LIBERTÀ SENZA FRONTIERE
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Pietro Archiati
LIBERTÀ
SENZA FRONTIERE
La filosofia della libertà
di Rudolf Steiner
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3a edizione 2006
© Archiati Verlag e. K., Bad Liebenzell, 2005
Disegno di copertina: Edizioni Archiati
ISBN 3-937078-92-4
Archiati Verlag e. K.
Am Berg 6/1 · 75378 Bad Liebenzell · Germania
[email protected] · www.archiati.com
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INDICE
Prefazione
pag. 7
I. GENESI
Il cammino di Rudolf Steiner fino alla
Filosofia della libertà
pag. 15
II. ANALISI
Il contenuto della Filosofia della libertà
pag. 79
Prima parte: scienza della libertà pag. 80
Seconda parte: realtà della libertà pag. 133
III. SINTESI
Le conseguenze della Filosofia della libertà
pag. 199
Tentativo di sintesi:
individualità e comunione
pag. 301
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PREFAZIONE
Questo libro ha una sua storia, che qualche lettore avrà
forse piacere di conoscere, almeno per sommi capi, perché lo aiuterà a farsi un’idea più chiara di che cosa in esso
si tratti.
Io presentai queste pagine nel 1984 all’Università Gregoriana per la laurea in Filosofia. Il mio vecchio professore di metafisica, un gesuita irlandese, mi aveva incoraggiato fino all’ultimo momento, assicurandomi che nella
Facoltà di filosofia (diversamente da quella di teologia)
vige una certa libertà di pensiero, che non consente di
condannare una persona per il fatto che la pensi in un
certo modo.
Il motivo per cui io avevo bisogno di questa rassicurazione, è presto detto. Rudolf Steiner, sulla cui Filosofia
della libertà io scrivevo questa tesi, è ignorato dai molti e
condannato dai pochi. Quei pochi nella chiesa cattolica
che conoscono (o ritengono di conoscere) qualcosa di lui,
lo hanno catalogato fra gli eretici in compagnia di molti
altri signori.
I miei timori non si erano del tutto sopiti neppure dopo la presentazione ufficiale della tesi. Quando dal mio
moderatore seppi chi il decano aveva designato come
secondo lettore (un gesuita indiano), mi rimasero poche
speranze. Né mi sbagliai, poiché poco tempo dopo decano e moderatore fecero di tutto per farmi ritirare la tesi.
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In una lettera, il moderatore mi scrisse che, in base al
giudizio negativo del secondo lettore, anche lui si era
visto indotto a condannare la mia tesi.
Nel testo ufficiale del suo giudizio mi cita, a conferma
della sua tesi sulla libertà di pensiero nella facoltà filosofica (diversamente da quella di teologia) i canoni del bravo
Denzinger a prova dei miei errori dottrinali.
Le questioni controverse (nel mio lavoro, come pure
nel libro di Steiner di cui esso tratta) si possono ricondurre fondamentalmente a due: alla questione del monismo e
del panteismo da una parte, e alla concezione della libertà
umana dall’altra. In questa prefazione mi limito a qualche
breve riflessione orientativa.
È mia convinzione (e non solo mia) che il cristianesimo occidentale abbia unilateralmente privilegiato l’aspetto
trascendente di Dio, e ne abbia invece trascurato l’altro
aspetto, non meno vero e importante, che è quello dell’immanenza. Trascendenza e immanenza sono entrambe
metafore in fondo spaziali, e perciò essenzialmente limitate ed antropomorfiche. Se prese insieme, esse si relativizzano e si correggono a vicenda, completandosi in ciò
che ognuna ha di parziale. Invece, non appena in occidente si vuol prendere sul serio l’immanenza di Dio, sorge subito l’accusa di panteismo. Bisognerebbe chiedersi
seriamente perché mai debba essere un’eresia il dire che
l’uomo può, a certe condizioni, vivere «in Dio», e invece
fior di verità il dire che, alle stesse condizioni, egli ne vive
«fuori» (in quanto Dio è sempre «al di là» dell’uomo, «oltre», cioè «trascendente»).
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La seconda controversia verte sul concetto di libertà
della persona umana. Il modo di concepire la libertà dipende tutto dalla risposta data al primo problema. Se si
ritiene l’uomo incapace di attingere direttamente al divino
(che è sempre «oltre» di lui), allora egli dovrà ricevere le
norme ultime del suo comportamento per via di comunicazione estrinseca al suo essere, per mezzo di una rivelazione ab extra, e dall’autorità che se ne ritiene custode. Se
invece si riconosce all’uomo la capacità di partecipare col
suo pensare direttamente al divino, allora lo si considera
in grado di fare sgorgare le motivazioni supreme dell’agire
dal più intimo del proprio essere stesso. D’accordo con
Steiner, io cerco di mostrare in questo lavoro che solo
nella seconda ipotesi si può parlare veramente di libertà.
Che questa libertà sorga nell’uomo solo a condizioni ben
precise, e che essa, nel cammino previo al suo conseguimento, non abolisca bensì esiga l’osservanza della legge,
mi pare, per chi sappia leggere, più che chiaramente
espresso nelle riflessioni di Steiner e nelle mie.
Nel capitolo finale, dove faccio un tentativo di sintesi,
ho cercato di esporre le riflessioni filosofiche che mi
paiono le più importanti per una trattazione seria e scientifica del quesito delle ripetute vite terrene. Un giorno
dissi al moderatore, dopo che questi aveva finito di leggere la stesura definitiva del testo: «Nella sintesi conclusiva
ho cercato di raccogliere gli elementi più importanti per
una riflessione filosofica sul quesito della reincarnazione...». Mi guardò interdetto e mi rispose ridendo di buon
gusto: «Spero proprio di no!». Dalle sue riflessioni suc9
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cessive mi parve di capire che aveva letto quest’ultimo
capitolo senza avvertire di che cosa si trattasse.
La vita di Steiner è stata tutta dedicata alla descrizione del
mondo spirituale nel quale noi viviamo ogni momento, e
che è l’essenza vera di tutto ciò che vediamo attorno a
noi. Tuttavia, egli ritenne essenziale non partire da un
riferimento diretto all’invisibile, bensì da fondamenti
scientifici e filosofici solidi, validi per chiunque voglia,
libero da pregiudizi dogmatici, riflettere sulla facoltà spirituale del pensare, propria dell’uomo, quale può venir
interiormente vissuta e sperimentata da ognuno.
Alla sua Filosofia della libertà, Steiner si è riferito innumerevoli volte, fino alla fine della sua vita, come alla pietra d’angolo su cui tutto il suo edificio spirituale si fonda.
In quest’opera, la persona umana è invitata a scoprire e
ad attivare dentro di sé ciò che nell’uomo è più umano: il
pensare, che ci pone in comunione con l’essere intimo
del mondo e che, rendendoci coscienti, ci rende liberi.
Steiner ha spesso messo in guardia dal pericolo di cercare un accesso allo spirituale che ignori la porta stretta
ma maestra del pensare: ciò facendo, si cadrebbe subito
in balia di illusioni e di vuote fantasticherie. La prima realtà spirituale, sostanziale e vivente, data all’uomo è l’essere
vivente del pensare stesso, qualora l’uomo si adoperi, con
esercizio interiore, a intensificare la propria attività spirituale pensante, e l’attenzione introspettiva ad essa rivolta.
La Filosofia della libertà si fonda su un ampliamento del
concetto di «metodo scientifico», comunemente e indebi10
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tamente ristretto all’ambito della percezione sensibile. Se
con esso si intende la rigorosa interazione tra percezione e pensare, non si vede per quale motivo esso non possa venir applicato alle realtà interiori, esse pure conosciute mediante percezione introspettiva, unita al pensare.
Non fa parte dell’essenza del metodo scientifico il fatto
che la percezione sia sensibile, bensì il fatto che essa sia
«percezione», cioè realtà «data» e già precostituita, che si
offre al pensare, il quale supera questo primo momento
passivo con la propria attività spirituale, che è esercizio
attuale dell’essere.
Ho diviso il mio lavoro in tre parti: genesi, analisi, sintesi. Nella prima cerco di descrivere il cammino interiore
di Steiner, che lo ha portato fino alla stesura della Filosofia
della libertà, facendo riferimento soprattutto alle persone e
agli autori che più hanno influito sul suo pensiero. La
seconda parte è una sintesi, il più fedele possibile, del
contenuto del libro stesso: qui lascio parlare unicamente
Steiner, capitolo per capitolo, in ciò che lui ha descritto
come essenza dell’uomo e della sua libertà. Nella terza
parte, in sette capitoli, riprendo alcuni dei temi fondamentali, tenendo conto soprattutto del contesto aristotelico e tomistico-scolastico della mia formazione filosofica
e teologica, mettendolo a confronto con le intuizioni fondamentali di Steiner. In questa parte, perciò, trovano maggiore spazio le mie proprie riflessioni e convinzioni, che
offro a chi le voglia confrontare con le proprie.
Pietro Archiati
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SPIEGAZIONE DELLE CITAZIONI
Le citazioni di questo lavoro sono tutte prese da opere di Rudolf Steiner, in parte opere scritte, in parte raccolte di conferenze da lui tenute in varie città.
Nella prima e nella terza parte viene indicato, dopo il titolo
del volume, il numero che esso porta nell’edizione dell’opera
omnia (Gesamtausgabe = GA, Rudolf Steiner Verlag, Dornach, Svizzera) con l’anno di pubblicazione dell’edizione da me
usata.
La seconda parte contiene esclusivamente citazioni prese dalla Filosofia della libertà: Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978).
Ho ritenuto perciò sufficiente indicare di volta in volta la pagina della citazione.
Le traduzioni dal tedesco sono state fatte da me direttamente dall’originale.
Alla pubblicazione in italiano delle opere di Steiner lavora
da diversi anni l’Editrice Antroposofica con sede a Milano,
viale Sangallo 34. La filosofia della libertà è pubblicata anche nella
serie degli Oscar Mondadori. Le Edizioni Archiati pubblicano
testi fondamentali di Steiner con lo scopo di portare a conoscenza la scienza dello spirito a un più vasto numero di persone.
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I. GENESI
IL CAMMINO DI RUDOLF STEINER
FINO ALLA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ
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1. La vita di R. Steiner fino alla stesura
della Filosofia della libertà
Rudolf Steiner nasce in Austria nel 1861. Cresce in ambiente cattolico, benché il padre non abbia particolare
simpatia per la religione e per la chiesa. Impiegato ferroviario, ritira il figlioletto Rudolf dalla scuola elementare in
seguito a un litigio con l’insegnante. Gli dà lezioni lui
stesso alla stazione ferroviaria dove lavora. Più tardi, di
nuovo per un dissapore personale, gli proibisce di continuare il suo servizio nella chiesa come chierichetto.
Nella descrizione che Steiner stesso dà della propria
infanzia, vengono sottolineate due realtà che lo hanno
segnato profondamente: la geometria e le funzioni liturgiche:
«È per me chiaro che io ho conosciuto per la prima volta la felicità mediante la geometria» (Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 21)
«La solennità del latino e del culto era un elemento nel quale la mia anima di fanciullo amava
vivere» (Idem, p. 27)
Viene mandato alla scuola tecnica, poiché il padre gli
vuol dare una formazione prevalentemente scientifica. A
14-15 anni scopre Kant e divora la «Critica della ragion
pura». Dall’amicizia con un medico nasce l’entusiasmo
per la letteratura. Presto inizia a dar lezioni private a stu16
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denti delle classi inferiori, o anche coetanei. Tra di loro ci
sono pure dei ginnasiali, e Steiner ha modo di imparare
privatamente ciò che la scuola tecnica non può offrigli.
L’estate del 1879, appena prima di entrare al politecnico a Vienna, la passa tutta immerso in studi filosofici. A
Vienna segue lezioni, oltre che al politecnico, anche all’università. Continua a dare lezioni private. Col suo crescere, cresce in lui la consapevolezza spirituale. Né le scienze
naturali, né la filosofia allora comune corrispondono alla
sua esperienza interiore fondamentale: l’esperienza diretta
dello spirito colta anzitutto nell’attività stessa del pensare.
«A quel tempo, non era facile per la mia vita interiore vedere che la filosofia che trovavo in altri,
stando al loro pensiero, non poteva spingermi fino
alla visione del mondo spirituale. Dalle difficoltà
che andavo incontrando in questo campo, cominciò a formarsi in me una specie di ‹teoria della conoscenza›. Il vivere nel pensare mi pareva sempre
più come il riverbero, irradiante nell’uomo fisico,
di ciò che l’anima vive nel mondo spirituale. Esperire i pensieri era per me vivere in una realtà così
pienamente vissuta, che nessun dubbio poteva
sfiorarla. Il mondo dei sensi non mi pareva lo si
potesse vivere con la stessa intensità» (Mein Lebensgang, GA 28 (1982) p. 62)
Tra i professori del politecnico ce n’è uno che sarà decisivo per l’avvenire di Steiner: K.J. Schröer, che insegna
letteratura tedesca. Tra il professore e lo studente nasce
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un’amicizia che sarà duratura e profonda. Schröer vive
interamente nel mondo di Goethe, e comunica al giovane
Rudolf la stessa passione. Dietro suo suggerimento il ventunenne Steiner viene invitato a collaborare all’edizione
delle opere di Goethe nella Kürschner Deutsche Nationalliteratur. A lui viene affidata la redazione, con introduzioni
e commenti, delle opere scientifiche. Nonostante la filiale
venerazione e la profonda amicizia con Schröer, Steiner
scrive:
«Io accoglievo nel mio spirito con la più profonda
simpatia tutto ciò che veniva da Schröer. Tuttavia,
anche nei suoi confronti non potevo altro che elaborare in modo del tutto indipendente nella mia
anima ciò a cui aspiravo nel profondo del mio spirito. Schröer era idealista; e il mondo delle idee
come tale costituiva per lui ciò che è all’opera come forza propulsiva nella creazione naturale e umana. Per me l’idea era l’ombra di un mondo spirituale
pienamente vivente. Trovavo difficoltà nel tradurre
in parole a me stesso la differenza tra il modo di
pensare di Schröer e il mio. Lui parlava delle idee
come di potenze promotrici della storia. Sentiva vita nell’esistenza delle idee. Per me la vita dello spirito si trovava dietro le idee, e queste ne erano unicamente la manifestazione nell’anima umana. A
quel tempo, la sola espressione che riuscii a trovare
per il mio modo di pensare fu quella di «idealismo
oggettivo». Con esso intendevo dire che l’essenziale
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dell’idea non è nel fatto che essa si manifesta nel
soggetto umano, ma che essa si presenta inerente
all’oggetto spirituale analogamente al colore rispetto
all’essere sensibile, e che l’anima umana – il soggetto – la percepisce in esso, come l’occhio percepisce
il colore in un essere vivente» (Mein Lebensgang, GA 28
(1982) p. 92)
Il rapporto di Steiner con Goethe è così fondamentale
che merita di esser trattato a parte, dopo questa breve
presentazione generale. Un’altra attività importante per il
cammino interiore di Steiner, è quella di precettore presso una famiglia nella quale, tra gli altri figli affidati a lui,
ce n’è uno che non ha frequentato la scuola pubblica,
perché ritenuto mentalmente ritardato. Steiner riesce a
farlo progredire a un punto tale che potrà poi seguire
normalmente il ginnasio e frequentare l’università.
Gli anni della vita viennese sono pieni di un’intensa
vita sociale. Ama le amicizie, le conversazioni, gli incontri
in circoli vari. Di quest’ultimi, due in particolare sono per
lui importanti. Il primo è il circolo che si riunisce a casa
della giovane poetessa Maria Eugenia Delle Grazie. Caratteristica comune del circolo è un certo pessimismo di
fondo, che Steiner non condivide. Proprio nel contrasto
tra le idee di questo circolo e ciò che lui sente in sé, nascono le intuizioni che formeranno il nucleo della Filosofia
della libertà. Delle Grazie considera l’uomo come un trastullo nelle mani inesorabili e cieche del meccanismo
della natura. Per Steiner l’uomo, con le sue facoltà spiri-
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tuali, può ergersi sovrano al di sopra del ferreo determinismo del mondo infraumano:
«...Questa libertà, si potrebbe obiettare, non è altro
che un sogno! Mentre ci illudiamo di essere liberi,
obbediamo al ferreo determinismo della natura. I
pensieri più sublimi che noi concepiamo non sono
che un prodotto della natura che ciecamente regna
in noi. Oh, dovremmo pur ammettere una buona
volta che un essere che conosce se stesso non può
non essere libero!... Vediamo la trama delle leggi
governare le cose, e ciò comporta necessità. Ma noi
possediamo nel nostro conoscere la facoltà di trarre
dagli esseri naturali le loro leggi: dovremmo ugualmente essere schiavi inermi di queste stesse leggi?»
(Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 131. – Da una circolare
scritta alla poetessa, dal titolo: «La natura e i nostri ideali»; cfr.
GA 30, p. 237-40)
L’altro circolo è frequentato da giovani poeti austriaci.
Qui regna la più grande varietà di temperamenti e di visioni della vita.
Durante gli ultimi anni passati a Vienna, fino al 1890,
maturarono in Steiner le idee fondamentali che saranno
espresse nella Filosofia della libertà. Nella sua autobiografia
egli sottolinea a più riprese quale fosse il suo rapporto
interiore con le varie correnti che veniva man mano incontrando: un rapporto di parziale accordo. Di accordo,
in quanto egli scorge in ogni visione almeno un grano di
verità. Parziale, in quanto l’errore comune di quasi tutte
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le teorie che incontra, è l’unilateralità e la parzialità. Il
mondo di Goethe costituisce la sola eccezione: qui egli
vive in orizzonti sconfinati, in un atteggiamento conoscitivo che proviene da una istintiva e profonda fiducia
nel pensiero. Nel 1886 Steiner pubblica la sua prima
opera su Goethe: «Fondamenti di una teoria della conoscenza della visione goetheana del mondo». Ciò che Goethe si gloriava di non aver mai fatto: pensare sul pensare,
lo fa Steiner per lui, e mostra con entusiasmo la giustezza, la fecondità e la profondità dell’atteggiamento conoscitivo di Goethe di fronte al mondo.
Ma Goethe fu dimenticato. Nella seconda metà del
secolo XIX Steiner si trova innanzitutto di fronte al rapido sviluppo e al trionfo della scienza naturale. La filosofia
viene sempre più screditata e si limita quasi a ricamare sul
quesito della propria validità. Il dogma kantiano dell’inconoscibilità della cosa in sé regna sovrano. Buona parte
della teologia sembra accettare volentieri che la ragione
umana sia confinata al mondo visibile della scienza e
della tecnica, e appella alla rivelazione e alla fede per ciò
che riguarda il mondo dello spirito. Scienza e fede procedono così come due parallele che non s’incontrano mai.
La corrente mistica, infine, vorrebbe risolvere questo
dualismo della vita abbandonando il pensiero e rifugiandosi nella sfera del sentimento.
Dalla scienza Steiner vuol prendere soprattutto il metodo rigoroso dell’osservazione oggettiva dei fatti, ma non
può accettare che il pensiero umano abbia unicamente
questa funzione di registrare e descrivere fenomeni. Dalla
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tradizione filosofica egli si adopera appassionatamente a
salvare la realtà autonoma e vivente del pensare, che non
è puro riflesso speculare (e superfluo) del percepito sensibile. Dalla teologia accoglie la certezza delle realtà spirituali e invisibili, ma vuole avvicinarsi ad esse non solo
con la fede, ma sempre più con la conoscenza. La corrente mistica è quella che meno lo attrae: da una parte riconosce il principio dell’esperienza interiore, e dall’altra non
può accettare che ciò debba significare un allontanarsi
dalla chiarezza del pensiero e della conoscenza, per dar
luogo alla realtà informe del sentimento.
Vediamo ora nelle parole stesse di Steiner la lotta interiore di quegli anni attorno al 1890. Alternando le sue
riflessioni su quel periodo scritte alla fine della vita
(nell’autobiografia) con gli scritti di quel tempo stesso,
possiamo farci un’idea della sua aspirazione a superare
ogni unilateralità che veniva incontrando.
La scienza e la filosofia di stampo kantiano insistevano sui limiti della conoscenza umana:
«Nel presentare le mie proprie convinzioni, il mio
primissimo intento era quello di confutare la concezione dei limiti della conoscenza. Intendevo respingere quel metodo di conoscenza che guarda al
mondo sensibile e vuole poi spingersi oltre il mondo sensibile, sempre verso l’esterno, per arrivare a
una vera realtà. Volevo far capire che il reale vero
non va cercato in un simile penetrare oltre il visibile verso l’esterno, ma nell’immergersi nell’interiorità
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dell’uomo. Chi vuole aprirsi un varco verso l’esterno e vede poi che ciò è impossibile, parla di limiti
della conoscenza. Ma questa impossibilità non proviene dal fatto che la facoltà conoscitiva umana è
limitata, bensì dal fatto che si cerca qualcosa di cui
una corretta introspezione non può nemmeno parlare. Ciò che si cerca, nell’intento di penetrare più a
fondo nel mondo sensibile, è come una continuazione del sensibile dietro al percepibile. È come se
una persona che vive di illusioni cercasse in ulteriori illusioni le cause delle proprie illusioni» (Mein
Lebensgang, GA 28 (1982), p. 163)
A quasi cinquant’anni di distanza, Steiner cita ciò che lui
stesso aveva scritto nel 1888 commentando le opere
scientifiche di Goethe e ne sottolinea il significato:
«Colui che riconosce al pensare la sua capacità di
percezione che va oltre la visione sensibile, deve
necessariamente riconoscergli anche degli oggetti
che si trovano al di sopra della semplice realtà sensibile. Ora, questi oggetti del pensare sono le idee.
Riuscendo il pensare ad afferrare l’idea, esso si
fonde col fondamento primigenio dell’essere universale. Ciò che opera all’esterno, entra dentro allo
spirito dell’uomo, e quindi diviene una cosa sola con
la realtà oggettiva alla sua potenza somma. La percezione dell’idea nella realtà è la vera comunione dell’uomo.
Di fronte alle idee, il pensare ha lo stesso significato che ha l’occhio di fronte alla luce e l’orec23
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chio al suono. È organo di percezione» (Goethes naturwissenschaftliche Schriften, GA 1 (1973), p. 125-6).
«Il mio intento era allora non tanto quello di
esporre il mondo dello spirituale quale esso si presenta quando il pensare libero dal sensibile progredisce oltre lo sperimentare se stesso e diviene visione spirituale, quanto piuttosto quello di mostrare che l’essenza della natura che si offre all’osservazione sensibile è lo spirituale. Volevo sottolineare il fatto che la natura è in verità spirituale.
Ciò trovava ragione nel fatto che il mio destino
mi aveva condotto a prender posizione nei confronti dei teorici della conoscenza miei contemporanei. Costoro partivano dal presupposto di una
natura non spirituale, e si proponevano l’intento di
mostrare in qual misura l’uomo sia autorizzato a
crearsene un’immagine spirituale. A questa teoria
della conoscenza io ne volevo contrapporre una del
tutto diversa. Volevo mostrare che l’uomo quando
pensa non forma delle immagini sulla natura come
uno che ne rimane fuori, ma che conoscere è sperimentare, per cui l’uomo nell’atto del conoscere è
dentro l’essenza delle cose». (Mein Lebensgang, GA 28
(1982), p. 164-5)
L’idea della libertà dello spirito umano è l’elemento che
sta alla base del suo rapporto con ogni corrente della
cultura del suo tempo. Egli vede questa libertà in tanti
modi misconosciuta o negata. Né la scienza né la teologia
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sembrano voler dare un posto centrale all’esercizio sovrano del pensiero, nel quale unicamente si trova la vera
libertà. Perfino la filosofia ha perso la fiducia nel pensiero, e cioè in se stessa.
In un articolo scritto nel 1888 egli parla con nostalgia
del tempo classico dell’idealismo tedesco, dopo del quale
egli vede solo oscuramento e declino:
«Si sentiva il bisogno di penetrare nei segreti più
intimi dell’enigma universale, senza rivelazione,
senza un’esperienza limitata alla casualità, ma unicamente con la forza inerente al proprio pensare.
Si aveva la convinzione che il pensiero umano è
capace dello slancio che a ciò si richiede. E com’è
diversa la situazione oggi! Si è persa ogni fiducia
nel pensare. Si considera come unico strumento
dell’indagine l’osservazione, l’esperienza. Ciò che
non si tocca con mano è ritenuto incerto. Non si
comprende affatto che il nostro pensare, fondato
unicamente in sé, senza bisogno di seguire la falsariga dei sensi, ha la capacità di penetrare nello
svolgersi dell’universo più profondamente di qualsiasi osservazione esteriore. ... Accantonare il pensare ed esaltare l’esperienza è, a una considerazione
più profonda, proprio la stessa cosa della fede cieca nella rivelazione che si trova nelle religioni. Infatti, su cosa si fonda quest’ultima? Appunto unicamente sul fatto che ci vengono tramandate delle
verità bell’e pronte che noi dobbiamo accettare
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senza poterne valutare i fondamenti col nostro
proprio pensare. Percepiamo l’annuncio, ma ci
viene negata l’intuizione delle sue motivazioni. Lo
stesso vale per la fede cieca nell’esperienza. Si vuol
fare una semplice raccolta di fatti per ordinarli e
così via, senza penetrarne le ragioni intrinseche:
così la pensano gli scienziati, così i filosofi rigorosi.
Qui pure dobbiamo semplicemente prendere le verità bell’e fatte senza penetrare fino alle forze che
sono all’azione dietro i fenomeni. Credi in ciò che
Dio ha rivelato e non indagarne le ragioni: così dice la teologia. Registra ciò che si svolge davanti ai
tuoi occhi, ma non riflettere col pensiero sulle cause che vi stanno dietro, perché faticheresti invano:
così dice la filosofia contemporanea». (Methodische
Grundlagen der Anthroposophie, .GA 30 (1961), p. 254-5)
L’atteggiamento qui espresso nei confronti della teologia
va visto nella sua giusta luce. Il rapporto di Steiner con il
cristianesimo tradizionale è stato, fino all’inizio del nuovo
secolo, irto di difficoltà. Solo dopo il 1900 la figura del
Cristo verrà da lui posta al centro di tutto il suo pensiero.
Prima di quella data, Steiner si trova a reagire di fronte al
cristianesimo che vede attorno a sé: una prassi religiosa
per lo più abitudinaria, una teologia spesso troppo dogmatica e che guarda con sospetto alle aspirazioni conoscitive del pensiero umano.
Nel 1890 comincia nella vita di Steiner il periodo di
Weimar. È invitato dal Goethe-und-Schiller-Archiv a col-
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laborare all’edizione delle opere di Goethe, attingendo ai
copiosi manoscritti inediti del suo lascito. Gli vengono
affidate anche qui le opere scientifiche. Vivere nei luoghi
della vita del grande poeta è per Steiner una profonda
gioia. Le sue convinzioni circa il pensiero di Goethe trovano sorprendente conferma negli scritti inediti che va
man mano scoprendo. La vita di Weimar gli fa incontrare
personaggi vari nel mondo della letteratura.
In seno all’Archivio, tuttavia, fatta eccezione di Hermann Grimm, prevale sempre più, nell’interpretazione
delle opere di Goethe, il metodo scientifico-filologico.
Steiner, che non condivide che si applichi alla letteratura
il metodo freddo e morto delle scienze naturali, si sente
interiormente sempre più solo.
«Io qui sono solo. Non c’è nessuno qui che abbia
la pur minima comprensione per ciò che mi anima
e che dà slancio al mio spirito». (Briefe I (1955), p. 115)
Dopo la Vienna a lui così congeniale, i sette anni di
Weimar (1890-1897) sono una specie di esilio. In questi
anni però, oltre all’edizione delle opere di Goethe, vengono create le opere filosofiche che rimarranno fondamentali per tutto il resto della sua vita. Ad esse si riferirà
innumerevoli volte fino alla morte.
La prima di esse è la sua tesi di dottorato che portava
come titolo «Il problema della teoria della conoscenza,
con particolare riferimento alla teoria della scienza di
Fichte. Prolegomeni per una chiarificazione della coscienza filosofica con se stessa». Fu pubblicata l’anno
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successivo (1892) col titolo: Verità e Scienza. Preludio a una
‹Filosofia della libertà›. Data la sua importanza per la comprensione della Filosofia della libertà ne esaminerò il contenuto in un capitolo a parte.
Nel 1893 egli termina la Filosofia della libertà, la cui edizione porterà anticipatamente la data del 1894.
Volgiamo ora il nostro sguardo alle figure che più
profondamente hanno influito sul suo pensiero e che ci
aiuteranno a comprendere meglio il contenuto della Filosofia della libertà. Esse sono: Goethe, Ernst Haeckel,
Nietzsche e Eduard von Hartmann.
2. Steiner e Goethe: Scienza e realtà della libertà
L’idea centrale della Filosofia della libertà è che la persona
umana è libera nella misura in cui partecipa, mediante
l’esercizio intuitivo del pensare, al mondo dello spirito.
Goethe ha esercitato la facoltà intuitiva del pensiero in
somma misura. Ma lo ha fatto istintivamente, perché era
per lui come una seconda natura. Proprio qui sta l’affinità
e al contempo la differenza tra i due: Steiner fa, di quella
libertà che trova in Goethe come realtà vissuta spontaneamente, una scienza riflessa e sistematica.
C’è un episodio nella vita di Goethe, al quale Steiner si
è riferito innumerevoli volte. Esso fa comprendere con
estrema chiarezza l’atteggiamento conoscitivo di Goethe.
Si tratta dell’incontro con Schiller che segnò l’inizio della
loro amicizia. Goethe si adopera a spiegare a Schiller, me28
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diante uno schizzo, la sua idea della pianta primigenia (Urpflanze), cioè della pianta quintessenziale che è la pianta in
ogni pianta. Schiller, formato alla scuola di Kant, risponde
che quella pianta non è oggetto di esperienza, ma solo
un’idea. Goethe resta dapprima contrariato e perplesso,
ma poi esclama con improvviso entusiasmo: allora io non
solo ho delle idee senza neppure saperlo, ma mi riesce per
giunta di vederle con i miei occhi!
Per Goethe è chiaro che le idee che lui percepisce
con la mente non sono meno reali degli oggetti sensibili
che percepisce con i sensi. Questi e quelle sono per lui
inseparabili, sono una cosa sola. Per questo motivo egli
non è mai stato capace di idee «astratte» (senza riferimento immediato al visibile) e nemmeno di percezioni
che fossero una passiva registrazione di dati, senza contenuto ideale.
Lo stesso Goethe che aveva disegnato a Schiller
l’«idea» della pianta ut sic, si trova qualche tempo più
tardi a disagio con le idee morali che Schiller va esprimendo nelle «Lettere sulla formazione estetica». Qui
Schiller elabora, con concetti astratti, la sua teoria della
libertà umana, che consiste nell’evitare la costrizione della
natura da una parte, e quella della ragione dall’altra. Goethe sente il bisogno di esprimere la stessa verità in modo
del tutto diverso, e ne nasce la «Fiaba della serpe verde e
della bella Gigliola». Gli impulsi morali compaiono qui
come forze elementari e primigenie, che non si lasciano
comprimere in concetti astratti. Di nuovo, Goethe attinge all’invisibile con esperienza diretta, e lo vive come tale,
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attribuendogli una realtà massima, plasmatrice del mondo
visibile.
Ho voluto richiamare questi due episodi (quello della
pianta originaria e quello della fiaba) perché corrispondono a ciò che Steiner ha espresso, in modo riflesso e
sistematico, rispettivamente nella prima e nella seconda
parte della Filosofia della libertà.
Molti anni più tardi, in una conferenza del 17 giugno
1923, Steiner richiama alla memoria le fondamenta del
suo edificio spirituale, poste tanti anni prima:
«Se voi guardate un po’ alla quintessenza di ciò che
compare nei miei scritti su Goethe e nella ‹Filosofia della libertà›, vedrete che si tratta di questo:
l’uomo è, nel più intimo del suo essere, in comunione con un mondo spirituale, e se gli riesce di
scrutare con sufficiente profondità questo suo essere, egli scopre nel proprio intimo qualcosa cui la
scienza oggi in voga non ha accesso, e che può unicamente considerarsi come membro diretto di un
ordinamento spirituale del mondo». (Die Geschichte
und die Bedingungen der Anthroposophischen Bewegung...,
GA 258 (1959), p. 162)
Secondo Steiner, la cultura della seconda metà del sec.
XIX aveva inaugurato un dualismo estremo, teorico e
pratico, tra scienza e morale. Comune sia alla scienza, sia
alla morale, è il dogma kantiano dell’irraggiungibilità della
cosa in sé. La scienza si limita al visibile e lo svuota di
ogni contenuto spirituale. L’ordinamento morale non
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viene intuito direttamente dallo spirito dell’uomo, ma gli
viene comunicato in forma di dogmi e di norme, cui egli
deve sottomettersi. Nella stessa conferenza, Steiner così
prosegue:
«Perciò nei miei scritti goetheani ho lasciato per
così dire trasparire la necessità, quando ascendiamo dalla contemplazione del mondo a quella del
divino-spirituale, di una modificazione del concetto dell’amore. Già in quegli scritti su Goethe
ho indicato che la divinità va concepita come colei che con infinito amore si è effusa nella creazione (in das Dasein), e va ora ricercata in ogni
essere particolare. Ciò è tutt’altra cosa che un confuso panteismo». (Die Geschichte und die Bedingungen
der Anthroposophischen Bewegung..., GA 258 (1959), p.
162-3)
Né poteva venire in suo soccorso la filosofia allora corrente, perché questa era al servizio da una parte della
scienza naturale materialistica, e dall’altra della teologia
fondata sulla fede e non sull’esperienza diretta dello spirituale. È qui che Steiner scopre proprio in Goethe due
porte aperte, una nel suo modo di vedere la natura con
occhi spirituali, l’altra nel suo modo di concepire lo spirituale stesso all’opera nel mondo. Seguendo Goethe
«si afferra il mondo sensibile in un modo spirituale.
Applicando il metodo di Goethe, ci si muove difatti in un elemento spirituale. Pur applicando questo
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metodo al mondo sensibile delle piante e degli animali, si coglie con esso ciò che di spirituale vive e
opera nella pianta e nell’animale». (ldem, p. 164)
E la seconda porta è quella del simbolo e dell’immagine,
che servono a mostrare che
«c’è lo spirituale, c’è l’invisibile all’azione nel mondo; che le sfere singole del vero, del bello e del
buono cooperano armoniosamente; che bisogna
fare i conti con esseri spirituali reali quando si tratta della vera vita spirituale, e non ci si può limitare
a concetti puramente astratti».
Goethe è dunque, agli occhi di Steiner, una prova vivente
della libertà dello spirito umano, perché né le leggi naturali della scienza né i dogmi della rivelazione restano al di
fuori di lui, come una duplice necessità, naturale e morale, cui l’uomo deve sottomettersi. No, leggi della natura e
dogmi della religione si trasformano in intuizioni viventi
e creatrici che sgorgano dal nucleo essenziale della persona umana.
«Goethe ha tracciato, vorrei dire, due inizi che si
muovevano in modo convergente l’uno verso l’altro, senza però raggiungersi. Ciò di cui c’è bisogno,
di cui c’era bisogno, è la ‹Filosofia della libertà›.
Bisognava mostrare dov’è che vive il divino
dentro l’uomo stesso, quel divino nel quale egli
trova fondamento sia per lo spirito della natura, sia
anche per lo spirituale delle leggi morali. Ciò ha
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portato alla teoria dell’intuizione (Intuitismus) quale espressa nella ‹Filosofia della libertà›, a ciò che
veniva chiamato individualismo etico. Individualismo etico, per il fatto che, per ogni singolo individuo umano, gli impulsi morali devono procedere
da quella sorgente divina alla quale l’uomo attinge
nel più intimo del proprio essere». (Die Geschichte
und die Bedingungen der Anthroposophischen Bewegung... ,
GA 258 (1959), p. 169)
L’idea è per Goethe esperienza, anzi, con le sue parole,
«un’esperienza superiore in seno all’esperienza». Ciò che
la rende superiore è il fatto che essa non è passiva e ricettiva come l’esperienza dei sensi, ma attiva e creatrice.
L’essere vero delle cose non viene dato dalle cose alla
nostra mente, ma dalla nostra mente alle cose:
«Per comprendere questo essere, ci vuole produttività dello
spirito. Si richiede di più che non l’osservazione
della casualità di dati singoli. Le leggi appartengono alla realtà, ma noi non possiamo mutuarle da
essa: le dobbiamo creare, sulla base dell’esperienza.
Tutti i pionieri nel campo delle singole scienze
possedevano questa capacità creatrice dello spirito. I fenomeni del moto pendolare e della caduta
divennero comprensibili solo dopo che Galilei ne
ebbe creato le leggi». (Die Geschichte und die Bedingungen der Anthroposophischen Bewegung... , GA 258 (1959),
p. 169)
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È importante comprendere con chiarezza in che cosa
Steiner pone la non libertà dell’uomo. Ciò che conta qui
non è di stabilire se noi siamo d’accordo con la sua valutazione della scienza e della teologia di allora. Ciò che
conta è di vedere se la sua concezione della libertà, quale
egli la riscontra istintivamente all’opera in Goethe, sia
giusta o no. Già nella sua opera su Goethe del 1888
(«Fondamenti di una teoria della conoscenza della visione
goetheana del mondo») parla di due «dogmi» che rendono l’uomo non libero: il dogma dell’inconoscibilità della
«cosa in sé» del mondo sensibile; e il dogma dell’inconoscibilità della «cosa in sé» del mondo spirituale. Se «tagliato fuori» dall’uno e dall’altro, l’uomo è in balia della natura da una parte e dell’assoluto dall’altra.
«Esiste un duplice dogma. Il dogma della rivelazione e
quello dell’esperienza. Il primo tramanda all’uomo,
in un certo modo, verità su cose che esulano dal
suo orizzonte. Egli non entra col suo intuito nel
mondo da cui esse provengono. Deve credere alla
loro verità, non potendo aver accesso ai loro fondamenti. Del tutto simile è il dogma dell’esperienza. Se
qualcuno ritiene che ci si debba attenere alla pura e
semplice esperienza, osservandone unicamente le
variazioni, senza poter penetrare fino alle forze originatrici, egli pure fa delle affermazioni su un
mondo, i cui fondamenti gli restano inaccessibili».
(Die Geschichte und die Bedingungen der Anthroposophischen Bewegung... , GA 258 (1959), p. 169)
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Steiner vede in Goethe il grande superatore di questa
duplice non libertà. Nella visione goetheana del mondo,
non ci sono limiti essenziali posti alla conoscenza umana.
Il pensare, che è per lui appunto un’esperienza superiore
in seno all’esperienza, pone l’uomo in comunione con
l’essenza ultima del visibile. E gli ideali morali sgorgano
dal suo spirito stesso, nell’esercizio della libertà. Il «dovere» viene trasformato nel proprio libero «volere»:
«Era questa la convinzione di Goethe stesso, là
dove dice: ‹Lessing, ostile a certe restrizioni, fa dire
a uno dei suoi personaggi: nessuno deve dovere.
Una persona sagace e briosa ha detto: chi vuole,
deve. Un terzo, di certo una persona colta, ha aggiunto: chi sa capire, sa anche volere›». (Idem, p. 126)
La Filosofia della libertà è tutta fondata su questo «capire»
che proviene dal pensare, e che rende capaci di intenti
morali propri, cioè liberi. La scienza materialistica, lavorando con concetti puramente meccanici e quantitativi,
poteva spiegare unicamente il mondo anorganico. Per
comprendere il mondo organico ci vogliono pensieri
viventi e spirituali. La vita nella pianta e l’anima nell’animale, non si possono spiegare con le pure leggi della fisica e della meccanica. Steiner chiama Goethe il Copernico
e il Keplero del mondo organico, cioè il primo che ha
elaborato intuitivamente una scienza degli esseri viventi,
creando i concetti che ad essi corrispondono.
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3. Haeckel e Nietzsche: l’aspirazione
alla scienza e alla realtà della libertà
Steiner vede in Haeckel il materialismo che diviene scienza, e in Nietzsche il materialismo che diviene morale. Egli
conobbe entrambi personalmente, e il suo rapporto con
loro può sembrare a prima vista contraddittorio. L’uno e
l’altro hanno qualcosa di positivo che Steiner accetta con
entusiasmo, a tal segno che venne accusato dello stesso
materialismo. Da Haeckel accoglie il metodo scientifico e
la teoria evoluzionistica come fondamento di una visione
unitaria del mondo; in Nietzsche ammira l’onestà del
pensiero che vuol andare fino alle ultime conseguenze, e
soprattutto l’intento di esaltare la persona umana nella
sua autonomia e libertà.
Nel novembre del 1892 così scrive Steiner a Haeckel:
«Io lotto, fin dall’inizio della mia carriera di scrittore, contro ogni dualismo, e considero missione della
filosofia quella di giustificare scientificamente il
monismo, mediante un’analisi rigorosamente positivistica della nostra facoltà cognitiva, di provare
cioè che i risultati conseguiti dalla scienza naturale
sono verità reali. Per questo non ho potuto che oppormi sia al kantianismo con la sua doppia verità,
sia al moderno ‹ignorabimus›. I risultati della scienza sono per me i soli elementi validi per una visione del mondo». (Briefe, II, (1953), p. 127)
Queste parole possono lasciare perplessi. Lo stesso Stei36
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ner pone, pochi mesi dopo, come sottotitolo della sua
Filosofia della libertà un’espressione non meno sorprendente: «Risultati di un esame introspettivo condotto con
metodo scientifico». Qui si vede come Steiner non limiti
la scienza al solo mondo visibile e materiale, ma come
egli intenda con essa piuttosto un metodo della conoscenza, un modo di procedere della mente umana. La caratteristica essenziale di questo metodo è nella sua precisione
e chiarezza, provenienti dal fatto che la mente umana è in
esso sovrana, capace di padroneggiarlo e controllarlo in
ogni sua parte.
Ciò avviene mediante la stretta e necessaria interazione tra la percezione e il pensare. Nessuna conoscenza si
ha col solo pensare, nessuna con la sola percezione. Le
realtà interiori sono per Steiner oggetto, oltre che di pensiero, di percezione interiore che può essere non meno
precisa e «scientifica» della percezione esteriore.
Il pensare stesso, quale inteso nella Filosofia della libertà,
non può essere certo oggetto di osservazione scientifica
sensibile, ma Steiner mira alla stessa scientificità nel descriverne la natura vivente e spirituale. Non accetta, in
altre parole, che sia «scientificamente conoscibile» solo il
visibile, e che il resto debba essere oggetto di pure ipotesi
sulla cosa in sé inconoscibile, o di fede in un irraggiungibile trascendente. Egli riconosce allo spirito umano facoltà di percezione dello spirituale non meno chiare e penetranti della percezione dei sensi nel mondo visibile. E
nello sviluppo di questa facoltà egli ravvisa la libertà della
persona umana.
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La filosofia del suo tempo, come ho detto, aveva perso ogni fiducia nella conoscenza umana. La teoria evoluzionistica invece, se intesa giustamente, è una conferma
della possibilità di accesso, restando in seno al mondo
stesso, ai principi che ne danno la spiegazione.
Non dobbiamo però pensare che Steiner e Haeckel
diano la stessa interpretazione a questa teoria evoluzionistica. Per Haeckel il fatto che un organismo materiale è il
perfezionamento di un altro precedente è un’esauriente
spiegazione della sua natura. Egli non si pone ulteriori
domande. Per lui tutto è spiegabile mediante processi
materiali, compreso il pensiero stesso, come risultato di
ulteriore complicazione delle cellule del cervello. Haeckel,
si potrebbe dire, non ha mai visto altro che la materia.
L’adesione entusiastica di Steiner alla teoria evoluzionistica non è adesione all’interpretazione materialistica che di
essa si può fare. Nella sua autobiografia Steiner così descrive il suo primo incontro con Haeckel:
«Fu così che venni a conoscere Haeckel personalmente. Era un individuo avvincente. Due occhi che guardavano il mondo con ingenuità, così
dolci da dar l’impressione che il loro sguardo avrebbe dovuto spezzarsi qualora fosse stato penetrato
dall’acutezza del pensiero: uno sguardo in grado
di sopportare unicamente impressioni sensibili, e
non pensieri, quali si rivelano nelle cose e negli
avvenimenti. Ogni movimento di Haeckel era volto a dar risalto a ciò che i sensi esprimono, e non
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a lasciar manifestare in esso il pensiero che lo
muove.
Capii perché gli piaceva tanto dipingere: si dava
tutto alla visione dei sensi. Là dove avrebbe dovuto cominciare a pensare, là cessava la sua attività
interiore, e preferiva fissare col pennello ciò che
aveva veduto. Tale era l’indole propria di Haeckel».
(Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 221)
Parziale accordo: questo, come ho già detto, il rapporto
di Steiner con innumerevoli correnti e personaggi del suo
tempo. Qui si trova l’origine dei fraintendimenti del suo
pensiero. Qui è anche l’origine della sua profonda solitudine spirituale.
In un articolo del 1899 dal titolo «Haeckel e i suoi avversari» Steiner scrive:
«Una riflessione ragionevole deve convenire con
Haeckel là dove dice: ‹O è vero che gli organismi si
sono sviluppati naturalmente, e allora devono tutti
derivare da forme iniziali semplicissime e comuni;
oppure ciò non è vero: le singole specie di organismi
hanno avuto origine indipendentemente le une dalle
altre, e allora possono solo esser state create in modo
sovrannaturale mediante un miracolo. Evoluzione naturale oppure creazione soprannaturale delle
specie: tra queste due possibilità bisogna scegliere,
una terza non c’è›». (Methodische Grundlagen der Anthroposophie, GA 30 (1961), p. 170-1)
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Se lo stesso Steiner non avesse scritto anni prima un
libro come la Filosofia della libertà, potremmo pensare a
un suo totale accordo col materialismo di Haeckel, che
guarda unicamente al divenire della materia, e vede le
facoltà spirituali come da esse prodotte. Ma Steiner,
proprio nella Filosofia della libertà, fonda la sua visione
dell’uomo sul pensare in quanto realtà puramente spirituale. Se teniamo presente ciò, la conclusione a cui giungiamo è la seguente: ciò che Steiner difende in Haeckel
è il metodo scientifico in quanto tale, e non il fatto che questo metodo venga applicato unicamente all’evoluzione
della materia, ritenuta la sola realtà. E per metodo scientifico Steiner intende quel modo di procedere che riconosce nel percepire e nel pensare le due fonti di conoscenza che sono nell’uomo stesso, senza ricorrere a nessun elemento inconoscibile o cosa in sé «oltre» la materia,
o «oltre» l’uomo. È questo che Steiner chiama «monismo»,
ed è così fondamentale alla Filosofia della libertà e a tutto
il suo pensiero in genere, da richiedere di essere considerato più per esteso, e lo farò nella terza parte di questo
lavoro.
Ciò che è essenziale alla sua «difesa» di Haeckel, negli
anni in cui questa figura suscitava le più violente reazioni,
è che Steiner vuol rivendicare anche per l’indagine spirituale il metodo scientifico. Che si parli di Dio o della
morale, o di teologia, o di qualunque altra cosa: nulla può
esser detto che non provenga o da percezione o da pensiero. L’una e l’altro sono nell’uomo, a misura di uomo, e
dall’uomo adeguatamente conoscibili.
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Il metodo scientifico corrisponde alla struttura spirituale specifica e nuova dell’uomo moderno in quanto
tale. Esso presuppone non una astratta natura umana
invariabile lungo i millenni, ma riconosce nella storia le
profonde trasformazioni dello spirito umano. È dunque il
concetto fondamentale di evoluzione, oltre al metodo
scientifico, che Steiner ha in comune con Haeckel.
La posizione di Steiner di fronte a Haeckel nel campo
della conoscenza, trova una corrispondenza coerente nella sua posizione di fronte a Nietzsche nel campo morale.
Le due parti della Filosofia della libertà, quella conoscitiva e
quella morale, sono l’espressione di questo duplice confronto, di questo cammino con gli uomini e con le realtà
del suo tempo.
Nietzsche è stato il campione della libertà negativa: ha
infranto ogni catena, sbalzato ogni giogo, rinnegato ogni
norma, deriso ogni convenzione. Che cosa gli è rimasto?
La «demenza», cioè il vuoto vero e proprio della mente.
La libertà positiva dello spirito non l’ha mai trovata: il
materialismo del suo tempo è divenuto per lui tragedia
personale. I suoi scritti esprimono il sogno confuso e la
convulsa brama di ciò che lo spirito del tempo gli ha
negato.
È questo il significato del titolo dell’opera di Steiner
su Nietzsche: Nietzsche: un lottatore contro il suo tempo.
Quest’opera è stata pubblicata nel 1895, un anno dopo la
Filosofia della libertà, e Steiner stesso dice che la sua lettura
precedente delle opere di Nietzsche non ha avuto influs41
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so diretto sul contenuto del suo libro. Il rapporto di Steiner con Nietzsche è però fondamentale per comprendere
in quale modo egli ha inteso soprattutto la seconda parte
della Filosofia della libertà. C’è un passo dell’autobiografia
che merita di esser citato per intero:
«Ciò che mi rimase dallo studio approfondito di
Nietzsche fu la visione della sua personalità, il cui
destino fu quello di vivere come una tragedia l’epoca scientifica della seconda metà del secolo diciannovesimo, e di spezzarsi in questa partecipazione.
Egli cercava in questa epoca, senza potervi trovare
nulla. La mia esperienza fatta in sua compagnia poté solo confermarmi nella convinzione che ogni
cercare nei risultati della scienza naturale non può
trovare, in essi ciò che è essenziale, ma lo può trovare attraverso ad essi, nello Spirito.
Così fu proprio l’opera di Nietzsche a riproporre alla mia mente in forma nuova il problema
della scienza. Guardavo a Goethe e a Nietzsche.
Goethe, col suo penetrante intuito della realtà, rivolto agli esseri e ai processi della natura, voleva
restare nella natura. Si manteneva nella pura osservazione delle forme vegetali, animali e umane. Ma
muovendosi con la sua anima in queste forme,
giungeva dappertutto allo spirito. Lo spirito che è
all’opera nella materia egli lo trovò, ma non volle
spingersi fino alla contemplazione dello spirito che
vive e opera in se stesso. Elaborò una conoscenza
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della natura «secondo lo spirito», ma si arrestò davanti a una pura conoscenza dello spirito, per paura di perdere la realtà.
Nietzsche prese le mosse da una visione dello
spirito in forma mitica. Apollo e Dioniso erano figure spirituali che egli sperimentava interiormente.
Il decorso della storia spirituale dell’umanità gli
apparve come una cooperazione oppure anche
come una lotta fra Apollo e Dioniso. Egli però
giunse solo ad una rappresentazione mitica di queste figure: non penetrò fino alla visione della vera
entità spirituale. Partendo dal mito spirituale si
spinse verso la natura. Nella sua anima, Apollo doveva rappresentare la realtà materiale secondo il
modello della scienza, e Dioniso doveva agire come le forze della natura. Ma in questo modo la bellezza di Apollo si offuscò, e il vibrare cosmico di
Dioniso fu paralizzato dall’ordine della legge naturale.
Goethe trovò lo spirito nella realtà della natura;
Nietzsche perse il mito dello spirito nella natura fatta di sogno in cui viveva.
Io mi trovavo tra questi due poli opposti». (Mein
Lebensgang, GA 28 (1982), p. 257-9)
Nel fenomeno Nietzsche, Steiner trova importante il
fatto, destinato a divenire caratteristica dell’uomo moderno in genere, che le norme tradizionali e la religione tramandata vanno perdendo ogni forza orientativa.
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La persona umana è lasciata a se stessa: non è più guidata da ciò che è fuori di lei. Proprio in questo sta l’avvento epocale della libertà umana. Riuscirà l’uomo, dal di
dentro, liberamente, a costruire i fondamenti della vera
libertà? Nietzsche interpreta lo spezzarsi di ogni catena
esterna come diritto dell’individuo ad una sfrenata e maniaca autoaffermazione (Wille zur Macht), che non vuol
tener conto di nulla e di nessuno.
Nel suo libro su Nietzsche, Steiner proprio questo
sottolinea: la mancata distinzione dei vari livelli degli
istinti e delle brame umane. Gli istinti inferiori sono quelli dell’animale nell’uomo, appartengono alla specie e non
all’individuo, e di conseguenza possono solo rendere
l’uomo schiavo, non libero.
«Un uomo che si affida semplicemente ai suoi istinti
sensibili, agisce come un animale; un uomo che soggioga i suoi istinti sensibili con pensieri altrui agisce
non liberamente; solo l’uomo che sa creare i suoi propri scopi morali, agisce liberamente. L’immaginativa
morale manca nella produzione di Nietzsche. Chi
pensa i suoi pensieri fino in fondo, deve di necessità
scoprire questo concetto. E d’altra parte è anche assolutamente necessario che questo concetto venga
inserito nella visione di Nietzsche. Altrimenti si può
sempre obiettare contro di essa: d’accordo che l’uomo dionisiaco non è schiavo della ‹volontà dell’al di
là›, ma egli è uno schiavo dei propri istinti». (Friedrich Nietzsche, ein Kämpfer gegen seine Zeit, GA 5 (1963), p. 91-2)
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Nietzsche: l’uomo lasciato a se stesso e che non ha ancora trovato se stesso. L’uomo a cui viene offerta per la
prima volta la libertà, e che ne conosce solo l’abuso, prima di impararne l’uso. Come si può non aver simpatia
per questa tragedia, che è quella di ogni uomo del nostro
tempo? Più importante di ciò che possiamo condannare
in Nietzsche, è ciò che da lui possiamo imparare.
Di tutte le facoltà dell’uomo, quella che Nietzsche ha
saputo meno apprezzare è proprio il pensare. Ma solo
nella coscienza pensante ci può esser libertà: nella chiara
consapevolezza che intuisce, attingendo a un mondo che
è unico e comune a tutti gli uomini. La Filosofia della libertà
è proprio tutta incentrata su questo misterioso interrogativo: come si conciliano l’individualità e la comunanza?
Nietzsche non ha considerato, nella delirante ebbrezza
dell’affermazione incondizionata dell’individuo, ciò che è
comune a tutti gli uomini: la conoscenza. Questa non può
essere arbitraria o individuale: sfida anzi l’uomo a coltivare
senza tregua dentro di sé ciò che lo libera dal carcere
dell’isolamento nel proprio io, e lo fa entrare nel tempio
universale dello spirito, la cui soglia è il mondo delle idee
afferrato intuitivamente dal pensare.
Volendo compendiare in una parola il rapporto di
Steiner con Haeckel e Nietzsche, possiamo dire: la sua
simpatia per Haeckel proviene da ciò che costui ha saputo togliere dalla scienza, cioè i dogmi e i limiti della conoscenza stabiliti in base a una vaga cosa in sé inconoscibile, «oltre» le cose; la sua simpatia per Nietzsche proviene
da ciò che costui ha saputo togliere dalla morale, cioè le
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norme provenienti da un assoluto, esso pure immaginato
«oltre» l’uomo, cui questi deve sottomettersi senza poterle far sue. In questo modo essi hanno espresso ciò che ho
chiamato il lato negativo della scienza e della realtà della
libertà. Andando oltre Haeckel, Steiner vuol trovare una
scienza che non veda solo il materiale, ma anche lo spirituale; andando oltre Nietzsche, egli vuol fondare una morale che non sia solo abolizione di norme esterne, ma cammino interiore di purificazione che si trasforma in norma
interiore e in vera libertà. La lacuna di Haeckel viene colmata nella prima parte della Filosofia della libertà; la tragedia
di Nietzsche viene sciolta nella seconda.
4. Eduard von Hartmann: la prima e la seconda
edizione della Filosofia della libertà
Hartmann era in Germania, a quel tempo, la figura più
nota nel campo della filosofia. Steiner è stato con lui in
corrispondenza epistolare per diversi anni, prima di poterlo incontrare personalmente per la prima volta nel
1889. Fu un lungo dialogo che lasciò nel suo animo una
traccia profonda. Il filosofo dell’inconscio e il giovane
che vuole afferrare ogni cosa con la chiarezza conscia del
pensiero si trovano l’uno di fronte all’altro.
«Per lui l’essenza delle cose risiedeva nell’inconscio
e doveva rimanere in esso sempre celata alla coscienza umana. Per me l’inconscio era qualcosa che
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può venir sempre più portato alla luce della coscienza mediante un esercizio vigoroso della vita
dell’anima. Nel corso della conversazione ebbi a
dire che non si dovrebbe però vedere già in partenza nella rappresentazione qualcosa di staccato
dal reale e che costituisce solo un elemento irreale
nella coscienza. Una tale concezione non può essere il punto di partenza di una teoria della conoscenza, perché con essa ci si preclude l’accesso a
qualsiasi realtà: non si potrebbe credere altro che di
vivere in rappresentazioni e di potersi avvicinare a
qualcosa di reale solo mediante ipotesi rappresentative, cioè in modo irreale. Si dovrebbe invece prima verificare se sia valida la concezione che vede
nella rappresentazione qualcosa di irreale, oppure se
essa provenga semplicemente da un pregiudizio.
Eduard von Hartmann rispose: su questo punto non
c’è assolutamente da discutere. È incluso nella spiegazione stessa del termine ‹rappresentazione› che in
essa non è contenuto nulla di reale. Nel ricevere
questa risposta mi sentii raggelare nell’anima. Il serio
punto di partenza per una visione della vita era dunque una explicatio terminorum! Sentii dentro di me
quanto lontano io fossi dalla filosofia del mio tempo. Mentre proseguivo il viaggio, in treno, coi miei
pensieri e ricordi tutti assorti in quella visita per me
pur sempre preziosa, mi si rinnovò nell’anima quel
brivido. E quell’impressione rimase viva a lungo
dentro di me». (Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 155-6)
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Hartmann è, secondo Steiner, l’erede del dualismo kantiano. A questo egli oppone decisamente ciò che chiama
monismo, o visione unitaria del mondo.
Che Steiner, alla fine del XIX secolo, abbia voluto affermarsi come filosofo, non è una cosa da dare per scontata. Di tutte le discipline, come già ho sottolineato, la
filosofia era quella meno in auge. La scienza empirica
andava celebrando un trionfo dopo l’altro. La teologia,
specie quella di stampo kantiano, contava ben poco sulla
ragione o sul pensiero, rifugiandosi nel mondo della fede.
Questa dicotomia Steiner l’ha vissuta dentro di sé in modo intensissimo: una scienza che vede solo la materia da
una parte; una teologia che vuol considerare solo lo spirito dall’altra. Nessun ponte tra le due. La filosofia, il solo
ponte possibile, ridotta in macerie.
Solo il pensare, pensa Steiner, può essere il punto
d’incontro tra il materiale e lo spirituale. Un pensare che
non è pedissequa registrazione dei dati dei sensi o dei dati
della fede, ma attività creatrice ed essenziale.
In quegli anni era in voga in Germania un movimento
culturale importato dall’America, dal nome «Associazione
per una cultura morale». I suoi promotori si dicevano: le
idee degli uomini sono tante e contrastanti. Mirare ad
un’armonia sulla base di qualche teoria filosofica è un’impresa illusoria. Lasciamo a ciascuno la sua propria verità.
Ciò che conta è rinnovare il comportamento pratico degli
uomini, di sanare i costumi. La reazione interiore di Steiner a questo modo di vedere è piena di sofferenza e di
indignazione: come si può mai fondare la morale pre48
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scindendo dalla verità? La sua Filosofia della libertà, se teniamo conto della temperie spirituale nella quale si colloca, acquista le dimensioni di un vero evento epocale.
Ma Steiner sapeva già che non poteva contare neppure
sull’approvazione del grande filosofo di Berlino:
«Non appena la mia ‹Filosofia della libertà› fu stampata ne mandai una copia a Eduard von Hartmann. Egli deve averla letta con grande attenzione,
perché me la rimandò poco dopo, munita di abbondanti note marginali, dall’inizio alla fine. Aggiunse anche, tra l’altro, che il libro avrebbe dovuto intitolarsi: ‹Fenomenalismo gnoseologico e individualismo etico›. Aveva frainteso completamente le fonti
delle mie idee e i miei intenti. Guardava al mondo
dei sensi alla maniera di Kant, anche se modificata.
Riteneva questo mondo come effetto prodotto
sull’anima da un qualcosa di essenziale, attraverso i
sensi. Questo essenziale non può mai, stando alla
sua teoria, entrare nell’orizzonte visuale che l’anima abbraccia con la coscienza. Deve restare al di là
della coscienza. Solo mediante illazioni logiche è
possibile farsene delle rappresentazioni ipotetiche.
Il mondo dei sensi non rappresenta allora una realtà oggettiva fondata su di sé, ma la manifestazione
soggettiva che permane nell’anima solo nella misura in cui questa la contiene nella sua coscienza.
Nel mio libro mi adoperavo a mostrare che non
c’è dietro al mondo sensibile una realtà sconosciuta,
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ma in esso il mondo spirituale. Quanto al mondo
delle idee dell’uomo volevo mostrare che esso ha la
sua vita in questo stesso mondo spirituale. Alla coscienza umana resta nascosto l’essenziale del mondo sensibile solo finché l’anima percepisce unicamente con i sensi. Non appena si aggiunge alle percezioni sensibili l’esperienza delle idee, la coscienza
vive nella essenzialità oggettiva del mondo sensibile. Il conoscere non è un riflettere una realtà essenziale, ma un entrare con l’anima a vivere in quella
realtà essenziale. Dentro alla coscienza avviene il
passaggio dal mondo sensibile ancora non essenziale alla sua essenzialità. Perciò il mondo sensibile
è apparenza (fenomeno) solo finché la coscienza
non ne è ancora venuta in chiaro.
Il mondo sensibile è dunque in realtà mondo
spirituale. L’anima si unisce nella sua vita conoscitiva con questo mondo spirituale, quando lo abbraccia con la sua coscienza. La meta del processo
conoscitivo è di fare l’esperienza vivente e cosciente del mondo spirituale, alla cui presenza tutto si
trasforma in spirito.
Al fenomenalismo io contrapponevo il mondo
della realtà spirituale. Eduard von Hartmann pensava che io volessi restare nell’ambito dei fenomeni
e che mi proponessi unicamente di astenermi dal
fare, in base ad esso, delle illazioni circa una qualche realtà oggettiva. Ciò significava per lui che il
mio modo di pensare condannava la conoscenza
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umana a non poter giungere a nessuna realtà, e a
doversi muovere dentro a un mondo d’apparenza
che trova sussistenza (come fenomeno) unicamente nella vita rappresentativa dell’anima.
Alla mia ricerca dello spirito mediante l’ampliamento della coscienza veniva così opposta la concezione che ritiene che lo ‹spirito› vive dapprima
soltanto nella rappresentazione umana, e che fuori
di essa può solo venir pensato». (Mein Lebensgang, GA
28 (1982), p. 244-6)
La Filosofia della libertà, quale noi l’abbiamo ora sottomano, è nella sua seconda edizione, avvenuta nel 1918, 25
anni dopo la prima. È straordinario il fatto che Steiner
abbia lasciato praticamente immutato il testo della prima
edizione. La novità più notevole sono le aggiunte alla fine
di vari capitoli. Le osservazioni scritte in margine da Hartmann sulla copia a lui inviata in omaggio, hanno contribuito notevolmente sia alle significative modificazioni
apportate al testo, sia alle aggiunte alla fine dei capitoli.
Il motto sul frontespizio dell’edizione del 1894, diceva: «Risultati di osservazione secondo il metodo scientifico». E nella nuova edizione, analogamente: «Realtà dell’anima quali risultano da osservazione condotta con metodo scientifico». Ciò che egli vuol dire ci appare chiaro
non appena conosciamo il sottotitolo dell’opera principale di Hartmann (La filosofia dell’inconscio, 1869) che dice:
«Risultati metafisici secondo il metodo scientifico-induttivo». Ciò a cui Steiner vuole opporsi è proprio l’agget-
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tivo «metafisici», che indica realtà puramente escogitate
per illazione speculativa che si allontana dall’osservazione.
«Questa ‹Filosofia della libertà› porta sul frontespizio il motto:
‹Realtà interiori esaminate con metodo scientifico›. Questo motto intendeva anzitutto opporsi a
una corrente filosofica per la quale io nutrivo, entro certi limiti, la più sincera venerazione. Mi riferisco alla visione di Eduard von Hartmann, la cui
‹Filosofia dell’inconscio› portava il seguente sottotitolo:
‹Risultati speculativi secondo il metodo scientifico
induttivo›.
‹Risultati speculativi›: era questo che, secondo
me, contraddiceva il nucleo centrale di una vera
conoscenza dell’uomo e dello spirituale. Per risultati speculativi, cioè contenuti di pensiero teorici, si
può solo intendere ciò che si ottiene con una logica astratta, la quale, in base al percepito, fa illazioni
su qualcosa che non è percepibile. Mediante induzioni essa ricorre ad una cosa sconosciuta, che può
esser raggiunta appunto unicamente con costruzioni logiche, e non mediante percezione.
Contro questa impostazione filosofica io dovevo far valere il fatto che ciò che è destinato in qualsiasi modo ad esser conosciuto e vissuto dall’uomo,
deve anche in ogni suo elemento, in qualche modo, presentarsi direttamente all’osservazione, alla
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percezione. Allo stesso modo in cui i fatti esterni
della scienza naturale si presentano alla coscienza e
possono venire osservati, devono i contenuti interiori e spirituali essi pure potersi presentare alla coscienza ed essere così osservabili. Infatti, se non
fosse possibile introdurre nella coscienza tutto ciò
che riguarda proprio l’intimo più profondo dell’uomo, si dovrebbe concludere che l’uomo viene diretto e condotto da fili mossi da mondi sconosciuti, mondi la cui esistenza si può al più dedurre con
l’astrazione, ma di cui non si può mai fare l’esperienza. Colui invece che porta nella sua coscienza il
fenomeno, l’esperienza immediata della libertà nella sua pienezza, costui non può che respingere, nel
senso da me indicato, ogni risultato metafisico. Egli
sente il bisogno di conseguire come oggetto di osservazione, come possibile contenuto attuale della
mente, ciò che deve guidarlo nel più profondo del
suo essere. Una vera filosofia della libertà era per
me inseparabile da ciò che è espresso nel mio motto: ‹Realtà dell’anima osservate con metodo scientifico›. Il metodo di indagine, vale a dire, al quale la
scienza aveva imparato ad attenersi, andava esteso
anche a ciò che deve divenire il contenuto della vita spirituale dell’uomo». (Anthroposophie, ihre Erkenntniswurzeln und Lebensfrüchte, GA 78 (1968), p.46-7)
L’intento di questa prima parte del mio lavoro è di offrire
quegli elementi che meglio aiutano a comprendere l’opera
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di Steiner nella sua genesi e nel suo contesto storico. Mi
si perdoneranno perciò le lunghe citazioni di Steiner stesso: le sue parole sono di gran lunga l’aiuto più valido per
capire la Filosofia della libertà. Le idee mie proprie verranno
espresse maggiormente nella terza parte.
Eduard von Hartmann, terminata la lettura del libro,
scrisse sull’ultima pagina le sue impressioni generali.
«Eduard von Hartmann scrisse così: ‹Questo libro
non riesce a riconciliare né il fenomenalismo in sé
assoluto di Hume con quello fondato su Dio di
Berkeley, né peraltro questo fenomenalismo immanente o soggettivo col panlogismo trascendentale di
Hegel, e neppure il panlogismo hegeliano con l’individualismo di Goethe. Ognuno di questi binomi è
diviso da un abisso incolmabile. Soprattutto viene
qui dimenticato che il fenomenalismo porta con coerenza ineluttabile al solipsismo, all’illusionismo assoluto e all’agnosticismo. Nulla vien fatto per evitare lo scivolo nel baratro della non-filosofia, per il
semplice motivo che non se ne è avvertito il pericolo›. – Che cosa si propone la mia ‹Filosofia della libertà› nei confronti di ciò che Eduard von Hartmann crede di caratterizzare col suo giudizio? Il fenomenalismo assoluto, quale espresso nella filosofia
di Hume, risulta superato nel tentativo di definire il
pensare come una realtà che toglie all’immagine
sensibile del mondo il suo carattere fenomenale e
diviene manifestazione di un mondo oggettivo. Il
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fenomenalismo soggettivo di Berkeley perde in questa concezione la sua validità, perché viene mostrato
che nel pensare l’uomo si fa uno col mondo oggettivo, e non ha più senso dire che i fenomeni del
mondo non sono più presenti al di fuori del loro
venir percepiti. Diversamente dal panlogismo di
Hegel, il pensare viene concepito come il primo
membro delle facoltà conoscitive puramente spirituali dell’uomo, e non come l’ultimo membro della
coscienza comune, che si limita a riflettere concettualmente in pallide idee il contenuto sensibile del
mondo. L’individualismo di Goethe viene ulteriormente elaborato nell’intento di mostrare che si può
comprendere la libertà umana unicamente in una visione fondata sulla teoria della conoscenza propria
della ‹Filosofia della libertà›. Solo quando si riconosce l’essenzialità oggettiva del mondo delle idee e di
conseguenza si scopre l’unione animica dell’uomo
con le motivazioni etiche quale esperienza metasoggettiva, solo allora si può afferrare l’essenza della libertà. E proprio a questa comprensione conducono
le riflessioni del mio libro come al loro culmine».
(Philosophie und Anthroposophie, GA 35 (1965), p. 328-9)
Ci diviene ora chiaro quale influsso Hartmann abbia avuto sia sulla prima sia sulla seconda edizione della Filosofia
della libertà. Steiner non procede in modo isolato: si confronta col pensiero del suo tempo, ne vaglia le istanze, fa
riferimento alle critiche e ai fraintendimenti.
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Tra i 35 autori menzionati nel testo, Hartmann è di
gran lunga quello che ricorre più frequentemente. Meriterebbe uno studio a parte il confronto tra le annotazioni
marginali di Hartmann e le variazioni, spesso anche solo
di una parola, apportate da Steiner alla seconda edizione
rispetto alla prima. Un esame particolareggiato di queste
modificazioni non è qui possibile: richiederebbe un altro
volume. Può essere però giovevole, sulla base di pochi
esempi tipici, cogliere le caratteristiche comuni di queste
precisazioni.
Nel 3º capitolo (La conoscenza del mondo) leggiamo:
«Non un Dio personale di stampo umano, non Energia o Materia, non la Volontà cieca (di Schopenhauer) possono venir accettati come fattore unitario universale. Queste entità provengono ciascuna
da una singola sfera limitata della nostra osservazione. La personalità coi tratti della finitezza umana la
possiamo percepire solo in noi stessi, energia e materia nelle cose fuori di noi...». (Die Philosophie der
Freiheit, GA 4 (1978), p. 92)
Le parole da me lasciate non in corsivo sono state aggiunte
nella 2a edizione. Siamo tentati di chiederci se, togliendole,
il significato non cambi. Astrattamente parlando, potrebbe
cambiare notevolmente. Ma nel contesto del pensiero di
Steiner ciò non è il caso. Secondo lui, quando l’uomo parla
di personalità ha sempre davanti a sé, in un modo o in un
altro, la rappresentazione della personalità umana, che gli
proviene dalla percezione sensibile.
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Prendiamo un altro esempio della 2a parte (cap. X.:
«Filosofia della libertà e monismo»):
«...per lui l’ordinamento morale del mondo non è
né la copia di un ordine naturale puramente meccanico né quella di un ordinamento universale extraumano (di un governo del mondo da parte di Dio),
bensì opera esclusiva della libertà umana. L’uomo
non è chiamato a realizzare nel mondo la volontà
di un essere che è fuori di lui (di Dio), ma la sua propria...». (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978) p.179)
In questo caso è di estrema importanza tener conto di
quanto ho già detto precedentemente: Steiner parla di
Dio secondo il significato che lui ritiene (a torto o a ragione non è qui il punto importante) venga comunemente attribuito a questo termine, sia dalla filosofia, sia dalla
teologia del suo tempo. E quel significato è di un Dio «al
di là», inconoscibile, che si trova «oltre» e «al di fuori»
dell’uomo. Se teniamo conto di questo, comprendiamo il
rapporto fra le parole da me poste in tondo (che sono
della 2a edizione) e quelle messe fra parentesi (che erano
al loro posto nella prima). Questa problematica la riprenderò più per esteso nella terza parte: qui si trattava di dare
un’idea delle due edizioni della Filosofia della libertà, con le
modificazioni suggerite in buona parte dalle reazioni di
Hartmann, il cui «inconscio» è, esso pure, «oltre» l’uomo,
e mai direttamente conoscibile.
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5. Verità e scienza: preludio alla
Filosofia della libertà
Di particolare importanza per la comprensione della Filosofia della libertà è l’opera pubblicata da Steiner due anni
prima: Verità e scienza. Preludio a una filosofia della libertà. Si
tratta della sua tesi di laurea. In essa campeggiano due dei
massimi filosofi, entrambi fondamentali nella formazione
del pensiero di Steiner: Kant e Fichte. Le primissime
parole della prefazione suonano così:
«La filosofia attuale soffre di una funesta fede in
Kant. La presente opera vuol essere un contributo
al suo superamento». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3
(1958), p. 9)
Egli vede in Kant colui che più di tutti ha contribuito al
dualismo nella scienza, nella filosofia, nella teologia, imponendo il dogma della cosa in sé inconoscibile («oltre»,
«al di là» della conoscenza): ciò che noi conosciamo non
è la vera realtà ma solo le nostre rappresentazioni di essa.
L’origine del dogma kantiano sta nel fatto che egli ha
posto come fondamento del suo sistema, nonostante
l’apparenza «critica» di esso, dei presupposti che sono
veri preconcetti e pregiudizi mai messi in questione.
Steiner si propone due intenti fondamentali: il primo è
quello di partire da una teoria della conoscenza come
scienza fondante tutte le altre scienze. Il secondo è che
questa teoria non deve fondarsi su nessun presupposto o
pregiudizio inconsapevole che ne pregiudichi già in par58
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tenza il corso e l’esito. A tale scopo, è importante che il
modo stesso di formulare i quesiti fondamentali sia quello giusto.
La domanda che Kant pone a fondamento della sua
«Critica della ragion pura» è la seguente: come sono possibili
giudizi sintetici a priori? Solo mediante questi egli vede
possibile una scienza. Con questa domanda, però, egli
sancisce già due presupposti impliciti, e cioè che i giudizi
della conoscenza devono essere, primo: sintetici, secondo: a priori.
Il primo presupposto, diversamente dal secondo, è di
natura puramente formale. Dice solo che nessuna scienza
si può avere procedendo per tautologie, cioè per giudizi
(analitici) in cui il predicato non aggiunge nulla di nuovo
al soggetto. Pur essendo un dato elemento già implicito
nel soggetto, la sua esplicitazione deve costituire, per la
conoscenza umana, qualcosa di nuovo.
Non così per il secondo presupposto, quello del carattere a priori che devono avere i giudizi sintetici. Questo
presupposto è già il risultato di due affermazioni implicite, che vanno esaminate criticamente (cosa che Kant non
ha fatto). La prima affermazione dice: la vera conoscenza
dev’essere indipendente dall’esperienza (= a priori); la
seconda dice: l’esperienza non può offrire conoscenza
oggettiva.
«In questo modo sono contenuti nella problematica
kantiana due presupposti: in primo luogo, che noi
dobbiamo avere, oltre all’esperienza, un’altra via
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d’accesso alla conoscenza; in secondo luogo, che
ogni sapere tramite esperienza può avere solo una
validità condizionata. Kant non si rende affatto conto che questi asserti necessitano di un esame critico
e che possono esser messi in dubbio. Egli non fa
che recepirli come preconcetti dalla filosofia dogmatica, e li pone a fondamento della sua indagine critica». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 28)
Steiner prosegue con citazioni dalle opere di Kant, dalle
quali risulta chiaramente che la metafisica (nonché la
matematica e la scienza pura) non possono provenire
dall’esperienza, non potendo questa offrire una conoscenza certa e assoluta (Kant oppone «a priori» a «empirico», e usa empirico come sinonimo di esperienziale).
«Ma tutto ciò che viene inteso nella ‹Critica› si può
riassumere in questo: poiché la matematica e la
scienza pura sono delle scienze aprioristiche, ne segue che la forma di ogni esperienza deve fondarsi
nel soggetto. Per via empirica viene dato dunque unicamente il materiale delle sensazioni. Questo viene
elaborato a sistema esperienziale mediante le forme
presenti nell’animo. Le verità formali delle teorie
aprioristiche hanno senso e importanza unicamente
come principi che ordinano il materiale della sensazione: rendono possibile l’esperienza, ma non possono estendersi oltre ad essa. Ma queste verità formali sono appunto i giudizi sintetici a priori e in
qualità di prerequisiti di ogni possibile esperienza,
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non possono che essere ad essa coestensive. La Critica della ragion pura non dimostra dunque affatto
l’apriorità della matematica e della scienza pura, ma
ne definisce unicamente la sfera di validità partendo
dal presupposto che le loro verità debbano ottenersi
indipendentemente dall’esperienza». (Wahrheit und
Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 30)
Questo «presupposto» è dunque in realtà duplice: dice da
un lato che la matematica e la scienza pura non possono
andare oltre il campo delle percezioni empiriche (non
aggiungono nulla ad esse), e dall’altro che i loro contenuti
vengono prodotti a priori (indipendentemente dalle percezioni).
Qual è il risultato fondamentale di questo «apriorismo» kantiano? Che tutti gli oggetti della conoscenza
sono nostre rappresentazioni. Nella filosofia che ha fatto
seguito a Kant questo è divenuto un dogma intoccabile:
noi abbiamo conoscenza unicamente delle nostre rappresentazioni.
Questa affermazione, però, è già un atto di conoscenza, e non può esser posta là dove la conoscenza ha inizio.
Essa è il risultato di una serie di giudizi (Steiner segue qui
la sintesi che Hartmann ne ha fatto nella sua opera Il
problema fondamentale della teoria della conoscenza) condotti in
campo fisico, psicofisico, fisiologico e filosofico.
Il fisico ci dice che alle nostre sensazioni di suono, di
luce, di calore ecc. non corrisponde nulla fuori di noi che
sia simile ad esse: fuori di noi ci sono solo vibrazioni dei
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corpi e dell’aria. La teoria psicofisica delle energie sensorie specifiche sottolinea il fatto che, indipendentemente
dal fenomeno esterno a noi, ogni senso può reagire unicamente in base alla sua propria struttura particolare. Da
qui si tira la conclusione che fuori di noi ci siano solo
movimenti meccanici, e che la varietà sia operata dalla
diversità dei nostri organi di senso.
La fisiologia, poi, segue ciò che avviene all’interno del
nostro corpo, dallo stimolo esterno fino al cervello, e
fino alla sensazione (suono, luce, calore, ecc.) vera e propria. Anche qui si rileva che le sensazioni non hanno nessuna affinità con i processi nel cervello o nei nervi, che
ne sono alla base.
Le considerazioni filosofiche, infine, aggiungono che
ogni immagine del mondo esterno viene costruita dall’anima sulla base del materiale offerto dalle sensazioni:
queste sono per natura singole e incoerenti, ma l’anima le
ordina e le raggruppa in oggetti. La conclusione di Hartmann è: «Ciò che il soggetto percepisce sono dunque sempre e solo modificazioni del suo stato psichico, nient’altro». Steiner così prosegue:
«Chiediamo ora: come giungiamo noi a tale convinzione? Lo scheletro del ragionamento descritto
è il seguente: se un mondo esterno esiste, esso non
viene da noi percepito come tale, ma viene trasformato dalla nostra organizzazione in un mondo
di rappresentazioni. Si tratta qui di un presupposto
che, se seguito con coerenza, invalida se stesso.
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È allora in grado questo ragionamento di porsi a
fondamento di qualsiasi convinzione? Siamo noi autorizzati a considerare come contenuto soggettivo di
rappresentazioni l’immagine del mondo che ci è data, per il semplice motivo che la supposizione della
coscienza ingenua, se rigorosamente applicata, porta
a questa conclusione? Il nostro intento è proprio
quello di mostrare che questa supposizione è infondata. Resterebbe ancora l’eventualità che una teoria
falsa porti a dei risultati giusti: ciò non è impossibile.
Ma allora non si potrà affatto considerare quei risultati come dimostrati in base a quella teoria». (Wahrheit
und Wissenschaft), GA 3 (1958), p. 41)
La corrente kantiana può esser definita, secondo Steiner,
un razionalismo ingenuo. Essa dà per scontato che il
complesso processo conoscitivo che essa mette in opera
porti automaticamente a risultati validi. Ma non ha operato un’indagine critica sulle leggi del conoscere stesso. Le
considerazioni che conducono alla conclusione che ogni
conoscenza è rappresentazione non appartengono alla
teoria della conoscenza in quanto tale, ma presuppongono, ingenuamente, che il pensare, esercitato spontaneamente, porti a risultati certi.
A questo punto Steiner si dedica ad un’elaborazione
positiva della teoria della conoscenza (cap. IV.: «I punti di
partenza della conoscenza»).
«Stando alle considerazioni precedenti, all’inizio delle indagini sulla conoscenza bisogna escludere ciò
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che già appartiene al campo del conoscere. La conoscenza è qualcosa cui è l’uomo a dar vita: sorge mediante la sua attività. Se la teoria della conoscenza
vuol estendersi all’intero campo del conoscere per
chiarificarlo adeguatamente, deve prender l’avvio da
qualcosa che non è affatto toccato da questa attività,
e da cui essa riceve anzi la spinta iniziale. Ciò da cui
bisogna partire sta fuori del conoscere: non può esso
stesso esser già conoscenza. Va però ricercato immediatamente prima del conoscere, così che il primo passo successivo, a partire da esso, sia già attività conoscitiva. Il modo di determinare questo primo assoluto
dovrà allora essere tale che in esso non s’introduca
nulla che provenga già dal conoscere». (Wahrheit und
Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 45)
Questo punto di partenza non può essere che il dato
immediato che abbiamo di fronte a noi, senza alcuna
qualificazione, la quale proverrebbe già necessariamente
dal pensare. Dobbiamo (artificialmente, in quanto ciò
non avviene mai nella vita normale) tirare una linea di
demarcazione tra il dato e il conosciuto, togliendo al
dato tutte le caratteristiche che gli sono attribuite dal
conoscere.
È importante comprendere che questo requisito e le
riflessioni che lo esprimono hanno una funzione puramente negativa e metodica. Non esprimono contenuti
conoscitivi, ma indicano dove si trovi il punto a partire
dal quale la conoscenza ha inizio.
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Questo inizio esclude ogni possibilità di errore, la quale sorge non appena facciamo la pur minima affermazione sulla realtà. Ma qui noi ci poniamo appunto prima di
qualsiasi affermazione, cioè prima di qualsiasi atto di
conoscenza. La stessa denominazione di «dato immediato»,
conferita a questo punto di partenza, non vuol esprimere
un contenuto o una qualche definizione di esso, ma ha
essa pure lo scopo negativo e funzionale di indicare dove
si trovi l’inizio della conoscenza.
«Se la teoria della conoscenza parte dalla premessa
che tutto ciò che abbiamo ora descritto sia nostro
contenuto di coscienza, nasce subito la domanda:
come possiamo noi uscire dalla coscienza verso la
conoscenza dell’essere? Dov’è il trampolino che ci
faccia balzare dal soggettivo al meta-soggettivo?
Per noi la cosa si pone in modo del tutto diverso.
Per noi, sia la coscienza, sia la rappresentazione
dell’Io sono dapprima solo parti di ciò che è immediatamente dato, e il loro rapporto con esso si
ricava solo dal conoscere stesso. Non vogliamo definire il conoscere partendo dalla coscienza, ma al
contrario, vogliamo definire la coscienza e il rapporto tra soggettività e oggettività partendo dal
conoscere. Poiché lasciamo dapprima il dato senza
alcun predicato, dobbiamo chiedere: in quale modo possiamo mai dargli una determinazione? Come
è possibile cominciare col conoscere in un punto
qualsiasi? Come possiamo designare, per esempio,
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una parte dell’immagine del mondo come percezione, un’altra come concetto, una come essere,
l’altra come apparenza, questa come causa, quella
come effetto? Come possiamo separare noi stessi
da ciò che è oggettivo e definirci come ‹Io› di fronte al ‹non-Io›?
Dobbiamo trovare il ponte tra l’immagine del
mondo quale ci è data e quella che noi sviluppiamo
col nostro conoscere. Ma incontriamo qui la seguente difficoltà. Finché noi stiamo a fissare passivamente il dato, non troveremo in nessun luogo
un punto d’aggancio a cui collegarci e da cui poter
svolgere il filo del conoscere. Dovremmo trovare
in qualche luogo del dato il punto dove poter intervenire, dove c’è qualcosa di omogeneo al conoscere. Se tutto fosse davvero soltanto dato, dovremmo contentarci del semplice fissare il mondo
esterno e di fissare ugualmente il mondo della nostra individualità. Potremmo al più descrivere le cose
dal di fuori, ma mai capirle. l nostri concetti avrebbero un rapporto puramente estrinseco, non intrinseco, con ciò a cui si riferiscono. Per un vero
conoscere tutto dipende dal fatto che noi troviamo
in seno al dato un campo nel quale la nostra attività conoscitiva non si limita a presupporre a se stessa un dato, ma si colloca dentro al dato in modo
attivo. In altre parole, proprio attenendoci rigorosamente al puro dato deve risultare che non tutto è
tale. Il nostro requisito dev’essere tale che, restan66
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dovi del tutto fedeli, esso stesso si sospende parzialmente. L’abbiamo stabilito per evitarci di dare
alla gnoseologia un inizio arbitrario, e per cercare
invece quello vero. Nel significato da noi inteso,
tutto può farsi ‹dato›, anche ciò che nella sua intima
natura è non-dato. Questo ci si presenta allora come
dato solo formalmente, ma ad un’indagine più profonda si palesa da sé per ciò che è realmente.
Tutta la difficoltà nel comprendere il conoscere
risiede nel fatto che noi non produciamo da noi
stessi il contenuto del mondo. Se lo facessimo, il
conoscere non esisterebbe affatto. Una cosa può
far sorgere in me una domanda solo in quanto mi è
‹data›. A ciò che io produco, sono io stesso a conferire le determinazioni, e non ho da chiedermi se
siano giustificate o no». (Wahrheit und Wissenschaft,
GA 3 (1958), p. 51-3)
Nessun dato può presentare un aspetto che non ha. Viceversa, è possibile a un dato nascondere un aspetto che
ha. E questo avviene al punto di partenza della conoscenza: nel mondo del dato immediato ci dev’essere qualcosa che è più che dato. Questo requisito indispensabile
ha il carattere di un postulato: non esprime un contenuto
conoscitivo vero e proprio, ma indica la condizione indispensabile perché la conoscenza sia possibile. Infatti, se
tutto ciò che è dato fosse unicamente e puramente dato,
la conoscenza non sarebbe possibile: avremmo, l’uno di
fronte all’altro, due campi eterogenei, senza mediazione.
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Ciò che non è puramente dato non può essere che
prodotto da noi. Ma questo produrre deve rivestire lo
stesso carattere di immediatezza del dato. Volendoci
esprimere paradossalmente: la sua qualità di non purodato dev’esserci «data» direttamente e immediatamente.
Ciò non avviene per le percezioni sensibili: il loro essere
dato è risultato di riflessione conoscitiva. Avviene invece
per i concetti e per le idee: questi sono dati solo in quanto sono «dati» da noi, cioè da noi prodotti. Sorgono in
noi in forma di evidenza intellettuale o di contemplazione
intuitiva. Essi non possono essere delle vuote forme che
ricevono contenuto solo dalla percezione.
Se da un lato la possibilità della conoscenza richiede che
il dato venga scisso in dato puro e dato prodotto, dall’altro
lato l’esercizio della conoscenza sta proprio nel ricomporre
in unità ciò che è stato scisso. Nel pensare creiamo la sintesi tra il dato e ciò che noi stessi produciamo.
Il pensare, in se stesso, è un’attività, e ne possiamo
parlare solo per via descrittiva. Ogni giudizio sul pensare
si riferisce non al pensare in quanto tale, ma al suo rapporto con l’altro da sé, cioè al dato. Questo rapporto si
svolge nel modo seguente:
«Col pensare si estraggono dapprima certi elementi
singoli dall’insieme del mondo: nel dato non esiste
infatti nessun elemento singolo, ma tutto è collegato in un continuo unico. Il pensare mette ora questi elementi isolati in rapporto gli uni con gli altri,
seguendo le forme da esso prodotte, e stabilisce in-
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fine che cosa risulti da quel rapporto. Il fatto che il
pensare stabilisca un rapporto tra due elementi separati dal contenuto del mondo, non comporta affatto che esso decida sulla loro realtà in base alla
propria. Non fa appunto che aspettare e vedere
cosa risulti dal rapporto stesso una volta stabilito.
Solo questo risultato è una conoscenza circa gli elementi del mondo in questione. Se fosse nella natura del mondo di non dire nulla su di sé in base a
quel rapporto, allora l’esperimento conoscitivo fallirebbe e se ne dovrebbe fare un altro. Tutte le cognizioni si fondano sul fatto che l’uomo pone due
o più elementi della realtà in giusto rapporto fra loro e comprende ciò che ne risulta». (Wahrheit und
Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 60)
Kant, invece di vedere nell’attività pensante un processo
che prepara o rende possibile il manifestarsi delle leggi
naturali, vi ha visto un processo che le produce a priori. Il
pensare sceglie e pone uno di fronte all’altro due elementi
della realtà che hanno qualcosa da dire l’uno sull’altro.
Ma non è esso a decidere che cosa essi diranno. Questo
contenuto deve venire esso stesso dato: il pensare lo riceve dai due elementi nel loro rapporto reciproco. Il rapporto come tale (il mettere a confronto) è dunque operato dal
pensare. Il contenuto di tale rapporto è dato dalla natura
degli elementi messi a confronto.
Nella conoscenza scientifica delle leggi naturali, il
pensare svolge un’attività solo formale. Il concetto di
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«causalità», per esempio, può essere prodotto solo dal
pensiero, ma si tratta appunto di una forma di pensiero.
Che il dato A sia in rapporto di causa-effetto col dato B,
questo non lo può decidere il pensiero, ma solo la natura
di A e B. I giudizi a priori di Kant non esprimono dunque alcun contenuto o qualità del reale. Possono solo
definirsi postulati: prerequisiti e condizioni di possibilità della
conoscenza, ma non contenuti dell’atto conoscitivo stesso, perché questi provengono non dal pensare, ma dal
suo incontro col dato. Non basta che io conosca le leggi
del mio pensiero (i postulati kantiani) per conoscere ciò
che è fuori di me.
«Il pensare non dice nulla a priori sul dato, ma
provvede le forme in base alle quali le leggi dei fenomeni si manifestano a posteriori». (Wahrheit und
Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 63)
Le leggi naturali provengono dunque dal dato: sono ciò
che costituisce e definisce il rapporto tra fenomeni. Ci si
potrebbe chiedere: perché mai c’è bisogno del pensiero
affinché avvenga il confronto tra i fenomeni? Se i fenomeni, nel loro presentarsi, manifestassero tutto di sé,
senza nascondere nulla, non ci sarebbe bisogno di conoscenza. Questa avviene perché il fenomeno si presenta
nascondendo un aspetto di sé che solo l’attività pensante
fa venire alla luce. Il dato, nella sua immediatezza, contiene qualcosa che ancora non compare. In altre parole:
ciò che il dato offre prima dell’attività pensante non è la
sua totalità.
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Dato e concetto: essi vengono separati nell’atto della
conoscenza (che corrisponde alla natura dell’uomo); ma
si trovano uniti nella realtà. Il contenuto del concetto è
dunque parte del dato stesso. L’uomo riceve da due fonti
distinte due aspetti di una realtà unitaria. La separazione
fra dato e concetto ha il suo fondamento in noi; la loro
riunificazione ha il suo fondamento nella realtà.
«Se nel contenuto del mondo il contenuto di pensiero fosse già in partenza unito al dato, non ci sarebbe il conoscere, perché non potrebbe sorgere in
nessun luogo il bisogno di andare oltre il dato. Se
d’altra parte noi producessimo col pensare e nel
pensare stesso tutto il contenuto del mondo, neppure vi sarebbe il conoscere, perché ciò che produciamo noi stessi non abbiamo bisogno di conoscerlo. Il conoscere si fonda dunque sul fatto che il
contenuto del mondo ci viene originariamente dato in una forma che è incompleta e non lo contiene nella sua interezza, ma ha ancora un secondo lato essenziale, oltre a quello che presenta immediatamente. Questo secondo lato, originariamente non
dato, del contenuto del mondo, viene scoperto dalla conoscenza. Ciò che a noi si presenta separato
nel pensare non sono dunque forme vuote, bensì
una somma di determinazioni (categorie) che però
sono forma per il rimanente contenuto del mondo.
Solo quell’aspetto del contenuto del mondo che si ottiene mediante la conoscenza, nel quale entrambi i suoi lati descritti
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vengono unificati, può chiamarsi realtà». (Wahrheit und
Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 65-7)
Nell’ultima parte di Verità e scienza (cap. VI-VIII) Steiner
prende in esame la teoria della scienza di Fichte. Dall’idea
della conoscenza in quanto tale, elaborata fin qui, egli
volge ora lo sguardo al soggetto conoscente, cioè alla
coscienza umana, all’Io.
È l’Io che sente il bisogno di andare oltre il dato immediato per scoprire il lato dapprima celato. È l’Io che
con attività libera riunisce di nuovo ciò che ha avuto separatamente dai sensi e dal pensiero.
Riflettendo sulla natura della propria conoscenza,
l’Io comprende che quei due momenti (la separazione e
la riunificazione) sono funzioni della coscienza umana
stessa. La separazione in dato e concetto si manifesta
cioè come artificiale, destinata a venir di nuovo superata.
«Qui c’è una differenza fondamentale tra il modo
in cui, nell’oggetto della coscienza umana stessa,
concetto e dato immediato si mostrano uniti a
formare la realtà totale, e il modo che vale invece
per tutto il resto del contenuto del mondo. Per ogni
altro elemento del mondo dobbiamo pensare che
l’unione è la realtà originaria, necessaria fin dal
principio, e che solo all’inizio del conoscere e in vista della conoscenza è subentrata una separazione artificiale, che però viene infine di nuovo superata
mediante il conoscere, in conformità con l’essenza
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originaria dell’essere oggettivo. Per la coscienza
umana le cose stanno altrimenti. Qui l’unificazione
avviene unicamente se è la coscienza ad effettuarla
con la sua attività reale. Per ogni altro oggetto la
separazione non ha alcun significato per l’oggetto
stesso, ma lo ha solo per il conoscere: qui l’unione
è la realtà prima, la separazione è derivata. Il conoscere opera la separazione solo perché, nel suo
modo di procedere, non può impadronirsi dell’unione che dopo aver prima separato. Diversamente, il concetto e la realtà data della coscienza sono
originariamente separati, e la congiunzione è la realtà derivata, e ciò fa sì che il conoscere sia come noi
l’abbiamo descritto. Poiché nella coscienza idea e
dato si presentano necessariamente separati, l’intera realtà si scinde per essa in questi due lati; e
poiché la coscienza può operare l’unione dei due
unicamente con la propria attività, può giungere alla piena realtà solamente con l’attuazione dell’atto
conoscitivo. Le altre categorie (idee) sarebbero
necessariamente connesse con le forme corrispondenti del dato anche nel caso in cui non venissero assunte nella conoscenza. L’idea del conoscere invece può venir congiunta col suo dato
corrispondente solo mediante l’attività della coscienza. Una coscienza reale esiste unicamente quando essa attua se stessa». (Wahrheit und Wissenschaft,
GA 3 (1958), p. 67-8)
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Fichte, invece di partire dall’idea del conoscere, è partito
dall’idea dell’Io. Concepito come inizio assoluto, come
libertà assoluta, l’Io non può porre che se stesso. Ma questo porre se stesso rimane senza contenuto. Bisogna
chiedersi: che cosa pone l’Io ponendo se stesso? L’oggetto
di questa attività assoluta del porre, Fichte non l’ha mai
chiarito. Egli fa iniziare l’Io con una decisione libera, con
un atto assoluto: ma quale atto?
Se Fichte fosse invece partito dall’idea del conoscere,
gli sarebbe stato più facile comprendere che l’Io pone il
conoscere. In quanto io conoscente egli attua appunto il
processo del conoscere quale descritto sopra. Egli non ha
tenuto conto che nella teoria della conoscenza (da lui
chiamata «teoria della scienza»: Wissenschaftslehre) non
si tratta specificamente dell’uomo in quanto attore libero,
ma in quanto soggetto conoscente. Volendo rendere assoluta la libertà dell’Io, Fichte gli ha tagliato ogni ponte
verso l’altro da sé.
Ciò che Fichte dice dell’Io va allora detto del pensare.
L’io è esso pure uno degli oggetti del conoscere, e
l’attività conoscitiva può ricongiungere, come fa per ogni
altro oggetto, anche per l’Io il dato col suo concetto.
Qual è allora il concetto dell’Io? L’io è quell’elemento del
mondo che produce il conoscere.
Ogni giudizio unisce due elementi, ma in modo condizionale: posto il primo, si ha anche il secondo. Ma questa
condizionatezza, secondo Fichte, non deve valere per l’Io,
perché è lui che pone il primo elemento di ogni giudizio.
L’io non può dunque porre se stesso che in modo assoluto.
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Steiner rispose a Fichte in questo modo:
«Insomma: il porre deve avere un contenuto. Ma
questo contenuto non lo può prendere da se stesso, perché allora non potrebbe far altro che porre
eternamente il porre. Ci dev’essere perciò per il
porre, per l’attività assoluta dell’Io, qualcosa che
mediante essa viene realizzato. Senza che l’Io afferri un certo dato, che egli pone, non può porre «nulla» del tutto, e perciò non può porre. Ciò risulta anche dalla proposizione di Fichte: l’Io pone il proprio essere. Questo essere è una categoria. E ciò ci
riporta alla nostra affermazione: l’attività dell’Io
consiste nel fatto che esso pone, con propria libera
decisione, i concetti e le idee del dato. Fichte giunge alla sua conclusione solo perché si propone inconsciamente di dimostrare che l’Io è ‹essente›. Se
avesse sviluppato il concetto del conoscere, sarebbe giunto al vero punto di partenza della teoria della conoscenza: l’Io pone il conoscere». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 74-5)
Conseguenza inevitabile dell’assolutizzazione dell’Io è
che Fichte fa dell’Io il creatore di tutti gli esseri, anzi, ne
fa la sola vera realtà perché, in assenza di una teoria del
conoscere, l’Io non può mai esser fatto uscire da se stesso.
Steiner così annuncia la Filosofia della libertà, di cui Verità e scienza è concepita come un preludio:
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«Il fatto che l’Io possa mettersi in attività mediante
la libertà, gli dà la possibilità di attuare dal proprio
essere, per autodeterminazione, la categoria del
conoscere, mentre nel resto del mondo le categorie
si mostrano connesse secondo necessità oggettiva
col dato a loro corrispondente. L’investigazione
dell’essenza dell’autodeterminazione libera sarà il
compito di una metafisica e di un’etica fondate sulla nostra teoria della conoscenza. Queste ultime
dovranno anche trattare la questione se l’Io sia o
no in grado di attuare anche altre idee oltre a quella
del conoscere. Che l’attuazione del conoscere avvenga attraverso la libertà, risulta chiaramente dalle
osservazioni gia fatte sopra. Infatti, se il dato immediato e la corrispondente forma del pensare
vengono congiunti dall’Io nel processo cognitivo,
l’unificazione dei due elementi della realtà, che altrimenti rimangono sempre separati nella coscienza, può avvenire unicamente mediante un atto
della libertà». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3 (1958),
p. 79-80)
La teoria della conoscenza dev’essere dunque un’indagine
sul conoscere stesso, sull’atto della conoscenza. Se parte
dall’Io (idealismo) presuppone già il pensare in ciò che dice
sull’Io. Se parte dalla «cosa in sé» (dogmatismo) presuppone
già ugualmente il conoscere. Se parte dal dubbio (scetticismo) presuppone già l’esercizio della conoscenza (si può
dubitare solo pensando). Partendo dall’atto cognitivo,
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invece, si giunge ad una sintesi armoniosa dell’empirismo (il
contenuto del dato deve venire dal dato stesso) e del
razionalismo (il pensare è il solo e necessario mediatore
della conoscenza).
Il nostro io in quanto originatore di attività è uno degli oggetti della conoscenza e viene esso pure conosciuto
col processo conoscitivo quale descritto. Il dato dell’Io lo
percepiamo con i sensi; il concetto dell’Io deve venire dal
pensare. Se il concetto dell’Io è quello dell’essere che
pone il conoscere, la realtà dell’Io è quella dell’essere che
può agire in base a conoscenza, cioè liberamente, in
quanto fa sua, mediante il pensare, la legge del proprio
agire.
Questi ultimi due paragrafi (che riassumono i due ultimi brevi capitoli di Verità e scienza) anticipano già rispettivamente la prima e la seconda parte della Filosofia della
libertà. È giunto ora il momento di dedicarci esclusivamente al contenuto di quest’opera fondamentale di Steiner. Nella seconda parte del mio lavoro, che ora segue,
intendo offrirne un’esposizione il più fedele e oggettiva
possibile. Le rare osservazioni che provengono da me
sono messe in nota, e riguardano per lo più la traduzione
italiana di alcuni termini importanti.
Trattandosi di una «sintesi» del contenuto del libro,
bisogna tener presente che sarà inevitabile, in molti punti,
l’impressione di uno scorrere piuttosto veloce, che può
sembrar giungere troppo presto a conclusioni non provate. Queste difficoltà invitano a rivolgersi al testo stesso di
Steiner nella sua interezza (e possibilmente nell’origina77
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le!). Inoltre, la sintesi che io qui propongo, rappresenta la
mia comprensione del testo, che si manifesta necessariamente nel modo di esporre, di sottolineare o di omettere.
Si tratta di un incontro di due orizzonti. Ciò avviene in
ogni studio fatto sul pensiero di un’altra persona.
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II. ANALISI
IL CONTENUTO DELLA
FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ
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PRIMA PARTE:
SCIENZA DELLA LIBERTÀ
1. L’agente umano cosciente
È l’uomo, nel suo pensare e agire, un essere spiritualmente libero, oppure soggiace a un ferreo determinismo di
leggi naturali? Questa domanda, così fondamentale nella
vita di ogni uomo, ha trovato risposte contrastanti. Gli
uni non capiscono come si faccia a negare la libertà, gli
altri come si faccia ad affermarla.
Buona parte della filosofia, fondandosi sulla scienza,
nega la libertà dell’uomo in quanto non può comprendere come il determinismo, che vige in tutta la natura, possa
venir sospeso nel caso dell’uomo. Concepisce la libertà
come la capacità di scegliere arbitrariamente tra due azioni, e mostra come vi sia sempre un motivo che ci spinge
verso l’una o verso l’altra, per dedurne che il libero arbitrio non esiste.
Eppure, quasi tutti i negatori della libertà si riferiscono
proprio a questa libertà di scelta. Spencer la definisce: il
poter a piacere desiderare o non desiderare, e trova facile
concludere che questa «libertà» non esiste.
Spinoza ha espresso più chiaramente di tutti questa
confutazione della libertà. Egli chiama libero l’essere che
segue la necessità della propria natura, e costretto quello
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che è determinato da esseri fuori di lui. Da questa definizione deduce che libero può essere solo Dio, mentre
tutte le altre creature sono costrette, poiché dipendono
da cause ad esse esterne. Gli uomini si illudono di essere
liberi in quanto hanno conoscenza di ciò che li determina. Poiché il desiderio di una cosa è più forte di quello di
un’altra, pensano di essere loro stessi a volere l’una più
dell’altra, e non capiscono che è invece il desiderio stesso
a determinarli.
Lo sbaglio di Spinoza sta nel fatto di non aver visto
che l’uomo non solo ha coscienza del proprio agire, ma
anche delle cause da cui è guidato. Ciò che fa il bambino,
o l’ubriaco, non può mettersi sullo stesso piano di ciò che
fa un uomo in piena coscienza, sapendo non solo che
cosa fa ma anche perché lo fa. C’è una differenza fondamentale tra un’azione che io compio senza sapere perché,
e un’altra che faccio a ragion veduta. La domanda da
porre è allora questa: un motivo dell’agire, di cui io sono
conscio, esercita su di me lo stesso tipo di costrizione di
un processo organico, quale quello che spinge il bambino
a volere il latte?
Eduard von Hartmann fa dipendere il volere umano
dai motivi e dal carattere. I primi determinano l’uomo dal
di fuori, il secondo dal di dentro. Uno stesso motivo
suscita un’eco diversa in diversi caratteri, ma ciò non vuol
dire che gli uomini sono liberi: caratteri diversi necessitano
in modi diversi, e ognuno, nella sua particolare risposta
agli stimoli esterni, è determinato dal proprio carattere.
Anche qui, dunque, non si distingue tra motivi che sono
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stati compenetrati dalla coscienza, e quelli che io seguo
senza averne una chiara conoscenza.
La domanda sulla libertà non può separarsi da quella
sulla coscienza.
«Se c’è una differenza tra un motivo cosciente del
mio agire e un impulso inconscio, allora il primo
comporterà anche un’azione che va giudicata diversamente da una che deriva da una spinta cieca.
La questione di questa differenza è dunque la prima da affrontare. Dal suo esito dipenderà il nostro
modo di porci di fronte al problema vero e proprio
della libertà.
Cosa vuol dire avere conoscenza dei motivi del
proprio agire? Questa domanda è stata troppo trascurata, per il fatto che si è purtroppo sempre scisso in due parti ciò che è un tutto indivisibile:
l’uomo. Si è distinto l’uomo agente dall’uomo conoscente, e non si è badato a ciò che è più importante di tutto: l’uomo che agisce in base a conoscenza». (p. 21)
Non basta dire che la libertà consiste nel seguire la signoria
della propria ragione, oppure nell’agire secondo scopi.
Bisogna vedere se la ragione e gli scopi esercitano o no lo
stesso tipo di costrizione degli istinti animali. Se una decisione ragionevole sorge in me allo stesso modo della fame
e della sete, non posso che esser costretto a seguirla.
Hamerling dice: la libertà non consiste nel poter volere ciò che si vuole, ma nel poterlo fare. Il volere, secondo
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lui, è determinato dai motivi. Volere senza motivo vorrebbe dire volere senza volere. E se il motivo c’è di volere una cosa piuttosto che un’altra, allora è il motivo a
decidere, non il volere: quest’ultimo è determinato dal più
forte dei motivi. Qui di nuovo si parla di motivi in genere, senza distinguere tra motivi consci e inconsci. Se il più
forte dei motivi esercita su di me una coercizione, cosa
può importarmi se io posso o no fare ciò che sono costretto a volere? Se anzi la mia mente non approva ciò
che sono necessitato a volere, sarò più contento se non
mi è possibile farlo.
«Ciò che importa non è se io possa eseguire una
decisione presa, ma in quale modo sorge in me la decisione». (p. 23)
L’agire l’uomo ce l’ha in comune con l’animale. Se cerchiamo ciò che è specifico dell’azione umana non dobbiamo rivolgerci alle analogie col comportamento animale. Ciò che è specifico dell’uomo è il pensare: egli solo
può aver coscienza delle ragioni del proprio agire.
«È del tutto evidente che non può essere libera
un’azione che il suo autore compie senza sapere
perché. Cosa dire invece di un’azione di cui si conoscono i motivi? Ciò ci porta alla domanda: qual
è l’origine e il significato del pensare? Infatti, senza
la conoscenza dell’attività pensante dell’anima non è
possibile avere un concetto di cosa sia conoscere
qualcosa, perciò anche conoscere un’azione. Ve-
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nendo a sapere cosa significa in generale il pensare,
sarà anche facile vedere chiaramente quale sia la
funzione del pensare nell’agire umano». (p. 24-5).
Non tutte le azioni umane sono illuminate dal conscio
pensare, né sono veramente umane solo queste. Il fattore
del pensiero è però presente in vari gradi in tutte le azioni
umane. Anche là dove diciamo che è il cuore a guidarci,
si tratta in effetti di realtà che il pensare ha afferrato, e
solo per questo il cuore si muove. L’amore si fonda sulla
rappresentazione che ci formiamo dell’essere amato.
Quando si dice che l’amore è cieco per i difetti dell’amato, si tratta in realtà del contrario: esso rende percettivi
delle sue qualità, e perciò si accende dentro di noi.
«Possiamo considerare la cosa come ci pare: ci deve risultare sempre più chiaro che la questione circa l’essenza dell’agire umano presuppone l’altra
circa l’origine del pensare. Mi dedico perciò innanzitutto a questo problema» (p. 26).
2. La sete innata di conoscenza
L’uomo pensa. La presenza del pensare è la prima cosa
che deve attirare la nostra attenzione. Le cose che osserviamo fanno sorgere in noi delle domande. Ciò che i
sensi ci offrono non ci basta. Vogliamo capire, chiediamo
una spiegazione, cerchiamo il perché.
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Il pensiero ci pone di fronte al mondo, ci rende consapevoli della nostra «diversità» rispetto ad esso. Diventiamo consci di noi stessi come distinti dalla natura. E
d’altro canto, sappiamo di non essere fuori dal mondo,
ma di esserne parte.
«Erigiamo questa parete divisoria tra noi e il mondo
non appena si accende in noi la coscienza. Ma non
ci viene mai meno la viva sensazione della nostra
appartenenza al mondo. Avvertiamo che c’è un legame che ci tiene uniti ad esso, e che non siamo un
essere fuori, bensì dentro l’universo». (p. 28)
Nasce così in noi la domanda sul rapporto tra noi e il
mondo. Perché ripetiamo nel nostro pensiero ciò che si
svolge fuori di noi? Perché solo conoscendo e comprendendo siamo paghi, e ci sentiamo in unità col mondo
esterno?
Il problema del rapporto io-mondo ha occupato da
sempre la mente umana. Le soluzioni proposte oscillano
ora dalla parte dell’Io, ora dalla parte del mondo. L’uomo
vuole da una parte imprimere al mondo il proprio contenuto di pensiero (mediante la scienza, l’arte, la religione)
e dall’altra vuol fare del contenuto del mondo la ricchezza del proprio io. Questa perenne tensione tra l’Io e il
mondo ha portato al sorgere di due concezioni del reale
tra loro opposte: il monismo e il dualismo. Il dualismo,
nelle sue varie forme, dà per oggettiva la distinzione tra
io e mondo, vedendovi un’opposizione reale. Ricerca allora in vari modi la ricomposizione, l’unità perduta, senza
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giungere a soluzioni soddisfacenti. Opponendo in modo
radicale spirito e materia, non si vede come l’uno possa
«entrare» nell’altro.
Il monismo crede di trovare una soluzione o riducendo tutto a materia (materialismo) oppure ritenendo reale
solo lo spirito (spiritualismo), oppure ancora vedendo
spirito e materia congiunti già fin nell’essere del minerale.
Il materialismo considera reale solo la materia, e vede
nel pensare un prodotto della materia stessa. Tra i tanti
processi della materia c’è anche il suo produrre pensieri,
ma questo processo non è qualitativamente diverso dalle
altre sue manifestazioni. Questo ragionamento, però,
invece di risolvere il nostro problema, non fa che spostarlo altrove. Attribuendo il pensare alla materia, anziché allo spirito, non ci dice come mai la materia si ponga (pensando) quesiti sul mondo (cioè su se stessa, se il
mondo è materia), operando così in sé una certa «scissione».
Lo spiritualismo unilaterale, al contrario, tende a negare la realtà autonoma della natura, e a considerare come
reale solo l’Io pensante, da cui tutto procede. Reale, in
questa visuale, è solo ciò che è spirituale.
«Quando l’uomo rivolge la conoscenza all’‹Io›, coglie dapprima l’attività di questo Io nell’elaborazione pensante del mondo delle idee. Per questo motivo, una visione di tendenza spiritualistica può
sentirsi tentata, nel considerare la propria entità
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umana, di riconoscere dello spirituale unicamente
questo mondo delle idee. È così che lo spiritualismo si riduce a idealismo unilaterale. Non gli riesce
di esplorare, attraverso il mondo delle idee, un mondo spirituale: identifica il mondo stesso delle idee
con il mondo spirituale. Ciò lo costringe, con la sua
concezione del mondo, a rimanere come trasognato nell’ambito dell’attività stessa dell’Io». (p. 32)
Ma anche qui è chiaro il disagio, perché il mondo materiale non si lascia negare arbitrariamente: si impone alla
nostra esperienza quotidiana nella sua realtà e autonomia.
Nessun pensiero ha mai direttamente «prodotto» un oggetto materiale.
La terza ipotesi, che vede già congiunti in ogni atomo
spirito e materia, non ci dice perché l’essere più elementare, invece di esprimersi unitariamente (essendo unità
indivisa) si esprima in modo duplice, cioè come materia e
come spirito.
Dobbiamo ora riflettere: se da una parte noi col pensiero distinguiamo noi stessi dalla natura, non è d’altra
parte vero che noi apparteniamo ad essa? Noi non possiamo «toglierci» dal mondo. Siamo in esso e parte di
esso. Il modo migliore per comprendere il rapporto fra io
e natura, sarà allora di capire se e in che modo c’è in noi
qualcosa che non è semplicemente «Io» (in quanto distinto
dalla natura) e che precede questa distinzione. Se la natura è solo fuori di noi («di fronte» all’Io che pensa) come
potremo comprenderla, come potremo farla entrare den-
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tro di noi? Solo se essa è già dentro di noi (se c’è in noi
qualcosa che appartiene alla natura) potremo adeguatamente conoscerla.
«Per quanto sia vero che noi ci siamo estraniati dalla natura, resta altrettanto vero il nostro sentimento di essere in lei e di appartenerle. Ciò che vive in
noi non può essere che il suo stesso operare.
Dobbiamo ritrovare il sentiero che conduce a
lei. Una semplice riflessione ce lo può indicare: se
noi ci siamo staccati dalla natura, dobbiamo pur
averne assunto qualcosa nel nostro essere. Dobbiamo allora ricercare questo essere naturale in noi,
e ritroveremo così la reciproca appartenenza. È
proprio questo che il dualismo non fa. Considera
l’interiorità dell’uomo come un essere spirituale del
tutto estraneo alla natura, e cerca una qualche giuntura con essa. Né fa meraviglia che non trovi il legame che cerca. Possiamo trovare la natura fuori di
noi solo a condizione di saperla prima conoscere
dentro di noi. Ciò che, nel nostro essere, le è affine
deve farci da guida. ...
La soluzione dell’enigma ce la deve dare l’indagine del nostro essere. Dobbiamo giungere ad un
punto in cui potremo dire: qui non siamo più esclusivamente ‹Io›, qui c’è qualcosa che è più che ‹Io›».
(p. 33-4)
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3. Il pensare quale strumento della conoscenza
Io accompagno ogni processo che osservo con un processo interno di pensiero, fatto di concetti e di rapporti
fra concetti. Non mi accontento di vedere una palla da
biliardo muoversi verso un’altra, urtarla, così che la seconda pure si metta in moto. Dentro di me sorgono concetti come «movimento», «velocità», «traiettoria», «durezza», «distanza», «urto»... e solo quando stabilisco il giusto
rapporto tra questi concetti sono soddisfatto, perché so
di aver «capito» ciò che i miei occhi hanno osservato. La
differenza che c’è tra prima di aver capito e dopo è grandissima.
«L’osservazione e il pensare sono i due punti di partenza di ogni intento spirituale dell’uomo, nella misura in cui egli ne è cosciente. Tanto le attività del
comune intelletto umano quanto le indagini scientifiche più ingarbugliate riposano su questi due pilastri del nostro spirito. I filosofi hanno preso
l’avvio da svariate antitesi originarie: idea e realtà,
soggetto e oggetto, fenomeno e cosa in sé, Io e
non-Io, idea e volontà, concetto e materia, energia
e materia, conscio e inconscio. È facile invece mostrare che tutte queste antitesi devono esser precedute da quella di osservazione e pensare, come quella
che è per l’uomo la più importante». (p. 38)
Osservazione e pensiero sono, per noi, i due soli modi di
rapporto con la realtà. Tutto ciò che viene in contatto
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con noi, deve essere oggetto o di osservazione o di pensiero. L’atto di volontà, si dirà, non è né osservazione, né
pensiero. Eppure, noi non possiamo saperne nulla, all’infuori di ciò che, di esso, ci giunge tramite l’osservazione e
il pensare. Lo stesso vale per il digerire e per ogni altra
cosa (i processi della digestione che noi «immaginiamo»
senza poterli osservare, devono essere o osservabili con
strumenti adatti, oppure pensabili: una terza possibilità
non esiste)1.
Ciò che osservo lo trovo già fatto, già precostituito. Il
pensare invece viene prodotto da me. Nel pensiero non
osservo nuovi processi o oggetti, ma stabilisco rapporti
tra processi e oggetti osservati. Non posso mai «trovare»
il pensare attuale, posso solo esercitarlo, cioè produrlo io
stesso.
Anche il pensare può diventare oggetto di osservazione, ma non allo stesso modo di tutti gli altri oggetti osservati. Questi sono già presenti prima che io li osservi e vi
pensi sopra. Per il pensare non è così: perché sia accessibile all’osservazione (in questo caso interna) lo devo prima
produrre, cioè lo devo prima pensare, e solo in un secondo
momento, osservandolo, posso pensarci sopra.
Questo fatto distingue essenzialmente il pensare da
ogni altra cosa: esso è l’elemento inosservato che accompagna ogni mia osservazione. Passa inosservato, proprio
perché è prodotto da me stesso. Solo il pensare si fonda
Ciò presuppone un concetto ampliato di osservazione, o percezione,
che Steiner preciserà in seguito, intendendo per osservazione tutto
ciò che non è pensare.
1
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sulla mia propria attività: tutto il resto lo posso osservare
o percepire in quanto esiste senza di me.
Anche il sentimento, si obietterà, dev’essere prima
prodotto in me, perché io lo possa far oggetto di osservazione e di pensiero. Sì, prodotto in me, ma non da me.
Infatti, il sentimento viene suscitato in me da qualche
processo o oggetto osservato e pensato. Il pensare, invece, e il concetto da esso prodotto, non viene «suscitato»
in me dall’oggetto osservato, poiché non è un effetto ma
un esercizio, un’attività originaria, e cioè appunto la mia
propria. Ciò spiega che il concetto di un oggetto osservato non dice niente riguardo a me: il pensare è un’attività
rivolta unicamente all’oggetto, e non al soggetto pensante. Certo, si può pensare anche sul soggetto pensante, ma
unicamente rendendolo «oggetto» del pensiero come ogni
altra cosa.2
«Quando vedo un oggetto nel quale riconosco un
tavolo, non dico di solito: ‹io penso circa un tavolo›, ma dico: ‹questo è un tavolo›. Al contrario dirò:
‹questo tavolo mi piace›. Nel primo caso non intendo affatto indicare un rapporto tra me e il tavolo; nel secondo caso si tratta invece proprio di questo rapporto. Dicendo: ‹io penso a un tavolo› mi
pongo già in quello stato d’eccezione descritto
prima che rende oggetto dell’osservazione qualcosa
2 Più avanti Steiner fa osservare come i concetti di «soggetto» e «oggetto» provengano entrambi dal pensare stesso il quale, come tale, è
oltre il soggetto e l’oggetto.
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che è sempre contenuto nella nostra attività spirituale, benché non come oggetto osservato.
Proprio questa è la natura specifica del pensare: che il pensante disattende il pensare mentre lo
esercita. Non è il pensare ad attirare la sua attenzione, bensì l’oggetto del pensare che egli sta osservando.
La prima osservazione che facciamo circa il
pensare è perciò questa: esso costituisce l’elemento
inosservato della nostra ordinaria attività spirituale»
(p. 42)
Io non posso mai fare oggetto di osservazione il mio
pensare nel mentre lo creo, cioè mentre lo esercito e lo
produco. Queste due cose infatti si escludono a vicenda
per loro natura: il produrre attivo e l’osservare contemplativo.
Essendo noi stessi a produrre il pensare, esso ci è più
intimo di ogni altra realtà. Ne conosciamo per intuizione
diretta il modo di svolgimento. Il rapporto tra il lampo e
il tuono lo ottengo solo mediante l’osservazione; il rapporto tra il concetto del lampo e quello del tuono lo conosco immediatamente dal loro stesso contenuto. Questa
chiarezza trasparente del pensare risulta dall’osservazione
della nostra attività spirituale. Ciò che ci guida nel connettere i pensieri è il contenuto stesso dei pensieri.
Ciò che avviene nel cervello fisico mentre io penso
non ha nulla a che fare con tutto questo. Ogni modificazione del cervello infatti ricade nel campo dell’osservabile
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e si trova, rispetto al pensare, sull’altra sponda, insieme
con ogni altra realtà che è oggetto di osservazione.
Nel pensare, dunque, e solo nel pensare, sono dentro
alla mia propria originalissima attività. Ogni altra cosa al
mondo non è prodotta da me. «Penso dunque sono»:
questo detto di Cartesio è giustificato in quanto l’esistenza pensante è una realtà che poggia su se stessa. Gli attributi di tale esistenza dipenderanno dal suo rapporto con
altri esseri. Ma l’esistenza umana in quanto tale riposa
sull’esercizio stesso del pensare. Nel contesto del mondo,
io afferro me stesso nel pensare quale mia più intima e
originaria attività. Ho in me stesso il senso del mio proprio esistere: sono colui che pensa, sono attività pensante.
Il pensare e il pensare sul pensare non sono qualitativamente diversi. Per avere un pensare diverso dal mio
dovrei diventare altro da me. Ecco un’altra prerogativa
esclusiva del pensare: che per pensarci sopra non dobbiamo ricorrere a qualcosa di altro da esso, ad esso estraneo, come avviene per ogni altra cosa.
Pensiamo sul pensiero restando nel pensiero stesso.
L’oggetto della riflessione (il pensare) è qualitativamente
della stessa natura della riflessione su di esso (il pensare).
Con ogni altra cosa che non sia il pensare, per riflettervi
sopra dobbiamo ricorrere a qualcosa (il pensare) che è
qualitativamente diverso da essa. Ma in questo sta appunto il problema: come possono essere compatibili, o commensurabili, o comunque rapportabili, due elementi qualitativamente tra loro diversi!? Questa difficoltà cade nel
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caso unico del pensare stesso: è pensando che pensiamo
sul pensare. Restando in se stesso, il pensare sul pensare
non ha il problema del rapporto con l’altro da sé.
«Quando inserisco nella trama del mio pensare un
oggetto che non ho contribuito a creare, io vado
oltre ciò che osservo, e sorge la domanda: chi mi
autorizza a tale trasgressione? Perché non mi accontento di lasciar agire l’oggetto su di me? Com’è
possibile al mio pensare mettersi in relazione con
l’oggetto? Tutte domande che non può evitare colui che riflette sullo svolgimento dei propri pensieri. Domande che scompaiono quando pensiamo
circa il pensare stesso. Poiché non aggiungiamo
nulla al pensare che gli sia estraneo, non c’è bisogno di giustificare una tale aggiunta.» (p. 48)
Ciò ci mostra che non abbiamo altra scelta circa il punto
di partenza: possiamo solo partire dal pensare. È la sola
realtà che può essere compresa senza uscire da essa.
Non posso digerire la digestione, non posso leggere il
mio leggere, ma posso pensare il pensare. Posso pensare
anche la digestione e la lettura, ma lo faccio appunto
uscendo dalla digestione e dalla lettura e entrando nel
pensare. Solo il pensare può essere compreso mediante
se stesso.
«Questo dunque è certo: nel pensare noi teniamo
per un lembo il divenire del mondo, là dove si richiede la nostra partecipazione perché qualcosa
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avvenga. Ed è proprio questo il punto fondamentale. Il motivo per cui le cose mi si presentano così enigmatiche è che io non partecipo al loro formarsi: le trovo già fatte. Nel caso del pensare invece so come esso viene prodotto. Ne segue che
nessun altro punto di partenza per una riflessione
sul mondo è più fondamentale e originario del
pensare.» (p. 49-50)
Tutte le altre cose mi sono enigmatiche in quanto io non
partecipo alla loro formazione. Quanto al pensare, io so
come lo si effettua: esso dev’essere il mio punto di partenza per una riflessione sul mondo. È come la leva di
Archimede: una realtà fondata su se stessa perché la posso comprendere tramite se stessa. Il pensare attivo e il
pensare sul pensare restano entrambi nello stesso elemento. Pensando sul mio pensare non posso uscire dal
mio stesso pensare.
A prima vista, poiché il pensare presuppone una coscienza umana pensante, sembrerebbe più giusto partire
dalla coscienza, anziché dal pensare. Ma ciò non è vero.
Per chi deve creare l’uomo, la coscienza viene prima del
pensare che in essa si manifesta. Per la comprensione del
mondo, invece, bisogna seguire l’ordine opposto, partendo dalla realtà ultima e a noi più immediata, che è il pensare. Infatti, come posso fare qualsiasi affermazione (cioè
formulare pensieri) sulla coscienza, se non mi sono prima
interrogato sulla natura del pensare che esercito in quella
stessa indagine?
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«Dobbiamo prima considerare il pensare in modo
del tutto neutrale, senza riferimento a un soggetto
pensante o ad un oggetto pensato. Soggetto e oggetto sono infatti già dei concetti elaborati dal
pensare. Nessuno può smentire il fatto che prima
di poter comprendere altra cosa va compreso il pensare.
Chi volesse negarlo non si rende conto che, in
quanto uomo, egli non è l’elemento iniziale della
creazione, ma quello finale. Per una spiegazione
concettuale della realtà non possiamo perciò partire dagli elementi del mondo che sono primi nel
tempo, ma da ciò che ci è più immediato e intimo.» (p. 52-3)
Partiamo dunque dal pensare. Ma, e se il pensare ci ingannasse? Se fosse errato? Chi ci garantisce che il pensare
dà affidamento? Questa domanda è un pensiero sbagliato. Il pensare è semplice attività, è una realtà, un fatto, e
come tale si trova oltre ciò che è giusto o sbagliato. La
sua «applicazione», cioè il suo rapporto all’altro da sé,
può essere giusto o sbagliato, non il suo essere. E il pensare è essere, poiché è atto costituente, è autoproduzione.
L’uso del pensiero non va confuso col pensare stesso,
così come l’uso che faccio di un tipo di legno è altra cosa
del legno stesso. Non chiedo se il legno sia giusto o sbagliato, ma se lo sia l’uso che ne faccio.
Ogni tentativo di riportare la dualità nel campo del
pensare indica l’incapacità di afferrarne la natura unica e
inconfondibile. Unicamente nel pensare l’uomo è total-
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mente attivo: non c’è residuo alcuno, offerto all’osservazione, tale da renderlo spettatore.
L’assoluta non dualità del pensare implica che esso è
sostanziato di volontà. Sarà questo più avanti il punto di
partenza per la comprensione della libertà nella sua realtà.
Ciò che conta qui è che, se attività volitiva, il pensare sia
voluto in tutto dall’Io, come propria attività cosciente.
Chi volesse obiettare che ciò che noi osserviamo non
è la vera realtà del pensare, ma solo la sua proiezione
nella coscienza (mentre la realtà stessa del pensare resterebbe a noi sconosciuta, o inconscia) non comprende che
è l’Io stesso che, stando dentro al pensare, osserva la
propria attività. L’inganno potrebbe sorgere unicamente
se fosse possibile all’Io uscire fuori dal pensare.
«No: chi vuol vedere nel pensare qualcosa d’altro
che non sia ciò che viene prodotto nell’‹Io› stesso
quale attività del tutto conscia, deve prima rendersi
cieco di fronte ai fatti palesi, semplici e osservabili,
per poi supporre alla base del pensare un’attività
ipotetica. Chi non si benda così gli occhi dovrà riconoscere che tutto ciò che egli ‹aggiunge› in questo modo al pensare lo porta fuori dall’essenza del
pensare. L’osservazione imparziale mostra che
all’essenza del pensare non si può attribuire nulla
che non si trovi nel pensare stesso. Non si potrà mai
trovare qualcosa che causa il pensare, se si esce dall’ambito
del pensare.» (p. 56)
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4. Il mondo come percezione
Il nostro punto di partenza è il pensare e non (come per
Hegel) i concetti e le idee che da esso provengono. Ciò
che è detto del pensare, infatti, non può dirsi ugualmente
dei concetti e delle idee che esso produce. Una volta prodotti, i concetti e le idee si offrono al pensare come oggetto su cui pensare, cioè come dato di osservazione interna. In questo loro offrirsi al pensare non si distinguono dagli altri oggetti di percezione.
D’altro canto, i concetti non sono prodotti dall’osservazione, ma dal pensare. L’esempio citato da Spencer è il
più adatto per far comprendere il rapporto tra il pensare,
l’osservazione, e i concetti. Spencer dice: io odo un fruscio nell’erba e ne osservo l’agitarsi. Mi avvicino per vedere di che si tratta, e vedo una pernice alzarsi in volo.
Ecco trovata la spiegazione del fenomeno del fruscio.
Già tante volte infatti ho osservato come il movimento di
piccoli corpi (i fili d’erba) sia concomitante al moto di
altri corpi intromessi. Così considero il nuovo caso come
un ulteriore esempio di un’osservazione ripetuta infinite
volte, e perciò generalizzata.
Questa descrizione ignora proprio ciò che è essenziale. Spencer non ha riflettuto sul fatto che la percezione del fruscio e del moto dell’erba mi si presenta come
enigmatica. Il carattere di enigma non può essere
nell’oggetto percepito, cioè non può essere una percezione. Nessuna percezione può causare, o produrre, il
carattere enigmatico del proprio contenuto: solo l’attivi98
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tà del pensare ne può cogliere il carattere di incompletezza.
«Grazie alla mia riflessione mi appare chiaro che io
devo considerare un fruscio come effetto. Ed è perciò solo quando io congiungo con la percezione del
fruscio il concetto di effetto che mi sento spinto ad
andare oltre l’osservazione e a ricercare la causa. Il
concetto di effetto richiama quello di causa, ed io
vado in cerca dell’oggetto causante, che mi si mostra
sotto forma di pernice. Questi concetti di causa ed
effetto non li potrò mai ottenere dalla mera osservazione, per quanto numerosi siano i casi a cui si
estende. L’osservazione provoca il pensare, ma solo
quest’ultimo mi fa da guida nel congiungere una
esperienza singola con un’altra.» (p. 59)
È col pensare che io creo i rapporti tra le singole percezioni, e definisco una percezione come richiedente la
presenza di un’altra. Il carattere di isolamento, di separatezza, di inesplicabilità di una percezione lo chiamo effetto;
il carattere di spiegazione, di armonizzazione, di reintegrazione lo chiamo causa. Causa ed effetto sono concetti,
e come tali non sono oggetto di osservazione, bensì provengono dal pensare3.
3 Se si dice che anche l’animale può restare «perplesso» di fronte a
una percezione (per es. che, udendo un rumore, si rizza e resta immobile in attesa) ciò è perché confondiamo cose del tutto diverse.
Dire che l’animale è perplesso, è usare il linguaggio in senso metaforico, non proprio. Ogni reazione dell’animale proviene dal suo istinto,
non dal pensare, che fa cogliere il rumore come effetto, e ne ricerca la
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Possiamo ora passare dalla riflessione sul pensare
all’essere pensante che è l’uomo stesso. La coscienza
umana è il luogo d’incontro di osservazione e pensare.
L’uomo chiama se stesso «soggetto» perché nel pensare è
attivo, e chiama «oggetto» ogni contenuto di percezione,
poiché di fronte ad esso egli è ricettivo. L’uomo è necessariamente dotato di «autocoscienza» poiché è capace di
pensare sul proprio pensare e di distinguersi, nella propria attività di pensiero, da tutto il resto del mondo in
quanto oggetto di percezione.
La distinzione tra soggetto e oggetto proviene dunque
dal pensare. Non ha allora senso dire che il pensare sia
soggettivo: esso è oltre il soggettivo e l’oggettivo, poiché
è esso a definire come «soggetto» l’autocoscienza, e «oggetto» il mondo esterno ad essa.
«Non va però perso di vista il fatto che solo grazie
al pensare possiamo definire noi stessi come soggetto e contrapporci agli oggetti. Perciò non si deve mai concepire il pensare come un’attività puramente soggettiva. Il pensare è al di là di soggetto e
oggetto. Forma questi due concetti come forma
tutti gli altri. Quando noi dunque, come soggetto
pensante, rapportiamo un concetto al suo oggetto,
non dobbiamo considerare questo rapporto come
causa. Infatti, dopo che l’animale è rimasto immobile per un po’ di
tempo, e nulla avviene, riprende il suo comportamento come se nulla
fosse successo. Non così l’uomo: egli si allarma ancora di più, perché
sa che quell’effetto non può essere senza causa, e non si dà pace
finché non la trova.
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qualcosa di unicamente soggettivo. Non è il soggetto a stabilire il rapporto, bensì il pensare. Che il
soggetto pensi, non lo deve al fatto di essere soggetto: al contrario, si esperisce come soggetto in
quanto è capace di pensare. L’attività che l’uomo
esercita quale essere pensante non è dunque meramente soggettiva. Essa non è né soggettiva né
oggettiva poiché va oltre questi due concetti. Non
devo mai dire che il mio soggetto individuale pensa, poiché esso ha il suo essere grazie al pensare. Il
pensare si rivela così come un elemento che mi
porta oltre me stesso e mi congiunge con gli oggetti. Nello stesso tempo però mi separa da essi, in
quanto mi pone di fronte ad essi come soggetto.
Su ciò riposa la doppia natura dell’uomo: egli
pensa ed abbraccia così se stesso e il resto del
mondo; ma allo stesso tempo egli deve, tramite il
pensare, definire se stesso come un individuo che
si contrappone alle cose.» (p. 60-1)
Viene ora spontanea la domanda: come entra l’oggetto
dell’osservazione nella coscienza a unirsi al pensare? Se
togliamo dall’osservazione ogni elemento che proviene
dal pensare ci resta una farragine di oggetti della sensazione tutti «scon-nessi», perché ogni «nesso» tra loro proviene dal pensare (essendo il nesso un concetto, non una
nuova percezione). Per definire il rapporto tra il contenuto della percezione e il nostro soggetto cosciente è fondamentale anzitutto questo: renderci conto che ogni nes-
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so tra una percezione e un’altra non è soggettivo, perché
proviene dal pensare. In altre parole: i rapporti tra le varie
percezioni non possono venir percepiti, ma solo pensati.
Esprimono contenuti ideali, concettuali, non «visibili» o
«tangibili» (cioè percepibili). Dicendo che i nessi tra le percezioni provengono dal pensare, non si intende un’attività
arbitraria del soggetto pensante. Il pensare è attività intuitiva che si esprime nel soggetto umano, ma non è soggettiva.
Il secondo passo importante è quello di precisare, o
rettificare, il concetto stesso di percezione, chiamando
«percezione» ogni altra cosa, fuorché il pensare.
«Data l’oscillazione nell’uso dei termini, mi pare
necessario intendermi col lettore riguardo all’uso di
una parola di cui mi devo servire in seguito. Chiamerò percezioni gli oggetti immediati di sensazione, di cui ho parlato prima, quali sono conosciuti
dal soggetto conoscente mediante osservazione.
Non il processo dell’osservazione, ma l’oggetto di
tale osservazione intendo designare con questo
termine.
Non scelgo il termine ‹sensazione› perché esso
ha in fisiologia un significato determinato che è più
ristretto di quello del mio concetto di percezione.
Un sentimento in me posso senz’altro chiamarlo
una percezione, ma non una sensazione in senso
fisiologico. Anche del mio sentimento posso avere
conoscenza in quanto diviene per me percezione.
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E il modo in cui veniamo a conoscenza del nostro
pensare mediante osservazione, è tale che possiamo chiamare percezione anche il pensare nel suo
iniziale presentarsi alla nostra coscienza.» (p. 62)
Tutto ciò che non sia l’attività stessa del pensare viene
offerto ad essa come oggetto di percezione. In questo
non fa eccezione il pensiero pensato stesso, e con esso
ogni altro oggetto di percezione introspettiva.
Tutto ciò su cui il pensare può pensare è, rispetto
all’azione stessa del pensare, percezione. Proprio da questo
mancato ampliamento del concetto di «percezione» provengono le più grandi difficoltà della filosofia moderna.
L’uomo della strada considera reali le cose che percepisce. Rettifica le sue percezioni errate quando una percezione successiva viene ad essere in contrasto con una
precedente. Che la percezione possa essere errata proviene dal fatto che essa dipende dai nostri organi di percezione e dal nostro luogo di osservazione.
La scoperta della dipendenza delle percezioni dall’organismo percipiente ha portato progressivamente a negare
l’oggettività delle percezioni. Sempre di più ci si è interrogati sulla funzione del nostro apparato percettivo nell’effettuarsi della percezione. Berkeley, riflettendo sulla dipendenza delle percezioni dal nostro essere, è giunto alla conclusione che nulla esiste all’infuori dello spirito umano e
divino. Noi invece dobbiamo chiederci: è possibile determinare qual è la funzione del percepire stesso nel formarsi
della percezione? In altre parole: cosa avviene alla perce-
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zione durante la percezione, e che cosa deve essa avere già
prima di venir percepita? Ciò sposta la nostra riflessione
dall’oggetto della percezione al soggetto percipiente.
Tra le cose che io posso percepire c’è anche il mio io.
Non solo posso percepire l’albero davanti a me, ma so
anche che sono io a vederlo. Osservando me stesso, mi
accorgo che la percezione dell’albero, congiungendosi col
concetto, opera qualcosa in me mentre avviene. Quando
distolgo il mio sguardo dall’albero, ne rimane in me
un’immagine che chiamo «rappresentazione». La rappresentazione è dunque una modificazione del mio io avvenuta grazie alla percezione esterna. Essa entra nella mia
coscienza per mezzo della percezione (in questo caso
interna) allo stesso modo di ogni altra percezione.
«La rappresentazione io la percepisco su me stesso,
allo stesso modo in cui percepisco colore, suono,
ecc. su altri oggetti. Posso ora anche stabilire una
distinzione, e chiamare mondo esterno questi altri oggetti che ho di fronte, e mondo interno il contenuto
della mia autopercezione. Il travisamento del rapporto tra rappresentazione e oggetto ha causato i
più grossi equivoci nella filosofia moderna. La percezione di una variazione in noi, il mutamento avvertito nel proprio io, è stato messo in primo piano, e si è perso completamente di vista l’oggetto
che suscita tale mutamento. Si è concluso: noi non
percepiamo gli oggetti, ma solo le nostre rappresentazioni.» (p. 68)
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La filosofia moderna, cioè, invece di porre sullo stesso
piano la percezione introspettiva delle modificazioni del
proprio io (le rappresentazioni) e le percezioni di oggetti
esterni – in quanto si pongono entrambe, e ugualmente,
sulla sponda del percepire che si offre all’esercizio attivo
del pensare –, ha subordinato questi due ordini di percezione, operando tra loro una distinzione che è valida solo
tra pensare e percezione. Ha visto nella rappresentazione
la sola realtà accessibile alla conoscenza e ha concluso
che noi possiamo percepire unicamente le nostre modificazioni interne, e non gli oggetti esterni. Kant è divenuto
il punto di riferimento costante di questo radicale pessimismo della conoscenza.
Una volta scisso il mondo della percezione in cose in sé
(inconoscibili) da una parte, e rappresentazioni soggettive
dall’altra, le difficoltà non fanno che moltiplicarsi. Infatti,
che cosa è la rappresentazione, che viene definita come la
sola conoscibile? La serie delle modificazioni provocate in
noi dalla percezione della «cosa in sé» è molto complessa e
tutt’altro che omogenea. Le trasformazioni della nostra
realtà fisiologica, partendo dall’organo di senso, proseguendo lungo il nervo, fino al cervello... sono molteplici.
Ciò che finalmente il cervello comunica all’ «anima» non
sono più processi esterni, né modificazioni dell’organo di
senso, e neppure processi fisiologici all’interno del cervello
stesso. La sensazione «rosso» non ha nulla in comune con
ciò che avviene nelle cellule del cervello mentre io percepisco «rosso». Il processo nel cervello sarebbe allora la causa,
e la sensazione sarebbe l’effetto prodotto nell’anima, un
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effetto di natura totalmente diversa dalla sua causa. L’anima poi, per completare il ciclo, riunifica sensazioni del
tutto diverse e separate proiettandole sull’oggetto esterno:
il cervello le comunica separate e disperse, l’anima le raggruppa in oggetti, cioè in rappresentazioni.
Il grande tentativo storico dell’idealismo critico, quello
cioè di dimostrare che le percezioni sono rappresentazioni,
si basa su una fondamentale contraddizione. Esso afferma
da una parte che le percezioni sono rappresentazioni, e
dall’altra attribuisce loro un influsso reale su organi di senso reali, su un cervello reale, su un’anima reale. Se fosse
coerente, non dovrebbe parlare di un occhio reale, di un
cervello reale, di un’anima reale, ma solo delle rappresentazioni «occhio», «cervello», «anima». Si avrebbe unicamente una complessa trama di rappresentazioni, che come tali
non possono avere un influsso reale le une sulle altre, non
essendo esse stesse reali. Se da un lato è vero che non ci
può essere percezione senza organo di senso corrispondente, dall’altra è anche vero che gli organi non possono
essere senza le percezioni. In tutto il processo descritto, io
non faccio che passare da una percezione all’altra.
Oltre a questa contraddizione, c’è nell’idealismo critico un salto ingiustificato da ciò che può essere verificato
con l’osservazione esteriore a ciò che non può esserlo.
Passando dal cervello all’anima, in cui si trova la sensazione, si lascia il campo di ciò che può essere osservato o
verificato. Non è giustificato trattare come omogenei due
campi che non lo sono, senza fornire una mediazione tra
l’uno e l’altro.
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«La concezione descritta, che si definisce come idealismo critico in opposizione a quella della coscienza ingenua, che essa chiama realismo ingenuo,
commette l’errore di considerare una percezione
come rappresentazione, e di prendere l’altra proprio nel senso del realismo ingenuo che si illude di
confutare. Si propone di dimostrare il carattere di
rappresentazione delle percezioni considerando ingenuamente come dati oggettivi le percezioni fatte
sul proprio organismo, senza per di più accorgersi
di confondere due campi di osservazione, tra i quali non sa trovare alcuna mediazione.
L’idealismo critico può confutare il realismo ingenuo unicamente in quanto considera il proprio
organismo in modo ugualmente realistico e ingenuo, come oggettivamente esistente.» (p. 77)
L’idealismo critico, per queste due ragioni, non è in grado
di provare che il contenuto del mondo percepito viene
operato dalla nostra costituzione: questa dovrebbe essere
una rappresentazione come ogni altra. Procedendo in
questo modo, esso si propone di confutare il realismo
ingenuo facendolo valere a un altro livello, cioè considerando ingenuamente reale il proprio organismo.
Tutto ciò ci porta a concludere anzitutto che non è
possibile spogliare la percezione del suo carattere oggettivo; che inoltre l’idealismo critico non è in grado di stabilire il rapporto tra percezione e rappresentazione; che
infine dobbiamo seguire un’altra via per rispondere alla
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nostra domanda che chiede: che cosa deve già esser presente nella percezione prima della percezione e cosa avviene ad essa durante la percezione?
5. L’esercizio del conoscere
Se le percezioni, come vuole l’idealismo critico, sono
rappresentazioni, cessa ogni interesse in esse: si vuole
raggiungere la «cosa in sé» che sta dietro le rappresentazioni. L’indagine si sposta sulle cause (sconosciute) delle
nostre percezioni-rappresentazioni.
Volendo essere coerente fino in fondo, l’idealista critico dovrebbe concludere che anche le «cose in sé» non
possono essere che sue rappresentazioni, se nulla può
essere oggettivamente fuori di lui. L’illusionismo assoluto
è il risultato finale di questa via di pensiero.
«L’idealista critico può però anche arrivare a dire:
io sono rinchiuso nel mio mondo di rappresentazioni e non posso uscirne fuori. Se concepisco
qualcosa dietro le mie rappresentazioni, questo
mio pensiero non può essere di nuovo che una mia
rappresentazione. Questo idealista dovrà allora o
negare del tutto la cosa in sé, oppure riconoscere
che essa non può avere nessuna importanza per
noi poiché, non potendone sapere nulla, è proprio
come se non ci fosse.» (p. 82)
Il realismo trascendentale (per es. di E. von Hartmann)
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sostiene invece che, partendo dalle rappresentazioni, si
possono indirettamente fare delle illazioni valide sulla
cosa in sé, per via deduttiva.
Comune a queste teorie è l’errore fondamentale che
consiste nell’identificare l’essere con l’essere che viene
percepito (esteriormente o interiormente), attribuendo al
pensare una pura funzione di strumento per tale indagine. Il pensare serve allora solo a «scoprire» l’essere che gli
è già precostituito, a identificare ciò che già è.
Bisogna invece chiedersi: come produce l’Io, traendolo
da sé, il mondo delle rappresentazioni? Se queste vengono e vanno come le immagini in uno specchio, hanno
valore solo in quanto ci aiutano a conoscere l’Io reale.
Così dal sogno, svegliandoci, passiamo al processo reale
che l’ha causato e dall’immagine speculare ci rivolgiamo
all’essere reale che la produce.
In realtà, il pensare sta alle rappresentazioni proprio
come il risveglio alle immagini del sogno. Una volta sveglio, mi interesso non più del fuoco visto in sogno, ma
del mal di testa che l’ha provocato. Così avviene col pensare: in esso ritrovo la realtà che nella percezione avevo
perduto.
«Più difficile ancora si fa la faccenda quando
l’illusionismo nega del tutto la realtà dell’Io-in-sé
dietro le rappresentazioni, o per lo meno lo ritiene
inconoscibile. A una tale convinzione può facilmente condurre l’osservazione del fatto che il sogno trova il suo corrispondente nella veglia (la qua-
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le consente di vagliare i sogni e di ricondurli a processi reali), mentre la coscienza di veglia non trova
uno stato che le stia in un rapporto analogo. Chi la
pensa in questo modo non si rende conto che esiste qualcosa che ha effettivamente con la percezione lo stesso rapporto che l’esperienza nello stato di
veglia ha col sogno. Questo qualcosa è il pensare.»
(p. 85)
Il primo passo da compiere oltre il realismo ingenuo è
quello di chiederci: qual è il rapporto fra pensare e percezione? Qualsiasi affermazione circa la percezione, infatti,
la posso fare solo mediante il pensare. Se dico: le percezioni sono rappresentazioni, ho già formulato un processo di pensiero. Abbiamo visto il motivo per cui il nostro
pensare normalmente ci sfugge: perchè la nostra attenzione è rivolta all’oggetto. È questo che ci fa apparire la
realtà percepita come compiuta in sé, alla quale il pensare
non aggiunge nulla (sono «solo» pensieri dell’uomo...).
Il mondo percepito, invece, non è affatto completo
senza il pensare. Il pensare fa parte della realtà stessa: è
un processo reale come è reale la crescita di una pianta. Il
concetto della pianta appartiene alla pianta non meno
delle radici e dei rami.
È importante rendersi conto che il pensare non è
qualcosa di vuoto e senza contenuto concreto, una pura
astrazione senza sostanza che non aggiunge alcunchè di
reale alle cose esterne, le quali invece avrebbero l’essere
nel senso pieno. La ragione per cui consideriamo il pen-
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sare come non sostanziale, è che difficilmente riusciamo
a farci un’idea di cosa sia la percezione senza il concetto.
Nella pura percezione avremmo unicamente una farragine di elementi dispersi senza alcun contenuto. Col sorgere dei concetti accanto alle percezioni, queste acquistano
contenuto, trovano significato. Nella percezione non
percepiamo la «tal» cosa (cioè la sua identificazione, fatta
per via di distinzione e paragone), bensì un elemento che
è enigmatico per la sua singolarità, e che chiede spiegazione («che cos’è?»). Il carattere enigmatico delle cose
proviene dunque dal loro isolamento, dallo stato di separatezza proprio della percezione. Spiegare, rendere comprensibile, «dar ragione» di una cosa vuol dire aggiungere
alla percezione il concetto che la ricolloca di nuovo
nell’insieme, attribuendole il suo posto. Noi ricomponiamo dunque col pensare ciò che separiamo con la percezione.
Da due parti opposte vengono a noi le cose: nella loro
separatezza attraverso la percezione, nella loro appartenenza reciproca attraverso il pensare. Il pensare ci rende
capaci di intuizioni, così come la percezione ci rende
capaci di osservazione.
«Non è dovuto agli oggetti che essi ci siano dati in
un primo tempo senza i concetti corrispondenti,
bensì alla nostra configurazione spirituale. Il nostro
essere complessivo funziona in modo tale che, per
ogni oggetto della realtà, i relativi elementi gli giungono da due lati distinti: quello del percepire e quello
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del pensare. Non ha nulla a che fare con la natura
delle cose il modo in cui io sono costituito onde
afferrarle. La scissione tra percezione e pensare
compare solo nel momento in cui io, quale osservatore, mi pongo di fronte alle cose. Quali elementi appartengono alle cose e quali no, non può però
in alcun modo dipendere dal modo in cui io ne ottengo conoscenza.» (p. 88-9)
L’oggetto dell’osservazione non è la cosa, ma la cosa da
noi «decosificata», in quanto la percezione la strappa dal
suo contesto che, solo, può darle contenuto d’essere.
Ogni percezione mi dà solo un’istantanea casuale, colta in
un processo di continua trasformazione. Il fiore che percepisco oggi è diverso da quello percepito ieri. Come
posso dire, di ciò che percepisco in un dato momento,
questa è la cosa? Neppure la somma delle successive
percezioni può essere considerata la cosa, perché il fiore
che percepisco in tanti momenti successivi alla fine non c’è
più. Resta la specie, per es. il «giglio», che è un concetto.
L’uomo è un essere limitato nello spazio e nel tempo.
È un essere tra esseri. Può percepire solo una parte limitata dell’universo. Ma ogni parte è unita con il resto: non
esistono cose separate o isolate. È dovuto proprio alla
nostra limitatezza che ci appaia come isolato e singolo ciò
che non lo è. Per noi è necessario trar fuori dal mondo
certi elementi e considerarli in se stessi, isolatamente.
L’occhio può solo percepire un colore dopo l’altro. Questo isolare è dunque un atto soggettivo, dovuto al fatto
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che noi non ci identifichiamo con il tutto, ma siamo un
essere tra esseri.
È col pensare che noi definiamo il rapporto tra il nostro stesso io e gli altri esseri: congiungiamo la percezione
di noi stessi col concetto del nostro io. L’autopercezione
mi mostra limitato, ma il pensare in me non ha nulla a
che vedere con questi limiti. Sono dunque un essere a
due dimensioni: limitato nella mia personalità (nella percezione, nel sentimento) e portatore di un’attività universale che definisce il mio essere stesso.
«Il nostro pensare non è individuale come la sensazione e il sentimento: è universale. Riceve un’impronta individuale in ogni singolo uomo solo per il
fatto che è in relazione col suo sentimento e con le
sue impressioni individuali. Sono queste sfumature
particolari del pensare universale che distinguono
fra loro i singoli uomini. Un triangolo ha un unico
concetto. Per il contenuto di tale concetto è indifferente che lo concepisca il portatore di coscienza
umana A oppure B. Viene però afferrato da ciascuno dei due in un modo individuale.» (p. 90)
Il pensare ricongiunge anche la nostra personalità limitata
(in quanto individualità particolare) con il cosmo, in un
tutto unitario. Qui è il fondamento della doppia natura
dell’uomo: in lui si esprime una forza assoluta e universale,
ma lui si trova non al centro dell’universo, ma a un punto
della periferia, e deve conquistarsi tutto il resto tramite
quella realtà universale. Da qui la sete di conoscenza.
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La percezione non è allora qualcosa di completo in sé,
ma è solo un lato della realtà: l’altro lato è il concetto. Il
conoscere è la sintesi di percezione e concetto.
Non ci può essere altro che sia comune agli esseri singoli oltre al contenuto ideale ottenuto col pensare. Non
esiste alcuna «unità» del mondo percepibile.
«Le considerazioni precedenti dimostrano che è assurdo cercare qualcosa di comune tra gli esseri singoli del mondo che non sia il contenuto ideale offertoci dal pensare. Ogni tentativo di trovare qualche altra unità del mondo oltre a questo contenuto
ideale in sé armonioso, raggiunto col pensare applicato alle nostre percezioni, è destinato a fallire.
Non un dio personale al modo umano, non l’energia o la materia, non la cieca volontà (di Schopenhauer) possono valere come unità universale del
mondo. Queste realtà appartengono tutte a una data sfera circoscritta della nostra osservazione. La
personalità umanamente limitata la percepiamo solo in noi stessi, energia e materia nelle cose fuori di
noi. Quanto alla volontà, essa può unicamente
considerarsi come la manifestazione dell’attività
della nostra personalità limitata.» (p. 92)
Un pregiudizio difficile a vincersi è quello che il pensare
sia astratto, senza contenuto concreto, in grado di dare
una pura immagine ideale del mondo, ma non il mondo
stesso. Ciò perché non si comprende cosa sia la percezione senza il concetto: una realtà senza alcun contenuto!
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Nessun elemento della percezione, come tale è più o
meno importante di un altro. È il pensare che conferisce il
contenuto, che assegna ad ogni cosa il suo posto e la sua
funzione.
«È il pensare che porta questo contenuto incontro
alla percezione, traendolo dal mondo di concetti e
idee dell’uomo. Contrariamente al contenuto di
percezione, che ci vien dato dall’esterno, il contenuto di pensieri sorge all’interno. La forma in cui a
tutta prima si presenta, possiamo chiamarla intuizione. Essa è per il pensare ciò che l’osservazione è
per la percezione. Intuizione e osservazione sono
le fonti del nostro conoscere. Di fronte ad una cosa che osserviamo nel mondo ci sentiamo estranei,
finché non sgorga dentro di noi l’intuizione corrispondente che ci restituisce quella parte della realtà
che manca alla percezione.» (p. 95)
Spiegare, rendere comprensibile una cosa vuol dire ricollocarla nel contesto dal quale è stata strappata dalla percezione. La percezione isola (e in questo modo «mente»);
il pensare ricongiunge (e in questo modo «dice la verità»).
Dopo aver riconosciuto la natura assoluta del pensare,
possiamo ritornare alla nostra domanda: qual è il significato della percezione? Cosa avviene quando percepisco,
per esempio, il colore rosso? Quel colore si trova su un
dato oggetto che ha altre qualità percepibili, e che è circondato da altri oggetti percepibili. Posso seguire poi ciò che
avviene nell’occhio che percepisce il rosso, ciò che avviene
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nel cervello... Non faccio che passare da una percezione
all’altra. Ciò che collega tutte queste percezioni è il pensare: i rapporti sono ideali, sono cioè concetti. Non li possiamo percepire: li possiamo solo pensare. Tra percezione
e percezione non «passa» nulla di percepibile: ci sono solo
rapporti concettuali. Posso percepire una percezione che
segue immediatamente un’altra, ma non posso percepire
come una percezione proceda dal non percepibile.
«Non possiamo dire che, oltre a ciò che percepiamo direttamente, ci sia altro che non sia ciò che
viene conosciuto mediante le corrispondenze ideali
fra le percezioni (che vanno colte col pensare). Il
rapporto tra gli oggetti della percezione e il soggetto percipiente è dunque, in quanto va oltre il semplice percepito, puramente ideale, cioè esprimibile
solo in concetti. Solo nel caso in cui io potessi percepire il modo in cui il percepito agisce sul percipiente, o se potessi viceversa osservare in che modo il soggetto forma l’immagine percettiva, solo allora potrei parlare come fanno la fisiologia moderna e l’idealismo critico fondato su di essa. Tale
concezione confonde un rapporto ideale (tra l’oggetto e il soggetto) con un processo di cui si potrebbe parlare solo se fosse percepibile. L’affermazione: ‹niente colore senza occhio che percepisca colori› non può dunque voler dire che l’occhio
produce il colore, ma unicamente che c’è un rapporto ideale, conoscibile tramite il pensare, tra la
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percezione ‹colore› e la percezione ‹occhio›. Toccherà alla scienza empirica stabilire in che modo le caratteristiche dell’occhio e quelle dei colori si corrispondono, con quali dispositivi l’organo della vista
trasmette le percezioni dei colori, e così via. Io posso osservare come una percezione segue a un’altra,
come sia spazialmente in rapporto con altre, e formulare tutto ciò con un’espressione concettuale. Ma
non posso percepire come una percezione proceda
dall’impercepibile. Devono necessariamente fallire
tutti i tentativi di trovare tra le percezioni dei rapporti che non siano pensieri.» (p. 97-8)
Che cos’è allora la percezione? Questa domanda, così
posta, non ha senso. La percezione non può essere qualcosa in sé, ma può essere qualcosa solo fuori e oltre se
stessa, cioè appunto per il pensare. Ciò vuol dire che non
si può parlare di soggettività della percezione (la soggettività è un concetto, e viene non dalla percezione, ma dal
pensare). «Soggettive» si possono dire unicamente le percezioni fatte sul soggetto. Una di queste è la rappresentazione.
«L’osservazione del tavolo ha prodotto in me
un’alterazione, essa pure permanente. Io conservo
la capacità di riprodurre in seguito un’immagine del
tavolo. Questa facoltà di rievocare l’immagine rimane congiunta con me. La psicologia chiama questa
immagine ‹rappresentazione mnemonica›. Essa è
invece la sola cosa che rettamente può chiamarsi
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rappresentazione del tavolo. Corrisponde infatti alla
modificazione percepibile del mio proprio stato
dovuta alla presenza del tavolo nel mio campo visivo. Non indica affatto la modificazione di un certo ‹io in sé› che si trovi dietro il soggetto percipiente, ma la modificazione del soggetto percepibile
stesso. La rappresentazione è dunque una percezione soggettiva, contrapposta alla percezione oggettiva che avviene in presenza dell’oggetto nel
campo percettivo. La confusione fra la percezione
soggettiva e quella oggettiva conduce all’errore
dell’idealismo che dice: il mondo è una mia rappresentazione.» (p. 99-100)
Avendo precisato dove va ricercata la rappresentazione, ci
resta da stabilirne il concetto. Solo con questo potremo
comprendere il rapporto fra rappresentazione e oggetto,
cioè fra il soggetto umano e il mondo.
L’analisi del conoscere fin qui descritta non ha lo scopo di confutare errori altrui, ma quello di confutare se
stessi, in quanto ciascuno di noi, riflettendo sul proprio
pensare, si irretisce inizialmente in un gomitolo, tutto
ingarbugliato. Solo in un secondo momento ci si rende
conto che la «cosa in sé» è un puro doppione del realismo
ingenuo: con essa si inventa un secondo mondo, «dietro» il
primo, che è però essenzialmente «pensato» come il primo.
«Si può sfuggire alla confusione in cui ci si caccia
con la riflessione critica condotta in questa direzione, unicamente rendendosi conto che, entro ciò
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che si può sperimentare e percepire in sé e fuori di
sé, esiste qualcosa che non può sottostare alla fatalità che tra il dato e l’uomo contemplante si frapponga la percezione. E questo è il pensare. Rispetto al
pensare l’uomo può fermarsi al punto di vista del
realismo ingenuo.» (p. 103)
6. L’individualità umana
La distinzione, operata dal pensare, tra il soggetto conoscente e le cose conosciute, deve dal pensare stesso venir
di nuovo risolta. Se ciò non avviene, quella distinzione
viene radicalizzata al punto da divenire separazione (immaginata alla stregua di una discontinuità percepibile, o di
un vuoto fisico frapposto fra due cose visibili). In questa
prospettiva la conoscenza è allora concepita come una
specie di actio in distans esercitata sul conoscente dalla cosa
conosciuta.
Il problema della corrispondenza tra le rappresentazioni e le cose rappresentate si risolve comprendendo che
il soggetto, pur non essendo le cose, appartiene però,
insieme con esse, allo stesso unico mondo. In quanto
oggetto di (auto)percezione, il soggetto è sottoposto alle
stesse leggi che vigono fuori di esso. La possibilità di
rapporto, o di compatibilità, tra i due non consiste dunque in un supposto reciproco «influsso» che «passi» dall’uno all’altro, ma si fonda sulla comune appartenenza allo
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stesso mondo e alle sue leggi. Il soggetto percepibile è un
frammento del globale e unitario evento cosmico: le leggi
che vigono dentro la sua pelle sono le stesse che vigono
fuori di essa.
Il fatto che un processo elettrico sia percepito dal mio
occhio come luce, non mi autorizza a concludere che, se
non ci fosse il mio occhio, quel processo consterebbe di
soli moti meccanici. Perché mai la percezione di un movimento dovrebbe essere di altra natura della percezione
della luce? Sono entrambe ugualmente percezioni, e non
è affatto giustificato chiamare oggettiva la percezione del
movimento e soggettiva quella luminosa.
Siamo qui ricondotti alla verità fondamentale: il rapporto tra percezione e rappresentazione non si potrà mai
stabilire per via di analisi del campo della percezione stessa, cioè passando da una percezione a un’altra. Questo
rapporto infatti, giova ripeterlo, non è percepibile, ma
solo pensabile. In altre parole, non si può comprendere il
rapporto tra percezione e rappresentazione tenendo conto solo di esse: bisogna rivolgersi al pensare.
Non appena sorge in me una percezione, ad essa si
congiunge subito un concetto elaborato dal pensare. La
rappresentazione è un concetto che è stato congiunto
con una particolare percezione. Il concetto non è prodotto dalla percezione, ma dal pensare che si congiunge con
la percezione. La rappresentazione è allora un concetto
che ha acquistato un carattere individuale in quanto riferito a una determinata percezione.
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«La rappresentazione non è altro che un’intuizione
riferita a una determinata percezione, un concetto che è stato congiunto nel passato con una percezione e che conserva il riferimento a quella percezione. Il mio concetto di un leone non lo formo traendolo dalle mie percezioni fatte sui leoni.
La mia rappresentazione del leone invece si forma secondo la percezione. Posso comunicare il
concetto di un leone a qualcuno che non ne ha
mai visti. Ma non riuscirò mai a comunicargliene
una viva rappresentazione senza la sua diretta
percezione.
La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato.» (p.107)
Il rapporto all’oggetto concreto della percezione fa ora
parte del concetto divenuto rappresentazione, ed è questo che ci consente di «riconoscere» lo stesso oggetto
quando lo percepiamo di nuovo.
«La rappresentazione si pone dunque tra percezione e concetto. È il concetto determinato, con riferimento alla percezione.» (p. 107)
La ricchezza dell’esperienza di una persona dipende dalla
sua capacità di formare rappresentazioni. Ciò suppone
un percepire che sia vasto, suppone poi un pensare che
sia fecondo di intuizioni, e suppone in terzo luogo la
capacità di unificare percezioni e concetti in rappresentazioni viventi. Senza questa unificazione le percezioni
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resterebbero un mondo fuggevole senza significato, le
intuizioni sarebbero vuota speculazione senza rapporto
con la vita.
Se in noi si svolgesse unicamente un processo conoscitivo, avremmo solo delle percezioni, dei concetti e
delle rappresentazioni. Ma noi rapportiamo la percezione,
oltre che al concetto, anche a noi stessi: perciò c’è in noi,
oltre che il pensare, anche il sentire.
«Come percezione e concetto ci si presenta la realtà; come rappresentazione, la riproduzione soggettiva di tale realtà. Se la nostra persona si esprimesse
unicamente nel conoscere, l’intero mondo oggettivo si esaurirebbe nella percezione, nel concetto e
nella rappresentazione.
Noi però non ci accontentiamo di collegare,
mediante il pensare, la percezione con il concetto,
ma la colleghiamo anche con la nostra soggettività
particolare, col nostro io individuale. L’espressione
di questo rapporto è il sentimento, che si esprime
in piacere e dispiacere.» (p. 108)
Col solo processo conoscitivo saremmo inseriti in un
continuo senza interruzione, saremmo indifferenti a noi
stessi. Ma così non è: le percezioni suscitano in noi gioia
o dolore, simpatia o antipatia. Esse trovano cioè in noi
un’eco personale e individuale: ciò fa di ciascuno di noi
un individuo che si distingue nel suo essere interiore dal
mondo esteriore. Il sentimento fa di noi perciò un essere
individuale.
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Il fatto che il sentimento ci dia la possibilità di vivere
la nostra realtà soggettiva, non lo rende più reale o più
importante del pensare. È solo e di nuovo col pensare
che congiungo quella percezione di me (che chiamo sentimento) col suo concetto, il quale la inserisce nell’insieme unitario del mondo. Ogni «valore» (anche del sentimento) è stabilito dal pensare, non dal sentimento.
Si delineano in questo modo due sponde opposte per
il nostro essere nel mondo: da una parte il processo universale del pensare (che, se diviene esclusivo, ci fa perdere quasi del tutto il sentimento di sé), e dall’altra la propria vita personale e individuale (che, portata all’estremo,
ci fa perdere ogni contatto con l’essere e col divenire del
mondo). La crescita della nostra personalità sta proprio
nel risolvere questa antinomia, secondo la quale il crescere di una dimensione porta il decrescere dell’altra. Più noi
congiungiamo la nostra vita e il nostro sentimento individuale con le sfere più universali e più alte del pensiero,
più operiamo la sintesi tra universalità e individualità.
Il nostro modo di essere individuali nel pensare è diverso dal nostro essere individuali nel sentimento. Ciò
che dà alla vita dei concetti un carattere individuale sono
le rappresentazioni, in quanto formate da percezioni che
variano da persona a persona: ognuno percepisce il mondo da un punto di osservazione diverso. Nel sentimento
invece siamo individuali grazie alla costituzione unica e
particolare del nostro proprio organismo. Possiamo allora dire che è solo grazie al sentimento che i concetti acquistano vita concreta.
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«Una vita di sentimento del tutto vuota di pensiero
è destinata a perdere a poco a poco ogni connessione con il mondo. Colui che mira ad essere universale nel suo essere, accompagnerà la formazione
e l’evoluzione della vita affettiva con una penetrazione conoscitiva delle cose.
Il sentimento è la realtà che consente ai concetti
di acquistare vita concreta.» (p. 110-1)
7. Il nostro conoscere ha dei limiti?
Ogni dualismo si fonda sulla distinzione reale tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Esso non vede che
questa distinzione è solo un momento provvisorio del
nostro conoscere, corrispondente alla percezione, la quale, invece di inserirci nella realtà, ci porta fuori di essa.
La visione unitaria del mondo risolve tramite il conoscere stesso ogni scissione causata dal soggetto conoscente. Il dualismo si rivela un’ illusione non appena comprendiamo che tanto la «cosa in sé», quanto il soggetto
conoscente, sono dapprima e ugualmente percezioni.
«Stando alla nostra esposizione, è dovuto alla natura della nostra costituzione spirituale che una cosa
particolare ci possa venir data unicamente come
percezione. Il pensare supera poi la separazione assegnando ad ogni percezione il suo giusto posto
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nell’universo. Mentre le parti disgiunte del mondo
vengono designate come percezioni, noi seguiamo
semplicemente, in questo dissociare, una legge del
nostro essere soggettivo. Se consideriamo invece la
somma totale delle percezioni come una delle parti,
a cui aggiungiamo l’altra delle «cose in sé», allora filosofiamo per aria. Ci troviamo in un puro gioco di
concetti. Costruiamo un dualismo artificiale, ma
non riusciamo a trovare alcun contenuto per la seconda metà, poiché per ogni singola cosa esso può
venir ricavato unicamente dalla percezione.» (p. 113)
La «cosa in sé», che la tradizione kantiana vuole inconoscibile, è concepita essenzialmente come un oggetto di
percezione. La sua dichiarata inconoscibilità proviene dal
fatto che ad essa vengono arbitrariamente attribuite alcune (e solo alcune!) delle caratteristiche più generali del
mondo percepibile (per es. il movimento, l’occupazione
di luogo fisico, ecc.). Ciò avviene perché si concepisce il
pensare al modo della percezione, cioè come un «guardare davanti a sé», un osservare che identifica, separandolo
dal resto, l’oggetto della propria osservazione.
Ogni dualismo, stabilendo il principio dell’inconoscibilità della cosa in sé, pone alla conoscenza umana dei
limiti invalicabili e finisce in una forma o in un’altra di
rassegnato agnosticismo. Ma dobbiamo ora chiederci:
quali possono mai essere i limiti della conoscenza umana?
Il conoscere non è un affare che riguarda il mondo in
generale: è una realtà che l’uomo vive con se stesso. Le
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cose non richiedono spiegazione. È l’uomo che chiede
una spiegazione delle cose, in quanto nel primo momento dell’atto conoscitivo, nella percezione, egli isola dei
frammenti del mondo dal loro contesto unitario, rendendoli così enigmatici.
I quesiti del conoscere provengono dunque non dalle
cose, ma dall’uomo stesso, in quanto dotato di pensiero.
Sono tutti a sua misura, e da lui risolvibili. Se si fa una
domanda a cui non è possibile rispondere, vuol dire che
la domanda stessa non è chiara.
«Il seguace di una concezione monistica sa che tutto ciò che gli occorre per spiegare un dato fenomeno del mondo deve trovarsi nel mondo stesso.
A impedirgliene l’accesso possono essere unicamente delle limitazioni o dei difetti accidentali, di
natura spaziale o temporale, propri della sua organizzazione: non dell’organizzazione umana in generale, dunque, ma della sua individuale in particolare...
I presupposti per l’attuazione del conoscere sono perciò mediante l’Io e per l’Io. È l’Io che pone a
se stesso le domande del conoscere. Le trae
dall’elemento del pensare, che è in sé del tutto
chiaro e trasparente. Se ci poniamo delle domande
a cui non possiamo rispondere, vuol dire che il
contenuto della domanda non è chiaro e distinto in
tutte le sue parti. Non è il mondo che ci pone le
domande: le poniamo noi stessi.» (p. 115-6)
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L’opposizione tra soggetto e oggetto, che ha senso solo
nel campo della percezione, viene dal dualismo resa assoluta. Di due realtà (soggetto e oggetto) egli ne fa quattro:
l’oggetto in sé, la percezione che il soggetto ne ha; il soggetto, e il concetto che riferisce la percezione all’oggetto
in sé. Il rapporto tra soggetto e oggetto è concepito come
reale in quanto deve constare di un influsso dinamico
(inconoscibile, ma essenzialmente uguale a ogni fenomeno percepibile). Noi veniamo a conoscere unicamente la
reazione interna a quel rapporto, e cioè la percezione.
Il dualista, in altre parole, è convinto che, qualora egli
non ponga dei rapporti reali (percepibili) tra le cose, oltre a
quelli «puramente» concettuali, il tutto sfumi in una trama
di concetti che non ha sostanza, che non è «reale».
«Il dualista crede che il mondo intero gli si volatilizzi in una ragnatela astratta di concetti, se non
stabilisce dei rapporti reali tra le cose, oltre a quelli
concettuali. In altre parole: i principi ideali intuiti
col pensare appaiono al dualista troppo evanescenti, e ricerca in aggiunta dei principi reali, che diano
fondamento ai primi.» (p. 118)
Quali sono questi «principi reali» che il dualista si vede
costretto a stabilire?
Il realista ingenuo parte dal presupposto che il percepibile è reale, e viceversa che ogni reale è tale in quanto è
percepibile. I concetti e le idee non sono reali per lui: non
aggiungono nulla alla «vera» realtà. Come conseguenza,
dovunque il realista ingenuo pensa di aver a che fare con
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realtà non percepibili, le immagina come percepibili, sia
nel campo dell’essere, sia in quello del divenire, e sia anche in quello della causalità. Consideriamo gli esempi più
importanti. L’anima dell’uomo, gli spiriti (angeli, demoni), «Dio» stesso, sono concepiti come sostanze finissime
(che noi non percepiamo a causa della rozzezza dei nostri
sensi, ma che sono per natura percepibili). Ogni tipo di
influsso si può avere solo se c’è qualche «forza» cha passa
da un essere all’altro: la vista si ha grazie alla materia finissima che dall’oggetto entra nell’occhio; la rivelazione
non può che avvenire in modo percepibile ai sensi (un
Dio solo «pensato» non è un Dio reale); nel processo del
conoscere, le cose producono nell’anima un’impronta,
oppure emettono immagini che entrano nell’anima; l’ereditarietà consiste in qualcosa di «reale» che si «trasmette»,
che passa dal genitore al figlio.
Il realista ingenuo immagina dunque dappertutto delle
forze invisibili che si trasmettono da un essere all’altro.
Sono forze ipotetiche, in quanto non vengono percepite,
ma sono immaginate con caratteristiche che sono proprie
del percepibile.
La scienza, in questa visuale, non è altro che descrizione del contenuto della percezione. I concetti sono dei
puri strumenti per questa descrizione, senza significato
per la realtà delle cose.
La contraddizione in cui si trova il realismo ingenuo è
che il tulipano percepibile, che lui chiama la cosa reale,
oggi c’è e domani non c’è più. Al contrario permane la
specie, che per lui è solo un concetto astratto, privo di
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realtà. Per questo ricorre alle forze invisibili che da un
essere si trasmettono al seguente o successivo.
Il realismo metafisico prosegue nella stessa direzione,
costruendo accanto alla realtà percepibile un’altra in teoria non percepibile, ma di natura identica. Non comprende che per i rapporti tra le cose la sola forma di esistenza
è il concetto (questo per lui non è reale).
Tutte queste «forze», come si vede, sono un puro e gratuito postulato. Percepibili non sono, e per chi ammette
come vero solo il percepibile dovrebbero considerarsi
come invenzioni che non corrispondono a nulla di reale.
I rapporti tra le percezioni sono solo pensabili, non a
loro volta di nuovo percepibili: in questo caso sarebbero
di nuovo percezioni, e non rapporti fra percezioni. Ciò
vale anche per il rapporto tra conoscere e oggetto conosciuto: un rapporto fatto di forze percepibili che si comunicano dall’oggetto al soggetto spiegherebbe (supponendo che esse esistano) la loro percepibilità, non la loro
conoscibilità.
Al dualismo del realismo ingenuo e del realismo metafisico si contrappone la visione unitaria del mondo (monismo). Essa armonizza il realismo unilaterale (ancorato
al mondo della percezione) e l’idealismo (ancorato alla
«cosa in sé») in una sintesi superiore.
«Per il realismo ingenuo il mondo reale è una somma di oggetti di percezione. Per il realismo metafisico, oltre alle percezioni, sono reali anche le forze
impercepibili. Il monismo pone al posto delle forze
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i nessi ideali che intuisce col pensare. Questi nessi
sono appunto leggi naturali. Una legge naturale infatti non è nient’altro che l’espressione concettuale
del rapporto che vige tra date percezioni.
Il monismo non si vede mai indotto a ricercare
ulteriori principi esplicativi della realtà al di fuori di
percezione e concetto. Sa che in tutto l’ambito della realtà non se ne trova motivo alcuno. Ravvisa nel
mondo percepito, quale offerto all’immediata percezione, una realtà monca: solo ricongiungendola
col mondo dei concetti trova la realtà integrale.» (p.
124-5)
Il realismo metafisico dirà: a te la tua conoscenza pare
completa in se stessa. Ma come vede il mondo un altro
essere diverso da te, con altri organi più perfetti dei tuoi?
La risposta è: qualsiasi cosa io possa sapere di questo
essere deve avvenire tramite percezione e concetto, e non
ho perciò mai bisogno di andare oltre queste due facoltà.
Esseri diversi da noi possono operare la scissione tra
percepito e pensato in altri punti, e perciò rifare la sintesi
in punti diversi.
«Solo per il realismo ingenuo e metafisico, che vedono entrambi nel contenuto della mente una pura
rappresentazione ideale del mondo, sorge il problema dei limiti della conoscenza. Per essi, ciò che
si trova fuori del soggetto è una realtà assoluta
fondata su di sé: il contenuto del soggetto ne è
un’immagine, ad essa del tutto esterna. La perfe130
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zione della conoscenza dipende dalla più o meno
perfetta somiglianza dell’immagine con l’oggetto
assoluto. Un essere con sensi meno numerosi di
quelli dell’uomo percepirà meno del mondo, uno
invece che ne ha di più percepisce di più. Il primo
avrà quindi una conoscenza meno perfetta che non
il secondo.
Per il monismo la cosa sta in altro modo. È la
costituzione dell’essere percipiente a determinare
dove e in quale forma il continuo universale appare
scisso in soggetto e oggetto. L’oggetto non è assoluto, bensì relativo: relativo a questo soggetto particolare. La risoluzione dell’antitesi può dunque avvenire essa pure unicamente nel modo specifico e proprio del soggetto umano stesso. Non appena l’Io,
che nel percepire è separato dal mondo, si reinserisce nel contesto unitario per mezzo della riflessione
pensante, cessa ogni ulteriore interrogativo, che era
una pura conseguenza della separazione.» (p. 125-6)
Un altro problema che incontra il realismo metafisico è
quello di spiegare la somiglianza tra i contenuti delle varie
coscienze umane. Esso ricorre all’induzione: osservando
che difatti gli uomini si capiscono a vicenda, e che ciò
avviene in infiniti casi, giunge alla conclusione dell’affinità tra i contenuti delle coscienze. Ora, il metodo induttivo si fonda sulla percezione, ed è per natura soggetto a
correzione in base a nuove percezioni che si scostino
dalle precedenti. Ciò che il realismo metafisico compie, in
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questa prospettiva, è di fare illazioni sulla cosa in sé fondandosi su un numero sufficiente di percezioni. Le sue
conclusioni possono avere un valore solo condizionato,
in quanto dipendono essenzialmente dalla percezione.
Col modificarsi di questa, o per un essere la cui percezione è del tutto diversa dalla nostra, esse perdono la loro
validità.
Il numero dei sensi dell’uomo è limitato. Oltre il rosso
e il violetto ci sono colori che egli non percepisce. Non
sarebbe diverso il mondo da lui conosciuto se avesse altri
sensi? La risposta a questa domanda è che nuovi sensi ci
darebbero nuove percezioni, non nuova realtà. Non ci
darebbero più cose conosciute, ma più cose da conoscere. Non aumenterebbero il nostro entrare nella realtà,
bensì il nostro uscire da essa, rendendo necessario il pensare che ci riconduce in essa.
La fisica, proprio perché la percezione dell’uomo è limitata, si vede indotta a dedurre degli elementi che non
sono ancora percepiti dai nostri sensi, ma che sono per
natura percepibili. Ciò è giustificato, ed è tutt’altra cosa
che stabilire degli esseri ipotetici che sono immaginati
come esseri percepibili, ma che per natura non lo sono.
Da queste riflessioni si comprende che il concetto di
percezione, se compreso nella sua natura, deve venire ampliato, così da abbracciare non solo le percezioni esterne
e sensibili, ma anche quelle interiori e spirituali, cioè tutto
ciò che si offre al pensare. Solo nel caso del pensare ciò
che percepiamo interiormente è la sua realtà stessa vivente e spirituale.
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SECONDA PARTE:
LA REALTÀ DELLA LIBERTÀ
8. I fattori della vita
Il mondo si presenta all’uomo come una somma di esseri
singoli: uno di questi è egli stesso. In quanto «dato», ogni
cosa è oggetto di percezione. Nel mondo della percezione percepiamo anche noi stessi.
La percezione di noi stessi sarebbe come tutte le altre,
se noi non scoprissimo, in seno ad essa, qualcosa che
ordina tutte le percezioni (compresa quella del proprio
io) affidando a ciascuna il suo posto nella realtà. Questo
qualcosa non è pura percezione, né, come le altre percezioni, è puramente dato: viene prodotto attivamente. Neppure è solo soggettivo: va oltre il soggetto, stabilisce i
concetti di soggetto e oggetto, e definisce la funzione del
soggetto nell’ordinamento del mondo! Questo qualcosa è
il pensare.
In questo modo noi percepiamo noi stessi come essere pensante. Se avessimo solo, di noi stessi, questo concetto ideale, saremmo del tutto indifferenti a noi stessi. Il
contenuto del nostro soggetto si esaurirebbe nell’attività
conoscitiva.
«Ma questa ipotesi non corrisponde ai fatti. Noi
non riferiamo le percezioni a noi stessi solo in
133
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modo ideale mediante il concetto, ma anche mediante il sentimento, come abbiamo visto. Non
siamo quindi degli esseri con contenuto vitale unicamente concettuale. Il realista ingenuo vede anzi
nella vita del sentimento una vita della personalità
più reale che non l’elemento puramente ideale del
sapere. E dal suo punto di vista ha pienamente
ragione di vedere la cosa in questo modo. Dal lato
soggettivo il sentimento è proprio ciò che la percezione è dal lato oggettivo. Secondo il principio
fondamentale del realismo ingenuo, che tutto ciò
che si può percepire è reale, il sentimento è perciò la garanzia della realtà della propria persona.»
(p. 138)
In una concezione monistica, invece, il sentimento è una
percezione come ogni altra: il suo contenuto o significato
deve riceverlo dal pensare. È il pensare che ci dà il concetto dell’Io. Poiché, nella crescita della persona, il sentimento precede il pensare, il realista ingenuo crede di
scorgervi qualcosa di più reale, una realtà immediata.
Vuole allora servirsi del sentimento stesso come strumento della conoscenza: conoscere vuol dire per lui «sentire». Nel sentimento egli vede il modo di comunione più
profonda con le cose.
Ma il sentimento è un fattore del tutto soggettivo e
personale: ha valore sommo solo riguardo alla persona
singola. Il filosofo del sentimento (il mistico) vuole
penetrare in tutto il reale con la propria personalità.
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Vuol vivere, sperimentare ciò che invece va conosciuto.
«L’errore di una concezione mistica fondata unicamente sul sentimento risiede nel fatto che essa
vuole sperimentare ciò che deve sapere, che vuol fare
di una realtà individuale, il sentimento, un principio universale.
Il sentire è un atto del tutto individuale, è la relazione fra il mondo esterno e il nostro soggetto, in
quanto tale relazione trova la sua espressione in
un’esperienza puramente soggettiva.» (p. 139-40)
C’è ancora un’altra espressione della persona, oltre al
pensare e al sentimento. Nel pensare, l’Io vive nella realtà
universale. Nel sentimento si ritira in sé, vivendo l’eco
che la realtà suscita in lui. Nel volere, inversamente, percepisce il modo in cui egli agisce sulla realtà fuori di lui.
Anche il volere, come il sentimento, appartiene alla sfera
della percezione, nella misura in cui esso non è un fattore
puramente ideale.
Il realismo ingenuo vede anche nella volontà qualcosa
di più reale del pensare, e questo proprio perché anche il
volere, come il sentimento, è una realtà percepibile. Nel
volere gli pare di toccare con mano un processo immediato, poiché vissuto direttamente, senza la via indiretta del
concetto che il pensare deve percorrere.
«Il seguace di questa filosofia crede di aver veramente afferrato, nel volere, il divenire del mondo
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per un lembo. Mentre può seguire gli altri avvenimenti soltanto dal di fuori per mezzo della percezione, nella sua volontà egli crede di sperimentare
un evento reale in modo del tutto immediato. La
forma d’esistenza in cui gli si presenta la volontà
dentro l’Io diviene per lui criterio della realtà. La
propria volontà gli appare come caso particolare
del divenire universale: quest’ultimo è perciò una
volontà universale. La volontà assurge a principio
generale, così come nella mistica del sentimento è
il sentimento ad assurgere a criterio della conoscenza. Questa teoria è filosofia della volontà (telismo). Ciò che si può sperimentare solo individualmente viene reso da essa un elemento costitutivo del mondo.» (p. 140-1)
Né la filosofia del sentimento né quella della volontà
possono essere vera scienza: entrambe ritengono insufficiente il pensare e perciò lo trascurano. Stabiliscono due
fonti della conoscenza: quella del pensare e quella del
percepire (sentimento e volontà), e antepongono la seconda alla prima. Chiamano, in altre parole, la percezione
vera conoscenza: conoscere è percepire.
«Accanto al principio ideale raggiungibile mediante il sapere, ci dev’essere inoltre un principio
reale del mondo che va sperimentato e che non è
afferrabile dal pensare. In altre parole, la mistica
del sentimento e la filosofia della volontà sono
un realismo ingenuo poiché seguono la massima
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che dice: ciò che è direttamente percepito è reale.
Rispetto all’originario realismo ingenuo aggiungono in più l’incongruenza di fare di una determinata forma di percezione (il sentimento, oppure la volontà) il solo strumento di conoscenza, il
che però è loro possibile solo accettando nel suo
significato generale la massima che il percepito è
reale. Dovrebbero perciò attribuire anche alla
percezione esterna un uguale valore conoscitivo.»
(p. 141-2)
Il realismo metafisico va oltre quello ingenuo quando
ipostatizza anche fuori di sé la volontà che percepisce
nel proprio essere. Ponendo alla base del mondo una
«volontà universale», escogita qualcosa che non può
affatto percepire, e che deve però immaginare come
percepibile, perché solo il percepibile è da lui fatto valere come reale.
La difficoltà nel riconoscere la realtà vivente del pensare sta nel fatto che, quando lo osserviamo in un secondo momento, ci appare freddo e astratto.
«Ma colui al quale veramente riesce di sperimentare il vivere nel pensare, giunge alla convinzione che
il muoversi in puri sentimenti o l’osservare l’elemento volitivo non possono neppure venir paragonati (e men che meno anteposti) alla ricchezza
interiore e all’esperienza riposante su di sé e pur
piena di vibrazione di questa vita nel pensare. Proprio a questa ricchezza, a questa pienezza dell’e137
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sperienza interiore, è dovuto il fatto che il suo riflesso nello stato d’animo abituale si presenta
morto e astratto. Nessun’altra attività dell’anima
si presta così facilmente a essere fraintesa, come il
pensare. Il volere e il sentire continuano a riscaldare l’anima umana anche durante il riverbero del
loro manifestarsi diretto. Il pensare invece ci lascia troppo facilmente freddi nella sua rievocazione, sembra inaridire la vita dell’anima. Eppure
questa è proprio l’ombra particolarmente marcata
della sua realtà che è intessuta di luce e che si
immerge con ardore nelle manifestazioni del
mondo.» (p. 142-3)
Che il pensare vivente abbia in sé anche la realtà dell’amore (che è anche sentimento) non deve stupire. È
uscendo dal pensare che si perde anche il vero essere
dell’amore e della volontà, in esso contenuti.
9. L’idea della libertà
Per ogni cosa che osservo, il concetto che le corrisponde
dipende dalla percezione stessa: alla tale percezione posso
congiungere unicamente il tale concetto corrispondente.
La corrispondenza è stabilita dal pensare in base alla percezione stessa.
A questa legge generale c’è una sola eccezione, e cioè
l’osservazione del pensare. Il pensare può venire osserva-
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to direttamente per introspezione: osservazione e realtà
osservata diventano qui una cosa sola.
«Chi osserva il pensare vive direttamente, durante
la sua osservazione, in un’attività sostanziale che è
spirituale e si regge da sé. Sì, possiamo dir così: colui che vuol afferrare l’essenza di ciò che è spirituale nella forma in cui esso si presenta all’uomo inizialmente, può farlo nel pensare che poggia su se
stesso.» (p. 145)
Quando osserviamo il pensare, concetto e percezione
vengono a coincidere. Solo colui che fa questa esperienza
diretta e vivente del pensare comprende che tutte le altre
percezioni, che sorgono dapprima necessariamente separate dai loro concetti, non sono la realtà piena, ma solo
una parte di essa: l’altra parte viene vissuta nell’attività
pensante che compenetra le percezioni.
«In ciò che sorge nella coscienza come pensare,
egli non vedrà il riflesso scialbo di una realtà, bensì
un essere sostanziale spirituale fondato su di sé. Di
questo egli può dire che gli si rende presente alla
coscienza mediante intuizione. Intuizione è l’esperienza cosciente, svolgentesi nel puro spirituale, di
un contenuto puramente spirituale. Solo mediante
un’intuizione si può cogliere l’essere del pensare.»
(p. 146)
Unicamente in base a questa esperienza vissuta del pensare si può comprendere la realtà e la funzione dell’or139
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ganismo corporeo. Questo non ha nulla a che fare con
l’essenza del pensare. Il pensare si serve del cervello in
duplice modo: facendo cessare l’attività fisiologica propria del cervello, e sostituendosi ad essa. Se vedo sul sentiero i solchi di un carro, non dirò che essi sono stati
prodotti dal sentiero. Lo stesso vale per i «solchi» che il
pensare lascia dietro a sé nel cervello.
Qual è allora lo scopo della realtà corporea, se non
tocca in nulla l’essenza del pensare? È quella di far sorgere in noi la coscienza dell’Io, l’autocoscienza.
«Dentro l’essere proprio del pensare vive senz’altro
il vero ‹Io›, ma non la coscienza dell’Io. Ciò è chiaro per colui che osserva obiettivamente il pensare.
L’ ‹Io› si trova dentro al pensare; la ‹coscienza dell’Io› sorge per il fatto che nella coscienza generale
vengono impresse le orme dell’attività pensante,
nel senso sopra indicato. (È dunque grazie all’organismo corporeo che sorge la coscienza dell’Io.
Ciò non va confuso con l’affermazione che l’autocoscienza, una volta desta, resti dipendente dall’organizzazione corporea. Una volta formata, essa
viene assunta nel pensare e ne condivide in seguito
l’essere spirituale).» (p. 148)
L’autocoscienza sorge dunque sulla base della costituzione corporea. Da questa fluiscono le azioni della volontà.
Dobbiamo studiare più da vicino come ciò avviene, per
comprendere bene il rapporto tra pensare, autocoscienza,
e volontà.
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In ogni atto volitivo giocano due fattori fondamentali:
il motivo e il movente4.
«Il motivo è un elemento concettuale o rappresentativo. Il movente è l’elemento della volontà direttamente condizionato dall’organizzazione umana.
L’elemento concettuale, il motivo, è l’orientamento
istantaneo della volontà; il movente è l’orientamento costante dell’individuo. Motivo della volontà
può essere un puro concetto, oppure un concetto
con un determinato rapporto alla percezione, cioè
una rappresentazione.» (p. 149)
Lo stesso motivo suscita reazioni diverse in individui
diversi a seconda della loro predisposizione caratterologica. L’idea di fare una passeggiata può tradursi in impulso
volitivo unicamente se incontra, nel carattere dell’individuo, delle predisposizioni, delle convinzioni corrispondenti (per esempio, il concetto dell’importanza della passeggiata per la salute fisica), e quindi la voglia (sentimento
del piacere) di compiere quella specifica azione.
Possiamo dire allora che i moventi (la predisposizione
caratterologica) influiscono sul volere dal passato; i motiI due termini usati da Steiner sono Triebfeder (movente) e Motiv
(motivo). In italiano ci sono naturalmente diversi termini che si potrebbero usare. Io ho scelto questi due perché mi sembrano corrispondere bene alle due dimensioni della persona qui in questione:
l’una (il movente) maggiormente automatica, l’altra (il motivo) a
carattere concettuale. Va da sé che, in questo modo, il termine «movente», in particolare, acquista un carattere leggermente tecnico, che
intendo rispettare.
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vi sono invece i fini, gli scopi, che ci proponiamo nel presente e per l’avvenire.
Esaminiamo ora anzitutto i moventi della volontà, cioè
gli impulsi provenienti dalla disposizione caratterologica.
Essi sgorgano dalle varie sfere che costituiscono la realtà
dell’individuo singolo. In esso troviamo anzitutto la percezione: un atto della volontà che scaturisce direttamente dalla percezione, senza alcuna mediazione del sentimento o del pensiero, è quello più istintuale e automatico. Anche i comportamenti sociali che sono divenuti del
tutto meccanici (di fronte a tale situazione, scatta il tale
comportamento) rientrano in questa categoria. Il cosiddetto galateo, le buone creanze, il tratto sociale, l’ossequio alle usanze e tradizioni... tutto questo «comportarsi
come si deve» può diventare una seconda natura al punto che la volontà è mossa direttamente dalla percezione
stessa.
Ci sono poi moventi che provengono dalla sfera del
sentimento. Questi impulsi sono già meno istintivi, perché scaturiscono dall’eco interiore dell’animo di fronte
alle percezioni esterne. La percezione suscita un sentimento, ed è il sentimento a muovere all’azione.
Un terzo e quarto tipo di moventi provengono dalla
rappresentazione e dal concetto. Non si tratta qui di rappresentazioni e concetti che sorgono ex novo, cioè mediante rinnovato intuito attuale: questi fanno parte dei
motivi, non dei moventi. Si tratta di rappresentazioni e
concetti già entrati a far parte del patrimonio mentale
dell’individuo.
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La somma delle rappresentazioni di azioni da cui l’individuo attinge per le sue decisioni, si può chiamare esperienza pratica; la somma di concetti, scaturiti nel passato
del suo puro pensare, si può chiamare ragione pratica.
Quest’ultima sfera è la sfera delle aspirazioni e degli ideali: essa oscilla fra la tendenza a diventare fissa e ripetitiva
(alla stregua degli altri moventi) e la tendenza a essere
sempre nuova e creatrice (entrando nell’ambito dei motivi).
Passiamo ora all’esame dei motivi: questi sono concetti
e rappresentazioni. I sentimenti non possono essere motivi: se agisco per ottenere un piacere, non è il piacere
(che ancora non c’è) a fare da motivo, ma la rappresentazione che io me ne faccio. La rappresentazione del mio o
altrui benessere è il motivo fondamentale dell’egoismo.
Posso volere il mio benessere indipendentemente da
quello altrui (egoismo puro), o posso includere la felicità
altrui come elemento necessario alla mia.
Un altro tipo di motivo può essere il contenuto puramente concettuale di un’azione; questo non guarda solo
alla singola azione, ma la colloca in un sistema di norme
morali che reggono il comportamento dell’uomo. L’individuo le segue come comandamenti, come una specie di
necessità etica. La loro fondatezza egli la riconduce all’autorità esterna che le ha stabilite, oppure l’attribuisce alla
realtà interna della coscienza, che interpreta come un essere non identico col proprio, e a cui lui deve ubbidire.
Un grande passo nel comportamento morale si compie
quando non si seguono più semplicemente i precetti
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dell’autorità (esterna o interna), ma si vuol comprendere il
motivo per cui una data norma va accolta. A questo stadio
l’individuo passa dalla morale autoritativa al comportamento in base a ragion veduta: ricerca una conoscenza
personale e diretta delle istanze morali. Queste istanze
sono: 1. il benessere di tutti gli uomini; 2. il progresso della
cultura o il perfezionamento dell’umanità; 3. l’attuazione di
intenti morali individuali tramite intuizione diretta.
Le prime due di queste istanze si fondano sulla rappresentazione, cioè sul rapporto che il singolo stabilisce
tra l’idea morale e determinate esperienze o situazioni. Il
principio morale più alto che si possa concepire non contiene questo riferimento obbligato alla percezione: sorge
nella pura intuizione e solo in un secondo momento cerca il proprio collocamento nel mondo della percezione.
Ogni altro principio morale convoglia l’individuo in una
data direzione già stabilita (dal principio morale stesso).
Nell’attuazione di intenti intuitivi, invece, l’individuo si
pone al di sopra di ogni principio morale e ne determina
lui stesso il valore in ogni circostanza concreta: in un caso
darà più importanza all’uno, in un altro all’altro. Questa
decisione viene fatta in base a intuizione concettuale diretta: unico motivo è qui il contenuto ideale dell’azione.
Possiamo ora tirare la somma del nostro esame dei
moventi e dei motivi:
«Fra i gradi della disposizione caratterologica abbiamo designato come il più alto quello che agisce
come pensare puro, come ragione pratica. Tra i motivi
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abbiamo ora indicato come sommo quello dell’intuizione concettuale. Una più precisa riflessione si
avvede subito che a questo livello della moralità
movente e motivo coincidono, che cioè non influiscono sul nostro agire né una disposizione caratterologica predeterminata, né un principio morale
estrinseco assunto normativamente. In questo modo l’azione non è ripetitiva, eseguita secondo regole
qualsiasi, né è compiuta dall’uomo automaticamente per una spinta esterna, ma determinata esclusivamente dal suo contenuto ideale.
Una simile azione ha come presupposto la facoltà delle intuizioni. Chi non ha la capacità di
concepire nel caso singolo la massima morale particolare, non potrà mai neanche conseguire una volontà veramente individuale.» (p. 158)
L’opposto di questo principio morale è quello kantiano
che dice: agisci secondo norme valide per tutti. Ciò sarebbe la fine di ogni intuizione morale individuale.
Ci si potrebbe chiedere: come può il nostro agire scaturire da un lato dall’intuizione puramente ideale, e dall’altro adattarsi alla condizione concreta? Bisogna distinguere il motivo morale e il contenuto di percezione di
un’azione: quando si agisce per intuizione morale quest’ultimo non è il motivo, perché non è esso a determinare
l’individuo. Dal contenuto dell’azione se ne ricava semplicemente il concetto conoscitivo. Il concetto morale viene intuito dal pensare. Quando il concetto conoscitivo, cioè il
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contenuto percepibile di un’azione, è allo stesso tempo
concetto morale, io non sono libero. L’ordine sul da farsi
mi viene dalla situazione.
I singoli uomini variano nel loro patrimonio di intuizioni. Varie sono anche le situazioni in cui vengono a
trovarsi. L’interazione di questi due fattori determina il
comportamento di ciascuno.
«La somma delle idee operanti in noi, il contenuto
reale delle nostre intuizioni, è costituito da ciò che,
della pura universalità del mondo ideale, si configura in modo individuale in ogni uomo. Nella misura in cui questo contenuto intuitivo si comunica
all’azione, esso forma il contenuto morale dell’individuo. La libera esplicazione di questo contenuto è
ad un tempo il movente morale sommo e il più eccelso motivo per colui che comprende che tutti gli
altri principi morali, in ultima istanza, si riunificano
in questo contenuto. Questa posizione la possiamo
chiamare individualismo etico5.
Ciò che è determinante in un’azione concepita
intuitivamente è di trovare l’intuizione corrispondente del tutto individuale. A questo livello della
5 Nel linguaggio comune di oggi, questa espressione suona facilmente
come una contraddizione in termini: «individualismo» designa spesso,
più che la forma somma di moralità, di cui qui si parla, una forma di
egoismo. Non essendo facile per tutti tener distinti il senso tecnico
qui dato a individualismo, e quello comune, userò anche, fuori delle
citazioni, il termine di «personalismo etico», benché, strettamente
parlando, sia meno preciso.
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moralità si può parlare di concetti morali generali
(norme, leggi) solo quando queste si ricavano da
una generalizzazione che parte dagli impulsi individuali. Norme generali presuppongono sempre dei
fatti concreti, da cui vengono dedotte. Ma l’agire
umano è proprio questo previo produrre dei fatti.
Quando noi consideriamo l’aspetto normativo
(il concettuale nell’agire di individui, popoli e epoche), otteniamo un’etica, ma non come scienza di
norme morali, bensì come scienza naturale del
comportamento morale. Solo le leggi così ottenute
hanno con l’agire umano lo stesso rapporto che le
leggi naturali hanno con un dato fenomeno. Non
si identificano però affatto con gli impulsi che noi
poniamo alla base del nostro operare.» (p. 160-1)
La moralità vera e propria di un’azione consiste allora nel
rapporto attuale della volontà con l’azione stessa, non
nella sua maggiore o minore corrispondenza con un codice morale. Quando agisco per intuizione morale, ciò
che mi determina non è una massima da seguire, ma è
direttamente l’amore per l’oggetto stesso dell’azione. Solo
quando seguo il mio amore verso l’oggetto sono veramente io stesso ad agire, e non una norma in me.
«Non riconosco alcun principio estrinseco al mio
agire, in quanto ho trovato in me stesso la motivazione dell’azione: l’amore per l’azione stessa. Non
esamino razionalmente se la mia azione sia buona
o cattiva: la compio perché la amo. Essa si rivela
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‹buona› se la mia intuizione imbevuta d’amore è inserita nel modo giusto nell’armonia universale, che
va vissuta intuitivamente; sarà invece ‹cattiva› quando ciò non avviene. Neppure mi chiedo come un
altro agirebbe nel mio caso, ma agisco come io,
che sono questo individuo particolare, mi vedo indotto a volere. Non l’uso comune, non il costume
generale, non una massima umana generale e nemmeno una norma morale mi fa da guida in modo
immediato, bensì il mio amore per l’azione. Non
sento in me alcuna costrizione: non quella della natura che mi dirige nei miei istinti, non quella dei
comandamenti morali. Voglio semplicemente attuare quel che vi è in me» (p. 162).
Si dirà: come può l’uomo agire moralmente, se fa ciò che
vuole? Qual è allora la differenza tra un’azione morale e
un delitto? Non viene qui abolita la distinzione oggettiva
tra bene e male?
Se vogliamo comprendere l’essenza della volontà umana, dobbiamo distinguere tra i vari stadi in cui questa è
lontana dalla sua perfezione, e la forma che assume
quando le si avvicina. Negli stadi intermedi le norme sono
necessarie, ma non nello stadio finale:
«Le norme hanno il loro legittimo compito mentre
si è per strada verso quella meta. La meta consiste
nella realizzazione di obiettivi morali concepiti con
pura intuizione. L’uomo li consegue nella misura in
cui ha in sé la capacità di elevarsi alla sfera intuitiva
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del contenuto ideale del mondo. Nel volere singolo
si frammischia in genere dell’altro a tali obiettivi, a
far da movente o da motivo. Tuttavia, l’istanza intuitiva può, nel volere umano, essere determinante
o codeterminante. Ciò che si deve, lo si compie: si
offre il campo sul quale il dovere diventa azione;
azione propria è quella che facciamo scaturire come tale da noi stessi.» (p. 163)
È errato considerare l’azione dell’assassino, o il male,
come espressione dell’individualità. Le passioni inferiori sono, al contrario, ciò che di meno individuale c’è
nell’uomo: appartengono alla specie in lui, e non possono
quindi provenire dal suo patrimonio ideale, nel quale unicamente è individuo unico.
«Un’azione viene sentita come libera nella misura
in cui la sua motivazione proviene dal lato ideale
del mio essere individuale; ogni altra parte di un’azione viene sentita come non libera, sia che proceda dalla costrizione della natura, sia ugualmente
che proceda dall’obbligo di una norma morale.
L’uomo è libero unicamente nella misura in cui,
in ogni momento della sua vita, è in grado di seguire se stesso. Un’azione morale è la mia solo se può
dirsi libera in questo senso. Qui si considera per
ora a quali condizioni un’azione voluta viene vissuta come libera; più avanti si vedrà come questa idea
della libertà, enucleata qui nel suo puro contenuto
etico, si realizzi nell’essere umano.» (p. 164-5)
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L’azione libera non esclude le norme morali, ma le include. È solo un’istanza superiore ad esse, non ad esse contraria.
Com’è allora possibile la convivenza umana, se non vi
sono norme generali valide per tutti? L’unità degli uomini
non è qualcosa che si possa effettuare in base a leggi. Se
essi non sono uno per essenza, non lo diverranno in base
a una legge. Il fatto è invece che essi sono uno: il mondo
ideale a cui tutti gli individui umani attingono è uno solo.
L’esistenza di questa unità, però, deve provenirci dall’esperienza e dall’osservazione, altrimenti sarebbe oggetto
di norma, e non risultato della libera automanifestazione
degli individui. Dallo stesso e unico mondo ideale ogni
individuo trae intuizioni diverse, ma non c’è da aspettarsi
contraddizione o conflitto tra esse.
«Un malinteso morale, un conflitto, è escluso tra
uomini moralmente liberi. Solo colui che è moralmente non libero, colui che segue l’istinto naturale
o l’obbligo del dovere imposto, respinge il suo
prossimo, se non segue lui pure lo stesso istinto o
lo stesso comandamento.
Vivere nell’amore per l’azione e lasciar vivere nella
comprensione della volontà estranea è la massima
fondamentale degli uomini liberi. Essi non conoscono altro dovere se non quello con cui il loro volere si mette in intuitivo accordo; in che modo essi,
in un caso particolare, vorranno, ciò glielo dirà il loro patrimonio di idee.» (p. 166)
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Due persone veramente libere vivono insieme avendo
fiducia nella propria comune appartenenza allo stesso
unico mondo spirituale. Sanno che le loro intenzioni,
lungi dal collidere, sono destinate a incontrarsi.
Molti diranno che questo concetto dell’uomo libero è
campato in aria, che non esistono tali uomini, e che gli
uomini reali hanno bisogno di norme da seguire. Allora
bisognerebbe onestamente mettere da parte ogni discorso sulla libertà dell’uomo: si dovrebbe dire che l’uomo
dev’essere costretto, in quanto non è libero. Che la coercizione sia fisica, o proveniente dagli istinti inferiori, oppure esercitata per mezzo delle leggi morali, da un certo
punto di vista non fa differenza. Un uomo che agisce
così non può dire che le sue azioni provengono da lui.
Dobbiamo invece riconoscere che vi sono spiriti liberi,
che ascendono al di sopra di tutte queste istanze che rendono l’uomo non libero. Il germe di questo spirito umano libero è dentro a ciascuno di noi. Il concetto dell’uomo è pensato nella sua perfezione solo quando riconosciamo la sua reale chiamata alla libertà.
Certo, si tratta di un ideale, ma di un ideale che è realmente all’opera nell’uomo, e non semplicemente inventato. Se l’uomo fosse un essere puramente naturale, non
avrebbe senso parlare di ideali: il suo concetto sarebbe
dettato dalla percezione. Ciò che un uomo è in quanto
essere morale non è deciso da ciò che in lui è nella percezione: egli è una realtà aperta. Concetto e percezione
sono qui separati non dal processo conoscitivo umano,
ma nella realtà stessa. Solo l’individuo, con la sua azione,
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può congiungere il concetto di sé con la percezione. E
solo in quanto spirito libero può intuire quel concetto e
congiungerlo realmente con la percezione. Ciò che il
conoscere fa per il mondo fuori di noi (unire percezione
e concetto), l’agire morale lo deve compiere per il nostro
essere: attuare (rendere percepibile) il proprio concetto:
«Nel mondo oggettivo è la nostra organizzazione a
segnarci una linea di confine tra percezione e concetto; il conoscere supera quel confine. Nella natura soggettiva tale confine esiste ugualmente; l’uomo lo supera nel corso del suo sviluppo, manifestando nell’espressione esteriore il concetto di se
stesso. Così, sia la vita intellettuale, sia quella morale dell’uomo ci portano alla sua duplice natura: la
percezione (esperienza immediata) e il pensare. La
vita intellettuale supera la doppia natura mediante
la conoscenza, quella morale mediante l’attuazione
reale dello spirito libero. Ogni essere ha il suo concetto innato (la legge del suo essere e del suo operare); ma nelle cose esterne esso è inseparabilmente
connesso con la percezione, e ne viene separato
unicamente all’interno del nostro organismo spirituale. Nell’uomo stesso invece, concetto e percezione sono dapprima realmente separati, allo scopo
di venir da lui altrettanto realmente uniti.» (p. 168-9)
Si potrebbe pensare che in questo modo per una stessa
percezione si vengono ad avere due concetti diversi: quello dell’uomo ordinario, e quello dell’uomo libero. Ma
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ogni uomo, in quanto realtà percepibile, è in continua
trasformazione: il corso della propria evoluzione dipende
da lui. La natura gli dà una base, la società lo forma ulteriormente, ma il coronamento dell’opera può venire solo
da lui stesso.
Non si vuol perciò dire che lo stadio della moralità libera sia il solo in cui l’uomo può vivere, ma che esso è
quello finale. Finché non si giunge ad esso, le norme e le
leggi sono necessarie.
Quando Kant parla del dovere come imperativo categorico a cui l’individuo deve totalmente sottomettersi
mettendo da parte la propria inclinazione individuale,
esprime proprio l’opposto di una vera morale della libertà.
Questa vede non nel dovere lo stadio ultimo, ma proprio
nella manifestazione di ciò che è individuale in ognuno, e
che dunque non può esser codificato normativamente:
qui il movente-motivo non è più il dovere come tale, ma
l’amore all’azione.
Né dobbiamo vedere nell’uomo davvero libero un
elemento pericoloso. Egli non sentirà il bisogno di andar contro le leggi legittime della società. Sa che provengono da intuizioni di uomini liberi, e se le trova giustificate le fa sue.
Se riconosciamo che l’individuo umano è il valore
morale supremo, non diremo che egli ha lo scopo di conformarsi alla legge morale: in questo caso egli sarebbe
strumento per uno scopo superiore. L’uomo non agisce
allo scopo di essere morale; al contrario, l’ordine morale
viene creato quando lui è libero. L’ordine morale non è lo
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scopo dell’uomo, ma la sua automanifestazione, qualora
egli agisca liberamente. Anche la società e lo Stato non
sono realtà cui l’individuo si può subordinare come strumento: sono essi per lui, non lui per essi.
10. Filosofia della libertà e monismo
L’uomo ingenuo che considera reale solo ciò che vede,
cerca anche per l’agire morale dei fondamenti tangibili. Il
modo più semplice è quello di affidarsi a un’autorità umana, sia essa passata o presente. Se ricorre a un essere divino, lo immaginerà in qualche modo percepibile: in questo modo, anche la comunicazione della sua volontà agli
uomini avviene in modo tangibile.
Lo stadio più sviluppato di questo realismo ingenuo si
ha quando esso lascia l’autorità esteriore e si rivolge alla
propria coscienza, concepita come forza assoluta e autonoma dentro di sé, e a cui egli deve sottomettersi. In
questo modo viene ad assolutizzare, ipostatizzandole come esseri indipendenti, le leggi morali stesse. Queste
sono allora simili alle forze visibili-invisibili del realismo
metafisico.
Quando si ricerca così l’origine della moralità fuori del
contenuto intuitivo dell’uomo, si presentano varie possibilità. Se l’essere assoluto è concepito come operante
secondo leggi meccaniche, non ha senso parlare di libertà: il tutto, anche dentro l’uomo, non è che cieco determinismo. Se l’assoluto è un essere spirituale, i principi
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morali vengono immaginati come esistenti nella sua mente e emananti dal suo essere: all’uomo tocca conoscere
(percepire) gli intenti di quell’essere ed eseguirli.
«L’ordinamento morale del mondo appare al dualista come riflesso percepibile di uno superiore che
sta dietro di esso. La moralità terrestre è la manifestazione dell’ordinamento universale extraumano.
Non è l’uomo che conta in tale ordinamento morale, ma l’essere in sé, l’essere extraumano. L’uomo
deve ciò che questo essere vuole.» (p. 176)
Un chiaro esempio di questo dualismo è quello di E. von
Hartmann. Secondo questo filosofo la divinità vuol raggiungere, tramite l’uomo, uno scopo ben preciso, quello di
liberarsi dal proprio infinito dolore. L’ordine morale consiste allora nella collaborazione di ogni singolo uomo a questo intento divino. In questa visuale, l’uomo non segue la
propria volontà, ma quella di Dio, in quanto le due per
natura non coincidono. Neppure qui si può parlare di libertà.
«Come il dualista del materialismo fa dell’uomo un
automa, il cui agire è unicamente il risultato di leggi
puramente meccaniche, così il dualista dello spiritualismo (cioè colui che vede l’assoluto, l’essere in
sé, in una realtà spirituale cui l’uomo non partecipa
affatto con la sua esperienza cosciente) ne fa lo
schiavo della volontà di quell’assoluto. La libertà è
esclusa dall’ambito del materialismo e dello spiri-
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tualismo unilaterale, e comunque da ogni realismo
metafisico che fa illazioni su una realtà extraumana
e non sperimentabile, ritenuta quella vera.» (p. 177)
Il realismo ingenuo e quello metafisico negano entrambi
la libertà: l’uomo è l’esecutore di principi che di necessità
gli vengono imposti.
La concezione unitaria del mondo invece riconosce il
parziale merito del realismo ingenuo, nella stessa misura
in cui riconosce la percezione. Chi non sa trarre gli intenti morali dal proprio pensiero deve trarli da qualche elemento del mondo percepibile (ed è allora non libero). Ma
accanto alla percezione, la concezione unitaria riconosce
parimenti la realtà del pensare: l’uomo può trarre i motivi
dell’agire dalla propria intuizione morale (e allora è libero). Ogni altro essere assoluto, non percepibile ma immaginato come tale, è pura invenzione dell’uomo. Nulla
esiste per l’uomo oltre a percezione e concetto: il motivo
dell’agire dev’essere o l’uno o l’altro. Quando l’uomo non
è libero, dev’essere possibile indicare la realtà percepibile
a cui si sottomette.
«In una visione unitaria del mondo l’uomo agisce
in parte non liberamente, in parte liberamente. Si
trova non libero nel mondo delle percezioni, e attua in sé lo spirito libero.
I comandamenti morali, che il metafisico che
segue delle pure illazioni non può che considerare
come emanazioni di una potenza superiore, sono,
per chi adotta una concezione unitaria, pensieri degli
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uomini; l’ordinamento morale non è per lui né il ricalco di un ordinamento naturale puramente meccanico, né quello di un ordine universale extraumano, ma del tutto opera umana libera.» (p. 179)
Gli scopi che gli uomini perseguono non sono scopi divini, ma umani, e non umani in genere: ognuno ha i propri scopi individuali, poiché il mondo delle idee si esprime non in genere, ma singolarmente in ciascuno. Quando parliamo di scopi comuni agli uomini o all’umanità,
intendiamo sempre degli intenti sorti in individui, che gli
altri hanno poi seguito come propria autorità.
Ogni uomo è chiamato ad essere libero: ne ha in sé la
capacità, come ogni seme di rosa può diventare rosa. La
concezione unitaria è così una filosofia della libertà. Essa
non si chiede se l’uomo è libero o no: si chiede se lo può
diventare. E risponde che l’uomo è un essere aperto: la
natura non lo «finisce», ma gli dà il sostrato su cui egli
deve costruire oltre.
«Il monismo non ha dubbi che un essere il quale
agisca per coercizione fisica o morale non può
essere veramente morale. Considera il passaggio
attraverso l’agire automatico (che segue impulsi e
istinti naturali) e attraverso l’agire sottomesso (che
segue norme morali) come una necessaria propedeutica della moralità. Riconosce però anche la
possibilità di superare, grazie allo spirito libero, entrambi gli stadi preparatori. Il monismo libera così
complessivamente la vera concezione morale dalle
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catene intramondane delle massime morali ingenue
e da quelle extramondane del metafisico speculatore.» (p.180)
Così come i principi della conoscenza vanno ricercati
nell’uomo, così anche quelli della moralità: questa pure è
determinata dalla natura umana.
«La moralità umana è, come l’umano conoscere,
condizionata dalla natura umana. E così come altri
esseri possono intendere per conoscenza qualcosa
del tutto diverso da ciò che intendiamo noi, così
esseri diversi possono avere anche una moralità diversa. Per il seguace del monismo la moralità è una
caratteristica specifica dell’uomo, e la libertà è il
modo umano di essere morali.» (p. 181)
Una difficoltà che può sorgere è quella dell’apparente
contraddizione tra la natura universale delle idee conoscitive e quella individuale delle intuizioni morali. Questo
paradosso è in realtà proprio costitutivo della persona
umana e ne esprime profondamente la natura. Nel conoscere l’uomo attinge ad una realtà unitaria; nell’atto volitivo
egli individualizza, con la stessa attività spirituale, un
membro particolare di quella unità. Il suo essere umano è
proprio in questo continuo oscillare tra le idee conoscitive e quelle morali. I due lati di questo movimento pendolare sono il pensare da una parte e la libertà dall’altra.
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11. Scopo del mondo e della vita (destinazione
dell’uomo)
Una delle correnti della vita spirituale dell’umanità risiede
nel superamento del concetto di scopo là dove è fuori
posto. La finalità è un dato modo di successione di fenomeni: essa si ha unicamente quando il successivo ha un
influsso reale sul precedente (contrariamente al rapporto
normale di causa ed effetto, dove il precedente influisce
sul seguente). Ciò noi lo riscontriamo solo nell’uomo: egli
compie un’azione che si è prima rappresentata, e questa
rappresentazione determina il suo agire. Ciò che viene
dopo (l’azione) influisce su ciò che viene prima (l’uomo
che agisce) mediante la rappresentazione. Senza rappresentazione non vi può essere finalità.
Nel campo della percezione, l’effetto non può mai precedere la causa, la percezione dell’effetto può solo venire
dopo la percezione della causa. Perché l’effetto abbia un influsso reale sulla causa, si richiede il fattore del concetto (in
quanto l’effetto, come percezione, non è ancora presente).
«Chi sostiene che il fiore sia lo scopo della radice,
che abbia cioè un influsso su di essa, lo può affermare unicamente di quell’elemento del fiore che
egli vi coglie col pensare. L’elemento percepibile
del fiore, al formarsi della radice, ancora non esiste.
Perché vi sia un rapporto di finalità non si richiede
unicamente il puro nesso ideale, conforme a leggi,
tra ciò che precede e ciò che segue, ma bisogna che
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il concetto (la legge) dell’effetto abbia un influsso
reale sulla causa mediante un processo percepibile.
Ora, un influsso percepibile esercitato da un concetto su qualcosa d’altro noi lo possiamo osservare
unicamente nelle azioni umane. Solo qui può allora
applicarsi il concetto di fine.» (p. 185)
Il realismo ingenuo escogita anche in questo campo delle
realtà che non può percepire ma che immagina come tali.
Poiché egli agisce secondo scopi, fa agire la natura allo
stesso modo: invece di vedere nelle leggi naturali dei concetti afferrabili solo col pensiero, vi vede non solo delle
forze reali invisibili, ma anche degli invisibili scopi. E fa
agire anche il creatore secondo il modo di agire umano.
«Il monismo respinge il concetto di finalità per tutti
i campi, con la sola eccezione dell’agire umano. Ricerca leggi naturali, non scopi naturali. Scopi della natura sono invenzioni non meno arbitrarie delle forze
non percepibili. Ma anche degli scopi della vita che
non sia l’Uomo stesso a prefiggersi sono per il monismo delle ipotesi ingiustificate. Finalizzato è unicamente ciò che l’uomo rende tale, poiché la finalità
può sorgere solo nell’attuazione di un’idea. Operante
in senso realistico l’idea lo è solo nell’uomo.» (p. 186)
La vita dell’uomo può dunque unicamente avere lo scopo
che lui stesso gli dà. Se chiediamo: qual è il compito
dell’uomo? Possiamo solo rispondere: quello che lui stesso si prefigge.
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Ugualmente, non è giustificato parlare di incarnazione
di scopi o di idee lungo il corso della storia. Se diciamo: la
storia è l’attuazione di un ordinamento morale, oppure è
lo sviluppo dell’uomo verso la libertà, stiamo ancora inventando delle realtà metafisiche che non esistono.
Rimuovere il concetto di scopo da dove non si applica
è tutt’altro che concepire un mondo caotico e senza coerenza. L’armonia che noi cogliamo nel mondo col pensare
non è un insieme di fini percepibili che influiscano sulle proprie cause, bensì l’accordo ideale delle varie parti di un insieme. In altre parole, l’idea che determina l’operare di
ogni essere non è fuori di esso, ma ne costituisce l’essenza,
ed è accessibile non alla percezione, ma al pensare.
La difficoltà sorge qui dal fatto che si confonde l’agire
secondo leggi (Gesetzmässigkeit) con l’agire secondo fini
o finalità (Zweckmässigkeit): il primo è proprio degli esseri naturali, il secondo è proprio dell’uomo. Nell’operare
secondo leggi, la caratteristica essenziale è che queste
leggi non sono fuori degli esseri (nella mente di un altro
essere) ma ne sono proprio l’essenza. Chiamare questo
«finalità» vuol dire esprimersi impropriamente. Appunto
in quanto gli esseri della natura non sono determinati dal
di fuori, ma secondo un’idea che è il loro stesso essere, si
deve parlare di leggi naturali, non di fini.
«Chi dice una cosa fatta secondo uno scopo in
quanto è fatta secondo una legge, può pure designare gli esseri naturali stessi in questo modo. Solo
che questo esser secondo una legge non va confu-
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so con quello dell’agire umano soggettivo. Perché
vi sia scopo è assolutamente necessario che la causa agente sia un concetto, e cioè il concetto
dell’effetto. Nella natura però non si trovano in
nessun luogo concetti che siano cause; il concetto
si mostra sempre e solo come il rapporto ideale fra
causa ed effetto. Nella natura si trovano cause unicamente in forma di percezioni.» (p. 188-9)
Se l’operare secondo leggi (proprio della natura) può considerarsi come un gradino dell’essere inferiore all’agire secondo fini (proprio dell’uomo), c’è però un livello superiore a
quello umano della finalità: l’agire che crea gli esseri stessi,
imprimendo in loro la norma del loro operare. Questo livello superiore alla finalità è il modo di operare di «Dio».
12. L’immaginativa morale (darwinismo e
moralità)
Lo spirito libero agisce secondo intuizioni tratte dal
mondo delle idee; l’uomo non libero trae i moventi del
suo agire dal mondo delle percezioni. L’uomo libero è
capace di decisioni mai prima esistite: non si chiede cosa
altri hanno fatto o comandato di fare nella data circostanza.
Il concetto che lui pone alla base della sua azione
deve però venire a contatto con la realtà: deve inserirsi
nel mondo con un determinato contenuto di percezio-
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ne. Ora, ciò che fa da mediazione tra il concetto e la
percezione è la rappresentazione.
La persona non libera agisce secondo rappresentazioni già preformate, sia prese da altri, sia stabilite dall’abitudine. Egli agisce cioè seguendo esempi, imitando modelli. Le leggi generali concettuali che lo guidano sono a
carattere negativo (non uccidere, non rubare): quelle positive sono particolari, riferite direttamente alla singola
azione da compiere (pulisci la strada davanti alla tua porta, paga tanto di tassa al tal posto).
Quando l’impulso all’agire si esprime in forma concettuale universale (ama il tuo prossimo) bisogna trovare in
ogni singolo caso la rappresentazione, cioè il rapporto
tra il concetto e un particolare contenuto percettivo.
«L’uomo produce rappresentazioni concrete traendole dalla somma delle sue idee anzitutto mediante
la facoltà immaginativa. Ciò che occorre allo spirito libero, al fine di realizzare le sue idee e di affermarsi, è dunque l’immaginativa morale 6. Essa è la fonte per le azioni dello spirito libero. Questo fa sì che
solo coloro che hanno immaginativa morale siano
davvero moralmente produttivi.» (p. 193)
Colui che sa escogitare leggi morali, ma manca di immaginativa morale per tradurle in pratica, è come il critico d’arte
6 Steiner usa il termine «moralische Phantasie». La parola italiana
«fantasia» mi sembra implicare il carattere di arbitrarietà in una misura
che non vale per la stessa parola in tedesco. «Immaginativa» mi pare
rendere alla perfezione il significato inteso da Steiner.
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che sa tutto sul dipingere un quadro, ma non lo sa dipingere.
L’immaginativa morale, per attuare la propria rappresentazione, deve inserirsi nel campo della percezione,
alterando la realtà già esistente. Per fare ciò è necessario
conoscere le leggi del funzionamento del mondo sensibile e le sue possibilità di variazione: si tratta qui di scienza
positiva, di una conoscenza scientifica del reale che possiamo chiamare ingegno morale7. Questa abilità la si può
acquisire – allo stesso modo di ogni altra scienza –, e per
questo è più facile trovare persone con ingegno morale,
che persone con immaginativa morale.
«Nella misura in cui, per l’agire morale, si richiede
la conoscenza degli oggetti del nostro campo d’azione, il nostro agire si basa su tale conoscenza. Si
tratta qui di leggi naturali. Abbiamo a che fare con la
scienza naturale, non con l’etica.
L’immaginativa morale e il patrimonio di idee
morali possono divenire oggetto del sapere solo
dopo che sono state prodotte dall’individuo. Ma allora non servono più a dirigere la vita, poiché
l’hanno già diretta. Vanno considerate come cause
agenti al pari di tutte le altre (sono scopi solo per il
soggetto). Ce ne occupiamo come di una scienza naturale delle rappresentazioni morali.
7 Steiner usa qui il termine «moralische Technik». La parola «tecnica»
indica in italiano, più che in tedesco, troppo esclusivamente la tecnica
industriale moderna. In tedesco essa conserva, più conformemente
alla sua origine greca, un significato più vasto, che mi pare espresso
meglio con «ingegno»
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Oltre ad essa, non può esserci un’etica quale
scienza normativa.» (p. 194-5)
C’è chi ha voluto ritenere il carattere normativo delle leggi
morali nel senso di una dietetica spirituale. Questo paragone però non regge, perché la dietetica ha a che fare con
il corpo che non segue leggi individuali diverse in ognuno,
ma le leggi della specie. Inoltre, queste leggi sono già stabilite, mentre le leggi morali vengono create dall’uomo, e
dall’uomo in quanto individuo unico. La realtà spirituale di
un individuo non è mai quella di un altro.
Ciò non è in contraddizione con la teoria evoluzionistica, ma ne è al contrario una conferma. L’evoluzione si
riferisce al fatto che a un essere precedente ne segue uno
successivo, e che il pensare può afferrare il nesso e la
corrispondenza tra il primo e il secondo. Ma l’evoluzionista non sarebbe mai capace di produrre, normativamente, il concetto del secondo dalla sola percezione del
primo, cioè in assenza della percezione del secondo. Ciò
che egli ci vuol dire invece è che egli, confrontato con
entrambe le percezioni, ne intuisce col pensare la corrispondenza, che è la corrispondenza tra i due concetti.
Il filosofo morale procede allo stesso modo: se confrontato coi concetti morali di un uomo precedente e con
quelli di uno venuto dopo, ne può comprendere la corrispondenza. Ma dai primi non può determinare normativamente i secondi: quest’ultimi li deve percepire al modo dei
primi, e ciò lo può fare solo osservando la realtà morale
del secondo uomo. La confusione nasce dal fatto che i dati
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naturali non vengono creati da noi, mentre le norme etiche
dobbiamo crearle noi prima che possano venir conosciute.
«Non possiamo allora misurare sul passato ciò che
è nuovo? Non sarà ognuno tenuto a valutare ciò
che ha prodotto con la sua immaginativa morale in
base agli insegnamenti etici tramandati? Per quel
che deve rivelarsi moralmente produttivo ciò è altrettanto assurdo quanto il voler valutare una forma naturale nuova in base a una precedente, dicendo: visto che i rettili non concordano con i protoamniotici, essi rappresentano una forma ingiustificata (patologica).» (p. 198)
Seguendo la teoria evoluzionistica percorriamo la scala
degli esseri fino a trovare al suo vertice l’uomo come
individuo morale. C’è sempre corrispondenza tra un dato
gradino e quello successivo, ma nessun gradino mi può
dire, dalla sola sua realtà, quale e come sarà quello successivo. Partendo dalla natura intuitiva del pensare siamo
giunti alla realtà dell’individuo umano pensante come
realtà suprema; partendo dall’osservazione dell’evoluzione del mondo giungiamo alla stessa conclusione. Il sorgere di idee morali del tutto nuove non stupisce più del
sorgere di una specie animale nuova.
È importante non restringere il concetto di naturale, così da escludere la persona umana libera: da una parte, lo
spirituale va visto all’azione in tutti gli esseri, e non solo
nell’uomo; e dall’altra, l’individuo umano libero non è oltre
ciò che è naturale, ma ne è l’ultimo stadio. Lo scienziato
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evoluzionista non ha alcuna ragione di considerare l’uomo
in altro modo che ogni altro essere, e cioè per mezzo
dell’osservazione. È dall’osservazione di ciò che avviene
nell’uomo che noi abbiamo scoperto la sua natura spirituale e individuale: lo stesso deve fare l’evoluzionista.
«Da una scienza naturale che capisce se stessa, l’individualismo etico non ha nulla da temere. L’osservazione mostra che la libertà è l’elemento caratteristico della forma perfetta dell’agire umano.
Questa libertà deve venir attribuita al volere
umano nella misura in cui esso attua delle intuizioni puramente ideali. Queste non sono infatti risultati di una necessità che agisce su di esse dal di fuori, ma una realtà fondata su se stessa. Se l’uomo
trova che un’azione è il riflesso di una simile intuizione ideale, la sente come libera. È in questo tratto
distintivo di un’azione che risiede la libertà.» (p. 201)
Da queste riflessioni si fa più chiaro il problema sollevato
nel primo capitolo, in merito alle due opinioni che dicono, l’una: esser libero vuol dire poter fare ciò che si vuole,
l’altra: esser libero vuol dire desiderare o non desiderare a
piacere. Hamerling sostiene la prima, poiché ritiene assurda la seconda.
Io sono libero quando sono io stesso a produrre, con
l’immaginativa, le rappresentazioni che voglio porre alla
base della mia azione. Non nel fare qualcosa è la libertà,
ma nel modo di volere: libero è colui che può volere lui
stesso ciò che ritiene giusto. Poter volere a piacere ciò
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che si ritiene giusto vorrebbe dire: esser libero o non
libero a piacere, il che è assurdo.
L’autorità fuori di me può impedirmi di fare ciò che io
voglio. Essa mira direttamente a togliermi la libertà non
quando mi impedisce o mi comanda il fare, ma quando
vuol deliberare nel campo delle mie intenzioni, cioè dei
pensieri e delle intuizioni che io pongo alla base dell’azione. Un’istituzione o un’autorità che sostituisce i suoi
intenti ai miei mi rende non libero.
«È di particolare importanza che l’autorizzazione a
designare un volere come libero la si riceve dall’esperienza che ci fa dire: nel volere si realizza un’ intuizione ideale. Ciò non può che essere risultato di
osservazione, e lo è nel senso che il volere umano
è visto in una corrente evolutiva, la cui meta sta nel
raggiungere la possibilità di un volere sorretto da
pura intuizione ideale. Questa meta può venir raggiunta, poiché nell’intuizione ideale non agisce altro che la propria essenza fondata su di sé. Se una
simile intuizione è presente nella coscienza umana,
essa non si è allora sviluppata dai processi dell’organismo, ma l’attività organica si è ritratta per cedere il posto a quella ideale. Se osservo un volere
che è riflesso dell’intuizione, ho anche il ritirarsi
della necessaria attività organica da un tale volere.
Esso è libero.» (p. 203-4)
Come descritto anche nel capitolo sull’idea della libertà, il
volere libero svolge dapprima la funzione negativa di
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sospendere l’attività organica, per poi sostituirsi ad essa.
Soltanto se siamo capaci di osservare quel primo momento (ed è possibile osservarlo) potremo ammettere la realtà
della libertà. In caso contrario riterremo ogni atto volitivo
come determinato dall’organismo.
13. Il valore della vita (pessimismo e ottimismo)
Il problema dello scopo della vita richiama quello del suo
valore. Troviamo qui due posizioni opposte: l’ottimismo
e il pessimismo, con tante sfumature in mezzo.
L’ottimista dice che il mondo in cui ci troviamo è il
migliore che vi possa essere, congegnato con un’armonia
che desta la nostra ammirazione. Il male e il dolore sono
solo in vista di maggior bene e di una gioia più piena. Il
male non è qualcosa di reale, ma solo assenza di un bene
più grande.
Il pessimista, al contrario, vede solo disarmonia, dolore, sofferenza. Il dispiacere, per lui, sorpassa infinitamente
il piacere. La vita è un peso, e il non essere è di gran lunga
preferibile all’esistenza.
Leibniz è il classico ottimista: secondo lui l’uomo non
ha che da partecipare all’armonia sapiente del mondo.
Schopenhauer è dell’opinione opposta: egli vede l’assoluto come cieca brama o volontà. Questa brama, che è
insaziabile, la porta in sé anche l’uomo. Ogni appagamento è una passeggera illusione. La nostra vita è piena di
noia, il valore morale supremo è l’universale far niente.
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E. von Hartmann, pur condividendo il pessimismo,
lo interpreta però in tutt’altro modo. Partendo dall’esperienza e dall’osservazione egli vuole stabilire se sia il piacere o il dolore a prevalere nel mondo. Giunge alla conclusione che ogni tipo di soddisfazione è in realtà
un’illusione: alla base di ogni godimento c’è una quantità
maggiore di sofferenza e di dispiacere. Il fastidio della
sbornia la vince sulla sensazione piacevole dell’ebbrezza.
Nel mondo, il dolore sopravanza sempre di gran lunga il
piacere.
Pur essendo dolore, la vita non è per Hartmann senza
valore: egli vede anzi proprio in questo dolore il valore
dell’esistenza, perché l’essere assoluto, che è saggio, ha
creato proprio il dolore per i suoi saggi fini. È Dio stesso
che vuole liberarsi del suo dolore, e ha creato gli uomini
come strumenti di questa liberazione. La moralità consiste allora nel partecipare alla liberazione di Dio: l’uomo
deve convincersi che la rincorsa del piacere è stoltezza,
che non conduce a nulla, e deve perciò dedicarsi al suo
vero dovere: la liberazione di Dio.
Ma la teoria di Hartmann è proprio fondata sull’esperienza? Ogni aspirazione a un appagamento è un andare
oltre il contenuto vitale già presente: la fame vuole ristabilire la vita corporea; l’aspirazione all’onore vuole aggiungere all’azione il riconoscimento altrui; la sete di conoscenza va oltre la percezione aggiungendovi i concetti
del pensare. Ogni appagamento di desiderio procura piacere; ogni mancato appagamento dispiacere.
Il desiderio come tale non procura dolore: se così fos170
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se, l’assenza di desideri dovrebbe essere accompagnata da
piacere. Il contrario è invece vero: se non ci sono aspirazioni subentra la noia, cioè il dispiacere.
Ogni aspirazione procura gioia: e più intensa è la brama, più intenso il piacere che si sente nel tendere verso
l’appagamento, il quale, quando subentra, è un piacere in
più, che si aggiunge a quello del desiderio. E quando non
viene raggiunto, resta pur sempre la consolazione di aver
fatto di tutto per conseguirlo: il godimento dell’anelito
non viene diminuito.
Piacere e dispiacere non sono unicamente connessi
con l’avvenuto o mancato appagamento: possono anche
sorgere entrambi inaspettati, cioè senza previo desiderio.
Un’improvvisa malattia non è un mancato appagamento
del desiderio di salute: un «desiderio implicito», cioè non
reso intenzionale, non è affatto un desiderio, perché l’intenzionalità conscia è essenziale al desiderio.
«Chi vuole perciò esaminare se vi sia un’eccedenza
dalla parte del piacere o del dispiacere, deve mettere
in conto: il piacere che viene dal desiderare, quello
che viene dall’appagamento del desiderio e quello
che vien dato senza esser desiderato. Sull’altra pagina del registro si avrà: il dispiacere che proviene
dalla noia, quello che viene dai desideri non appagati e infine quello che ci vien dato senza nostri
desideri. A quest’ultima specie appartiene anche il
dispiacere che ci procura un lavoro che non abbiamo scelto, ma che ci è stato imposto.» (p. 211)
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Dobbiamo ora chiederci: con quale strumento tiriamo i
conti tra il piacere e il dispiacere? Hartmann dice che
dev’essere la ragione, ma contraddice se stesso, perché
sostiene d’altra parte che i sentimenti (e piacere e dispiacere sono sentimenti) esistono e valgono nella misura in
cui sono vissuti, direttamente sperimentati. Se così è, non
posso «giudicare» razionalmente se in me prevale il piacere o il dispiacere: lo devo «sentire».
Il «giudizio» che la ragione è tentata di dare sui sentimenti, onde correggerne gli «errori», è duplice. Il primo
riguarda la natura del desiderio, il secondo quella del sentimento stesso. Quanto al desiderio la ragione vorrebbe
convincerci che, al momento di vagliare piacere e dispiacere, esso c’inganna, facendoci apparire il piacere come più
grande di quello che è. La ragione di ciò è che la nostra
brama dell’oggetto desiderato è così forte da farci considerare il dispiacere come minore di quello che è in realtà.
L’orgoglioso considera il piacere che gli viene dalla lode
altrui come più forte del dispiacere per le umiliazioni che
riceve: ma s’inganna. È l’intensità della sua brama di adulazione a fargli credere che il piacere sorpassi il dispiacere: egli ingrandisce il primo e rimpicciolisce il secondo, e
non sa d’ingannarsi.
L’altro giudizio che la ragione dà sul sentimento è che
questo, oltre a essere ingannevole, è illusorio, si fonda cioè
su qualcosa che non ha valore. Restiamo allo stesso esempio del vanaglorioso: il suo orgoglio non gli consente di
vedere che il plauso altrui non ha alcun valore, perché può
essere infondato, o comunque la storia insegna che l’opi172
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nione dei molti è per lo più quella sbagliata. L’orgoglioso
invece fonda la sua vita proprio su questa. La ragione dovrebbe mostrargli che i suoi sentimenti sono illusori.
In altre parole, per valutare oggettivamente la somma
di piacere e dispiacere, l’orgoglioso dovrebbe spogliarsi
del suo amor proprio e servirsi del criterio sobrio e imparziale della ragione, la quale lo convincerebbe sia
dell’inganno, sia dell’illusione. Solo allora conoscerebbe
la vera somma di piacere e di dispiacere.
In questa concezione l’errore sta nel fatto di misurare la realtà dei sentimenti in base al loro presunto valore. Ma il piacere è un sentimento, e per conoscerne la
quantità devo prendere in considerazione tutti i piaceri
così come sono. La soddisfazione che il vanaglorioso
prova dalla lode è un sentimento reale. Se più tardi si
convince del suo carattere illusorio, passerà a godere di
altre cose. Il valore del piacere dev’essere dunque lasciato da parte.
Se ora poniamo la quantità reale del piacere e del dispiacere sui due piatti della bilancia, da quale parte si avrà
il tracollo? È la ragione in grado di decidere? È lei a decidere?
La ragione non può dirimere la questione, per la semplice ragione che non può «decidere» che cosa sia reale:
deve osservarlo. È dalla percezione che veniamo a sapere
se nella vita degli uomini il dispiacere sopravanza il piacere. Se il contabile dice al commerciante che la ditta è vicina al fallimento, il secondo non si contenta dei calcoli del
primo: vuole che siano confermati dai fatti. Se il filosofo
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mi vuol convincere che il negozio della vita è fallimentare, non mi basta la sua speculazione: voglio vederla confermata dai fatti.
Ora, il numero dei suicidi è molto esiguo: la stragrande maggioranza degli uomini prosegue decisa nell’azienda della vita. Ne segue o che non è vero che la quantità di dispiacere è maggiore, oppure che gli uomini non
dipendono, nelle loro aspirazioni, dalla pura quantità del
piacere o del dispiacere.
Hartmann vede nella brama del piacere l’impulso originario e fondamentale. L’uomo però, vedendo che il dispiacere oltrepassa di gran lunga il piacere (e che non può
perciò conseguire quest’ultimo) dovrebbe ragionevolmente mettere da parte il suo egoismo (la sete di piacere) e
dedicarsi allo scopo morale vero della vita (quello di cooperare ad alleviare il dolore di Dio).
«Della concezione morale che si aspetta la dedizione a scopi non egoistici in base al riconoscimento
del pessimismo non si può dire che superi l’egoismo nel vero senso della parola. Gli ideali morali
dovrebbero divenire forti abbastanza da impadronirsi della volontà solo in seguito al fatto che
l’uomo si è accorto che la ricerca egoistica del piacere non può essere appagata. L’uomo, il cui egoismo brama l’uva del piacere, la trova acerba perché
non riesce a coglierla: perciò se ne allontana e si
dedica ad una vita altruistica. Gli ideali morali, secondo il pessimismo, non sono abbastanza forti
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per superare l’egoismo, ma instaurano il loro dominio sul territorio sgombrato dal riconoscimento
della futilità dell’egoismo.» (p. 218-9)
Se l’impulso fondamentale fosse la brama del piacere, e
se questo fosse irraggiungibile, ne seguirebbe il desiderio
di annientare l’esistenza. La sola cosa che potrebbe dissuaderne, sarebbe il comprendere che la propria vita e
il proprio operare sono necessari alla autoliberazione di
«Dio». Dobbiamo però esaminare bene l’assunto fondamentale di questa teoria, che cioè la quantità di piacere sia
il criterio e la meta ultima dell’agire umano.
La domanda che ci poniamo è: i desideri, cioè le aspirazioni umane, sono proprio governate dalla sete di piacere come tale? Prendiamo un esempio basilare: la fame.
L’affamato desidera la sazietà, che è accompagnata da
piacere dovuto alla rimozione del dolore della fame. Ma
l’uomo può non accontentarsi della sazietà: può divenire
un buongustaio e sviluppare desideri che vanno oltre la
semplice sazietà. Si serve allora della fame per procurarsi
altri piaceri, oltre a quello della sazietà. In questo modo la
fame diviene occasione di piacere.
La scienza sostiene che la natura crea più vita e più
desideri di quanti ne possa mantenere e soddisfare. In
ogni momento le aspirazioni sorpassano gli appagamenti.
In questa lotta per avere i mezzi, troppo scarsi, di soddisfare i bisogni, molti esseri periscono miseramente.
Se da una parte ciò è vero, non è meno vero che gli
appagamenti e i piaceri esistenti non vengono affatto
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diminuiti nella loro intensità, per quanto poco numerosi
siano. Ne viene diminuito piuttosto il valore, che dipende
dal rapporto tra il numero dei desideri e il numero dei
soddisfacimenti. Questo valore può rappresentarsi mediante una divisione: al numeratore si pone la quantità del
piacere, il numero cioè dei desideri appagati; al denominatore, i bisogni, i desideri. Il valore è uno quando il numero dei desideri è pari a quello degli appagamenti. È
inferiore a uno quando i desideri superano gli appagamenti. Sarebbe nullo se il numeratore fosse zero, se cioè
non fosse presente nessun appagamento, nessuna quantità
di piacere. E ciò non è mai il caso.
L’errore del pessimismo è nell’aver interpretato questo rapporto qualitativo e proporzionale di divisione,
come un rapporto puramente quantitativo di sottrazione:
secondo questa, l’uomo sottrarrebbe la somma minore da
quella maggiore, cioè paragonerebbe in assoluto la quantità di piacere con quella di dispiacere, senza badare al
rapporto coi desideri.
È importante perciò comprendere che noi non rapportiamo il piacere alla somma di dispiacere, bensì al numero e all’intensità dei nostri desideri e delle nostre aspirazioni: sono questi a costituire il valore del piacere.
«Se ho fame per due panini e ne posso mangiare
solo uno, il piacere che ricevo da quell’uno ha soltanto metà del valore che avrebbe se io, dopo averlo mangiato, fossi sazio. Questo è il modo in cui
nella vita viene determinato il valore di un piacere:
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lo misuriamo sui bisogni della vita. I nostri desideri
sono la misura, il piacere è ciò che viene misurato.
Il piacere della sazietà acquista un valore solo per il
fatto che c’è la fame, e acquista un valore di una
determinata grandezza in base al rapporto in cui
esso si trova con la grandezza della fame che c’è.»
(p. 223)
Che il valore di un piacere sia sempre misurato sul desiderio, lo vediamo particolarmente quando avviene che il
piacere comincia a superare l’intensità del desiderio stesso: in quel momento il piacere si tramuta in dispiacere (a
meno che non riusciamo a intensificare il desiderio di
pari passo col piacere). Qui appare chiaro che il piacere
ha per noi un valore unicamente in rapporto al desiderio.
Per chi non sente più il desiderio del mangiare, quest’ultimo può tramutarsi in nausea.
«Non c’è dubbio che si possano confrontare fra loro il piacere e il dispiacere per determinare l’eccedenza
dell’uno e dell’altro, come lo si fa per il guadagno e
la perdita. Quando però il pessimismo è dell’avviso
che l’eccedenza sia dalla parte del dispiacere e si
crede perciò autorizzato a concludere che la vita
non ha valore, si sbaglia già in partenza in quanto
fa un calcolo che nella vita reale non viene eseguito.» (p. 224)
Il desiderio si rivolge, nel caso singolo, a un oggetto ben
definito. Il valore del piacere nell’appagamento, abbiamo
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visto, dipende dal rapporto tra l’intensità del desiderio e
la quantità del piacere. Dall’intensità del desiderio dipende però anche la quantità di dispiacere che siamo disposti
a subire per conseguirne l’appagamento: anche il dispiacere non viene dunque misurato sul piacere, ma sull’intensità del desiderio. La donna che vuol avere un bambino non paragona quantitativamente la sua gioia con il
dolore coinvolto: paragona quest’ultimo con l’intensità
della brama.
L’uomo, dunque, non cerca mai il piacere in genere, o
astrattamente. Ha sempre in mente degli intenti concreti,
dei desideri singoli e specifici. Se uno ha fame, non è
contento di una passeggiata che procuri la stessa quantità
di piacere: il suo desiderio non è quantitativo, è qualitativo. È questo il motivo per cui egli è disposto ad accettare
il dispiacere e la sofferenza che il conseguimento dei suoi
desideri comporta. Ciò vuol dire che il dispiacere non ha
per lui lo stesso valore del piacere: il desiderio non paragona il dispiacere col piacere, ma con se stesso.
La prova di ciò è il fatto che il valore del piacere è tanto più alto, quanto maggiore la sofferenza necessaria a
conseguirlo. Gli esseri non rinunciano ai loro bisogni
finché non abbiano superato tutte le difficoltà che si
frappongono. La cosiddetta «lotta per l’esistenza» consiste proprio in questo; e solo quando le difficoltà si fanno
insormontabili cessa la forza degli impulsi e delle brame,
in quanto la vita stessa viene meno e l’essere muore. Fino
a quel momento, esso non cessa di combattere.
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«La filosofia dovrebbe prima convincere l’uomo
che il volere ha senso solo quando il piacere è
maggiore del dispiacere; se invece segue la sua natura, egli vuol conseguire gli oggetti del suo desiderio, qualora sia in grado di sopportare il dispiacere
che a ciò è necessario, per quanto grande esso sia.
Una tale filosofia sarebbe però errata perché fa dipendere il volere umano da un fattore (eccedenza
del piacere sul dispiacere) originariamente estraneo
all’uomo. La misura originaria del volere è il desiderio, e questo si fa valere fin tanto che vi riesce.»
(p. 228)
Si può paragonare il rapporto tra piacere e dispiacere come segue: un venditore di mele me ne offre una certa
quantità a prezzo conveniente, a condizione che gli porti
via anche quelle marce, che sono doppiamente numerose.
La mia decisione non si basa sulla quantità dei due tipi di
mele. Se credo di fare un buon affare, porterò via senz’altro anche quelle marce, pur se sono il doppio delle altre.
Se dunque il pessimismo avesse anche ragione nel dire
che il dispiacere supera quantitativamente il piacere, questo fatto non è determinante per la volontà umana. Questa non chiede una somma generale di piacere quantitativamente superiore al dispiacere, ma segue delle mire singole, specifiche, e bada alla quantità di dispiacere solo
quando questa fa affievolire il desiderio.
Ci si può chiedere se sia poi veramente possibile stabilire la quantità di piacere e di dispiacere, e farne il bilan-
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cio. Non c’è ragione per cui ciò non si possa fare, almeno
approssimativamente. L’errore è nel credere che l’uomo
si lasci determinare da questo risultato. L’unico caso in
cui agiamo direttamente in base alla quantità di piacere o
dispiacere, è quando siamo indifferenti. Se interrompo il
lavoro per un momento di sollievo, scelgo l’occupazione
che mi procura più piacere, e non appena prevale il dispiacere la lascio, perché non è quell’occupazione che io
voglio, ma il sollievo.
Il pessimismo vorrebbe distogliere l’uomo dall’egoismo (aspirazione al piacere) mostrandogli che il dispiacere prevale. In questo modo vorrebbe convincerlo a lasciare la caccia al piacere, e a dedicarsi al dovere morale.
«L’etica del pessimismo crede di dover presentare
all’uomo come impossibile la caccia alla felicità, affinché egli si dedichi ai suoi veri compiti morali. Ma
questi compiti morali non sono altro che gli impulsi
naturali e spirituali concreti: al loro appagamento si
aspira nonostante il dispiacere che s’ incontra per
via. La caccia alla felicità che il pessimismo vuole
estirpare, non esiste dunque affatto. I compiti che
l’uomo deve svolgere, li adempie perché ciò vuole lui
stesso in virtù del proprio essere, qualora abbia davvero conosciuto la loro essenza.» (p. 230-1)
Ciò a cui l’uomo mira non è fuori del suo essere (che sarebbe allora uno scopo per il quale lui è strumento) ma è
parte di lui: egli vuole realizzare il proprio essere, in tutte le
sue dimensioni. È lui stesso lo scopo della propria vita.
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Non si propone di conseguire «il piacere», ma di esprimere
ciò che porta dentro di sé. Non ha bisogno di farsi dire da
una morale normativa ciò che deve volere, e che vorrebbe
perciò senza che il suo essere veramente lo voglia.
L’uomo che sviluppa in sé l’immaginativa morale vede sorgere in sé gli ideali morali non meno di qualsiasi
altro desiderio: essi sono voluti da lui intensamente, e il
loro conseguimento dà profondissima gioia da una parte
e consente dall’altra di sopportare prove e dispiaceri,
per quanto grandi essi siano. Questi ideali divengono
allora il contenuto del suo essere: non sono più ciò che
egli deve, ma ciò che egli è. Sono ciò che egli vuole con
fortissima passione: il bene diviene in questo modo ciò
che l’uomo profondamente ed essenzialmente vuole,
non più solo ciò che egli deve. Voler fondare la morale
sull’estirpazione del piacere procurato dall’appagamento
dei desideri vuol dire non prendere in considerazione
proprio le aspirazioni più profonde ed essenziali dell’essere umano.
Il pessimismo non prende in considerazione l’immaginativa morale, propria dell’uomo: ritiene l’individuo non
in grado di darsi da sé gli obiettivi morali. Che l’uomo
abbia istinti e brame inferiori: a ciò pensa la natura. Per
diventare uomo compiuto, egli deve sviluppare le brame
spirituali, che però sorgono in lui come «brame» del suo
essere, non come leggi dal di fuori. Solo chi pensa che
l’uomo non ha queste brame, dirà che gli devono venir
date dalla legge. E allora dovrebbe fare ciò che in effetti
non vuole. Per l’agire morale non basta il soggiogamento
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della natura inferiore: ci vuole l’esplicazione totale delle
facoltà spirituali.
Va da sé che tutto ciò può venir facilmente frainteso.
L’uomo istintuale tende a vedere gli impulsi della sua
natura inferiore come la realtà totale dell’uomo. Nega gli
impulsi spirituali, così da poter tranquillamente lasciarsi
andare. Chi non ha ancora fatto suoi i desideri dello
spirito, deve prima essere condotto per mano dalla norma che lo educhi e lo faccia crescere. Ciò che qui si vuol
descrivere non è ciò che c’è e che vale per l’uomo non
libero, ma ciò che è possibile quando l’uomo diventa sempre più libero: qui lo scopo è quello di mostrare la possibilità della libertà.
«L’uomo che diventa maturo conferisce a se stesso il proprio valore. Egli non tende al piacere, che
gli viene offerto come dono gratuito dalla natura
o dal creatore; e neppure compie il dovere astratto riconosciuto come tale dopo essersi sbarazzato
dalla brama del piacere. Agisce secondo la propria
volontà, cioè in conformità con le proprie intuizioni etiche, e sente come vero godimento della
sua vita il conseguimento di ciò che vuole. Il valore della vita egli lo determina in base al rapporto
fra ciò che ha raggiunto e ciò a cui ha aspirato.»
(p. 235)
L’uomo è in questo modo un essere fondato su se stesso.
Dalla sua libertà fluisce non solo lo scopo, ma anche il
valore della vita: dalla sua volontà libera che tende a rea182
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lizzare il proprio contenuto. E trova in ciò la vera gioia.
Egli rende il valore morale a tal punto parte essenziale del
proprio volere, che l’agire non morale sarebbe per lui una
deformazione, una mutilazione del proprio essere.
14. Individualità e specie
Contro il fatto che l’uomo sia chiamato a essere individualità libera e autonoma sembra porsi l’altro fatto che
egli nasce e cresce come membro di una realtà sociale e
culturale. Porta in sé necessariamente i tratti comuni alla
sua razza, al suo popolo e al suo ambiente.
Essere membro di un organismo vuol dire esser determinati in qualche modo dall’insieme dell’organismo
stesso. Per capire il comportamento del singolo membro
devo rivolgermi alla natura dell’organismo.
L’uomo però è capace di liberarsi gradualmente da ciò
che è la specie in lui, non nel senso di eliminarlo da sé,
ma di farne lo strumento del suo ulteriore sviluppo personale e individuale. È capace di dare a ciò che è della
specie una forma del tutto individuale, che sia espressione del suo essere proprio. Quando ciò avviene, le caratteristiche della specie non bastano più a spiegare l’individuo: per capire quest’ultimo dobbiamo rivolgerci a ciò
che è unico in lui.
Il campo in cui più ci si ostina a spiegare l’individuo
mediante la specie è quello della realtà dei sessi. Troppo
si attribuisce alla natura maschile o femminile come tale,
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e troppo poco all’individuo. Ciò è a scapito soprattutto
della donna, che viene giudicata quasi esclusivamente in
base alla «natura dell’essere femminile», e non in base a
ciò che è proprio della singola donna come individuo.
Invece di dibattere nella società che cosa si confaccia alla
«donna» e che cosa no, sarebbe meglio lasciare alle donne
stesse di decidere, individualmente, ciò che vogliono e non
vogliono. Più importante della comune «indole femminile» sono le qualità e i talenti di ogni persona singola.
Se nella considerazione dell’individuo ci fermiamo alla
specie in lui, non vediamo tutto quello che in lui è appunto
individuale. Tra ciò che è della specie e ciò che è dell’individuo c’è come una linea di demarcazione: ciò che è al
di sotto di questa linea (la specie) può essere oggetto di
scienza positiva, che studia i caratteri delle razze, delle
culture, dei sessi, ecc. Non appena si oltrepassa questa
linea e si entra in ciò che è proprio dell’individuo, non
valgono più le leggi della scienza specifica. Là dove comincia la libertà dell’individuo (nel pensare e nell’agire)
termina il suo venir determinato dalle caratteristiche della
specie. Le intuizioni di un individuo non possono essere
le stesse che ha un altro. Nessuna scienza può stabilire
come un dato individuo debba pensare.
«L’individuo deve acquisire i suoi concetti mediante intuizione propria. Non è possibile dedurre da
nessun concetto di specie in qual modo il singolo
debba pensare: a questo riguardo è determinante
solo e unicamente l’individuo. Né si può determi-
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nare in base a caratteri umani generali quali intenti
concreti l’individuo vorrà prefiggere al suo volere.
Chi vuol comprendere l’ individuo singolo deve
penetrare fin nella sua entità particolare, e non
fermarsi a caratteri tipici. In questo senso ogni singolo uomo è un problema. E ogni scienza che si
occupa di pensieri astratti e di concetti specifici è
solo una preparazione alla conoscenza che ci viene
data quando una individualità umana ci comunica il
suo modo di vedere il mondo, e all’altra conoscenza che ci deriva dal contenuto del suo volere.
Quando ci accorgiamo di aver a che fare con ciò
che in un uomo è libero dal modo di pensare tipico
e dal volere specifico, là dobbiamo cessare di servirci di qualsiasi concetto preso dal nostro spirito,
se vogliamo capire il suo essere.» (p. 240-1)
Ogni realtà viene conosciuta congiungendo la percezione
con il concetto corrispondente. E come conosciamo noi
l’individuo umano? La percezione di lui ci viene data dai
sensi. Il suo concetto non lo possiamo trarre dal nostro
patrimonio concettuale, ma lo possiamo unicamente ricevere da lui, che ne è il libero creatore. Ciò vale però
unicamente per ciò che in lui è davvero individuale, e
non tipico.
«Solo nella misura in cui l’uomo si è, nel modo indicato, reso libero da ciò che è della specie, va considerato come spirito libero in seno a una collettività umana. Nessun uomo è del tutto specie, nes185
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suno è tutto individualità. Ma un po’ alla volta ogni
uomo libera una sfera più o meno ampia del proprio essere sia da ciò che è specifico della vita animale, sia dal dominio che hanno su di lui le norme
di autorità umane.» (p. 241)
Valore morale in senso vero e proprio ha solo quella parte
del proprio agire nella quale l’individuo segue la propria
immaginativa morale: questa intuisce intenti morali nuovi e
individuali, oppure fa proprie le intuizioni altrui, qualora le
trova valide. La vita morale dell’umanità è la somma delle
intuizioni immaginative degli individui umani liberi.
Le questioni ultime:
le conseguenze del monismo
La spiegazione unitaria del mondo consiste nel fatto che
essa è presa da ciò che l’uomo sperimenta, e non da qualcosa che è «oltre» ciò che è a lui accessibile sia esteriormente sia interiormente. Ciò vale anche per le fonti del
suo agire morale: anch’esse sono poste nel suo essere, e
non «al di là» di esso.
Il fondamento ultimo del mondo è accessibile alle facoltà umane della percezione e del pensare, in quanto
esso non si pone fuori del mondo. L’unità del mondo
non risiede in qualche specie di essere assoluto ipostatizzato (che è necessariamente concepito alla maniera del
percepibile), ma è quella che il pensare stesso conferisce
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alle percezioni quando ne trova i concetti corrispondenti.
È solo nella percezione che noi ci separiamo dal fondamento del mondo: col pensare diventiamo di nuovo uno
con esso. Esseri singoli e separati non ci sono: appaiono
tali solo alla percezione, la quale, invece di presentarci la
realtà, ci fa uscire da essa.
«Il monismo, come qui è inteso, mostra che si
può credere a tale indipendenza solo fino a quando il percepito non viene intessuto mediante il
pensare nella trama del mondo dei concetti.
Quando ciò avviene, l’esistenza parziale si palesa
come pura parvenza della percezione. La propria esistenza in sé conchiusa e totale nell’universo, l’uomo la può trovare solo mediante l’esperienza intuitiva del pensare. Il pensare infrange l’apparenza
della percezione e inserisce la nostra esistenza individuale nella vita del cosmo. L’unità del mondo
dei concetti, che contiene le percezioni oggettive,
assume in sé anche il contenuto della nostra personalità soggettiva. Il pensare ci dà, della realtà, il
vero aspetto, come di una unità in sé compiuta,
mentre la molteplicità delle percezioni è solo
un’apparenza proveniente dalla nostra costituzione.» (p. 246)
Qualora si ritenga che l’unità del mondo, quale raggiunta
col pensare, abbia un significato puramente soggettivo, ci
si vede costretti a cercarne un’altra «oggettiva». Questo
fondamento «oggettivo» non può che esser preso dagli
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«oggetti» della nostra esperienza, i quali vengono assolutizzati e ipostatizzati: ciò avviene togliendo ad essi alcune
delle loro qualità percepibili e lasciandone altre. In questo
modo si vuol andare oltre ciò che fa parte dell’esperienza
per porre il fondamento del mondo in qualcosa che non
è sperimentabile.
«In questa prospettiva, la ragione per cui noi comprendiamo con un pensare disciplinato il nesso universale si credeva risiedere nel fatto che un essere
primordiale ha costruito il mondo secondo leggi
logiche, e il fondamento del nostro agire lo si ravvisava nella volontà dell’essere primordiale. Non ci
si rendeva però conto che il pensare abbraccia ad
un tempo il soggettivo e l’oggettivo e che nel congiungere la percezione col concetto troviamo la realtà totale.» (p. 247)
Per evitare questo dualismo bisogna comprendere che i
concetti che il pensare ricongiunge con le percezioni non
sono soggettivi, ma sono presi dalla realtà stessa: sono
anch’essi esperienza, anche se non proveniente dalla percezione esteriore. I concetti quali considerati in sé astrattamente, senza riferimento alla loro percezione, non sono
più reali della percezione senza il suo concetto: anche
questa separazione proviene dalla nostra struttura cognitiva, e non dalla realtà.
«Solamente il rapporto fra i due, la percezione che
si inserisce nell’universo secondo leggi, è piena real-
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tà. Se consideriamo la pura percezione in sé, non
abbiamo una realtà, ma un caos sconnesso; se consideriamo in sé le leggi che reggono le percezioni,
abbiamo a che fare unicamente con concetti astratti.
Non è il concetto astratto che contiene la realtà, ma
l’osservazione pensante, che non considera unilateralmente né il solo concetto, né la percezione per
se stessa, ma il rapporto fra i due.» (p. 248)
Il pensare non è né soggettivo né oggettivo, ma una realtà che abbraccia l’uno e l’altro aspetto. Quando congiungiamo percezione e concetto facciamo qualcosa che appartiene alla realtà stessa nel suo svolgersi. Non possiamo
«escogitare» l’essenza del reale mediante astratta speculazione: al contrario, quando percepiamo pensando viviamo
nel reale. Non c’è bisogno di porre al di là della nostra
esperienza qualcosa di non sperimentabile che ne sia il
fondamento. Il concetto in sé, da solo, è esso pure non
reale: deve congiungersi alla percezione per esser piena
realtà.
«Il monismo mostra che noi col nostro conoscere
afferriamo la realtà nella sua vera forma, e non in
un’immagine soggettiva che venga a frapporsi tra
l’uomo e la realtà» (p.249).
Il mondo dei concetti è uno solo, e tutti gli individui
umani vi attingono. Non ci sono molti concetti del leone,
ma ce n’è uno solo, che è lo stesso sia che lo pensi un individuo, sia che lo pensi un altro.
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«Il contenuto ideale di un altro uomo è pure il mio,
e io lo vedo come altro solo finché percepisco, ma
non più appena io penso. Ogni uomo abbraccia col
suo pensare solo una parte del mondo complessivo
delle idee, e in questo senso gli individui si distinguono anche per il contenuto effettivo del loro pensare. Ma questi contenuti si trovano in un tutto in sé
conchiuso, che abbraccia i contenuti di pensiero di
tutti gli uomini. Il comune essere originario, che
compenetra tutti gli uomini, l’uomo lo afferra così
col suo pensare. Vivere nella realtà con la pienezza
di contenuto del pensare è ad un tempo vivere in
Dio. L’ ‹al di là› puramente dedotto e non sperimentabile si fonda su un malinteso di coloro che credono che l’ ‹al di qua› non abbia in sé il fondamento
della propria esistenza. Non si rendono conto di
trovare col pensare ciò che richiedono per spiegare
la percezione. E difatti non c’è stata mai speculazione che abbia prodotto un contenuto che non sia stato preso dalla realtà a noi data.» (p. 250)
Come può l’uomo infatti «uscire» dal mondo in cui si
trova? Se crede di entrare in un «altro» mondo, come
potrebbe questo essere diverso dal primo, se lui è ancora
lo stesso? Come può parlare di qualcosa che ritiene «oltre» la propria esperienza, se non sperimentandolo? Un fondamento del mondo posto oltre l’esperienza, quali vantaggi potrebbe avere su uno lasciato dentro? Ogni concetto per il quale non si può indicare la percezione corri-
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spondente è un’astrazione vuota e ingiustificata. Possiamo escogitare i concetti della realtà; per trovare la realtà
stessa dobbiamo aggiungervi la percezione. Un essere
assoluto il cui contenuto viene puramente «escogitato» è
del tutto irreale.
«Il monismo non nega ciò che è ideale, considera
anzi come realtà non piena un contenuto di percezione cui manca l’aspetto ideale corrispondente.
D’altra parte, esso non trova, in tutto l’ambito del
pensare, nulla che ci induca a uscire dalla sfera di
esperienza del pensare, venendo a negare la realtà
oggettivamente spirituale del pensare.» (p. 251-2)
Come è realtà incompleta la percezione senza il concetto,
così lo è il concetto cui non corrisponde nessuna percezione: idee che si riferiscono a qualcosa che è oltre la
nostra esperienza sono ipotesi ingiustificate. Esse sono
difatti astrazioni fatte dall’esperienza, la cui provenienza
non viene riconosciuta.
Lo stesso vale per gli intenti del nostro agire. Essi non
provengono da un essere assoluto che è oltre l’uomo e che
comunica a questo i suoi scopi, ma provengono dall’esperienza intuitiva dell’immaginativa morale dell’uomo stesso. Non si tratta di comandamenti che vengono «comunicati» da un al di là a un al di qua, ma di intuizioni umane.
L’uomo è fuori di «Dio» solo quando manca di immaginativa morale: con questa egli vive in lui, e ciò facendo
è nel cuore del proprio essere stesso, non «oltre» se stesso. Solo nell’uomo può un intento divenire volere reale.
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«Idealmente, questo impulso è senz’altro determinato nel mondo unico delle idee; praticamente però solo l’uomo lo può trarre da quel mondo e tradurre in realtà. Per la trasformazione attuale di
un’idea in realtà mediante l’uomo, il monismo può
trovare la ragione solo nell’uomo stesso. L’uomo
deve volere che un’idea diventi azione, prima che
ciò possa accadere. Un tale volere ha quindi il suo
fondamento unicamente nell’uomo stesso. L’uomo
è allora il fattore determinante ultimo della propria
azione. Egli è libero.» (p. 253)
Ci sono tante azioni umane che non sono libere nel senso qui indicato. Qui si voleva mostrare da una parte le
condizioni della libertà, e dall’altra la sua possibilità reale.
Poiché la seconda parte di questo libro trova il suo fondamento nella prima, l’uomo si sperimenta come essere
libero in quanto il pensare intuitivo è la sua propria attività spirituale ed essenziale, un’attuazione di sé libera perché fondata su se stessa.
Il pensare è una realtà spirituale che, oltre a essere da
noi attivamente prodotta, viene anche da noi percepita con
osservazione introspettiva, è cioè una percezione che non
si serve di un organo sensorio fisico. Nel pensare l’uomo si
trova dunque in una realtà spirituale anche come essere
percipiente. Ci chiediamo ora: è l’uomo capace di percepire unicamente la realtà sensibile, oppure possiamo supporre che gli sia possibile anche percepire delle realtà spirituali?
La risposta a questa domanda ci viene dalla percezione
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interiore dell’attività puramente spirituale del pensare:
avendo qui una prima percezione dello spirituale che non è
straordinaria o intermittente, ma costantemente possibile
per ogni uomo, siamo autorizzati a supporre che l’uomo
sia capace, se ne sviluppa in sé le facoltà, di ulteriori percezioni nello spirituale. Quest’ultime avrebbero bisogno di
ricevere il loro complemento dai concetti del pensare non
meno delle percezioni sensibili.
Appendice
(aggiunta alla nuova edizione del 1918)
Questa breve aggiunta ha lo scopo di chiarificare alcuni
problemi che sorgono unicamente in campo filosofico, e
che provengono dai pensatori che si irretiscono nel labirinto dei loro stessi pensieri senza poterne venire a capo.
La difficoltà fondamentale sta nel capire come gli individui umani possano comunicare tra di loro. Ognuno di
loro, si dice, è chiuso nella sua propria coscienza e non
può vedere in quella dell’altro. Come possono sapere di
appartenere allo stesso mondo?
Chi, partendo da ciò che è conscio, pensa di poter fare
illazioni su ciò che non lo è, si dice: il mondo della mia
coscienza è la rappresentazione del mondo reale che io
non posso raggiungere con la coscienza stessa, e che ne è
la causa. In quel mondo reale si trova sia la mia persona,
sia quella dell’altro che mi sta davanti. Queste due persone reali (che non entrano nella nostra coscienza) esercita193
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no l’una sull’altra un influsso reale, che come tale resta
esso pure fuori della coscienza. In quest’ultima si ha la
rappresentazione soggettiva di quel processo reale che è
l’interazione delle due persone.
Ciò che qui avviene, è che al mondo reale se ne aggiunge un secondo inventato, per la paura che, essendo
quello vero realmente dentro alla coscienza, si giunga poi
all’affermazione che la realtà dell’altro esiste solo dentro
di me.
Quando incontro un’altra persona, ho anzitutto davanti a me la percezione sensibile: ciò che vedo, ciò che
sento ecc. Mediante il pensare però comprendo che ciò
che si presenta ai miei sensi è la manifestazione di una
realtà animica invisibile. Il visibile si presenta e si cancella
allo stesso tempo: mentre questo avviene, mi vedo indotto a sospendere il mio proprio pensare e a sostituirlo con
quello dell’altro.
«Il suo pormisi davanti è allo stesso tempo il suo
dissolversi in quanto puro fenomeno sensorio. Ma
ciò che mi presenta in questo dissolversi mi costringe, finché dura la sua azione, a spegnere, in quanto
essere pensante, il pensare mio proprio, per sostituirvi il suo. Questo suo pensare io l’afferro però col
mio pensare quale esperienza come il mio pensare
stesso. Ho realmente percepito il pensare dell’altro.
La percezione immediata che si dissolve nella sua
qualità di apparenza sensibile viene infatti afferrata
dal mio pensare, ed ho un processo che si svolge in-
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teramente dentro alla mia coscienza, che consiste nel
fatto che al posto del mio pensare si pone il pensare
dell’altro. Coll’estinguersi della manifestazione sensibile viene effettivamente sospesa la separazione fra
le due sfere di coscienza». (p. 260-1)
Mentre io vivo in me il contenuto della coscienza altrui,
quello della mia viene sospeso come avviene nel sonno.
La differenza è nel fatto che nel sonno subentra l’assenza
di coscienza, qui invece il contenuto di quella dell’altro; e
poi nel fatto che il passaggio da un contenuto all’altro di
coscienza è così veloce da passare per lo più inosservato.
Come si vede, anche l’incontro di due coscienze va spiegato ricorrendo alla percezione e al pensare, che sono le
sole due realtà che l’uomo sperimenta. Oltre ad esse non
c’è mai bisogno di andare.
Eduard von Hartmann ha definito il pensiero della Filosofia della libertà un monismo gnoseologico, da lui ritenuto
impossibile. Egli vede solo tre posizioni possibili nella
teoria della conoscenza: il realismo ingenuo (che vede nel
percepito il reale); l’idealismo trascendentale (la cosa in sé è
del tutto inconoscibile); il realismo trascendentale (la coscienza non sperimenta direttamente la cosa in sé, ma solo
tramite illazioni a partire da ciò che è nella coscienza).
Per mostrare che non vi possono essere altri punti di
vista, Hartmann pone tre domande, alle quali, secondo
lui, ci sono per ognuna solo tre risposte possibili, corrispondenti ai tre punti di vista indicati. La prima domanda
è: sono le cose a carattere continuo o intermittente? Il
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realismo ingenuo dirà: continuo; l’idealista trascendentale
dirà: intermittente; il realista trascendentale dirà: continuo
come contenuto della coscienza assoluta, intermittente
come contenuto della coscienza limitata.
La seconda domanda: se tre persone sono sedute a un
tavolo, quante copie del tavolo vi sono? Il realismo ingenuo dice: una; l’idealista trascendentale dice: tre; il realismo trascendentale dice: quattro (il tavolo come cosa in
sé, e le tre nelle coscienze).
La terza domanda: se due persone sono sole in una
stanza, quante copie ci sono di queste persone? il realista
ingenuo risponderà: due; l’idealista trascendentale risponderà: quattro; il realista trascendentale risponderà: sei (due
persone in sé e quattro rappresentazioni, in ognuno quella di sé e dell’altro). Hartmann non vede altre risposte
possibili.
La Filosofia della libertà non solo trova altre risposte, ma
le ritiene le sole giuste. Alla prima domanda risponde: alla
percezione le cose si presentano come intermittenti, e
proprio per questo essa non dà la realtà ma porta fuori
dal reale. Al pensare invece il contenuto del mondo si
presenta come continuativo. Quanto alle tre persone
sedute ad un tavolo: il tavolo è uno solo; le tre immagini
percettive non sono realtà, e lo diventano quando, grazie
al pensare, si uniscono nell’unica realtà del tavolo. Per le
due persone in una stanza: anche qui, le due immagini
percettive sussistono in ciascuno finché non subentri il
pensare che abbatte il muro divisorio tra le due coscienze. Si dirà che questo è un realismo ingenuo riguardo al
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pensare, ma quest’opera ha voluto proprio mostrare che,
riguardo al pensare, il punto di vista del realismo ingenuo è
il solo giusto. Né si tratta di un monismo gnoseologico,
ma, se proprio si vuole un nome, di un «monismo dei
pensieri» (Gedanken-Monismus).
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III. SINTESI
LE CONSEGUENZE DELLA FILOSOFIA
DELLA LIBERTÀ
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1. La visione unitaria del mondo
Il concetto di visione unitaria del mondo è fondamentale
per una comprensione della Filosofia della libertà di Steiner.
È il punto di vista dal quale tutto deve venire compreso,
l’orizzonte conoscitivo che ispira e rischiara ogni scelta e
ogni decisione.
Steiner usa di solito il termine «monismo» (Monismus)
a indicare il proprio pensare, ma questo termine può dar
adito a confusione. Infatti, nel secondo capitolo del suo
libro egli stesso chiama monismo quella teoria errata, che
vuol ridurre il reale o alla sola materia (negando lo spirito) o al solo spirito (negando la materia)8. Sarebbe stato
meglio, secondo me, se Steiner avesse distinto chiaramente la terminologia: o riservando il termine «monismo» per l’uso fattone nel secondo capitolo (e trovando
allora un altro termine per la propria visione); oppure
riservando il termine di monismo a sé, senza usarlo per
teorie diverse dalla sua, o addirittura opposte. Si tratta qui
però di una pura questione di terminologia, che non tocca il contenuto dell’opera. In base a queste considerazioni, io userò continuamente l’espressione «visione unitaria
del mondo», che è presa essa pure dal nostro testo (einheitliche Welterklärung)9.
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9
Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 29-35
Idem, p. 245
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Si tratta ora di comprendere il significato centrale di
questo cardine della Filosofia della libertà.
Steiner ha sviluppato ed espresso il suo pensiero, come ho mostrato nella prima parte, non nell’isolamento,
ma inserendosi appassionatamente e vivacemente nel
contesto culturale dei suoi giorni. Si è trovato in mezzo a
due correnti fondamentali in lotta fra loro, e ha visto
chiaramente sia la parte di verità sia la parzialità di entrambe. Da una parte c’era la scienza naturale, capeggiata
da Haeckel; dall’altra la religione tradizionale, rappresentata soprattutto dalla teologia. La filosofia, che avrebbe
dovuto fare da ponte tra le due, era caduta, alla fine del
secolo scorso, in discredito sia presso gli uni che presso
gli altri.
La scienza era tutta rivolta al mondo della materia. Fu
come un’ipnosi del fenomeno sensibile ad afferrare le
generazioni della seconda metà del sec. XIX. Si creò una
mentalità che voleva spiegare l’intero universo con le
leggi dei processi fisici e meccanici. Lo spirito stesso, il
pensiero umano, doveva spiegarsi mediante i movimenti
delle cellule del cervello. La «cosa in sé», oltre le percezioni, era stata dichiarata da Kant inconoscibile. Fu perciò lasciata da parte e ci si rivolse alla sola cosa ritenuta
reale e conoscibile: il mondo materiale.
La teologia voleva difendere il mondo dello spirito,
ma ne parlava essa pure come di una «cosa in sé» inconoscibile, da accostare con la fede più che con il pensiero.
L’insistenza unilaterale sulla trascendenza, faceva pensare
a Dio quasi in termini spaziali: un Dio che è «al di là», che
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è oltre, che non è raggiungibile dalla creatura, la quale si
trova «al di qua».
Questa scienza e questa teologia hanno in comune
una cosa: la tendenza a svalutare l’uomo. Una materia che
non ha spirito, e uno spirito che è «oltre» la materia non
hanno posto per quell’essere che armonizza in sé la materia e lo spirito: la persona umana. La scienza gli parla del
suo corpo; la teologia della sua anima. L’una parla di assoluto determinismo, l’altra di libertà. Ma dove si trova
l’unione dei due? L’ordine naturale e l’ordine morale sono forse due binari che non s’incontrano mai?
«Si tratta appunto del fatto che questo mondo, per
quanto profondamente ci si spinga nei mondi spirituali, va concepito come unitario, di modo che tutto
ciò che è spirito deve allo stesso tempo venir cercato nell’esistenza materiale. Si è recato allo sviluppo
recente della nostra concezione del mondo il danno
più incalcolabile per il fatto che gli uomini hanno
voluto sempre di nuovo riferirsi a qualcosa di indefinito, a un vago ‹al di là›, uscendo fuori da ciò che è
esperienza immediata. Questo ‹al di là› deve diventare, proprio mediante la contemplazione spirituale,
un ‹al di qua›, una realtà che è veramente qui presente. Per questo motivo io dovetti nella mia teoria della conoscenza combattere tutte le vaghe rappresentazioni di un ‹al di là› e dovetti appunto respingere
ben lontano da me tutto ciò che nelle attuali confessioni religiose vuol sempre di nuovo coltivare queste
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vaghe rappresentazioni dell’al di là. E dovetti, proprio al fine di salire gradualmente a una vera comprensione del Cristo, presentare come da scartarsi
per l’umanità del futuro tutto ciò che rende difatti
nebuloso il vero impulso del Cristo. Dev’essere
chiaro infatti che il modo moderno di distinguere
tra rivelazione e scienza esteriore, instaurato proprio
sotto la protezione delle correnti teologiche, reca
grave danno alla nostra crescita spirituale. Perciò
non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che io
abbia respinto nel mio periodo filosofico il cristianesimo comune, poiché è proprio a motivo del Cristo che esso va respinto». (Die geistigen Hintergründe der
sozialen Frage, IV Band (1951), p. 59)
Alla scienza Steiner vuol indicare la realtà dello spirito.
Alla religione ne vuole indicare la conoscibilità.
«Queste due cose: la prima, che c’è un regno spirituale, la seconda: che l’uomo è inserito in questo
regno dello spirito con l’Io più intimo del proprio
essere. Ecco i punti fondamentali della Filosofia della libertà. (Die Geschichte und die Bedingungen der anthroposophischen Bewegung..., GA 258 (1959), p. 44)
Questo è l’atteggiamento spirituale che guida il pensiero
di Steiner. È da questo duplice intento che possiamo
comprendere più specificamente il significato filosofico e
teologico della sua visione unitaria del mondo. Egli vuol
mostrare che l’uomo, nell’esercizio delle sue facoltà co-
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gnitive spirituali, vive dentro al reale, è in comunione con
l’essere, partecipa al divenire del mondo.
In un articolo del 1893, commentando la storia della
filosofia pubblicata da V. Knauer (Vienna 1892), Steiner
distingue due specie di monismo:
«Knauer non riconosce la differenza tra monismo
astratto e monismo concreto. Il primo cerca un’unità accanto e al di sopra delle cose singole del cosmo. Questo monismo si trova sempre a disagio
nel dover rendere comprensibile e dedurre la pluralità delle cose dall’unità assolutizzata. Ne segue di
solito che esso dichiara la molteplicità come apparenza, e ciò comporta una totale volatilizzazione
della realtà data. Il sistema iniziale di Schopenhauer
e quello di Schelling sono due esempi di questo
monismo astratto. Il monismo concreto ricerca il
principio universale unitario dentro alla realtà vivente. Non cerca una unità metafisica accanto al
mondo dato, ma è convinto che questo mondo dato contiene in sé le fasi evolutive nelle quali il principio universale articola ed esplica se stesso.
Questo monismo concreto non cerca l’unità
nella molteplicità, ma vuole concepire la molteplicità come unità. Il concetto di unità che sta alla base del monismo concreto la concepisce come sostanziale, cioè tale da porre in se stessa la differenziazione. Ad essa si contrappone quell’unità che è
in sé del tutto indifferenziata, cioè assolutamente
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semplice (come i reali di Herbart), e quell’altra che
assomma in una unità formale i caratteri di uguaglianza che trova nelle cose, un po’ come si assommano dieci anni in un decennio. Knauer conosce solo questi ultimi due concetti di unità. Il primo, che riesce a spiegare le cose differenziate della
realtà unicamente in base all’interazione di molti
reali semplici, può condurre al pluralismo; il secondo porta al monismo astratto, perché la sua unità
non è immanente alle cose, ma esiste accanto e al di
sopra di esse. Egli ignora gli elementi monisticoconcreti della filosofia recente. Per questa ragione
mi pare carente questa parte delle sue lezioni.
Io aderisco al monismo concreto. Grazie ad esso
mi è possibile comprendere i risultati della scienza
recente, e cioè della scienza degli organismi di Goethe, Darwin e Haeckel. Se Knauer avesse preso in
considerazione la scienza del mondo organico, nella sua esposizione, come lo ha fatto più che giustamente per quello inorganico (equivalenza termica, costanza dell’energia, seconda legge generale
della teoria del calore), allora si sarebbe reso conto
della difficoltà che comporta l’applicazione del pluralismo. È impossibile spiegare senza contraddizioni la teoria evoluzionistica (e le sue conseguenze: teoria dell’ereditarietà e dell’adattamento, legge
biogenetica fondamentale) servendosi dell’interazione di reali semplici distinti». (Methodische Grundlagen der Anthroposophie, GA 30 (1961), p. 330-1)
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Steiner vede così nel monismo astratto o formale, tipico
di molta filosofia e teologia del suo tempo, un pluralismo
di stampo monadistico. L’unità viene difatti affermata
parallelamente alla pluralità, non come sua essenza.
Il quesito più importante che sorge di fronte a ogni tipo di monismo è quello del rapporto tra trascendenza e
immanenza di Dio, e del pericolo di panteismo.
Si può applicare ai concetti di immanenza e trascendenza la stessa riflessione che Steiner applica ai concetti
di soggetto e oggetto, mostrando come essi siano entrambi prodotti dal pensare10. Il pensare come tale non
può essere definito né in termini di trascendenza, né in
termini di immanenza, perché è lui a fare scaturire da sé
l’uno e l’altro concetto. La mentalità dogmatica nella filosofia tende a ipostatizzare i concetti facendone degli esseri «metafisici»: è in questo modo che il «trascendente»
viene immaginato come un essere assoluto. Si dimentica
che anche la trascendenza è un concetto prodotto dal
pensare, e rimanda al pensare come realtà fondata su se
stessa.
Con l’avvento progressivo del materialismo, il concetto di essere si è spostato dall’attività spirituale verso l’oggetto da essa prodotto o contemplato. L’attività è stata
sempre più considerata come irreale, e l’oggetto come
unica realtà. La trascendenza astratta e formale di molta
filosofia e teologia è, paradossalmente, frutto diretto di
questa mentalità materialistica. Vede l’essere non nell’e10
Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 60
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sercizio vivente del pensare, ma nell’oggetto (visibile o
invisibile) che il pensare produce (idealismo) o osserva
(empirismo). L’analogia della percezione sensibile (il
guardare l’essere che è fuori di me) è divenuta più che
analogia; è stata presa a modello della conoscenza spirituale stessa.
L’ «immanenza» che è propria dell’esperienza vissuta
del pensare non è negazione di trascendenza: è al contrario il solo vero modo di trascendere. Tutti gli «oggetti»
della conoscenza (materiali e spirituali) si pongono sulla
sponda di ciò che è dato; il pensare è la loro trascendenza: li strappa dal loro isolamento e li porta «oltre se stessi»
in quel regno unitario che il pensare stesso è.
Ma non vuol dire questo ipostatizzare il pensare, dandogli una funzione assoluta al posto di Dio? Non è questo
ciò che Hegel ha fatto? No: Hegel ha reso assoluti i prodotti del pensare (le idee e i concetti), non l’attività vivente
del pensare in quanto essere spirituale. Nel pensare abbiamo lo spirituale stesso a nostra portata, perché lo possiamo esperire interiormente e direttamente. Il pensare non è
un concetto: è una realtà vivente fondata su se stessa: unicamente del pensare possiamo dire questo. Tutto il resto è
oggetto offerto al pensare, o concetto da esso prodotto.
Associare il concetto di «trascendenza» col concetto di
«oltre» (o «fuori») vuol dire prendere il mondo inorganico
a norma dell’essere. Nei processi meccanici la causa è,
similmente all’effetto, un oggetto materiale, e deve essere
perciò distinta e «fuori» dal suo effetto. Nel mondo organico ciò non vale più. La vita della pianta non è un’idea
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astratta, fuori di essa, presente in qualche altro essere. È
inerente alla pianta stessa: la si conosce conoscendo la
pianta, non andando oltre la pianta.
Potremmo dire allora che il pensare è l’esercizio del
trascendere, e questo trascendere è immanente all’uomo,
perché ne è l’essenza. Ogni dato (materiale o mentale)
viene «dato» al pensare affinché trovi, tramite esso, la
propria trascendenza: il passaggio dall’isolamento (che è
illusione) all’inserimento nell’essere unitario.
La differenza fra «Dio» e il pensare e allora che «Dio»
(in quanto contenuto della nostra coscienza) è un concetto
prodotto dal pensare; il pensare è, invece, una realtà spirituale, una attualità fondata su se stessa, e direttamente
vissuta in quanto prodotta nell’uomo e dall’uomo. Quando Steiner scrive: «Vivere nella realtà con la pienezza di
contenuto del pensare è ad un tempo vivere in Dio»11,
intende dire che il nostro accesso allo spirituale (a Dio)
non è nei concetti che ci formiamo su Dio, quanto nello
spirituale stesso, cioè nell’attività del pensare.
Per intendere correttamente il rapporto con il «trascendente» dobbiamo dunque concepire la realtà dell’Io
da una parte e la realtà di Dio dall’altra come corrispondentisi, e non antitetiche. Facilmente, noi concepiamo
l’Io unicamente in termini di limitatezza, e Dio lo immaginiamo con attributi presi dal sensibile ma isolati dal loro
contesto (cioè spogliati di altri attributi) e quindi non
sperimentabili.
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Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 250
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Il pensare, che si manifesta nell’Io umano, è una realtà
spirituale che trascende l’Io ordinario. Nella sua relazione
al Quarto Congresso Internazionale di Filosofia, tenutosi
a Bologna nel 1911, Steiner così distingue tra l’essere
dell’Io e la coscienza concettuale che di esso noi abbiamo
normalmente:
«Se si presuppone già in partenza che l’ ‹Io›, col
contenuto delle leggi del mondo espresse in idee e
concetti, si trovi fuori dal trascendente, appare ovvio che questo ‹Io› non possa oltrepassare se stesso,
che debba cioè restare permanentemente fuori dal
trascendente. Questo presupposto però non regge di fronte a un’osservazione non prevenuta dei
fatti della coscienza. Per semplificare voglio qui riferirmi dapprima al contenuto delle leggi del mondo, in quanto esprimibile in concetti e formule matematiche. La struttura interna delle leggi delle
formule matematiche viene colta dentro alla coscienza e poi applicata al dato di fatto empirico.
Ora, non si può trovare differenza alcuna tra ciò
che vive nella coscienza come concetto matematico, quando essa riferisce il proprio contenuto a un
dato di fatto empirico, e ciò che vive in essa quando si rappresenta questo concetto matematico in
un pensare matematico puro e astratto. Ma ciò può
solo voler dire che l’‹Io› non si trova, con le sue
rappresentazioni matematiche, fuori della realtà
trascendente delle leggi matematiche delle cose, ma
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dentro ad essa. E la teoria della conoscenza giunge
a una migliore rappresentazione dell’ ‹Io› se non lo
concepisce come localizzato all’interno dell’organismo corporeo, così che le impressioni gli verrebbero date ‹dal di fuori›, ma se lo colloca nella realtà
stessa delle leggi delle cose, considerando l’organismo corporeo semplicemente come uno specchio
che riflette all’Io, mediante l’attività organica del
corpo, l’opera che l’Io svolge nel trascendente fuori del corpo. Una volta abituati, riguardo al pensare
matematico, al pensiero che l’ ‹Io› non è nel corpo,
ma fuori di esso, e che l’attività corporea rappresenta unicamente lo specchio vivente che riflette la
vita dell’ ‹Io› situata nel trascendente, allora si può
trovare questo pensiero gnoseologicamente comprensibile anche per tutto ciò che sorge nell’orizzonte della coscienza.
In questo modo non si potrebbe più dire che
l’ ‹Io› debba oltrepassare se stesso per giungere nel
trascendente. Si dovrebbe invece rendersi conto
che il normale contenuto di coscienza empirico sta
a quello interiormente in realtà vissuto dall’essere
essenziale dell’uomo come il riflesso speculare sta
all’essere di colui che si guarda nello specchio».
(Philosophie und Anthroposophie, GA 35 (1965), p. 139-40)
Da queste riflessioni si comprende come la «trascendenza» propria dell’Io (in quanto pensante) non può venir
concepita in termini spaziali. Questa «correzione» del
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concetto dell’Io porta con sé, analogamente, una rettificazione del concetto di Dio. La maggior parte delle variazioni fatte da Steiner al testo per la seconda edizione della
sua opera, si riferiscono proprio all’essere assoluto in
quanto spesso inteso come irraggiungibile, del tutto «oltre» e «fuori» dell’uomo. È questa la visione che Steiner
chiama dualismo, la cui essenza è nel concepire l’Io come
«dentro» all’uomo, e Dio come «fuori» di esso. Ciò si può
fare unicamente trasponendo nello spirituale le categorie
spaziali proprie della percezione. Il «dentro» e il «fuori»,
l’al di là e l’al di qua, sono tutti concetti creati dal pensare:
il pensare stesso non può definirsi con nessuno di essi,
poiché li «trascende» tutti.
In uno scritto del 1900 dal titolo Haeckel e i suoi avversari Steiner parla di questo dualismo come di una visione che necessariamente contraddice se stessa.
«Così è il pensare che in ogni divenire del mondo
ci conduce oltre la mera osservazione, non però oltre se stesso…
Questo fatto non può conciliarsi con la concezione dualistica del mondo. I fautori di questa concezione spesso sottolineano che le manifestazioni
della coscienza pensante ci sono accessibili mediante il senso interiore dell’introspezione, mentre
l’evento fisico e chimico lo comprendiamo solo se
poniamo nel giusto rapporto i fatti dell’osservazione mediante combinazione logica, matematica e via
dicendo, cioè mediante i dati della sfera delle
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scienze spirituali. Ma proprio ciò essi non hanno il diritto
di ammettere. Basta infatti trarre la logica conseguenza dalla conoscenza del fatto che l’osservazione si
svolge in auto-osservazione quando passiamo dal
campo delle scienze naturali a quello delle scienze
spirituali. Se alla base dei fenomeni naturali ci fosse
una ragione cosmica generale o un altro essere
primordiale spirituale (per esempio la volontà di
Schopenhauer o lo spirito inconscio di Hartmann),
anche lo spirito umano pensante dovrebbe allora
esser creato da questo essere universale. Un accordo tra i concetti e le idee che questo spirito si forma sui fenomeni e le leggi insite in questi fenomeni
stessi sarebbe possibile solo a condizione che
quell’ideale artista cosmico suscitasse nell’anima
umana le leggi secondo le quali egli ha in precedenza creato il mondo. Ma allora l’uomo conoscerebbe la propria attività spirituale non mediante auto-osservazione, ma mediante osservazione dell’essere primordiale, da cui è stato formato. Non vi sarebbe perciò introspezione, ma solo osservazione
degli intenti e degli scopi dell’essere primordiale.
La matematica e la logica, per esempio, non potrebbero elaborarsi nella ricerca da parte dell’uomo
della natura intrinseca e propria dei nessi spirituali,
ma deducendo queste verità delle scienze spirituali
dagli intenti e dagli scopi della ragione universale
eterna. Se la ragione umana fosse solo riflesso di
una eterna, non potrebbe mai cogliere le proprie
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leggi tramite introspezione, ma dovrebbe spiegarle
a partire dalla ragione eterna. Ma ogni volta che si
è tentata una tale spiegazione, non si è fatto che ricercare nel mondo la ragione umana. Quando il
mistico pensa di elevarsi alla visione di Dio immergendosi nel proprio intimo, egli vede in realtà unicamente il proprio spirito, da lui deificato; e quando Eduard von Hartmann parla di idee che si servono delle leggi naturali come di manovali per la
costruzione del mondo, quelle idee non sono che
le sue, tramite le quali egli si spiega il mondo. Proprio per il fatto che l’osservazione delle manifestazioni dello spirito è auto-osservazione, ne segue che
nello spirito si esprime il proprio io, e non una ragione estrinseca». (Methodische Grundlagen der Anthroposophie, GA 30 (1961), p. 177-8)
Ci si può chiedere a questo punto quale sia la differenza
tra l’Io e Dio. Bisogna chiaramente distinguere tra l’Io
umano nel quale il pensare si manifesta (che, seguendo la
riflessione di sopra, costituisce la coscienza dell’Io o autocoscienza) e il pensare stesso. La coscienza dell’Io è
ottenuta essa pure grazie al pensare (congiunto con la
percezione corporea di sé), ma non si identifica col pensare. L’ultimo brano citato non vuol dire che Dio non esiste: vuole piuttosto dire che nell’attività del pensare noi
non siamo «fuori» di lui, così da necessitare un ulteriore e
distinto rinvio o riferimento a lui per aver conferma della
validità del pensare. Dicendo che vivere nel pensare è
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vivere in Dio non si vuol identificare il pensare con Dio.
Ciò per il fatto che ogni pensare umano ha bisogno del
riferimento alla percezione. I concetti astratti, senza alcun
contenuto di percezione, sono fuori del reale non meno
della percezione senza il suo concetto. È questo il significato centrale del capitoletto finale della Filosofia della libertà dal titolo: «Le conseguenze del monismo».
«Un concetto che debba riempirsi di un contenuto
che si trova al di fuori del mondo a noi dato, è
un’astrazione a cui non corrisponde alcuna realtà.
Noi possiamo escogitare solo i concetti della realtà;
per trovare la realtà stessa occorre in più anche il
percepire. Un essere primordiale del mondo, il cui
contenuto viene escogitato, è per un pensare che
comprenda se stesso un assunto insostenibile. Il
monismo non nega ciò che è ideale, considera anzi
come realtà non piena un contenuto di percezione
cui manca l’aspetto ideale corrispondente. D’altra
parte, esso non trova, in tutto l’ambito del pensare,
nulla che ci induca ad uscire dalla sfera di esperienza del pensare, venendo a negare la realtà oggettivamente spirituale del pensiero. In una scienza che
si limiti a descrivere le percezioni, senza entrare fino al loro complemento ideale, il monismo vede
una realtà monca. Ma considera ugualmente parziali tutti i concetti astratti che non trovano il loro
complemento nella percezione, né il loro punto di
inserimento nella trama di concetti che abbraccia il
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mondo osservabile. Esso non conosce perciò idee
che rimandino a qualcosa di oggettivo situato al di
là della nostra esperienza e che debbano formare il
contenuto di una metafisica puramente ipotetica.
Tutto ciò che l’umanità ha escogitato con idee di
questo tipo, sono per il monismo astrazioni tratte
dall’esperienza, la cui provenienza da essa è semplicemente ignorata dai loro artefici». (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 250-1)
Qui vediamo chiaramente come la concezione della trascendenza dipenda fondamentalmente dalla teoria della
conoscenza. Da questa scaturiscono i concetti di intenzionalità dello spirito umano, di partecipazione, ecc. Tutta la prima parte della Filosofia della libertà non è che una
teoria della conoscenza. Vale perciò la pena esaminarne
più specificamente le linee portanti, per vedere se ci aiutano a comprendere meglio i quesiti fin qui sollevati.
2. Il conoscere come sintesi di percezione
e pensare
La Filosofia della libertà è concepita essenzialmente come
metodo: un metodo del conoscere nella prima parte,
metodo dell’agire morale nella seconda. Contrariamente a
quanto potrebbe sembrare, non contiene in modo diretto
alcuna affermazione positiva circa i possibili contenuti o
risultati ai quali il pensare, rettamente inteso, può giunge-
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re. Piuttosto, si rivolge a certe affermazioni comunemente prese per valide, per mostrare che esse sono il frutto di
«pregiudizi» circa la conoscenza, cioè di una mancata
comprensione del conoscere umano.
Una di queste affermazioni è che le nostre percezioni
siano rappresentazioni.
Per comprendere il rapporto dell’uomo col trascendente (con Dio) è di fondamentale importanza rendersi
conto del cammino storico degli ultimi secoli, che ha
portato l’uomo da un lato a dedicarsi sempre più appassionatamente allo studio della natura, dall’altro a sentirsi
sempre più isolato e «chiuso» nella propria individualità.
La consapevolezza di sé non poteva avvenire che prendendo le distanze dall’altro da sé, per via di contrapposizione. Il mondo visibile, proprio perché materiale, è quello che più profondamente esprime il carattere di alterità
dei singoli esseri.
Il rivolgersi progressivo dell’uomo verso il mondo
sensibile che lo circonda, corrisponde a un suo graduale
alienarsi dal mondo spirituale nel quale in epoche precedenti si sentiva direttamente inserito. La conoscenza dei
sensi diviene a poco a poco la sola ritenuta valida, e la
conoscenza intellettuale sempre più come superflua, come vuota speculazione che non aggiunge nulla alle cose.
Ma questo non è solo un atteggiamento conoscitivo: al
suo fondamento si pone la convinzione, più o meno
esplicita o confessa, che il visibile sia la sola vera realtà, e
che ciò che non è visibile non sia veramente reale. In
questo risiede il palese o nascosto materialismo della
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scienza e di gran parte della filosofia moderna.
La scienza, a partire soprattutto da Newton, tende a
considerare reali solo i processi meccanici e inorganici, e
a spiegare ogni fenomeno in termini di atomi e dei loro
movimenti in attrazione o repulsione reciproca. Il concetto tradizionale di essere viene qui identificato con corpi
materiali (gli atomi); il concetto tradizionale di divenire
viene ristretto ai movimenti spaziali degli atomi; il concetto tradizionale di causalità viene ridotto a forze meccaniche, o a quanti di energia, intesi sempre come realtà
materiali. Già Locke aveva distinto tra qualità primarie e
secondarie: primarie quelle meccaniche (e perciò oggettive e reali), e secondarie quelle prodotte dal nostro organismo (e perciò soggettive). Alla mia percezione di un suono, o di un colore, corrispondono fuori di me, nella realtà, solo movimenti o vibrazioni della materia; il resto, la
sensazione vera e propria, è prodotta soggettivamente dal
mio organismo.
Anche gran parte della filosofia, soprattutto a partire
da Kant, si fonda sul dogma che dice che noi conosciamo
unicamente le nostre rappresentazioni interiori, mentre la
realtà vera è la «cosa in sé» che sta oltre e dietro a ciò che
noi conosciamo. Ma cosa è questa «cosa in sé»? Non è
altro che un doppione della realtà visibile o materiale. La
sua contraddizione intrinseca sta nel fatto che da un lato
essa è concepita come non conoscibile (in quanto non
percepibile), e dall’altro è descritta con attributi presi dal
mondo della percezione. Anche per la teologia, il pericolo
più grande è quello di concepire Dio in termini della «co217
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sa in sé» kantiana, immaginandolo come «qualcosa» che è
«oltre» e «fuori» l’uomo, al di là della sua conoscenza,
trascendente ma in modo spaziale, ipostatizzato come
entità cui vengono attribuite solo alcune delle caratteristiche più generali prese dal mondo della percezione (personalità, volontà, ecc.).
Il materialismo implicito comune a questa scienza e a
questa filosofia (e teologia), risiede nel fatto che esse
concordano nel ridurre l’uomo a puro spettatore: la realtà
è già costituita e compiuta fuori di lui e senza di lui. Egli
la può osservare, la può percepire, forse la può conoscere, forse non la può conoscere, ma non partecipa al suo
formarsi come realtà. Ora, questo assunto fondamentale,
implicito al fondo della mentalità dell’uomo moderno,
può applicarsi alla realtà solo in quanto materiale. In essa
la distinzione tra oggetto e soggetto diviene vera e propria «separazione», e fa sorgere il problema di come avvenga il passaggio «reale» dell’uno nell’altro. E poiché
questo passaggio non è possibile, la conclusione logica è
appunto l’agnosticismo kantiano.
«Finché si presuppone di avere davanti a sé nelle
percezioni una realtà piena, non si può mai riuscire
a trovare una risposta alla domanda che dice: che
cosa possono aggiungere a questa realtà le creazioni conoscitive autonome dell’anima? Ci si dovrà attenere all’opinione di Kant: l’uomo deve considerare le sue conoscenze come prodotti particolari
della sua costituzione mentale, non qualcosa che
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gli si rivela come una vera realtà. Se la realtà è costituita nella sua natura fuori dell’anima, allora
l’anima non può produrre ciò che corrisponde a
questa realtà, ma solo qualcosa che proviene dalla
sua propria costituzione.
La cosa cambia del tutto, non appena ci si rende conto che la costituzione dell’anima non si allontana dalla realtà con ciò che produce creativamente nel conoscere, ma che piuttosto nella vita
che svolge prima del conoscere, essa si costruisce
un mondo che non è quello reale. L’anima umana è
inserita nel mondo in modo tale che, a causa della
sua propria natura, essa rende le cose diverse da
quelle che sono in realtà. ...Come il mondo sensibile
appare, quando l’uomo vi si pone immediatamente
di fronte, dipende senza dubbio dalla natura dell’anima. Non ne segue allora che è lui con la sua anima
a causare questa apparenza del mondo? Un’osservazione oggettiva mostra che il carattere irreale del
mondo sensibile esterno proviene dal fatto che
l’uomo, nel suo immediato esporsi alle cose, sopprime in sé ciò che in realtà appartiene ad esse. Se
poi svolge creativamente la propria vita interiore,
se fa riaffiorare dal profondo della propria anima
ciò che vi è sopito, allora aggiunge a ciò che ha
guardato con i sensi qualcosa di nuovo che trasforma, nel conoscere, la mezza realtà in una realtà
compiuta. È nella natura dell’anima di estinguere nel
suo primo sguardo alle cose un elemento che ap219
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partiene alla loro realtà. Per questo esse si mostrano ai sensi non quali sono in realtà, ma come le
forma l’anima. Ma la loro apparenza (cioè il loro
semplice apparire) consiste nel fatto che l’anima le
ha prima derubate di ciò che a loro appartiene. E
poiché l’uomo non si ferma al primo sguardo sulle
cose, aggiunge loro col suo conoscere ciò che rivela la loro piena realtà. Non è dunque che nel conoscere l’anima aggiunga alle cose un elemento irreale
nei loro confronti: piuttosto, avviene che prima del
conoscere essa ha tolto alle cose ciò che appartiene
alla loro vera realtà. Sarà il compito della filosofia
di comprendere che il mondo visibile all’uomo è
una ‹illusione› prima che egli l’affronti con la conoscenza, e che questo cammino della conoscenza è la
via che conduce alla piena realtà. Ciò che l’uomo
produce creativamente nel conoscere sembra essere una manifestazione della realtà interiore dell’anima per il fatto che l’uomo, prima di far l’esperienza
del conoscere, deve escludersi da ciò che proviene
dall’essenza delle cose. Nel suo primo porsi di
fronte ad esse, non può subito coglierlo da loro
stesse. Nel conoscere si apre di propria iniziativa la
via a ciò che era rimasto nascosto. Se l’uomo considera come realtà ciò che ha dapprima percepito,
ciò che produce nel conoscere gli sembrerà aggiunto a quella realtà. Se invece egli capisce di dover
cercare nelle cose ciò che solo apparentemente è
stato prodotto da lui, e che egli ha dapprima ri220
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mosso dal suo sguardo alle cose, allora si convincerà che il conoscere è un processo della realtà stessa,
mediante il quale l’anima nel suo progredire si unifica con l’essere del mondo, mediante il quale essa
estende la propria esperienza interiore isolata all’esperienza del mondo». (Die Rätsel der Philosophie, GA
18 (1968), p. 597-9)
Ciò che qui viene descritto, e che Steiner ha compiuto
nella Filosofia della libertà, è un’applicazione del metodo
scientifico all’atto della conoscenza, cioè una conoscenza
scientifica del conoscere. Prendendo l’atto del conoscere
come percezione interiore e osservandone oggettivamente lo svolgimento, ci rendiamo conto di un elemento che
di solito passa inosservato: il pensare stesso, in quanto
prodotto da noi attivamente. Non avendo compreso ciò,
la filosofia kantiana e la scienza da essa derivata si fondano su un pregiudizio circa la conoscenza, proveniente dal
non averne indagato la natura con metodo scientifico.
La descrizione che Kant fa della conoscenza si ferma
a metà strada. Egli rileva la contrapposizione tra uomo e
mondo quale si presenta nella percezione. Il mondo agisce sull’uomo e questo ne riceve le impressioni, dalle
quali si forma poi un’immagine del mondo. Ha in sé
dunque solo i prodotti della coscienza: le cose stesse rimangono oltre la coscienza. Fin qui tutto va bene. La
prima forma in cui il mondo si presenta alla coscienza è
determinata dalla costituzione dell’uomo. Ma Kant non si
è reso conto che questa è solo la prima parte dell’atto
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conoscitivo, anzi la parte preparatoria della conoscenza
vera e propria. Provocato infatti dal carattere enigmatico
della percezione, proprio in quanto dall’uomo strappata
alla sua realtà oggettiva e resa soggettiva, il pensare le
restituisce, tramite il concetto, il suo carattere oggettivo,
ricollocandola nel contesto unitario del mondo.
La percezione, dunque, conduce l’uomo fuori del reale; ma il pensare ve lo riconduce di nuovo dentro.
È importante comprendere che il pensare non è un’attività soggettiva. È infatti il pensare stesso che elabora i
concetti di soggettivo e oggettivo, poiché esso è al di
sopra di entrambi. Il soggetto umano non pensa in quanto è soggetto, ma è soggetto in quanto in lui si esprime il
pensare.
Ciò che contrappone il pensare a ogni percezione, è il
fatto che esso non è dato all’uomo, ma è da lui prodotto
con attività propria. Solo nel pensare noi siamo totalmente attivi. Essendo noi stessi a produrlo, ne conosciamo
per evidenza intuitiva diretta l’intima natura. Il rapporto
tra due concetti (per es. il concetto lampo e il concetto
tuono) mi è direttamente evidente in base al loro contenuto oggettivo. Ciò non vale per il rapporto tra la percezione lampo e la percezione tuono: questo rapporto lo
ottengo solo mediatamente, tramite la percezione. Il pensare si rivela dunque come una realtà vivente e spirituale
fondata su se stessa. La percezione mi è enigmatica proprio in quanto io non partecipo alla sua formazione: mi si
offre già costituita. Nel pensare, l’Io osserva la sua propria attività vivendo dentro ad essa. Non è con percezio222
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ne esterna che coglie il pensare: lo svolge lui stesso con
attività spirituale. Non c’è allora il problema che sorge
ove c’è la mediazione della percezione. Il suo contenuto il
pensare lo porta in se stesso.
Questa visione del pensare richiede una revisione del
concetto di percezione, che va ampliato a comprendere
tutto, fuorché il solo pensare. Tutto ciò che non è pensare
è percezione, nel senso che viene offerto al pensare come
elemento già dato. Osservazioni esterne, sensazioni interne, rappresentazioni, pensieri già pensati, visioni, allucinazioni... tutto questo è percezione. Solo in questo modo può risaltare la realtà unica del pensare che è esercizio
attivo, cioè attività spirituale, essere spirituale vivente.
Oltre a percezione e pensare non vi sono altre sorgenti per il conoscere umano. Tutto ciò che conosciamo
dev’essere o una percezione o un concetto elaborato attivamente dal pensare. Da quanto detto sopra, la percezione non si restringe alla percezione sensibile: ci sono
anche percezioni spirituali, ma queste pure necessitano
del pensare per trovare il loro concetto corrispondente.
Il conoscere è l’atto di congiungere i due elementi che
dapprima si offrono separati: la percezione e il concetto.
La coscienza umana è il luogo in cui percezione e concetto si compenetrano. Nel pensare attivo, da essere puramente autocosciente (autocoscienza suscitata dal «distanziamento» dal mondo che avviene mediante la percezione) l’uomo diviene restauratore dell’essere, conferendo
l’essere alla percezione mediante il concetto.
L’immagine che Steiner usa per il passaggio dalla per223
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cezione al pensare è quella del passaggio dallo stato di
sogno a quello di veglia. Nel sogno io sono fuori dalla
realtà: me ne formo un’immagine soggettiva.
Ma non appena mi sveglio cessa l’interesse per le immagini del sogno, e mi rivolgo ai processi reali che le
hanno suscitate. Nella percezione noi siamo come in un
mondo di sogno, che ci porta fuori dal reale. Nel pensare
ci svegliamo e ritorniamo nella realtà.
La realtà non è dunque compiuta senza il pensare. I
concetti sulla pianta appartengono alla realtà della pianta
non meno delle radici o le foglie o i frutti. Il fatto che la
realtà totale provenga a noi da due lati distinti (percezione
e concetto) non dipende dalla realtà, ma da noi. Proprio
perché l’uomo, in quanto essere percepibile, è limitato, egli
non può percepire che limitatamente, isolando quindi un
dato contenuto di percezione dal suo contesto. Non può
percepire cioè il tutto simultaneamente. Anche i concetti,
non li possiamo pensare tutti in una volta, ma li dobbiamo
congiungere progressivamente. Allo stesso tempo, il pensare che si manifesta in noi va oltre il soggetto, e inserisce
anche il soggetto stesso (in quanto percezione particolare
fra tante) nel contesto unitario del mondo, assegnandogli il
suo posto e la sua funzione.
Steiner insiste sul fatto che il punto di partenza per
una comprensione del mondo dev’essere il pensare (non
l’Io, o la coscienza o altro), perché, qualunque altro punto di partenza si volesse prendere, ogni affermazione su
esso sarebbe un esercizio del pensare, presupporrebbe
cioè il retto uso del pensare.
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Se la percezione toglie gli elementi del mondo dal loro contesto rendendoli enigmatici, illusori, irreali, il pensare al contrario conferisce loro la realtà. Ciò vuol dire
che l’unità del mondo non va cercata nella percezione.
Non ci può essere un’unità percepibile perché percepire
vuol dire isolare. L’uomo religioso immagina talvolta
Dio, o l’essere assoluto, come unità percepibile. Il materialista immagina tale realtà come energia, o materia,
oppure si parla, come fa Schopenhauer, di una volontà
universale. Tutte queste realtà sono oggetto di percezione. Ciò che è «comune» agli esseri, invece, ciò che ne
fa l’unità, può unicamente esser oggetto di pensiero,
non di percezione. Tra una percezione e l’altra non può
«passare» nulla di percepibile: il rapporto è un concetto.
Io posso percepire due percezioni che si susseguono
immediatamente e intuirne il rapporto e la corrispondenza tramite il pensare. Ma non posso percepire come
una percezione sia prodotta dal non percepibile (immaginato «dietro» ad essa).
Per far comprendere che il rapporto tra soggetto conoscente e cosa conosciuta è essenzialmente spirituale, e
che, anche se non percepibile, è però reale, Steiner si
serve del paragone del rapporto tra la ceralacca e il sigillo
che vi imprime un nome. Nulla del sigillo passa nella
ceralacca: la realtà materiale del sigillo resta tutta nel sigillo stesso. Però le lettere del nome sono ora impresse
nella ceralacca: dall’uno (il sigillo) si è comunicato all’altro
(la ceralacca) qualcosa che non è materiale (il nome).
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«La premessa è giusta, che noi non possiamo andare oltre le nostre rappresentazioni, ma ciò che del
reale entra in noi va definito come realtà spirituale:
a ciò non si richiede che degli atomi materiali si
trasmettano. Nulla che sia materiale entra nel soggetto, eppure lo spirituale passa nel soggetto, non
meno che il nome ‹Müller› nella ceralacca. Da qui
deve saper partire una sana indagine gnoseologica.
Ci si renderà allora conto quanto profondamente il
materialismo moderno si sia inosservatamente radicato persino nei concetti della teoria della conoscenza. Da una spassionata considerazione del dato di fatto si deve concludere che Kant ha potuto
concepire una ‹cosa in sé› solo materialmente, per
quanto astrusa una tale affermazione appaia a prima vista». (Philosophie und Anthroposophie, GA 35
(1965), p. 97-8)
Solo intendendo rettamente l’atto del conoscere si può
comprendere il rapporto dell’uomo con la trascendenza,
perché proprio nel conoscere l’uomo trascende l’Io limitato quale offerto alla percezione, e nel pensare partecipa
alla realtà unitaria vivente e metasoggettiva.
Potremmo chiederci: a quale scopo è stato introdotto
nella prima metà dell’atto conoscitivo l’inganno della
percezione e l’illusione di una reale separazione e incomunicabilità tra soggetto e oggetto? Perché si è scisso in
due fonti separate l’atto conoscitivo (la percezione e il
concetto), che dobbiamo poi di nuovo congiungere? La
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risposta è che solo questa «frattura» poteva dare all’uomo
la coscienza di sé come essere distinto dal mondo. Poiché
nel mondo della percezione la distinzione e l’unione si
escludono a vicenda, solo qui poteva operarsi la coscienza della singolarità. Una volta acquisita, essa può venir
ritenuta anche nel mondo dello spirito, dove però individualità singola e comunione partecipativa non si escludono ma si richiamano vicendevolmente. È questo che l’Io
compie nel pensare, risolvendo il dualismo della percezione.
Il processo conoscitivo è in questo modo inseparabile dalla costituzione ontologica dell’uomo e dalle metamorfosi storiche di questa costituzione. Steiner vuol mostrare
«...che si tratta davvero del tentativo di inserire gli
elementi realistici dell’alta scolastica nella nostra
epoca scientifica mediante una scienza dello spirito; che si è presa sul serio la trasformazione dell’anima umana e il suo reale riempirsi dell’impulso del
Cristo anche nella vita del pensiero. La vita della
conoscenza viene resa un fattore reale nel divenire
del mondo, solo che esso si attua, come ho mostrato nel mio libro ‹Concezione goetheana del mondo›,
nel campo della conoscenza umana. Ma ciò che si
compie là sulla scena della coscienza umana è allo
stesso tempo un processo cosmico, è un evento in
seno al mondo; ed è quell’evento che fa progredire
il mondo e noi stessi dentro ad esso.
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Il problema della conoscenza assume allora una
forma del tutto diversa. Ciò che noi sperimentiamo
in noi diviene in questo modo un fattore che ci trasforma nello spirito e nell’anima. Siamo noi stessi il
risultato di ciò che chiamiamo conoscenza. Come
il magnetismo opera nel configurare la limatura di
ferro producendo quelle forme che noi conosciamo come gli effetti del magnetismo, così opera in
noi ciò che si riflette in noi come conoscenza. Essa
agisce come nostro principio formatore e noi conosciamo contemporaneamente ciò che è immortale ed eterno in noi. Non poniamo più allora il
problema della conoscenza in maniera puramente
formale.
In quale modo è stato sempre formulato il problema della conoscenza? Poggiandosi sul kantianismo, ci si è sempre chiesti: come può l’uomo vedere in questo mondo interiore una replica del mondo
esteriore? Ma il conoscere non ha primariamente la
funzione di formare riflessi del mondo esterno,
bensì quella di fare sviluppare noi. Il fatto che noi
creiamo un riflesso del mondo esteriore è un processo solo accessorio. Facciamo confluire nel mondo esterno, in un processo collaterale, ciò che abbiamo separato a partire dalla nostra nascita. Col
problema della conoscenza avviene ciò che avviene
quando si prende del frumento o un altro prodotto
e si vuole indagare l’essenza del principio della crescita ricorrendo ad un esame dell’effetto nutritivo.
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È certo possibile fare un’analisi chimica dei generi
alimentari, ma ciò che è all’opera nel frumento dalla radice fino alla spiga e oltre non può venir conosciuto con un esame chimico del valore nutritivo.
Questo ci fornisce dei dati che si aggiungono
dal di fuori alla corrente evolutiva che è nella pianta e che si svolge in linea diretta...
Dev’essere chiaro che ciò che noi nella vita esteriore chiamiamo conoscenza è un effetto laterale
del lavoro che ciò che è ideale compie nel nostro
essere umano. Solo così ciò che è ideale viene riconosciuto come qualcosa di reale: lo vediamo al
lavoro in noi. Il falso nominalismo, il kantianismo
sono potuti sorgere solo per il fatto che si è impostato il problema della conoscenza come farebbe
colui che volesse conoscere l’essenza del frumento
partendo da una chimica degli alimenti». (Die Philosophie des Thomas von Aquino, GA 74 (1967), p. 101-2)
L’essere dell’Io è dunque ontologicamente connesso con
l’esercizio del pensare e del conoscere. Solo in quanto io
pensante l’uomo diviene veramente ciò che egli è: il punto d’incontro del visibile con l’invisibile. Nel pensare
riporta il visibile, decaduto a pura «apparenza», a quella
realtà piena di contenuto che si esprime nei concetti.
Dalla riflessione sul pensare e sul conoscere, veniamo
così condotti a una comprensione più profonda del soggetto conoscente stesso, sul quale ora vogliamo più specificamente soffermarci.
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3. Dove sono i limiti dell’uomo?
La «frattura» tra l’uomo e il mondo doveva essere vissuta
più intensamente dall’uomo moderno che ha spostato
sempre più la sua attenzione dal mondo del pensiero al
mondo della percezione. Caratteristica della percezione è
appunto il presentarsi degli esseri come singoli e distinti,
gli uni accanto agli altri. A tal punto l’uomo ha sentito il
suo isolamento in se stesso, da dubitare del tutto della
possibilità di aver accesso a qualsiasi realtà fuori di lui.
Affermando che noi percepiamo unicamente le nostre
rappresentazioni interiori, viene tagliato ogni ponte tra
l’uomo e la realtà oggettiva. La coscienza sognante viene
presa a modello di ogni tipo di conoscenza: in essa, infatti, viene sospesa la distinzione tra il mondo interiore e
quello esteriore. Le immagini del sogno riproducono
realtà e avvenimenti esterni a noi, ma sono allo stesso
tempo pura produzione del nostro essere.
Al fondamento di questo modo di pensare, che è più
connaturale all’uomo moderno di quanto si possa credere, sta una errata interpretazione della rappresentazione.
È per questo che uno degli elementi più fondamentali
della Filosofia della libertà risiede nel concetto di rappresentazione che essa contiene12.
Anzitutto va compreso che la rappresentazione è essa
pure una percezione. Come ho detto sopra, tutto ciò che
non è esercizio attuale del pensare stesso, viene «dato» al
12
Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), cap. VI
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pensare, e si pone perciò sulla sponda della percezione.
Ora ciò che è specifico della rappresentazione è che essa
è una percezione fatta sul soggetto, o se vogliamo una
percezione introspettiva. Ma che cos’è che noi percepiamo quando riscontriamo in noi stessi una rappresentazione? Percepiamo la modificazione avvenuta in noi in
seguito all’atto conoscitivo. Ogni atto conoscitivo lascia
in noi come una traccia di sé, che noi percepiamo quale
arricchimento del nostro contenuto interiore.
Essendo la traccia lasciata in noi dall’atto conoscitivo,
la rappresentazione non può avere a che fare solo con la
percezione, ma è in rapporto anche col concetto che
nell’atto conoscitivo con essa si congiunge. Nell’uomo e
mediante l’uomo vengono riunificati i due elementi della
realtà che l’uomo stesso in un primo momento separa:
nell’uomo dobbiamo dunque trovare il segno di questa
riunificazione. Questo segno è appunto la rappresentazione. Essendo la realtà unione di percezione e concetto,
avremo nel soggetto una «rappresentazione» della realtà,
e questa è appunto la «rappresentazione».
Si dirà: anche la realtà del pensare la cogliamo mediante osservazione interiore. Nel capitolo precedente ho
mostrato come solo nel pensare noi siamo totalmente
attivi: solo riguardo ad esso percezione e concetto si
identificano. La rappresentazione, in quanto riferentesi
alla percezione, «sorge» in noi in modo non del tutto
attivo: l’elemento passivo fa sì che essa sia «data» al pensare come ogni altra percezione. Solo il pensare è pura
attività attuale.
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Steiner definisce la rappresentazione come «concetto
individualizzato»13, cioè un concetto che è stato riferito a
una particolare percezione, e che conserva in sé tale riferimento. Abbiamo qui il duplice aspetto della rappresentazione, che corrisponde alla duplice natura dell’uomo. In
quanto oggetto di percezione, egli è un essere particolare
e limitato; in quanto portatore dell’attività del pensare,
egli appartiene all’essere universale e unitario. Anche la
rappresentazione è soggettiva in quanto il mondo della
percezione è unico in ogni soggetto umano; è metasoggettiva nel suo rapporto col concetto. Possiamo dire che
è il nostro patrimonio di rappresentazioni a renderci individuo, poiché l’individuo umano, esso pure, non è unicamente «soggettivo», ma è la sintesi del particolare e
dell’universale.
Ciò ci pone in grado di comprendere e di distinguere
chiaramente ciò che ci dà la percezione, ciò che ci dà il
pensare, e ciò che ci dà la rappresentazione. La percezione ci offre il lato oggettivo della realtà; il pensare ce ne
offre l’aspetto universale; la rappresentazione ce ne offre
il lato soggettivo. L’uomo si costituisce come soggetto
umano proprio mediante il conoscere, divenendo il luogo
d’incontro e d’interazione tra il particolare (la percezione)
e l’universale (il pensare). Essendo il pareggio tra percezione e concetto il contenuto dell’individuo umano, la
rappresentazione è ciò che egli conserva in sé come risultato dell’atto cognitivo.
13
Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978) p. 107 e 133
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La rappresentazione, dunque, viene condotta dall’individuo umano sempre più vicino alla sua perfezione nella
misura in cui essa esprime il suo giusto equilibrio tra percezione e concetto. Da una parte c’è il pericolo della vuota speculazione, che perde ogni riferimento al mondo
della percezione. Dall’altra sorge la tentazione di una
pura osservazione dei dati della percezione, limitandosi a
descriverli e a catalogarli. Sono queste le tentazioni della
filosofia da una parte, e della scienza dall’altra. La filosofia tende a servirsi di concetti via via più generalizzati e
sempre meno numerosi. La scienza, perdendosi nell’analisi del particolare, rischia di rinunciare alla conoscenza
vera e propria, che viene solo dal pensare.
La sintesi di queste due istanze risiede in una conoscenza secondo il metodo scientifico: questa non lavora
solo con concetti generali, abbandonando l’osservazione,
né solo con percezioni singole, rinunciando ai concetti.
La conoscenza secondo il metodo scientifico è l’arte di
individualizzare i concetti, e ciò avviene appunto tramite le
rappresentazioni. Queste devono essere fedeli e aderenti
alla realtà quale sintesi di percezione e concetto. È in
questo senso che Steiner definisce la rappresentazione
come «concetto individualizzato».
Un esempio molto importante di concetto indebitamente generalizzato (cioè esteso a campi ai quali non si
può applicare) è quello dei processi meccanici e inorganici presi a spiegazione anche degli organismi viventi, se
non addirittura di tutta la realtà. Buona parte della scienza
moderna ha voluto spiegare col concetto di causalità
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meccanica ogni fenomeno del mondo.
La filosofia, d’altro canto, tende a «generalizzare» il
concetto stesso di conoscenza. Ma ogni individuo umano
ha un modo unico e personale di creare la sintesi tra percezioni e concetti. Non solo le percezioni variano infinitamente da soggetto a soggetto, ma anche le intuizioni
hanno una svariata ricchezza. Ne segue che il mondo
delle rappresentazioni costituisce il contenuto personale
di ogni individuo umano. La conoscenza diviene l’arte
originale e creatrice di trovare per ogni cosa quelle rappresentazioni che ne esprimano l’intimo essere.
Quanto detto finora ha lo scopo di mostrare che
l’individuo umano (il suo patrimonio di rappresentazioni)
non è puramente soggettivo, e che quando parliamo di
limiti della conoscenza possiamo solo riferirci all’uomo in
quanto realtà percepibile (organismo corporeo), non in
quanto essere pensante. In altre parole, ci sono limiti alla
percezione dell’uomo, ma non alla sua conoscenza. La
conoscenza consiste nel trovare, per ogni percezione che
sorge, il concetto corrispondente.
Abbiamo visto come le percezioni non sono delle realtà, bensì il modo umano di uscire dal reale. Da questo
segue che non vi può essere nessuna percezione per la
quale l’uomo non possa per principio trovare il concetto
corrispondente. Se ciò non avviene, è dovuto a fattori
accidentali e perciò prima o poi superabili. Una cosa che
fosse per noi per essenza incomprensibile, dovrebbe
essere ipso facto non percepibile, e come tale per noi non
esistente: non potrebbe costituire un limite al conoscere.
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Non vi potrebbe essere mancata risposta in quanto non
vi sarebbe alcuna domanda. Limite al conoscere non è la
domanda non posta, ma la domanda senza risposta:
quest’ultima può essere tale solo accidentalmente e temporaneamente, mai per essenza.
Dire che l’uomo è un essere limitato in quanto la sua
percezione è limitata è usare un linguaggio poco chiaro.
Né la coscienza, né l’uomo si limitano alla percezione.
Anzi, la percezione esprime proprio quel primo momento
dell’atto del conoscere caratterizzato dall’enigmaticità,
dalla non comprensione, che provoca il sopravvenire del
pensare, nel quale si compie la vera conoscenza. Ogni
percezione è dunque un limite del conoscere, in quanto ci
fa uscire dal reale isolando i singoli dati (si possono avere
«limiti» solo isolando): ma non c’è nessuna percezione
reale (sensibile o spirituale) per la quale il pensare non
possa trovare il concetto corrispondente, che è per essenza il superamento di quel limite che la percezione è.
Avere altri organi di senso oltre a quelli che possediamo non vorrebbe dire conoscere più cose: vorrebbe
dire avere un maggior numero di cose «sconosciute», che
solo trovando i concetti corrispondenti verremmo a conoscere. Aumentando il numero delle nostre percezioni
non aumentiamo la realtà conosciuta: aumentiamo le
cose da conoscere. Nella percezione seguiamo un’esigenza del nostro essere: quella di diventare conscio di se
mediante l’apparenza di separazione tra il soggetto e
l’oggetto. Nel pensare seguiamo invece la realtà stessa,
ritrovando l’unione tra soggetto e oggetto.
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Ogni supposto «limite» del conoscere proviene dal
considerare le percezioni come un mondo reale in sé, cui
viene contrapposto l’altro mondo della «cosa in sé» inconoscibile. L’uno sarebbe «dentro» il soggetto, l’altro «fuori» di lui. Nel pensare, al contrario, non vi è nulla che sia
«oltre» l’uomo, perché in esso è lui ad andare «oltre» se
stesso in quanto individuo singolo e limitato. Ogni «cosa
in sé» non conoscibile è un’estrapolazione di qualche
elemento del mondo sensibile, ed esprime il materialismo
implicito di chi riesce a considerare reale solo ciò che è
percepibile, perché la sostanza spirituale del pensare e
delle idee gli sembra troppo «tenue», troppo «sottile» per
essere reale. «Oltre» le cose percepibili non ci possono
essere altre «cose» non percepibili (concepite in tutto
uguali alle prime) che ne siano la causa: oltre le cose ci
sono solo i concetti che ne esprimono i rapporti e i nessi,
i quali non possono venir percepiti, ma solo pensati. Le
leggi naturali non esprimono degli «influssi» che passino
da un corpo in un altro, ma sono «l’espressione concettuale del rapporto tra certe percezioni»14.
Nel saggio già citato (Filosofia e antroposofia) Steiner
porta l’esempio di Keplero il quale produce, in base a un
lavorio interiore di concetti, le leggi delle traiettorie ellittiche dei pianeti, e trova poi confermate dalla realtà le sue
intuizioni:
«Uno scienziato come Kepler illustra col suo modo
di procedere ciò che l’aristotelismo ha fondato in
14
Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978) p. 124
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campo gnoseologico. Egli afferra ciò che appartiene
agli universali post rem e scopre, indagando le cose,
che questi universali post rem sono precedentemente
stati posti in esse quali universali ante rem. Qualora
una errata teoria della conoscenza non faccia degli
universali delle pure rappresentazioni soggettive, ma
si veda che essi vengono oggettivamente riscontrati
nelle cose, allora va da sé che essi devono esservi
precedentemente immessi (dalla divinità) nella forma
che Aristotele suppone stia alla base del mondo.
Si scopre così che ciò che è dapprima l’elemento
più soggettivo, accertato indipendentemente dall’esperienza, è proprio quello che conduce dentro alla
realtà nel modo più oggettivo». (Philosophie und Anthroposophie, GA 35 (1965), p. 99-100)
I concetti prodotti dal pensare corrispondono alla «forma» (nel senso aristotelico) delle cose percepibili. Possiamo ora chiederci: troviamo nell’uomo solo le forme
delle cose, o c’è qualcosa in lui che pone la propria stessa
«materia» (intesa da Aristotele come sostanza, come essere fondato in se stesso)?
«Ora, per Aristotele il concetto di Dio è una attualità pura, un atto puro, un atto cioè nel quale
l’attualità, vale a dire il conferimento della forma,
ha ad un tempo la forza di produrre la propria realtà, senza essere qualcosa cui si contrappone la materia, ma come qualcosa che nella propria pura attività è allo stesso tempo la vera e piena realtà.
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Il riflesso di questa attualità pura si trova nell’uomo stesso quando egli partendo dal suo pensare
perviene al concetto dell’Io. Nell’Io egli si trova in
qualcosa, che Fichte designa come attività costituente (Tathandlung). Nella sua interiorità, l’Io giunge a
qualcosa che, poiché vive nell’attualità, produce insieme a questa attualità anche la propria materia.
Quando afferriamo l’Io nel pensiero puro, ci troviamo in un centro dove il pensare puro produce
essenzialmente allo stesso tempo la propria essenza
materiale. Quando afferriamo l’Io nel pensare, abbiamo un triplice Io: un Io puro, che appartiene agli
universali ante rem; un Io nel quale siamo, e che appartiene agli universali in re; e un Io che comprendiamo, e che appartiene agli universali post rem.
Ma qui c’è ancora qualcosa del tutto particolare:
riguardo all’Io le cose stanno in un modo tale che,
quando si arrivi ad afferrarlo davvero, questi tre ‹Io›
vengono a coincidere. L’io vive in sé producendo il
proprio puro concetto e vivendo nel concetto quale
realtà. Per l’Io non è indifferente ciò che il pensare
puro compie, poiché il pensare puro è il creatore
dell’Io. Il concetto dell’elemento creatore viene qui
a coincidere con l’elemento materiale, e basta rendersi conto che in tutti gli altri processi conoscitivi
noi tocchiamo dapprima un limite che solo nel caso dell’Io non c’è: l’Io lo abbracciamo nel suo essere più intimo, in quanto lo afferriamo nel pensare
puro.
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In questo modo è possibile dare un fondamento gnoseologico all’affermazione che dice: anche
nel pensare puro si può giungere a un punto in cui
realtà e soggettività coincidono totalmente, e nel
quale l’uomo sperimenta la realtà. Se egli parte da
quel punto e feconda il suo pensiero in modo da
farlo da lì uscire di nuovo da se stesso, allora afferra le cose dal di dentro. Nell’Io che viene afferrato
con un puro atto di pensiero e con esso ad un
tempo creato, abbiamo dunque qualcosa con cui
superiamo la linea divisoria che per tutte le altre
cose va posta tra forma e materia». (Philosophie und
Anthroposophie, GA 35 (1978), p. 101-3)
Nella realtà vivente del pensare noi siamo dunque allo
stesso tempo in «Dio», nel più intimo di noi stessi, e nella
realtà vera delle cose. Ogni «limite» che sorge nella percezione, ogni separazione che pone un «di qua» e un «di là»,
viene abolito dal pensare. Ogni limite può venire superato,
perché per ogni percezione (che è prodotta dall’uomo e a
misura d’uomo) possiamo intuire il concetto corrispondente.
«I pensieri che io mi formo sulle cose, li produco
da dentro di me. E tuttavia essi appartengono, come ho mostrato, alle cose. L’essenza delle cose
non mi viene dunque da esse, ma da me. Il mio
contenuto è la loro essenza. Non sarei mai capace
di chiedere quale sia l’essenza delle cose, se non
trovassi già in me qualcosa che io designo come
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quell’essenza stessa, come ciò che appartiene ad
esse, senza però che me lo offrano da sé, potendolo io trarre unicamente da me stesso.
Nel processo conoscitivo traggo da me stesso
l’essenza delle cose. Io ho dunque in me l’essenza
del mondo. Di conseguenza ho in me anche la mia
propria essenza. Le altre cose mi presentano due
elementi: un processo senza l’essenza, e l’essenza
tramite me. Nel caso del mio essere, processo e essenza sono identici. L’essenza di tutto il resto del
mondo la attingo da me, e attingo da me non meno il mio proprio essere.
Il mio agire fa parte del processo cosmico universale. Ha perciò la sua essenza in me come ogni
altro processo. Cercare le leggi dell’agire umano
vuol dire allora attingerle dal contenuto dell’Io».
(Die Geschichte und die Bedingungen der anthroposophischen Bewegung..., GA 258 (1959), p. 149-150)
È chiaro che ciò che vale per il pensare dell’uomo non
vale per la sua percezione: questa è per natura limitata. Il
dato della percezione non può però porre limiti: offre se
stesso onde venire conosciuto. Non resta dunque nascosto, oltre il nostro orizzonte, ma al contrario si «presenta»
come domanda che cerca una risposta.
«Se consideriamo che l’oggetto, riguardo al quale
nasce in noi un bisogno di spiegazione, dev’essere
dato, ci appare chiaro che il dato stesso non può
porci un limite. Per esigere di venir comunque spie240
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gato o compreso, deve presentarsi a noi nell’ambito della realtà data. Ciò che non entra nell’orizzonte del dato non ha bisogno di venire spiegato.
Il limite potrebbe allora consistere unicamente
nel fatto che, posti di fronte a un reale dato, manchiamo degli strumenti per spiegarlo. Ma il nostro
bisogno di spiegazione proviene proprio dal fatto
che ciò che noi vogliamo pensare del dato, e che
ne deve essere la spiegazione, si spinge dentro
l’orizzonte di ciò che ci è dato nel pensare. Lungi
dall’essere sconosciuta, è proprio l’essenza esplicatrice di una cosa a renderne necessaria la spiegazione col suo sorgere nel nostro spirito. La cosa da
spiegarsi, e ciò tramite cui deve essere spiegata, sono entrambi presenti. Si tratta solo di congiungerli.
Spiegare non è andare alla ricerca di qualcosa di
sconosciuto ma una chiarificazione del rapporto reciproco di due elementi conosciuti. Non dovrebbe
mai venirci in mente di spiegare in qualsiasi modo
un dato del quale non abbiamo nessuna conoscenza. Non è dunque possibile parlare di limiti costitutivi posti alla nostra capacità di spiegazione». (Goethes naturwissenschaftliche Schriften, GA 1 (1973), p. 193-4)
Quando la scienza formula delle «ipotesi» per progredire
nella sua ricerca, queste ipotesi non devono riferirsi al
mondo dei concetti, ma al mondo della percezione. Da
elementi percepiti si fa un’illazione su elementi non ancora percepiti, ma essenzialmente percepibili. Nel passo or
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ora citato Steiner così prosegue, distinguendo nettamente
tra percezione e principio o concetto:
«C’è però qualcosa che potrebbe dare una parvenza di ragione alla teoria dei limiti della conoscenza.
Può succedere che noi intuiamo, di una cosa reale,
che essa c’è, benché si sottragga per ora alla nostra
percezione. Possiamo percepire tracce ed effetti di
una cosa, e supporre di conseguenza che la cosa
esista. È qui che si potrebbe forse parlare di un
limite del sapere. Ma ciò che presupponiamo qui
come irraggiungibile, non è qualcosa che dovrebbe
darci per principio la spiegazione di un dato qualsiasi, ma è un dato percepibile, anche se non percepito. Gli impedimenti che mi vietano di percepirlo non sono dei limiti costitutivi della conoscenza, ma puramente accidentali, estrinseci. E
possono senz’altro venir superati. Quel che oggi
posso solo supporre, domani lo posso sperimentare. Ciò non vale riguardo a un principio. Per esso
non ci sono impedimenti esteriori, che dipendono
per lo più dal luogo e dal tempo: il principio mi è
dato interiormente. Se non sono io stesso a scorgerlo, non me lo può far supporre ciò che è altro
da me.
Con ciò è connessa la teoria dell’ipotesi. Un’ipotesi è una supposizione che noi facciamo e della
cui verità ci convinciamo non direttamente, ma solo tramite i suoi effetti. Vediamo una serie di fe-
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nomeni che è spiegabile solo se si fonda su qualcosa che non percepiamo direttamente. È lecito estendere una tale ipotesi anche a un principio? Chiaramente no: una realtà interiore, infatti, che io presuppongo senza scorgerla è una totale contraddizione. L’ipotesi può supporre soltanto qualcosa
che io non percepisco, ma che percepirei immediatamente, non appena rimossi gli impedimenti esteriori. L’ipotesi può senz’altro presupporre qualcosa di non
percepito, però deve sempre presupporre qualcosa di percepibile. Ogni ipotesi è perciò nella condizione che il
suo contenuto può venir direttamente confermato
da esperienza successiva. Sono giustificate unicamente quelle ipotesi che possono cessare di essere tali.
Delle ipotesi su principi centrali della scienza non
hanno valore alcuno. Ciò che non si spiega con un
principio positivamente dato e a noi noto, non
può essere spiegato affatto, né ha bisogno di esserlo». (Goethes naturwissenschaftliche Schriften, GA 1
(1973), p. 194-5)
Potremmo chiedere: il pensare umano non è esso stesso
limitato? Parlare di limiti riferendosi al pensare in quanto
tale non ha senso: il limite appare là dove, nell’uomo,
sorge la percezione. Il principio della limitazione è nella
percezione: il pensare è proprio l’opposto, è l’esercizio
dell’abolizione della limitazione, in quanto toglie ogni
cosa singola dal suo isolamento e la colloca nel contesto
unitario dell’essere.
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Il malinteso circa i limiti della conoscenza proviene interamente dalle ipotesi ingiustificate che «inventano»
realtà per principio (essenzialmente) non conoscibili in
quanto per natura non percepibili. Qui si ricorre a delle
«cause» del mondo visibile che sono poste fuori di esso.
Per fare un esempio:
«Non giustificata è … l’ipotesi che dice che tutte le
qualità della sensazione sono prodotte da processi
puramente quantitativi, poiché processi privi di
qualità non possono venir percepiti». (Methodische
Grundlagen der Anthroposophie, GA 30 (1961), p. 64)
In altre parole, invece di ricercare la spiegazione di un
fenomeno percepito nel concetto intuito dal pensare, la
si ricerca in un altro fenomeno della stessa natura del
primo e posto «dietro» ad esso così da essere da una
parte in tutto come un oggetto della percezione e dall’altra per principio impercepibile. Qualora ci si renda conto della contraddizione intrinseca di questo modo di
procedere, non si ha più ragione di parlare di alcuna
«cosa in sé» inconoscibile che sia «dietro» al mondo
conosciuto. Il «Dio» di buona parte della teologia è concepito, anche se spesso in buona fede, essenzialmente
come la «cosa in sé» kantiana, e solo in questo modo
egli può esser reso «irraggiungibile» dall’uomo. Comprendendo che ogni limite della percezione viene abolito dal pensare, non si ha più alcuna ragione di parlare di
limiti della conoscenza.
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4. La libertà della persona umana
La libertà dell’uomo può procedere solo dal pensare,
poiché solo nell’esercizio del pensare egli si esperisce
come del tutto attivo. Le percezioni hanno bisogno di
spiegazione proprio in quanto non è l’uomo a costituirle,
ma gli sono «date»: con la propria attività egli deve trovarne i concetti corrispondenti. Nel pensare, invece, egli
si sente nella propria originaria attività, e allo stesso tempo in una realtà vivente e universale che ha in se stessa la
propria ragion d’essere. Vivere dentro al pensare vuol dire
fare l’esperienza più profonda e più centrale del proprio
io, che si immerge nella realtà con una forza primigenia
che è ad un tempo intuizione e amore. Questa intensità
del pensare attivo vissuto, che contiene in sé anche
l’essere più vero del sentimento e della volontà, facilmente ci fa fraintendere il pensare: quando lo guardiamo dal di fuori, in un secondo momento, ci appare freddo e astratto. Perciò Steiner dice:
«Nessun’altra attività dell’anima umana si presta
così facilmente a essere fraintesa come il pensare».
(Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 143)
L’io umano si costituisce come attività che fa scaturire il
pensare, ma in questa attività non segue delle leggi soggettive, bensì le leggi del pensare stesso. Riguardo al pensare, l’Io non ha bisogno, come per ogni altra percezione,
di andare oltre la percezione per trovarne l’essere: ciò che
percepisce ha in sé il proprio essere. Percezione e concet245
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to vengono qui a coincidere. Ogni altra percezione l’abbiamo di fronte a noi (e chiediamo: che cos’è?); nella
percezione del pensare siamo noi stessi dentro l’esperienza della nostra propria attività.
Nell’atto del conoscere, l’attività specifica del soggetto
umano è quella di congiungere, nella rappresentazione, il
concetto con la percezione. È dunque nel campo della
rappresentazione che può sorgere l’errore o l’illusione. La
percezione, che costituisce il lato oggettivo della realtà
(ob-jectum: ciò che si pone di fronte), non può essere
fonte di errore. Neppure lo può essere il pensare, che
esprime il lato universale della realtà. Nell’incontro dei
due, invece, il soggetto umano può mischiare altri elementi, provenienti dal sentimento, che conducono a una
erronea rappresentazione.
Se da una parte dunque l’Io umano sperimenta la sua
massima libertà nell’attività del pensare in quanto essa
scaturisce attivamente dal centro del suo essere, questa
libertà non è d’altra parte automatica, ma suscettibile di
oscuramento in due direzioni opposte. Nella direzione
della percezione, può essere la realtà corporea, con il
mondo delle passioni e dei sentimenti, a prevalere e a
introdurre l’egoismo nel pensare stesso. Nella direzione
dei concetti, ci possono essere norme e leggi che l’individuo segue senza farle proprie, sottomettendosi all’intuito altrui (del legislatore).
La libertà umana si pone al centro, nel punto di equilibrio tra l’esclusiva ed egoistica affermazione di sé a
danno degli altri da una parte, e la negazione di sé nella
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sottomissione passiva senza partecipazione responsabile
dall’altra.
Si potrebbe obiettare che la libertà deve risiedere nella
volontà, più che nel pensare. Ma questo è un errore.
L’agire, l’uomo l’ha in comune con l’animale. Ciò che
rende umana l’attività è l’intuizione che si pone alla base
dell’agire. Non in quanto agisco sono libero, ma in quanto so ciò che faccio e perché lo faccio, in quanto è voluto
da me. Solo con un atto di pensiero si può «volere» qualcosa, ed è in un secondo momento che si passa all’attuazione concreta. Se spostiamo la domanda circa la libertà
dell’uomo verso il polo dell’attività, entriamo in quella
sfera del suo essere che è la meno conscia, perciò meno
libera. Solo indirettamente, tramite il pensare, noi diventiamo padroni (liberi) anche nella sfera del volere: i pensieri liberi trasportano con sé la volontà.
È fondamentale perciò comprendere che quando
l’uomo segue i suoi istinti e le sue passioni inferiori, non
solo non è libero, ma è massimamente determinato. In
questo caso, egli non segue «se stesso» in quanto individuo, ma segue ciò che è meno individuale in lui: gli impulsi animali che sono comuni a tutta la specie umana.
Non è «lui» ad agire, bensì la natura in lui. Ciò che è inconscio nell’uomo, domina l’uomo. Ciò invece che è reso
conscio mediante il pensare, viene dominato dall’uomo
stesso. Questa è la prima importante conclusione da trarre dal fatto che l’uomo non è libero direttamente nella
volontà, ma nel pensiero, e solo tramite il pensiero anche
nella volontà. Questo aspetto è sottolineato vigorosa247
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mente da Steiner nella Filosofia della libertà, benché lui
stesso si sia trovato ripetutamente di fronte a lettori superficiali che gli rimproveravano di aver sostenuto che
esser libero vuol dire fare ciò che pare e piace.
«Che l’azione del delinquente, che il male venga
chiamato espressione dell’individualità nello stesso
senso in cui si incarna una pura intuizione, è possibile unicamente se gli impulsi ciechi vengono ascritti all’individualità umana. Ma l’impulso cieco, che
spinge a delinquere, non proviene dall’elemento intuitivo e non appartiene a ciò che è individuale
nell’uomo, bensì a ciò che è più generico in lui, a
ciò che vale in misura uguale per tutti gli individui,
e da cui l’uomo si affranca col proprio elemento
individuale. Ciò che è individuale in me non è il
mio organismo con i suoi impulsi e sentimenti, ma
il mondo unico delle idee che risplende in questo
organismo. I miei impulsi, gli istinti, le passioni
non sono in me altro che la prova che io appartengo alla specie generale ‹uomo›. Il fatto che in questi
impulsi, passioni e sentimenti si esprima una realtà
ideale in modo particolare, costituisce la mia individualità. I miei istinti e impulsi fanno di me un
uomo come se ne hanno dodici per dozzina. Individuo lo sono grazie alla forma particolare dell’idea
mediante la quale, entro la dozzina, mi designo
come io. Per la differenza della mia natura animale
potrebbe distinguermi da altri solo un essere a me
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estraneo; mediante il mio pensare, cioè afferrando
attivamente ciò che di ideale si esprime nel mio organismo, sono io stesso a distinguermi da altri.
Dell’azione del malvagio non si può dunque affatto dire che essa sgorghi dall’idea. Anzi, ciò che è
caratteristico delle azioni malvagie è proprio il fatto
che esse derivano dagli elementi non ideali dell’uomo.» (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 163-4)
L’uomo può dunque esser reso non libero da ciò che,
dentro di lui, non è «lui» in quanto individuo, ma è natura
in lui. Analogamente, può esser reso non libero da ciò
che, fuori di lui, non è lui: le leggi e le norme esterne,
nella misura in cui egli non le fa sue tramite il pensare.
Questi due aspetti, quello interno e quello esterno, sono
espressi nella Filosofia della libertà coi termini di «moventi»
(provenienti dalla disposizione caratterologica del singolo) e di «motivi» (gli intenti, gli ideali, gli scopi dell’agire).
L’uomo diviene libero nella misura in cui queste due sfere si avvicinano fino al punto da coincidere, e in questo
coincidere ciascuna raggiunge la sua massima purificazione da ciò che non è individuale, ma determinante l’individuo. Il movente viene a identificarsi con il motivo quando
non c’è più nulla dal di dentro che determini l’individuo
all’azione, fuorché il pensare stesso in forma di una pura
intuizione morale. Il motivo viene a identificarsi col movente quando il contenuto stesso dell’intuito diviene direttamente oggetto della volontà e del desiderio. A questo
vertice della moralità il motivo «muove» (diviene «mo-
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vente») con la forza stessa dell’amore. Quando ciò avviene, l’uomo è libero. Segue il suo proprio e profondissimo
essere, e non è costretto né dall’Io inferiore in lui, né
dalla norma fuori di lui.
La domanda se l’uomo sia libero o no è una domanda
ambigua. Ci sono uomini più liberi e uomini meno liberi.
Totalmente non libero non è possibile esserlo: in nessuna
persona la componente intuitiva del pensare è del tutto
assente. E neppure ci sono persone totalmente libere:
nessuno è diretto nel suo agire sempre e unicamente da
un intuito individuale diretto. Siamo tutti in cammino
verso una libertà sempre più piena, e proprio per questo
è importante capire bene quando e perché siamo liberi,
quando e perché non lo siamo.
Se da un lato è del tutto errata la nozione di libertà
che vuol ridurre l’uomo a un animale (cioè un essere che
agisce seguendo l’istinto), è errata dall’altro la nozione di
libertà che vuol ridurre l’uomo ad un automa (cioè un
fedele esecutore di leggi). Di fronte all’immoralismo della
società attuale, molti vorrebbero tornare al Vecchio Testamento, al tempo cioè della legge cui l’uomo deve sottomettersi. Questo dilemma, che viviamo oggi più che
mai, ci porta nel cuore del rapporto tra moralità e libertà
che stiamo qui trattando, e cioè al rapporto tra il dovere
(das Sollen) e il volere (das Wollen).
Dire che l’uomo è una creatura finita è fare un’affermazione ambigua. In quanto soggetto e oggetto di
percezione, l’uomo è finito e limitato, ma non in quanto
essere pensante. Nel pensare egli vive in una realtà che
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non è né finita né limitata. È il pensare stesso infatti che
elabora entrambi i concetti di finito e infinito, mostrandosi al di sopra di essi.
Lo stesso vale per l’affermazione che dice che l’uomo
è per natura imperfetto. Nella realtà del pensiero egli
partecipa direttamente alla perfezione che non è unicamente un ideale per il futuro, ma è accessibile in ogni
momento presente. L’imperfezione si riferisce essa pure
al campo della percezione.
Ciò che è proprio del carattere attivo e intuitivo del
pensare, è che in esso il dovere e il volere vengono a
coincidere. Essendo pura attualità, il pensare è allo stesso
tempo puro volere. Nel suo carattere di intuizione evidenziale, è un volitivo unirsi (intus-ire) con l’essere. Dicendo che nel pensare il dovere e il volere vengono a
coincidere non si vuol dire che il dovere cessa: al contrario, esso trova nel volere la sua perfezione, che consiste
appunto nel diventare una cosa sola con esso.
Detto nel linguaggio tradizionale: se è volontà di Dio
riguardo all’uomo che questi non agisca perché deve, ma
che faccia del dovere il proprio reale (non solo inteso)
volere, allora l’uomo, paradossalmente, ubbidisce solo
quando non agisce più per sola «ubbidienza», ma seguendo la propria volontà. E d’altra parte, se l’uomo si ostina
a voler agire per pura «ubbidienza» ai comandamenti di
Dio senza fare di essi il suo proprio volere reale ed essenziale, proprio allora disubbidisce al comandamento di
Dio più fondamentale, che è quello di amare, cioè di agire
non per ubbidienza, ma per amore.
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Ciò vorrebbe dire che la legge di Dio non è in alcun
modo estrinseca all’uomo, ma è ciò che l’uomo vuole
liberamente come essenza del proprio essere, a condizione però che egli porti a fioritura dentro di sé questo essere umano vero e pieno. Non dobbiamo ritenere perciò
come assoluta e finale l’affermazione che ciò che Dio
vuole e ciò che l’uomo vuole sono sempre, cioè per natura, due cose distinte. Ciò equivarrebbe a dire che l’uomo
deve sempre ubbidire, perché non è mai veramente libero. Neppure giova dire che si può anche scegliere liberamente di ubbidire. Questa libertà non è ancora perfetta,
perché in questo caso la norma da seguire non sgorga
totalmente dall’essere stesso dell’uomo, ma resta a lui in
qualche modo estrinseca: non è una norma che lui si dà,
ma che gli viene data, o, per esprimerci meglio, le due
norme ancora non coincidono, non divengono una realtà
sola.
La perfezione dell’uomo non è qualcosa a lui irraggiungibile. Se lo fosse, avremmo l’affermazione assurda
che l’uomo non può mai essere ciò che egli è. Quando
l’uomo, nell’esperienza intuitiva del pensare, vive nella
pienezza del proprio essere, ciò che egli vuole è ciò che
Dio vuole. E d’altra parte, la volontà di Dio su di lui è
proprio che questo avvenga: che il dovere venga totalmente assorbito nel volere. Solo in questo modo l’uomo
compie compiutamente la volontà di Dio.
Il dovere può divenire nostro volere nella misura in
cui noi lo comprendiamo adeguatamente. Se non comprendiamo il contenuto o il perché di un ordine, potremo
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eseguirlo, ma non far nostro l’intento che vi sta alla base.
Ora si potrebbe pensare che la volontà di Dio non è mai
adeguatamente comprensibile alla mente umana. Ma ciò
significherebbe di nuovo misconoscere la natura universale e incondizionata del pensare. Non bisogna confondere la volontà di Dio sull’uomo, con la volontà di Dio in
genere. Ciò che Dio vuole riguardo all’uomo egli l’ha
posto nell’essere dell’uomo stesso, non in un modo approssimativo o limitato (il che sarebbe una imperfezione
in Dio) ma in modo adeguato e completo. Ciò vuol dire
che se l’uomo sviluppa la totalità del proprio essere, ciò
che questo essere chiede e vuole corrisponde adeguatamente alla volontà di Dio su di lui, anzi è una cosa sola con
essa. In quanto essere capace di pensare, l’uomo non ha
bisogno di uscire da sé per trovare il comandamento di
Dio, perché nel pensare egli vive in Dio stesso, oltre che
nel centro più profondo del proprio essere.
Non solo dunque è realmente possibile unificare in sé
adeguatamente il dovere col volere, ma possiamo dire che
se l’uomo considera il dovere come istanza ultima, egli
viene meno al suo fondamentale dovere, e in nome di
una malintesa ubbidienza o sottomissione filiale egli disubbidisce a quel Dio che non lo vuole esecutore di ordini, ma forgiatore di intuizioni morali sgorganti dal centro
divino in lui, che lo fa agire con la libertà e con l’amore
che Dio stesso gli partecipa. L’esercizio di questa libertà è
la sola vera ubbidienza a Dio, è la vera umiltà di fronte a
ciò che Dio ha posto nell’uomo affinché l’uomo lo faccia
suo.
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Che cosa è più perfetto e più umano, volere qualcosa
perché lo si deve volere, o volerlo perché lo si vuole? Se faccio qualcosa perché lo devo volere, ciò vuol dire da una
parte che io non comprendo perché va voluto (se così
fosse, lo vorrei io stesso) e dall’altra che io veramente
non lo voglio (se così fosse, non sarebbe più ciò che devo, ma ciò che voglio).
Ma dobbiamo ora chiederci ulteriormente: come fa
l’uomo a comprendere ciò che deve volere, se non sgorga
dal suo essere stesso? Le fonti della sua conoscenza sono
esclusivamente la percezione e il pensare. Anche la rivelazione divina che ci è stata tramandata è per noi oggetto
di percezione, a cui applichiamo la riflessione del pensare.
Ci possono essere dunque altre norme del comportamento umano fuorché quelle che intuiamo col nostro pensare? E se le intuiamo col pensare, non sgorgano forse dal
centro più autentico del nostro essere? Non corrispondono dunque in questo modo a ciò che il nostro essere vuole?
Solo dal mio stesso essere (non dalla natura inferiore in
me!) posso cogliere la volontà di Dio: da ciò che il mio
essere individuale è nella sua vera essenza, e che perciò
profondamente vuole. Come posso sapere cosa Dio vuole
da me, se non sapendo chi io sono? Ciò che io sono (nel
mio vero essere) e ciò che Dio vuole, sono una cosa sola.
E ciò che io sono e ciò che io voglio (quando sono davvero me stesso) sono ugualmente una cosa sola.
Per l’uomo che non ha ancora trovato se stesso, le
norme sono necessarie. Ma non norme tali da mantenerlo perpetuamente nella dipendenza dalla norma, bensì
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norme tali che lo aiutino a divenire lui stesso la norma di
sé. Se lo stadio ultimo della moralità fosse una norma
generale valida per tutti («ciò che ogni uomo deve volere»), ne seguirebbe che l’individuo è un puro esemplare
della specie. Ma questa è appunto la definizione dell’animale, non dell’uomo. Se abbiamo paura della libertà che
Dio dà all’uomo, e nella quale ogni individuo è chiamato
ad attuare la propria realtà unica, allora ci restano come
sola alternativa le varie forme di totalitarismo, di fanatismo e di intolleranza di cui la storia è piena.
Se Dio volesse che il motivo ultimo del nostro agire sia
di fare o volere ciò che egli (Dio) vuole, in quanto non
può identificarsi adeguatamente con ciò che il nostro
essere vuole, ne seguirebbero due cose: che egli non ci
vuole liberi (perché la norma ultima del nostro agire sarebbe fuori di noi), e che lui stesso è fuori del nostro
essere. Ciò si può supporre unicamente immaginando un
Dio che, come la cosa in sé kantiana, è «oltre» l’uomo.
Avendoci invece concesso la facoltà intuitiva del pensare,
tramite la quale noi partecipiamo realmente al suo essere,
Dio ha voluto che i motivi ultimi del nostro agire sgorghino dall’essere che lui stesso ci ha dato, e che è lui in
noi. In questo modo, non solo egli ci vuole liberi (seguendo ciò che il nostro essere, immerso nel suo, vuole),
ma questa libertà è per giunta, come ho detto, la sola vera
ubbidienza alla sua volontà.
Quando, nella libertà del pensare intuitivo, attingo alla
volontà di Dio traendola dal mio essere stesso, mi rendo
conto non solo che ciò che lui vuole è ciò che io voglio,
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ma che è inoltre ciò che io voglio essere. La sua volontà è il
mio essere nella sua pienezza, e come posso io, quando
sono me stesso, volere altra cosa che non sia la mia propria perfezione? Volendo la volontà di Dio voglio me
stesso pienamente, e viceversa volendo la pienezza vera
del mio essere, voglio la volontà di Dio. Essa non mi è
irraggiungibile, proprio perché nel pensare può venire
intuita, non in modo imperfetto, ma in un modo umanamente perfetto. Si dirà: ciò che io voglio essere (la mia
propria pienezza e perfezione) non lo sono ancora. Ma
questa affermazione è ambigua: ciò che faccio mio nell’intuizione del pensare è già parte di me, anche se non ancora tradotto in realtà esteriormente percepibile. Gli ideali
non ancora realizzati non sono solo il segno dell’imperfezione o della limitatezza umana: sono anche il segno
della realtà opposta, del fatto cioè che, nelle sue facoltà
spirituali, l’uomo si estende verso l’infinito e vi partecipa
realmente.
Se Dio volesse per me qualcosa d’altro oltre ciò che il
mio essere vuole come propria perfezione, ciò Dio lo
vorrebbe senza volerlo, poiché non avendolo fatto parte
del mio essere, egli non l’avrebbe voluto per me. E d’altra
parte, la volontà di Dio che non trovo in me, non può
mai essere da me conosciuta, non potendo io uscire da
me stesso o essere altro che io stesso. La natura intenzionale e intuitiva del pensare, infatti, non consiste in un
andare oltre se stesso da parte dell’uomo ma nell’esplicazione compiuta di ciò che costituisce la vera essenza
del suo essere.
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Il pessimismo circa la natura umana, oppure la sete
di potere che vuol imporre su altri il proprio ordine e la
propria legge, ci fanno pensare che l’egoismo sia ciò che
l’uomo vuole, mentre il comportamento morale o il
proprio perfezionamento sia ciò che egli deve (perché
non lo vuole veramente)15. E chi decide per lui che cosa
è morale e che cosa egli deve? Altri uomini come lui,
con le sue stesse facoltà di percezione e di pensiero, i
quali hanno tratto dal proprio essere quelle norme che,
secondo loro, l’uomo non è capace di trarre dal proprio
essere.
Questi stessi uomini diranno infatti che le norme che
essi propugnano non vengono dall’uomo ma da Dio. In
questo caso ci sono due possibilità: o che certi uomini
sono andati oltre la natura umana per entrare in quella
divina (e allora non sarebbero più degli esseri umani, ma
divini); oppure che l’uomo proprio restando uomo, in
quanto uomo può attingere, col suo pensare, ai pensieri
di Dio (e allora la comunione con Dio si rivela come
l’essenza stessa della natura umana). La prima ipotesi è
quella del vero e proprio panteismo; la seconda invece
vede nell’uomo come una piccola spugna che si riempie
dell’acqua del mare: la spugna è piena, l’acqua della spugna e quella del mare sono della stessa natura, ma la piccola spugna non può mai esaurire il mare.
Questo aspetto della libertà, che qui voglio solo accennare, viene
ripreso più ampiamente nell’ultimo capitolo.
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5. Finalità, moralità e libertà
Le riflessioni precedenti hanno inteso mostrare che Dio
non vuole me per qualcosa d’altro (che sarebbe il mio
«dovere»), ma vuole me. La mia ragion d’essere è il mio
essere stesso: in esso trovo la norma del mio agire. La
mia realtà umana nella sua pienezza e individualità è la
volontà di Dio. Posso ubbidire a lui solo conoscendo me
stesso e volendo ciò che il mio vero essere vuole. I suoi
intenti su di me non li trovo oltre me stesso o fuori di me
(in lui), ma dentro di me: essi sono ciò che io sono.
Lo stesso vale per la conoscenza della natura. Anche
qui, l’uomo è facilmente tentato di immaginare gli scopi
di Dio come delle realtà metafisiche ipostatizzate, che
dovrebbero dare la spiegazione degli esseri naturali, ma
che sono intese come da loro realmente distinte, esistenti
oltre e al di sopra di loro.
Questo modo di guardare alla natura si è reso tanto
più inevitabile quanto più l’uomo andava sviluppando,
negli ultimi secoli, concetti che si possono applicare unicamente al mondo inorganico. Da una parte si voleva
spiegare ogni fenomeno in termini puramente meccanici
e matematici, e dall’altra ci si rendeva conto che la vita
della pianta o dell’animale richiede ben altro per venire
compresa. La soluzione fu allora dapprima quella di ricorrere ad un intervento divino ab extra: è Dio che «dirige» la materia della pianta e la dispone secondo i suoi
intenti e i suoi scopi. Quando l’uomo prende dei pezzi di
metallo e ne fa una macchina secondo l’idea della sua
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mente, egli imprime a quei pezzi una realtà nuova che
non fa parte della loro essenza o natura: io non posso
comprendere la natura della macchina dalla natura dei
pezzi, ma devo ricorrere all’idea dell’uomo che è fuori di
essi. Si immagina allora il rapporto fra Dio e la natura
come analogo a quello che con essa ha l’uomo, e ci si
dice: io non posso comprendere l’essenza di una creatura
dalla sua natura stessa, ma devo rivolgermi allo scopo
divino cui essa corrisponde. Nei suoi «Lineamenti di una
gnoseologia della visione goetheana del mondo», pubblicata nel 1886, Steiner così scrive:
«Per lungo tempo la scienza si è arrestata sulla soglia del mondo organico. Riteneva i propri metodi
inadeguati a comprendere la vita e le sue manifestazioni. Anzi, pensava semplicemente che a quel
punto cessassero le leggi che sono all’opera nella
natura inorganica. Negava senz’altro il fatto, ammesso per il mondo anorganico, che un fenomeno
ci diviene comprensibile una volta che ne conosciamo i requisiti naturali. Si concepiva l’organismo
come costruito teleologicamente secondo un dato piano del creatore. Ogni organo doveva avere la sua
funzione prestabilita. Restava solo da chiedere:
qual è lo scopo di questo o quell’organo, a cosa
serve questo o quello. Se per il mondo inorganico
ci si rivolgeva alle precondizioni di una cosa, per il
mondo organico ciò era ritenuto superfluo, e si dava invece importanza alla finalità di una cosa. Di
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fronte ai processi che accompagnano la vita non si
ricercavano, come per i fenomeni fisici, le cause
naturali, ma si riteneva di doverli attribuire a una
forza vitale particolare. Ciò che si forma nell’organismo lo si riteneva un prodotto di questa forza,
che semplicemente oltrepassa tutte le altre leggi naturali. La scienza è rimasta, fino all’inizio del nostro secolo, del tutto inerme di fronte agli organismi. Si limitava unicamente alla sfera della natura
inorganica.
Ricercando in questo modo le leggi dell’organico non nella natura stessa degli oggetti, ma nel
pensiero che il loro creatore segue nel formarli, ci
si precludeva pure la via a ogni spiegazione... Come posso io infatti aver conoscenza di quel pensiero? Sono chiaramente limitato a ciò che ho davanti
a me: se non è esso stesso a rivelarmi le sue leggi dentro al mio pensare, la mia scienza termina. Non è
scientificamente ammesso che si voglia indovinare i
piani concepiti da un essere che sta fuori.» (Grundlinien einer Erkenntnistheorie der goetheschen Weltanschauung, GA 2 (1960), p. 95-6)
Prosegue poi parlando di Kant (il quale ha dichiarato la
mente umana incapace di comprendere i fenomeni della
vita) e della reazione di Goethe a questo modo di vedere
le cose:
«Alla fine del secolo scorso era ancora comune l’opinione che non c’è una scienza che spieghi i fe260
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nomeni della vita allo stesso modo in cui dà spiegazioni, per esempio, la fisica. Kant ha perfino tentato di dare un fondamento filosofico a quell’opinione. Riteneva che il nostro intelletto è capace unicamente di risalire dal particolare al generale. Le
cose singole, particolari, gli sono date, e da esse
egli astrae le leggi generali. Questa forma di pensiero Kant la chiama discorsiva, e la ritiene la sola che
conviene all’uomo. Secondo lui c’è allora scienza
solo per quelle cose, dove il particolare è in sé e per
sé del tutto privo di concetto e viene solo assunto
in un concetto astratto. Per gli organismi questa
condizione secondo Kant non si adempie. Qui il
fenomeno singolo palesa una composizione teleologica, cioè concettuale. II particolare porta in sé delle
tracce del concetto. Ma per comprendere tali esseri, secondo la concezione del filosofo di Königsberg, a noi manca ogni disposizione. Possiamo
comprendere unicamente là dove concetto e cosa
singola sono separati: quello rappresenta un elemento generale, questa uno particolare. Non ci resta altro che porre alla base delle nostre indagini
sugli organismi l’idea della finalità, trattando gli esseri
viventi come se alla base dei loro fenomeni vi fosse
un sistema di intenzioni. Kant ha così nientemeno
che fondato scientificamente la non-scientificità.
Ma Goethe ha protestato decisamente contro
questo procedere non scientifico. Non ha potuto
mai capacitarsi perché mai il nostro pensare non
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debba essere in grado, anche di fronte a un organo
di un essere vivente, di chiedere: ‹da che cosa proviene›, anziché chiedere: ‹a che cosa serve›. Ciò era
insito nella sua natura, che lo spingeva a vedere
ogni essere nella sua perfezione intrinseca. Un
modo di osservare che si occupi unicamente della
finalità estrinseca di un organo, cioè della sua utilità
per un altro, gli pareva non scientifico. Cosa può
avere questo a che fare con la natura intrinseca di
una cosa? Per lui non ha mai importanza ciò a cui
una cosa serve, ma sempre e solo come si sviluppa.
Egli non vuol considerare un oggetto come un essere conchiuso, ma nel suo divenire, onde conoscerne l’origine. Di Spinoza lo attirava particolarmente il fatto che questi respingeva la finalità estrinseca degli organi e degli organismi. Goethe esigeva,
per la conoscenza del mondo organico, un metodo
che fosse scientifico proprio allo stesso modo in
cui lo è quello applicato al mondo anorganico.»
(Grundlinien einer Erkenntnistheorie der goetheschen Weltanschauung, GA 2 (1960), p. 97-8)
Nei tempi successivi, la scienza ha abbandonato quell’ «umiltà» iniziale, e ha creduto di potere spiegare tutti i fenomeni della natura, ma non nel rispetto dei vari ordini
degli esseri, bensì applicando anche ai fenomeni organici
le leggi della fisica e della meccanica, ritenute le sole valide per una conoscenza scientifica. Invece di prendere
dalla matematica, dalla fisica, dalla meccanica il metodo
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scientifico, cioè il modo di conoscenza che esse richiedono, se ne è preso il contenuto, i risultati, si sono cioè
estese agli altri campi del reale le leggi valide per il mondo
inorganico.
Il capitolo XI della Filosofia della libertà, dedicato alla
finalità o visione teleologica del mondo, può sembrare a
prima vista sorprendente, se non sconcertante. Molti
sono abituati a pensare al mondo e alla natura in termini
di un grande organismo che si evolve in base ad un disegno divino, seguendo una onnisciente provvidenza che
guida l’evoluzione e la storia, la cui sapienza resta per noi
in massima parte imperscrutabile. In questo senso si parla
di limiti della conoscenza umana.
Questo modo di vedere è giustificato nella misura in
cui si riferisce alla nostra percezione, che è per natura
limitata. Ma il pensare non conosce questi limiti. Quando
a una percezione noi uniamo il concetto corrispondente
abbiamo una conoscenza piena e adeguata dell’essere in
questione. Si tratta di comprendere che ciò che noi chiamiamo gli scopi o intenti di Dio non sono «dietro» o
«oltre» le cose corrispondenti, ma sono in esse, sono anzi
la loro essenza e natura, e sono perciò da noi adeguatamente conoscibili.
Se un essere è creato in vista di un altro (come strumento verso un fine) esso non ha in sé la propria ragion
d’essere. Ora, questo modo finalizzato di procedere è
proprio dell’uomo, non di Dio. Attribuirlo a Dio vuol
dire costruire un dio a immagine dell’uomo. Perché mai
dovrebbe Dio aver bisogno di un essere per ottenerne un
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altro? Dio non agisce, come l’uomo, secondo scopi. Egli
manifesta se stesso in ogni essere: ciascuno è voluto non
in vista di un altro, ma in vista di se stesso. Nella sua
realtà stessa porta la sua ragion d’essere. Per conoscerlo
devo restare dentro l’essere stesso, e non rivolgermi a
scopi o a fini, rimasti nella mente di Dio, che mi spieghino la natura di questo essere. Gli esseri che Dio crea non
sono dunque strumenti, sono tutte teofanie. Le intenzioni di Dio non sono «mediante» le creature: sono le creature stesse. Le leggi naturali sono i pensieri di Dio, sono le
sue proprie intenzioni. Ciò che lui intuisce, viene direttamente all’essere: solo per l’uomo c’è l’intervallo del
tempo tra il concepimento (lo scopo da raggiungere) e
l’attuazione. Dio non vive nel tempo: le sue intenzioni
sono esseri. Così come egli non crea me in vista di qualcosa d’altro fuori di me, ma in vista di me stesso, così
crea tutte le creature: ognuna è una sua intuizione morale
ed è voluta per se stessa, per la sua bellezza e bontà intrinseche ed essenziali. Dio crea ciò che intuisce perché
lo ama nel suo proprio contenuto, non come strumento
per giungere a qualcosa d’altro. L’essere più profondo
delle creature sono perciò le creature stesse, non i presunti fini per i quali Dio le ha create. Per conoscere le
cose non ho allora mai motivo di «uscire» da esse.
La perfezione di un essere non risiede esclusivamente
nel suo stadio finale, cioè nello stato che esso, in quanto
svolgentesi nel tempo, raggiunge alla fine. Se così fosse,
dovremmo dire che la pianta appena sbocciata è un essere imperfetto, perché non è ancora giunta a fioritura. An264
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che la pianta in fiore sarebbe allora imperfetta, perché
ancora non ha dato i frutti. Ma neppure la pianta col
frutto dovrebbe essere perfetta, perché non è questo lo
stadio finale: segue quello del seme, e siamo di nuovo
all’inizio. Qui si vede chiaramente come ogni stadio ha in
sé la sua perfezione: è in vista di se stesso, non dello stadio successivo. Così ogni essere è perfetto nella sua totalità che è tutta e direttamente presente in ogni sua parte e
in ogni stadio del suo sviluppo. Non è lo stesso dire che
l’uomo è lo scopo della natura, e dire che egli ne è il coronamento e la sintesi.
La tentazione dell’uomo è da una parte quella di vedere in ogni prima e dopo un rapporto di causa ed effetto
(ed estende a tutta la realtà un concetto valido solo per il
mondo inorganico), e dall’altra quella di vedervi un rapporto di strumento e fine (e generalizza antropomorficamente ciò che è specifico del suo agire umano).
Se Dio non opera, come l’uomo, servendosi degli esseri per i suoi scopi (quali?), ma creando gli esseri, ne
segue che per conoscere questi esseri non devo rivolgermi agli scopi di Dio oltre gli esseri, ma agli esseri stessi.
Quando ci chiediamo: per quale fine Dio ha creato questo o quell’essere, siamo del tutto fuori della realtà. Dobbiamo chiederci invece: quale essere ho qui davanti a me,
nella sua realtà che è fine a se stessa. Quando, col pensare, intuisco l’ «essere» di questo essere, sono in comunione con Dio, perché faccio mia la sua intuizione.
Sorge qui allora la domanda circa la libertà di Dio: è
Dio libero? Poteva egli non creare il mondo? Era libero di
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creare un mondo diverso da quello che abbiamo davanti
a noi? Questa domanda è una domanda sbagliata, perché
può sorgere unicamente come conseguenza di presupposti errati, anche se non consapevoli. Essa suppone, infatti, che Dio abbia creato il mondo per qualche scopo (che
non ne è l’essenza, altrimenti non avrebbe creato il mondo «in vista di...» ma semplicemente creato il mondo), e
che per raggiungere tale scopo poteva servirsi anche di
un mondo diverso. Oppure suppone che Dio non ha
bisogno del mondo (cioè può fare a meno di «servirsene») e quindi poteva anche non crearlo. Entrambi questi
taciti presupposti non hanno senso. Il mondo è l’automanifestazione di Dio, e la nostra domanda chiede, da
una parte, se fosse stato possibile a Dio non manifestarsi
nel suo essere (non creando il mondo), e dall’altra, se gli
fosse stato possibile manifestarsi per ciò che egli non è
(creando un mondo diverso). In altre parole essa chiede:
era libero Dio di essere un Dio diverso da quello che è,
cioè un altro Dio?
Il fatto che la domanda sulla libertà di Dio, in quanto
posta dal punto di vista umano, si riduce all’assurdo, non
vuol dire che Dio non è libero: sia ben chiaro che non è
questo che io sto dicendo. Quello che intendo dire è che
il concetto di libertà quale vissuta dall’uomo non si può
applicare a Dio, perché lui è al di sopra del livello della
libertà, poiché questo è specificamente umano e consiste
essenzialmente nel poter fare una cosa in vista di un’altra,
cioè nel poter scegliere gli scopi e gli strumenti in vista di
un fine. Dio non ha scopi (cioè fini da lui non ancora
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conseguiti) e non si serve di strumenti (cioè esseri da lui
non voluti per se stessi).
Se da una parte gli esseri del mondo non sono gli uni
in vista degli altri, è però giusto dire che essi sono gli uni
per gli altri: ciò lo comprendiamo non andando oltre gli
esseri, ma restando nella loro natura, osservandone il
funzionamento e comprendendone le leggi. Se vedo l’animale brucare l’erba, non dirò che l’erba è stata creata in
vista dell’animale, ma dirò che c’è una corrispondenza
essenziale tra i due esseri. È questa la differenza tra dire
che il mondo è costruito armonicamente e secondo leggi
(gesetzmässig) che ne sono l’essenza, e dire che è costruito secondo scopi (zweckmässig). Questi ultimi possono
essere unicamente delle astrazioni inventate e concepite
come realtà invisibili ma ipostatizzate, mentalmente pensate come esseri tenuissimi dentro alla mente di Dio, essa
pure immaginata con caratteri di un «recipiente» sensibile:
solo così gli «scopi» di Dio possono essere posti «oltre»
gli esseri, e definiti come non conoscibili indagando la
natura stessa degli esseri.
Per poter agire secondo scopi è necessario che il concetto dell’effetto abbia un influsso reale e percepibile sulla
causa: ciò lo possiamo osservare (nella percezione ordinaria) unicamente nell’agire umano. Quando l’uomo concepisce uno scopo, il concetto dell’effetto è reale in lui, ed è
esterno all’effetto stesso (che appunto ancora non c’è):
perciò c’è bisogno dell’intervento umano, dal di fuori, per
condurre la causa al suo effetto. Per le leggi che vigono nel
mondo, invece, le cose stanno altrimenti: le leggi sono
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l’essenza delle cose stesse, sono i concetti che noi afferriamo col pensare, in quanto corrispondono alle percezioni. Senza quei concetti, nella pura percezione, non abbiamo gli esseri, ma ci allontaniamo dalla loro realtà.
È questo che intendeva Goethe volendo sostituire la
spiegazione finalistica (teleologica) dei fenomeni, con
quella causale: di fronte agli esseri egli non si chiedeva «a
quale scopo», ma «come». Ricercando la spiegazione nel
«come» io resto dentro al reale. Si dirà che il «come» consiste in una pura «descrizione», che non dà «ragione» di
una cosa. Al contrario, i concetti e le leggi che il pensare
intuisce non sono percezioni: queste possono unicamente venire descritte. I rapporti fra le percezioni sono leggi
espresse in forma di concetti: questi non si possono percepire. I supposti «scopi» o intenti di Dio sono delle realtà impercepibili immaginate con caratteri percepibili (simili alle «leggi» divine immaginate fuori dell’uomo come
realtà percepibili-impercepibili).
Una domanda sorge spontanea al termine di queste
considerazioni: ma allora la vita non ha scopo? L’uomo è
senza scopo? Il mondo è senza scopo? Si vuol forse tutto
ridurre a cieco determinismo della materia senza alcuna
destinazione?
Dicendo che le intenzioni (gli scopi), in quanto devono essere percepibili, le riscontriamo solo nell’uomo, e
che nella natura troviamo leggi (le quali possono solo
venir pensate), intendiamo dire che nel mondo spirituale
extraumano (nel modo di operare di Dio), vige un ordinamento superiore a quello della finalità, quale si manifesta
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nell’uomo. Per la finalità è essenziale l’elemento del tempo nel quale l’uomo si trova, e che comporta il susseguirsi del prima e del poi. Oltre il tempo c’è una sfera
dell’essere di ordine diverso.
Ciò che io qui ho voluto mostrare è che moralità, finalità e libertà sono in ultima istanza sinonimi fra loro, e
che tutte e tre sono specifiche del livello dell’essere propriamente umano. Per la moralità è necessaria la possibilità reale del male, e questa non può essere attribuita a
Dio. Per la finalità è essenziale la presenza reale di un intento non ancora attuato nel tempo, e ciò, pur essendo la
perfezione dell’essere umano, sarebbe in Dio imperfezione. La libertà è l’esercizio congiunto della finalità (che si
può chiamare la libertà del pensare) e della moralità (che
si può chiamare la libertà del volere): questo pensare e
questo volere, che sono specificamente umani, nella libertà trovano entrambi la propria perfezione, divenendo
una cosa sola e trasformandosi in amore. Ciò che noi
chiamiamo comunemente libertà non è allora la perfezione dell’essere, ma la perfezione dell’essere umano.
La «via negativa» nel linguaggio su Dio va strettamente rispettata non solo per gli attributi che a noi sembrano
negativi (l’uomo è finito, Dio è in-finito: ma la «finitudine» umana non è un’imperfezione dell’uomo, bensì proprio la sua perfezione specifica), ma anche a quelli che
sono positivi (l’uomo è libero, Dio è «altro che» libero: il
suo essere è a un livello superiore a quello della libertà
umana). La sola realtà che ci fa vivere in Dio (e nella
quale la «via negativa» viene sospesa) è la realtà vivente
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del pensare come tale. Ma la libertà umana (fatta di moralità e finalità) risiede proprio nel necessario rapporto del
pensare umano alla percezione, che per Dio non esiste.
Noi possiamo senz’altro scegliere di usare la parola «libertà» anche parlando di Dio. Useremmo allora la stessa
parola per due realtà essenzialmente diverse. La difficoltà
di questo uso appare però chiara non appena ci rendiamo
conto che in realtà essa viene comunemente attribuita a
Dio nello stesso modo in cui viene attribuita all’uomo. Credendo di affermare la libertà di Dio, ci si costruisce difatti
un Dio a immagine dell’uomo, e lo si fa appunto agire al
modo umano: secondo scopi e intenti. Ciò è talmente
radicato nell’antropomorfismo umano, che non si riesce a
concepire un Dio senza scopi (ai quali, come ho mostrato,
l’elemento della percezione è essenziale, essendo lo scopo
un concetto percepibilmente reale in colui che agisce).
Che la mente umana, d’altro canto, abbia ragione di
riempirsi di scopi, di intenti, di ideali, e di farne il contenuto della propria esistenza, lo vedremo nelle riflessioni
che ora seguono.
6. L’immaginativa morale come libertà
dell’amore
La visione morale di Steiner è tutta fondata sulla facoltà
del pensare, che è specifica dell’uomo. In quanto essere
pensante, egli non è determinato, ma è capace di determinare se stesso: è libero.
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La libertà dell’uomo risulta nella sua chiarezza e pienezza non tanto nell’esercizio del conoscere stesso, quanto nel pensare che si pone alla base dell’agire, nella volontà attiva che, seguendo i propri intenti, interviene a trasformare la realtà. Nel pensare che conosce il mondo,
infatti, noi entriamo nella realtà stessa del mondo: congiungendo le percezioni con i concetti corrispondenti
seguiamo le leggi oggettive del pensare, e dimentichiamo
noi stessi. Nei pensieri invece che noi poniamo alla base
delle nostre azioni, siamo noi stessi a separare realmente
il concetto (l’intento) dalla percezione (l’azione), per poi
ricongiungerli mediante la nostra attività.
La scienza naturale tende a considerare tutti i fenomeni
in termini di causalità meccanica, cioè deterministica: ogni
fenomeno ha la sua causa, ogni fenomeno è un effetto. In
questa mentalità non c’è affatto posto per la libertà umana,
che esula dal determinismo causale. Questa libertà non si
può strettamente dimostrare (se così fosse, non sarebbe
più libertà, ma una realtà «necessaria»), ma la si può solo
vivere ed esperire come realtà interiore vivente. Essa si può
percepire e quindi osservare interiormente con la stessa
chiarezza e certezza con cui percepiamo e osserviamo realtà fuori di noi. Lo stesso metodo scientifico, che consiste
nella fedeltà pensante alla percezione e all’osservazione, va
applicato anche all’esperienza introspettiva della libertà. Il
dogma del determinismo causale di ogni fenomeno non
proviene dalla percezione o dall’osservazione: è un pregiudizio che impedisce di osservare con oggettività tutti i dati
percepibili, compresi quelli interiori.
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Nell’osservazione della realtà interiore della libertà,
noi applichiamo il nostro pensare non più agli oggetti dei
sensi, ma a una realtà puramente spirituale. In essa il pensare si libera dai sensi e dal corpo. In questo senso, percepire la realtà interiore della libertà è esso stesso un processo di liberazione: il pensare si rivolge al centro interiore dell’Io, si riempie cioè di ciò che egli stesso produce e
che è allo stesso tempo realtà oggettiva. L’oggetto dell’osservazione non è qui fornito da ciò che i sensi corporei
percepiscono nel mondo esterno, ma è una realtà puramente spirituale, resa conscia tramite percezione e osservazione introspettiva.
La sfera dell’agire morale inverte il processo che avviene nella conoscenza. Per conoscere un oggetto partiamo dalla percezione, per poi congiungerla col concetto
che traiamo dal pensare. Nell’attività volitiva invece partiamo dall’intuizione morale (il motivo, l’intento dell’azione) e la poniamo alla base dell’attuazione concreta, che
avviene nel mondo della percezione sensibile. Qui è la
libertà intuitiva e creatrice propria del pensare a essere il
punto di partenza: una realtà puramente spirituale, del
tutto indipendente dai sensi e dalla realtà visibile. La vera
natura della libertà si manifesta perciò pienamente nell’agire morale. La volontà che trae le proprie intuizioni e i
propri intenti dalla natura libera del puro pensare è essa
stessa pienamente libera.
Ne segue che ciò che fa dell’essere umano un soggetto
morale creativo e responsabile è la sua capacità di intuizioni morali. Senza di queste, egli sarebbe un essere in
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tutto determinato. Le intuizioni morali presuppongono
dunque una facoltà creatrice, di natura individuale e intuitiva. Steiner chiama questa facoltà «immaginativa morale»
(moralische Phantasie): essa può esser conosciuta e vissuta unicamente tramite percezione interiore, osservando e
intensificando in sé la realtà vivente del pensiero. Quando il pensare, rivolto alla propria attività e vivendo in
essa, si intensifica, liberandosi dalla passività inerente al
riferimento alla percezione esteriore, allora comincia a
sperimentarsi direttamente come volere, come libera
creatività, come realtà sostanziale che ha in sé la propria
ragion d’essere. È qui che l’uomo non solo scopre in sé
l’immaginativa morale, ma sa per esperienza interiore
diretta di essere una cosa sola con essa: comprende che il
suo Io più intimo e vero è quella stessa attività creatrice e
intenzionale, pensante e volitiva ad un tempo. Sperimenta se stesso come essere spirituale che intuisce e ama non
in due atti distinti, ma in un atto solo.
Nell’immaginativa morale convergono così, fino a unificarsi, le due dimensioni fondamentali della persona
umana: il pensare e il volere. Il pensare che diviene attività volitiva è l’esercizio diretto della libertà; il volere che
diviene trasparenza intuitiva è l’esercizio diretto dell’amore. Libertà e amore, nella loro unificazione, sono l’essenza morale della persona umana.
«C’è ora una possibilità di divenire del tutto liberi,
di divenire liberi nella propria vita interiore, se si
esclude il più possibile il contenuto di pensiero in
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quanto proveniente dal di fuori, ed escludendolo
sempre di più si giunge ad attivare in modo particolare l’elemento della volontà, che illumina i nostri pensieri nei giudizi e nelle argomentazioni. In
questo modo però il nostro pensare entra in quello
stato che io nella mia ‹Filosofia della libertà› ho
chiamato il pensare puro: pensiamo, ma nel pensare vive unicamente il volere. L’ho sottolineato in
modo particolarmente marcato nella nuova edizione della ‹Filosofia della libertà› del 1918. Ciò che in
quello stato vive in noi, vive nella sfera del pensare.
Ma una volta divenuto pensare puro, lo si può difatti a ugual ragione chiamare volontà. Per cui noi,
quando diveniamo interiormente liberi, ci eleviamo
dal pensare al volere, rendiamo per così dire il pensare maturo a tal segno, che esso viene completamente illuminato dal volere, senza più ricevere dal
di fuori, ma vivendo appunto nel volere. Ma proprio in quanto noi rafforziamo sempre di più il volere in seno al pensare, ci prepariamo per ciò che io
nella ‹Filosofia della libertà› ho chiamato immaginativa morale, la quale assurge a intuizioni morali
che vengono a illuminare e a compenetrare la nostra volontà divenuta pensiero, ossia il nostro pensiero divenuto volontà. In questo modo ci affranchiamo dal determinismo fisico-sensibile, ci illuminiamo con ciò che ci è proprio e ci rendiamo capaci
di intuizione morale. Ed è appunto in siffatte intuizioni morali che consiste dapprima tutto ciò che
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dal mondo spirituale può riempire l’uomo. Ciò che
è libertà nasce dunque quando noi proprio in seno
al pensare rendiamo sempre più forte e vigoroso il
volere.» (Die Brücke zwischen der Weltgeistigkeit und dem
Physischen des Menschen, GA 202 (1970), p. 202)
Questo puro pensare, che rivela la propria natura spirituale vivente e volitiva, è tutt’altra cosa che il pensiero
astratto concepito come mera riflessione speculare della
realtà visibile. Steiner prosegue, nel passo or ora citato,
volgendosi all’altro polo, quello del volere, per mostrare
come la vera natura del volere divenga trasparente nella
misura in cui l’atto volitivo viene del tutto rischiarato
dall’intuizione del pensare. Quando starnutisco, non posso parlare di un vero e proprio impulso volitivo. Quando
parlo, la volontà conscia è già molto più attiva, benché,
per il fatto stesso che io abbia «imparato» a parlare, l’elemento automatico (extra-volitivo) abbia pure la sua parte.
«Ma più noi usciamo da ciò che è organico in noi e
passiamo all’attività che è in qualche modo emancipata dalla realtà organica, più inseriamo i pensieri
nel nostro agire. Lo starnutire è ancora del tutto
inserito nell’organismo, il parlare lo è ancora in
gran parte, il camminare già molto poco, ciò che
eseguiamo con le mani pure molto poco. ...Noi inseriamo i pensieri nel nostro agire: più il nostro
agire si perfeziona, e più noi immettiamo in esso i
nostri pensieri.» (lbidem, p. 203)
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Nel pensare che vive nella propria attività e diviene volitivo, noi ci liberiamo dal determinismo del mondo della
percezione esterna, e troviamo la libertà. Nel volere che
è illuminato dal pensare e diviene intuitivo, noi ci liberiamo dal determinismo degli impulsi interni del nostro
organismo, e ci apriamo all’amore. Il pensare che ci dà
la libertà, e il volere che ci dà l’amore divengono una
realtà sola.
«Voi vedete che andiamo sempre di più verso l’interno, a mano a mano che immettiamo la nostra
propria energia come volontà nel pensare, e lasciamo che la volontà illumini per così dire il pensare. Portiamo la volontà dentro al pensare e nel
perfezionare sempre di più il nostro agire riusciamo a inserire in questo agire i pensieri. Illuminiamo il nostro agire, che procede appunto dalla nostra volontà, coi nostri pensieri. Da un lato, verso
l’interno, viviamo una vita di pensieri: la illuminiamo con la volontà e troviamo così la libertà.
Dall’altra parte, verso l’esterno, le nostre azioni
sgorgano in noi dalla volontà, e le compenetriamo
con i nostri pensieri.
Ma cos’è dunque che rende le nostre azioni
sempre più compiute? In che modo conseguiamo
un agire sempre più perfetto? Giungiamo ad un
agire sempre più perfetto proprio per il fatto che
formiamo in noi quella forza che non si chiama altro che dedizione al mondo esterno. Più cresce la nostra
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dedizione al mondo esteriore, e più questo stesso
mondo ci stimola all’agire. Ma proprio trovando il
modo di esser dediti al mondo esterno ci diviene
possibile di compenetrare di pensieri ciò che è
contenuto nel nostro operare. Che cos’è la dedizione al mondo esteriore? La dedizione al mondo
esteriore che ci compenetra e che compenetra di
pensieri il nostro agire, non è altro che amore. Come noi giungiamo alla libertà illuminando con la
volontà la vita dei pensieri, proprio così giungiamo
all’amore illuminando coi pensieri la vita della volontà.» (Die Brücke zwischen der Weltgeistigkeit und dem
Physischen des Menschen, GA 202 (1970), p. 203-5)
L’immaginativa morale è dunque l’unione inscindibile di
libertà e amore: la facoltà di intuire amando e di amare
intuendo. In essa il puro pensare e il puro volere si identificano. La persona umana è, nella sua essenza più profonda, amore inventivo, intuizione creatrice. La libertà
dell’amore è la sorgente di ogni conoscenza e di ogni
volere. Ritroviamo qui, al suo livello più profondo, ciò
che ho detto nel quarto capitolo circa l’unificarsi, nell’azione libera, del movente e del motivo, il primo in quanto
esprime la dimensione della volontà, il secondo in quanto
esprime quella del pensare. E così come in quel contesto
abbiamo approfondito il rapporto tra il dovere (Sollen) e
il volere (Wollen), così dobbiamo ora, per comprendere
l’uomo in quanto individuo, approfondire il rapporto fra
legge naturale e norma morale.
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Infatti, ciò che ho detto finora circa la natura essenzialmente individuale e intuitiva dell’immaginativa morale
fa sorgere, come risposta spontanea, la domanda: non ci
sono dunque altre norme morali per l’individuo oltre a
quelle che lui stesso si dà? Non esiste nessuna legge morale oggettiva valida per tutti?
Dobbiamo sempre ritornare alla realtà fondamentale:
che ci sono unicamente due sorgenti per la nostra conoscenza (la percezione e il pensare) e che ogni cosa che
troviamo in noi o fuori di noi dev’essere o una percezione (che dobbiamo perciò poter indicare), o esercizio attivo del pensare.
Se ora ci chiediamo se le norme morali generali vadano poste dalla parte del pensare oppure da quella della
percezione, la risposta è chiara: per me esse sono tutte
percezioni. Sono offerte al mio pensare attivo come ogni
altro dato, che appunto viene «dato» al pensare. Non le
produco io creativamente, le trovo già elaborate. Sono
state intuizioni morali nella mente dell’individuo che le ha
concepite, non nella mia. I pensieri pensati dagli altri
sono per me percezioni.
È dunque del tutto errato porre una differenza essenziale tra la scienza naturale (come scienza dell’essere) e la
scienza morale (come norma dell’agire). Ciò che chiamiamo norme morali sono intuizioni sorte nel passato
nelle menti di individui umani liberi: sono l’esercizio trascorso della libertà umana. Anche riguardo al mondo naturale che funziona secondo leggi, possiamo dire che quelle
leggi sono l’esercizio «trascorso» della libertà di Dio. La
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differenza è nel fatto che la creatività divina lascia dietro
a sé degli esseri (e i suoi pensieri ne sono le leggi naturali), l’uomo invece lascia dietro a sé semplicemente dei
pensieri (che sono le sue intuizioni cognitive o morali).
Chi viene dopo trova sia gli uni (gli esseri) sia gli altri (i
pensieri, le «norme») come percezione.
La norma morale vera e propria non va cercata nella
percezione (che appartiene all’essere, non al dovere), ma
nel pensare, cioè unicamente in forma di intuizione attuale e individuale. Il «tu devi» può essere intuito unicamente
in forma di un «io devo» (che, come abbiamo visto,
quando è perfetto si identifica con «io voglio»).
Ogni legge naturale e ogni norma morale altrui ha già
la sua percezione corrispondente: è un concetto il cui
rapporto col dato non dipende da me, ma è dettato dalla
corrispondenza oggettiva tra i due. Non così per l’intuizione morale che sorge nella mia immaginativa: essa non
ha ancora la sua percezione corrispondente, ma la devo
creare io stesso (traducendo in atto, nel percepibile, la
mia intenzione). Proprio in quanto trasforma il mondo
della percezione, l’intuizione morale è per natura sua
individuale e creatrice, e non «normativa». Si riferisce a
ciò che non è ancora, non a ciò che è.
Il passato (la natura in quanto «passato di Dio», e la
storia in quanto «passato dell’uomo») non può mai considerarsi norma dell’avvenire. Ne è il sostrato, non la
norma. Io non considero ciò che ho fatto ieri come
«norma» di ciò che voglio fare oggi: ciò sarebbe togliermi
ogni libertà e ogni possibilità di innovamento. L’evolu279
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zione degli esseri naturali è proprio fondata sulla continua novità nel comparire degli esseri e delle specie. Il
rettile non è «norma» per ciò che dev’essere il mammifero. La scimmia non è «norma» per ciò che dev’essere
l’uomo. Come nella natura sorgono esseri sempre nuovi,
così negli uomini sorgono intuizioni morali sempre nuove. Non posso dedurre normativamente le intuizioni di
un uomo da quelle di un altro, allo stesso modo in cui
non posso, dalla scimmia, dedurre normativamente l’essere dell’uomo. Se il presente dovesse misurarsi sul passato, l’uomo non ci sarebbe affatto, perché nell’ordine degli
esseri egli è una novità assoluta. E poiché, nel caso
dell’uomo, ogni individuo è come una specie, non posso
stabilire l’essere e il comportamento dell’uno in base a
quello dell’altro, come non posso stabilire l’essere e il
comportamento dell’uomo in base a quello della scimmia.
La «natura umana» si riferisce, in ogni uomo, a ciò che
non è individuale, quindi a ciò che non è «specificamente» umano. Specificamente umano è l’individuo in quanto
dotato delle facoltà spirituali e volitive del pensare. Non
c’è «natura umana» nell’immaginativa morale: questa è del
tutto individuale (anche se non soggettiva). Tutto ciò che
è stato fatto (nella natura e nella storia) non mi dice chi
sono io: mi dice piuttosto chi io non sono. Normativo per
me è ciò che io sono, perché questo io devo e voglio essere. Solo il mio essere lo può intuire, quando, nell’immaginativa morale, è intensamente e liberamente se stesso. Da nessun altro posso sapere ciò che io sono come
distinto da tutti gli altri.
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Analogamente, la mia conoscenza di ciò che un altro
individuo è, in quanto individuo, non mi può venire da
leggi o da norme (che mi indicherebbero appunto ciò che
non è individuale) ma dalla percezione: non dal solo pensare, ma dall’osservazione del suo comportamento (in
quanto scaturisce dalle intuizioni della sua immaginativa
morale) e dalla percezione della sua autocomunicazione
mediante la parola (con la quale mi esprime i suoi intuiti
individuali e unici).
Quando ci appelliamo alla necessità di una norma
oggettiva, che cosa intendiamo veramente? Se intendiamo «oggettiva» nel senso di uguale per tutti, siamo del
tutto fuori dall’oggettività della realtà, perché gli individui umani, oggettivamente, non sono uguali. Se intendiamo «oggettiva» in quanto opposta a «individuale»
dimentichiamo che l’individuo umano è la realtà più oggettiva che vi sia. Il problema sorge dal fatto che noi
confondiamo «soggettivo» con «individuale» da una parte, e «oggettivo» con «generale» dall’altra. Le intuizioni
dell’immaginativa morale sono individuali, ma non soggettive, poiché il pensare è oltre i concetti di soggettivo
e oggettivo, entrambi da esso prodotti. Similmente, le
intuizioni morali dell’individuo sono oggettive (in quanto attinte dalla realtà unitaria e universale) ma non generali (altri individui attingono, dalla stessa unica sorgente,
altre intuizioni).
Il motivo per cui tutto ciò può ancora lasciarci perplessi è che noi notiamo che, nel comportamento quotidiano, c’è una certa armonia, (benché, in tempi recenti,
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sempre meno «scontata») nell’agire dei vari individui. Da
qui ci viene spontaneo parlare di norme morali valide per
tutti.
Dicendo che la sfera morale in quanto tale è individuale, non si vuol dire che gli individui non hanno nulla
in comune: hanno in comune appunto tutto ciò che non
è individuale. Se vogliamo parlare di «norma morale» rispetto a ciò che non è individuale, quale dovrebbe essere
questa norma? La norma che ne chiede il superamento
(cioè che ne fa cessare la «normatività»). Potremmo chiamarla norma morale negativa. Essa dice all’uomo: liberati
da ciò che ti impedisce di trovare ed esprimere il tuo vero
essere individuale. Divieni sovrano su tutto ciò che non è
«tu», perché tu possa essere te stesso. Affrancati dal determinismo del passato (la natura e la storia in te) per
aprirti alla libertà del presente e del futuro che tu sei.
Le norme morali «generali» si esprimono, proprio
per questo, in forma negativa. «Non uccidere», perché
quando uccidi non sei tu ad agire, ma la natura inferiore
in te. «Non rubare»: quando rubi non sei libero, ma è la
brama che comanda in te. Proprio in quanto l’uomo
deve liberarsi dal suo passato, questa liberazione è «paragonabile» (= generalizzabile) con la liberazione di altri
uomini che portano in sé, almeno in parte, lo stesso
passato e la stessa storia. È questo che noi chiamiamo
«natura umana»: non ciò che costituisce l’individuo,
bensì ciò che l’individuo deve usare come suo strumento; non ciò che è sua «norma», bensì ciò che deve cessare di esserlo.
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Una norma morale che da negativa voglia farsi positiva, non può più essere generale, ma solo universale. «Vi
do un comandamento nuovo: il comandamento dell’amore» (Il Cristo non ne ha dati altri). Ama il prossimo tuo
come te stesso, vuol dire: ama le individualità umane come
valore supremo, e non porre nessuna «norma» al di sopra
di esse, perché questa verrebbe a negarle nella loro sovranità. Ama il Signore Dio tuo, vuol dire: ama quella sorgente unitaria e inesauribile dalla quale tutti gli uomini attingono le intuizioni della loro libertà e del loro amore.
Vediamo dunque che quelle che noi chiamiamo norme morali valide per tutti non fanno parte della moralità
vera e propria, ma ne sono la preparazione, cioè la condizione di possibilità. La vera moralità comincia là dove
l’uomo è libero, cioè dove egli è veramente se stesso,
divenendo creativo, perciò unico e irripetibile.
Vuol questo dire che l’altro uomo non può essermi
d’esempio? Certo non nel sostituire le sue intenzioni alle
mie! Lo può essere in duplice modo: liberandosi da tutto
ciò che rende l’uomo non libero e esponendomi alla ricchezza delle sue intuizioni morali. Il mio desiderio di
imitarlo sarà allora il desiderio di diventare io pure creatore, cioè come lui in quanto non come lui: me stesso, in
quanto individuo unico e non «copiabile».
Queste riflessioni non possono andare a genio a coloro che sono ben sistemati in una data istituzione (sia essa
sociale, politica o religiosa) e ne hanno a cuore, al di sopra di ogni cosa, la stabilità e la forza. Essi non possono
aver simpatia per l’individuo (possiamo pensare al caso
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successo duemila anni fa). Ogni istituzione, infatti, porta
in sé la tendenza a porre se stessa al di sopra dell’individuo, cioè a rendere l’uomo per il sabato anziché il sabato per l’uomo. Da ciò segue la sua simpatia per norme
generali, valide per tutti: queste non sono che intenti di
singoli, i quali mirano essenzialmente al potere. Se ciò
non fosse, cesserebbero di imporre su altri il proprio
volere, e rispetterebbero le intuizioni altrui non meno
delle proprie.
Da un punto di vista morale, ogni istituzione ha dunque la tendenza a trascurare il valore morale fondamentale: quello di formare gli individui a quella autonomia e
responsabilità, che li rende capaci di intuire ed esprimere
ciò che è unico in ciascuno di loro. Al contrario, in nome
della legge e dell’ordine, l’individualità viene definita come egoistico individualismo, come ribellione, come prevaricazione. Si afferma che l’individuo è irresponsabile, e
non ci si rende conto di contribuire non poco a tale irresponsabilità. Infatti, quando l’istituzione fa di tutto perché l’individuo non diventi individuo, cosa avviene? Essa
ne fa (o vorrebbe farne) un esecutore di leggi e di norme,
un automa superiore. E poiché l’uomo è individuo, è
proprio l’istituzione che così facendo ne rende inevitabile
la «ribellione», e lo accusa poi di far valere ciò che essa ha
voluto sopprimere (ma non potuto togliere).
Ci sono istituzioni e persone (e non solo religiose) che
si appellano a leggi non umane, ma divine. Possono essere i comandamenti ricevuti sul Sinai, o gli ordini di Allah,
o può essere la legge di Cristo, o ancora il mandato divi284
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no che un popolo ritiene di avere. Da una parte, quando
esse sentono parlare di una comunione reale dell’uomo
con Dio (quale io ho descritta dalla natura intuitiva del
pensare e della immaginativa morale) accusano di panteismo: l’uomo non può attingere direttamente al divino,
dicono, perché il divino è «oltre» l’uomo. D’altra parte,
poi, le stesse persone affermano di essere custodi di leggi
divine. E la loro mente umana, io chiedo, come vi è arrivata, se non è in comunione con Dio? Oppure, che è lo
stesso, come ha potuto Dio comunicarle a degli uomini
che non possono capirle, cioè farle proprie? La verità è
che non esistono leggi divine quali fantasmi metafisici
vaganti nell’aria: queste leggi sono intuiti e intenti d’uomini. Questi uomini (come Mosé sul Sinai) possono certamente aver percepito esseri spirituali che noi normalmente non percepiamo. Ma non possono aver percepito delle
«leggi»! Queste sono pensieri, sono concetti, sono intuizioni, e non si possono percepire, ma si possono unicamente pensare. E si possono pensare solo nella mente
dell’uomo, perché nessun uomo ha mai pensato con la
mente di Dio, quasi che la mente di Dio dovesse funzionare a somiglianza della nostra.
E concediamo pure, si dirà, che il valore morale supremo sia l’individuo umano nell’esplicazione della sua
libertà: ma cosa fare di tutti coloro, innumerevoli, che
non appartengono a questa élite di liberati e illuminati, e
che sono invece in balia delle passioni e dell’egoismo?
Costoro non potranno altro che seguire le intuizioni morali altrui (le cosiddette «norme morali generali»). Ma non
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dobbiamo dimenticare che c’è un’altra domanda, ancora
più importante, che dobbiamo porci: perché questi uomini
sono in preda a ciò che è «natura» in loro, e perché sono
così numerosi? Se le nostre istituzioni insistono nel proporre e nell’imporre, come valore morale ultimo, le proprie norme, quali leggi della natura umana, non dovrebbero stupirsi che tanti uomini seguano, non il mondo
luminoso dello spirito dentro di sé, ma la legge della natura.
7. I desideri, la felicità e la libertà
Dopo aver detto che l’individuo umano è il vertice della
creazione poiché nella sua immaginativa morale sorge nel
mondo la libertà e la moralità, dobbiamo vedere più concretamente che cosa succede quando ciò che Steiner chiama «individualismo etico» viene davvero riconosciuto. La
domanda che qui ci poniamo è questa: che cosa succede
concretamente se lasciamo l’uomo al suo volere? Che cosa
vuole veramente l’individuo in quanto individuo?
L’ordine naturale, abbiamo detto, non dipende da me:
mi si offre come percezione. L’ordine morale invece dipende proprio da me: lo creo io stesso, poiché esso è
fatto di intuizioni morali che devono essere pensate da
me. Non c’è senza di me, gli do io l’esistenza che io stesso decido, e questo «Io» non è la natura in me (il non-Io)
ma la mia immaginativa morale. La norma morale è norma solo in quanto è atto presente intuitivo, cioè dentro
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l’esercizio stesso dell’intuizione che concepisce, ispira e
dirige la mia azione. Dopo aver ispirato e diretto, essa
diviene una percezione, pensiero già pensato e non più
esercizio attivo del pensare stesso.
La comunione degli individui umani non risiede nell’uguaglianza dei loro intuiti morali e dei loro intenti (in
questo caso non sarebbero individui) ma nella sorgente
comune e unitaria di tutte le loro intuizioni. In quanto
tutti gli uomini attingono, nel pensare, a quella comune
sorgente, essi sono uno: in quanto ciascuno ne trae intuiti
diversi e, nel volere, li pone alla base del proprio agire,
essi sono individui.
Coloro che hanno paura del soggettivismo, del relativismo, dell’anarchia, vorrebbero stabilire una legge positiva uguale per tutti. Non comprendono che volendo
rendere gli uomini uniti, essi implicitamente confessano di
ritenere che non lo sono. E se non lo sono per essenza,
come si potrà mai renderli tali per «decreto»? Possiamo
paragonare il mondo spirituale, al quale gli uomini attingono, alla sabbia sulla spiaggia del mare. Immaginiamo
un gran numero di bambini tutti intenti alle costruzioni
della loro fantasia: uno fa una casa, un altro un castello,
un altro una chiesa, un altro ancora una macchina... ed è
pur sempre la stessa sabbia. In modo analogo (nessun
paragone è perfetto!) gli uomini traggono dalla sorgente
spirituale comune quelle costruzioni originali e diverse
che noi chiamiamo individui. Ognuno plasma il mondo
delle idee secondo il proprio essere, anzi, egli è proprio
quella particolare configurazione di pensieri e di intenti.
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Il rapporto tra individualità e partecipazione è fondamentale in ogni visione morale dell’uomo. L’abbiamo
incontrato, nelle sue varie dimensioni, ad ogni livello del
cammino fin qui percorso. La natura della comunione
spirituale resta sempre il mistero più profondo. Nella
conclusione di questo lavoro mi riservo di offrire alcune
riflessioni generali e riassuntive, in una specie di sintesi
che raccolga e intrecci i fili dispersi.
In questo ultimo capitolo, volendo guardare più a fondo dentro l’individuo umano, siamo confrontati con una
scelta che è decisiva: possiamo fidarci o no di ciò che si
muove nel fondo dell’uomo? Deve l’uomo soggiogare se
stesso, oppure può fare affidamento su di sé? È egli chiamato a esprimere o a reprimere ciò che porta dentro di
sé?
Naturalmente, siamo subito tentati di rispondere distinguendo: c’è nell’uomo l’istinto dell’egoismo, e c’è in lui
anche il desiderio dell’amore. Egli deve vincere il primo
onde far trionfare il secondo. Questo è giusto, ma non ci
dice ancora quale sia l’impulso primigenio che l’essere
umano porta in sé. Molti di noi danno per scontato, spesso senza accorgersene, che l’uomo tende per natura
all’egoismo, e solo «vincendo se stesso» diviene capace di
amore. Questa convinzione si pone alla base della morale
intesa fondamentalmente come «dovere», e non come
volere. Con essa, l’individuo «tiene a bada» la sua natura
egoistica, e la comunità tiene a bada l’individuo.
Mio compito è ora di mostrare che questo assunto
implicito (più comune di quanto si pensi) è errato, e che
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l’uomo non tende per natura all’egoismo, perché non è
questo l’impulso primigenio ed essenziale del suo essere.
A questo scopo userò due argomenti distinti: il primo di
natura piuttosto teorico-filosofica, il secondo invece preso più direttamente dall’osservazione concreta del comportamento umano (in altre parole, il primo si fonda sul
pensare, il secondo sulla percezione).
Posto in forma di sillogismo, il primo argomento suona
così: nessun uomo vuol essere non libero; ora, esser egoista rende l’uomo non libero; dunque, nessun uomo vuole
essere egoista. La maggiore non dovrebbe aver bisogno di
elaborate spiegazioni: ogni uomo sente in sé l’aspirazione
alla libertà, desidera cioè trarre dal proprio essere l’orientamento da dare all’esistenza. Vuol essere lui a decidere ciò
che fa, e vuol comprendere perché lo fa. Ciò che richiede
una riflessione più approfondita è invece la minore: l’egoismo rende l’uomo non libero. La difficoltà principale sta
qui nell’accordarsi sul significato da dare al termine egoismo. Se lo prendiamo come opposto dell’amore, esso
risiede nel mio compiere qualcosa non per amore verso
l’oggetto per sé (amato direttamente per la sua verità, bellezza e bontà intrinseche) ma in vista di qualcosa d’altro,
cioè per me. Non amo allora l’oggetto della mia azione, o
l’azione, per se stessi, ma li amo in vista di me. L’azione o
l’oggetto dell’azione, non sono il fine del mio agire: sono
meri strumenti, e solo io sono il fine.
Potrebbe sembrare che chi, per esempio, si mette a
bere, intende direttamente il bere stesso, non altra cosa, e
che dovrebbe dunque essere libero. Ma ciò non corri289
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sponde ai fatti: il bevitore non vuole il bere, bensì la sensazione piacevole che è effetto del bere. Se la potesse conseguire evitando il bere, lo farebbe volentieri, perché ciò
gli eviterebbe di spendere soldi, nonché il mal di testa
della sbornia. Chi volesse insistere che il bere e la sensazione da esso provocata sono una cosa sola, confonde tra
loro due realtà opposte: un’azione e un’affezione (la prima attiva, la seconda passiva). L’essenza delle azioni non
libere consiste proprio nel non coincidere di queste due
sfere.
In questo è infatti la natura della non libertà: nel fare
qualcosa che non si vuole in vista di ciò che si vuole.
L’egoismo si vede costretto a fare una cosa perché ne
vuole un’altra, ma ne farebbe volentieri a meno, se potesse giungere direttamente alla seconda.
«L’oggetto del suo agire, non appena egli se ne
forma un concetto, lo riempie talmente che ne ricerca l’attuazione. Nel bisogno della realizzazione
di un’idea, nell’impulso a eseguire un intento deve
pure trovarsi il solo stimolo del nostro operare.
Nell’idea dev’essere espresso tutto ciò che ci spinge all’azione. Non agiamo allora per dovere, e
neppure seguendo un impulso, ma per amore verso
l’oggetto al quale deve estendersi la nostra azione.
Nel rappresentarcelo, l’oggetto fa sorgere in noi il
desiderio di un’azione ad esso adeguata. Unicamente un simile agire è libero. Se all’interesse che
ci prende per l’oggetto dovesse aggiungersi un se-
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condo incentivo di altro genere, noi non vorremmo allora questo oggetto per se stesso, ma ne vorremmo un altro, e realizzeremmo questo, che non
vogliamo. Compiremmo un’azione contro il nostro
volere. Così avviene quando agiamo per egoismo.
Con esso non abbiamo alcun interesse all’azione
stessa: non di essa abbiamo bisogno, ma dell’utile
che ci reca. Ma allora sentiamo come una costrizione il fatto di dover compiere quell’altra azione
unicamente in vista di questo scopo. Essa stessa
non costituisce per noi un bisogno, perché la tralasceremmo qualora non avesse per conseguenza il
vantaggio. Ora, un’azione che non compiamo in
vista di se stessa è un’azione non libera. L’egoismo
agisce non liberamente. E non liberamente agisce senza eccezione ogni uomo che compie un’azione dietro un movente che non scaturisca dal contenuto
oggettivo dell’azione stessa. Compiere un’azione
per amore di quell’azione stessa vuol dire agire per
amore. Solo chi nel suo agire è guidato dall’amore all’azione, dalla dedizione all’obiettività, agisce davvero liberamente. Chi non è capace di questa dedizione senza
egoismo, non potrà mai considerare libera la propria attività.» (Goethes naturwissenschaftliche Schriften,
GA 1 (1973), p. 202-3)
Questi pensieri Steiner li scrisse già nel 1887, nelle sue
introduzioni alle opere scientifiche di Goethe. Da essi egli
procede a mostrare, con chiarezza che fa pensare a quella
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di un teorema geometrico, che gli intenti che l’uomo persegue nel suo agire non devono venirgli dati dal di fuori,
ma devono venir prodotti da lui stesso intuitivamente, e
non in forma vaga e indistinta, ma in forma di intenzioni
individuali, particolari, concrete. E proprio questo io vorrei
mostrare col secondo argomento, partendo non dal ragionamento logico, ma dall’osservazione.
Se osserviamo bene il comportamento concreto degli
uomini, ci accorgiamo che non è vero ciò che dice una
convinzione molto diffusa, che l’uomo cioè ricerchi al di
sopra di ogni cosa (o in ogni cosa) il «piacere» o la «felicità». Il motivo per cui pongo queste due parole tra virgolette è per sottolinearne la natura del tutto astratta e irreale.
Che cos’è infatti il piacere, che cos’è la felicità? Sono idee
astratte, senza alcun contenuto di percezione, in tutto simili alle entità fisico-metafisiche (percepibili ma non percepibili) della cosa in sé kantiana. Sono dei fantasmi metafisici
della stessa natura delle leggi divine immaginate come esseri ipostatizzati vaganti per l’aria, intenti a dirigere il corso
della storia. Rappresentano l’ultimo tentativo di chi non ha
fiducia nell’individuo umano, allo scopo di dimostrare che
volere e dovere non possono coincidere, in quanto ciò che
l’uomo vuole (il piacere) non è ciò che egli deve (l’altruismo), e ciò che egli deve non è ciò che vuole.
È di fondamentale importanza comprendere che l’uomo, nel suo agire, si propone degli intenti concreti, singoli, specifici, e non intende mai un vago, generale «piacere».
Il suo scopo non è quello di «godere», ma di raggiungere
questo o quell’obiettivo particolare, e il conseguirlo è per
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lui godimento. Ciò che l’uomo vuole non è il piacere, ma
l’esplicazione dei desideri e degli impulsi concreti che
sorgono nel suo essere.
Parlando della finalità (nel cap. V di questa terza parte) ho mostrato come essa sia specifica dell’agire umano,
in quanto in essa il concetto dell’effetto deve influire
realmente (percepibilmente) sulla causa. Ciò potrebbe
sembrare in contrasto con quello che sto dicendo qui,
mentre ne è in realtà la conferma. Ciò che qui voglio dire
non è che l’uomo non agisce secondo fini, ma che non ha
doppi o secondi fini, «dietro» a quelli reali. Egli agisce secondo desideri e bisogni concreti, che sono i fini che
vuol raggiungere: sono desideri e impulsi ben precisi e
che sono voluti per sé, non per un ulteriore scopo. Il bevitore vuol raggiungere la sensazione specifica che il bere
provoca: non ha in mente di raggiungere la felicità o il
piacere in genere. Solo se l’uomo mirasse a un generico
piacere, a una vaga felicità, potremmo dire che agisce
senza fini, i quali sono per natura concreti e specifici.
Anche per una vera conoscenza dell’uomo, dunque,
non dobbiamo chiederci «per che cosa è stato fatto», ma
«che cosa è in lui». È ciò che è in lui che vuol esprimersi,
manifestarsi, trovare pienezza. Esprimendo se stesso egli
prova godimento, ma non agisce al fine di provare godimento. Se così fosse, i suoi intenti concreti e immediati
gli sarebbero del tutto indifferenti in quanto tali: li valuterebbe unicamente in base alla quantità di piacere generale
che procurano. Ma ciò contraddice l’osservazione del
reale comportamento umano.
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«Noi non miriamo mai a un piacere astratto di una
certa grandezza, ma a un appagamento concreto in
modo ben definito. Se aspiriamo ad un piacere che
deve venir soddisfatto mediante un determinato
oggetto o mediante una data sensazione, non possiamo sentirci paghi se ci viene offerto un altro oggetto o una sensazione diversa, in grado di procurare la stessa quantità di piacere. Per chi ha brama
di sazietà, il piacere del mangiare non può venir
sostituito da un altro di stessa grandezza, procurato da una passeggiata. Solo se il nostro desiderio
aspirasse del tutto genericamente a una certa quantità di piacere esso dovrebbe sparire non appena si
rivelasse irraggiungibile senza una quantità di dispiacere ad esso superiore. Ma poiché il soddisfacimento ricercato è sempre ben definito, il piacere
dell’appagamento si trova anche se porta necessariamente con sé una quantità maggiore di dispiacere. Per il fatto che gli impulsi degli esseri viventi si
orientano in una direzione determinata e aspirano
ad uno scopo concreto, non è più possibile considerare come elemento di uguale importanza la
quantità di dispiacere che s’incontra sul cammino
verso quello scopo.» (Die Philosophie der Freiheit, GA 4
(1978), p. 225-6)
L’impulso fondamentale dell’essere umano, in quanto
aspira a essere libero, non è dunque l’egoismo (il compiere un’azione per un’altra, non per se stessa ma per me, in
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vista del piacere che mi procura) ma l’amore all’azione
stessa. La gioia più profonda dell’essere è nell’attuazione di
sé, nell’automanifestazione, che è realizzazione del proprio
essere offerto all’altro, cioè nel donarsi, non nel «prendere»
per sé. In ogni intuito, in ogni azione, una parte di me si
esprime, viene all’essere. Si sprigiona dalla mia individualità
come una poesia dal poeta, come un quadro dal pittore. Io
non vivo per ottenere qualcosa: voglio ottenere me stesso,
far vivere tutto ciò che fa parte del mio spirito in quanto
individuale e creatore. La caccia al piacere non esiste
nell’uomo: è stata inventata dal moralismo che vuol distogliere l’uomo da ciò che vuole, perché faccia ciò che deve,
cioè ciò che altri vogliono da lui.
E questo moralismo ha pronte, proprio qui, le obiezioni che paiono essere le più solide e le più valide. La
prima dice: quante volte avviene che l’uomo si trova a
fare ciò che non vuole da una parte, e a non fare ciò che
vuole dall’altra! Quante volte egli si pente di ciò che ha
fatto, o di ciò che non ha fatto! Non è questo un segno
chiaro della debolezza umana, che deve venire soccorsa
dalla norma morale? Il suo spirito può veder chiaramente
il bene da compiere, ma la volontà è debole, e lui compie
il male che non vuole. Le passioni inferiori sono più forti
di lui: per questo non si può contare sul suo agire libero,
ma bisogna dargli delle norme a cui deve ubbidire.
Questo «rimedio» alla debolezza umana sembra essere
il più ovvio e ragionevole, eppure si fonda su un errore,
anzi su una contraddizione. Le passioni inferiori sono
qualcosa di reale nell’uomo, e il motivo per cui esse risul295
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tano più forti delle norme morali può essere solo il fatto
che quest’ultime non sono ancora divenute parte reale del
suo essere (se così fosse, non c’è motivo per cui dovrebbero essere meno «forti» delle passioni inferiori: vedremo
anzi che il contrario è il caso). Ora il rimedio consisterebbe
in questo: nel far fare all’uomo ciò che deve e non ciò che
vuole, in quanto, si dice, egli non ha la forza di fare ciò che
deve, ma finisce per fare ciò che vuole (non «vorrebbe»
fare ciò che vuole, vorrebbe fare ciò che deve, ma gli impulsi reali in lui, cioè ciò che veramente «vuole», poiché più
forti, hanno il sopravvento, e lui fa ciò che vuole, non ciò
che vorrebbe). Questo pensiero, se pensato fino in fondo,
è chiaramente una contraddizione in termini: invece che
una medicina, è una replica della malattia.
In altre parole: si possono «vincere» le passioni inferiori unicamente coltivando e rafforzando in sé quelle
passioni superiori che sgorgano dall’essere stesso non
meno delle prime: esse divengono allora, nell’uomo, più
forti delle prime proprio perché, contrariamente alle prime, sono individuali e perciò maggiormente definite e
concrete nel loro contenuto. Le passioni che provengono
dalla natura umana vengono «subite» dall’individuo, presuppongono perciò la sua passività; le «passioni» invece
che provengono dall’individuo come tale possono unicamente venir «volute» direttamente e singolarmente da
lui: in questo senso esse hanno una forza che oltrepassa
quella delle prime, e consentono, per il loro conseguimento, una maggiore capacità di superare le difficoltà e
una più lunga perseveranza nel tempo.
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L’uomo può giungere a volere il bene non come dovere, ma con una passione che supera in intensità gli impulsi dell’egoismo (che non provengono da lui, ma dalla
natura in lui). Certo, ci sono tante persone che, mediante
l’ascesi, giungono a «dominare» e a soggiogare le passioni
inferiori e che, senza sviluppare altre passioni che le sorpassino in intensità, si sottomettono alla legge morale.
Ma costoro sono lontani dall’essere liberi, e scoprono
prima o poi che ciò che è stato «dominato» non è stato
«domato» (scemando in intensità), ma semplicemente
represso, e perciò rafforzato: prima o poi trova la sua
rivalsa, e si mostra per ciò che è.
La sola vera soluzione è quella di ravvisare non nella
legge, ma nella libertà lo stadio ultimo della moralità e
della crescita della persona: libertà che consiste nel fatto
che i moventi all’azione divengono le intuizioni morali
stesse, le quali, acquistando in chiarezza e forza, si sostituiscono sia alle passioni inferiori, sia alle norme esteriori.
«Gli ideali morali scaturiscono dall’immaginativa
morale dell’uomo. La loro attuazione dipende dal
fatto che siano desiderati con intensità sufficiente a
superare sofferenze e prove. Sono le sue intuizioni,
i trampolini che lo spirito si crea. Egli le vuole, perché la loro realizzazione è il suo sommo piacere.
Non ha bisogno che la morale gli proibisca prima
di aspirare al piacere, per comandargli poi ciò a cui
deve aspirare. Egli tenderà verso ideali morali se la
sua immaginativa morale sarà sufficientemente at-
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tiva da ispirargli intuizioni che diano al suo volere
la forza di superare gli ostacoli del suo organismo,
di cui fa parte anche un necessario dispiacere.
Chi aspira ad ideali di altezza sublime, lo fa perché essi sono il contenuto del suo essere, e la loro
attuazione sarà per lui un godimento al cui confronto il piacere che la mediocrità ricava dall’appagamento degli impulsi quotidiani è una cosa da
nulla. Gli idealisti si beano spiritualmente nel trasformare in realtà i loro ideali.
Chi vuole estirpare il piacere dell’appagamento
del desiderio deve prima far dell’uomo uno schiavo
che non agisce perché vuole ma solo perché deve.
Infatti, il conseguimento di ciò che si vuole procura piacere. Ciò che si chiama il bene, non è ciò che
l’uomo deve, ma ciò che egli vuole quando esplica in
sé la natura umana vera e compiuta. Chi non riconosce questo, deve prima espellere dall’uomo ciò
che egli vuole, per fargli poi prescrivere dal di fuori
il contenuto che deve dare al suo volere.» (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 232-3)
Si può infine obiettare che lo scopo delle norme non è
quello di venir puramente osservate con sottomissione
passiva: l’individuo deve farle sue, devono diventare parte
del suo essere. Ora, trattandosi di norme per natura generali e valide per tutti (altrimenti non sarebbero «normative»), ciò equivarrebbe a dire che il mio essere (invitato a
farsi uno con esse) deve divenire l’essere di tutti. L’io
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individuale verrebbe così cancellato, e si lascerebbe solo
la «natura umana comune» in lui. Ciò è proprio l’essenza
dell’immoralità. Essendo l’individuo umano come tale il
valore morale supremo della creazione, nulla è più immorale che la sua soppressione.
Qual è allora, e dov’è, il valore morale? La risposta a
questa domanda è molto chiara: il valore morale supremo
è l’individuo umano. Se il valore sommo fosse qualcosa
d’altro, l’individuo umano dovrebbe essere «in vista di»
quell’altro valore, contribuendo al suo avvento e alla sua
realizzazione. Possiamo scervellarci fin che vogliamo: non
lo troveremo, perché non esiste. E se volessimo dire che
«Dio» è il valore supremo, allora ci resta da chiederci dove
Dio sia e dove si manifesti: nell’uomo, appunto, e non
nell’uomo in genere, ma concretamente e creativamente
in ogni individuo umano, quando questo porta a espressione tutto ciò che vive dentro il suo spirito, che nel pensare attinge intuitivamente alla realtà stessa di «Dio».
Se abbiamo il coraggio di riconoscere che quelle che
chiamiamo norme morali sono intuizioni morali sorte
nell’immaginativa di individui singoli, in quanto corrispondenti a ciò che il loro essere individuale porta dentro
di sé, allora liberiamo la via perché ogni uomo diventi
pienamente se stesso. Lo incoraggiamo a non restare sotto il regime della «legge», nella sua duplice forma di «inesorabilità» dell’obbligo e di «irresistibilità» dell’istinto:
queste due forme di non libertà hanno in comune l’alienazione dell’uomo da sé, e tendono, paradossalmente, a
rinforzarsi a vicenda, a causa della loro affinità.
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Se comprendiamo questo, concentreremo tutte le nostre energie nell’aiutare ogni individuo umano a portare a
piena maturazione tutte le dimensioni del proprio essere,
sviluppando delle «passioni» spirituali individuali che fanno
impallidire le passioni inferiori. Il mistero più profondo
dell’uomo sta proprio in questo: che i desideri e le brame
inferiori, essendo generali e comuni, sono massimamente
indistinti e vaghi: possono procurare un piacere solo passeggero e molto limitato. La gioia aumenta in intensità
nella misura in cui l’oggetto del proprio desiderio è ben
definito e specifico, e questo è possibile proprio nella misura in cui i desideri divengono più spirituali e perciò individuali. Il piacere di una solenne bevuta è un piacere molto
generico. Cento ubriachi non sono ubriachi in cento modi
del tutto diversi e individuali. Il gusto di conoscere l’astronomia per seguire tutti i moti celesti, è un gusto più individuale e definito, fatto di mille pensieri diversi in ogni persona, e perciò più intenso. Da ciò si vede anche che i desideri spirituali, proprio perché più essenziali all’individuo
come tale e non parte dalla natura comune, consentono,
per il loro conseguimento, una lunga perseveranza anche
attraverso le più dure e interminabili prove. Ciò non è vero
delle passioni inferiori, che perciò non potranno mai procurare, neppure lontanamente, la stessa gioia.
Paolo di Tarso ebbe il coraggio di dire che con l’avvento del Cristo il tempo della legge è finito. I duemila
anni che sono seguiti sono serviti spesso a dire e a fare il
contrario. Noi, come Paolo, vogliamo parlare non della
«legge» di Cristo, ma del Cristo vivente, presente in ogni
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individuo umano. Vogliamo dire all’uomo non ciò che
egli «deve», ma di far vivere dentro di sé ciò che il Cristo,
in modo unico e diverso in ognuno, vuole. Renderemo
così gli uomini davvero liberi, come il Cristo li ha voluti,
e davvero se stessi. E ci stupiremo nello scoprire che
l’impulso primigenio nell’uomo davvero libero non è
l’egoismo, non sono le passioni inferiori, ma è l’amore.
***
Tentativo di sintesi:
individualità e comunione
Due, e a prima vista contrastanti, sono le aspirazioni più
profonde della persona umana: quella di essere individuo
libero, e di essere in comunione d’amore. Il miracolo
della libertà e dell’amore si compie nella misura in cui noi
comprendiamo che quell’apparente contrasto è un inganno, e che individualità e comunione, ben lungi dall’escludersi a vicenda, sono chiamate a diventare sempre più
l’una la pienezza dell’altra, ciascuna l’altra faccia di un’unica medaglia. Non cresce l’individualità col diminuire
della partecipazione (quando ciò avviene si ha egoismo,
non individualità), né la comunione col diminuire della
libertà individuale (quando ciò avviene si ha collettivismo, non comunione). Libertà e amore: tutte le riflessioni
fatte fin qui volevano mostrare che queste due realtà
trovano ciascuna la propria pienezza nel divenire a mano
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a mano l’essenza dell’altra: si è liberi solo nella misura in
cui si ama, e si può amare unicamente essendo liberi.
L’aprirsi amorevole verso l’essere universale e il concentrarsi nella roccaforte del proprio io, se da una parte
non sono alternativi l’uno rispetto all’altro, sono però,
allo stadio attuale del cammino umano, in un rapporto di
continua tensione e alternanza nel senso che l’uomo oscilla
costantemente tra questi due poli complementari, come
un pendolo che ogni lato rimanda di nuovo verso l’altro.
Così è l’alternanza, per esempio, tra sonno e veglia:
l’oscillare tra l’ «essere in sé» della coscienza desta, e
l’essere «fuori di sé» della coscienza del sonno, con quel
misterioso passaggio tra i due che chiamiamo sogno. Così
è pure l’alternanza tra la vita e la morte: tra l’essere concentrato nel proprio corpo e l’uscirne fuori incontro ai
mondi spirituali. Questo respiro ritmico della vita nelle
sue varie manifestazioni, che è come una costante respirazione che fa entrare e uscire da noi l’aria che ci circonda, si esprime anche nelle due realtà che sono state alla
base di tutte le nostre riflessioni: la percezione e il pensare. La percezione è come una imitazione conoscitiva
dell’amore nel quale usciamo da noi stessi e per un momento ci «perdiamo» nell’altro; il pensare è come il risveglio che ci riporta alla nostra coscienza e ci fa ritrovare
noi stessi nella «comprensione» di ciò che i sensi hanno
percepito.
Questo respiro vitale costituisce pure la diastole e la
sistole della Filosofia della libertà: la sua prima parte viene
definita da Steiner un monismo dei pensieri (Gedanken302
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Monismus) e la seconda un individualismo etico (ethischer Individualismus): col nostro pensare noi attingiamo
tutti all’essere unitario e comunitario; nell’agire morale
ogni individuo trae da quel mondo, con l’immaginativa
morale, quelle intuizioni che solo lui può porre alla base
delle proprie azioni. Oscillando costantemente tra il pensare e il volere, noi siamo universali ed individuali ad un
tempo, esseri liberi e capaci di amare.
È importante però comprendere che questa «oscillazione» del nostro essere non va intesa come un ripetuto
uscire da una realtà per entrare in un’altra del tutto diversa. Si tratta invece proprio di fare sempre più di due
un’unica realtà, che si esprime su due versanti diversi,
acquistando sfumature diverse. Più il pensare si riempie
del volere e più si fa «puro» pensare, pur restando pensare.
Più il volere si rischiara con l’intuizione del pensare, e più
diviene «puro» amore, pur rimanendo volere. E se questo
vale per il pensare e il volere, dovremmo trovar giustificata l’ipotesi che, nei tempi lunghi dell’evoluzione umana,
sia previsto lo stesso «ravvicinamento» (cioè quella mutua
compenetrazione che porta ciascun polo di una dualità a
trovare nell’altro il proprio perfezionamento) per lo stato
della veglia e quello del sonno, e anche per la vita nel
corpo e quella oltre la morte.
Dobbiamo ora vedere più da vicino in quale modo
l’essere individuale e l’essere universale si richiamino necessariamente a vicenda, e perché vi sia una mutua appartenenza tra individualità e partecipazione. Ciò che questo
lavoro ha voluto mostrare è che individualità vera e piena
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si ha solo nell’elemento spirituale dell’uomo, e che questo
elemento è proprio ad un tempo il più universalmente
umano. Ne segue che ciò che non è spirituale, e che pure
è necessario all’essere umano attuale, non è né individuale né universale, ma specifico o generico, cioè comune o
proprio di un gruppo di persone, e come tale non individuale e neppure universale. Vediamo ora in che modo ciò
avviene.
Partiamo dalla realtà corporea dell’uomo. Questa non
si può dire individuale se non in senso improprio. Appartiene nei suoi tratti fondamentali alla specie umana come
tale. Altri tratti li ottiene da una particolare razza. Ciò che
viene impresso nel corpo come configurazione individuale e unica non proviene dalla realtà corporea in quanto
ereditata, ma dall’individuo in quanto essere spirituale,
cioè dal suo carattere o temperamento.
C’è poi una sfera intermedia tra il corpo e lo spirito, e
che è media tra ciò che è più generico e ciò che è più
individuale nell’uomo. Potremmo chiamarla la sfera dell’anima, o anche la sfera della cultura. Ciò che la razza è al
livello del corpo, la cultura lo è a quello dell’anima: anche
qui abbiamo una realtà comune a un gruppo di persone
(appartenenti alla stessa cultura), e che perciò come tale
non è direttamente né individuale né universale.
La realtà spirituale del pensare è invece proprio direttamente e contemporaneamente sia individuale sia universale. È chiaro che queste tre dimensioni (del corpo,
dell’anima, dello spirito) si compenetrano a vicenda
nell’uomo, e non si possono adeguatamente «separare».
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È però fondamentale «distinguerle» fra loro con chiarezza. Il pensare è massimamente individuale in quanto è
l’attività spirituale autocostitutrice dell’individuo umano
come tale. Esso non mi può mai venir «dato» né da eredità comune di razza o di cultura, né dalla passività della
percezione sensibile: solo il mio personalissimo «Io» lo
può esercitare intuitivamente e volitivamente, nell’esperienza primigenia della propria libertà e autonomia. Solo
nel pensare sono pienamente e totalmente «Io». E d’altro
canto, il pensare è la realtà più universalmente ed essenzialmente «umana» che c’è nell’uomo e in ogni uomo.
Ciò non vale per la realtà corporea, che egli ha in comune con l’animale e che fa di lui un essere «animale», e
neppure per la realtà animica, che egli ha in comune solo
con chi è partecipe della stessa cultura o parla la stessa
lingua. Nel pensare ogni individuo umano attinge all’essere universale e unitario del mondo. Qui la partecipazione e la comunione tra individui è piena, nella reciproca comunicazione di ciò che è spirituale in ognuno. Nello spirito gli individui umani «si appartengono» pienamente, perché nel proprio contenuto spirituale ciascuno
è un membro di un mondo spirituale che è unitario e si
esprime compiutamente in tutti, e parzialmente in ciascuno. La realtà corporea viene data tutta ad ognuno: in
essa io non sono membro, ma un essere completo e
perciò separato. Col mio contenuto spirituale, invece, attuo nel mio essere solo «un membro» del mondo spirituale, e posso trovare la mia identità individuale unicamente nel contesto di quel «corpo», di quell’organismo spiri305
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tuale completo che è costituito dalla comunione di tutti gli
spiriti umani.
Il dualismo che la Filosofia della libertà si propone di
superare rappresenta allora l’incapacità di ravvisare nel
pensare quell’essere spirituale che ci pone nella realtà,
dalla quale la percezione ci fa uscire: sia la realtà individuale dell’Io, sia quella universale dell’essere. La prima
realtà che mi è data nel pensare è la mia propria: solo
nell’esercizio intuitivo del pensare io vengo pienamente
all’essere nel mio contenuto spirituale individuale e nella
volontà piena di amore che il pensare attivo stesso evoca.
Ma anche la comunione con l’altro mi è data nel pensare,
perché solo esso mi fa intuire il contenuto spirituale di un
altro uomo (ciò che lo costituisce lui pure come individuo unico) allo stesso modo in cui intuisco il mio proprio, e con lo stesso moto volitivo d’amore che mi pone
in comunione con ogni essere. Il dualismo concepisce la
percezione come essere completo, e il pensare come una
pura replica soggettiva di esso. In questa concezione, i
«pensieri», gli «scopi», gli intenti di Dio vengono ricercati
come entità da «percepirsi» (anche se mentalmente) al di
là del mondo fisicamente percepibile. Ma questo pensare
che imita la percezione non è il vero pensare. Io trovo la
volontà di Dio non nello «scoprire» (come dato da percepire con astrazione) i pensieri di Dio, immaginati come
«presenti in» lui fuori di me e oltre il mondo: a queste
entità metafisiche astratte (non percepibili ma concepite
come tali) manca sia la percezione reale sia il vero pensare. Le leggi di Dio le trovo osservando gli esseri reali e
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compenetrando la mia percezione col pensare attivo. Le
intenzioni di Dio non sono dei metafisici e impalpabili
concetti: sono gli esseri che ho davanti a me. Il pensare
da solo non può «escogitare» nessun essere reale; la percezione da sola non mi dà l’essere, ma solo un dato che è
privo di ogni contenuto reale. Il dualismo, nella sua duplice forma, vuol da una parte trovare l’essere nella percezione senza il pensare (e giunge alla cosa in sé inconoscibile della scienza), e dall’altra nel pensare senza la percezione (e giunge al trascendente inconoscibile della teologia). Queste due forme del dualismo si richiamano a
vicenda: il dualismo mondo-Dio ha come diretta conseguenza il dualismo scienza-morale. Al loro superamento
sono dedicate rispettivamente la prima e la seconda parte
della Filosofia della libertà.
Ogni forma di dualismo, in quanto cerca il reale in
una replica del mondo della percezione, non attribuisce
realtà sostanziale proprio a ciò che fa dell’uomo un individuo capace di comunione: il pensare. Il processo conoscitivo viene lasciato fuori del reale divenire del mondo:
si pensa serva solo a darci di esso delle rappresentazioni
puramente soggettive. All’uomo viene così negata sia la
partecipazione sia l’individualità: la partecipazione, in
quanto la cosa in sé del mondo e del trascendente rimane
fuori di lui e a lui inconoscibile; l’individualità, in quanto
il suo mondo interiore è un puro riflesso rappresentativo
di quello esteriore.
In una visione unitaria del mondo, invece, il pensare
umano è la realtà verso cui tutto il divenire tende, e dalla
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quale il cammino stesso dell’uomo trae il suo significato
unificatore. Ciò che chiamiamo evoluzione è il cammino
dell’uomo verso l’individuazione da una parte, e verso la
comunione dall’altra, entrambe possibili solo nel pensare,
e in esso unificate. L’una e l’altra si possono avere solo
nella coscienza pensante che fa essere l’Io individuale, dandogli ad un tempo la possibilità di trovare il proprio «posto» nella comunione umana e divina.
Individualità e comunione si mostrano in questo modo come l’essenza del divenire cosmico tutt’ora in corso.
Il divenire cosmico è ad un tempo il divenire della coscienza e della conoscenza umana. Possiamo descrivere
l’inizio di questa evoluzione come quell’unione primigenia dell’uomo col mondo spirituale nella quale egli non
era ancora illuminato dall’autocoscienza, e perciò non
ancora capace di libera comunione d’amore. Solo mediante l’acquisizione della libertà, cioè passando per la
porta stretta e tragica della separazione che rende indipendenti (come espresso nella «cacciata dal paradiso» o
nella parabola del figliol prodigo), si può conseguire
l’individuazione e con essa la possibilità di un amore libero e personale, che altrimenti non è amore.
Il fondamento dell’edificio di Rudolf Steiner è l’esperienza del pensare come realtà spirituale vivente, come
primo essere puramente spirituale offerto all’uomo che lo
coglie, esercitandolo, con percezione interiore che è percezione del pensare stesso. Il pensare attivo è ad un tempo sostanziato di volontà, è fatto d’intuizione amante e di
amore intuitivo, ed è perciò l’unificazione dei due movi308
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menti dell’essere nel suo divenire: dell’individuazione e
della comunanza; della libertà dell’individuo che agisce
per intuito proprio, e dell’appartenenza di tutti gli uomini
allo stesso e unico mondo spirituale. La «scissione» evolutiva dell’essere e della conoscenza in percezione e pensare non è una pura categoria gnoseologica, ma lo stadio
centrale del divenire dell’uomo che «separa» le sue dimensioni di materia e di spirito affinché l’uomo, che ne è
la sintesi, possa giungere all’autocoscienza: solo mediante
la percezione divenuta «vuota» di contenuto spirituale
l’uomo può dal di dentro esercitare la restituzione di quel
contenuto che è stato tolto. Nel pensare egli si inserisce
di nuovo nella sostanza spirituale del mondo, è un vivere
dell’acquisita individualità.
L’evoluzione degli esseri naturali acquista in questa
prospettiva il suo significato unificatore: quello della formazione di un organismo umano in cui possono svolgersi
quella percezione e quel pensare che rendono possibile sia
l’individuazione, sia la partecipazione, nel loro reciproco
richiamarsi a vicenda. Noi sogliamo considerare lo spirito
umano come fase «finale» del divenire del mondo creato,
come realtà cioè sorta in esso da ultimo. Ma più essenziale
è la prospettiva inversa: quella di un essere umano spirituale che fin dal principio partecipa alla creazione del mondo
plasmandosi gradualmente nella materia lo strumento man
mano corrispondente alla propria progressiva incarnazione
e individuazione. È per l’uomo che tutto viene creato, non
come realtà puramente finale (gli esseri intermedi sarebbero allora puri strumenti con rapporto estrinseco alla realtà
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dell’uomo), ma come essenza e totalità dell’evoluzione
intera, di cui ogni essere e ogni stadio è membro vivente.
Se consideriamo l’evoluzione in questo modo, scorgiamo
in essa un passaggio graduale, nel divenire dell’uomo, da
ciò che è più generale e specifico (la corporeità) a ciò che è
individuale e universale (l’individuo pensante e libero). Lo
spirito umano si è prima costruito la realtà corporea, per
poi inserirvi la propria realtà animica, e infine quella spirituale. La razza ha determinato l’uomo nel remoto passato,
poi sempre di più la cultura; ed ora egli è chiamato a divenire sempre più «umano» nel suo spirito creativamente
individuale e universalmente partecipativo.
La partecipazione di ogni persona umana alla totalità di
questo cammino evolutivo si rivela così ad essa del tutto
essenziale. La cultura occidentale si trova qui di fronte a
realtà ancora tutte da esplorare. Facendo venire all’essere
l’anima umana direttamente al momento di questa sua
singola nascita, non si comprende quale sia la sua partecipazione al divenire dell’essere. Proprio perché l’uomo ci
si presenta come essenzialmente in divenire, è essenziale
alla comprensione della sua realtà il cammino lungo il
quale egli è divenuto ciò che è. Possiamo senz’altro accettare che, fino ad un certo punto dell’evoluzione degli esseri
inferiori, ancora non ci fosse l’uomo dentro al corpo, ma
non che ancora non ci fosse l’uomo. Se l’uomo venisse
inizialmente creato all’inizio di questa vita già pienamente
individuale, non si troverebbe in mezzo al processo di
divenire tale. E poiché si trova difatti e essenzialmente in
quel processo, bisogna mostrare in quale modo l’evolu310
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zione sia proprio il graduale cammino verso l’individualità, percorso tutto intero da ogni individuo.
Quando parliamo dell’uomo come essere aperto è
proprio questo che vogliamo dire: che egli non è statico,
ma in divenire, e che questo divenire dell’uomo riguarda
il cammino dell’essere stesso, poiché tutto l’essere non è
altro che il processo dell’autopartecipazione amorosa da
parte di esseri spirituali creatori dell’uomo. Se il creatore
è amore e autocomunicazione, non può che moltiplicare
centri di coscienza in grado di accogliere il suo amore e di
rispondere a lui essi pure con quell’amore che si ha unicamente nell’essere individuale cosciente e libero. E se
questo è il significato del divenire universale, bisogna
mostrare in quale modo l’evoluzione del mondo materiale, in ogni suo essere e in ogni suo stadio, sia parte essenziale della formazione dello spirito umano, e non ad essa
estranea, o da essa indipendente.
Tutto ciò non vuol forse dire che c’è finalità nel mondo e che l’uomo è il fine di tutta la creazione e di tutto il
suo divenire? È qui proprio essenziale comprendere che
due esseri che sono l’uno in vista dell’altro restano esterni
l’uno all’altro. Se il primo è strumento e il secondo è fine,
essi non si appartengono per essenza: lo strumento cessa
di essere come tale quando subentra il fine, o può sempre
venir sostituito da un altro strumento che conduce allo
stesso fine. Il suo rapporto con il fine resta ad esso estrinseco. Per questo ho detto precedentemente che c’è una
grande differenza tra dire che gli esseri del mondo sono
gli uni in vista degli altri (con rapporto di strumento a fine)
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e dire che sono gli uni per gli altri (con rapporto di membro a organismo). Nel corpo, gli occhi sono per le mani
(fanno da guida al loro operare) ma non sono in vista delle
mani: una volta che ci sono le mani non cessa la funzione
degli occhi (ciò avverrebbe se essi fossero lo strumento e
le mani il fine). Ogni membro di un organismo globale è
per gli altri membri, non in vista di essi come proprio fine.
È l’interazione delle parti (espressa in leggi naturali che
sono dei concetti) che costituisce l’essenza di ogni parte e
del tutto.
Ciò che vale al presente per un organismo singolo rispetto alle sue membra, vale anche per quell’organismo
unitario che chiamiamo l’evoluzione del mondo e dell’uomo: ogni suo membro è essenziale al tutto ed è in diretto
rapporto con il tutto: non è puro strumento per il membro
seguente inteso come suo fine (e che segnerebbe «la fine»
della sua indispensabilità essenziale). In un tutto organico
nessun membro è strumento, perché ciascuno è parte essenziale del tutto. Ogni membro va riferito non solo al
«seguente», e neppure solo a quello «finale», ma direttamente al tutto. Questo «tutto» del divenire del mondo visibile è
l’uomo, e non c’è nulla nel mondo che sia puramente accidentale al suo essere. Solo quando comprendiamo la funzione essenziale che un essere svolge nell’avvento dell’individuo umano libero e amante, solo allora comprendiamo
l’essenza di quell’essere. L’uomo non è il fine dell’evoluzione: ne è la totalità, e ogni stadio evolutivo, ogni essere è
un «membro» essenziale dell’essere umano, poiché nessun
membro vivente di un organismo può essere ad esso acci312
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dentale. Neppure un membro che ha cessato di svolgere
direttamente la sua funzione può dirsi accidentale. Il «risultato» di quella funzione resta costitutivo dell’organismo.
Un organismo che si svolge nel tempo porta in sé tutti i
suoi «membri» temporali, anche quelli «passati», così come
gli esercizi per imparare a scrivere cessano, ma resta in noi
la capacità di scrivere. Così come la memoria può rendere
presente il passato. Il processo di conoscenza che si svolge
nell’uomo non è dunque il fine dell’evoluzione naturale
degli esseri, ma ne è l’essenza. La percezione del mondo
sensibile (la «percepibilità» degli esseri visibili) ha la sua
essenza, la sua ragione d’essere nell’autocoscienza umana:
solo avendo di fronte l’altro da sé l’uomo può far sorgere
la coscienza di sé.
Il considerare un essere come strumento e l’altro come fine è perciò un altro modo di ritenere reale solo il
percepibile: è infatti solo la realtà percepibile di un essere
che cessa lasciando il posto alla realtà percepibile del «seguente». Ma la realtà percepibile di un essere non ne è
l’essenza: questa si può unicamente cogliere nel pensare
ed esprimere in un concetto. Questa essenza non può mai
«cessare» perché non è legata al tempo allo stesso modo
della percezione. L’essenza di ogni essere si manifesta nel
pensare, perché il pensare «unifica» in un unico organismo spirituale tutto ciò che è (percepibilmente) disperso
e frammentato nel tempo.
Questo «ampliamento» dell’essere umano nell’assunzione in sé di tutto il divenire cosmico svoltosi nel passato,
porta con sé un analogo ampliamento verso il futuro. Con313
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siderando le profonde metamorfosi dell’uomo nel corso
della storia, non si vedrà più la «natura umana» come essenzialmente immutata e immutabile nei secoli. Divenendo
consapevoli del balzo gigantesco che si compie epocalmente nel presente da una coscienza ancora sognante al
pensare vivente che rende libero l’uomo, anzi proprio nel
compiere questo «salto» qualitativo, si viene a comprendere che le «possibilità» evolutive dell’uomo sono lungi
dall’essere esaurite. I gradini successivi all’acquisizione
presente della libertà si caratterizzano per il fatto che possono attuarsi solo liberamente, cioè per iniziativa cosciente
dell’individuo. D’ora in poi, perciò, non c’è più una «natura umana» già predeterminata che gli ponga dei limiti e che
gli imponga una direzione da seguire: la natura si fa, da
guida che era, strumento dell’uomo. La natura umana comune fa parte del passato: a partire dalla libertà, il futuro è
dell’individuo, spirito pensante e libero, non della natura in
lui. E così come nel passato la natura ha accolto gradualmente in sé l’essere umano in un lungo processo di «incarnazione», così nel futuro l’uomo l’assumerà nel proprio
essere di spirito libero, trasformandola, in un lungo cammino di «risurrezione». La risurrezione della carne, il ritorno del Figlio dell’uomo sulle nubi, la Gerusalemme celeste,
i cieli nuovi e la Terra nuova... sono tutte immagini che
esprimono l’avvenire del mondo e allo stesso tempo stadi e
stati della coscienza dell’uomo. Ogni uomo è chiamato fin d’ora
a prepararli, anzi a viverli in sé. La vita e l’opera di Rudolf
Steiner è la testimonianza più straordinaria di questo «anticipare» le tappe del divenire della coscienza umana.
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Qual è allora il senso della «visione beatifica» di cui parlano le Scritture? Vogliamo forse instaurarla già qui in questa vita? E come si concilia ciò con l’infinita piccolezza
dell’uomo? Se noi dilatiamo l’uomo così da fargli abbracciare tutto il passato dell’essere, dobbiamo ugualmente attribuire ad ogni uomo, che nel presente diviene nel pensare individuo libero, una partecipazione individuale e diretta
a tutto il divenire futuro dell’umanità e della Terra. Il nostro pensiero tradizionale ha anche qui urgente bisogno di
«ripensamento». La vaga realtà «provvisoria» attribuita a
tutti coloro che si sono «addormentati» nella morte e sono
in attesa della conclusione finale del divenire del mondo, è
tutt’altro che chiara: fa pensare a un’area di parcheggio che
non partecipa direttamente né al tempo né all’eternità.
Uno degli aspetti dell’errata opposizione tra individualità e comunione, è la falsa antinomia tra lo stadio finale
come sintesi di tutto il divenire, e gli stadi intermedi come realtà provvisorie destinate a venir superate. L’errore
può anche qui esser duplice: o di rendere assoluto lo stadio finale, svuotando quelli intermedi della propria realtà
essenziale e rendendoli dei puri strumenti verso il fine;
oppure di perdere di vista il senso del divenire, prendendo per definitivo e assoluto uno stadio che non lo è.
Questi due modi di procedere, che sembrerebbero escludersi a vicenda, sono invece l’uno la conseguenza dell’altro: lo stadio presente viene assolutizzato (reso «immobile») proprio quando lo si svuota del dinamismo che gli
proviene dal suo inserimento vivente nell’organismo totale del divenire universale.
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Ogni stadio del divenire ha una sua «perfezione» in
quanto è necessario non meno di ogni altro (bisognerebbe anche chiedersi se lo stadio che chiamiamo visione
beatifica sia «finale» nel senso di arresto, e se la «perfezione» che esso indica significhi un’assenza di successiva
evoluzione...).
Come la pianta coi frutti non è più «perfetta» di quella
coi fiori, come l’adulto non è «migliore» del bambino, così
anche per l’uomo c’è una perfezione specifica e propria di
ogni fase da percorrere: la sua vita sulla Terra ha un valore
suo proprio, e non la si può unicamente misurare e valutare (finalisticamente) in vista della vita dopo la morte. Se il
sonno fosse solo in vista della veglia, si dovrebbe arrivare
al punto da vegliare sempre e non dormire più; invece noi
torniamo sempre di nuovo a dormire perché il sonno, non
meno della veglia, costituisce una dimensione e una realtà che
è essenziale all’uomo, e non può venire abolita finché
l’uomo è allo stadio attuale. Un ragionamento analogo
bisognerebbe fare, allo stadio attuale, per il rapporto tra la
vita prima e la vita dopo la morte. Il nostro concetto comune della morte è quello di un salto che dal bel mezzo di
un lunghissimo divenire trascorso ci catapulta istantaneamente al suo stadio finale. È proprio questo «subitaneo»
avvento della fine che ci fa svuotare il divenire, il contenuto reale in ogni suo stadio. Se il fine da raggiungere, lungi
dall’essere «la fine» degli stadi precedenti, ne è proprio
l’armoniosa interazione, esso è presente in ogni passo del
cammino e si compie unicamente nel «percorrere» con la
coscienza pensante tutte le dimensioni di cui si compone.
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Il falso concetto di finalità svuota ogni stadio intermedio del suo valore intrinseco per attribuire il valore
solo allo stadio finale. In questo modo si viene a negare il
divenire nella sua realtà. L’uomo nel suo stadio attuale
non è un essere imperfetto: persino ciò che noi chiamiamo la «caduta» (la perdita dell’innocenza iniziale) è parte
essenziale della sua «perfezione» specificamente umana.
L’individuazione che rende possibile la libertà e l’amore,
non poteva avvenire senza la caduta originaria, senza la
«cacciata dal paradiso», dalla matrice primigenia e indifferenziata. Non poteva, non può, né potrà avvenire!
Solo se prendiamo davvero sul serio lo stadio attuale
della condizione umana nella sua perfezione intrinseca
(non solo in vista di uno stadio «finale»), saremo in grado
di capirne il significato nel contesto totale del divenire
umano. L’individuazione che ora è in corso, l’aspirazione
viscerale degli uomini del nostro tempo alla libertà, ci si
rivelerà allora come la sola e perenne via alla comunione.
Solo allora saremo in grado di affermare incondizionatamente l’una e l’altra, nella loro necessaria distinzione e
reciproca implicazione ad un tempo. Non possiamo avverare la comunione senza volere l’individualità; non
possiamo ottenere vera individualità senza partecipazione. Solo in quanto distinte si affermano a vicenda; solo in
quanto inseparabili, ciascuna richiede l’alterità dell’altra.
L’individuazione non può dunque più considerarsi
semplicemente «in vista della» comunione, poiché ne è
l’essenza vera. Non esiste uno stadio finale del divenire
(la comunione di tutti gli esseri) che si raggiunga supe317
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rando, cioè lasciando indietro, gli stadi intermedi: ciò che
noi chiamiamo lo stadio finale non è difatti uno stadio,
ma è il tutto, è l’organismo globale del divenire che non
ha nulla di «cessato» o di «perduto» (lasciato indietro nel
tempo, perché puro strumento per il fine) ma che ha in
sé il tutto armonicamente, e ogni elemento nella sua vera
essenza come membro dell’organismo totale.
Il concetto di intenzionalità dello spirito umano acquista in questo contesto un significato più profondo e
più vasto. In essa l’uomo non va, come vorrebbe il dualismo, «oltre» se stesso in cerca della cosa in sé della scienza o del trascendente della teologia. Nessun essere può
mai andare oltre se stesso: se lo facesse, quell’ «oltre» diverrebbe ipso facto parte di lui. L’uomo diviene invece
sempre più di ciò che è stato finora, è cioè in divenire. Se
vogliamo chiamare ciò un trascendere se stessi, dovremmo dire che si tratta di una trascendenza immanente
all’uomo, o di una immanenza trascendente. Ogni nuovo
stadio, ogni nuova realtà, non è mai oltre l’uomo, ma
proprio perché egli la fa sua è da sempre parte di lui. La
pura trascendenza sarebbe l’uscire «fuori di sé»: se ciò
avvenisse l’uomo non andrebbe «oltre» se stesso, ma non
sarebbe più se stesso, essendo uscito dalla coscienza pensante che è la sua essenza. Ogni presunto andare oltre è
dunque sempre un restare nell’uomo: non possiamo
«chiudere» la sua natura identificandola con un dato stadio, e porre lo stadio seguente «oltre» quella natura.
L’uno e l’altro fanno parte del suo essere. Se compresa nella sua verità reale, l’intenzionalità dell’uomo è allora
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una cosa sola con la realtà dell’evoluzione nella sua totalità integrale: riferita non solo alla natura infraumana o alla
realtà corporea dell’uomo, ma anche alle sue facoltà spirituali. L’essenza dell’uomo è il pensare, e l’evoluzione è la
totalità del pensabile.
La «caduta» dell’uomo, il suo progressivo inserirsi nella materia fino al punto da perdere di vista lo spirito (fino
a considerare come vero solo il percepibile, e la conoscenza come fatta di «soli» pensieri che non sono nulla di
reale), non è allora unicamente un fatto morale, ma anche
intellettuale. La storia dell’uomo è una cosa sola con la
storia della conoscenza. E c’è una redenzione della conoscenza non meno che una morale, anzi, esse pure sono le
due facce di un’unica medaglia. Il pensare, che in un primo momento si sperimenta come pura registrazione passiva dei dati della percezione, è esso stesso passibile di
redenzione, è esso stesso posto nella corrente dell’evoluzione: è chiamato a divenire pensare attivo, intessendosi
di quella creatività volitiva che è la sostanza stessa dell’amore. Il divenire dell’uomo è la storia stessa delle metamorfosi del pensare, fino al sorgere, nel pensare libero,
dell’individuo umano. Nell’intuizione creatrice il pensare
si riempie di nuovo di contenuto spirituale reale. E se da
una parte questo pensare attivo fa venire all’essere l’individuo umano, esso è d’altra parte il sorgere della vera
comunione degli uomini tra loro. Solo nel pensare e col
pensare io posso «entrare» in un altro, perché il suo pensare è la sola realtà che posso totalmente assumere in me.
Ciò non posso fare per la realtà del suo corpo, e neppure
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per quella della sua anima: le sue passioni, i suoi sentimenti non possono diventare i miei. Solo i suoi pensieri
posso fare totalmente miei. La vera comunione degli
uomini si può avere unicamente nella realtà spirituale del
pensare. E questa comunione ci fa ripetere, sul versante
dell’amore, l’esperienza fondamentale del nostro proprio
pensare. Come nell’esercizio vivente e volitivo del nostro
pensare noi viviamo dentro ad una realtà spirituale in cui
percezione e concetto vengono a coincidere (ciò che
percepiamo è l’essere stesso, anzi è il nostro essere), così
nell’ascolto amorevole dei pensieri altrui la percezione
sensibile dell’altro si trasforma in percezione del suo essere spirituale reale. Il pensare trasformato in amore è, per
un momento, una sospensione del nostro proprio pensare, del nostro io come separato dal tu, per farci vivere e
sperimentare direttamente, come nostra propria realtà e
contenuto interiore, il pensare dell’altro, divenuto esso
pure, dentro di noi, unione inscindibile di percezione che
accoglie e di attività che crea.
Se il divenire dell’uomo è una cosa sola col divenire
della conoscenza, entrambi sono una cosa sola col divenire universale. Il concetto tradizionale di «natura umana»
è troppo statico e ristretto, per poter abbracciare tutta la
gamma delle sue stesse metamorfosi: dalla matrice iniziale
ove non c’era né individuo né conoscenza cosciente, alla
progressiva individuazione nella coscienza pensante, alla
graduale compenetrazione reciproca di quelle due dimensioni (la comunione e l’individualità) che si sono dapprima attuate separatamente l’una dopo l’altra e perciò in
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modo profondamente diverso. La «redenzione» è proprio
il progressivo assumere in sé le due grandi parzialità del
proprio passato per unificarle, dando vita a quell’essere
completo e armonioso chiamato corpo spirituale del Cristo risorto, dove la comunione è perfetta perché perfetta
è l’individualità di ogni suo membro.
La scolastica medioevale ha cercato il rapporto dell’uomo con l’essere nella controversia degli universali. Per il
realismo, questi «concetti» umani erano ancora qualcosa
di reale, si riferivano a una realtà spirituale sostanziale.
Nella teoria delle tre forme di universali (ante res, in rebus, post res) troviamo un ultimo vestigio dei tre grandi
stadi del divenire del mondo, dell’uomo e della conoscenza: quello iniziale dell’unione senza individuazione;
quello successivo dell’individualità che ha perso la comunione; quello finale dove l’una diviene l’essenza dell’altra.
Gli universali ante res sono nella mente di Esseri spirituali
creatori: qui gli uomini non sono ancora entrati nella
vicenda della materia che isola e separa; la conoscenza è
ancora visione e esperienza diretta dello spirituale, da cui
l’uomo non ha ancora «preso le distanze». Gli universali
in rebus sono nelle cose singole: qui ora gli esseri si presentano molteplici alla percezione; la conoscenza umana
si «smarrisce» in questo mondo della molteplicità. Gli
universali post res sono nella mente dell’uomo: ora gli esseri vengono afferrati nella loro essenza dal pensare
umano; la conoscenza si desta nella comunione, libera e
amante, con l’essere spirituale del mondo. L’uomo era
inizialmente «immerso» nello spirituale, poi si è «smarri321
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to» nel mondo, e infine «trova» se stesso e diviene capace
di libera «comunione» con tutti gli Esseri.
Se dal medioevo volgiamo lo sguardo all’umanità dei
nostri tempi, all’alba del 3° millennio, scorgiamo in essa
impresse a caratteri indelebili le tracce del passato e del
presente del cammino umano. L’oriente, che è nell’umanità la memoria del passato, ci parla dell’appartenenza
iniziale dell’uomo al divino, tragicamente deformata nel
comunismo che spesso non conosce l’individuo umano
libero. L’occidente, che è nell’umanità la coscienza del
presente, ci parla di libertà dell’individuo umano, spesso
pure crudelmente deformata nel capitalismo che ancora
non conosce l’amore. Unione e individualità: queste due
aspirazioni eterne del cuore umano attendono di trovare
in avvenire il proprio splendore, divenendo ciascuna la
vita dell’altra. Coltivando sempre di più il proprio spirito
che nella realtà vivente e vibrante del pensare s’immerge
nel cuore dell’essere e vive nella realtà dello spirito, l’uomo diviene pienamente individuo proprio perché vive
nella più intima e universale comunione, divinamente libero, proprio perché ardente d’amore.
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Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle
(Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana
di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di
Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più
duri della guerra del Vietnam (1968-70). Dal 1974 al 1976
ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel quale era entrato all’età di dieci anni. Nel 1977,
durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha
scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello
spirito ― destinata a diventare la grande passione della
sua vita ― indaga non solo il mondo sensibile ma anche
quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla
religione di fare un bel passo in avanti.
Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica durante gli ultimi
anni della segregazione razziale. Dal 1987
vive in Germania come libero professionista, indipendente da qualsiasi tipo di
istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari
Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni
essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e
morali.
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