indici della situazione di crisi dell`azienda

PROCEDURE DI SOLUZIONE DELLA CRISI D’IMPRESA
ALTERNATIVE AL FALLIMENTO
Convegno di studi, Lecco - 6 maggio 2009
INDICI DELLA SITUAZIONE DI CRISI DELL’AZIENDA,
VALUTAZIONE DELLE SOLUZIONI
E POSSIBILI ALTERNATIVE
Roberto Moro Visconti - docente di Finanza aziendale nell'Università Cattolica di Milano dottore commercialista - [email protected]
INDICE
1. Indici della situazione di crisi dell'azienda al venir meno della continuità aziendale
1.1. Dal going concern al break up
1.2. Il principio della continuità aziendale
1.3. Gli effetti del venir meno del going concern
1.4. I warning sul going concern: obblighi d'informativa e continuità aziendale
2. Salviamo il salvabile: valutazione delle soluzioni e possibili alternative
2.1. La ristrutturazione strategica del modello di business in presenza di crisi aziendale,
finanziaria e di mercato
2.2. Meglio soli che male accompagnati: ripartizione tra good branch e bad branch in
funzione delle strategie aziendali
2.3. Mors tua, vita mea: la separazione del ramo d'azienda "buono" da quello non salvabile.
Profili di criticità civilistica
2.4. Salvataggio della good company attraverso l'amputazione della bad company da porre
in liquidazione
2.5. Cessione o affitto della good company e soluzioni concorsuali o stragiudiziali
(fallimento chirurgico) per la bad company
2.6. Ristrutturazione del debito attraverso l'emissione di obbligazioni convertibili e titoli
ibridi
3. Il paradosso "marchio forte - azienda debole"
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1. INDICI DELLA SITUAZIONE DI CRISI DELL'AZIENDA AL VENIR MENO DELLA
CONTINUITÀ AZIENDALE 1
1.1. Dal going concern al break up
Se si passa da un contesto di normale andamento aziendale (going concern) ad un’ipotesi di
liquidazione (break up), si ha il capitale di liquidazione, che è la configurazione assunta dal capitale
aziendale in sede di cessazione dell’attività d’impresa; in tale caso, le attività vengono valutate al
presunto valore di realizzo e le passività al presunto valore di estinzione.
Il passaggio da uno scenario di going concern ad un contesto di break up implica il venir meno
delle aspettative reddituali dell’impresa; in quest’ottica, rileva esclusivamente il valore di mercato
dei singoli beni che compongono l’impresa. Il valore di mercato delle immobilizzazioni immateriali
si colloca normalmente ben al di sotto del valore di funzionamento e talora anche al di sotto del
valore contabile (come avviene per le immobilizzazioni immateriali prive di autonomo valore di
mercato).
Il valore di mercato di un’attività dipende essenzialmente dalla sua capacità di produrre reddito e
flussi di cassa anche in un contesto diverso da quello originario e pertanto la sua stima è
intimamente connessa alla misurazione della redditività e dei flussi finanziari.
In caso di liquidazione o ancor di più di insolvenza, è necessario stimare quanta parte del valore
viene persa, tenendo presente che molti investimenti sono irreversibili (se vengono abbandonati,
hanno un valore che può tendere a zero) e deperibili (devono essere sfruttati, altrimenti perdono
valore).
Il valore di mercato di un’attività dipende, in buona parte, dall’esistenza di un vasto e consolidato
mercato secondario dei beni oggetto di negoziazione. Il mercato secondario si assottiglia quanto più
l’attività risulta specifica e quanto meno il bene è fungibile.
Ai fini della determinazione dell’eventuale valore residuo di mercato delle diverse attività, venuta
meno la continuità aziendale bisogna distinguere tra:
a) attività che conservano un autonomo valore di mercato;
b) attività prive di autonoma individualità e che conservano un valore di mercato solo se
negoziate insieme ad altri assets dell’impresa;
c) attività che hanno un valore di mercato potenziale (autonomo o integrato con altre);
d) attività in ogni caso del tutto prive di valore di mercato.
1.2. Il principio della continuità aziendale
L'art. 2423 bis, 1° comma, n. 1., c.c., in tema di principi di redazione del bilancio (in condizioni
ordinarie), rileva che la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella
prospettiva della continuazione dell'attività (going concern) 2 .
Come rileva Pontani 3 , "per continuazione dell'attività si può intendere l'insieme delle circostanze
della gestione d'azienda che costituiscono condizioni di esistenza dell'azienda tradizionalmente
definita come istituto economico destinato a perdurare".
Il postulato della continuità aziendale risulta per certi versi "sovraordinato, oltre che ai criteri di
iscrizione e valutazione, anche ai restanti principi generali, stante il fatto che, in mancanza di
continuità aziendale, essi perderebbero gran parte della propria ragion d'essere" 4 .
1
Questo paragrafo è tratto, con adattamenti, da: MORO VISCONTI R., (2009), La liquidazione delle società, Buffetti,
Roma.
2
Si veda anche CARÒLA G., (2008), I bilanci dell'azienda in liquidazione: dal going concern al dying concern, in "il
fisco", 39, 6957.
3
PONTANI F., I principi di redazione del bilancio d'esercizio, pp. 114-116, in PALMA A., a cura di, (2008), Il
bilancio di esercizio, Giuffrè, Milano.
4
Si veda MORO VISCONTI R., (2007), Il principio della continuità aziendale, in "Impresa c.i.", 1, 43.
2
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Da un punto di vista aziendalistico, un'impresa opera in un'ottica di continuità aziendale quando,
attraverso la propria attività gestionale, essa appare in grado di:
1. soddisfare le aspettative dei soci, conferenti di capitale, e dei prestatori di lavoro;
2. mantenere un grado soddisfacente di economicità, cioè conservare l'equilibrio economico
della gestione, inteso come capacità stessa dell'impresa di conseguire ricavi superiori ai costi
di esercizio, in modo da consentire una congrua remunerazione per il capitale di rischio
investito nell'impresa;
3. mantenere l'equilibrio monetario della gestione, inteso come l'attitudine dell'azienda a
preservare i prevedibili flussi di entrate monetarie con caratteristiche quantitative e
temporali idonee a fronteggiare i deflussi di mezzi monetari, necessari per l'acquisizione di
fattori di produzione, secondo le modalità indicate nei programmi di gestione.
Il principio della continuità aziendale postula che lo strumento atto a fornire informazioni
patrimoniali, finanziarie ed economiche di un'impresa in funzionamento debba essere il bilancio
d'esercizio, in contrapposizione al bilancio di liquidazione, atto a fornire informazioni in questo
particolare contesto. Tale presupposto implica, tra l'altro, che i beni di un'attività in funzionamento
non abbiano un valore intrinseco di per se stessi, ma lo abbiano unicamente in funzione della loro
capacità di produrre un reddito in futuro.
Secondo il Principio Contabile OIC n. 11 5 , par. “Postulati del bilancio d'esercizio”, “la formazione
del bilancio di esercizio inteso come strumento d'informazione patrimoniale, finanziaria ed
economica dell'impresa in funzionamento, cioè di un'impresa caratterizzata da una continuità
operativa, si fonda su principi contabili” 6 .
In mancanza di evidenze contrarie, il bilancio viene redatto sulla base del presupposto della
continuità dell'attività d'impresa. Coerentemente, le attività e le passività sono registrate ritenendo
che la società sia in grado di realizzare tali attività e di assolvere ai propri impegni, nel normale
svolgimento della sua attività. In mancanza di tale presupposto, la società può non essere in grado di
realizzare le attività per i valori riportati in bilancio e vi possono essere mutamenti negli importi e
nelle scadenze delle passività, che dovrebbero essere rettificate.
Il postulato della continuità aziendale risulta incompatibile con un contesto di liquidazione, nel
quale lo scopo precipuo consiste nel realizzo del patrimonio sociale, mediante lo scorporo dei beni
aziendali, a beneficio dei creditori.
Pertanto, in un contesto in cui risulta assente la prospettiva di continuazione dell'attività, i criteri
ordinari di redazione del bilancio non sono applicabili. La valutazione del patrimonio a valori di
scambio è infatti caratteristica di una società proiettata verso l'estinzione, in cui i singoli
componenti non sarebbero più caratterizzati da alcuna interrelazione e non andrebbero più
sinergicamente valutati secondo il loro contributo produttivo.
Per quanto riguarda la permanenza di validità del postulato del “going concern”, nell’accezione
prevista dal Framework dello IASB, par. 23, ritenuta valida anche ai fini dell’applicazione dei
principi contabili italiani (“Si assume che l’impresa non abbia né l’intenzione né il bisogno di
liquidare né di ridurre significativamente il livello della propria operatività”) essa viene meno
sicuramente al momento dell’inizio della gestione di liquidazione, a meno che non venga disposta
la continuazione dell’attività dell’impresa ai sensi dell’art. 2487, 1° comma, lett. c), sia pur con una
gestione di tipo conservativo e non dinamico. Infatti, in questa ipotesi il capitale investito
5
I principi contabili OIC sono liberamente consultabili sul sito www.fondazioneoic.it.
Il principio contabile OIC 25 (“Il trattamento contabile delle imposte sul reddito”), al par. "Richiamo dei principi
contabili generali”, rileva che "il rispetto dei principi di competenza e di rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato d'impresa nella prospettiva di continuità aziendale, comporta che il
trattamento delle imposte sul reddito sia il medesimo di quello dei costi sostenuti dall'impresa nella produzione del
reddito, da contabilizzare conseguentemente nello stesso esercizio in cui sono stati contabilizzati i costi e i ricavi cui
tali imposte si riferiscono, indipendentemente dalla data di pagamento delle medesime".
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nell’impresa continua a mantenere la sua funzione di strumento di produzione del reddito e non si
verifica neanche una “riduzione significativa del livello di operatività” dell’impresa.
Nell’ipotesi in cui la continuazione dell’attività valga solo per uno dei rami dell’azienda, la validità
del postulato del going concern si verifica solo per tale ramo ma non per gli altri, per i quali
interviene la cessazione dell’attività produttiva che non si verifica a livello societario, essendo
confinata al ramo oggetto di realizzo, talora conferito in una società ad hoc (bad company), poi
destinata ad essere liquidata.
Al principio della continuità aziendale è anche dedicato il principio di revisione 570 dei Dottori
Commercialisti e Ragionieri.
In particolare, nel par. 6 del citato principio n. 570, si rileva che la verifica del presupposto della
continuità aziendale può avvenire attraverso indicatori finanziari (perdite ingenti, difficoltà a
rimborsare i debiti …), indicatori gestionali (perdita di personale …) e altri indicatori (capitale
ridotto sotto i limiti legali, iniziative legislative sfavorevoli …), desumibili dal bilancio o da altre
fonti. In particolare, fra gli indicatori finanziari, rilevano:
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situazione di deficit patrimoniale o di capitale circolante netto negativo;
flussi di cassa operativi e netti negativi;
redditività della gestione tipica negativa;
consistenti perdite d'esercizio;
ingenti e ripetuti versamenti e finanziamenti da parte dei soci;
prestiti a scadenza fissa e prossimi alla scadenza senza che vi siano prospettive verosimili di
rinnovo o di rimborso;
eccessiva dipendenza da prestiti a breve termine per finanziare attività a lungo termine;
indici economico-finanziari negativi o in costante peggioramento;
mancanza o discontinuità nella distribuzione dei dividendi;
impossibilità di saldare i debiti e di incassare i crediti alla scadenza;
difficoltà nel rispettare le clausole contrattuali dei prestiti;
cambiamento di atteggiamento dei fornitori per concessione di credito e pagamento alla
consegna;
incapacità di ottenere finanziamenti necessari per lo sviluppo di nuovi prodotti ovvero per
altri investimenti necessari.
Esempi di indicatori gestionali sono:
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dimissioni di membri dell'organo amministrativo o dell'organo di controllo;
perdita di personale a livello dirigenziale;
perdita di fornitori, di concessioni, di licenze …;
inadeguatezza, rispetto alla natura e alle dimensioni della società, dell'assetto organizzativo,
amministrativo e contabile adottato dalla società;
− effettuazione di operazioni azzardate o non coerenti con il patrimonio sociale.
Invece, fra gli altri indicatori, rilevano anzitutto:
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capitale ridotto al di sotto dei limiti legali;
termine della durata statutaria, senza previsione di prolungamento del contratto sociale;
contenziosi legali e fiscali;
perdita di autorizzazioni necessarie per lo svolgimento del core business.
Secondo il citato principio contabile OIC 5, par. 7.2., in merito alla rilevanza di tali indicatori, ai
fini della individuazione del momento in cui è necessario “abbandonare” i criteri di funzionamento,
va osservato che alcuni di essi non sono idonei a segnalare l’esistenza attuale di una “situazione di
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insolvenza” o di una “situazione di crisi di impresa”, nel significato attribuito a tali espressioni dalle
disposizioni della legge fallimentare e non implicano una cessazione immediata, o prossima,
dell’attività produttiva.
1.3. Gli effetti del venir meno del going concern
Il venir meno della validità del postulato del going concern può verificarsi in un momento
qualunque dell’esercizio, senza che vi sia alcuna relazione con la messa in liquidazione della
società, che non è neanche prevista, non essendosi verificata alcuna delle cause di scioglimento.
Infatti, come precisa il citato principio contabile OIC 5, par. 7.2., la rilevanza degli eventi o delle
circostanze che possono far sorgere dubbi sulla sussistenza della continuità aziendale possono
essere attenutati da altri fattori (nuovi finanziamenti, chiusura di un'attività, piani industriali 7 …).
Pertanto, occorre distinguere due distinte ipotesi:
a) che in conseguenza del verificarsi di un evento interno o esterno all’impresa si produca una
cessazione pressoché immediata dell’attività produttiva;
a) che l’evento in questione consenta pur sempre uno svolgimento ridotto dell’attività per
qualche mese e l’avvio di una normale procedura liquidatoria.
In ambedue le ipotesi, l’elemento della cessazione dell’attività produttiva o, almeno, quello della
“significativa riduzione del livello della propria operatività” 8 deve permanere fino alla data di
formazione del progetto di bilancio e la cessazione deve essere tendenzialmente definitiva; se,
invece, vi è stata una interruzione temporanea dell’attività, che è poi ripresa senza una significativa
riduzione del livello di operatività, alla data di chiusura dell’esercizio, e successivamente fino alla
data di formazione del progetto di bilancio, vi è ancora un’impresa in normale funzionamento e non
può parlarsi di venir meno del postulato del going concern.
Nella prima ipotesi, in cui si verifica un evento che comporta la cessazione immediata dell’attività
produttiva, creando una “disgregazione economica” del patrimonio sociale ed uno stato di
liquidazione, che di fatto si protrae fino alla data di formazione del progetto di bilancio, non c’è
dubbio che gli amministratori, in sede di redazione del bilancio di quell’esercizio, applichino criteri
di liquidazione e, dunque, valutino il patrimonio dell’impresa con criteri diversi da quelli indicati
nell’art. 2426 c.c. 9 .
Nella seconda ipotesi, più frequente 10 , non si produce di solito un'interruzione immediata
dell’attività produttiva o un’immediata riduzione del livello e dei volumi di essa, per cui la formale
messa in liquidazione o l’ingresso in una procedura concorsuale, in ipotesi del verificarsi dello stato
di crisi o peggio dello stato di insolvenza, si verificano alcuni mesi dopo, e comunque in epoca
successiva alla data di formazione del progetto di bilancio.
Non essendosi verificata alla data di chiusura dell’esercizio e fino alla data di formazione del
progetto di bilancio la cessazione dell’attività produttiva, il bilancio di quell’esercizio sarà redatto
non con i criteri di liquidazione, bensì con i criteri di funzionamento, i quali però si applicheranno
con le modalità per la predisposizione del rendiconto degli amministratori. Va tuttavia tenuto in
7
Redatti ai sensi dell'art. 2381, 3° comma, c.c., se la società è una S.p.a.
Così come definito dal Framework IASB, par. 23.
9
In tal senso, il principio contabile OIC 5, par. 7.2., rileva che l’abbandono dei criteri di funzionamento ed il passaggio
ai criteri di liquidazione dovrà essere illustrato e giustificato in modo esauriente nella nota integrativa. In questa ipotesi,
venendosi a verificare una causa di impossibilità di svolgimento dell’attività, gli amministratori sono tenuti ad accertare
il verificarsi di una causa di scioglimento ex art. 2484 c.c. e a convocare al più presto l’assemblea dei soci per la nomina
dei liquidatori. Trattandosi di una cessazione tendenzialmente definitiva dell’attività, in questa ipotesi anche il
rendiconto sulla gestione degli amministratori sarà redatto con criteri di liquidazione.
10
Un esempio tipico è quello di un’impresa da tempo in difficoltà finanziarie che fa ricorso in misura preminente a
finanziamenti bancari, alla quale vengono revocati i fidi con richiesta di rientro in un termine breve; oppure di
un’impresa alla quale non viene accordata dal sistema bancario la ristrutturazione dell’indebitamento oneroso che è
stato richiesto, per cui essa non è in grado di far fronte alle proprie obbligazioni.
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considerazione il mutato orizzonte temporale di permanenza dell’impresa in funzionamento e la
conseguenza di tale mutamento sulla residua vita utile delle immobilizzazioni materiali e
immateriali 11 .
In tale ambito rilevano anche le disposizioni civilistiche in tema di riduzione del capitale sociale per
perdite 12 (superiori a un terzo del capitale o che lo riducono al di sotto del limite legale), che
prevedono la predisposizioniedi situazioni infrannuali ad hoc, affinché l'assemblea possa deliberare
in merito agli "opportuni provvedimenti".
1.4. I warning sul going concern: obblighi d'informativa e continuità aziendale
Le grida d'allarme in caso di possibile venir meno della continuità aziendale sono qualcosa di più
dei meri profit warning lanciati dalle società quotate che prevedono un calo degli utili e oggi,
nell'attuale contesto recessivo, sono sempre più frequenti e talora sfociano in "bollettini medici" con
prognosi riservata, anticamera delle procedure concorsuali.
Anche al fine della verifica della sussistenza del presupposto della continuità aziendale, l'art. 2381,
commi 3° e 5°, c.c., obbligatoriamente applicabile alle S.p.a. ma con un modello volontariamente
estendibile anche alle S.r.l., impone agli organi delegati di fornire adeguate informazioni che
consentano all'organo amministrativo di:
− valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società;
− esaminare i piani strategici, industriali e finanziari della società (budget e business plan
pluriennali, con periodiche analisi degli scostamenti, fondamentali per stimare l’evoluzione
della società, prevedere la sua capacità di generare flussi di cassa per il rimborso del debito e
lo sviluppo di nuovi investimenti …);
− valutare (almeno ogni sei mesi) il generale andamento della gestione e la sua prevedibile
evoluzione (anche in funzione dei predetti piani).
− assumere informazioni sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o
caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate.
In tale ambito rilevano anche i nuovi commi 1 e 2 dell'art. 2428 c.c. 13 (che disciplina il contenuto
della relazione sulla gestione), secondo cui:
"il bilancio deve essere corredato da una relazione degli amministratori contenente un'analisi
fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell'andamento e del risultato della
gestione, nel suo complesso e nei vari settori in cui essa ha operato, anche attraverso imprese
controllate, con particolare riguardo ai costi, ai ricavi e agli investimenti, nonché una descrizione
dei principali rischi e incertezze cui la società è esposta.
L'analisi di cui al primo comma è coerente con l'entità e la complessità degli affari della società e
contiene, nella misura necessaria alla comprensione della situazione della società e dell'andamento
e del risultato della sua gestione, gli indicatori di risultato finanziari e, se del caso, quelli non
finanziari pertinenti all'attività specifica della società, comprese le informazioni attinenti
all'ambiente e al personale. L'analisi contiene, ove opportuno, riferimenti agli importi riportati nel
bilancio e chiarimenti aggiuntivi su di essi".
Il nuovo art. 2409 ter, 2° comma, c.c., disciplina il contenuto relazione del soggetto incaricato del
controllo contabile al bilancio e, in particolare, prevede che essa contenga 14 :
11
Come rileva il citato principio OIC 5, par. 7.2.
Artt. 2446 e 2447 c.c. per le S.p.a. e 2482 bis e 2842 ter per le S.r.l.
13
In vigore dal novembre 2007.
14
Secondo il predetto 2° comma, la relazione comprende:
12
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•
•
un giudizio sul bilancio che indica chiaramente se questo è conforme alle norme che ne
disciplinano la redazione e se rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione
patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell'esercizio;
un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio.
Peraltro, l'art. 2429, 2° comma, c.c., che tratta della relazione del collegio sindacale al bilancio,
rileva che: "il collegio sindacale deve riferire all'assemblea sui risultati dell'esercizio sociale e
sull'attività svolta nell'adempimento dei propri doveri, e fare le osservazioni e le proposte in ordine
al bilancio e alla sua approvazione, con particolare riferimento all'esercizio della deroga di cui
all'articolo 2423, quarto comma. Il collegio sindacale, se esercita il controllo contabile, redige
anche la relazione prevista dall'articolo 2409-ter".
2. SALVIAMO IL SALVABILE: VALUTAZIONE DELLE SOLUZIONI
ALTERNATIVE
E POSSIBILI
2.1. La ristrutturazione strategica del modello di business in presenza di crisi aziendale,
finanziaria e di mercato
Nella prassi vi sono diverse società che hanno performance soddisfacenti dal punto di vista della
crescita e della marginalità economica, ma che si trovano "imprigionate" all'interno di una struttura
patrimoniale-finanziaria rigida e non equilibrata15 . Per tali imprese, il business è quindi sano, e non
ha necessità di essere "rilanciato".
Vi possono poi invece essere società che, in presenza di crisi aziendale, finanziaria o di mercato,
necessitano di una ristrutturazione strategica del proprio modello di business.
Nella figura che segue si riporta il quadrante di una matrice che riporta sui due assi:
1. le performance economiche, misurabili attraverso indicatori quali, ad esempio, il tasso di
crescita delle vendite, il ROI 16 o il ROE 17 e la marginalità economica (Margine Operativo
Lordo 18 , Risultato Operativo 19 o Risultato Netto);
"a) un paragrafo introduttivo che identifica il bilancio sottoposto a revisione e il quadro delle regole di redazione
applicate dalla società;
b) una descrizione della portata della revisione svolta con l'indicazione dei principi di revisione osservati;
c) un giudizio sul bilancio che indica chiaramente se questo è conforme alle norme che ne disciplinano la redazione e
se rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico
dell'esercizio;
d) eventuali richiami di informativa che il revisore sottopone all'attenzione dei destinatari del bilancio, senza che essi
costituiscano rilievi;
e) un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio".
15
Si veda anche LAZZARI M., (2009), Come uscire dalle crisi finanziarie: le "good companies in bad bilance sheet",
in "Amministrazione & Finanza", 2, 81.
16
Il ROI (Return on Investment) esprime in percentuale la redditività del capitale investito ed è definito come il
rapporto tra il risultato operativo (EBIT o differenza A – B civilistica) e il capitale investito medio del periodo (definito
come sommatoria della liquidità, del capitale circolante netto commerciale e delle immobilizzazioni). Misure di ROI
che possono essere considerate soddisfacenti dovranno essere almeno pari al rendimento offerto per rendimenti privi di
rischio (2-3%), più un congruo premio per il rischio d’impresa (3-5%). Pertanto, un ROI soddisfacente dovrebbe
collocarsi almeno intorno al 7-8%.
17
Il ROE (Return on Equity) rappresenta la redditività netta (al netto cioè di tutte le voci di costo) espressa in
percentuale del capitale fornito dagli azionisti ed è quindi semplicemente definito come rapporto tra l’utile netto (o la
perdita netta) d’esercizio e il patrimonio netto. Il premio per il rischio utilizzato nel considerare la misura del ROE è
piuttosto elevato (8-10%), in quanto rappresentativo di un investimento (in capitale azionario) rischioso.
18
Il Margine Operativo Lordo (MOL o EBITDA, Earnings Before Interests, Taxes, Depreciations and Amortizations),
molto usato nelle valutazioni d’azienda, non considera costi e ricavi che possono influenzare gli andamenti gestionali,
7
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2. la situazione patrimoniale-finanziaria, misurabile attraverso indicatori quali, ad esempio, la
leva finanziaria 20 , la posizione finanziaria netta21 , il debt service cover ratio 22 , e il margine
di struttura 23 .
Figura 1. – Performance economiche e situazione finanziaria-patrimoniale
☺
Situaz. finanziaria-patrimoniale
Equilibrata
Critica
Crisi di Business
Aziende sane
Marginalità negative ed in calo
Marginalità: positiva e in crescita
Flussi di cassa: in peggioramento,
ma in alcuni casi ancora positivi
Flussi di cassa: costantemente
positivi
Strategia: rilancio del business
Strategia: consolidamento / sviluppo
Crisi aziendale
Crisi finanziaria
Marginalità: negativa
Marginalità: positiva
Flussi di cassa: negativi
Flussi di cassa: negativi
Strategia: turnaround
Strategia: ristrutturazione finanziaria
procedure concorsuali o
rinegoziazione debito e/o
soluzioni stragiudiziali
ricapitalizzazioni
Critiche
Buone
Performance economiche
Secondo la figura sopra riportata 24 , le imprese si potrebbero, sulla base delle combinazioni tra
performance aziendali e situazione patrimoniale-finanziaria, ipoteticamente suddividere secondo
quattro tipologie:
con distorsioni talora anche rilevanti, derivanti dalle politiche di ammortamento e accantonamento a fondi rischi, dalla
struttura finanziaria della società, con un impatto sugli oneri finanziari, dal profilo impositivo (…).
19
Il Risultato Operativo o EBIT (Earnings Before Interests and Taxes) rappresenta la differenza tra valore e costi della
produzione (A – B civilistico) ex art. 2425 c.c. e considera anche costi non monetari (ammortamenti, accantonamenti
…).
20
La leva finanziaria (leverage) corrisponde al rapporto tra debiti finanziari e patrimonio netto e rappresenta la
proporzione esistente fra risorse proprie e risorse di terzi utilizzate per finanziare gli impieghi.
21
La posizione finanziaria netta, rappresentata dalla differenza fra disponibilità liquide, crediti finanziari e debiti
finanziari, esprime l’effettivo grado di indebitamento di un società. Può essere confrontata con il totale delle attività, per
evidenziare l’incidenza dei debiti finanziari, con i ricavi netti, per evidenziare l’intensità del finanziamento complessivo
o con l’EBITDA, al fine di esprimere il grado di copertura che il margine operativo lordo è in grado di fornire ai debiti
finanziari netti.
22
Il Debt Service Cover Ratio corrisponde al rapporto tra il flusso di cassa operativo e l’indebitamento finanziario
complessivo (corrispondente alla somma dei debiti finanziari e degli oneri finanziari netti), in un dato esercizio. Un
risultato di tale rapporto prossimo o maggiore a 1 indica che la società è perfettamente in grado di rimborsare attraverso
la gestione operativa l’indebitamento in essere in un dato esercizio. Se invece il rapporto è inferiore a uno o negativo, la
società risulta finanziariamente squilibrata, in quanto con la gestione operativa non riesce a far fronte all’indebitamento
in essere.
23
Il margine di struttura è rappresentato dalla differenza tra il patrimonio netto e il valore netto delle immobilizzazioni.
Il margine di struttura indica se i mezzi propri sono in grado di coprire il fabbisogno durevole rappresentato dalle
attività immobilizzate. Un margine positivo indica che il capitale proprio copre tutto il fabbisogno durevole; se invece il
margine è negativo, parte del fabbisogno durevole è coperto dai debiti.
24
Tratta, con adattamenti, da LAZZARI, cit.
8
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1. imprese sane, ovvero quelle che presentano buone performance economiche e situazioni
patrimoniali-finanziarie equilibrate: per tali imprese l'obiettivo principale e il
consolidamento di questa posizione e lo sviluppo ulteriore del business;
2. imprese attraversate da una crisi aziendale o che presentano performance economiche
critiche e situazioni patrimoniali-finanziarie non equilibrate: in tali situazioni, tipicamente
occorre un turnaround ovvero una ristrutturazione aziendale;
3. imprese con business in crisi, o che presentano performance economiche non soddisfacenti e
in continuo peggioramento, ma che, tuttavia, mantengono situazioni patrimoniali-finanziarie
tendenzialmente equilibrate: per tali imprese, che spesso si trovano in queste situazioni
particolari per via della raggiunta maturità o declino del settore di appartenenza, l'obiettivo
principale non può che essere quello di una ristrutturazione strategica del modello di
business;
4. imprese in crisi finanziaria o che, pur presentando modelli di business sani, caratterizzati da
performance economiche soddisfacenti, si trovano in situazioni patrimoniali-finanziarie
critiche: per tali imprese (good companies "imprigionate") l'obiettivo principale è quello
della ristrutturazione finanziaria.
I drivers strategici di creazione del valore fanno tradizionalmente leva sui vantaggi derivanti da una
competitività sui costi o da plusvalori qualitativi differenziali (produco a costi più bassi ovvero cose
che gli altri non sanno fare; in paesi occidentali ad alto costo del lavoro, i vantaggi competitivi sono
di norma differenziali e di ciò tengasi debitamente conto al fine di perseguire adeguate strategia di
recupero di valore.
2.2. Meglio soli che male accompagnati: ripartizione tra good branch e bad branch in funzione
delle strategie aziendali
In funzione delle strategie aziendali, sinteticamente illustrate nel par. 2.1., può essere utilmente
perseguita una politica di ripartizione del ramo sano da quello non solvibile, da realizzarsi con
decisione e tempestività, evitando che la crisi degeneri sino a un punto di non ritorno.
Mai come in questi casi prevenzione e diagnosi precoce possono essere discriminanti nel consentire,
con un pizzico di sano cinismo, di … salvare il salvabile.
9
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Figura 2. – Ripartizione tra good e bad branch in funzione dell'esito delle strategie di
ristrutturazione
Situaz. finanziaria-patrimoniale
Equilibrata
Crisi di Business
Aziende sane
good branch
Crisi aziendale
Crisi finanziaria
bad branch
Critica
Critiche
Performance economiche
Buone
2.3. Mors tua, vita mea: la separazione del ramo d'azienda "buono" da quello non salvabile.
Profili di criticità civilistica
L'individuazione del perimetro dell'azienda oggetto di cessione (il ramo da salvare o specularmente - quello non più ristrutturabile) riveste notevole importanza nei rapporti fra le parti e
può avere rilevanti risvolti sia dal punto di vista civilistico che degli aspetti fiscali.
L’identificazione delle attività e passività costituenti il perimetro del ramo d'azienda enucleando,
assume un rilievo particolare per le delicate problematiche interdisciplinari che emergono sotto il
profilo societario, giuslavoristico, di antitrust, fiscale, finanziario, economico-patrimoniale,
contabile, strategico …
L’identificazione delle attività e passività del ramo d'azienda oggetto di cessione deve di norma
essere improntata al rispetto di principi di coerenza, avendo riguardo alle diverse tematiche
interdisciplinari sopra richiamate, per le quali bisogna ricercare un’armonizzazione a livello di
sintesi.
Si procederà ora a identificare alcuni dei principi chiave che devono tendenzialmente essere
rispettati, nell’identificazione del perimetro del ramo d'azienda oggetto di cessione:
•
il ramo d'azienda oggetto di cessione deve essere almeno idealmente riferibile al concetto
civilistico di “azienda”, la quale identifica, ex art. 2555 cod. civ., “il complesso dei beni
organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Il frazionamento dell’unitaria
azienda in singoli rami deve tendenzialmente rispettare il principio del mantenimento, in
capo a ciascun ramo, di un “complesso di beni [sinergicamente] organizzati”. Va verificata,
considerando anche l’evoluzione del mercato in cui l’azienda opera, la dinamica
individuazione di sinergie tra singoli assets, con riferimento sia alla situazione originaria
della società alienante (in cui singoli rami, inizialmente complementari, possono
gradualmente perdere il valore aggiunto derivante dalla coesione), sia alla compenetrazione
con altri rami presenti in cessionarie preesistenti (al fine di valutare le auspicabili sinergie
10
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•
•
della cessione, in assenza delle quali risulta difficile individuare nell’operazione delle valide
ragioni economiche, aventi valenza antielusiva sotto il profilo fiscale) sia all’autonoma
attribuzione a società cessionarie costituende di singoli rami, al solo fine di spezzare legami
non sinergici in capo alla società alienante (la fattispecie è frequentemente applicabile ad
aziende che raggiungono elevati profili dimensionali e in cui la conseguente complessità
organizzativa tende a generare costi impliciti più che proporzionali rispetto alle ipotetiche
sinergie iniziali);
la suddivisione dell’azienda in due o più rami consente di identificare, con riferimento a
ciascun ramo, un netto contabile di riferimento che assume rilevanza a livello ragioneristico
ed economico-patrimoniale (manifestando un impatto contabile sugli stati patrimoniali e sui
conti economici delle società che partecipano alla cessione d'azienda), a livello fiscale e in
ambito civilistico;
esistono passività che sono direttamente imputabili a specifiche attività e pertanto il ramo
d'azienda deve coerentemente ricomprenderle entrambe: si pensi ad esempio al
trasferimento di immobili, sui quali gravano mutui ipotecari, o al trasferimento di crediti
(che implica un trasferimento del portafoglio di clientela da essi rappresentato) e di relativi
fondi rischi o ancora al trasferimento di rami produttivi che implicano il passaggio diretto di
personale e dei debiti ad esso inequivocabilmente riferibili (per TFR maturato, passività
previdenziali, ferie non godute …).
2.4. Salvataggio della good company attraverso l'amputazione della bad company da porre in
liquidazione 25
Nella prassi applicativa non sono infrequenti i casi in cui in una società coesistano rami d'azienda
profittevoli e rami d'azienda in perdita. Tipicamente, per "salvare" il ramo profittevole, è possibile
conferirlo in altra società (ad hoc ovvero preesistente) 26 ovvero scinderlo (a favore di una
beneficiaria neocostituita o preesistente) e poi mettere in liquidazione la società "svuotata" dei rami
profittevoli, ovvero una società conferisce (o scinde) il ramo (o i rami) non profittevole a una
società partecipata (bad company), preesistente o da costituire ad hoc, e poi liquida la conferitaria
(beneficiaria) 27 .
Si rammenta che, in ogni caso, l'enucleazione della good company, mediante conferimento,
scissione o cessione di ramo d'azienda, potrebbe soggiacere a revocatoria fallimentare (ex art. 67
l.fall.), qualora successivamente la bad company sia dichiarata fallita.
Nella figura di seguito riportata si illustra il caso di conferimento di ramo d'azienda non profittevole
e successiva liquidazione della società conferitaria (bad company).
Figura 3. – Conferimento di ramo d'azienda non profittevole e successiva liquidazione della
conferitaria preesistente
25
Questo paragrafo è tratto, con adattamenti, da: MORO VISCONTI R., (2008), Conferimenti d'azienda, Maggioli,
Rimini.
26
Il conferimento in società neocostituita è per certi versi preferibile, consentendo di evitare il calcolo dell'avviamento
pregresso di competenza di eventuali soci storici diversi dal conferente ed evitando una "confusione" di attività e
passività preesistenti e conferite, con potenziali problemi in caso di insolvenza della conferente.
27
La scissione è un istituto che può realizzare effetti simili a quelli di un conferimento d’azienda (o di un ramo
d’azienda). Ad un risultato analogo a quello della scissione (cioè ad un trasferimento di attività e passività da una
società parzialmente o totalmente scindenda ad una o più società beneficiarie, con contestuale assegnazione diretta ai
soci della scissa delle azioni o quote delle società beneficiarie) si può pervenire con i seguenti due successivi passaggi:
(i) conferimento di azienda (o ramo d’azienda) a favore di società neocostituita ovvero preesistente; (ii) assegnazione da
parte della conferente della partecipazione nella conferitaria ai soci della conferente.
In assenza del secondo passaggio sopra riportato, si evidenzia la differenza tra scissione e conferimento, incentrata
essenzialmente sul fatto che la partecipazione nella società assegnataria dell’azienda (o del ramo) scorporato è di
pertinenza diretta: (i) dei soci della società assegnante (scindenda), nella scissione; (ii) della stessa società assegnante
(conferente), nel conferimento.
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ante conferimento
post conferimento
Società Alfa
Società Alfa
ramo
profittevole
conferimento
ramo non
profittevole
ramo
profittevole
*
100%
Società Beta
(da liquidare)
Società Beta
procedura
concorsuale
soluzione
stragiudiziale
ramo non
profittevole
liquidazione
in bonis ☺
* il valore della partecipazione nella bad company tende evidentemente a zero
Si rammenta che il conferimento d'azienda (così come la cessione d'azienda, di cui si dirà in
seguito) comporta, in capo al conferente (cedente) che abbia trasferito i debiti relativi all'azienda
conferita (ceduta) al cessionario, il persistere di un rischio potenziale: egli, infatti, pur non
evidenziando più nel proprio bilancio le posizione conferite (cedute) insieme all'azienda, ne
mantiene comunque la responsabilità.
Parimenti, in capo al conferitario (cessionario), nel caso in cui quest'ultimo non si accolli la
situazione debitoria aziendale a decurtazione dell'aumento di capitale a servizio del conferimento
(del prezzo, nel caso di cessione), graverà la responsabilità per i debiti rimasti in capo al conferente
(cedente). Infatti, secondo l'art. 2560 c.c., "l'alienante non è liberato dai debiti, inerenti all'esercizio
dell'azienda ceduta, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di
un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l'acquirente dell'azienda, se essi
risultano dai libri contabili obbligatori".
Nella figura successiva si illustra invece il caso di scissione di ramo d'azienda non profittevole e
successiva liquidazione della società beneficiaria (bad company).
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Figura 4. – Scissione di ramo d'azienda non profittevole e successiva liquidazione della beneficiaria
neocostituita
ante scissione
post scissione
SOCI
Società Alfa
scissione
ramo
profittevole
Società Alfa
ramo
profittevole
ramo non
profittevole
*
Società Beta
(da liquidare)
procedura
concorsuale
soluzione
stragiudiziale
ramo non
profittevole
liquidazione
in bonis ☺
* il valore della partecipazione nella bad company tende evidentemente a zero
Per quanto concerne la relazione dell’organo amministrativo nella scissione,, l’art. 2506 ter, 2°
comma, c.c., rileva che la relazione che descrive la scissione “deve indicare il valore effettivo del
patrimonio netto assegnato alle società beneficiarie e di quello che eventualmente rimanga nella
società scissa”.
Il concetto di “valore effettivo del patrimonio netto assegnato” viene richiamato anche nell’art.
2506 quater, 3° comma, c.c., che tratta degli effetti della scissione, ove si rileva che “ciascuna
società è solidamente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa
assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”
28
.
Si tratta, nel suo complesso, del patrimonio netto della società scindenda, che viene trasferito – in
tutto o in parte – a una o più società beneficiarie.
Il concetto è richiamato anche dall’art. 2506 bis, 3° comma, che sancisce la solidarietà delle società
beneficiarie nell’ipotesi dell’insorgere di passività la cui destinazione non sia desumibile dal
progetto di scissione, secondo cui “la responsabilità solidale è limitata al valore effettivo del
patrimonio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria” 29 .
Nella figura di seguito riportata si illustra il caso di cessione di ramo d'azienda a una società
partecipata non profittevole e successiva liquidazione della società cessionaria (bad company).
28
Per approfondimenti, si veda MORO VISCONTI R., (2006), Scissioni di società e valore effettivo del patrimonio
netto, in "Impresa c.i.", 9.
29
Tale concetto è analogo a quello presente nelle disposizioni relative alla trasformazione di società di persone; l’art.
2500 ter, 2° comma, c.c., rileva infatti che “il capitale della società risultante dalla trasformazione deve essere
determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo”.
13
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Figura 5. – Cessione di ramo d'azienda non profittevole e successiva liquidazione della cessionaria
ante cessione
post cessione
Società Alfa
Società Alfa
ramo non
profittevole
ramo
profittevole
cessione
ramo
profittevole
100%
*
100%
procedura
concorsuale
Società Beta
(da liquidare)
Società Beta
ramo non
profittevole
soluzione
stragiudiziale
liquidazione
in bonis ☺
* il valore della partecipazione nella bad company tende evidentemente a zero
Si rammenta che la cessione d'azienda comporta, in capo al cedente che abbia trasferito i debiti
relativi all'azienda ceduta al cessionario, il persistere di un rischio potenziale: egli, infatti, pur non
evidenziando più nel proprio bilancio le posizione cedute insieme all'azienda, ne mantiene
comunque la responsabilità. Parimenti, in capo al cessionario, nel caso in cui quest'ultimo non si
accolli la situazione debitoria aziendale a decurtazione del prezzo, graverà la responsabilità per i
debiti rimasti in capo al cedente. Infatti, secondo l'art. 2560 c.c., "l'alienante non è liberato dai
debiti, inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta, se non risulta che i creditori vi hanno consentito.
Nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l'acquirente
dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori".
2.5. Cessione o affitto della good company e soluzioni concorsuali o stragiudiziali (fallimento
chirurgico) per la bad company
Le aziende in crisi possono evitare un’eventuale procedura concorsuale attraverso la cessione del
ramo d'azienda profittevole, anche mediante l'affitto del medesimo 30 , e la successiva richiesta di
concordato o procedure stragiudiziali della parte residua della società non in bonis ovvero attraverso
l'enucleazione e la successiva messa in liquidazione del ramo non profittevole (bad company)
30
Con l'affitto d'azienda, il proprietario (locatore) di un'azienda, dietro la corresponsione come corrispettivo di un
canone periodico e per un periodo di tempo determinato, trasferisce il godimento della stessa azienda ad un altro
soggetto (affittuario), il quale deve gestirla sotto la ditta che la contraddistingue, senza modificarne la destinazione ed in
modo da conservarne l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti, nonché le normali dotazioni di scorte. La
caratteristica di trasferimento a titolo non definitivo dell'azienda considerata può risultare determinante nell'utilizzo
dell'affitto d'azienda in operazioni di ristrutturazione conseguenti a situazioni patologiche d'impresa: in tali fattispecie,
l'affitto d'azienda è impiegato in chiave propedeutica ad una eventuale successiva cessione, allo scopo di predisporne le
condizioni formali e sostanziali di effettuazione. Infatti, nel caso di specie, l'affitto d'azienda consente all'imprenditore
subentrante di proseguire la gestione d'azienda, conservandone l'avviamento, senza peraltro assumere i rischi propri di
un acquisto a titolo definitivo.
14
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ovvero ancora mediante la predisposizione e realizzazione di adeguati piani di risanamento,
asseverati da un esperto o di accordi di ristrutturazione dei debiti 31 .
Trattasi, per la bad company, di un "fallimento chirurgico", da attuarsi "amputando" dall'azienda
sana l'arto malato – in grado di contagiare tutto, se non isolato in tempo – per sottoporlo alla
procedura più idonea, all'insegna di un sano realismo.
Nella prassi, tuttavia, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall. 32 , e i piani di
risanamento previsti dalla lett. d) del 3° comma dell'art. 67 l.fall.33 , introdotti nel nostro
ordinamento dalla riforma fallimentare del 2005, hanno sino ad ora trovato scarso utilizzo.
Il mezzo ad oggi più largamente utilizzato nella prassi è quello, già descritto, della cessione a terzi,
anche mediante affitto d'azienda, del ramo profittevole e della richiesta di concordato preventivo
per la parte residua.
Il concordato preventivo, disciplinato dagli artt. 160-186 l.fall., consente all'imprenditore in stato di
crisi di evitare la procedura fallimentare attraverso un accordo con i creditori. Tale accordo
consente, attraverso una soddisfazione parziale dei creditori, la possibilità che l'imprenditore
prosegua la propria attività, in modo da evitare la cessazione dell'impresa 34 .
Nel corso della procedura fallimentare è possibile, ai sensi dell'art. 104 l.fall., intraprendere
l’esercizio provvisorio, al fine di massimizzare il valore dell’azienda o di suoi rami, anche in vista
di un’eventuale sua cessione, ovvero, come spesso capita nella prassi, ricorrere all'affitto d'azienda.
Nell’ambito di gruppi di società in crisi ovvero nelle holding di partecipazioni, non sono infrequenti
anche accordi e trattative stragiudiziali fra la società in crisi e i creditori, attraverso i quali si cerca
di alienare i cespiti dell’attivo, al fine di cristallizare le posizioni creditorie e senza che i creditori
procedano a soddisfarsi singolarmente sulla società con esecuzioni coattive, istanze di fallimento o
strumenti similari.
Nella figura 6. si illustra il caso di cessione di ramo d'azienda profittevole (good company) a una
società partecipata. Per la cedente (bad company) si cercheranno soluzioni concorsuali o
stragiudiziali.
31
Per approfondimenti, si veda: FIMMANÒ F., (2007), La circolazione dell'azienda nel fallimento, in "Notariato", 3,
537; QUATRARO B., (1989), La liquidazione del concordato preventivo con cessione dei beni, in "Giurisprudenza
commerciale", I, 61.
32
Secondo cui "l'imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di cui all' articolo 161,
l'omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta
per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista in possesso dei requisiti di cui
all'articolo 67, terzo comma, lettera d) sull'attuabilità dell'accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità
ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. L'accordo è pubblicato nel registro delle imprese e acquista
efficacia dal giorno della sua pubblicazione".
33
Che stabilisce una particolare esenzione dall’azione revocatoria per "gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse sui
beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della
esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza
sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili (…) ai sensi dell'art. 2501-bis, quarto
comma, del codice civile".
34
Il concordato preventivo non va confuso con il concordato fallimentare, disciplinato dagli artt. 124-141 l.fall., che
può essere richiesto solo 6 mesi dopo la dichiarazione di fallimento, al fine di chiudere la procedura.
15
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Figura 6. – Cessione di ramo d'azienda profittevole
ante cessione
post cessione
Società Alfa
Società Alfa
(Bad Company)
ramo non
profittevole
ramo non
profittevole*
cessione
ramo
profittevole
100%
100%
Società Beta
(Good Company)
Società Beta
ramo
profittevole
* da liquidare o alienare
Se Alfa riesce a liquidare in bonis la bad branch, rimane una holding pura (e poi a regime può
anche fondersi con la partecipata profittevole, incorporandola o essendo incorporata con una
fusione inversa); se Alfa diventa insolvente, anche la good company enucleata e partecipata viene
riassorbita nell'insolvenza, costituendo un asset di tale società.
La partecipata può essere venduta prima dell'eventuale insolvenza della partecipante, salvo il rischio
di revocatoria o, nei casi più gravi e penalmente rilevanti, di bancarotta distrattiva.
La caratteristica di trasferimento a titolo non definitivo dell'azienda considerata può risultare
determinante nell'utilizzo dell'affitto d'azienda in operazioni di ristrutturazione conseguenti a
situazioni patologiche d'impresa: in tali fattispecie, l'affitto d'azienda è impiegato in chiave
propedeutica ad una eventuale successiva cessione, allo scopo di predisporne le condizioni formali e
sostanziali di effettuazione. Infatti, nel caso di specie, l'affitto d'azienda consente all'imprenditore
subentrante di proseguire la gestione d'azienda, conservandone l'avviamento, senza peraltro
assumere i rischi propri di un acquisto a titolo definitivo.
Il locatore, nella gestione dell'azienda affittata, viene sostituito dall'affittuario, che in tal modo
acquisisce lo status di imprenditore, mentre quello del proprietario rimane in capo al locatore.
Peraltro, il locatore che affitti solo una delle aziende possedute – ovvero nel caso in cui il locatore
sia una società – conserva comunque la qualifica di imprenditore commerciale; in ipotesi di affitto
dell'unica azienda da parte dell'imprenditore individuale, al contrario, il locatore perde la qualifica
imprenditoriale.
Una delle conseguenze – che rileva in tale ambito – di quanto sopra rilevato è che, ai sensi dell'art.
10 l.fall., decorso un anno dalla data certa del trasferimento in godimento, non può più essere
pronunciata la dichiarazione di fallimento a seguito del manifestarsi dello stato d'insolvenza nei
confronti del locatore che abbia perso la qualifica di imprenditore.
Ai sensi dell'art. 80 bis l.fall., introdotto ex novo dalla riforma fallimentare del 2005, "il fallimento
non è causa di scioglimento del contratto di affitto d'azienda, ma entrambe le parti possono
recedere entro sessanta giorni corrispondendo alla controparte un equo indennizzo per l'anticipato
recesso".
16
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Dalla norma sopra citata si evince che – dunque – il curatore può sciogliere il contratto di affitto
d'azienda solo pagando un equo prezzo (indennizzo) 35 all'affittuario; tale strada, già di per sé non
particolarmente agevole, risulta peraltro ancora più difficilmente percorribile in presenza di
dipendenti.
2.6. Ristrutturazione del debito attraverso l'emissione di obbligazioni convertibili e titoli ibridi
L’emissione di obbligazioni convertibili o di obbligazioni cum warrant risulta particolarmente utile
quando la società è alla ricerca di fonti di finanziamento flessibili, che si collocano a metà strada tra i
titoli di debito e i conferimenti a patrimonio netto; le obbligazioni convertibili o cum warrant sono
infatti formalmente titoli di debito, che contengono però anche un’opzione che può essere esercitata
dal sottoscrittore (e pertanto un’opzione call) per un aumento di capitale differito.
Le obbligazioni convertibili sono titoli rappresentativi di un credito (il valore nominale
dell’obbligazione rimborsabile) che comprende la facoltà, concessa dalla società emittente al
singolo sottoscrittore, di mutare tale rapporto in una partecipazione sociale tipicamente nella stessa
società emittente o talora in un’altra società (del gruppo ...), a semplice richiesta ed entro un dato
termine (se l’opzione insita nell’obbligazione convertibile è di tipo c.d. “europeo”, la convertibilità
si ha solo alla scadenza, mentre se l’opzione è “americana”, la conversione può avvenire anche
prima della scadenza).
Le obbligazioni convertibili permettono, pertanto, di investire in uno strumento finanziario che
prevede il rimborso del valore nominale alla scadenza e che consente nel contempo di beneficiare
dell'andamento di un investimento azionario. L'investitore ha infatti la facoltà di convertire il
capitale in azioni alle condizioni (exercise price) definite per ciascuna obbligazione al momento
dell'emissione.
L’emissione di un prestito obbligazionario convertibile trova disciplina nell’art. 2420-bis c.c.:
“L’assemblea straordinaria può deliberare l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni,
determinando il rapporto di cambio, il periodo e le modalità della conversione (...)”.
Particolare rilevanza assume il rapporto di cambio o prezzo di conversione, che indica il rapporto
tra il numero delle obbligazioni e quello delle azioni ad esso riservate, o meglio il rapporto con cui
ogni obbligazione o gruppo di obbligazioni può essere convertito in azioni, ovvero il valore
nominale delle obbligazioni e delle azioni di compendio.
Un warrant è un contratto che conferisce al possessore il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare un
numero prestabilito di azioni della società (di norma, emittente) a un dato prezzo entro una data
stabilita.
All’atto dell’emissione un warrant è parte di un altro titolo; i warrant sono tipicamente legati a
obbligazioni non convertibili o azioni privilegiate. Nel primo caso, sono spesso utilizzati per
rendere più attraenti per l’investitore le condizioni di una emissione di obbligazioni. L’investitore
ottiene non solo il rendimento fisso assicurato dal titolo di credito, ma ha anche la facoltà di
acquistare azioni ordinarie ad un prezzo prestabilito. Se il prezzo di mercato delle azioni tende a
salire, questo diritto viene ad assumere valore in quanto il detentore del warrant avrà convenienza a
esercitare l’opzione che gli viene offerta solo se il prezzo dell’azione risulta superiore all’exercise
price. In questo modo la società è in grado di emettere i titoli ad un tasso di interesse più basso di
quello che, altrimenti, avrebbe dovuto corrispondere.
Per le società che presentano un grado di rischio finanziario difficilmente accettabile dal mercato,
l’impiego dei warrant può consentire di raccogliere fondi mediante un’emissione di titoli di debito.
Di solito, i warrant possono essere staccati dal titolo cui erano legati, e quindi scambiati
separatamente, cosa che non avviene con le obbligazioni convertibili.
35
Per espressa disposizione della citata norma, il credito per l'equo indennizzo, dovuto dalla curatela, è inserito tra
quelli prededucibili a norma dell'art. 111, n. 1, l.fall.
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La ristrutturazione del debito comprende quegli accordi mediante il quale le condizioni originarie di
un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia …) vengono modificate per alleggerire
l’onere del debitore, che si trova in difficoltà finanziaria o, nei casi peggiori, in stato di insolvenza.
In questi casi, spesso, i potenziali azionisti non vogliono assumersi il rischio di sottoscrivere nuove
azioni della società in difficoltà, e preferiscono pertanto sottoscrivere titoli ibridi, come le
obbligazioni convertibili, rimandando al futuro la scelta di convertire o meno le obbligazioni e
diventare soci.
Gli accordi di ristrutturazione del debito sono stati introdotti con la riforma fallimentare dall'art. 182
bis l.fall., secondo cui il debitore può depositare un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato
con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un
esperto sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad
assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. La circostanza che, nella normativa italiana,
non sia garantita la prededucibilità delle nuove risorse finanziarie - messe a disposizione di una
società già in crisi - comporta problemi non indifferenti nel caso, tutt'altro che improbabile, di
insuccesso del turnaround, che poi sfocia in un fallimento: ne emerge un potente disincentivo per
coloro che altrimenti potrebbero essere più che propensi ad investire nella ristrutturazione,
seguendo la falsariga di quanto avviene in altri paesi, in cui la prededucibilità della nuova finanza è
garantita (si pensi ad esempio al rilevante caso del Charter 11 americano).
3. IL PARADOSSO "MARCHIO FORTE - AZIENDA DEBOLE" 36
La ripartizione tra ramo d'azienda buono rispetto a quello non solvibile deve spesso, in concreto,
tenere conto di una fattispecie frequente e per certi versi paradossale, che si verifica quando
un'azienda "debole" ha al suo interno un marchio "forte". Anche in questo caso, la necessità di
"salvare il bambino", evitando di buttarlo via con l'acqua sporca, impone scelte spesso dolorose ma
inevitabili, lottando contro il fattore tempo, che tende fatalmente ad erodere i valori ("il tempo passa
e il valore si abbassa"): non è infatti pensabile che un marchio possa indefinitamente mantenere il
suo valore all'interno di un'azienda in declino che non lo supporta con adeguate strategie di
sviluppo.
Il marchio, quando è noto, rappresenta una componente molto rilevante del valore complessivo di
un’azienda ed ha una reazione alla crisi della stessa che può essere, in molti casi, più o meno che
proporzionale.
In alcuni casi, che con l’era globale sono divenuti più numerosi, il marchio tende addirittura ad
assumere un valore superiore all’intera azienda, la quale – di conseguenza – ha un valore che senza
questo asset diverrebbe negativo, evidenziando di fatto un badwill. Tra le motivazioni di questo
fenomeno rileva in particolare il crescente divario di competitività, a livello di costo del lavoro, tra
l’Italia e gli altri paesi occidentali e le economie emergenti. Ciò ha favorito l’outsourcing di fattori
produttivi non strategici e ha reso l’azienda più flessibile e competitiva, consentendole di
concentrarsi nelle attività a più elevato valore aggiunto (ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e
mercati, innovazione di processo, eccellenza nel design, ottimizzazione della rete logistica e
commerciale), idonee a rappresentare una barriera all’ingresso nei confronti degli altri competitors.
In questo contesto, il marchio è il segno distintivo della qualità complessiva del prodotto, articolato
in singole componenti che vengono prodotte in paesi anche diversi (a seconda della loro
complessità e dell’incidenza della mano d’opera) e poi assemblate e commercializzate come
prodotto finito.
Nello stesso tempo assistiamo a un particolare effetto negativo prodotto da imprese con un marchio
storico e consolidato che distruggono valore – come tanti nobili decaduti perché non più al passo
coi tempi – perché si ostinano a “fare” tutto in casa ovvero, al limite, “terziarizzando” parte della
produzione in un indotto circostante, senza significativi risparmi nel costo della produzione. Ciò nel
36
Questa paragrafo è tratto, con adattamenti, da: MORO VISCONTI R., DE CANDIA G., DE VITO G., (2006), Il
leasing azionario, su aziende e su marchi, EDIBANK, Roma.
18
[email protected]
tentativo di risparmiare i costi di controllo della qualità che la delocalizzazione e la disarticolazione
della produzione comporta.
Nelle pagine successive sono riportate delle tavole esemplificative di quanto illustrato nel presente
paragrafo.
19
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-
Marchio
forte
-
Marchio
debole
simbolo della differenziazione di prodotto
alta adattabilità ai mutamenti di mercato
internazionalità
leadership
celebrità del marchio (status symbol)
alta protezione legale contro le contraffazioni
fidelizzazione (lealtà) del consumatore e riconoscimento
del marchio
alta attrattività del mercato
L’azienda si ristruttura intorno al marchio forte,
riducendo le inefficienze, terziarizzando le
attività non core e migliorando margini
economici e flussi finanziari
Effetto contagio: i problemi dell’azienda indeboliscono il
marchio.
Il marchio esprime un prodotto di qualità decrescente, più
esposto alla concorrenza di nuovi produttori internazionali.
La fidelizzazione dei consumatori si affievolisce, per effetto del
peggioramento del rapporto qualità/prezzo.
La perdita dell’eccellenza spesso trascina l’impresa da un
mercato di nicchia (più protetto da minacce degli incumbents)
verso un mass market più esposto alla concorrenza. Mancano le
risorse per finanziare l’internazionalizzazione del marchio.
Declino dell’impresa
(ristrutturazione/turnaround)
soluzioni stragiudiziali o
procedure concorsuali
Azienda
debole
Azienda
forte
20
[email protected]
-
Turnaround con esito positivo:
L’azienda si focalizza sulla
valorizzazione
del
marchio,
disinvestendo da settori non core
Marchio
forte
(b)
Marchio
debole
-
Il marchio divenuto forte ha un positivo effetto sui
margini reddituali e finanziari
Attorno al marchio ruota la nuova catena del valore,
che differenzia l’impresa dalla concorrenza e ne
alimenta
il
vantaggio
competitivo,
da
conservare/incrementare nel tempo con congrui
investimenti anche pionieristici (strategia del first
mover)
La flessibilità dell’outsourcing (con scelte
appropriate di make or buy) rende elastico e scalabile
il modello di business, che può garantire elevati
rendimenti se esteso a livello internazionale
bassa differenziazione di prodotto
bassa adattabilità ai mutamenti di mercato
scarsa diffusione internazionale
scarsa celebrità del marchio
bassa protezione legale
modesta fidelizzazione del consumatore
bassa attrattività del mercato
(a)
L’azienda esce dal mercato
(liquidazione, con vendita del
rami/asset appetibili;
insolvenza …)
Azienda
forte
Azienda
debole
Enucleazione good company e soluzioni stragiudiziali bad company
21
Procedure concorsuali
[email protected]
Marchio
forte
Marchio
debole
L’azienda si indebolisce (soffre la competizione sul
prezzo di paesi a più basso costo del lavoro; riduce i
margini economici e finanziari …), ma riesce per un
certo tempo a preservare il valore del marchio.
La contraddizione “marchio forte – azienda debole”
è però effimera e c’è un effetto contagio (il marchio
forte risolleva l’azienda, che si ristruttura, ovvero
l’azienda debole impoverisce anche il marchio,
soffocandone lo sviluppo e svilendone i contenuti)
Vi può essere un doppio impatto negativo sul
marchio e sull’azienda, con una spirale che si
autoalimenta
Azienda
debole
-
-
-
elevate barriere all’ingresso*
il marchio “celebre” incorpora la percezione di un
prodotto unico (fino al punto di garantire rendite
monopolistiche)
l’alta adattabilità ai mutamenti di mercato consente
una conservazione dell’eccellenza come fonte di
vantaggio competitivo
il mercato è in crescita e l’azienda forte ha un
posizionamento competitivo di leadership
il mix volumi/margini è ottimale e garantisce elevati
flussi economici e finanziari
Difficilmente l’azienda riesce a rimanere forte in presenza
di un indebolimento del marchio (a meno che il
mutamento del mercato non volgarizzi il valore del
brand).
L’indebitamento del marchio fa diminuire il vantaggio
competitivo di differenziazione e ciò può erodere i
margini; l’impresa può preservare il valore con economie
di scala ed adeguati incrementi dei volumi
Azienda
forte
22
[email protected]
* (esistenza di costi a fondo perso per i nuovi entranti; elevati fabbisogni di capitale per affermarsi nel settore; economie di scala e di esperienza a
vantaggio dei players consolidati; difficoltà a costruire canali distributivi; barriere istituzionali e legali; ritorsioni dei players consolidati …)
La forza dell’azienda consente investimenti adeguati
sul marchio, che ne rappresenta ed incorpora il
successo e i tratti distintivi, fonte di un vantaggio
competitivo da differenziazione
Marchio
forte
Marchio
debole
Se l’azienda in crescita non riesce a
sviluppare il marchio e assorbe risorse
finanziarie, può indebolirsi senza riuscire a
differenziarsi,
perdendo
il
vantaggio
competitivo potenziale
Azienda
debole
Il binomio azienda forte – marchio debole è tipico di realtà non
ancora consolidate, ma in crescita e con buone prospettive.
La crescita è sinonimo di successo dei prodotti e di percezione
della loro qualità e può generare le risorse necessarie per
rafforzare il marchio.
Azienda
forte
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