionale, evidenziando anche il ruolo assolto dal materiale di complemento nell’economia precettiva della disposizione incriminatrice266. In realtà neppure quest’ultimo tipo di indagine può aiutare ad individuare correttamente un discrimine tra le due categorie267. Viceversa, secondo una diversa impostazione le norme penali in bianco si definiscono come quelle disposizioni incriminatrici il cui giudizio di tipicità non origina dall’enucleazione di una fattispecie, bensì da una valutazione a contrario rispetto ad un modello comportamentale predeterminato, indipendentemente dalla sua natura amministrativa o legale o dal suo carattere posteriore rispetto alla vigenza della disposizione incriminatrice; mentre gli elementi normativi si inseriscono nell’ambito della descrizione di un quadro di vita (la fattispecie) per comprendere esattamente il quale occorre riferirsi a una o più informazioni giuridiche esterne che vengono evocate proprio per il tramite dell’elemento normativo268. 2.2.3 Le definizioni legali o norme definitorie Vi è chi addirittura dubita della possibilità di individuare con certezza tale confine: cfr. fra tutti RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 99. 266 MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 28. 267 Per una critica alle varie teorie che distinguono le norme penali in bianco dagli elementi normativi cfr. MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 28-­‐‑29. 268 ID., Legge penale, cit., p. 34. 265
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In ordine alle definizioni legali (o dette altrimenti norme definitorie)269, esse indicano quelle disposizioni con cui il legislatore, attraverso una specie di interpretazione autentica cerca di specificare il significato di questo o di quel termine, vincolando così l’interpretazione giurisprudenziale270. Nel codice penale si ritrovano numerosissime definizioni legali che riguardano sia concetti di parte generale, sia le singole figure di reato di parte speciale. Il ricorso alle definizioni legali è, altresì, sempre più frequente nella legislazione complementare, soprattutto in materie molto tecniche: a volte il legislatore inserisce, solitamente nei primi articoli di un testo legislativo, delle disposizioni con le quali definisce il significato che, agli effetti della legge stessa, deve essere attribuito a questo o a quel termine271; talora, nel configurare una determinata figura di reato, demanda ad un’altra legge la definizione di questo o di quel concetto272; talvolta, infine, nelle norme incriminatrici vengono impiegati dei concetti propri di altri rami dell’ordinamento (ad esempio del diritto civile, commerciale, amministrativo ecc.) ove in questi ultimi sono oggetto di definizioni legali273. Come si distinguono, pertanto, le definizioni legali dalle norme penali in bianco e dagli elementi normativi della fattispecie? Sull’argomento GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. I, II ed., Milano, 1947, p. 263; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 271; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 179. 270 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 128; PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 236; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 92; SIRACUSANO, Principio di precisione e definizioni legislative di parte speciale, in DOLCINI, PALIERO (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, tomo I, Milano, 2006, p. 739. 271 Si pensi ad esempio alla nozione di rifiuto di cui all’art. 183 del D.Lvo 3 aprile 2006. 272 Cfr. l’art. 644 comma 3 c.p. riformato in cui il legislatore ha previsto che «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interesse sono sempre usurari» demandando così la precisazione di tale concetto a disposizioni che non sono contenute nel codice penale, bensì nella legge di riforma del delitto di usura (la legge 7 marzo 1996, n. 108). 273 È questo il caso della definizione di «imprenditore» (ex art. 2082 c.c.) rispetto ai reati di bancarotta puniti dagli artt. 216 ss. del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. 269
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Nonostante sia per le definizioni legali che per le norme penali in bianco sussista un rapporto di reale integrazione, i due modelli divergono. In particolare, le norme penali che contengono un termine definito da un’altra norma non possono ritenersi «in bianco», anche se attendono di essere integrate dalla norma definitoria. In ogni caso, a prescindere dalla considerazione che non ogni norma che attende di essere integrata da un’altra e per ciò solo una «norma penale in bianco», si osserva che soltanto le norme penali in bianco sono in tutto o in parte prive del precetto. Al contrario, nelle norme penali che contengono un termine definito da un’altra norma, il precetto non è mancante solo che il suo significato, con una sorta di interpretazione autentica, deve essere precisato in conformità a quanto prescrive la norma che contiene la definizione legale274. Più interessante è la differenza tra definizioni legali ed elementi normativi, poiché, come si è già avuto modo di notare, è piuttosto rilevante tra i due modelli la diversità funzionale e strutturale. La distinzione tra concetti definiti e concetti normativi può non essere sempre facile e, più precisamente, vi sono due ipotesi problematiche: − la definizione legale viene formulata impiegando concetti normativi275; − il concetto legalmente definito è un concetto originariamente normativo: ossia un concetto che nasce come normativo ma che, da un certo punto in poi, viene fatto oggetto di una definizione legale276. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 86, ove l’Autore afferma poi che tale distinzione non assume rilievo nella pratica se si è d’accordo sul fatto che sia la norma penale in bianco sia la norma penale che impiega un concetto oggetto di una definizione legale sono norme effettivamente integrate da altre. 275 A titolo esemplificativo si veda la norma definitoria di pubblico ufficiale di cui all’art. 357 c.p., in cui «pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa» è un concetto normativo. Nonostante sia contenuto in una norma definitoria, la sua struttura e la sua funzione non sono diverse da quelle proprie di qualsiasi altro concetto normativo: infatti, per attribuire ad un certo soggetto la qualifica di pubblico ufficiale, il giudice deve fare riferimento alle norma di diritto pubblico, le quali all’interno dell’ordinamento attribuiscono a certi soggetti l’esercizio di pubbliche funzioni legislative, giudiziarie o amministrative. 276 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 86-­‐‑90. 274
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Nella prima ipotesi, il rapporto che intercorre tra la norma definitoria e la norma penale contenente il termine definito è un vero e proprio rapporto di integrazione, poiché la norma definitoria diventa parte di quella penale, in modo che anche il concetto normativo impiegato nella norma definitoria diventa parte di quella penale venendo in rilievo come qualsiasi altro concetto normativo della fattispecie277. Circa la seconda ipotesi sopra delineata, è necessario tenere presente che le definizioni legali possono avere ad oggetto non soltanto concetti descrittivi, ma anche concetti normativi278. Se un concetto, descrittivo o normativo, è legalmente finito diventa un concetto definito. Ove ad essere oggetto di una definizione legale sia un concetto originariamente normativo, si distingue a seconda che sia definito da una norma redatta unicamente con l’impiego di elementi descrittivi (con la conseguenza che il concetto normativo perderà la sua natura e funzione di concetto normativo) oppure con l’impiego di uno o più elementi normativi (qui il concetto normativo oggetto di una simile definizione legale manterrà, nella sostanza, la propria natura e funzione di concetto normativo)279. 3. LA SUCCESSIONE DI NORME INTEGRATRICI Non dà luogo all’integrazione il diverso rapporto tra la norma definitoria e le norme, giuridiche o extragiuridiche, richiamate dal concetto normativo impiegato nella formulazione della definizione legale. 278 GRASSO, Considerazioni in tema di errore su legge extrapenale, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1976, p. 138. 279 Cfr. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 82; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 132; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 165. 277
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Nel precedente paragrafo abbiamo visto che l’esistenza di norme integratrici della legge penale implica, per definizione, la presenza di leggi penali incomplete e, per tale ragione, bisognose di integrazione. Ciò nonostante, si è notato altresì che non tutte le leggi penali che in vario modo fanno riferimento ad altre norme presentano questo carattere di incompletezza: nello specifico, soltanto due dei modelli presi in considerazione possono essere riferiti a leggi penali incomplete e, quindi, richiedenti una vera e propria integrazione, ossia le norme penali in bianco e le definizioni legali. Questi rapporti di reale o apparente integrazione normativa si svolgono non soltanto nello spazio ma anche nel tempo: infatti, può accadere che una modifica normativa, incidendo sulla norma «integrata» ovvero su quella «integratrice», alteri in qualche modo quel rapporto, dando così luogo a problemi di diritto intertemporale. Pertanto, si utilizza l’espressione successione di norme integratrici per indicare il fenomeno della modifica nel tempo delle norme, giuridiche o extragiuridiche, chiamate a reale o apparente integrazione della legge penale280. Di fronte a tale fenomeno il problema da risolvere è se la disciplina della successione di leggi penali, di cui all’art. 2 c.p. che abbiamo analizzato approfonditamente, debba o meno trovare applicazione quando una modifica normativa abbia ad oggetto non la norma incriminatrice – vale a dire la norma che commina la sanzione penale – bensì una norma diversa, in vario modo richiamata a reale o apparente integrazione di quella. La questione in parola riguarda, in linea di principio, l’applicabilità dell’intera disciplina dell’art. 2 c.p. nel suo complesso281. Tuttavia, il dibattito nella dottrina e nella giurisprudenza si è concentrato soprattutto con riguardo Si veda fra tutti GROSSO, Successione di norme integratrici, cit., p. 1206; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186. 281 Sia il principio di irretroattività in malam partem sia quello di retroattività in bonam partem. 280
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al secondo principio ed in particolare, nella quasi totalità dei casi, in relazione alla disciplina dell’abolitio criminis. 3.1 La successione di norme integratrici e abolitio criminis Come si è avuto modo di evidenziare nel capitolo precedente, la presenza di un’abolitio criminis totale o parziale, risolvendosi entrambe le figure in un’abrogazione (totale o parziale) di una norma incriminatrice, necessita di far riferimento in ultima analisi alla norma e non alla disposizione. Pertanto, tale fenomeno è sempre il risultato di una modifica normativa che incide sulla struttura (o fisionomia) della fattispecie legale astratta È necessario, in presenza di una disposizione, appurare non soltanto se qualche altro enunciato normativo interferisca con essa ma, nell’ipotesi affermativa, anche se quest’altro enunciato contribuisca ad integrare la norma integratrice, ovvero ne costituisca un suo frammento282. Appurato che sussiste la necessità di fondare l’abolitio criminis su di una modifica strutturale della fattispecie legale astratta, per la soluzione del problema sopra indicato rileva senz’altro la distinzione tra norme realmente integratrici e norme solo apparentemente integratrici283. Tale distinzione evidenzia come non ogni norma richiamata dalla legge penale è in grado, modificandosi nel tempo, di incidere sulla struttura della fattispecie legale astratta e, quindi, di determinare abolitio criminis. Ciò, come vedremo meglio, può dirsi soltanto delle norme realmente integratrici, non già di quelle che sono tali apparentemente284. In conseguenza, anche in materia di successione di disposizioni integratrici per verificare l’effetto abolitivo, bisogna stabilire se la fattispecie GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 244. Cfr. Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, in Cass. pen., 2008, p. 898. 284 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 246. 282
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astratta di quella specifica figura di reato si è ridotta, cioè se l’area incriminatrice di essa si è circoscritta285. Occorre accertare se l’atto o l’enunciato oggetto di modificazione contribuisca effettivamente a delimitare l’astratta area normativa d’incriminazione, non essendo sufficiente che esso escluda in concreto alcuni fatti storici che si sono verificati: il fenomeno dell’abolitio criminis è invariabilmente un concetto logico-­‐‑formale, riconducibile ad un’abrogazione (almeno parziale) di una norma generale e astratta, sicchè è esclusa una verifica legata al caso concreto286. 3.2 La successione di norme realmente integratrici 3.2.1 Abolitio criminis e le norme penali in bianco Il primo caso di abolitio criminis, come conseguenza della successione di norme realmente integratrici, si verifica qualora sussista un’abrogazione o una modifica delle norme che riempiono il precetto delle c.d. norme penali in bianco287. In relazione a questo tema vengono, quindi, in rilievo solamente le ipotesi di modifica di norme, generali ed astratte – indifferentemente di fonte legislativa, sublegislativa o non legislativa (ad esempio comunitaria) – cui la legge penale rinvia per la descrizione di uno o più elementi del reato, ovvero dell’intera fattispecie. Richiamando la distinzione effettuata tra norme penali totalmente in bianco e parzialmente in bianco288, il problema in esame può porsi nei seguenti GAMBARDELLA, L'ʹart. 2 del codice penale, cit., p. 1219. MICHELETTI, Legge penale e successione, cit., p. 65; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186. 287 Sull’argomento si veda DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 277; GRISPIGNI, Diritto penale, cit., p. 357; MANZINI, Trattato, cit., p. 325; MICHELETTI, Legge penale e successione, cit., p. 441. 288 Cfr. supra, Cap. I, § 2.2.2. 285
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termini: circa le norme penali totalmente in bianco, una questione di abolitio criminis si pone in presenza di una modifica che riguarda la norma (realmente) integratrice, contenente il precetto289; in ordine alle norme penali parzialmente in bianco, la questione si pone in senso analogo290. Poiché, come abbiamo visto, le norme che riempiono il precetto delle norme penali in bianco sono vere e proprie norme integratrici della legge penale291, ogni modifica delle prime incide direttamente sulla struttura della fattispecie legale astratta, configurando così un’ipotesi di abolitio criminis292. Infatti, la fisionomia di una fattispecie legale in tutto o in parte in bianco muta al variare della norma che ne contiene o ne completa la descrizione. Per tale ragione, è possibile che all’esito di un confronto strutturale tra le fattispecie in bianco risultanti prima e dopo la modifica della norma integratrice l’interprete riscontri l’abolizione del reato configurato dalla norma penale in bianco293. Tenendo presente le varie classificazioni svolte nel presente elaborato294, possiamo distinguere295: Così quando la legge penale prevede che «è punito con la pena x chi non osserva le disposizioni della presente legge» ovvero che «è punito con la pena x chi non osserva le disposizioni dell’art. y della legge z» ovvero ancora che «è punito con la pena x chi non osserva le disposizioni del decreto ministeriale y, o del regolamento comunitario z», l’abrogazione o la modifica delle norme richiamate può porre un problema di abolitio criminis, e di applicabilità della disciplina prevista dall'ʹart. 2 comma 2 c.p. Così GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 254. 290 In questo caso quando la legge penale prevede che «è punito con la pena x chi detiene o commercia le sostanze elencate nel decreto ministeriale y», o che «è punito con la pena x chi importa la specie di animali di cui all’art. n della legge k, ovvero chi immette in commercio un alimento di cui all’art. x del regolamento comunitario z», l’abrogazione o la modifica di queste norme richiamate può determinare un’ipotesi di successione di norme realmente integratrici e, quindi, di possibile abolitio criminis. Nei seguenti termini GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 255. 291 Cfr. supra, Cap. I, § 2.2.2. 292 Conclusione condivisa in dottrina, si veda a titolo esemplificativo CADOPPI, VENEZIANI, Elementi di diritto penale. Parte generale, V ed., Padova, 2012, p. 136; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186; ROMANO, Commentario, cit., p. 57. 293 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 257. 294 Da un lato, l’abolitio criminis totale o parziale, dall’altro la norma integrata totalmente o parzialmente in bianco. 295 Per tale distinzione si veda DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 277. 289
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a) l’abolizione totale di una fattispecie penale totalmente in bianco, la quale si configura ove la norma integratrice, che contiene il precetto viene abrogata senza essere contestualmente sostituita da un’altra, ovvero viene sostituita con un’eterogenea, non legata alla precedente da un rapporto di specialità; b) l’abolizione parziale di una fattispecie penale totalmente in bianco, la quale si realizza quando vengono ridefiniti in senso restrittivo i contorni della norma integratrice che riempie il precetto in bianco, in modo che questa risulti speciale rispetto a quella previdente; c) l’abolizione totale di una fattispecie penale parzialmente in bianco, in cui la norma integratrice, chiamata a completare, rispetto ad uno o più elementi costitutivi, la descrizione del precetto in bianco, viene abrogata senza che contestualmente venga sostituita da un’altra, ovvero viene sostituita con un’eterogenea, ossia non legata alla precedente da un rapporto di specialità; d) l’abolizione parziale di una fattispecie penale parzialmente in bianco, ove vengono ridefiniti in senso restrittivo i contorni della norma integratrice che contiene parte del precetto (la descrizione di uno o più elementi costitutivi), in modo che questa risulti speciale rispetto a quella previgente. Conclusivamente l’abolitio criminis come conseguenza della modifica delle norme chiamate a riempire un precetto in tutto o in parte in bianco si impone qualunque sia la fonte della norma che integra la legge penale in bianco. Tuttavia, si evidenzia che la modifica anzidetta non comporta abolitio criminis, in applicazione dell’art. 2 comma 5 c.p., qualora le norme integratrici oggetto di modifica siano eccezionali o temporanee296. Tale ipotesi si verifica quando quelle norme sono dettate per fronteggiare situazioni oggettive di carattere straordinario, ovvero contengono la predeterminazione espressa del periodo di tempo in cui hanno vigore: in questo MANZINI, Trattato, cit., p. 332; PODO, voce Successione di leggi penali, in NsD, vol. XVIII, Torino, 1971, p. 659. 296
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caso il carattere eccezionale o temporaneo delle norme integratrici è proprio anche della legge penale integrata, cosicchè trova applicazione l’art. 2 comma 5 c.p.297 3.2.2 Abolitio criminis e le norme definitorie Anche in caso di modifica delle norme definitorie si prospetta un problema di abolitio criminis. Si pensi, ad esempio, al caso tradizionale di modifica di una definizione legale penalmente rilevante, ossia della definizione legale di maggiore di età di cui all’art. 2 c.c. Quando la legge n. 39 del 1975 sulla riforma del diritto di famiglia ha portato da ventuno a diciotto anni il limite della maggiore età, le incriminazioni che fanno riferimento al minore nella fattispecie astratta hanno subito una riduzione del loro campo applicativo298. Dal momento che sussistono molte norme incriminatrici che fanno riferimento al «minore» come elemento costitutivo, in seguito a tale modifica la dottrina si era chiesta se rimanesse punibile chi avesse commesso questo tipo di reati nei confronti di una persona che, all’epoca del fatto, era minore di età secondo la definizione legale allora vigente, ma non più secondo una nuova e sopravvenuta definizione legale299. In quest’ipotesi si è posto un problema di abolitio criminis parziale, ossia se i fatti, commessi prima della modifica delle norme che definiscono il concetto di «minore», rimangano penalmente rilevanti o se, viceversa, debba trovare applicazione la disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p. PODO, voce Successione , cit., p. 678. DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276. 299 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 265. 297
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In altri termini, si tratta di stabilire se ad ogni modifica in senso restrittivo di una definizione legale di un concetto della fattispecie si verifichi oppure no un’abolizione parziale della figura di reato contenente il concetto definito, anche se, formalmente, la norma incriminatrice non ha subito alcuna modifica, poiché questa ha riguardato, esplicitamente, soltanto la norma definitoria300. Come le norme che riempiono il precetto delle norme penali in bianco, anche le norme definitorie sono vere e proprie norme integratrici: in particolare, tra il concetto di fattispecie definito e la più complessa proposizione contenuta nella norma definitoria intercorre un rapporto di equivalenza. Ciò fa sì che ogni modifica della norma definitoria equivalga ad una modifica del concetto definito e, quindi, della fattispecie legale astratta che impiega quel concetto nella propria descrizione: dunque, è una modifica in grado di comportare abolitio criminis, in quanto incide direttamente (immediatamente) sulla struttura della fattispecie legale astratta e, attraverso di essa, sulla scelta politico-­‐‑
criminale e sul giudizio di disvalore di cui la stessa è espressione301. Dopo aver confrontato la struttura tra le fattispecie legali risultanti prima e dopo la modifica della norma definitoria, è possibile individuare le seguenti due ipotesi di abolitio criminis: a) l’abolizione integrale del reato come conseguenza della modifica di una norma definitoria, la quale si verifica qualora una norma definitoria venga sostituita con un’altra, del tutto eterogenea rispetto alla precedente, perchè non legata ad essa da un rapporto di specialità; Ancora, ID., Abolitio criminis, cit., p. 269. DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186; ROMANO, Commentario, cit., p. 55. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. II, 2 dicembre 2003, n. 4296, in Cass. pen., 2005, p. 2986; Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit., p. 898. Per quanto concerne il delitto di circonvenzione di incapaci posta in essere a danno di un minore in relazione alla modifica della definizione di tale termine si veda Cass. pen., sez. II, 8 ottobre 1975, Marino, in Giust. pen., 1975, II, p. 328; Cass. pen., sez. VI, 29 dicembre 1977, Amato, in Cass. pen., 1979, p. 1524. 300
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b) l’abolizione parziale del reato come conseguenza della modifica di una norma definitoria, in cui una norma definitoria viene sostituita con un’altra, dal contenuto omogeneo ma dalla portata più circoscritta, perchè speciale302, cosicchè alla fattispecie legata astratta integrata dalla norma definitoria ne succede un’altra rispetto ad essa speciale. Con la conseguenza che il confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte in successione evidenzia un’abolizione parziale del reato, limitata alla classe di fatti non più riconducibili alla nuova fattispecie legale, risultante dalla modifica della norma definitoria303. 3.3 La successione di norme apparentemente integratrici 3.3.1 Abolitio criminis e gli elementi normativi Abbiamo definito gli elementi normativi come dei concetti che contribuiscono a definire la fattispecie legale esprimendo qualifiche da attribuirsi a questo o a quell’elemento del fatto sulla base di norme giuridiche (penali o extrapenali) o extragiuridiche304. Qui il problema si pone qualora, restando immutata la norma incriminatrice che contiene l’elemento normativo, cambia invece la norma (penale, extrapenale o extragiuridica) richiamata dall’elemento normativo, la quale opera come criterio o presupposto di attribuzione della qualifica che esso esprime. Infatti, la norma incriminatrice rimane virtualmente intatta. Tuttavia, la sua portata effettiva viene ad essere mutata a seguito della diversa configurazione giuridica, nel corso del tempo, di uno dei suoi elementi In tal senso DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276; ROMANO, Commentario, cit., p. 54; SIRACUSANO, Successione di leggi penali, I, Messina, 1988, p. 73. 303 Così GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 270-­‐‑271. 304 Cfr. supra, Cap. II, § 2.2.1. 302
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essenziali: si verifica un’ipotesi di riformulazione mediata della fattispecie delittuosa idonea, come tale, a porre in crisi i criteri tradizionalmente addotti dalla dottrina e dalla prassi applicativa per individuare i meccanismi di successione di leggi penali305. Si è già evidenziato come le norme giuridiche o extragiuridiche cui si riferiscono gli elementi normativi sono solo apparentemente integratrici, non concorrendo a descrivere la fattispecie legale astratta e, pertanto, non delineando il giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella configurazione del reato306. Se si accetta, quindi, la tesi delle norme apparentemente integratrici, la loro modifica non è mai in grado di comportare abolitio criminis poiché: − da un lato, non incide sulla struttura (o fisionomia) della fattispecie legale astratta307; − dall’altro, non fa venir meno l’offesa al bene giuridico tutelato, ormai definitivamente recata nella forma descritta dall’immutata fattispecie legale astratta e, quindi, non si ripercuote sulle scelte politico-­‐‑criminali e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore in relazione ad un invariato modello di condotta (o di tipo di fatto)308. Tali ragioni sono insieme di ordine formale e sostanziale, nello specifico: a) la mancata incidenza della modifica delle norme richiamate dagli elementi normativi sulla struttura o fisionomia della fattispecie legale astratta si spiega in quanto la ragione che porta a qualificare le norme stesse come apparentemente integratrici risiede nell’autonomia concettuale e funzionale degli elementi normativi dalle norme richiamate. RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 227. Ancora cfr. supra, Cap. II, § 2.2.1. 307 CADOPPI, VENEZIANI, Elementi di diritto penale, cit., p. 115; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 94; PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 154; ROMANO, Commentario, cit., p. 59. 308 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, loc. cit.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 132; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 314; ROMANO, Commentario, loc. cit. 305
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In particolare, soltanto l’elemento normativo, non anche le norme da questo richiamate, contribuisce alla descrizione della fattispecie legale astratta, al pari di ogni altro elemento, anche descrittivo: di conseguenza, la modifica di esso, come in caso di modifica di un elemento descrittivo, incide direttamente sulla struttura della fattispecie legale astratta e quindi può comportare abolitio criminis309. Data per assodata l’autonomia concettuale e funzionale degli elementi normativi dalle norme richiamate, si comprende perchè queste ultime non divengono mai parte integrante della norma incriminatrice310. Tale considerazione è di fondamentale importanza: infatti, se l’abolitio criminis dipende necessariamente da una modifica strutturale della fattispecie legale – la quale si accerta mediante un confronto tra le fattispecie legali astratte in successione –, mai una modifica della struttura della fattispecie e, quindi, un’abolitio criminis, può conseguire alla modifica delle norme richiamate dagli elementi normativi. In particolare, la modifica di queste norme non influisce sul significato di questi ultimi e, dunque, non si ripercuote sulla struttura della fattispecie legale astratta che li impiega nella propria descrizione311. b) la mancata incidenza della modifica delle norme richiamate dagli elementi normativi sull’offesa al bene giuridico tutelato, definitivamente recata nella forma descritta dall’immutata fattispecie legale astratta e, quindi, sulle scelte politico-­‐‑criminali e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore in relazione ad un invariato tipo di fatto. DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 275. Si sottolinea che la distinzione tra la modifica dell’elemento normativo e la modifica delle norme richiamate è stata affermata soltanto da parte della dottrina come l’Autore citato. Al contrario vi è chi non sembra aver colto questa fondamentale suddivisione, si veda ad esempio CARACCIOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, II ed., Padova, 2005, p. 86, il quale utilizza l’espressione «mutamento di elementi normativi» per riferirsi al fenomeno della modifica delle norme richiamate, e non degli elementi normativi. 310 PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 262; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 341. 311 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 278. 309
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La fattispecie legale astratta è lo strumento di cui il legislatore si serve per selezionare le classi di fatti che giudica penalmente rilevanti, perchè meritevoli e bisognosi di pena: pertanto, tale giudizio in merito al disvalore di determinate classi di fatti, in quanto offensive di uno o più beni giuridici trova, dunque, espressione nella fisionomia della fattispecie legale312. Una mutata valutazione legislativa in ordine al disvalore penale di un certo tipo di fatto non può pertanto mai essere la conseguenza della modifica delle norme richiamate dagli elementi normativi: sono norme soltanto apparentemente integratrici, la cui modifica non incide sulla forma di offesa descritta dalla fattispecie legale, che il legislatore intende reprimere con la pena. L’offesa al bene giuridico, valutata in relazione al momento in cui è stata posta in essere la condotta, risulta definitivamente e irreversibilmente recata313. Il fatto che, in un momento successivo alla commissione del fatto, venga meno la norma, giuridica o extragiuridica, che in precedenza ha consentito l’attribuzione nel caso concreto della qualifica espressa dall’elemento normativo della fattispecie, è del tutto irrilevante rispetto al giudizio di disvalore per l’offesa ormai definitivamente recata, nella forma tuttora prevista da quella fattispecie, rimasta immutata. È opportuno sottolineare come oltre alla soluzione poc’anzi delineata, di cui si condivide le argomentazioni, sussistano posizioni che ammettono l’abolitio criminis come conseguenza della modifica di norme richiamate dagli elementi normativi. Pertanto, esistono tre filoni dottrinali diversi che si possono distinguere su tale argomento: − coloro i quali negano senza eccezioni che sia applicabile la disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p.314; ID., Abolitio criminis, cit., p. 280. PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 134; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 187. 312
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− coloro che ammettono delle eccezioni315; − chi, infine, ritiene che la disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p. sia, viceversa, sempre applicabile316. La diversità di tali tesi dipende da due profili: da un lato, dalla distinzione o meno tra norme integratrici e non integratrici; dall’altro, dalla eterogeneità dei criteri di accertamento dell’abolitio criminis317. 4. LA SOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA Negli anni anche la giurisprudenza ha affrontato numerose volte la questione relativa alla successione delle disposizione integratrici. Di seguito, quindi, si esamineranno alcuni dei casi più significativi sull’argomento. L’esempio più noto di successione di norme (apparentemente) integratrici, in particolare di norme penali richiamate da elementi normativi, è rappresentato dall’abolizione del reato oggetto di falsa incolpazione nella calunnia318. CADOPPI, VENEZIANI, Elementi di diritto penale, cit., p. 115; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 273; ROMANO, Commentario, cit., p. 59. 315 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 88; MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 355; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186. 316 CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 86; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 96; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 273. 317 In ordine ai criteri di accertamento del fenomeno dell’abolitio criminis cfr. supra, Cap. I, § 3.4. 318 Si ricorda che a norma dell’art. 368 c.p. «Chiunque, con denunzia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all'ʹautorità giudiziaria o ad un'ʹaltra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo; e si applica la pena dell’ergastolo, se dal fatto deriva una condanna alla pena di morte». 314
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L’orientamento della Corte di cassazione è sempre stato assolutamente costante nel ritenere che la perseguibilità del delitto di calunnia già consumato permane anche qualora, per un intervento del legislatore, il fatto oggetto di incolpazione non costituisce più reato o diventa perseguibile a querela e questa non sia stata proposta319. Poiché la falsa attribuzione di un fatto costituente reato integra l’elemento materiale della fattispecie criminosa, essa deve essere apprezzata con riferimento al momento consumativo, non influendo viceversa sulla sussistenza della fattispecie le modifiche legislative incidenti sulla definizione del reato presupposto, che nulla hanno a che vedere con la disciplina di cui all’art. 2 c.p.320. Un’ipotesi, invece, di successione di norme extrapenali richiamate da elementi normativi si può rinvenire nelle norme del diritto militare. La questione concerne l’abolizione del servizio militare di leva: in particolare, la giurisprudenza ha cercato di stabilire se i provvedimenti legislativi che hanno determinato la sospensione del servizio di leva avessero natura di leggi integratrici produttive di un’abolitio criminis (almeno parziale), Cfr. Cass. pen., sez. VI, 21 novembre 1988, n. 12673, in Cass. pen., 1990, p. 227; Cass. pen., sez. VI, 10 dicembre 1991, De Donato, in Riv. pen., 1993, p. 603; Cass. pen., sez. VI, 21 maggio 1999, Zini, in Cass. pen., 2000, p. 2253; Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2002, n. 14352, in Cass. pen., 2004, p. 2253. 320 Ancora Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2002, n. 14352, cit. Si sottolinea che, a differenza della giurisprudenza, la dottrina ha fornito soluzioni non univoche sostenendo: da un lato, la perdurante punibilità della calunnia anche se per novazione legislativa il fatto oggetto della falsa incolpazione non costituisce più reato; dall’altro, poiché il reato nel delitto di calunnia contribuisce a delineare l'ʹarea normativa, qualora il legislatore abroghi o depenalizzi un qualsiasi reato si restringe l’area normativa. In dottrina per la prima impostazione si veda per tutti GROSSO, Successione di norme integratrici, cit., p. 1209; PARDINI, Vecchi e nuovi problemi in tema di successione di norme integratrici, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 619. Per l'ʹaltra posizione cfr. CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 91; GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 249; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 253. 319
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rispetto ad esempio ai reati di mancanza alla chiamata alle armi (art. 151 c.p.m.p.321) e di diserzione (art. 148 c.p.m.p.322)323. La Corte di legittimità, ad eccezione di alcune decisioni isolate324, si è sempre pronunciata, in relazione alle figure di reato sopra citate, nel senso che la riforma del servizio militare obbligatorio abbia dato luogo ad una successione di norme integratrici ritenendo, quindi, applicabile i principi di cui all’art. 2 c.p. Sulla questione si formarono due orientamenti: − inizialmente, gli Ermellini ritennero applicabile l’art. 2 comma 2 c.p.: in altri termini, la riforma del servizio militare obbligatorio avrebbe comportato l’abolizione dei reati de quibus, facendo venir meno la rilevanza penale dei fatti antecedentemente commessi, con la conseguente revoca delle sentenze definitive di condanna325; − successivamente, il Supremo Collegio adottò un diverso indirizzo secondo il quale si ritenne sussistente una parziale abolitio criminis dei reati in parola, che con riguardo ai fatti commessi prima della riforma del servizio militare obbligatorio, tuttavia negando che in relazione a quei fatti sia applicabile l’art. 2 comma 2 c.p. e, al contrario, applicando il comma 4 della medesima Tale disposizione prevede: «Il militare, che, chiamato alle armi per adempiere il servizio di ferma, non si presenta, senza giusto motivo, nei cinque giorni successivi a quello prefisso, è punito con la reclusione militare da sei mesi a due anni. La stessa pena si applica al militare in congedo, che, chiamato alle armi, non si presenta, senza giusto motivo, nei tre giorni successivi a quello prefisso. Se la chiamata alle armi è fatta per solo scopo di istruzione, il militare, che non si presenta, senza giusto motivo, negli otto giorni successivi a quello prefisso, è punito con la reclusione militare fino a sei mesi». 322 Il quale punisce «1. il militare, che, essendo in servizio alle armi, se ne allontana senza autorizzazione e rimane assente per cinque giorni consecutivi; 2. il militare, che, essendo in servizio alle armi e trovandosi legittimamente assente, non si presenta, senza giusto motivo, nei cinque giorni successivi a quello prefisso». 323 Sul tema cfr. BRUNELLI, MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 2007, p. 9. 324 Cass. pen., sez. I, 19 luglio 2005, n. 26792, in Cass. pen., 2006, p. 1807; Cass. pen., sez. I, 23 maggio 2006, n. 21846, in De Jure. 325 Fra le tante cfr. Cass. pen., sez. I, 10 febbraio 2005, Caruso, in Cass. pen., 2006, p. 418; Cass. pen., sez. I, 24 gennaio 2006, Bova, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 614; Cass. pen., sez. I, 6 aprile 2006, n. 15992, in De Jure. 321
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disposizione, ossia la disciplina della successione di leggi meramente modificative326. Appare opportuno evidenziare come nessuno dei due indirizzi interpretativi giurisprudenziali può condividersi: nel caso di specie non si applica né l’art. 2 comma 2 c.p, non essendosi verificata alcuna abolitio criminis, né l’art. 2 comma 4 c.p., poiché la disciplina dei reati di «assenza dal servizio»327 non è stata modificata. Nello specifico, è assolutamente privo di fondamento il secondo orientamento, il quale per salvare le sentenze definitive di condanna, ritiene esistente una supposta abolitio criminis parziale dei reati in parola, applicando però il quarto comma dell’art. 2 invece che il secondo. La disciplina applicabile, in caso di abolitio criminis parziale o totale, è quella contenuta nell’art. 2 comma 2 c.p. che impone la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato: tale esito non può essere evitato328. In ordine, altresì, alle norme penali in bianco si è già evidenziato come è sempre possibile che si prospetti una questione di successione di norme realmente integratrici: anche qui è opportuno domandarci se si verifichi o meno una successione di leggi penali da disciplinare ai sensi dell’art. 2 c.p. e, soprattutto, se il fenomeno possa comportare, ex art. 2 comma 2 c.p., una parziale o totale abolizione del reato configurato dalla norma penale in bianco329. Per tutte Cass. pen., sez. I, 11 maggio 2006, Brusaferri, in Riv. it. dir. pen. e proc., 2006, p. 1633. È chiaro come tale orientamento piuttosto contraddittorio abbia una ragione politico-­‐‑
giudiziaria. Anche in questo caso la dottrina non si è espressa in modo inequivocabile: per chi nega l’abolitio criminis si veda a titolo esemplificativo BRUNELLI, MAZZI, Diritto penale militare, cit., p. 239; MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 521; per chi, invece, ammette l’abolitio criminis cfr. per tutti RISICATO, Successione di norme “integratrici” e mancanza alla chiamata di leva: si consolida il revirement della Cassazione, nota a Cass. pen., sez. I, 11 maggio 2006, Brusaferri, cit., p. 1648. 327 Così vengono chiamati i reati di mancanza alla chiamata alle armi e di diserzione. 328 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 784. 329 In questi termini GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 869. 326
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Un tipico esempio è rappresentato dai reati in materia di sostanze stupefacenti, poichè la disciplina penale (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309330) è uno dei casi più emblematici in cui il legislatore ha usato norme penali parzialmente in bianco: infatti, l’individuazione delle sostanze stupefacenti è stata affidata a norme diverse da quelle incriminatrici e, in particolare, a norme che predispongono delle tabelle, periodicamente aggiornate, in cui tali sostanze vengono individuate e raggruppate in elenchi331. Tali norme sono vere e proprie norme integratrici della legge penale, concorrendo alla descrizione delle fattispecie legali astratte nei reati in materia di stupefacenti332. In giurisprudenza si è affermato che in questi casi, in cui si verifica una successione nel tempo di norme extrapenali integratrici del precetto penale, si deve escludere l’applicabilità del principio di cui all’art. 2 comma 4 c.p. qualora si tratti di modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente una variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando. Tale circostanza si verifica, in particolare, quando la nuova disciplina non abbia inteso far venir meno il disvalore sociale della condotta, e quindi l’illiceità penale della stessa, ma si sia limitata a modificare i presupposti per l’applicazione della norma incriminatrice penale333. La fattispecie concreta riguardava una vicenda relativa al trattamento da riservare alla sostanza norefredina o fenilpropanolamina, che, successivamente alla commissione dei fatti oggetto di giudizio, relativamente ai quali era stato contestato il reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990, era stata ricompresa tra i Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope. È il Ministero della Salute a predisporre tali tabelle mediante dei provvedimenti generali ed astratti (ossia decreti ministeriali), sulla base di criteri determinati dalla legge. 332 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 277; PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 319; ROMANO, Repressione, cit. p. 154. 333 Nei seguenti termini cfr. Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2006, n. 17230, in Cass. pen., 2007, 6, p. 2500. 330
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«precursori», ossia tra le sostanze suscettibili di impiego per la produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope334. Da ultimo, giova ancora richiamare tre recenti sentenze delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali hanno fornito degli importanti contributi alla soluzione del problema dell’abolitio criminis come conseguenza della successione di norme integratrici. In questo paragrafo verranno richiamate soltanto due di esse, in quanto la sentenza Niccoli335 verrà trattata ampiamente nella seconda parte dell'ʹelaborato ove si affronterà il tema centrale della nostra trattazione. La prima decisione, in ordine cronologico, è stata la sentenza Magera336 in cui gli Ermellini sono stati chiamati a statuire in ordine alla punibilità dei cittadini rumeni espulsi, autori del reato di inosservanza dell’ordine di allontanamento dallo Stato, impartito dal questore ai sensi dell’art. 14 comma 5 ter T.U.Imm., qualora successivamente alla commissione del fatto tali soggetti abbiano perso lo status di extracomunitari per effetto dell’adesione della Romania all’Unione europea. Nonostante sull’argomento non vi fosse un vero e proprio contrasto giurisprudenziale, la prima sezione ha rimesso comunque la questione alle Sezioni Unite poichè all’interno della giurisprudenza di legittimità erano presenti indirizzi contrapposti sul tema della modifica mediata della fattispecie La dottrina in ordine all’ipotesi di eliminazione di una sostanza dall'ʹelenco degli stupefacenti, si è espressa per l'ʹapplicabilità della disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p., ritenendo che eliminare una sostanza da un elenco di stupefacenti contenuto in un decreto ministeriale determina una parziale abolizione dei reati in tale materia, con effetto retroattivo per chi abbia agito prima della modifica del decreto ministeriale: ciò avviene dopo aver qualificato le sostanze stupefacenti come vere e proprie norme integratrici delle norme incriminatrici in bianco previste dal T.U.l.stup., le quali contribuiscono a descrivere il precetto ed a delineare il giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella configurazione del reato. 335 Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, in Cass. pen., 2008, p. 3592, di tale pronuncia si dirà ampiamente nel prossimo capitolo. 336 Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, in Riv. pen., 2008, 3, p. 245. 334
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a seguito di successione nel tempo di leggi richiamate dalla disposizione incriminatrice principale337. La pronuncia in parola, ribadendo la soluzione adottata dal precedente uniforme indirizzo interpretativo, ha risolto in senso negativo il quesito sottoposto alla sua attenzione: in particolare, il Supremo Collegio ha chiarito che la qualità di appartenenti all’Unione europea, acquisita dai cittadini della Romania e degli altri Paesi che erano di recente entrati a far parte dell'ʹUnione, non ha inciso sul reato previsto dall’art. 14, comma 5 ter, D.Lvo n. 286 del 1998, determinando una sua parziale abolizione con effetto retroattivo, bensì ha solamente dato luogo ad una modifica della situazione di fatto, che ha reso lecita la loro permanenza in Italia dal momento dell’ingresso dei rispettivi Stati nell’Unione338. Successivamente, la seconda decisione è arrivata nel 2009 quando le Sezioni Unite339 sono state chiamate a decidere se, dopo l’abolizione della procedura di amministrazione controllata a seguito della riforma della legge fallimentare del 2006, si fosse determinata, rispetto al reato di bancarotta fraudolenta impropria (punito ai sensi dell’art. 236 comma 2 n. 1 l. fall.), una vera e propria abolitio criminis340 oppure una semplice successione modificativa tra norme. In particolare, la modifica legislativa in parola aveva sollevato il delicato problema della corretta lettura dei principi in tema di successione temporale in materia di norme penali, disciplinati nell’art. 2 c.p., ossia i principi dell’irretroattività della norma penale incriminatrice o più sfavorevole e della retroattività di quella penale di favore, indipendentemente dal suo effetto abrogativo o meramente modificativo della disciplina previgente. Sul contrasto in dottrina si veda MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 115. GAMBARDELLA, Nuovi cittadini dell’Unione europea e abolitio crimnis parziale dei reati in materia d’immigrazione, in Cass. pen., 2008, 3, p. 910. 339 Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, in Riv. pen., 2009, 9, p. 951. 340 Con conseguente revoca, ex art. 673 c.p.p., delle sentenze definitive di condanna. 337
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Il quesito al quale la Suprema Corte doveva rispondere consisteva, pertanto, nello stabilire se si fosse di fronte ad un’ipotesi di continuità punitiva, rientrando nell’art. 2 comma 4 c.p., oppure se si fosse davanti ad un’ipotesi di abolitio criminis, disciplinata dal comma 2 della disposizione citata341. In realtà anche questa volta si rinveniva l’esigenza di un’ulteriore decisione nell’ambito del diritto intertemporale, sebbene non vi fosse alcun contrasto giurisprudenziale in riferimento al caso concreto da decidere342. Contrariamente a quanto accaduto nella sentenza Magera, qui le Sezioni Unite hanno chiarito che l’abrogazione dell'ʹamministrazione controllata e la soppressione di qualsiasi riferimento ad essa contenuta nel r.d. 16 marzo 1942 n. 267, ad opera dell’art. 147 del D.Lvo n. 5/2006, hanno determinato un’ipotesi di abolitio criminis tipica, abolendo il reato di bancarotta societaria connessa a tale procedura concorsuale, con la conseguente operatività dell’art. 2 comma 2 c.p. e della disciplina dell’art. 673 c.p.p. ai fini della revoca della corrispondente statuizione di condanna343. Delineate nei termini di cui sopra, è opportuno analizzare le due pronunce mediante uno sguardo d’insieme, poiché al di là delle diverse soluzioni adottate, sussiste un elemento comune: l’adozione dello stesso criterio per accertare l’abolitio criminis, ossia il criterio strutturale344. Nello specifico, l’abolitio criminis, che comporta la perdita di rilevanza penale del fatto, deriva sempre da una modifica della fattispecie legale astratta Così GIOFFREDA, Sentenza Rizzoli: viene meno ogni legame tra norma incriminatrice e fatto di reato. Abolita la fattispecie di bancarotta fraudolenta connessa all’amministrazione controllata, in www.dirittoegiustizia.it, 2009. 342 GAMBARDELLA, L’abolizione del delitto di bancarotta impropria commesso nell’ambito di società in amministrazione controllata (art. 236, cpv, n. 1 l. fall), in Cass. pen., 2009, 11, p. 4124. 343 Così Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, cit. 344 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 2011, 1, p. 434. 341
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che si erige non soltanto a strumento di selezione di fatti penalmente rilevanti, «ma anche strumento di deselezione dei fatti stessi»345. Il ricorso al criterio strutturale per la risoluzione dei problemi di abolitio criminis per la successione di norme integratrici rappresenta una novità nella giurisprudenza delle Sezioni Unite346. Si privilegia, così, il criterio della c.d. doppia punibilità in astratto, secondo cui non si verifica un’abolizione totale dell’illecito penale se la fattispecie prevista dalla norma successiva è punita anche in base alla norma precedente rientrando nel suo campo di applicazione. Ciò si verifica, in linea generale, qualora tra le due norme in successione temporale sussista una relazione di genere a specie: cosicchè si è in presenza di una vicenda di parziale abrogazione dell’ipotesi criminosa347. Benchè nelle due pronunce in esame si sia enunciato il criterio del confronto tra modelli astratti di reato, i Giudici di legittimità in entrambe le occasioni hanno risolto i casi concreti prescindendo da essi348. In particolare, nella sentenza Magera si è fatto prevalere le ragioni politico-­‐‑criminali affermando che non si era determinata una parziale abolitio criminis per i reati in materia di immigrazione commessi da cittadini rumeni o bulgari prima del 1° gennaio 2007. Infatti, secondo gli Ermellini l’ingresso di uno Stato nell’Unione Europea non determina che «la punibilità per la violazione dell’ordine di lasciare lo Stato a suo tempo legittimamente dato dal questore al cittadino di un Paese terzo Testualmente Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, cit. Si precisa che la prima sentenza su questo tema aveva risolto la questione sulla base del criterio del fatto concreto (o c.d. doppia punibilità in concreto), escludendo la punibilità del peculato dell’operatore bancario per i fatti commessi prima che venisse meno in capo al soggetto, la qualifica di incaricato di pubblico servizio: cfr. Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, in Riv. it. dir e proc. pen., 1987, p. 695. Inoltre, è bene precisare che il criterio strutturale si era già affermato con la sentenza Giordano (Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, n. 25887, in Cass. pen., 2003, p. 3310) con riguardo, però, alle modifiche c.d. immediate (vale a dire quelle che incidono direttamente sul testo della norma incriminatrice). 347 Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit. 348 GAMBARDELLA, L'ʹabolizione del delitto di bancarotta impropria, cit., p. 4125. 345
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possa diventare non punibile perchè successivamente la legge sopravvenuta ne avrebbe potuto legittimare la sua permanenza nel territorio dello Stato. La fattispecie del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter, è rimasta immutata e la modificazione intervenuta nella disciplina dei permessi può incidere sulla condizione dello straniero, consentendogli di ottenere un permesso che prima gli era precluso, ma non può far venir meno la punibilità di un fatto già commesso. Diversa a quanto pare dovrebbe essere la conclusione se a cambiare fosse proprio la definizione di straniero contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 1. Se dalla categoria venisse escluso il cittadino di uno Stato in attesa di adesione all’Unione sarebbe la stessa fattispecie penale a risultare diversa e a vedersi sottrarre una parte della sua sfera di applicazione, secondo lo schema tipico dell’abolizione parziale, riconducibile all’art. 2 c.p., comma 2, (Sez. un. 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano). In un caso del genere dall’ambito della precedente fattispecie verrebbe esclusa una sottoclasse, quella relativa ai cittadini dei Paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea, e rispetto a questa sottoclasse si potrebbe parlare di abolitio criminis, come avviene quando in una vicenda di successione di leggi penali una fattispecie più ampia viene sostituita con una più limitata (si pensi alla modificazione del reato di abuso di ufficio o di quello di false comunicazioni sociali, dei quali la giurisprudenza ha avuto occasione di occuparsi ampiamente), facendo venire meno la punibilità dei fatti che, pur integrando precedentemente il reato, non rientrano nella nuova fattispecie»349. Al contrario nella sentenza Rizzoli usando il medesimo criterio si è giunti ad una soluzione opposta. Qui le Sezioni Unite hanno osservato, preliminarmente, che non si trattava di una modifica mediata ma di un caso di modifica immediata della Testualmente in motivazione Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit. 349
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legge penale, poiché la riforma della legge fallimentare non era soltanto intervenuta sulla normativa esterna relativa all’istituto dell’amministrazione controllata, ma aveva eliminato espressamente ogni riferimento a tale istituto presente nella disposizione incriminatrice, la quale per tale ragione risultava amputata di un elemento strutturale. Quindi, proprio sulla base di tale modifica strutturale della fattispecie legale astratta le Sezioni Unite hanno riconosciuto l’abolitio criminis della bancarotta antecedentemente commessa in società che fossero state ammesse all'ʹamministrazione controllata350. Il caso in esame in quest’ultima pronuncia è un tipico esempio di modifica di un elemento normativo della fattispecie penale. Così GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”, cit., p. 440. 350
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CAPITOLO III LA NOZIONE DI “PICCOLO IMPRENDITORE” SOMMARIO: 1. Cenni introduttivi – 2. L’originario art. 1 L.fall. – 3. La nuova formulazione introdotta dal D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5 – 4. Il decreto correttivo del 2007 – 5. I problemi di diritto intertemporale e gli orientamenti della giurisprudenza – 6. La sentenza delle Sezioni Unite Niccoli – 7. La giurisprudenza successiva 1. CENNI INTRODUTTIVI Dopo una lunga ed attenta disamina delle problematiche di diritto intertemporale, in particolare in tema di successione di norme integratrici, siamo giunti al cuore dell’elaborato in cui ci occuperemo del fallimento del “piccolo imprenditore”, o meglio, del fallimento dell’“imprenditore” dopo le modifiche apportate dalle leggi di riforma all’art. 1 L.fall. Innanzitutto, sono doverose alcune considerazioni in ordine alle citate riforme. La disciplina fallimentare, contenuta nel r.d. 16 marzo 1942 n. 267351, è sostanzialmente contemporanea al Codice Civile ed è rimasta quasi immutata per oltre un sessantennio salvo alcuni interventi, anche incisivi, della Corte Costituzionale. Essa, in origine, era caratterizzata da una concezione pubblicistica delle procedure concorsuali: il legislatore, infatti, aveva strutturato un sistema finalizzato a non lasciare in vita quelle imprese che potessero essere causa di Intitolato «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa». 351
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nuovi dissesti per la mancata realizzazione dei crediti da parte di altri soggetti, a loro volta imprenditori commerciali, con le prime operanti352. Pertanto, a fronte dei significativi mutamenti intervenuti nella realtà economica ed imprenditoriale italiana, era inevitabile un intervento legislativo353. Inoltre, la normativa in questione andava adeguata alla disciplina comunitaria e soprattutto ai principi indicati nella Comunicazione agli Stati membri n. 288/02 del 1999 e alle norme del Regolamento n. 1346 del 19 maggio 2000, entrato in vigore il 31 maggio 2002354. In sede europea si è sempre molto insistito in ordine alla necessità che gli Stati membri si dotassero di una disciplina il più uniforme possibile, che superasse l’ottica prevalentemente liquidatoria dell’impresa insolvente e che si concretasse principalmente sul salvataggio e la ristrutturazione dell’impresa stessa nonché sulla salvaguardia dei livelli occupazionali, anche mediante aiuti di Stato, ma nel rispetto del principio della libera concorrenza all’interno del Mercato Unico355. La riforma organica delle procedure concorsuali aveva come obiettivo quello di garantire una gestione rapida ed efficiente della crisi d’impresa incentivando l’emersione precoce di essa ed offrendo procedure alternative per la risoluzione preventiva e stragiudiziale356. Soprattutto negli ultimi due decenni il processo di riforma della materia fallimentare ha subito un importante acceleramento, tradottosi in primo luogo ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’urbanistica, in GROSSO (a cura di), Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, Milano, 2008, p. 6. 353 Cfr. AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, III ed., Bologna, 2012, p. 267. 354 Nella Comunicazione del 1999 la Commissione aveva ritenuto che un’impresa potesse essere considerata “in difficoltà” quando non fosse in grado, con le proprie risorse finanziarie ottenendo i fondi necessari dai proprietari e/o azionisti o dai creditori, di contenere le perdite che avrebbe potuto condurla quasi certamente, senza un intervento esterno dei poteri pubblici, al collasso economico a breve o a medio tempore. 355 ALLEVA, Primissime note critiche in tema di riforma fallimentare, in Riv. giur. lav., 2006, p. 103. 356 ASSONIME, Rapporto sull’attuazione della riforma della legge fallimentare e sulle sue più recenti modifiche, 2012, 4, p. 2. 352
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nel D.L. 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale: in particolare, l’art. 2 aveva in parte modificato la disciplina della revocatoria, del concordato preventivo ed introdotto nel nostro ordinamento gli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182 bis della L.fall.357. Il decreto legge di cui sopra è stato convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80358, nella quale era stata aggiunta una delega al Governo ad emanare, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge stessa, uno o più decreti legislativi recanti «la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali»359. Successivamente, a completamento dell’intervento riformatore, il legislatore ha licenziato la legge delega da cui è derivato il D.Lvo 9 gennaio 2006, n. 5360, il quale ha rimodellato in modo completo il regime del fallimento e delle altre procedure concorsuali. Ed infine, con il D.Lvo 12 settembre 2007, n. 169361, il Governo ha emanato disposizioni correttive ed integrative362. Le modifiche normative apportate nel biennio 2005–2007 hanno rappresentato un passo significativo verso la modernizzazione della disciplina per garantire la speditezza del procedimento, la conservazione dei mezzi produttivi dell’impresa e liquidazioni più efficienti. I nuovi istituti, in specie le VENTURI, Il fallimento nella nuova riforma delle procedure concorsuali, in www.tuttocamere.it, 2006, p. 1. 358 Intitolata «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali». 359 VENTURI, Il fallimento nella nuova riforma, cit., p. 2. 360 «Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80». 361 Rubricato «Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonchè al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5 bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80». 362 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 268. 357
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soluzioni concordate tra debitori e creditori avrebbero dovuto incentivare l’imprenditore ad affrontare tempestivamente la crisi, riducendone i costi e garantendo una tutela diretta al ceto creditorio363. Tuttavia, si evidenzia che nessuno di questi testi legislativi si è occupato del comparto penale connesso alle procedure concorsuali. Invero, nonostante il complessivo articolato depositato dalla Commissione Trevisanato, che diede vita al D.Lvo n. 5/2006, si fosse occupato anche della parte relativa alle fattispecie penali, l’emendamento che le riguardava fu stralciato e non vide mai l’approvazione364. Vedremo meglio nel prosieguo quali ripercussioni ha l’evidente contrasto tra il nuovo concorsuale ed i vecchi panni penali, poiché il silenzio del legislatore sul punto non lascia indenne l’applicazione delle fattispecie punitive365. In ogni caso, le disposizioni penali sono raccolte nel Titolo VI della L.fall., agli artt. 216 e ss., in cui il Capo I contiene i reati commessi dal fallito, mentre al Capo II sono previsti quelli commessi da persone diverse dal fallito. Nel successivo Capo III sono dettate tre norme che estendono l’applicazione delle sanzioni penali alle altre procedure concorsuali: in particolare, al concordato preventivo, agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ai piani attestati e alla liquidazione coatta amministrativa366. Infine, il Titolo in parola termina con il Capo IV in cui sono presenti alcune disposizione a carattere processuale. Circa le singole fattispecie, si evidenzia la riformulazione della c.d. bancarotta fraudolenta impropria di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 L.fall., avvenuta in occasione della riforma dei reati societari. Ed inoltre, anche il ASSONIME, Rapporto sull'ʹattuazione della riforma, cit., p. 9. SANDRELLI, La riforma della legge fallimentare: i riflessi penali, in Cass. pen., 2006, 4, p. 1296. 365 ID., La riforma della legge fallimentare, cit., p. 1297. 366 La rubrica del Capo III è stata sostituita da ultimo dalla lettera i) del comma 1 dell’art. 33 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83. 363
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delitto di ricorso abusivo al credito ha subito una rinnovazione con la legge 28 dicembre 2005, n. 262367. Ancora, va ricordata la scomparsa, con l’avvento del D.Lvo n. 169/2007, di alcuni tradizionali istituti, come la riabilitazione del fallito, il fallimento con procedura sommaria e l’amministrazione controllata, che ha comportato l’abrogazione implicita totale o parziale delle norme a cui vi facevano riferimento: ossia gli artt. 221, 236 e 241 L.fall.368. Con la previsione di nuovi istituti tesi a favorire il superamento della crisi d’impresa (come ad esempio gli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182 bis L.fall. o il piano di risanamento ex art. 67 comma 3 lett. d) L.fall.), il legislatore ha sentito la necessità di introdurre una disciplina che collegasse gli strumenti di risoluzione della crisi e le fattispecie di bancarotta fraudolenta preferenziale e di bancarotta semplice: infatti, in caso di insuccesso delle soluzioni concordate e di conseguente fallimento dell’imprenditore, i pagamenti e le operazioni poste in essere per realizzare le suddette procedure concorsuali risultavano idonee ad integrare i reati ai sensi degli artt. 216 comma 3 e 217 L.fall., con successivo disincentivo all’adozione dei nuovi istituti di diritto fallimentare369. Per tale ragione, con il D.L. 30 luglio 2010, n. 78, è stato introdotto l’art. 217 bis L.fall., secondo il quale non sono inquadrabili nelle fattispecie di bancarotta preferenziale e semplice i pagamenti e le operazioni realizzate nella In tema di «Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari». A proposito, ALESSANDRI, Profili penalistici delle innovazioni in tema di soluzioni concordate delle crisi d'ʹimpresa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, I, p. 111; MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma delle procedure concorsuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, 3, p. 891; SANDRELLI, La riforma della legge fallimentare, cit., p. 1300. 369 Si veda MUCCIARELLI, L'ʹesenzione dei reati di bancarotta, in Dir. pen. proc., 2010, p. 1474; BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari. Dottrina e giurisprudenza a confronto, Milano, 2011. 367
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prospettiva di un piano di risanamento, di un accordo di ristrutturazione ovvero di un concordato preventivo370. In seguito la legge 27 gennaio 2012, n. 3, ha configurato una speciale procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento destinata agli imprenditori non assoggettabili alle procedure concorsuali ed ai “debitori civili” in genere, presidiata da specifiche ipotesi di reato del debitore e dei membri dell’organismo di composizione della crisi, affiancato all’imprenditore nella redazione del piano di ristrutturazione dei debiti da proporre ai creditori371. E ancora, il D.L. 22 giugno 2012, n. 83372, convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, ha modificato in senso estensivo le procedure paraconcorsuali per la soluzione delle crisi d’impresa introdotte dalle riforme citate del biennio 2005–2007, incidendo altresì sulla disciplina del concordato preventivo attraverso la previsione di misure esplicitamente volte a favorire l’accesso a tale strumento nell’ottica della garanzia della continuità aziendale. Con quest’ultima novella è stata anche introdotta nelle disposizioni penali della legge fallimentare, una nuova figura di reato nell’art. 236 bis, il «falso in attestazioni e relazioni»373. La suddetta innovazione si è resa necessaria per sopperire ad una lacuna, in quanto mancava uno specifico presidio sanzionatorio a protezione degli interessi del ceto creditorio contro eventuali falsità; né la correttezza delle AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 269. PISTORELLI, Sui profili penalistici della nuova procedura per la risoluzione della crisi da sovraindebitamento dei soggetti non fallibili (art. 19 l. 27 gennaio 2012, n. 3), in www.penalecontemporaneo.it. Si precisa che la vera novità rispetto alle forme di composizione concordata delle situazioni debitorie previste dalla legge fallimentare a seguito delle riforme del 2005–2007 è costituita proprio dalla configurazione di un presidio penale a tutela della correttezza dei comportamenti del debitore e della veridicità delle informazioni che egli è tenuto a fornire per accedere alla speciale procedura di esdebitazione. 372 «Misure urgenti per la crescita del Paese», il cosiddetto decreto sviluppo. 373 In tal senso BORSANI, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell'ʹambito delle soluzioni concordate delle crisi d'ʹimpresa. Una primissima lettura, in www.penalecontemporaneo.it, 2012. 370
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informazioni sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’imprenditore trovava adeguata tutela nel sistema penale esistente374. Da ultimo, è intervenuto il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con la legge 17 dicembre 2012, n. 221. Con specifico riguardo al Titolo VI, il legislatore ha ampliato le ipotesi di esenzione dai reati di bancarotta375. 2. L’ORIGINARIO ART. 1 L.FALL. Nell’ambito di queste riforme, per quanto interessa ai fini della nostra indagine, è stato modificato l’art. 1 L.fall., il quale disciplina il presupposto soggettivo necessario per l’applicazione della disciplina del fallimento e del concordato preventivo. Infatti, come già notato, all’interno delle disposizioni penali raccolte nel Titolo VI vi sono numerosi reati propri376: in particolare, nel Capo I l’autore dell’illecito è l’imprenditore dichiarato fallito377. Tuttavia, prima di addentrarci nel cuore della questione, sembra opportuno fare alcuni cenni all’originaria disposizione la quale, in vigore fino al 15 luglio 2006, prevedeva: «1. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione controllata gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori. Ancora ID., Il nuovo reato di falso, cit. Cfr. art. 217 bis L.fall. come da ultimo modificato. 376 Circa la nozione di “reato proprio” si veda BETTIOL, Sul reato proprio, Milano, 1939; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 138; GULLO, Il reato proprio. Dai problemi «tradizionali» alle nuove dinamiche d'ʹimpresa, Milano, 2005. In giurisprudenza nel senso che la bancarotta è reato proprio (del fallito o, in caso di bancarotta societaria, dell’amministratore, sindaco, ecc.), ex multis Cass. pen., sez. V, 25 maggio 1999, n. 6470, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 9 novembre 2006, n. 37038, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 2 marzo 2011, n. 8403, in Dejure. 377 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 277. 374
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2. Sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti una attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire trentamila378. In nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali»379. Per la caratteristica della “commercialità” dell’imprenditore si ricollega tale qualifica all'ʹesercizio professionale di un’attività organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, di cui all’art. 2195 c.c., il quale provvede ad elencare alcune delle attività che determinano nell'ʹimprenditore l'ʹobbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese: vale a dire, l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi, l’attività intermediaria nella circolazione dei beni, l’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria, l’attività bancaria o assicurativa e delle altre attività ausiliarie alle precedenti380. Si precisa che il possesso della qualità di imprenditore va comunque estrinsecato nell’esercizio anche in fatto dell’attività imprenditoriale, pertanto l’assenza di un concreto svolgimento dell’attività in parola, nonostante l’ottemperanza degli adempimenti formali, come ad esempio l’iscrizione nel registro delle imprese, potrà comunque determinare l’esclusione dalle fattispecie di bancarotta381. Circa la nozione di piccolo imprenditore, si sottolinea come tale definizione nel comma 2 della disposizione in commento fosse molto diversa da quella contenuta nell’art. 2083 c.c., ai sensi del quale sono piccoli imprenditori Valore aumentato a novecentomila lire con la legge n. 1375/1952. Testualmente art. 1 L.fall. ante riforma. 380 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 91. 381 ID., I reati fallimentari, cit., p. 92. 378
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«i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia»382. Le palesi differenze tra le due disposizioni erano alla base di una querelle che aveva impegnato la dottrina negli ultimi anni, senza tuttavia riuscire a superare una situazione di stallo che rendeva evidente la necessità di un intervento chiarificatore del legislatore383. In particolare, da un lato, vi era chi sosteneva che l’art. 1 L.fall. contenesse un’autonoma delimitazione del piccolo imprenditore ai fini delle procedure concorsuali; dall’altro, alcuni autori ritenevano che esso avesse integrato la norma codicistica, chiarendo i presupposti richiesti dall’art. 2083 c.c. per la sussistenza della figura giuridica384. A proposito del requisito dell’imposta di ricchezza, essa venne abolita dal D.P.R. n. 597/73 e la riforma tributaria non consentì di ritenere applicabile questo criterio in materia di reddito di impresa, poiché esso apparve Così espressamente l'ʹart. 2083 c.c. AMATI, MAZZACUVA, Diritto penale dell'ʹeconomia (Problemi e casi), Padova, 2010, p. 261. Sul ruolo dell’art. 2083 c.c. nell’applicazione dell’art. 1 L.fall. ante riforma, si veda CAPO, La piccola impresa, in BUONOCORE (diretto da), Trattato di diritto commerciale, sez. I, tomo II.III, Milano, 2000, p. 30; CAMPOBASSO, La ricodificazione del piccolo imprenditore, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 343. 384 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 93. Con specifico riguardo alle imprese artigiane, la giurisprudenza era assolutamente costante nel ritenere che, in tema di fallimento ed ai fini dell’accertamento della nozione di “piccolo imprenditore” rilevante per l’applicazione dell’art. 1 L.fall., si dovesse far ricorso unicamente ai criteri stabiliti dall’art. 2083 c.c., mentre non occorresse accertare se l’impresa avesse o meno i requisiti per essere iscritta nell’albo delle imprese artigiane previsti dalla legge n. 443/1985, in quanto quest’ultima stabilisce i criteri di accertamento del carattere artigianale dell’impresa rilevanti esclusivamente ai fini dell’ammissione della stessa alla fruizione delle provvidenze previste dalle leggi regionali: così ex multis Cass. civ., sez. I., 4 aprile 2003, n. 5249, in Fall. proc. conc., 2004, p. 505, con nota di DE MATTEIS, Natura artigianale dell'ʹimpresa ed onere della prova; Cass. civ., sez. I. 22 ottobre 2004, n. 20640, in Dir. e Giust., 2004, 42, p. 36, con nota di GENOVESE, Ora anche l'ʹartigiano può fallire; Cass. civ., sez. I. 15.6.2005, n. 12847, in Giust. civ., 2006, 9, p. 1808. In dottrina a titolo esemplificativo cfr. GUERNELLI, La legge quadro sull'ʹartigianato e le successive modifiche con particolare riferimento alle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2000, I, p. 827; IBBA, Fallimento, piccola impresa e forma societaria, in Giur. comm., 2005, II, p. 241; VIVALDI, Piccola società artigiana e piccola società commerciale: la giurisprudenza pragmatica rimodella un diritto irragionevole, in Fall. proc. conc., 2003, p. 760. 382
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incompatibile con la struttura ed il meccanismo di applicazione delle nuove imposte sul reddito. Viceversa, sul criterio del capitale investito è intervenuta una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l’art. 1 comma 2 L.fall. nella parte in cui prevedeva che «quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila»385. 3. LA NUOVA FORMULAZIONE INTRODOTTA DAL D.LVO 9 GENNAIO 2006 N. 5 Il primo intervento riformatore sulla disposizione in commento è stato posto in essere, come già evidenziato, dall’art. 1 comma 6 del D.Lvo n. 5/2006, il quale è intervenuto con la tecnica della novella legislativa sulla formulazione originaria dell’art. 1, sostituendo il testo con il seguente: «1. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori. 2. Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; Nei seguenti termini Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 570, in Giust. civ., 1990, I, p. 603. 385
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b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila; 3. I limiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento»386. La principale direttiva della legge delega in materia di presupposti soggettivi del fallimento consisteva nel semplificare la disciplina mediante l’estensione dei soggetti esonerati dalla procedura fallimentare387. Si evidenzia che il tema dell’“estensione dell’esonero soggettivo” dalle procedure concorsuali, com’è noto, era stato oggetto di dibattito anche nel corso dei lavori della già citata Commissione Trevisanato: tuttavia, nella proposta del testo del disegno di legge delega, si riteneva di applicare la procedura della composizione, sia pure con forme semplificate, al piccolo imprenditore individuale o collettivo, da individuare sulla base dei parametri oggettivi facilmente accertabili (art. 4 comma 1 lett. b) del Testo alternativo), mentre l’art. 4 comma 1 lett. b) del testo approvato a maggioranza, prevedeva di applicare la procedura, con forme e modalità, semplificate al piccolo imprenditore, individuale e collettivo, indicando un limite di accesso collegato ad un indebitamento minimo significativo, periodicamente aggiornato; individuare a tal fine il piccolo imprenditore con criteri fondati, eventualmente in via alternativa, sul totale dell’attivo patrimoniale, sul totale dei ricavi e sul numero dei dipendenti e tenendo conto di parametri ponderati in funzione del prodotto interno lordo di ciascuna Regione388. Testualmente l’art. 1 L.fall. in vigore dal 16 luglio 2006 al 31 dicembre 2007. Cfr. art. 1 comma 6 lett. a), n. 1, legge 14 maggio 2005, n. 80. Si veda LO CASCIO, I principi della legge delega della riforma fallimentare, in Il fall., 9, 2005, p. 985. 388 FAUCEGLIA, Sull’estensione dei soggetti esonerati, in Il fall., 2005, 9, p. 990. 386
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Da un raffronto tra il nuovo testo normativo e la precedente versione dell’art. 1 L.fall., emerge chiaramente che, in sostanza, i soggetti che possono fallire sono rimasti gli stessi di prima389. L’innovazione ha, infatti, riguardato l’introduzione di criteri di natura quantitativa per determinare e definire le dimensioni dell’impresa assoggettabile al fallimento, fissando dei limiti dimensionali che avrebbero dovuto costituire il confine tra la figura del piccolo imprenditore escluso per definizione della norma dal fallimento e, viceversa, quella dell’imprenditore assoggettato alle procedure concorsuali390. A tali limiti si deve aggiungere un presupposto che deriva da un’altra disposizione, ossia l’art. 15, ultimo comma, L.fall. secondo il quale occorrerà valutare in sede di istruttoria prefallimentare se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore o superiore a venticinquemila euro: nel primo caso, infatti, il fallimento non sarà dichiarato e l’imprenditore commerciale insolvente, che sia qualificabile come non piccolo ex art. 1 comma 2 L.fall., sarà esonerato dal fallimento se poco indebitato391. Tale scelta legislativa corrisponde all’esigenza pratica di abbandonare il profilo sanzionatorio della dichiarazione di fallimento, evitando tutti i costi della procedura fallimentare e, piuttosto, accompagnare la riforma fallimentare con un incremento della tutela del creditore nell’esecuzione forzata individuale392. Il comma 2 dell’art. 1 L.fall. definiva, con formula negativa, chi non era da considerarsi piccolo imprenditore ai fini della fallibilità, equiparando coloro CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità alla luce delle ultime riforme dell’art. 1 L.F., in www.filodiritto.com. 390 Ancora ID., L'ʹevoluzione delle soglie di fallibilità, cit. 391 Secondo la vecchia disciplina l’esiguità dell’esposizione debitoria comportava non l’esenzione dal fallimento ma la sottoposizione al procedimento sommario ex art. 155 ss. L.fall. Così MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi del fallimento nel nuovo art. 1, l.fall., in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 581. 392 Obiettivo che sembra essersi realizzato con le innovazioni alla disciplina dell’esecuzione forzata mobiliare apportata dalla legge n. 263/2005. 389
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che esercitano un’attività commerciale in forma individuale a coloro che esercitano tale attività in forma collettiva. A proposito dei criteri quantitativi, indicati come alternativi, introdotti nella disposizione in commento, per “capitale” si intende quell’investimento di capitale costituito dall’ammontare degli impieghi in valori fruttiferi operati dall’imprenditore nell’arco di tempo considerato ed è determinabile sommando all’attivo patrimoniale rilevato al termine del periodo gli impieghi, effettuati durante il periodo stesso, che sono stati consumati o perduti o che sono fuoriusciti dall'ʹazienda senza corrispettivo393. A proposito di tale requisito non sono mancate critiche in ordine all'ʹassenza di un qualsiasi riferimento temporale relativo al capitale investito, non essendo chiaro se ci si dovesse riferire all’intera vita dell’azienda oppure ad un non precisato lasso temporale come previsto per i ricavi394. Circa il presupposto del “ricavo lordo”, tale concetto non sembra aver causato alcuna difficoltà interpretativa, poiché l’art. 2425 bis c.c. appare sufficientemente esaustivo stabilendo che «i ricavi e i proventi, i costi e gli oneri devono essere indicati al netto dei resi, degli sconti, abbuoni e premi, nonché delle imprese direttamente connesse con la vendita dei prodotti e la prestazioni di servizi»395. Si precisa che il legislatore della riforma ha dato definitivamente rilevanza anche ai ricavi extracontabili, facendo riferimento a ricavi «in qualunque modo risulti»396. In tal senso VERNA, Gli imprenditori assoggettabili al fallimento secondo la nuova legge fallimentare: profili aziendalistici, in Dir. fall., 2006, I, p. 729. 394 SIGNORELLI, Riflessi della riforma del fallimento sul diritto societario, in Le soc., 2006, 12, p. 1458. 395 Testualmente l’art. 2425 bis c.c. 396 SIGNORELLI, Riflessi della riforma del fallimento, loc. cit. Si segnala una posizione contraria nella giurisprudenza di merito, sviluppatasi durante la breve vigenza dell’art. 1 L.fall. così come riformato, in cui si è affermato che i ricavi rilevanti a tal fine, in quanto rappresentativi del fatturato dell’impresa derivante dallo svolgimento dell’attività, non potessero che ricavarsi dalle voci di bilancio: cfr. Trib. Piacenza, 22 gennaio 2007, in Dejure. 393
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Conseguentemente dalla data di entrata in vigore della riforma, un soggetto che avesse superato uno dei due limiti dimensionali poc’anzi indicati non era da ritenersi piccolo imprenditore e, quindi, poteva fallire. Pertanto, anche con la riforma del 2006 quella di piccolo imprenditore continuava ad essere una nozione negativa, desumibile a contrario, poiché l’art. 1 L.fall. non identificava chi doveva considerarsi piccolo imprenditore, ma chi non poteva essere considerato tale397. Si noti che, dopo la riforma in commento, non era chiaro quale fosse il ruolo dell’art. 2083 c.c.398, potendo prospettarsi due scenari interpretativi diversi: da un lato, che la disposizione codicistica dovesse continuare ad applicarsi anche ai fini del fallimento399; dall’altro, che si dovesse fare riferimento esclusivamente ai nuovi criteri dell’art. 1 comma 2 L.fall.400. Seguendo la prima posizione, il Giudice in sede di valutazione del presupposto soggettivo dell’impresa commerciale insolvente, avrebbe dovuto, dopo l’entrata in vigore della riforma, tener conto sia dell’art. 2083 c.c. sia dell’art. 1 comma 2 L.fall. e, dunque, dichiarare il fallimento se non ricorre la piccolezza ex art. 2083 c.c. ma dichiararlo anche se, pur sussistendo la prevalenza ai sensi dell’art. 2083 c.c., accerti che l’impresa non è piccola ex art. 1 comma 2 L.fall., poiché è stata superata una delle soglie quantitative o con riguardo al capitale investito nell’azienda o con riguardo alla media dei ricavi annui. CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità, cit. Il quale si ricorda definisce la nozione di “piccolo imprenditore”. 399 BONFATTI, CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, p. 37. 400 MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 583. In giurisprudenza di merito cfr. Corte Appello Torino, 22 giugno 2207, in Fall., 2007, 10, p. 1237; Trib. di Tolmezzo, 14 ottobre 2008, in Giur. mer., 2009, 6, p. 1567. Analogamente si è evidenziato che deve essere considerato piccolo imprenditore colui il quale possiede i requisiti previsti dall’art. 2083 c.c., indipendentemente dai parametri stabiliti dal comma 2 dell’art. 1 L.fall, Trib. Firenze, 31 gennaio 2007, n. 20, in Giust. civ., 2007, 6, p. 1521. 397
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Con la conseguenza che la nuova disciplina non avrebbe comportato l’estensione dei soggetti esonerati401. Accogliendo la seconda tesi, anche in questo caso l’impatto della riforma, in termini di ampliamento o di riduzione dei soggetti esonerati, dipende dall’interpretazione dell’art. 2083 c.c., vale a dire da quali si ritenesse essere i confini della piccola impresa secondo la definizione codicistica. Se si ipotizzava la prevalenza dell’art. 2083 c.c. anche con il superamento delle soglie di ricavi e di capitale di cui all’art. 1 L.fall., non applicandosi più l’art. 2083 c.c. ai fini fallimentari, si sarebbe potuto avere una riduzione dei soggetti esonerati dalla procedura. Se, viceversa, prima non poteva mai esserci la prevalenza ex art. 2083 c.c. in presenza del superamento delle soglie di ricavi e di capitale ora fissate dall’art. 1 comma 2 L.fall., la riforma avrebbe potuto determinare un ampliamento dei soggetti esonerati, semprechè si fosse ritenuto che, ai fini del fallimento, non si debba più tener conto dell’art. 2083 c.c., ma si dovesse ricavare la piccola impresa soltanto dal secondo comma dell’art. 1 L.fall., cioè identificarla come quella che non supera nessuna delle due soglie né quella relativa al capitale investito, né quella relativa ai ricavi lordi402. A proposito delle società, prima della riforma si escludeva che potessero essere ricondotte alla figura del piccolo imprenditore403. In un primo momento si era aperta l’opportunità di attribuire tale qualifica alle società artigiane; successivamente, tale possibilità fu estesa anche alle altre società, prima sulla base della giurisprudenza della Corte ID., Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 584. Ancora MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 585-­‐‑586. 403 Così Corte cost., 14 novembre 2005, n. 421, in Il fall., 2007, p. 261, in cui era stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., dell'ʹultima parte dell’art. 1 L.fall. in quanto, pur ritenendo che la disciplina non fosse più aderente alla realtà economica non si poteva affermare che il legislatore abbia fatto uso della sua discrezionalità in modo da violare il principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. 401
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costituzionale, poi di quella dei giudici di merito e della Corte di cassazione, ritenendo che anche l’ultima parte dell’art. 1 L.fall. dovesse ritenersi eliminata per effetto del venir meno dei due criteri cui doveva ritenersi collegata404. Nella stessa prospettiva, pertanto, si poteva dire che i criteri di esenzione potevano essere usati anche per l’impresa artigiana, sia che essa fosse esercitata individualmente sia collettivamente, posto che le disposizioni della legge n. 443/1985405 non conservavano alcuna efficacia in sede fallimentare. Inoltre, si precisa che l’opinione maggioritaria riteneva assoggettabili al fallimento tutte le società lucrative non piccole che avessero oggetto commerciale o che, di fatto, esercitassero un’attività commerciale, indipendentemente dalla forma giuridica assunta o dal tipo prescelto406. La dottrina ha mosso molte critiche all’art. 1 L.fall. come configurato dal D.Lvo in questione. In primo luogo, alcuni autori sono rimasti perplessi dall’entità delle cifre monetarie prese dal legislatore a parametro della dimensione aziendale: soprattutto perchè in forza di tale disposizione non sarebbero rientrate nella categoria dei soggetti fallibili non soltanto le micro e le piccole imprese ma anche quelle di una certa importanza patrimoniale, le medio-­‐‑piccole imprese, notoriamente la maggioranza dei soggetti imprenditoriali del nostro Paese407. In secondo luogo, dovendo tenersi in considerazione anche il già richiamato art. 15 L.fall., da tale combinato disposto sarebbero potute derivare altre problematiche: − un fortissimo incentivo per gli imprenditori ad affidarsi a sistemi elusivi e non trasparenti per ottenere una redazione “non completa” dei bilanci, al fine di Cfr. supra Cap. 3, § 2. Legge con la quale era stato esteso il regime giuridico delle imprese artigiane alle s.r.l. unipersonali. 406 A titolo esemplificativo si veda IBBA, Fallimento, piccola impresa e forma societaria, cit., p. 241. 407 Nei seguenti termini ALLEVA, Primissime note critiche in tema di riforma fallimentare, cit., p. 103. 404
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rientrare assolutamente entro i parametri del novellato articolo in esame e, di conseguenza, dell’area della non fallibilità; − a carico dei prestatori di lavoro, una drastica limitazione nell’effettiva tutela dei propri diritti, nella specie salariali e previdenziali, essendo la maggior parte di essi costretti a ricorrere alle più lunghe, defatiganti e costose singole azioni ordinarie di recupero dei crediti; − infine, si sarebbe potuto verificare un non auspicato aumento dei carichi pendenti nelle cancellerie dei Tribunali, in forza di un’esponenziale progressione delle azioni individuali, da quella di natura accertativa a quella di natura più propriamente esecutiva408. 4. IL DECRETO CORRETTIVO DEL 2007 In seguito alle suesposte critiche, l’art. 1 L.fall. è stato sostituito dall’art. 1 D.Lvo n. 169/2007 nei seguenti termini «1. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. 2. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata Così ancora ID., Primissime note critiche, cit., p. 111-­‐‑113. 408
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inferiore, ricavi lordi per ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. 3. I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento»409. In primis si evidenzia che per espressa previsione dell’art. 22 del correttivo stesso, il nuovo art. 1 L.fall. si applica sia ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data del 1° gennaio 2008, quanto alle procedure concorsuali e di concordato aperte successivamente. Come abbiamo visto nel precedente paragrafo varie furono le critiche mosse al testo riformato della legge fallimentare e le esigenze di correzione emersero sin dai primi mesi dell’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006. In particolare, si è notato come l’applicazione della disposizione riformata per effetto della modifica della nozione di fallibilità avesse ridotto di molto le dichiarazioni di fallimento e l’apertura delle procedure concorsuali410. Non si può poi trascurare che, anche sotto il profilo penale, tale esclusione impediva che venissero adeguatamente sanzionate le condotte di Così testualmente l’art. 1 L.fall. in vigore dal 1° gennaio 2008. FILIPPI, Il d.lgs. n. 169 del 2007 integra e corregge la disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali. Si resta in attesa della riforma delle disposizioni penali, in Giur. merito, 2007, 12, p. 3096. Si precisa che la relazione illustrativa del decreto correttivo ha evidenziato come la riforma del 2006 avesse escluso dal fallimento almeno il 70% delle piccole imprese, oltre ad aver attenuato fino al punto di annullarlo il rischio di impresa, con la conseguenza che, così, senza rischio di impresa, l’intero sistema economico veniva ad essere danneggiato in termini di competitività. Infatti, non si può dubitare che la presenza di soggetti imprenditori che, pur non essendo più in grado di competere sul mercato, continuino a prendervi parte, non faccia altro che aggravare innanzitutto la situazione economica degli imprenditori per così dire sani, che con essi vengono in contatto, e poi quella del mercato in generale, che appunto per la presenza dei primi diventa più difficile anche per tutti gli altri (ad esempio, si pensi al maggior ricorso al credito da parte delle imprese sane ed ai conseguenti maggior oneri che subiscono, oltre al correlato aumento dei costi di mercato del credito stesso). 409
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quei soggetti che avessero causato, direttamente o meno, le situazioni di dissesto delle imprese411. Per tale ragione, la questione più impegnativa che il legislatore delegato alla correzione aveva dovuto affrontare era stata quella relativa alla determinazione dei criteri per la definizione della soglia soggettiva della fallibilità. La riforma della riforma ha, quindi, innanzitutto eliminato qualsiasi riferimento alla nozione di piccolo imprenditore: l’imprenditore non assoggettabile al fallimento non è più l’imprenditore piccolo come definito dal codice civile412. È infatti assoggettabile alle procedure concorsuali il piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c., qualora superi le soglie dimensionali fissate dalla legge fallimentare413. Ciò che appare piuttosto evidente è come il rapporto tra l’art. 2083 c.c. e l’art. 1 L.fall. sia risultato totalmente stravolto in seguito al decreto correttivo414. La relazione tra le due norme è stata intesa, seppur nella prima fase di applicazione della disciplina riformata, in modo diverso da chi sosteneva che il D.Lvo n. 167/2007 avesse tacitamente abrogato l’art. 2221 c.c.415, escludendo così dall’area dell’esenzione il piccolo imprenditore tout court, ove non in possesso dei requisiti dimensionali per l’esonero e coloro che, al contrario, optavano per la ricomprensione dell’area di non fallibilità, accanto agli imprenditori in CASCELLA, L'ʹevoluzione delle soglie di fallibilità, cit. ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 268. 413 Nei seguenti termini Cass. civ., sez. I, 29.7.2009, n. 17553, in Giur. comm., 2011, 3, p. 487. 414 IBBA, Profili della nuova legge fallimentare, Torino, 2009, p. 7. 415 Si ricorda che tale disposizione prevede che «gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti in caso di insolvenza alle procedure del fallimento e del concordato preventivo salve le disposizioni delle leggi speciali». 411
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possesso dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1 L.fall., i piccoli imprenditori ai sensi dell’art. 2083 c.c.416. Secondo la prima e maggioritaria posizione, il superamento delle soglie previste dalla legge fallimentare si considera condizione necessaria e sufficiente ai fini dell’assoggettabilità alle procedure concorsuali417. Tale affermazione troverebbe conferma proprio nell’eliminazione, ad opera del decreto correttivo, del riferimento al piccolo imprenditore all’interno della legge fallimentare, circostanza da cui andrebbe desunta la volontà del legislatore di ancorare la dichiarazione di fallimento esclusivamente ai parametri dimensionali di cui all’art. 1 L.fall.418. Con la conseguenza che, all’esito del travagliato iter della riforma, la nozione di “piccolo imprenditore” contenuta nell’art. 2083 c.c. non interferisce più in alcun modo. Ricostruito in questo modo il rapporto tra le due norme, è ancora più chiaro il conflitto tra la legge fallimentare e l’art. 2221 c.c.: infatti, le due disposizioni, da questo punto di vista, disciplinerebbero, diversamente la medesima disciplina, quindi risulta necessario stabilire quali di esse debba prevalere419. La scelta di limitare l’area dei soggetti fallibili entro le sole soglie espressamente delineate dalla legge fallimentare ha condotto a risolvere il richiamato conflitto nel senso della prevalenza della disposizione CAPO, Fallimento e impresa, in BASSI, BUONOCORE (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, vol. I, Padova, 2010, p. 74. 417 Per tutti si veda GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare. La nuova disciplina delle procedure concorsuali giudiziali, II ed., Torino, 2007, p. 26; IBBA, Profili della nuova legge fallimentare, cit., p. 8; LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali (Appendice di aggiornamento), Milano, 2008, p. 6. 418 MANDRIOLI, I presupposti per la dichiarazione di fallimento, in DIDONE (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2009, p. 56. 419 RENZULLI, Fallibilità del piccolo imprenditore e prova dei requisiti dimensionali, in Giur. comm., 2011, 3, p. 487. 416
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successivamente introdotta, con la conseguente tacita abrogazione, ai sensi dell’art. 15 disp. prel. c.c., dell’art. 2221 c.c.420. Secondo la seconda minoritaria ricostruzione (cioè della ricomprensione nell’area di non fallibilità anche dei piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c.), invece, l’operazione di ampliamento dei confini dell’area di esonero non andrebbe intesa come mera rideterminazione dei confini stessi, con l’attrazione nel loro ambito delle imprese le cui dimensioni rilevino ai fini dell’art. 1 L.fall. e l’esclusione, per contro, dei piccoli imprenditori in senso codicistico, ove non riuscissero a soddisfare le condizioni individuate dalla norma421. Da tale considerazione ne consegue la qualificazione del superamento delle soglie indicate dall’art. 1 L.fall. in termine di condizione necessaria ai fini dell’assoggettabilità a fallimento, ma non sufficiente422, ove non integrata dall’assenza dei presupposti cui l’art. 2083 c.c. ricollega la qualità di piccolo imprenditore423. In favore di questa soluzione militerebbe, proprio, l’evidente ed irrisolto contrasto tra la disciplina fallimentare e l’art. 2221 c.c. Infatti, l’affermazione che la legge fallimentare, in quanto legge speciale può derogare alla disciplina generale, ma mai abrogarla, conduce i sostenitori di questo orientamento ad ammettere la possibilità della coesistenza delle due norme: poichè esse disciplinerebbero fattispecie distinte, visto l’assenza nel testo dell’art. 1 L.fall. successivo alla riforma, di ogni riferimento al piccolo Così fra le tante Trib. Tolmezzo, 14 ottobre 2008, in Giur. mer., 2009, p. 1567; Trib. Napoli, 21 aprile 2010, in www.ilcaso.it. Tale abrogazione deve intendersi limitata alla previsione dell’esenzione del piccolo imprenditore in senso codicistico dalle procedure concorsuali, mentre non sussiste alcuna incompatibilità e, conseguentemente, continua a trovare applicazione la disciplina relativa alle scritture contabili ed alla pubblicità legale ivi dettata. 421 BONFATTI, CENSONI, Manuale, cit., p. 34; MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 588. 422 Come per la prima tesi maggioritaria descritta. 423 FERRI, In tema di piccola impresa tra codice civile e legge fallimentare, in Riv. dir. comm., 2007, p. 744. 420
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imprenditore, il cui fallimento, quindi, continuerebbe ad essere disciplinato in via esclusiva dall’art. 2221 c.c.424. Parte della dottrina, viceversa, si è limitata ad affermare semplicemente che la soppressione di qualsiasi riferimento all’art. 2083 c.c. ha eliminato ogni incertezza dovuta alla coesistenza di disposizioni normative diverse – quella speciale del fallimento e quella generale del codice civile – alla luce delle quali individuare la figura in parola ed ai conseguenti contrasti giurisprudenziali sulla normativa applicabile, mentre al contrario nulla sembra cambiato per gli imprenditori agricoli, i quali continuano ad essere esclusi dal fallimento425. Una novità rilevante del decreto correttivo è stata l’introduzione di un terzo requisito alla lett. c), fondato sull’indebitamento massimo che non deve superare la somma di euro cinquecentomila: requisito che, con il nuovo art. 1 L.fall., deve sussistere congiuntamente a quelli di cui alle lett. a) e b)426. Ed è proprio mediante la previsione del possesso non più alternativo ma congiunto dei requisiti e l’inserimento tra questi dell’ulteriore parametro ID., loc. cit., p. 750. CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità, cit. Si richiama l’attenzione sulla recente sentenza della Corte costituzionale (20 aprile 2012, n. 104, in Giust. civ., 2012, 4, p. 1142), la quale ha chiarito che l’iscrizione di un’azienda nel registro delle imprese con la qualifica di impresa agricola non impedisce di accertare lo svolgimento effettivo e concreto di un’attività commerciale rientrante nei parametri di cui all’art. 1 L.fall., con la conseguenza che anche un imprenditore agricolo se in possesso dei requisiti soggettivi, ai sensi della disposizione citata, può essere soggetto al fallimento. 426 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, loc. cit. Appare opportuno evidenziare che collegato a tale inserimento, è la modifica anch’essa apportata dal decreto correttivo, all’art. 15 L.fall., con cui è stata elevata da euro venticinquemila ad euro trentamila la soglia dei debiti scaduti ed insoluti il cui accertamento risulta necessario durante l'ʹistruttoria prefallimentare per potersi procedere alla dichiarazione di fallimento. Tale soglia costituisce, in sostanza, una condizione di procedibilità impeditiva della pronuncia di una sentenza di fallimento e l’innalzamento del valore di essa appare in sintonia, nonché collegato con l’introduzione del terzo requisito essendo anche questo un potenziale indice rivelatore della situazione di default del debitore: infatti, a seguito dell’introduzione del terzo parametro si potrebbe verificare la presenza di una situazione debitoria di un soggetto che, pur superando complessivamente i cinquecentomila euro di debiti nonché i limiti relativi ad investimenti e ricavi, sarebbe potuto fallire nel caso in cui fosse emersa l’esistenza di debiti scaduti e non pagati per soli venticinquemila euro, importo che è stato ritenuto dal legislatore troppo basso e, quindi, indicativo di una temporanea difficoltà ad adempiere invece che di una situazione di vera e propria insolvenza, per cui si è ravvisata la necessità di elevarlo. 424
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appena citato che il legislatore ha ottenuto l’abbassamento della soglia di fallibilità. Inoltre, nel testo riformato il riferimento dimensionale non è più ancorato al capitale investito ma è collegato all’attivo patrimoniale (complessivo annuo che non deve superare euro trecentomila), nozione che rientra nell’art. 2424 c.c. e più idonea a fotografare il grado di organizzazione imprenditoriale427. Il requisito del reddito dell’impresa è stato uniformato al requisito patrimoniale per quanto concerne la proiezione storica, attraverso il rinvio all’elemento unificante dei tre esercizi anteriori che ha sostituito quello dei tre anni dalla data della domanda: si tratta del medesimo arco temporale usato in tutti i casi in cui è necessario fare ricorso a proiezioni storiche in riferimento ad accertamenti relativi allo stato patrimoniale o documentale dell’imprenditore428. Si sottolinea che il legislatore della riforma del 2007 ha chiarito, inequivocabilmente, che è il debitore che, se vuole evitare il proprio fallimento, deve provare che, in relazione a ciascuno dei tre anni precedenti il deposito dell'ʹistanza di fallimento, non ha superato neppure uno dei tre parametri richiesti dall’art. 1 L.fall., prova rilevante ex art. 2697 comma 2 c.c. L'ʹobiettivo di quest’ultima modifica si ravvisa nel voler evitare che la semplice scelta del debitore di non difendersi risultasse per il medesimo eccessivamente premiante, a fronte della speculare difficoltà che incontra il creditore a provare positivamente la sussistenza dei requisiti in parola, ove soltanto si pensi al caso del mancato deposito delle scritture contabili429. ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, loc. cit. FILIPPI, Il d.lgs. n. 169 del 2007 integra e corregge, cit., p. 3097. 429 CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità, cit. 427
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5. I PROBLEMI DI DIRITTO INTERTEMPORALE E GLI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come il D.Lvo n. 5/2006 abbia sensibilmente ridotto l’area di fallibilità prevista dall’art. 1 L.fall. Le innovazioni, poi, apportate dal decreto correttivo hanno tenuto conto che questa eccessiva esenzione impediva sostanzialmente di assoggettare al fallimento e alle conseguenti sanzioni penali anche imprenditori a capo di imprese di rilevanti dimensioni e con elevati livelli di indebitamento. L’itinerario seguito dal legislatore nel tentativo di definire la cerchia dei fallibili e, quindi, dei soggetti attivi del reato proprio di bancarotta, nella realtà ha reso più complesso il riparto di ruoli e di competenze tra la giurisdizione penale e quella fallimentare: ciò in quanto la qualifica soggettiva di fallito è parte integrante delle fattispecie incriminatrici e, come tale, deve essere accertata in seno al giudizio penale. Le modifiche apportate alla legge fallimentare, inoltre, hanno influenzato, in virtù del principio della successione delle leggi penali nel tempo, di cui all’art. 2 c.p., i procedimenti per bancarotta che erano in corso e, come ci si prefigge di dimostrare, non soltanto quelli430. In particolare, qui si pone un problema di successione di norme integratrici (definita anche c.d. modifica mediata431), in quanto poichè i reati di bancarotta rientrano nella categoria dei reati propri432, ne deriva che la norma incriminatrice riferita a tali delitti deve essere considerata nel suo intero In ordine ai riflessi che la nuova disciplina del fallimento comporta in relazione al sistema delle sanzioni penali contenute nel r.d. n. 267/1942 si veda BERSANI, La modifica dei requisiti oggettivi e soggettivi per la dichiarazione di fallimento e la rilevanza nei procedimenti penali per bancarotta, in Riv. del dir. dell'ʹimpr., 2006, p. 1261; SANDRELLI, La riforma della legge fallimentare, cit., p. 1296. 431 Cfr. supra Cap. 2. 432 Considerata la particolare qualità che deve rivestire l’autore dei medesimi. 430
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complesso di elementi, inclusi tutti gli aspetti rilevanti in riferimento al fatto-­‐‑
reato, quale la qualità del soggetto attivo433. Da ultimo, non si può non evidenziare che la modifica ha posto anche un ulteriore problema interpretativo circa il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nel giudizio penale, di cui però si tratterà più avanti. Tornando al tema del diritto intertemporale, che qui ci interessa maggiormente, l’interrogativo al quale era necessario fornire una risposta era se, in relazione ai reati di bancarotta accertati in seguito all’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006, il quale ha modificato la nozione di piccolo imprenditore, si fosse determinato un fenomeno abolitivo ex art. 2 comma 2 c.p., con riguardo a quei casi in cui dopo la riforma il soggetto attivo del reato avrebbe rivestito la qualità anzidetta. Su questo profilo la giurisprudenza si è spaccata in due orientamenti434. La prima sentenza435 in materia aveva affermato che la nuova disciplina dettata a proposito della nozione di piccolo imprenditore non comportava un’abolitio criminis, pertanto nei giudizi avviati prima del 16 luglio 2006436 il referente normativo non sarebbe potuto essere che la vecchia legge fallimentare. Il Supremo Collegio era giunto a tale soluzione richiamando l’ultrattività della disciplina previgente ai sensi dell’art. 150 del D.Lvo in questione437; quindi, tale disposizione sarebbe stata applicabile all’individuazione dell’imprenditore assoggettabile a fallimento anche in sede penale e le modifiche apportate dalla normativa de qua sarebbero, per tale ragione, Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, in Cass. pen., 1987, II, p. 1740; in Cass. pen., 1988, I, p. 39, con nota di DEL CORSO, Lo statuto penale dell'ʹattività bancaria al vaglio delle Sezioni Unite. 434 È opportuno chiarire fin da subito che il contrasto giurisprudenziale si era formato durante la vigenza del D.Lvo n. 5/2006, mentre il decreto correttivo è intervenuto nelle more della decisione delle Sezioni Unite Niccoli che andremo a commentare. 435 Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2007, n. 19297, in Il fall., 2008, 3, p. 275. 436 Com’è noto è la data di entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006. 437 Ai sensi del quale «i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 1006, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore». 433
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suscettibili di essere trasportate nelle dinamiche della successione delle leggi penali. A sostegno della propria tesi la Corte aveva richiamato i propri precedenti438 in ordine alla definitività del dato derivante dalla decisione del giudice fallimentare, in conformità con quella parte della giurisprudenza che riteneva che la nuova disciplina processualpenalistica delle questioni pregiudiziali non avesse inciso sul principio per cui la dichiarazione di fallimento, una volta acquisito il carattere dell'ʹirrevocabilità, costituisse un dato definitivo e vincolante. Contraria, invece la posizione assunta dagli Ermellini nella sentenza Rizzo439, i quali avevano ritenuto che in tema di reati fallimentari era assodato che la sentenza dichiarativa di fallimento non fa stato nel processo penale, pertanto, spettava al giudice penale il potere-­‐‑dovere di verificare autonomamente se l’imputato potesse oppure no essere considerato imprenditore non soggetto al fallimento. In particolare «poichè la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del delitto di bancarotta, non è dubbio che la mutatio legis in ordine alla fallibilità dell’imputato si rifletta sulla sussistenza stessa del reato in questione. E se, per tale scelta del legislatore, l’elemento costitutivo di un reato cambia configurazione nel corso di un giudizio penale, non è dubbio che di tale novum debba tener conto il giudice che procede, in qualsiasi stato o grado si trovi il procedimento stesso» e continuava precisando che «certo, che quel medesimo legislatore può, con disposizione transitoria440, diversamente regolare le situazioni pendenti al momento della entrata in vigore della norma Cfr. fra le tante Cass. pen., sez. V, 4 maggio 1993, Berzanti, in CED, 194879; Cass. pen., sez. V, 24 febbraio 1998, Bertoni, in Cass. pen., 2000, p. 1043; Cass. pen., sez. V, 15 aprile 1998, Calabro, in Guida al dir., 1998, 9, p. 98; Cass. pen., sez. V, 31 maggio 2001, Barni, in Guida al dir., 2001, 31, p. 66. 439 Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2007, Rizzo, in Il fall., 2008, 3, p. 273. 440 È chiaro il riferimento all’art. 150 D.Lvo n. 5/2006. 438
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innovativa, ma se, in campo civile, nessun ostacolo si frappone alla introduzione di una disciplina che regoli il “passaggio dal vecchio al nuovo”, non va dimenticato che, in materia penale, si deve tener conto del dettato del ricordato art. 2 c.p., che, per essere stato collocato dal legislatore nel libro primo, titolo primo, del codice […], rappresenta norma di generale applicazione in tutto il sistema, costituendo un vincolante canone ermeneutico in tema di successione di leggi nel tempo. Va da sé che, non trattandosi di un principio costituzionalizzato, ad esso il legislatore ordinario può derogare, ma – questo è il punto – la deroga deve essere espressa in maniera inequivoca tale da rispecchiare con assoluta chiarezza la mens legis; né l'ʹinterprete può pensare di “aggirare” l’ostacolo attraverso un percorso tutto interno alla legislazione civile»441. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte concluse nel senso che la normativa intervenuta in pendenza del processo penale per bancarotta doveva considerarsi più favorevole rispetto a quella previgente. Infatti, dal momento che l’art. 2 c.p. riguarda anche le norme extrapenali richiamate espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice nonché le leggi costituenti indispensabile presupposto o, comunque concorrenti ad individuare il contenuto sostanziale del precetto, si doveva ritenere che il novum legislativo non avesse affatto portato ad un’abrogazione di una parte della norma penale ma semplicemente alla ridefinizione della qualifica del soggettivo attivo442. Il contrasto giurisprudenziale delineato si era configurato, secondo parte della dottrina, soltanto in apparenza in ordine all’applicazione della normativa Così in motivazione Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2007, Rizzo, cit., p. 274. Nello stesso senso nella giurisprudenza di merito si veda Trib. Trieste, 16 gennaio 2007, Cergol, in Cass. pen., 2007, p. 3023; Trib. Bassano del Grappa, 3 aprile 2007, n. 37, in Riv. pen., 2007, 9, p. 905, con nota di RAVAGNAN, Il piccolo imprenditore ed il fallimento alla luce della riforma della legge fallimentare: ipotesi di applicabilità dell’art. 2 c.p.; di MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma, cit., p. 902. 441
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successiva più favorevole che definisce la nuova figura di piccolo imprenditore, mentre nella realtà entrambe le pronunce avevano richiamato precedenti giurisprudenziali che ribadivano la sindacabilità in sede penale dei presupposti per la sussistenza della figura giuridica in parola443. 6. LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE NICCOLI In ragione di tale discordanza di interpretazioni, la Sezione V con ordinanza del 13 novembre 2007 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, nei termini seguenti: «se i fatti di bancarotta commessi dal “piccolo imprenditore” prima dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 5 del 2006, che ha modificato la nozione di imprenditore assoggettabile a fallimento, integrino, o non, la relativa fattispecie di reato alla luce della disciplina transitoria dettata dall’art. 150, medesimo D.Lgs.»444. Nel caso affrontato dalle Sezioni Unite, si trattava quindi di decidere sulla perdurante rilevanza penale di fatti di bancarotta semplice documentale commessi da un imprenditore che, in considerazione dell’ammontare dei ricavi e degli investimenti nel periodo di riferimento, possedeva all’epoca del fatto i requisiti dimensionali previsti dalla nuova nozione di “piccolo imprenditore”, in base alla quale non avrebbe potuto più essere dichiarato fallito445. In realtà, la stessa Corte ha dovuto riformulare il quesito poiché nel frattempo era intervenuto il decreto correttivo del 2007 che aveva nuovamente Cfr. CÒ, Applicabilità della nuova legge più favorevole tra vecchi e nuovi contrasti sullo status di imprenditore nei reati di bancarotta, in Il fall., 2008, 3, p. 282, il quale precisa che i richiami legittimi, erano tuttavia volti a rafforzare tesi contrapposte, tanto da far sembrare che il contrasto fosse soltanto circoscritto all'ʹapplicabilità in sede penale della normativa transitoria della nuova disciplina fallimentare, mentre esso si cristallizzò proprio in relazione all'ʹapplicazione rigorosa e coerente della normativa processuale in materia di pregiudizialità, con riferimento all'ʹaccertamento dei presupposti del fallimento effettuato in sede civile. 444 Testualmente Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, in Guida al dir., 2008, 26, p. 88. 445 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”, cit., p. 433. 443
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sostituito l’art. 1 L.fall. prescindendo dalla nozione di “piccolo imprenditore” e aveva introdotto, inoltre, una nuova disciplina transitoria nell’art. 22446. Per tale ragione, la questione effettivamente risolta nella pronuncia concerne la possibilità che i fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006 e del successivo D.Lvo n. 169/2007 continuino ad essere previsti come reato, anche se secondo la nuova normativa l’imprenditore non potrebbe più essere dichiarato fallito. Il quesito si poneva in termini ancora più complessi, poiché si intrecciava con il tema connesso al carattere extrapenale della norma deputata a definire il soggetto attivo del reato di bancarotta e, quindi, posta ad elemento integrativo del precetto penale447. Fin da subito è bene notare che il Supremo Collegio ha escluso l’operatività dell’art. 2 c.p. con riferimento alle modifiche apportate alla disciplina prevista dall’art. 1 L.fall., sulla scorta di due argomentazioni ciascuna delle quali idonea autonomamente a rendere non configurabile il fenomeno dell’abolitio criminis. In prima battuta, la Corte ha fatto leva sull’argomento della vincolatività dell'ʹaccertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice fallimentare agli effetti della legge penale448. L’art. 22, in particolare, prevede: «1. Il presente decreto entra in vigore il 1° gennaio 2008. 2. Le disposizioni del presente decreto si applicano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, nonchè alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore. 3. Gli articoli 7, comma 6, 18, comma 5, e 20 si applicano anche alle procedure concorsuali pendenti. 4. L’articolo 19 si applica alle procedure di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, pendenti o chiuse alla data di entrata in vigore del presente decreto». 447 Così OLDI, Sfumata l'ʹoccasione di elaborare linee guida sulla successione delle leggi, in Guida al dir., 2008, 26, p. 94. Si ricorda che tale problematica evocava i più recenti arresti giurisprudenziali in materia di modifiche “mediate” della norma incriminatrice di cui abbiamo dato conto nel capitolo precendente: cfr. supra Cap. II, § 4. 448 Sul punto si veda AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 209. 446
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Nello specifico i giudici di legittimità hanno ribaltato completamente l’orientamento costante della giurisprudenza449 circa l’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento nei procedimenti penali di bancarotta rilevando che, nella struttura delle fattispecie di cui agli artt. 216 ss. L.fall., il presupposto formale affinchè le condotte poste in essere possano essere prese in considerazione ai fini della responsabilità penale non sono le condizioni di fatto richieste per il fallimento ma l’esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento. Così, la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale e non per i fatti che con essa sono stati accertati; inoltre essendo un atto giurisdizionale richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento deve considerarsi insindacabile in sede penale e vincolante per il giudice in quanto elemento della fattispecie criminosa450. Secondo la Corte neppure la disciplina delle questioni pregiudiziali prevista agli artt. 2 e 3 c.p.p. valeva a spostare tali premesse di diritto sostanziale: poiché lo status di fallito non rappresenterebbe, infatti, una questione pregiudiziale da cui dipende la decisione sui reati di bancarotta, perchè questo status è un effetto diretto della sentenza dichiarativa di fallimento che non è sindacabile dal giudice penale. Pertanto, nel caso di mutamento per ius superveniens della definizione legale dei presupposti di fallibilità, le norme sopravvenute non incideranno sulla struttura del reato né tali modifiche avrebbero potuto incidere sull’applicabilità della normativa più favorevole ai procedimenti penali in corso ai sensi dell’art. 2 c.p. Per tutte si veda Cass. pen., sez. V, 9 aprile 1999, Leo, in Riv. pen., 1999, p. 546; Cass. pen., sez. V, 26 settembre 2002, n. 36032, in Cass. pen., 2004, p. 1049. 450 Così Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, cit. 449
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Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno fatto discendere la conseguenza che il giudice penale investito del giudizio relativo ai reati di bancarotta non può sindacare la sentenza dichiarativa non soltanto con riguardo al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa, ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 L.fall.451. Inoltre, secondo la Corte le intervenute modifiche normative sui requisiti di fallibilità non sembrano poter assumere, rispetto ai fallimenti già dichiarati, un’importanza tale da togliere rilievo penale a condotte che ledono intrinsecamente il bene giuridico tutelato dalla fattispecie e rispetto alle quali la pronuncia di fallimento appare condizionante solamente quanto allo svolgimento del processo ma non quanto alla lesione del bene giuridico tutelato. In particolare, le Sezioni Unite hanno posto l’attenzione sul fatto che il principio sancito nell’art. 2 c.p. non ha rango costituzionale e, quindi, può sicuramente essere derogato con legge ordinaria. Tale deroga, che parte della giurisprudenza aveva ravvisato nella disciplina transitoria dell’art. 150 D.Lvo n. 5/2006, deve essere espressa in modo inequivoca, così da rispecchiare con chiarezza la volontà del legislatore. Tuttavia, secondo il Supremo Collegio la disciplina transitoria in parola non conteneva né una deroga espressa del dettato normativo contenuto nell’art. 2 c.p. né una perpetuatio definitionis della nozione di imprenditore fallibile traslabile nel processo penale per bancarotta pendente al momento dell’entrata in vigore della riforma legislativa. E concluse escludendo che la qualità di imprenditore costituisca un elemento strutturale della fattispecie e, quindi, «come condivisibilmente MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma, cit., p. 902; SCHIAVANO, Riforma della legge fallimentare: implicazioni penalistiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 945; SOCCI, Gli effetti delle riforme del fallimento e del diritto societario sui reati fallimentari e societari. Successione di leggi non penali e conseguenze sulle fattispecie penali, in Giur. mer., 2007, p. 3054. 451
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affermato dalla citata sentenza delle Sez. un. Magera, sarebbe ingiustificata l’applicazione dell’articolo 2 c.p. rispetto a norme extrapenali prive di effetto retroattivo»452. 7. LA GIURISPRUDENZA SUCCESSIVA L’esigua giurisprudenza formatasi in seguito alla sentenza Niccoli si è sostanzialmente conformata all’orientamento delle Sezioni Unite453: sia per quanto concerne l’irrilevanza dell’art. 2 c.p. in relazione alle modifiche apportate all’art. 1 L.fall. dal D.Lvo n. 5/2006 e n. 169/2007454, sia a proposito dell’insindacabilità della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento da parte del giudice penale455. Non si può fare a meno di notare come le decisioni richiamate non abbiano fornito una motivazione sul punto, essendosi limitate semplicemente ad affermare di non avere validi argomenti per discostarsi dall’interpretazione data dalle Sezioni Unite456. Testualmente Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, cit. Un’unica sentenza contraria rinvenuta soltanto nella massima ha affermato che: da un lato «a seguito delle riforme attuate con il d.lg. 9 gennaio 2006 n. 5 e 12 settembre 2007 n. 169, è applicabile il comma 4 dell’art. 2 c.p. quanto ai fatti di bancarotta, semplice o fraudolenta, commessi prima dell’entrata in vigore dei suddetti decreti, con conseguente assoluzione dell’imputato qualora il passivo non superi il limite di cui alla lett. c) del comma 2 dell’art. 1 r.d. 16 marzo 1947 n. 267, e successive modifiche»; dall’altro «poiché nell’odierno sistema processuale penale le uniche pregiudiziali di stato attengono – come conclama il disposto dell’art. 3 c.p.p. – allo stato di famiglia ed a quello di cittadinanza, la declaratoria di fallimento non vincola per alcun verso il giudice penale quanto all’attribuzione della qualità di imprenditore assoggettando alle procedure concorsuali»: Corte Appello Napoli, sez. II, 8 febbraio 2011, n. 555. 454 Corte Appello Milano, sez. II, 12 gennaio 2010, n. 52, in Guida al dir., 2010, 17, p. 96; Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2011, n. 40324, in Dejure. 455 Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2009, n. 40404, in Cass. pen., 2010, 10, p. 3575; Cass. pen., sez. V, 9 maggio 2012, n. 40901, in Dejure. 456 Cfr. a titolo esemplificativo Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2009, n. 40404, cit. 452
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La sola pronuncia457 interessante, che costituisce una delle prime applicazioni del principio di diritto enunciato dalla decisione Niccoli, in realtà ha aderito all’orientamento della sentenza menzionata dando, tuttavia, rilievo centrale ad un argomento al quale le Sezioni Unite avevano dato un ruolo marginale, ossia al valore della norma transitoria dell’art. 150 D.Lvo n. 5/2006. Nello specifico la Corte d’Appello di Milano ha negato la possibilità di applicare retroattivamente la nuova nozione di imprenditore in forza del principio dettato dalla norma transitoria prevista dall’art. 150 D.Lvo n. 5/2006. Corte Appello Milano, sez. II, 1 ottobre 2008, in Corr. Mer., 2009, p. 70. 457
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CAPITOLO IV CRITICHE ALLA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE NICCOLI SOMMARIO: 1. I punti critici della sentenza Niccoli – 2. Le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale – 2.1 La sentenza dichiarativa di fallimento – 2.2 L’efficacia nel procedimento penale della sentenza dichiarativa di fallimento – 2.3 Il potere del giudice penale – 3. La questione irrisolta: la successione “mediata” – 3.1 Bancarotta individuale ed il soggetto attivo del reato – 4. Gli strumenti di difesa per il “piccolo imprenditore” 1. I PUNTI CRITICI DELLA SENTENZA NICCOLI La soluzione proposta nella sentenza Niccoli, lungi dall’aver risolto definitivamente la questione posta all’attenzione del Supremo Collegio, offre lo spunto per una serie di rilievi critici. Nello specifico si svolgeranno alcune considerazioni a proposito: da un lato, delle interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale; dall’altro, della successione “mediata” come conseguenza della modifica dei requisiti soggettivi di cui all’art. 1 L.fall. Non possiamo esimerci dall’osservare fin da subito come il punto della motivazione che desta maggiori perplessità sia indubbiamente la parte in cui la Suprema Corte ha escluso che la qualità di imprenditore costituisca un elemento strutturale della fattispecie di bancarotta458. Tale tesi non solo è in evidente contrasto con la più autorevole dottrina459 e con la giurisprudenza maggioritaria sia di legittimità sia di merito, ma è AMBROSETTI, I riflessi penalistici, cit., p. 3609; AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 275. 459 Così ad esempio FANTINATO, Reati urbanistici (voce), in RONCO, GAITO (a cura di), Leggi penali complementari commentate, II, Torino, 2009. 458
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difforme anche con quanto affermato dalle stesse Sezioni Unite a proposito della disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice penale460. Non è assolutamente chiara la ragione per la quale mentre per i reati urbanistici il giudice penale non deve solo limitarsi a verificare l’esistenza ontologica dell’atto o del provvedimento amministrativo, dovendo viceversa verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale, nel caso invece dei reati fallimentari lo stesso giudice è vincolato all’accertamento compiuto dal tribunale fallimentare461. In linea ancora generale, non è neppure condivisibile l’approccio seguito dagli Ermellini, ridottosi in poche righe, per affrontare la tematica delle modifiche mediate della fattispecie. Invero, anche se ammettessimo che il giudice penale fosse vincolato dall’accertamento del tribunale fallimentare a proposito dello status di imprenditore, rimane il problema che tale accertamento era stato compiuto in base alle norme non più vigenti. Come già notato, la decisione Niccoli ha richiamato il criterio ermeneutico enunciato nella sentenza Magera462 – cioè quello formale dell’abolitio criminis parziale – ma proprio accogliendo tale principio la soluzione sarebbe stata diversa in quanto si sarebbe potuto sostenere che dalle fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. è stata espunta la sottoclasse degli imprenditori che non rientrano nei requisiti previsti dall’art. 1 L.fall. per la dichiarazione di fallimento. Cfr. Cass. pen., sez. un., 12 novembre 1993, Borgia, in Cass. pen., 1993, p. 901; Cass. pen., sez. un., 28 novembre 2001, Cremonese, in Cass. pen., 2002, p. 2017. In queste pronunce, infatti, è stato affermato che il giudice penale, qualora nella fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo ovvero l’autorizzazione del comportamento del privato da parte di un organo pubblico, non deve limitarsi a verificare l’esistenza ontologica dell’atto o del provvedimento amministrativo, ma deve verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell’interesse sostanziale che quest’ultima tutela, in cui gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. 461 AMBROSETTI, I riflessi penalistici, loc. cit. 462 Cfr. supra Cap. II, § 4. 460
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2. LE INTERFERENZE TRA IL GIUDIZIO FALLIMENTARE ED IL GIUDIZIO PENALE 2.1 La sentenza dichiarativa di fallimento Ma andiamo con ordine, il primo profilo di criticità, come già evidenziato, concerne le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale: secondo le Sezioni Unite, infatti, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale463. Proprio il ruolo da attribuirsi alla dichiarazione di fallimento, con riferimento ai reati puniti nel Titolo VI, ed in particolare ai delitti di bancarotta, è da sempre stato oggetto di dibattito. Infatti, ai sensi degli artt. 216 e 217 L.fall. risponde di bancarotta fraudolenta o semplice l’imprenditore che ha commesso taluno dei fatti in esse indicati «se è stato dichiarato fallito»464. Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, cit. Si ricorda, per dovere di completezza, che gli artt. 216 e 217 L.fall. puniscono, rispettivamente, la bancarotta fraudolenta e semplice commessa dall’imprenditore individuale. Nello specifico l’art. 216 L.fall punisce «se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti; 2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili. È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». Mentre l’art. 217 L.fall sanziona «se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell'ʹarticolo precedente: 1) ha fatto spese personali o per la famiglia 463
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Ne risulta che per la punibilità non è sufficiente la commissione dei fatti di cui alle disposizioni in parola, come non basta soltanto il fallimento: ma è necessario il concorso degli uni e degli altri465. Le norme, invero, descrivono una fattispecie in cui le condotte sono poste in essere dall’imprenditore nel corso dell’attività che precede il fallimento e la sentenza dichiarativa di esso assume valore di requisito essenziale del reato: da tale circostanza ne consegue che uno dei principali nodi interpretativi riguarda proprio il ruolo del fallimento all’interno della struttura giuridica della bancarotta. Tale questione, è bene precisare, si pone soltanto con riguardo alla fattispecie di bancarotta prefallimentare, poiché in quella postfallimentare si ritiene pacificamente che la sentenza dichiarativa di fallimento sia un presupposto del reato466. Un presupposto che incide sul soggetto attivo del reato, che nelle fattispecie di bancarotta postfallimentare, è appunto l’imprenditore dichiarato fallito467. eccessive rispetto alla sua condizione economica; 2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; 3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; 5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare. La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta. Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all'ʹesercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni». 465 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 48. 466 CONTI, Diritto penale commerciale, vol. I, Torino, 1980, p. 128; PEDRAZZI, Reati fallimentari, in PEDRAZZI, ALESSANDRI, FOFFANI, SEMINARA, SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa. Parte generale e reati fallimentari, Bologna, 2003, p. 106. 467 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 269. Si sottolinea soltanto che secondo una diversa dottrina la sentenza dichiarativa di fallimento è un elemento del “fatto”, ossia un presupposto della condotta che deve preesistere rispetto alla condotta, oggetto di rappresentazione e volizione. Pertanto, l’attribuzione di efficacia sostanziale alla declaratoria fallimentare e l’inquadramento di essa tra i presupposti della condotta ha come conseguenza l’inclusione della stessa all’interno del dolo. Chi commette, quindi, un fatto di bancarotta 139
Problematica è, viceversa, la configurazione della dichiarazione di fallimento nella bancarotta prefallimentare. Un’impostazione risalente, ed ormai superata, attribuiva al fallimento un valore centrale di evento consumativo del reato nell’ambito della fattispecie in parola, punendo in quanto tale il fallimento qualora fosse stato accompagnato dalla commissione di taluno dei fatti di bancarotta fraudolenta o semplice468. Sviluppando questa tesi si era attribuito ai fatti dolosi o colposi descritti nelle fattispecie di bancarotta un evidente valore sintomatico nella disamina del fatto concreto, cioè sul loro accertamento si doveva fondare una doppia presunzione assoluta: sia del rapporto causale tra le condotte illecite ed il fallimento, sia della colpevolezza dell’agente. Diverso è l’orientamento della giurisprudenza, la quale al contrario ha sempre affermato che la dichiarazione di fallimento non è l’evento della bancarotta prefallimentare469 ed è svincolata dal dolo e dalla colpa: infatti, la rappresentazione del fallimento esula dall’elemento soggettivo del reato e per tale ragione è irrilevante che nell’agente manchi la consapevolezza di poter fallire, anche perchè, siffatta convinzione si risolverebbe in errore su legge extrapenale, richiamata da quella penale470. postfallimentare deve rappresentarsi l’esistenza della declaratoria fallimentare, con il conseguente venir meno dell’elemento soggettivo del reato in caso di ignoranza della stessa. Così BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit., p. 261. 468 CONTI, Diritto penale commerciale, cit., p. 105; PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 108. 469 Cass. pen., sez. V, 22 aprile 1998, De Benedetti, in Cass. pen., 1999, p. 651, Cass. pen., sez. V, 27 settembre 2006, Corsatto, in Cass. pen., 2007, p. 3876; Cass. pen., sez. V, 1 ottobre 2009, Simonte, in CED, 245350. 470 Cfr. Cass. pen., sez. V, 20 febbraio 2001, n. 17044, in Cass. pen., 2002, p. 3872; Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2007, n. 35066, in Cass. pen., 2010, 6, p. 2395; Cass. pen., sez. V, 14 gennaio 2010, n. 11899, in Cass. pen., 2010, 10, p. 3574; da ultimo Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012 – 8 gennaio 2013, n. 733, in www.penalecontemporaneo.it. È bene sottolineare che tuttavia una recente decisione ha enunciato il principio inverso secondo il quale «nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente, e deve altresì essere sorretto dall’elemento del dolo»: così Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012 – 6 dicembre 2012, n. 47502, in www.penalecontemporaneo.it. 140
La posizione oggi dominante qualifica il fallimento come una condizione obiettiva di punibilità del reato di bancarotta, secondo la nozione ricavabile dall’art. 44 c.p.471. Tuttavia, è opportuno notare che su questa tesi la dottrina si divide. Da un lato, vi è chi ritiene che il fallimento sia un limite alla repressione penale nel senso che i fatti indicati dalla legge, nonostante il disvalore ad essi immanente, vengano puniti solamente qualora l’imprenditore che li ha commessi fallisca472. Secondo questa concezione, quindi, il fallimento costituisce un avvenimento che condiziona extrinsecus l’applicazione della sanzione penale, posto che l’esistenza di un nesso eziologico tra i fatti puniti ed il dissesto economico, pur potendo di fatto sussistere, non è astrattamente richiesto dalla norma. Di conseguenza, l’interprete dovrà limitarsi a valutare l’esistenza di una delle condotte di bancarotta, senza porsi il problema se essa abbia influito a determinare prima lo stato di insolvenza e poi il fallimento: quest’ultimo può essere del tutto indipendente dalle condotte di bancarotta, ma, in ogni caso, esso legittima l’irrogazione della pena473. Dall’altro lato, vi sono alcuni autori che criticando la precedente teoria474 hanno considerato il fallimento come una condizione obiettiva di punibilità ma di tipo intrinseco: nei delitti di bancarotta con la sentenza dichiarativa di fallimento la lesione dell’interesse passa dalla potenzialità all’attualità e, quindi, A titolo esemplificativo si veda CONTI, Diritto penale commerciale, cit., p. 118; ID., Fallimento (reati in materia di) voce, in Novissimo Dig., VI, Torino, 1975, p. 1173; GROSSO, Osservazioni in tema di struttura, tempo e luogo del commesso reato della bancarotta prefallimentare, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 565; PEDRAZZI, Reati fallimentari, loc. cit. 472 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 53. 473 Così AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 271. 474 Si riteneva che l’impostazione anzidetta fosse rischiosa a livello costituzionale alla luce del principio della personalità della responsabilità penale, in quanto in tal modo si andrebbe ad addebitare all’agente effetti dannosi da lui non provocati: con la dichiarazione di fallimento che allora non potrebbe sfuggire ad un’esigenza di rimproverabilità, stante proprio il suo contribuire alla lesione del bene giuridico tutelato. 471 141
condotte che non siano neppure potenzialmente offensive degli interessi tutelati, non potrebbero assumere rilevanza penale una volta che sia intervenuto il fallimento475. Non si può fare a meno di sottolineare che le posizioni tradizionali delineate, sia con riguardo alle fattispecie prefallimentari che postfallimentari, sono state criticate recentemente da chi, viceversa, ritiene che il fallimento sia una condizione di natura processuale476. Le posizioni della giurisprudenza in ordine al tema in questione sono, al contrario, meno articolate. Secondo una costante linea interpretativa, la pronuncia di fallimento nell’ambito dei fatti prefallimentari è un elemento costitutivo della fattispecie, facendo in questo modo coincidere il momento ed il luogo consumativi del reato con quelli dell’emissione dell’atto giudiziario dichiarativo477. Dalla storica decisione delle Sezioni Unite del 1958478 la dichiarazione di fallimento è considerata un elemento al cui concorso è collegata l’esistenza del reato, poiché i fatti di bancarotta dell’imprenditore sono irrilevanti per il diritto penale prima della dichiarazione di fallimento e soltanto per effetto di questa integrano le fattispecie di reato. Invero, gli atti di disposizione che l’imprenditore compie sui propri beni ed i comportamenti, attivi o omissivi, che egli tiene nel condurre i propri affari NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 42. Si veda a tal proposito GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Torino, 2012, p. 88. L’Autore demolisce addirittura la premessa sulla base della quale la tesi tradizionale appoggia. In particolare, il fatto che la declaratoria sia, a seconda del momento in cui interviene, condizione ovvero presupposto, sottintende un antecedente alla quale la dottrina non ha dato sufficiente attenzione: vale a dire, che i reati fallimentari si distinguerebbero sempre in reati prefallimentari (cui seguirebbe la declaratoria intesa come condizione di punibilità) ed in reati postfallimentari (preceduti da un presupposto) comporta che sussista un taglio netto tra i reati pre e postfallimentari. Ma tale differenza così netta, secondo l’Autore, non esiste. 477 Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 1999, in Cass. pen., 2001, p. 1340; Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 2004, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 580; Cass. pen., sez. fer., 13 agosto 2012, n. 32779, in CED, 2012. 478 Cass. pen., sez. un., 25 gennaio 1958, in Giust. pen., 1958, II, p. 513 475
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sono irrilevanti penalmente essendo libera manifestazione del diritto di gestire l’impresa nel modo che ritiene più opportuno per la tutela dei propri interessi. Mentre, diventano rilevanti penalmente qualora, con la contestazione giudiziale dell’insolvenza, viene accertata la lesione arrecata al diritto dei creditori. Secondo tale interpretazione la sentenza dichiarativa di fallimento è un elemento indispensabile per qualificare come reati, nelle ipotesi di bancarotta prefallimentare, fatti e comportamenti che, diversamente, rimarrebbero leciti ed indifferenti479. Si noti, tuttavia, che definire il fallimento come elemento costitutivo del reato, in realtà, è contraddittorio. Lo stesso orientamento non ritiene necessario un vero e proprio nesso di causalità tra le condotte ed il fallimento, non essendo quest’ultimo inquadrabile come evento del reato480. Neppure non si potrebbe pretendere un collegamento psicologico tra le condotte e la dichiarazione di fallimento481. Pertanto, per ovviare all’anomalia di considerare elemento costitutivo ciò che non è legato alla condotta da un nesso di causalità e che non deve essere coperto dal dolo dell’agente, in alcune decisioni è presente la definizione della sentenza di fallimento quale condizione di esistenza giuridica del reato di bancarotta482. 2.2 L’efficacia nel procedimento penale della sentenza dichiarativa di fallimento Dopo aver cercato di individuare il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento all’interno della struttura dei delitti di bancarotta, è doveroso In tal senso Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 2004, cit. Così Cass. pen., sez. V, 3 giugno 1998, in Cass. pen., 2001, p. 291. Contra di recente cfr. Cass. pen., sez. V, 6 dicembre 2012, n. 47502, cit. 481 Cass. pen., sez. V, 26 giugno 1990, in Cass. pen., 1991, p. 828. 482 Cfr. Cass. pen., sez. V, 23 marzo 1999, in Cass. pen., 2000, p. 1784. Si veda anche CONTI, Fallimento (reati in materia di), cit., p. 18. 479
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risolvere un’ulteriore questione, ossia la sfera di efficacia che essa assume nell’ambito di un procedimento penale instaurato per un reato di bancarotta di cui agli artt. 216, comma 1, e 217, comma 1, L.fall. In ordine a questo profilo si sottolinea il duplice aspetto che la sentenza dichiarativa di fallimento assume: da un lato, essa rappresenta un atto giurisdizionale dal quale il giudice penale non può prescindere come espressione dell’avverarsi di quel fatto futuro ed incerto – vale a dire «se è dichiarato fallito» – e, sotto questo aspetto, si ritiene che la cognizione del giudice penale relativamente ai fatti di bancarotta sarà sempre subordinata all’esistenza della declaratoria civile di fallimento, non potendo egli risolvere automaticamente tale questione neppure incidenter ai meri effetti della decisione penale; dall’altro, la pronuncia emessa in sede civile ha un aspetto contenutistico, con riguardo alla valutazione di quei presupposti – come la qualifica di imprenditore commerciale – che il giudice penale è tenuto necessariamente ad esaminare in relazione alle fattispecie di bancarotta483. Durante la vigenza del codice di procedura penale del 1930, la dottrina e la giurisprudenza unanimemente affermavano l’efficacia vincolante della sentenza dichiarativa di fallimento definitiva484. In particolare, si sosteneva che essendo tale pronuncia una sentenza costitutiva, i relativi presupposti soggettivi ed oggettivi (ossia rispettivamente la qualità di imprenditore commerciale non piccolo e lo stato di insolvenza), non potevano essere, una volta intervenuta la decisione, rimessi in discussione dal giudice penale485. AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 273. CONTI, Diritto penale commerciale, cit., p. 444. In giurisprudenza cfr. Cass. pen, sez. V, 23 ottobre 1986, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, p. 947; Cass. pen, sez. V, 15 dicembre 1988, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, p. 972. 485 Cass. pen, sez. V, 11 ottobre 1977, Michelani, in Cass. pen., 1979, p. 263; Cass. pen, sez. V, 22 settembre 1989, Carignano, in Dejure. 483
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Tale conclusione si fondava sulla premessa che l’accertamento della qualità di imprenditore fallito corrispondesse ad una questione di stato, pregiudiziale alla decisione sull’esistenza del reato, la cui soluzione veniva demandata alla sentenza dichiarativa di fallimento486. L’attuale codice di rito ha stravolto il sistema appena delineato, circoscrivendo il regime della pregiudizialità alle sole controversie sullo stato di famiglia e di cittadinanza, escludendone quella sulla condizione di fallito. Nello specifico, l’art. 2 c.p.p. afferma il principio dell’autonoma cognizione del giudice penale riguardo alle questioni che si pongono in antecedenza logica rispetto alla decisione finale. Tale principio è temperato soltanto dalla seconda parte del primo comma ove viene fatta salva ogni altra ipotesi in cui sia diversamente stabilito. La medesima disposizione, poi, precisa che la decisione del giudice penale, che risolve in via incidentale la questione, non ha efficacia vincolante in nessun processo. L’art. 3 c.p.p. ha, inoltre, limitato l’ambito di rilevanza delle questioni pregiudiziali, stabilendo che soltanto una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, se seria e già in corso, autorizza il giudice penale a sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione. Sulla base della nuova disciplina parte della dottrina487 ha optato per il superamento del vincolo del giudicato fallimentare nel processo per bancarotta, Le giustificazioni di tale assunto erano molteplici, vi era chi lo fondava sul vecchio art. 19 c.p.p., altri sull’art. 20 dello stesso codice, altri ancora sul rilievo che le disposizioni predette non esaurivano tutte le ipotesi di pregiudizialità, poiché ne sussistevano alcune in cui la pregiudizialità civile al giudizio penale era imposta dall'ʹanalisi delle condizioni alle quali la punibilità di determinati reati si rivelava subordinata, in rapporto all'ʹincompetenza funzionale del magistrato penale ad accertarle ed alla fondamentale esigenza di evitare contrasti tra giudicati civili e penali. 487 Per un quadro sulle diverse impostazioni si veda PEDRAZZI, Reati fallimentari, p. 115. 486
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a fronte di parecchi autori che ancora oggi ritengono che permane tale vincolo, facendo leva sulla sua natura sostanziale prima che processuale488. Pertanto, con l’avvento del nuovo codice le questioni più interessanti sulle quali è necessario fornire una risposta concernono: la sussistenza di un rigoroso vincolo alla sentenza dichiarativa per il giudice penale dovendosi egli limitare a prendere atto del fallimento dichiarato nella sede competente, oppure se il giudice penale non sia viceversa legittimato a verificare i presupposti già accertati dal giudice fallimentare (vale a dire la qualità soggettiva di imprenditore commerciale non piccolo e lo stato di insolvenza); se l’esercizio dell’azione penale debba proseguire o si debba sospendere in caso di opposizione alla declaratoria di fallimento489. In questa sede verrà affrontato soltanto il primo problema, in ordine al quale la giurisprudenza di legittimità, prima della sentenza Niccoli, si era correttamente orientata nel senso che la sentenza dichiarativa di fallimento, anche se irrevocabile, non ha efficacia di giudicato nel processo penale, in virtù della disciplina di cui agli artt. 2 e 3 c.p.p.: con la conseguenza che qualora venisse contestata l’esplicazione dell’attività imprenditoriale commerciale rilevante ai fini di un addebito di un reato fallimentare, la suddetta pronuncia non costituiva un dato definitivo e vincolante490. Inoltre, secondo questa impostazione il giudice penale aveva anche il compito di stabilire se nel caso concreto l’interessato potesse considerarsi piccolo imprenditore come tale non soggetto, ai sensi dell’art. 1 L.fall., alle disposizioni sul fallimento491. MANGANO, La pregiudiziale fallimentare nei reati di bancarotta, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 708. In giurisprudenza cfr. ex multis Cass. pen, sez. V, 31 maggio 2001, Barni, in Guida al dir., 2001, 31, p. 66. 489 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 71. 490 Cfr. Cass. pen, sez. V, 31 gennaio 2000, n. 1035, in Dir. e prat. soc., 2000, 9, p. 87; Cass. pen, sez. V, 14 novembre 2002, n. 38230, in Riv. pen., 2003, p. 562. 491 Cass. pen, sez. V, 26 settembre 2002, n. 36032, in Cass. pen., 2004, p. 1049. 488
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Parte della dottrina, invece, ritiene che la questione vada risolta alla luce del ruolo che la sentenza dichiarativa di fallimento assume nelle varie fattispecie492. Con riguardo alle fattispecie di bancarotta postfallimentare un problema di sindacato della sentenza dichiarativa di fallimento neppure si pone, dal momento che il fallimento si impone quale dato di fatto, come evento in senso naturalistico493. Mentre, in ordine alle fattispecie prefallimentari, secondo una diversa impostazione il giudice penale può verificare la qualificazione del soggetto attivo prescindendo dagli attuali limiti di pregiudizialità: la qualità di imprenditore deve sussistere al tempo delle condotte illecite, poste in essere prima della sentenza dichiarativa, e su di esse non può perciò solo fare stato494. Al contrario si dovrebbe escludere che il giudice penale sia legittimato a ridiscutere l’esistenza dello stato di insolvenza, non figurando questo come requisito della fattispecie delittuosa, essendo assorbito dalla dichiarazione di fallimento, salvo le ipotesi di reato che necessitano di uno stato di dissesto contestuale, da verificare in concreto. Interessante in argomento una decisione in cui si è espressamente distinto tra lo “status” di fallito, non sindacabile dal giudice penale, e quello di “imprenditore”, al contrario sindacabile: difatti, gli accertamenti risultanti dalle sentenze civili ed amministrative, non vertenti sullo stato di famiglia o di cittadinanza, possono essere valutati nel processo penale alla stregua di ogni altro materiale utile sul piano probatorio, restando esclusa l’autorità di giudicato di tali decisioni, fatti salvi gli effetti costitutivi, modificativi o estintivi di situazioni giuridiche dalla legge ricollegati ai suddetti accertamenti495. PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 114. ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 72. 494 PEDRAZZI, Reati fallimentari, loc. cit. 495 In tal senso Cass. pen., sez. V, 9 aprile 1991, Milazzo, in Cass. pen., 1991, p. 643. 492
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Da tale orientamento ne derivava che, con riguardo ai reati fallimentari, poiché la dichiarazione di fallimento introduce irreversibilmente nella realtà giuridica – una volta divenuta definitiva la relativa sentenza – il dato della particolare qualificazione della situazione giuridica del soggetto contro cui è intervenuta (cioè quella di “fallito”), l’esistenza di tale stato deve essere meramente recepita dal giudice penale. Si dovrebbe ritenere in modo diverso per quanto concerne l’essere “imprenditore” del soggetto attivo: a proposito la sentenza dichiarativa di fallimento non comporta la costituzione, la modificazione o l’estinzione di una situazione giuridica, pertanto il giudicato sull’accertamento dell’esplicazione dell’attività imprenditoriale da parte del soggetto dichiarato fallito non vincola il giudice penale, al quale spetta piena autonomia decisionale sul punto, qualora la questione sia posta alla sua cognizione e ne possa dipendere la decisione sull’esistenza del reato496. È chiaro, quindi, come sia incomprensibile la conclusione a cui giungono le Sezioni Unite nella sentenza che qui si critica in ordine all’efficacia da attribuirsi alla sentenza dichiarativa di fallimento all’interno del processo penale, proprio alla luce della disciplina processuale risultante dal nuovo codice di rito. 2.3 Il potere del giudice penale La seconda questione497 alla quale dobbiamo ora rispondere consiste nella necessità di sospendere l’esercizio dell’azione penale in caso di opposizione alla declaratoria di fallimento. A proposito si ricorda che durante la vigenza del codice di procedura penale del 1930, dall’esigenza di un accertamento pregiudiziale definitivo si era BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit. p. 266. Cfr. supra in questo capitolo, § 2.2. 496
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desunta l’impossibilità di rinvio a giudizio nel caso di opposizione alla declaratoria di fallimento ed il vincolo alla sospensione del procedimento penale, previo accertamento ai sensi dell’art. 19 cpv. c.p.p., oltrechè dell’esistenza, anche della “serietà della controversia”498. Era proprio quest’ultimo requisito che attribuiva al magistrato penale il potere, pur limitato, di deliberare i motivi sui quali si basava l’impugnazione in sede civile, permettendogli di ovviare, anche se soltanto in parte, ad eventuali opposizioni meramente dilatorie proposte dal bancarottiere al solo fine di allontanare i rigori della persecuzione penale e di ostacolare le indagini sui reati commessi. Con l’attuale codice, in parziale deroga alle regole viste contenute negli artt. 2 e 3 c.p.p., l’art. 479 c.p.p. prevede che, qualora la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale può disporre la sospensione del dibattimento fino alla decisione definitiva. Pertanto, si afferma che in pendenza del giudizio di opposizione al fallimento si imporrà la sospensione del dibattimento ai sensi della citata disposizione processuale, poiché quest’ultima è applicabile a fortiori, in quanto dalla soluzione della controversia civile dipende non soltanto la decisione dell’esistenza del reato, ma anche il consolidamento di un requisito della fattispecie499. Secondo una diversa impostazione500 visto che l’esercizio dell’azione penale è imposto ai sensi dell’art. 238 L.fall.501 e che nessuna norma obbliga alla ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 72. Questa impostazione era seguita da coloro che riconoscevano la natura pregiudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento definitiva. Si segnala la posizione contraria di GIULIANI, Sul rapporto tra bancarotta e declaratoria fallimentare, in Studi in onore di B. Petrocelli, II, Milano, 1972, p. 851. 499 Così PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 115. 500 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 114. 498
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sospensione del processo penale, è inevitabile concludere che se necessario il giudice penale deve giungere sino alla sentenza di condanna, eventualmente fino al giudicato penale. Tale tesi è conforme al principio fondamentale del nostro processo penale, ossia dell’obbligatorietà e, quindi, il giudice penale non può sospendere il processo per bancarotta fuori dai casi consentiti: l’art. 238 L.fall., infatti, fa riferimento all’esercizio immediato dell’azione penale subito dopo (solo in casi eccezionali prima) la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ossia della declaratoria ancora impugnabile. Al contrario gli artt. 216 e 217 L.fall. stabiliscono che è punito colui che ha commesso i fatti di bancarotta502. Chi segue tale teoria giunge ad affermare che considerato il carattere irreparabile dell’afflizione e della lesione che scaturiscono dalla pena, ne deriva che i presupposti di quest’ultima abbiano – almeno di regola – carattere definitivo: conseguentemente l’inciso «se è dichiarato fallito» non deve essere ritenuto un illogico doppione dell’art. 238 L.fall., ma un preciso riferimento al giudicato fallimentare, che è richiesto dalla legge fallimentare quale presupposto per l’applicabilità della pena503. Da tale assunto ne deriva logicamente che l’opposizione ed il giudizio che ne scaturiscono sono liberamente e discrezionalmente apprezzati dal giudice penale. Tuttavia, un’opposizione manifestamente fondata impedirà ogni provvedimento sfavorevole all’imputato, sulla base di un giudizio di Tale disposizione disciplina l’«esercizio dell’azione penale per reati in materia di fallimento», sancendo che «per i reati previsti negli artt. 216, 217, 223 e 224 l’azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento di cui all’art. 17. È iniziata anche prima nel caso previsto dall’art. 7 e in ogni altro in cui concorrano gravi motivi e già esista o sia contemporaneamente presentata domanda per ottenere la dichiarazione suddetta». 502 Cfr. artt. 216 e 217 L.fall. 503 Ancora GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 115. Si noti che lo stesso Autore ritiene che la sentenza dichiarativa di fallimento sia una condizione di procedibilità. 501
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opportunità che deve essere dato discrezionalmente dal giudice penale, caso per caso504. Peraltro, un’opposizione probabilmente infondata non è di ostacolo allo svolgimento di tutto il procedimento penale e può non impedire nemmeno il formarsi del giudicato penale505. La dottrina ha affrontato, altresì, il problema delle incidenze del successivo passaggio in giudicato della pronuncia civile che accoglie l’opposizione sulla sentenza penale di condanna divenuta definitiva per non esser stato sospeso il procedimento. La questione si pone ove il fallimento venga revocato: in questa ipotesi vi è chi sostiene che non resta altro al condannato se non esperire il rimedio straordinario della revisione ex art. 630 n. 1 lett. b) c.p.p.506. Se viene meno la declaratoria di fallimento diventano non punibili i fatti di bancarotta prefallimentari e non costituiscono reato quelli di bancarotta postfallimentari. Di conseguenza scattano i presupposti per una sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. e non sussistono i limiti alla revisione di cui all’art. 631 c.p.p.507. Tuttavia, è opportuno segnalare che parte della dottrina ha dubitato che sussista la possibilità di ricorrere al rimedio straordinario anzidetto508 o lo ha subordinato all’avvenuta sospensione del dibattimento in sede penale509. È evidente che un magistrato eviterà danni irreparabili al fallito imputato di bancarotta, ogni qualvolta sappia che la revoca del fallimento è imminente e probabile. Inoltre, un’opposizione probabilmente fondata agevola il proscioglimento dell'ʹimputato. 505 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, loc. cit.. 506 Ossia nel caso in cui «la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479». Così LANZI, Il nuovo processo penale e i reati fallimentari, in Il fall., 1991, p. 224. 507 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 73. 508 CARACCIOLI, Fallimento, bancarotta e i reati fallimentari, in Impresa, 1990, p. 793. 509 LOZZI, Il nuovo processo penale e il fallimento, in AA. VV., Problemi e prospettive del processo di fallimento, Milano, 1989, p. 110. 504
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Una diversa impostazione, viceversa, ritiene sia auspicabile un’interpretazione restrittiva dei limiti dell’operatività dell’art. 479 n. 1 c.p.p.510. Inoltre, abbiamo visto come secondo le Sezioni Unite Niccoli511 il giudice penale non solo non può accertare la qualità di fallito, ma neppure quella di imprenditore commerciale. Tale asserzione non può essere assolutamente condivisa. Come correttamente prospettato, solamente chi sa di essere imprenditore può avvertire l’obbligo di amministrare i beni e di tenere i libri contabili in modo da non danneggiare gli interessi dei creditori e – se del caso – di autoaccusarsi: è evidente che chi non sa (o non crede) di essere imprenditore non può sapere che il suo obbligo di non ledere gli interessi dei creditori ha carattere penale e non solo civile512 . Le Sezioni Unite, per sostenere la tesi secondo la quale il bancarottiere non dovrebbe essere consapevole della qualità di imprenditore, hanno precisato che laddove le norme incriminatrici parlano di «imprenditore fallito», in realtà si dovrebbe leggere «il fallito»513 con evidente violazione della lettera della legge. In particolare, il Supremo Collegio ha affermato che «a ben leggere gli artt. 216 e 217 L.fall., appare chiaro che in essi il termine “imprenditore” non rileva di per sè ma solo in quanto individua il soggetto “dichiarato fallito”: esso ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, loc. cit. Si segnala soltanto per completezza che la dottrina ha affrontato anche un'ʹulteriore questione sempre nel caso in cui vi sia stata la sospensione del procedimento ed intervenga successivamente una sentenza di proscioglimento per difetto di una definitiva declaratoria di fallimento: se sopravvenuta quest’ultima, l’azione penale può essere nuovamente esercitata oppure osta la preclusione dell’art. 649 c.p.p.? La soluzione a cui si perviene oggi, non è diversa da quella che si forniva sotto l’imperio dell’art. 90 c.p.p. abrogato poiché l’attuale art. 649 c.p.p. presenta la medesima formula. Quindi, si afferma che l’esigenza che nella situazione di cui si parla possa farsi luogo ad un ulteriore procedimento, emerge con certezza dal rilievo che non appare in alcun modo vulnerato il principio del ne bis in idem: per tale ragione si propende per la possibilità che si esperisca nuovamente l’azione penale. 511 Cfr. Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. 512 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 65. 513 Cfr. § 6.6 in Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. 510
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compone cioè un’endiadi che ha lo stesso valore connotativo del più breve riferimento al “fallito” contenuto nell’art. 220 L.fall., del tutto analogo alla espressione “società dichiarate fallite” usata negli artt. 223 e 224 L.fall. per il caso dei “reati commessi da persone diverse dal fallito”; e nessun indizio logico-­‐‑giuridico può desumersi da dette fattispecie acchè possa a ragione ritenersi che al giudice penale sia demandato il compito di accertare in capo all’imputato la veste di “imprenditore” ovvero, per la ipotesi di bancarotta impropria, di sindacare la veste societaria assunta dalla fallita. D’altro canto, anche se ciò fosse, il giudice penale avrebbe, in tesi, solo il compito di accertare una generica qualità di “imprenditore”, ma non quella di verificare se, in base alla legge fallimentare, un “imprenditore”, quale che sia, “possa essere dichiarato fallito”, posto che le norme penali qui considerate non si esprimono in questi termini, ma ancorano la operatività della fattispecie a una dichiarazione di fallimento e non ad un accertamento del giudice penale sulla esistenza delle condizioni per le quali quell’imprenditore poteva essere dichiarato fallito. L’“imprenditore” evocato dalle fattispecie in questione altri non è, dunque, che il “soggetto dichiarato fallito”, giacchè nel nostro ordinamento la dichiarazione di fallimento è inscindibilmente legata all'ʹesercizio di una impresa, e la norma penale, ponendo a dato strutturale della fattispecie l’esistenza di una dichiarazione di fallimento, non può che richiamarsi a quella condizione soggettiva (“imprenditore”) che la dichiarazione di fallimento implica necessariamente»514. Tali argomentazioni non sembrano però corrette. Com’è stato fondatamente evidenziato in dottrina515 non si può sovrapporre i due diversi legami sussistenti tra il processo fallimentare e quello Testualmente Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. Così CERQUA, La modifica della definizione di “piccolo imprenditore”: le sezioni unite ritengono ingiustificata l’applicazione, in Corr. giur., 2009, 6, p. 822. 514
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penale: il primo collegamento di “antecedenza necessaria” obbliga il giudice penale ad attendere la pronuncia civile e la sua irrevocabilità; la seconda connessione, relativa al piano processuale delle questioni pregiudiziali e del nesso probatorio, permette invece al giudice di non essere vincolato nell’accertamento della responsabilità penale della precedente decisione civile. Inoltre, suscita ancora qualche perplessità il passaggio argomentativo della sentenza in parola nella parte in cui – anche se formalmente svincolandola dalla disciplina codicistica sulle questioni pregiudiziali e tenuto conto di quanto previsto dall’art. 238 L.fall. – avvalla espressamente l’applicabilità dell’istituto della sospensione del procedimento penale previsto dall’art. 479 c.p.p., nell’ipotesi di pendenza del giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 L.fall., ritenendo sul punto ancora valida l’affermazione secondo la quale «sorgendo controversia sullo stato di imprenditore fallito, il giudice penale non può conoscere di essa ma deve limitarsi, previa verifica delle condizioni di legge, a sospendere il procedimento pendente davanti a lui, sino al passaggio in giudicato della relativa pronunzia»516, tale asserzione infatti contrasta con il principio di ragionevole durata del processo517. Per di più, il dovere richiamato dalla pronuncia in commento imposto dall’art. 220 L.fall.518 riguarda chi è già fallito, sorgendo quindi dopo il fallimento. Al contrario, il divieto di commettere fatti di bancarotta sorge, nei casi di bancarotta prefallimentare, prima del fallimento: è indubbio, dunque, che chi non sa di essere imprenditore non può avvertire tale divieto. Testualmente Corte cost., 16 luglio 1970, n. 141, in www.giurcost.org. TETTO, Il nuovo statuto dell'ʹimpresa fallibile ed i riflessi nei giudizi di bancarotta, in Il Fall., 2008, 10, p. 1187. 518 Si ricorda che la disposizione citata punisce il reato di denuncia di creditori inesistenti e altre inosservanze da parte del fallito, qualora egli «fuori dei casi preveduti all’art. 216, nell’elenco nominativo dei suoi creditori denuncia creditori inesistenti od omette di dichiarare l’esistenza di altri beni da comprendere nell'ʹinventario, ovvero non osserva gli obblighi imposti dagli artt. 16, nn. 3 e 49». 516
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Si concorda, pertanto, con chi ritiene che l’assunto delle Sezioni Unite contraddice un principio fondamentale del nostro ordinamento penale: ossia che l’imperativo della legge si rivolge soltanto a chi lo può comprendere e può ubbidire al comando del legislatore519. Per tale ragione sembra sussistere un contrasto con la Costituzione in quanto l’imputato di bancarotta non potrebbe difendersi sostenendo di non essersi ritenuto imprenditore: da cui ne consegue un’evidente lesione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e di uguaglianza ex art. 3 Cost.520. Il medesimo Autore sostenitore dell’impostazione appena delineata, correttamente, lamenta la violazione del principio costituzionale di uguaglianza anche sotto un altro profilo: ritiene, infatti, che seguendo l’interpretazione fornita dalla decisione Niccoli si giunge ad un’illogica differenziazione tra il bancarottiere individuale e quello societario. Infatti, le fattispecie di bancarotta societaria di cui agli artt. 223 e 224 L.fall. puniscono gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite. Questi soggetti possono chiedere di essere assolti per mancanza della loro qualità soggettiva con argomenti che spesso sono stati accolti dalla giurisprudenza521. Pertanto si configurerebbe una differenza gravissima tra i responsabili di bancarotta poiché, mentre l’imprenditore individuale secondo l’insegnamento derivante dalla pronuncia in esame non può chiedere che il giudice penale accerti la sua qualità di imprenditore, tutti gli altri bancarottieri potrebbero invece far valere l’assenza della loro qualità soggettiva e di conseguenza essere assolti522. GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 66. ID., La bancarotta, loc. cit. 521 Si veda a proposito dell’amministratore di fatto Cass. pen, sez. V, 19 maggio 2010, n. 19049, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 25 gennaio 2012, n. 17708, in Dejure. 522 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 68. 519
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E piuttosto palese, quindi, come sussista la violazione del principio di uguaglianza sotto un duplice aspetto: in primo luogo, rispetto a tutti gli altri reati propri; in secondo luogo, per l’illogica disparità di trattamento del bancarottiere imprenditore individuale rispetto al bancarottiere societario. 3. LA QUESTIONE IRRISOLTA: LA SUCCESSIONE “MEDIATA” Si è già evidenziato come le Sezioni Unite nella più volte richiamata decisione Niccoli, abbiano liquidato in poche righe la questione di diritto intertemporale523. Non solo, ma la Corte ha richiamato la sentenza Magera affermando di condividerne i principi che però nel caso concreto non ha applicato. Ci si attendeva, infatti, che dalla decisione in commento potessero derivare delle ulteriori linee-­‐‑guida a completamento del panorama giurisprudenziale su di una complessa e delicata problematica, come quella della successione c.d. “mediata”524. Inoltre, non si comprende se il Supremo Collegio abbia volutamente evitato di addentrarsi in questo tema oppure abbia effettivamente ritenuto più corretto dare spazio ad una diversa questione525, la quale da una lettura della sentenza sembra essere stata considerata in una posizione di priorità logico-­‐‑
giuridica rispetto al contrasto denunciato dalla V Sezione. Gli Ermellini, a modesto parere, avrebbero dovuto affrontare il tema della successione di norme integratrici: e quindi, o conformemente alla Cfr. §§ 6.8 e 6.9 Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. OLDI, Sfumata l'ʹoccasione di elaborare linee guida, cit., p. 95. 525 Ossia la vincolatività dell’accertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice fallimentare agli effetti della legge penale. 523
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giurisprudenza precedente risolvere la questione applicando il criterio strutturale al caso concreto526 oppure fornire una nuova linea interpretativa. La modifica della definizione legale di “piccolo imprenditore”, operata dal D.Lvo n. 5/2006, e successivamente di “imprenditore” di cui all’art. 1 L.fall., ha comportato indubbiamente una successione di vere e proprie norme integratrici della legge penale, con la conseguente applicabilità dell’art. 2 comma 2 c.p. Infatti, se le Sezioni Unite avessero ritenuto che l’art. 1 L.fall. conteneva una norma definitoria del concetto di “imprenditore fallito” soggetto attivo della bancarotta, come giustamente ritenuto da parte della dottrina527, non avrebbero potuto esimersi dall’affermare, proprio per coerenza con la pronuncia Magera, che la modifica di quella definizione (ossia dei presupposti per l’assoggettabilità dell’imprenditore al fallimento) incide sulla fattispecie legale, ed è almeno in via di principio in grado di comportare un’abolitio criminis parziale considerato l’ampliamento del novero degli imprenditori esonerati dal fallimento. Si precisa a quest’ultimo proposito che il fenomeno successorio delle modifiche mediate richiede che il criterio ermeneutico non possa tralasciare un momento valutativo, poiché esse non attengono alla struttura della fattispecie ma intervengono su norme integratrici del precetto penale, le quali incidono, potenzialmente, sul venir meno del disvalore della concreta condotta sub iudice528: con la conseguenza che l’interprete è logicamente tenuto ad esaminare se il novum legislativo abbia privato di disvalore penale tale condotta529. Cfr. Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit.; in tema di modifiche immediate Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit. 527 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 2011, 1, p. 437. 528 AMBROSETTI, I riflessi penalistici, cit., p. 3606. 529 Per tale ragione, si ritiene che in ordine al fenomeno successorio attraverso modifiche mediate, il tasso di “problematicità” sia intrinsecamente più elevato rispetto alle ipotesi di modifiche immediate. Ciò in quanto, mentre per queste ultime il giudizio dell’interprete deve 526
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Ritenere che nel caso in esame non si sia verificata un’ipotesi di parziale abrogazione delle fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. comporta necessariamente una soluzione di disparità, anche sotto questo profilo. 3.1 Bancarotta individuale ed il soggetto attivo del reato È opportuna ancora una precisazione sul punto. Correttamente il Supremo Collegio ha evidenziato in premessa che «per stabilire se nella vicenda in esame si verta in tema di abolitio criminis, rilevante ex art. 2 c.p., comma 2, occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per sé rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi»530. Ciò nonostante ha concluso che la qualità di imprenditore non costituisca un elemento strutturale della fattispecie penale. Tuttavia, sembra più corretto affermare che invece la modifica dell’art. 1 L.fall. abbia inciso su di un elemento strutturale della fattispecie astratta di bancarotta individuale, in particolare sul soggetto attivo. Infatti, si è già visto cha la bancarotta è un reato proprio, cioè un reato che non può essere commesso da chiunque ma soltanto, per quanto a noi interessa, dall’imprenditore individuale. Nello specifico, la dottrina identifica i reati propri come quelle ipotesi contraddistinte dall’efficacia costitutiva della posizione soggettiva, nel senso che la condotta eventualmente posta in essere da un estraneo sarebbe lecita o fare riferimento soltanto ad un’analisi strutturale della vecchia e nuova fattispecie, nell'ʹipotesi di modifiche mediate non si può prescindere da un approccio di tipo strettamente valutativo. Così ID., I riflessi penalistici, loc. cit. 530 Cfr. § 6.2 Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, Niccoli, cit. 158
irrilevante ovvero in assenza della posizione si configurerebbe un diverso titolo di reato531. Più precisamente, il soggetto agente non è l’imprenditore dichiarato fallito, ma l’imprenditore “fallibile”, pertanto la modifica dell’art. 1 L.fall. , sottraendo alla classe degli imprenditori fallibili una sottocategoria di piccoli imprenditori ha comportato una modifica significativa della disposizione definitoria integratrice del precetto di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. e, per tale ragione, una modifica abolitiva delle corrispondenti figure criminose. Ancora attuale è quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale per legge incriminatrice si intende il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto: tra i quali, nei reati propri, è indubbiamente ricompresa la qualità di soggetto attivo532. Pertanto, se la novatio legis riguarda la qualità del soggetto attivo, nel senso che, come nel caso di specie, fa venir meno la qualifica di imprenditore “fallibile”, necessaria per integrare le fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall., non può non applicarsi a favore di tali soggetti il principio di irretroattività della legge più favorevole affermato nell’art. 2 c.p. Allo stesso esito si può giungere ragionando in termini di incidenza sul disvalore penale del fatto anteriormente commesso. Proprio il venir meno della qualifica soggettiva, quando questa è tale da incentrare su di sé il disvalore penale del fatto, travolge lo stesso disvalore del fatto anteriormente commesso e conduce a ritenere abolita la corrispondente figura criminosa. Appare piuttosto evidente, in conclusione, che la verifica della sussistenza dei requisiti di piccolo imprenditore, non sottoponibile al BETTIOL, Sul reato proprio, cit., p. 415; MAIANI, In tema di reato proprio, Milano, 1966, p. 13. Circa la questione dell’individuazione del ruolo della qualifica soggettiva all’interno del reato proprio si veda per tutti GULLO, Il reato proprio, cit., p. 85. 532 Cfr. Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, cit. 531
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fallimento, doveva compiersi con la legge del momento e non con le precedenti, in quanto ai sensi dell’art. 2 c.p. le norme non penali si integrano in maniera indissolubile con la fattispecie penale: difatti, la “fallibilità” è un presupposto normativo e non di fatto del reato533. 4. GLI STRUMENTI DI DIFESA PER IL “PICCOLO IMPRENDITORE” Arrivati quasi al termine della nostra trattazione, ci si chiede come possa difendersi l’imprenditore che concretamente non possieda i requisiti soggettivi di cui all’art. 1 L.fall. Poiché al di là delle modifiche apportate alla disposizione fallimentare e al di là ancora del tema della successione “mediata”, ciò che non si può trascurare, e che forse rileva maggiormente, è che l’interpretazione giurisprudenziale che si è cercato di criticare sembra avallare la sussistenza di una pregiudiziale fallimentare nel processo penale in ordine alla qualifica di imprenditore “fallibile” quale soggetto attivo del reato di bancarotta individuale. Tale conclusione, tuttavia, contrasta con i principi del codice di procedura penale del 1988, il quale ha eliminato il principio dell’unitarietà della funzione giurisdizionale per introdurre i diversi principi di autonomia, parità ed originarietà degli ordini giurisdizionali534. In ossequio al principio di separazione, quindi, la regola che presiede al processo penale è quella della cognizione incidentale di ogni questione civile o amministrativa rilevante ai fini della decisione da parte del giudice penale e, in conformità a questo principio, abbiamo visto come il codice di rito preveda che Alla medesima conclusione era giunto SOCCI, Gli effetti delle riforme del fallimento, cit., p. 3056. Tali corollari sono stati affermati chiaramente in Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2008, n. 40049, in Dejure. Nel caso di specie la questione riguardava l’art. 652 c.p.p. 533
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anche di altre questioni, pur se pregiudiziali, il giudice penale possa prendere cognizione incidenter tantum ai sensi dell’art. 2 c.p.p. 535. Abbiamo anche già precisato come la regola poc’anzi richiamata patisca delle eccezioni negli artt. 3 e 479 c.p.p.536. È piuttosto evidente, quindi, come l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite contrasti con i principi ispiratori del codice di procedura penale del 1988 con la conseguente lesione del diritto di difesa dell’imputato per bancarotta che si vede pregiudicati i propri diritti da una decisione fallimentare in ordine alla qualità di imprenditore “fallibile”. Alla luce delle considerazioni svolte l’unica via praticabile per l’imprenditore sarebbe quella di proporre opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento e chiedere la sospensione del dibattimento ai sensi dell’art. 479 c.p.p. Quest’ultima disposizione infatti comporta, di riflesso, l’assoggettabilità a revisione, a norma dell’art. 630 lett. b) c.p.p., della sentenza penale definitiva che abbia condannato per bancarotta sulla base di una dichiarazione di fallimento successivamente revocata. È doveroso sottolineare che l’art. 479 c.p.p. si applica soltanto nella fase dibattimentale: sarebbe invece, opportuno che la sua portata applicativa fosse estesa anche all’udienza preliminare, soprattutto dopo l’entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479 la quale ha fissato nell’inizio della discussione, nel corso della predetta udienza, il momento preclusivo per l’accesso al patteggiamento. Infatti, è ragionevole che l’imputato si asterrà dal richiedere l’accesso non soltanto al procedimento di applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, p. 539. Cfr. in questo capitolo §§ 2.2 e 2.3. 535
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ma anche al giudizio abbreviato nel caso di pendenza di una “seria” opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento537. Inoltre, ai sensi dell’art. 479 c.p.p. il giudice penale può disporre la sospensione del dibattimento, fino a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato soltanto se la legge non pone limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. Conclusivamente, non si può non concordare con chi ritiene auspicabile una rivisitazione della disciplina dell’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento nel processo penale538. In particolare, sarebbe auspicabile l’introduzione della sospensione necessaria del processo penale in attesa che venga definita, con sentenza passata in giudicato, l’opposizione anche se ciò contrasterebbe con il principio della ragionevole durata del processo. Tuttavia, lasciare le cose come stanno comporta il rischio di una lesione del diritto di difesa dell’imputato in relazione alla scelta dei riti alternativi rispetto a quello ordinario. La stessa giurisprudenza in un’occasione ha affermato che la sospensione del procedimento penale ai sensi dell’art. 479 c.p.p., può essere disposta, in applicazione estensiva di detta disposizione normativa, anche in sede di udienza preliminare, considerata la sostanziale assimilazione della disciplina di tale fase procedimentale a quella del dibattimento, a seguito della riforma introdotta dalla l. 16 dicembre 1999 n. 479539. Nessuno strumento di difesa sembra, viceversa, avere l’imputato che si sia visto rigettare l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Così BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit., p. 272. Ancora BRICCHETTI, PISTORELLI, op. ult. cit., p. 273. 539 Cfr. Cass. pen., sez. V, 15 luglio 2009, n. 43981, in Arch. nuova proc. pen., 2010, 2, p. 196. 537
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Circostanza questa che necessariamente lede il diritto di difesa, il quale essendo un «diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento»540 richiede necessariamente un intervento del legislatore. Cfr. art. 24 Cost. 540
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CONCLUSIONI Giunti al termine della nostra indagine è arrivato il momento di svolgere alcune considerazioni conclusive. La scelta di trattare un tema che sembra risolto alla luce dell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite, nella più volte citata sentenza Niccoli, nasce dall’insoddisfazione che suscita una pronuncia in tal senso e dalle ripercussioni pratiche che ne deriva. Si è visto come l’art. 1 L.fall. abbia subito delle modifiche rilevanti con le riforme del 2005-­‐‑2007, le quali hanno ridefinito la cerchia dei soggetti fallibili e, quindi, dei soggetti attivi del reato proprio di bancarotta individuale. Nella realtà questo mutamento ha reso più complesso il riparto di ruoli e competenze tra la giurisdizione penale e quella fallimentare: poiché la qualifica soggettiva di fallito rappresenta un requisito strutturale delle fattispecie penali punite dagli artt. 216 e 217 L.fall. Inoltre, le modifiche apportate alla disposizione fallimentare hanno posto un problema di successione di norme integratrici (c.d. modifica mediata) con riguardo ai procedimenti di bancarotta che erano in corso prima dell’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006 e poi del decreto correttivo n. 169/2007. In particolare, si era formato un contrasto giurisprudenziale durante la vigenza del primo decreto legislativo: da un lato, in una pronuncia la Corte di cassazione aveva affermato che la nuova disciplina dettata a proposito della nozione di piccolo imprenditore non aveva comportato un’abolitio criminis con la conseguenza che nei giudizi avviati prima del 16 luglio 2006 il referente normativo era ancora la vecchia legge fallimentare541; dall’altro, la medesima Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2007, n. 19297, cit. 541
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sezione del Collegio542, aveva assunto una posizione contraria ritenendo che la normativa intervenuta in pendenza del processo penale per bancarotta doveva considerarsi più favorevole rispetto a quella previgente e, quindi, applicabile. Su tale contrasto sono intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno escluso l’operatività dell’art. 2 c.p. con riferimento alle modifiche apportate alla disciplina prevista dall’art. 1 L.fall., sulla scorta di argomentazioni assolutamente non condivisibili. Nello specifico gli Ermellini hanno chiarito che in caso di mutamento per ius superveniens della definizione legale dei presupposti di fallibilità, le norme sopravvenute non hanno inciso sulla struttura del reato né tali modifiche avrebbero potuto incidere sull’applicabilità della normativa più favorevole ai procedimenti penali in corso ai sensi dell’art. 2 c.p. Alla luce di tali considerazioni, la Corte è giunta alla conclusione che il giudice penale investito del giudizio relativo ai reati di bancarotta non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non soltanto riguardo al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa, ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 L.fall. L’interpretazione fornita dalla Suprema Corte è criticabile con riguardo a due aspetti. In primo luogo, le Sezioni Unite hanno affermato l’insindacabilità in sede penale della sentenza dichiarativa di fallimento con inevitabili interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale. Tale conclusione chiaramente contrasta con i principi ispiratori del codice di procedura penale del 1988, ossia di autonomia, parità ed originarietà degli ordini giurisdizionali: infatti, la regola che presiede il processo penale è quella della cognizione incidentale di ogni questione civile o amministrativa rilevante ai fini della decisione del giudice penale. Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2007, Rizzo, cit. 542
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Nell’attuale codice di rito il principio dell’autonoma cognizione del giudice penale circa le questioni che si pongono in antecedenza logica rispetto alla decisione finale è sancito espressamente nell’art. 2 c.p.p. Le sole questioni pregiudiziali rilevanti sono quelle relative ad una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, le quali possono se serie e già in corso autorizzare il giudice penale a sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione543. Il giudice penale, alla luce della disciplina processual-­‐‑penalistica, ha un’unica possibilità nel caso in cui la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice competente, sospendere il dibattimento fino alla decisione definitiva. Non si comprende, pertanto, la ragione per la quale sembra essersi creata una sorta di pregiudiziale fallimentare. Inoltre, pare anche a noi come affermato in dottrina544, che attribuire valore vincolante e pregiudiziale alla sentenza dichiarativa di fallimento, che può anche passare in giudicato senza che il fallito possa valutare adeguatamente le conseguenze, comporti una violazione del diritto di difesa. Diritto che richiede necessariamente che il giudizio per bancarotta sia svincolato dalla procedura fallimentare, permettendo al fallito di difendersi mediante l’assistenza tecnica di un difensore in sede penale sul punto già accertato in sede fallimentare. Si è visto anche che sussiste, altresì, una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., poichè seguendo l’impostazione delle Sezioni Unite si giunge ad un’illogica differenziazione tra il soggetto attivo della bancarotta individuale e quello della bancarotta societaria: invero, questi ultimi possono chiedere di essere assolti per mancanza della loro qualità soggettiva. Così l’art. 3 c.p.p. GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 108. 543
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Il differente trattamento tra i responsabili del reato di bancarotta risulta evidente: mentre, conformemente alla sentenza Niccoli l’imprenditore individuale non può chiedere che il giudice penale accerti la sua qualità di imprenditore, tutti gli altri bancarottieri possono invece far valere l’assenza della loro qualità soggettiva e di conseguenza essere assolti. Non si può non evidenziare come tale illogica disparità strida ancor di più considerata la maggior incidenza sul mercato e il maggiore disvalore sociale della bancarotta societaria. In secondo luogo, gli Ermellini hanno escluso che il nuovo contenuto dell’art. 1 L.fall. abbia inciso su di un elemento strutturale dei reati di bancarotta individuale, con la conseguenza che la disposizione anzidetta non poteva dirsi norma extrapenale che interferiva sulle fattispecie penali. Neppure questo argomento può essere condiviso, in primis, perché contrasta con l’orientamento delle stesse Sezioni Unite sia in tema di successione di norme integratrici545 sia a proposito della definizione di legge incriminatrice546. E poi perché vi sarebbe una palese violazione del principio costituzionale di uguaglianza nei confronti di chi avrebbe rivestito la qualifica di piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 1 L.fall. La modifica della definizione legale di “piccolo imprenditore” e, successivamente, di “imprenditore” contenuta nell’art. 1 L.fall. ha comportato una vera e propria successione di norme integratrici della legge penale, con la conseguente applicabilità dell’art. 2 comma 2 c.p. Il soggetto attivo delle fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. non è l’imprenditore dichiarato fallito, ma l’imprenditore “fallibile”, pertanto, la modifica dell’art. 1 L.fall. ha sottratto alla classe degli imprenditori fallibili una sottocategoria di imprenditori. Il riferimento è alla pronuncia Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit. Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet., cit. 545
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Da ciò ne è derivata una variazione significativa della disposizione definitoria integratrice del precetto delle disposizioni penali citate: quindi, una modifica abolitiva delle corrispondenti figure criminose. L’accertamento della sussistenza dei requisiti di imprenditore non sottoponibile a fallimento, deve compiersi con la legge del momento e non con le precedenti, poiché ai sensi dell’art. 2 c.p. le norme non penali si integrano in maniera indissolubile con la fattispecie penale e, in questo caso, la “fallibilità” è un presupposto normativo e non di fatto del reato. L’unica ragione per la quale si può provare a giustificare un simile atteggiamento giurisprudenziale nell’affrontare problematiche di diritto intertemporale derivanti da discusse riforme, si rinviene nel rischio segnalato anche in dottrina547 che i più o meno recenti provvedimenti di riforma in materia penale si rivelino una vera e propria “amnistia occulta”. Nello specifico, la Suprema Corte spesso sembra dar maggior peso alle ragioni di “politica giudiziaria” dirette a limitare gli effetti di queste amnistie occulte, piuttosto che ai canoni ermeneutici che la scienza penalistica cerca di elaborare in una materia così controversa. È evidente come, tuttavia, sia inaccettabile assumere posizioni in contrasto con il diritto di difesa che, è bene ribadire, è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Difatti, come già evidenziato, l’imputato per bancarotta si vedrà pregiudicati i propri diritti da una decisione fallimentare in ordine alla qualità di imprenditore “fallibile” non avendo, in concreto, degli strumenti di difesa veramente efficaci. L’unica strada che sembra percorribile è l’opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento e la successiva richiesta di sospensione del dibattimento ai sensi dell’art. 479 c.p.p. DONINI, Discontinuità del tipo di illecito, cit. p. 2857; GAMBARDELLA, Nuovi cittadini dell’Unione europea, cit., p. 922. 547
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Con la precisazione che quest’ultima disposizione applicandosi soltanto nella fase dibattimentale, comporta come conseguenza che l’imputato si asterrà dal richiedere l’accesso sia al procedimento di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. sia al giudizio abbreviato nel caso in cui sia pendente una “seria” opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento. Ne deriva anche in questo caso il rischio di una lesione del diritto di difesa dell’imputato in relazione alla scelta dei riti alternativi rispetto a quello ordinario. Pertanto, sotto questo profilo, sarebbe auspicabile l’introduzione della sospensione necessaria del processo penale in attesa che venga definita, con sentenza passata in giudicato, l’opposizione anche se ciò contrasterebbe con il principio di ragionevole durata del processo. In una situazione ancora meno favorevole si trova poi l’imputato che si sia visto rigettare l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento poiché egli non ha a disposizione alcun strumento di difesa nel giudizio penale. Conclusivamente, in una situazione in cui si riscontra una lesione del diritto di difesa deve intervenire il legislatore in ordine alla disciplina dell’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento nel processo penale e ciò anche alla luce di una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione548, depositata nelle more della stesura delle seguenti osservazioni, la quale conferma ancora una volta la posizione qui ampiamente criticata, peraltro senza neppure motivare sul punto. È incomprensibile la ragione per la quale la giurisprudenza, normalmente attenta ai diritti dell’imputato, qui al contrario non sembra nemmeno accorgersi che l’interpretazione avallata leda un diritto garantito al più alto livello della gerarchia delle fonti. Cfr. Cass. pen., sez. V, 18 gennaio-­‐‑11 marzo 2013, n. 11256, in D&G. 548
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A modesto parere di chi scrive, pare proprio che questa sia stata l’ennesima occasione persa per il legislatore (per non essere intervenuto anche sulla disciplina dei reati fallimentari) di offrire un corpo normativo idoneo a realizzare quella effettiva ed agognata autonomia cognitiva del giudice penale rispetto ai poteri di accertamento riservati al giudice civile/fallimentare, imposta dall’inesistenza nel vigente codice di procedura penale di un correlativo e formale vincolo di pregiudizialità. 170
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