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P.ZATTI
INTRODUZIONE AL LINGUAGGIO GIURIDICO
1. L’ORDINAMENTO GIURIDICO
1. Le parole del diritto. – 2. Prescrizioni, regole, norme. – 3. L’idea di “fonti del diritto”. – 4. L’ordinamento giuridico. – 5. Le fonti del diritto
italiano. – 6. L’applicabilità delle norme. L’entrata in vigore. – 7. L’abrogazione delle norme. Il principio di irretroattività. – 8. giurisprudenza.
1. Le parole del diritto.
A. Diritto, regola, norma
La parola “diritto” deriva dal latino medievale directus.
La radice che troviamo al centro della parola (di-rec-tus), è la stessa di altre parole latine come rex (re), regere
(governare) e regula (regola). È l’antica radice indoeuropea reg, che si ritrova nello spagnolo derecho, nel francese
droit, nel tedesco Recht e nell’inglese right. Essa sottolinea il legame tra l’idea di “diritto”, la funzione di governare o
indirizzare i comportamenti umani, di “regere” un gruppo sociale, e le “regole” di cui il diritto consiste.
Il latino regula indicava originariamente un semplice strumento usato dai muratori per verificare che una parte della
costruzione fosse perfettamente allineata, cioè diritta. La regula consentiva di distinguere ciò che è lineare, dritto,
diritto, da ciò che è contorto, irregolare, non in linea con la regula.
La combinazione di significati propria di regola si ritrova nella parola norma, che i giuristi italiani e tedeschi
preferiscono a regola. Norma significa regola di comportamento ma anche norma-lità, regola-rità.
La storia delle parole ci mostra dunque la relazione tra l’idea di dirittura, linearità, regolarità e quella di diritto. In
italiano il sostantivo diritto e l’aggettivo diritto (dritto) hanno lo stesso suono; lo stesso accade in tedesco con Recht
(diritto) e recht (dritto), in francese con droit, e in inglese con right (giusto e dritto). Nelle tre lingue la stessa parola
indica anche il lato destro, come in italiano nel modo antiquato di dire “mano dritta”: la mano “dominante”.
B. Diritto, giure, giustizia
Nel latino classico invece, il termine per “diritto” era ius. Secondo la sua radice, che era la stessa del verbo iurare,
Ius indicava all’origine un pronunciamento sacro, con cui si interpretava il volere degli Dei e dunque la giustizia
(iustitia). Ritroviamo la radice di ius in giudizio, giudice, giudicare; in giure (parola antiquata che significa il diritto) e
nei suoi derivati giuris-dizione, giuris-prudenza, giure-consulto, e insieme, appunto, in gius-to e gius-tizia. Termini
consimili si ritrovano in francese (jurisprudence, justice) e in spagnolo (jurisprudencia, justicia) e nelle espressioni di
origine latina come la tedesca jurisprudenz o l’inglese jurisprudence (che però in inglese significa teoria del diritto)
justice, ecc.
Quest’altra storia sottolinea il legame, tanto forte quanto problematico, tra l’idea di diritto, come regola, quella della
pronuncia (oggi le decisioni dei giudici) e lo scopo di giustizia.
Lo scopo ultimo del diritto è di perseguire, in una certa comunità organizzata, un ideale di giustizia. In negativo, il
diritto serve a impedire che ognuno si faccia “giustizia” da sé: serve quindi ad evitare la violenza e la vendetta (ne cives
ad arma ruant); per far ciò, il diritto deve riuscire a convogliare il bisogno individuale di giustizia verso un criterio che
non sia oggettivo, ma condiviso socialmente. Gli antichi (Cicerone) dicevano che i fini del diritto sono, in positivo,
indurre i consociati a comportarsi correttamente e lealmente gli uni con gli altri (honeste vivere) senza danneggiare il
prossimo (alterum non laedere) riconoscendo a ciascuno ciò che gli spetta (suum cuique tribuere). Oggi si usa guardare
soprattutto alla composizione di interessi e di valori confliggenti che la regola di diritto sempre tende a realizzare.
Il legame genetico tra ius e iustum significa che la regola di diritto deve essere percepita come giusta, o almeno come
accettabile ricerca di giustizia, dai suoi destinatari. Una regola iniqua, che stride con il sentimento di giustizia diffuso, o
anche solo invecchiata, apre sempre un problema di riforma: la lotta per la giustizia diventa sempre “lotta per il diritto”
(Jehring).
Il legame ius-iustitia è anche il legame tra diritto e giudizio. È coessenziale alla natura del diritto l’esistenza di un
soggetto imparziale, super partes, che abbia il compito e l’autorità di decidere chi abbia ragione e chi torto, di
pronunciare il diritto (ius – dicere, giuris-dizione: v. avanti, spec. cap. 47).
C. Diritto, Legge, leggi
In molti contesti, al posto di “diritto” si usa “legge” o il plurale “leggi”: anzi nel linguaggio corrente questi termini
sono spesso preferiti. Ad esempio, piuttosto che “il diritto italiano” si userà dire “la legge italiana”; piuttosto che “il
diritto penale” si userà “le leggi penali”; piuttosto che “studio diritto” si dirà “studio legge”, piuttosto che dire “il diritto
è uguale per tutti” si proclamerà che “la legge è uguale per tutti” – e così via.
In quest’uso “legge” equivale a “diritto” e l’uno come l’altro termine si possono sostituire con “le leggi”.
“Legge” viene da lex, parola latina di origini discusse, che richiamava forse l’idea di un patto vincolante, una
convenzione solenne tra individui, o tra gruppi, o tra il re (più tardi il magistrato) e il popolo, con la caratteristica di
essere scritta o promulgata (le tavole della legge): dunque, un complesso di regole stabilite in un testo. Di qui tre
connotazioni che sentiamo anche oggi.
La “Legge” (pensata con la maiuscola come termine astratto) equivale all’insieme, all’universo delle regole.
Nell’uso comune, se nulla è specificato, “la Legge” equivale a “il diritto” e indica l’universo delle regole che hanno il
carattere della legalità o giuridicità (leg-, giur-: cosa ciò significhi resta, naturalmente, da vedere (nel prossimo
paragrafo). Ma il termine può essere destinato ad indicare uno specifico universo di regole, anche non giuridico, ad
esempio se diciamo: “la Legge morale”.
La parola “legge” è poi frequentemente usata per indicare un testo legislativo, prodotto secondo certe procedure (in
Italia, il voto delle due Camere e la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica): in questo senso diciamo
ad esempio “la legge sul divorzio” o “la legge n. 894 del 1970” o ancora “una raccolta di leggi”.
Infine, nel termine legge si incrociano i significati di regola o norma come prescrizione di comportamento, o anche
come descrizione di una regolarità fattuale (esempio le “leggi” della fisica): dunque legge come regola e come norma in
senso prescrittivo o in senso descrittivo.
Il triplice significato di legge (= diritto, testo legislativo o regola) si ritrova nel francese loi e nello spagnolo ley; in
inglese invece Law significa primariamente diritto, e poi regola legale; un testo legislativo si dice Act o Statute.
D. Il diritto e i diritti
Il diritto è un universo di regole.
Quando una regola impone a qualcuno un dovere (ad esempio: rispetta la vita privata altrui) perciò stesso riconosce
o attribuisce ad altri un potere o una libertà (ad esempio: potrai vietare a tutti di curiosare in casa tua). Noi diciamo
allora che la regola riconosce o attribuisce un diritto: e la parola diritto assume un diverso significato, che risulta
facilmente da una frase come questa: “il diritto italiano garantisce il diritto di proprietà”.
Per distinguere i due significati, si può già introdurre una precisazione: diritto in senso oggettivo (o “diritto
oggettivo”) indica un insieme di regole legali; diritto in senso soggettivo (o “diritto soggettivo”) indica una possibilità,
una libertà, una posizione di vantaggio garantita da una regola legale.
2. Prescrizioni, regole, norme.
Nelle nostre prime osservazioni è ritornata ad ogni passo la parola “regola”: il diritto come insieme di “regole” che
hanno valore legale, le leggi come “regole di diritto”, e simili. Un’idea rimanda all’altra, e per raggiungere una certa
chiarezza occorre rompere il cerchio:
a) cos’è dunque una “regola”, e
b) quando una regola è “legale”, o “di diritto”?
A. Cos’è una regola?
Una regola è una proposizione la cui funzione è quella di prescrivere un comportamento: cioè di qualificarlo come
obbligatorio (che deve essere tenuto), vietato (che non deve essere tenuto) o anche semplicemente come lecito (che può
essere tenuto).
La regola dunque non descrive, ma prescrive: è parte del linguaggio, usato non per narrare o riferire, ma per
indirizzare comportamenti
Possiamo distinguere diversi tipi di regola o prescrizione:
Tipi di prescrizione a) individuale: riguarda il comportamento di un individuo o di più individui determinati (es.:
Mario, chiudi quella porta);
b) concreta: la prescrizione vale in una o più situazioni concretamente determinate (es. Mario, se esci per ultimo,
chiudi la porta);
c) generale: riguarda il comportamento di chiunque si trovi in una determinata situazione (es. “l’ultimo che esce
chiuda la porta!”);
d) astratta: la prescrizione vale in ogni situazione che sia eguale a quella prevista [es. “ogni volta che la lezione è
finita (situazione-tipo) l’ultimo che esce chiuda la porta].
Nel mondo del diritto esistono tutti i tipi di prescrizione.
Individuale e concreta, ad esempio, è la prescrizione contenuta in una sentenza, con cui il giudice condanna il Tizio
debitore a pagare tot milioni a Caio suo creditore.
L’ordinanza del sindaco, che impone a tutti i frontisti di una via pubblica di spalare la neve dal marciapiede,
contiene una prescrizione generale ma concreta: rivolta a chiunque abiti lungo le strade comunali, ma limitata ad una
concreta situazione, l’eccezionale nevicata.
Ma quando La regola di dirittoparliamo di “regola di diritto” non intendiamo di solito riferirci a questo tipo di
prescrizioni legali, ma solo a quelle regole, di un gradino superiore, che prescrivono in modo generale ed astratto ciò
che si può o si deve fare in ogni situazione che corrisponda alle situazioni-tipo previste dalle regole stesse. Ne è facile
esempio, anche sul piano linguistico, la regola contenuta nell’art. 927. “Chi trova una cosa mobile deve restituirla al
proprietario”.
Hanno carattere generale ed astratto, salvo eccezioni, le regole contenute nei codici, nelle leggi o nei decreti, nei
regolamenti.
Sinonimo di “regola” è “norma”.
I due termini hanno qualcosa in comune, che merita di essere sottolineato. Entrambi richiamano concetti, che
esprimono il ripetersi costante di fatti o comportamenti: “regola” ci rimanda a ciò che è “regolare”, “norma” a ciò che è
“normale”; e la funzione della norma in senso prescrittivo è proprio quella di indirizzare i comportamenti umani in
modo che un certo modello di comportamento – per esempio,rispettare la proprietà o la personalità altrui – divenga
“normale”.
Una prescrizione La sanzionedi comportamento (c.d. norma-precetto) può essere resa efficace dal collegamento con
una regola “strumentale” (c.d. norma-sanzione), che prevede conseguenze negative per chi viola la prescrizione: il
concetto di sanzione indica appunto queste conseguenze, che sono diverse tra loro: in campo giuridico si distinguono
sanzioni civili, come il risarcimento del danno provocato ad altri, sanzioni penali, come la detenzione; sanzioni
amministrative, come l’ammenda.
B. Cos’è una regola di diritto?
L’universo delle regole è vasto come l’esperienza umana. Nei più piccoli gesti e nelle più grandi decisioni, ci
adattiamo o ci ribelliamo a regole: regole morali, regole del costume sociale, regole della deontologia professionale,
regole della competizione economica, regole di cortesia.
Regole legali e non legali
Chi cresce in una società come la nostra acquista una certa capacità di distinguere la diversa “natura” di queste
regole. Ognuno di noi sa benissimo, ad esempio, che “legalmente” è obbligatorio per l’artigiano o per il professionista
rilasciare una ricevuta fiscale o una fattura; ma pretenderla qualche volta ci imbarazza, perché ci pare contrario a una
regola di cortesia. Allo stesso modo, distinguiamo nettamente quel tipo di regole che obbliga i militari a un preciso
modo di vestire, da quell’altro tipo di regole, che vieta per esempio a professori e studenti di trovarsi a lezione in
canottiera.
L’intuito e l’esperienza ci dicono che il primo tipo di regole ha carattere “legale”, il secondo è di diverso ordine.
In altri casi, però, può esserci qualche incertezza: la parità tra marito e moglie è un principio morale, cui si può
aderire o non aderire, o è una regola “legale”? I “diritti umani” sono garantiti dalla “legge” dello Stato, o solo da
principi “umanitari”, o magari da una “legge” non statuale, come una Convenzione internazionale? E i contratti
collettivi stipulati dai Sindacati, sono “leggi” o sono “patti” che si reggono solo sulla “parola data”? e così via.
La risposta a queste domande richiede di tracciare un confine tra quel che è “diritto” – “legge”, regola “legale” – e
quello che diritto non è: di avere stabilito, quindi, un criterio di riconoscimento della regola legale, che la distingua da
tutte le altre regole.
Naturalmente, la questione si presenta in modo diverso a seconda che la si affronti da un punto di vista “esterno” allo
stesso linguaggio giuridico – per esempio da un punto di vista antropologico, o sociologico – o invece da un punto di
vista “interno”, come a noi spetta di fare.
Diritto e Giudice
Un’antropologo, che si ponga il problema di stabilire cosa sia “diritto” in una società primitiva, può ritenere che “la
vera, fondamentale condizione sine qua non per l’esistenza del diritto in qualunque società” sia “l’uso legittimo della
coercizione fisica da parte di un agente autorizzato”: la regola legale sarebbe quella, la cui violazione viene contrastata
con l’uso della forza da parte di un individuo o di un gruppo che ha “il privilegio socialmente riconosciuto di agire in tal
modo” (Hoebel).
La cosa può sembrare convincente se si pensa al diritto dello Stato o anche al diritto internazionale; ma esistono
sistemi giuridici sofisticati che non prevedono l’uso della forza materiale, ma di sanzioni diverse (come ad esempio il
diritto della Chiesa nell’età moderna). Una sanzione, d’altra parte viene inflitta anche per la violazione di regole che
non riconosciamo come “legali”: il “disonore”, ad esempio, colpisce la trasgressione di regole del costume.
Più suggestiva e convincente sembra una definizione cara ai giuristi inglesi: “associamo the law [il diritto] con le
corti, i giudici, i magistrati” (Atiyah): un sistema giuridico è un sistema di regole la cui applicazione è affidata
all’autorità di un “giudice”. È questo il connotato comune a qualsiasi apparato di norme che organizzi un gruppo
sociale: le regole che governano la vita dello Stato, di una Chiesa, di un’associazione, di un’organizzazione
internazionale, e perfino le regole – dicono i giuristi – della societas delictuosa, della società di delinquenti, come la
mafia e la camorra: veri sistemi giuridici, anche se illeciti dal punto di vista del diritto dello Stato (oltre che della
morale).
La selezione delle norme applicabili
Dal punto di vista “interno”, il modo più diretto ed efficace di capire il problema è calarsi nei panni di un giudice, o
delle persone che a lui ricorrono o devono da lui essere giudicate. Il giudice è chiamato a dire chi ha ragione e chi ha
torto ed è investito del potere di decidere: ma in base a quali regole?
In un’organizzazione primitiva o elementare, il potere di giudicare può essere attribuito senza un criterio che
imponga al giudice di attingere le regole di decisione solo ad una certa “fonte”: nella ricerca di una ”giusta” soluzione,
egli si orienterà secondo la tradizione, i costumi consolidati, l’opinione dei saggi, o l’ispirazione di un dio.
Ma via via che la società si fa più complessa, tende a formarsi un confine, un criterio di selezione tra le regole che si
possono applicare nel giudizio e quelle che non hanno tale “qualità”: il giudice non può riempire il suo secchio a
qualsiasi “fonte”.
Anzitutto, la stessa tradizione giudiziale – il modo in cui si è già più volte deciso – tenderà a prevalere. Un valore
particolare potranno assumere le opinioni di chi ha esperienza del problema-giudizio. A volte, le regole ricavabili da
queste “fonti” potranno essere riunite in raccolte ufficiali, che acquisteranno autorità di testi normativi. Infine, altre
regole potranno essere espressamente dettate da un’autorità cui si riconosce questo potere.
In un sistema maturo, la libertà del giudice di scegliere la “fonte” cui attingere le regole del giudizio è sempre
limitata. La regola “legale” ha assunto ormai dei connotati che la distinguono dalle regole morali e del costume. Il
sistema giuridico si caratterizza proprio perché le sue regole sono formate attraverso una gamma più o meno vasta di
modi di produzione.
La regola di diritto è solo quella che si forma in uno dei modi di produzione previsti dallo stesso sistema.
3. L’idea di “fonti del diritto”.
Disponiamo così di una prima e generale definizione del concetto di fonte del diritto: qualsiasi atto o fatto idoneo a
produrre norme giuridiche in un sistema dato.
Ad una osservazione generale, i diversi ordinamenti giuridici delle società contemporanee e del passato mostrano
una grande varietà di fonti.
Fonti scritte e non scritte
Una distinzione tradizionale divide le fonti scritte dalle fonti non scritte.
Nelle prime, la regola è formulata in un testo scritto (come l’Editto del Pretore, il Libro sacro, l’atto legislativo) nelle
seconde invece deve essere ricavata da elementi diversi (l’osservazione degli usi, lo studio di decisioni precedenti).
In realtà, questa distinzione non è del tutto propria, perché, ad esempio, la fonte giurisprudenziale (il precedente)
consiste pure in un testo scritto, che può essere analizzato secondo le regole della semantica e dell’ermeneutica
(interpretazione); mentre ben diverso è il problema di ricavare la regola di diritto – poniamo – dall’osservazione della
prassi mercantile.
Nei sistemi contemporanei, è possibile con larghissima approssimazione segnalare la prevalenza di due tipi di
“fonte”: il precedente giudiziario e l’atto legislativo in senso ampio.
Il precedente giudiziario consiste nella decisione già avvenuta di un caso, analogo a quello che si tratta di decidere:
dalla decisione, o da una serie di decisioni conformi (la c.d. “giurisprudenza”), si ricava una “regola” cioè un criterio di
soluzione che può valere per ogni caso simile.
L’atto legislativo, in senso ampio, è quel procedimento, più o meno complicato, con cui un’autorità che ha il potere
di legiferare (di fare leggi) produce un testo che contiene regole di diritto.
Nei sistemi che sono nati principalmente dalla fonte giurisprudenziale, come quello inglese e poi quello
nordamericano, ha acquistato sempre più importanza, nell’ultimo secolo, la fonte legislativa. Per converso, nei sistemi
che si affidano alle fonti legislative (come quelli dell’Europa continentale), la giurisprudenza, in teoria esclusa dalle
fonti di diritto (v. avanti, cap. 2) ha di fatto una notevole importanza per determinare, attraverso l’interpretazione (v.
avanti, par. 8) l’evoluzione del diritto.
In un sistema giuridico evoluto, dunque, le regole di diritto sono quelle prodotte da determinate “fonti”. Ma chi
stabilisce quali fonti sono idonee alla produzione normativa?
Le norme di produzione
Una prima risposta è la seguente: in ogni sistema esistono regole, che prevedono come si possano produrre le regole
di quel sistema.
In molti casi, si tratta di espresse previsioni normative: ad esempio, nel nostro sistema, l’art. 1 delle Disposizioni
preliminari al Codice civile elenca le fonti del diritto italiano, mettendo al primo posto le leggi; l’art. 70 della
Costituzione stabilisce poi che la funzione legislativa spetti alle Camere, e le norme seguenti ne dettano la disciplina.
Anche là dove una regola espressa non esista, tuttavia, essa si può ricavare dall’evoluzione di tutto il sistema: così,
noi possiamo elencare le fonti dell’antico diritto romano anche se in quel diritto non esisteva una espressa disciplina
della produzione di norme giuridiche.
Le regole che disciplinano i modi di produzione delle norme di un sistema giuridico si chiamano norme di
produzione. Anche queste regole, però, sono prodotte: l’art. 70 della nostra Costituzione fa parte di un testo
costituzionale approvato dall’Assemblea costituente. Se ogni norma giuridica si dovesse “legittimare” sulla base di una
regola superiore che ne prevede la produzione, si risalirebbe all’indietro all’infinito. In realtà, il punto fermo, la
“sorgente” di tutto il sistema, è sempre e soltanto un fatto storico: un sistema giuridico si regge, in ultima analisi, sul
fatto di essersi affermato, con quei determinati connotati, in un dato gruppo sociale.
4. L’ordinamento giuridico.
Su questa pietra angolare si costruisce, attraverso il sistema delle fonti, un ordinamento giuridico: cioè appunto un
universo di regole di diritto, che formano un insieme unitario e ordinato perché sono prodotte in conformità ad un
apparato di fonti “legittimato” da un unico fatto costitutivo, che ha dato vita all’organizzazione di un gruppo sociale.
Il sistema delle fonti funziona come un apparato di selezione: “entrano” a far parte dell’ordinamento solo quelle
regole che si possono ricondurre ai modi di produzione previsti. Perciò, da un punto di vista “interno” all’ordinamento
(a ciascun ordinamento) è “diritto” solo ciò che l’ordinamento stesso definisce come diritto, attraverso l’indicazione
delle fonti.
Pluralità degli ordinamenti giuridici
Per l’ordinamento dello Stato, “diritto” è solo il diritto dello Stato. Il diritto di un altro Stato, o il diritto della Chiesa,
sono – in linea di principio – soltanto fatti dal punto di vista dell’ordinamento dello Stato italiano. È chiaro però che dal
punto di vista dell’ordinamento dello Stato francese, e della Chiesa cattolica, “diritto” è solo il complesso di regole
prodotte all’interno di quegli ordinamenti, e puro fatto è il diritto dello Stato italiano. Un osservatore, che guarda a tutti
questi ordinamenti, e che è interessato a capirli, deve quindi adattarsi alla relatività del concetto di diritto e alla pluralità
degli ordinamenti giuridici.
Il diritto internazionale, che regola i rapporti tra gli Stati, ha pure proprie fonti – in particolare le consuetudini
internazionali e i trattati – e proprie norme, che ciascuno Stato, in quanto membro della comunità internazionale, è
tenuto ad osservare. La condotta dello Stato che viola le norme internazionali è illecita nell’ambito dell’ordinamento
internazionale.
Ma se ci spostiamo dal punto di vista dell’ordinamento interno di ciascuno Stato, la valutazione può essere del tutto
differente: ciò che è illecito secondo una norma internazionale può essere lecito secondo una norma interna.
Le stesse norme stabilite da una Convenzione internazionale sottoscritta, ad esempio, dall’Italia divengono efficaci
nell’ordinamento interno italiano, di regola, solo attraverso la “ratifica” della Convenzione, cioè attraverso una
procedura di approvazione da parte delle Camere.
Tuttavia, nel nostro ordinamento il diritto internazionale ha, per così dire, un canale permanente di rilevanza: l’art.
10 della Costituzione dispone infatti che l’ordinamento giuridico italiano “si conforma” alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute, e cioè in pratica alle consuetudini e ai principi del diritto internazionale; si
tratta di una norma “di rinvio” che rende le norme generali del diritto internazionale efficaci anche nell’ordinamento
interno.
La “chiusura” dell’ordinamento
Il sistema delle fonti può selezionare in modo più o meno rigido le regole che entrano a far parte dell’ordinamento.
Può stabilire, ad esempio, che valgano come norme giuridiche solo quelle che sono espressamente formulate tramite
atti legislativi; può invece disporre che il giudice abbia facoltà – sempre, o solo in certi casi – di decidere secondo
criteri ricavati da fonti extralegislative: come i principi del diritto naturale, l’opinione dei giuristi, o l’equità (cioè un
criterio di giustizia concreta: in tal caso, tutti questi “materiali” entrano a far parte delle regole dell’ordinamento).
In linea generale, gli ordinamenti che tendono a separare più nettamente il potere legislativo – cioè il potere di
dettare le norme che valgono nell’ordinamento – dal potere giudiziario – cioè dal potere di decidere le liti e applicare le
sanzioni – si caratterizzano per un sistema di fonti “chiuso”, nel quale non è dato al giudice di “produrre” una regola di
decisione.
La separazione è più sfumata in quei sistemi in cui la giurisprudenza è fonte di diritto: là dove, cioè, una parte
almeno delle regole di diritto si crea attraverso il “precedente” giudiziale. Anche questi sistemi, tuttavia, possono essere
“chiusi”, nel senso che non è dato al singolo giudice di decidere secondo un criterio di giustizia ricavato da “fonti”
estranee all’ordinamento giuridico, ma sempre e solo secondo “regulae iuris” ricavate all’interno dell’ordinamento
medesimo.
Un sistema assolutamente chiuso è però irrealizzabile. La regola di diritto, comunque prodotta, si formula in una
proposizione prescrittiva, cioè in un messaggio linguistico; e qualsiasi messaggio può essere interpretato in modi
diversi, tutti compatibili con la formulazione letterale della regola (v. sotto, par. 8).
In questa operazione hanno influenza idee, giudizi, valori che il giudice porta con sé dalla sua esperienza, e che
raccoglie dalla realtà sociale.
Esistono poi “finestre” che il sistema lascia aperte per opportunità: il legislatore stesso trova conveniente o
necessario, in molti casi, formulare regole che fanno uso di concetti “indeterminati” (per esempio: il dovere di “buona
fede”, il dovere di “correttezza” il comportamento secondo “buon costume”, il metro del “comune senso del pudore”).
La regola è allora costruita in modo da poter essere “concretizzata” solo nell’applicazione giudiziale: quei concetti
saranno “riempiti” secondo le valutazioni suggerite al giudice, ancora una volta, dalla realtà sociale.
5. Le fonti del diritto italiano.
Chi legge l’art. 1 delle Disposizioni preliminari al Codice civile trova il seguente elenco delle fonti di diritto:
1) le leggi;
2) i regolamenti;
3) le norme corporative;
4) gli usi.
Questa disposizione, che ha un valore “costituzionale”, appartiene al cod. civ. del 1942, ed è entrata in vigore, con
tutto il Libro I del codice, nel 1939.
Il 27 dicembre 1947 è stata promulgata la Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Da
allora, la Costituzione è – ovviamente – la prima tra le fonti di diritto.
La nostra Costituzione infatti non si limita a disegnare la struttura dello Stato, le funzioni e i poteri dei grandi organi
costituzionali. Nella sua Parte Prima enuncia le norme fondamentali relative ai diritti e doveri dei cittadini, non solo
verso la Repubblica ma nella relazioni “orizzontali”; e in tal modo stabilisce alcuni principi fondamentali per la
disciplina dei rapporti civili, etico-sociali, economici, politici (v. al proposito cap. 3, par. 5).
Le fonti comunitarie
Ma un’altra fonte di diritto concorre a formare le norme dell’ordinamento italiano:
a) nelle materie previste dal Trattato istitutivo della Comunità europea (modificato con l’Atto unico europeo del
1987, con il Trattato sull’Unione Europea di Maastricht del 1992, con il Trattato di Amsterdam del 1997 e con il
Trattato di Nizza del 2001), il Consiglio della Comunità può emanare dei regolamenti che hanno immediata efficacia
nel diritto interno degli Stati membri e prevalgono sulle norme statuali difformi (Corte Cost., n. 170/1984);
b) tra gli obiettivi della Comunità Europea ha poi grande rilevanza l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati
membri: questo scopo, il Trattato prevede che il Consiglio della Comunità emani direttive volte a ravvicinare il diritto
interno dei singoli Stati in quelle materie che hanno immediata incidenza sull’instaurazione e sul funzionamento del
mercato comune (art. 100).
Come dice il nome, la direttiva è una prescrizione rivolta agli Stati perché provvedano, ciascuno nel proprio ambito
e secondo il proprio sistema di fonti, all’armonizzazione delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative.
In Italia, la legge 9 marzo 1989, n. 86, ha previsto una procedura costante per l’attuazione delle direttive
comunitarie. Entro il 1o marzo di ogni anno dev’essere presentato al Parlamento un disegno di legge relativo alle
“Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea”: è la c.d.
“legge comunitaria” annuale. Oltre a provvedere direttamente all’abrogazione o alla modificazione di norme vigenti in
contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità, la legge comunitaria contiene una delega al
Governo per l’attuazione di una serie di direttive, secondo criteri dettati dalla legge medesima. Il Governo provvede poi
tramite decreto legislativo.
Attraverso successive decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee e della Corte costituzionale si è però
affermato il principio per cui le direttive inattuate hanno immediata applicazione quando siano “incondizionate, chiare
e sufficientemente precise”; in questi limiti, la direttiva è fonte di diritto nell’ordinamento interno (c.d. direttiva selfexecuting).
In conclusione, l’elenco delle fonti deve essere riscritto come segue:
1) la Costituzione (e le leggi costituzionali);
2) il Trattato, i regolamenti e le direttive della Cee;
3) le leggi dello Stato e delle Regioni;
4) i regolamenti;
5) le norme corporative ancora in vigore (o le norme poste da contratti collettivi con efficacia erga omnes);
6) gli usi.
6. L’applicabilità delle norme. L’entrata in vigore.
Perché una disposizione normativa divenga parte integrante dell’ordinamento giuridico non basta che essa sia stata
formata secondo i modi prescritti per quel tipo di fonte; occorre anche che essa sia entrata in vigore, divenuta cioè
effettivamente applicabile.
L’entrata in vigore è subordinata a due presupposti: la pubblicazione del testo normativo, e il decorso del periodo di
vacatio legis.
La pubblicazione consiste nella riproduzione del testo nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica – se si tratta di
legge o comunque di atto normativo statuale – oppure nel Bollettino Ufficiale della Regione – se si tratta di legge o atto
regionale – o infine nella affissione all’albo se si tratta di norme comunali.
Il requisito della pubblicazione ha la funzione di garantire la conoscibilità delle norme dell’ordinamento.
La stessa esigenza può spiegare l’intervallo di tempo che deve trascorrere tra la pubblicazione e l’entrata in vigore
dell’atto normativo (c.d. vacatio legis o “vacanza”): di regola, un periodo di 15 giorni (art. 73, comma 3o, Cost. e art.
10, comma 1o, disp. prel.). Ciascuna legge può tuttavia – per le più svariate ragioni – ridurre o, addirittura, sopprimere il
periodo di vacanza sopra indicato e disporre un’entrata in vigore immediata (c.d. leggi “catenaccio”).
Trascorso il termine di vacanza, la norma entra in vigore ed è applicabile e vincolante, di regola, senza riguardo alla
conoscenza o conoscibilità di fatto da parte dei destinatari.
L’antica massima per cui ignorantia legis non excusat era intesa, nella tradizione giuridica, come un principio senza
eccezioni: stabilito espressamente dall’art. 5 codice penale, si riteneva però applicabile a qualsiasi atto normativo. Di
recente però, la sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale ha posto un limite alla irrilevanza del difetto di
conoscenza della legge; la Corte ha ritenuto infatti illegittimo l’art. 5 del codice penale, nella parte in cui ritiene
inescusabile anche l’ignoranza inevitabile della legge: la conoscibilità legale e formale cede dunque, in ipotesi limitate,
alla conoscibilità effettiva.
7. L’abrogazione delle norme. Il principio di irretroattività.
Ciascuna delle fonti che abbiamo elencato è per sua natura tale da poter produrre sempre nuove norme giuridiche: si
pensi soltanto all’incessante attività legislativa.
Finché le regole via via prodotte non sono in contrasto con quelle preesistenti, l’immissione di nuove norme
modifica bensì l’ordinamento giuridico, ma solo in quanto arricchisce l’insieme di nuovi elementi, come i punti di un
arazzo. È però possibile che una norma nuova – proprio per essere stata formata in un tempo diverso, sotto l’influsso di
nuove esigenze o per mutate decisioni di “politica legislativa” – confligga con quelle emanate in precedenza,
disciplinando la stessa materia in modo diverso.
Il conflitto può essere risolto dallo stesso legislatore, il quale, dettando la nuova disciplina, si preoccupi di cancellare
espressamente quella preesistente. Ma può succedere che il contrasto tra norme successive nel tempo sia rilevato solo
dall’interprete: ci si trova di fronte, in tal caso, ad una “antinomia” che deve essere superata per far sì che l’ordinamento
mantenga un carattere di coerenza, e disponga, in sostanza, una soluzione univoca del caso.
Il criterio per risolvere questo tipo di conflitto è quello cronologico, che fa prevalere la norma più recente (lex
posterior). Le norme prodotte da fonti omogenee (cioè di pari forza normativa) si ordinano secondo la loro successione
temporale e, proprio perché la loro fonte possiede eguale “forza” creativa di diritto, la norma più recente si sostituisce a
quelle precedenti nel regolare la materia.
Facilmente comprensibile, a questo punto, è il testo dell’art. 15 Disp. prel. che distingue tre ipotesi di abrogazione
di una disposizione normativa:
a) “per dichiarazione espressa del legislatore”;
b) “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”;
c) perché “la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”.
Il primo caso è quello dell’abrogazione espressa; il secondo e il terzo sono due differenti modi di abrogazione
tacita.
Un modo particolare di abrogazione della legge è previsto dall’art. 75 Cost.: si tratta del referendum popolare
abrogativo, indetto su richiesta di cinquecentomila elettori o di cinque Consigli regionali. Lo stesso art. 75, al secondo
comma, dispone che non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
.
L’abrogazione di una norma giuridica non significa che essa scompaia dall’ordinamento, ma solo che perde vigore a
partire dall’abrogazione. La norma abrogata mantiene infatti la sua forza prescrittiva con riguardo ai casi che si siano
verificati prima dell’abrogazione, anche se la controversia sorge dopo l’intervento abrogativo: la nuova disciplina, per
converso, regola solo i fatti successivi alla sua entrata in vigore.
Il tutto si riassume nel principio della irretroattività delle leggi enunciato nell’art. 11 disp. prel. al cod. civ.: “la
legge non dispone che per l’avvenire”.
Nell’ambito delle leggi penali, il principio di irretroattività è assistito da garanzia costituzionale, in base al principio
di legalità: nullum crimen sine lege (art. 25, comma 2o, Cost; cfr. art. 2, commi 2o e 3o, cod. pen.). Fuori dal campo
penale, il principio è derogabile dallo stesso legislatore ordinario: la retroattività di una legge può essere disposta con
un’espressa previsione in contrario o anche risultare dalla stessa disciplina prevista.
Gerarchia delle fonti .
Nell’ipotesi cui le fonti siano di grado diverso per quanto riguarda la loro capacità di produrre e di innovare diritto,
al criterio “cronologico” subentra il c.d. principio gerarchico: prevale non più la fonte successiva nel tempo, bensì
quella superiore per grado. La norma prodotta dalla fonte inferiore, anche se successiva nel tempo, ma contrastante con
quella posta dalla fonte superiore, dovrà ritenersi illegittima, con possibilità quindi di mettere in moto i meccanismi che
ne consentano l’eliminazione. Nel diritto italiano, la Costituzione e le leggi costituzionali sono superiori alla legge
ordinaria, la quale a sua volta è superiore ai regolamenti. Ad esempio, il regolamento di esecuzione potrà dare
svolgimento e precisare nel dettaglio le norme della legge, ma non potrà contenere norme ad essa contrarie.
Dire che una norma è illegittima significa rilevare un vizio nella sua formazione, che la rende inidonea alla sua
funzione regolatrice. Due casi già ricordati sono la violazione di criteri di competenza e il contrasto con fonti di ordine
superiore. Affermare l’illegittimità di una norma non equivale però ad affermarne la radicale nullità o addirittura
l’inesistenza, così che chiunque possa rifiutarne l’osservanza e l’applicazione.
L’ordinamento giuridico prevede infatti dei meccanismi per l’eliminazione delle norme illegittime; ma, finché essi
non sono messi in moto e il risultato non è ottenuto, l’ordinamento “tollera” in via provvisoria l’antinomia: la norma
illegittima continua quindi a svolgere la sua funzione finché non viene cancellata.
Nel nostro sistema, non spetta a qualsiasi giudice il potere di valutare l’illegittimità di qualsiasi norma e di trarne le
conseguenze.In particolare, il problema di accertare l’illegittimità costituzionale delle norme poste da fonti ordinarie
può essere sollevato dal giudice richiesto di applicare la norma che gli appare incostituzionale, ma non da lui risolto: il
giudizio di costituzionalità è infatti affidato alla esclusiva giurisdizione della Corte costituzionale.
Nel caso dei regolamenti, invece, la valutazione di illegittimità può essere fatta da qualunque giudice, ai soli fini di
disapplicare il regolamento nel decidere il caso concreto; ma il potere di annullare le norme poste dal regolamento, e
cancellarle così dall’ordinamento giuridico, spetta solo ai giudici amministrativi (v. cap. 47).
8. La giurisprudenza.
L’elenco delle fonti del diritto italiano, così come risulta dall’art. 1 delle disposizioni preliminari del Codice civile
opportunamente integrato, riflette una “scelta” storica della nostra tradizione giuridica, che la accomuna, da questo
punto di vista, a quella di tutti i Paesi dell’Europa continentale. Il nostro è un sistema in cui il ruolo del legislatore è
distinto con particolare nettezza da quello del giudice: al primo, e solo al primo, è attribuito il potere di fare le leggi –
non di applicarle – al secondo il potere di risolvere conflitti applicando le leggi – non creando norme nuove. Questa
impostazione, che si riconduce al principio della divisione dei poteri, si è poi precisata nella codificazione, cioè in
quella grande operazione di abrogazione del diritto antico e di creazione di grandi testi organici di norme (i Codici) che
l’Europa continentale ha realizzato, in tempi diversi nei vari Paesi, sull’impulso prepotente della codificazione
napoleonica (1804).
Tra le fonti del diritto non compaiono perciò né le decisioni dei giudici – come è invece il caso negli ordinamenti
anglosassoni – né le opinioni dei giuristi (degli studiosi di diritto o dei grandi avvocati), come in antico avveniva.
I giudici interpretano la legge per applicarla al caso, gli studiosi per proporre soluzioni: ma le norme non sono fatte
né dagli uni né dagli altri. Inoltre, il giudice è soggetto solo alla legge, e cioè non è vincolato al precedente giudiziario,
neppure di un giudice superiore. Solo il giudice a cui la Cassazione rinvia il caso per il giudizio, dopo avere enunciato il
principio in base al quale il caso va risolto, è tenuto ad applicare, per quel singolo caso, il principio stesso.
Ma se ciò è vero sul piano delle fonti in senso stretto o formale, non è vero sul piano della effettiva evoluzione del
diritto.
Come già si è detto il modo in cui i giudici – la giurisprudenza nel suo insieme, cioè l’attività degli organi
giudiziari e il flusso delle loro decisioni – si orientano nell’interpretare e applicare una norma è di fatto importantissimo
per determinare decisioni simili, creando la forza di fatto del precedente, in particolare attraverso le decisioni della
Corte di Cassazione, cui si attribuisce una funzione di indirizzo e anche di soluzioni di conflitti di giurisprudenza
(attraverso le decisioni delle sezioni unite).
2. L’APPLICAZIONE DELLE NORME GIURIDICHE
1. La struttura della norma giuridica. – 2. Il testo normativo. Norma e disposizione. – 3. L’interpretazione vo. Norma e disposizione. – 3.
L’interpretazione delle disposizioni normative. – 4. L’idea di «sistema» e l’interpretazione. – 5. (segue) L’analogia. I principi generali.
1. La struttura della norma giuridica.
Carattere normale della regola di diritto – si è detto – è l’astrattezza: la prescrizione è destinata a valere in una serie
indefinita di situazioni.
Lo schema logico della norma giuridica – non la sua formulazione testuale, che varia da caso a caso – è costante: si
tratta di una regola di comportamento condizionata, la quale prevede che, se si verificano certi fatti, allora si dovrà o si
potrà comportarsi in un certo modo; ad esempio: «se qualcuno causa danno ingiustamente ad altri... allora deve
risarcire il danno causato».
Per indicare la situazione, a cui una norma giuridica collega certe conseguenze, si usa il termine fattispecie.
Si parla di fattispecie astratta per indicare la situazione-tipo descritta dalla norma.
Per contrasto, viene chiamata fattispecie concreta la situazione pratica in cui la regola si applica: quella situazione
concreta, cioè, in cui riconosciamo i connotati indicati dalla norma. Per esempio, la fattispecie astratta dell’«attività
pericolosa», descritta nell’art. 2050, si potrà riconoscere, in concreto, nell’attività del signor Tale, che nel suo
magazzino di articoli per campeggio tiene un serbatoio di gas per la ricarica delle bombole usate dai campeggiatori.
Per ogni fattispecie (se ...) la norma giuridica prevede certe regole di comportamento (allora ...): stabilisce, cioè,
quel che certe persone devono o possono fare, e qualifica come lecito, obbligatorio, vietato un certo comportamento.
Questo collegamento tra la fattispecie e la qualificazione del comportamento (se succede questo e questo, allora si
deve o si può fare questo e quest’altro) viene descritto dicendo che un determinato fatto ha certi effetti o conseguenze
giuridiche.
Queste «conseguenze» altro non sono che il contenuto prescrittivo della norma: gli obblighi, i divieti, le altre
qualificazioni di comportamento collegate alla fattispecie; e il linguaggio giuridico ne parla come se si trattasse di
descrivere veri e propri «eventi» di un ideale universo giuridico: la «nascita», il «trasferimento», la «modificazione», la
«estinzione» di diritti e di obblighi.
Un aspetto importante del lavoro del giudice è appunto quella di riconoscere, nel caso concreto, i connotati della
fattispecie astratta, cioè, come pure si dice, di riportare i fatti, sui quali è chiamato a giudicare, «sotto» la fattispecie
prevista da una certa norma (c.d. «sussunzione»).
Questo schema, in sé semplice, non va inteso in modo meccanico, come se si trattasse di confrontare due immagini e
di verificare che combaciano.
L’applicazione di una norma generale ed astratta a un fatto concreto è un’operazione sempre complessa che richiede
di interpretare (attribuire significato) non solo le parole della legge, ma i fatti concreti che sono accaduti e a cui la
norma va applicata.
2. Il testo normativo. Norma e disposizione.
La diversa origine delle norme giuridiche (la legge, l’uso, o in certi ordinamenti il precedente giudiziario) non toglie
un carattere comune: qualsiasi norma, per essere applicata, deve alla fine essere formulata come una regola di
comportamento, cioè come un messaggio linguistico di contenuto prescrittivo (proposizione prescrittiva).
Nel caso di norme non scritte (come gli usi), è del tutto evidente che questa formulazione dovrà essere fatta da chi
deve applicare la norma, o da uno studioso che, osservando e conoscendo – poniamo – la consuetudine, ne ricava una
regola in forma, appunto, di proposizione prescrittiva.
Nel caso di norme scritte, invece, possiamo avere l’impressione che la norma non sia altro che il testo normativo o,
come si dice, la disposizione: insomma, la formulazione linguistica dell’atto legislativo, che leggiamo, ad esempio, in
un articolo di codice. Ma non è così.
La disposizione normativa, cioè il testo scritto, non è che un complesso di parole a cui si deve attribuire un
significato. Il significato di un testo legislativo non è qualche cosa di evidente, indiscutibile e immutabile: dipende dal
significato che le parole usate hanno nel linguaggio comune, dall’uso particolare che ne fa il legislatore, dai
cambiamenti nella realtà di fatto in cui la regola si deve applicare.
Ad esempio, se una disposizione legislativa vieta a un proprietario di «fabbricare» a una distanza inferiore a tre
metri dalle finestre del vicino, bisogna stabilire cosa significhi «fabbricare»: tirar su un muro, o anche gonfiare un
pallone per coprire un campo da tennis? La disposizione, che poteva avere un certo significato quando non esistevano
né strutture prefabbricate, né capannoni gonfiabili, può assumere un diverso significato oggi. Ecco che, ferma la
disposizione, è mutata la norma.
L’operazione, con cui si attribuisce un significato alla disposizione normativa, si chiama interpretazione (v. avanti,
par. 8).
La norma giuridica è il significato (risultato dell’interpretazione) della disposizione normativa.
In secondo luogo, se pensiamo alla norma come a una regola di comportamento non dobbiamo aspettarci di trovare,
nei testi legislativi, la formulazione espressa, completa, ben distinta della regola di condotta da applicare nel caso che ci
interessa. A volte, una regola di comportamento deve essere ricavata mettendo insieme disposizioni diverse. Per
esempio, l’art. 2043 stabilisce la regola per cui chi causa ad altri un danno ingiusto, deve risarcirlo: ma per completare
la regola in modo che essa dica quanto il danneggiante deve pagare, devo leggere la disposizione dell’art. 2056, che a
sua volta rimanda agli artt. 1223, 1226 e 1227.
Esistono poi numerosissime disposizioni che non enunciano affatto regole di comportamento, ma si limitano a
definire i presupposti per l’applicazione di molte regole di comportamento. Ad esempio, quando l’art. 1470 dice che
cos’è una compravendita, non fa che descrivere il presupposto, esistendo il quale si applicheranno molte regole, che
impongono un certo comportamento al venditore e al compratore: come meglio si capirà dopo avere osservato, nel
paragrafo seguente, la struttura della norma giuridica.
Il legislatore ordina e raggruppa le disposizioni normative in modo da rendere consultabile (e sempre più spesso,
purtroppo, in modo da rendere difficilmente consultabile) il testo legislativo.
L’unità-base di ripartizione del testo nella legislazione italiana è l’articolo, distinto da un numero progressivo.
All’interno degli articoli, la divisione più comune è quella in capoversi non numerati, detti commi: il testo, insomma
«va a capo», e ciò serve a identificare rapidamente la disposizione indicando ad esempio: art. 2054, comma 1o. Spesso
ci si riferisce al secondo comma semplicemente con l’indicazione «cpv.» (capoverso).
3. L’interpretazione delle disposizioni normative.
La ricerca del significato delle disposizioni normative è quella operazione, che chiamiamo «interpretazione della
legge».
È bene precisare subito come va intesa l’espressione «ricerca del significato». È molto difficile imbattersi in una
disposizione normativa il cui testo non sia compatibile con più significati. Perciò, «ricerca» del significato non va intesa
nel senso che esiste un solo, unico, necessario significato del testo, che l’interprete deve solo scoprire: l’interpretazione
della legge non è scoperta di una verità precedente, assoluta e incontestabile, ma attribuzione di significato
a) nell’ambito di ciò che è compatibile con il testo interpretato,
b) secondo criteri non arbitrari, e assoggettabili a un controllo di razionalità.
Criteri teorici e criteri normativi dell’interpretazione Ma quali sono questi criteri dell’interpretazione? Qui, occorre
distinguere due piani del discorso.
a) Il problema dell’interpretazione della legge è antico come il diritto. Nella storia del pensiero giuridico si sono
affermati dei criteri ermeneutici (di interpretazione) che sono poi diventati oggetto di studio non solo tra i giuristi e i
teorici del diritto, ma da parte dei cultori di altre discipline (filosofia del diritto, filosofia del linguaggio, semantica,
ermeneutica). Esiste quindi una teoria dell’interpretazione che può suggerire al giurista una gamma di metodi
interpretativi.
b) Nell’ordinamento italiano, come in altri ordinamenti «codificati» esiste una disposizione legislativa (l’art. 12
delle Disposizioni preliminari al Codice civile) diretta a disciplinare la stessa attività di interpretazione delle leggi.
Esistono quindi dei criteri normativi per l’interpretazione che, nell’intenzione del legislatore, devono essere seguiti
nell’interpretare qualsiasi regola dell’ordinamento.
Il testo legislativo è un messaggio linguistico, espresso in parole riunite in proposizioni. Si tratterà quindi anzitutto di
considerare le parole usate nel testo. Una parola può avere una gamma più o meno ristretta di significati (diciamo, per
semplicità, quelli che ci può indicare un buon dizionario). In questa gamma, si dovrà stabilire il significato delle parole
in relazione al contesto.
Questa semplice indicazione è fatta propria dall’art. 12 Disp. prel., il quale dispone al primo comma che:
«Nell’applicare la legge non si può attribuire ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse (...)».
A questi primi criteri si riferisce l’espressione «interpretazione letterale».
Si può osservare che il legislatore sembra pensare che ogni parola abbia un «significato proprio» (uno e uno solo);
abbiamo invece sottolineato che ogni parola ha una gamma di significati, e solo il contesto (l’intero messaggio) può
«concentrare» il significato: ad esempio, la parola «liquido» non può avere, se compare in un contesto in cui si parla di
«debiti liquidi», lo stesso significato che ha se si parla di «contenitori per alimenti liquidi».
Il testo legislativo si caratterizza però come messaggio prescrittivo: le parole usate hanno lo scopo di prescrivere un
determinato comportamento in una determinata situazione. Chi riceve questo tipo di messaggio deve chiedersi quale
risultato pratico la prescrizione sia diretta a raggiungere, e deve quindi attribuire al testo un significato che sia coerente
con lo scopo cui la regola è diretta. Si parla a riguardo di ratio (ragione pratica, scopo, logica) della norma:
l’interpretazione che ne tiene conto è detta «interpretazione logica».
Per fare un esempio molto semplice, la regola «È vietato sporgersi» scritta in un grande avviso sulla terrazza più alta
di una torre panoramica ha una ratio diversa da quella che ha la stessa regola scritta sotto il finestrino di un treno. Nel
primo caso, il risultato da ottenere è che il visitatore non abbia a perdere l’equilibrio e cadere al di là della ringhiera, nel
secondo caso si vuole anche evitare che una parte del corpo esposta fuori dal finestrino possa essere colpita da un palo,
o da un treno che viene nell’altra direzione. Quindi nel secondo caso, e non nel primo, «sporgersi» indicherà anche il
gesto di sporgere un braccio.
Il criterio dell’interpretazione logica è fatto proprio anche dall’art. 12 Disp. prel. quando alla fine del primo comma
impone all’interprete di rispettare «l’intenzione del legislatore».
Nel linguaggio comune, «intenzione» è la volontà di una persona diretta a un fine. La regola sembra dunque
obbligare l’interprete a tener conto di ciò, che «il legislatore» storicamente si proponeva nel dettare la disposizione. Il
legislatore, però, non è una persona, della quale si possa ricostruire una «intenzione», ma un organo dello Stato. Di una
«intenzione del legislatore» non si può parlare in senso psicologico, né soggettivo, ma al più in senso storico-politico,
per riferirsi agli scopi perseguiti con l’emanazione della norma, quali risultano, ad esempio, dai lavori preparatori e
dalla Relazione alla legge. Tuttavia, l’interprete non può ritenersi vincolato a cercare un significato conforme alla
«volontà politica» di cui la norma è, storicamente, un prodotto. La legge, una volta approvata, «si stacca» dall’organo
che l’ha prodotta: non viene più in rilievo come una «decisione» legata a ragioni e fini di chi l’ha voluta, ma come un
testo legislativo inserito nell’insieme dell’ordinamento giuridico.
La ratio della norma è perciò un vincolo per l’interprete solo se intesa in senso funzionale o teleologico: cioè come
lo scopo, il risultato razionale che la norma può oggettivamente perseguire nel momento in cui viene applicata.
La considerazione della ratio della norma, e gli altri criteri di cui parleremo, possono far sì che l’interprete attribuisca
alle parole usate dal legislatore un significato più ampio, o più ristretto, rispetto a quello che deriverebbe dalla sola
analisi linguistica della singola disposizione normativa.
Si usa perciò sottolineare due diversi risultati dell’interpretazione: si parla di interpretazione estensiva quando la
regola, che è risultato dell’interpretazione, ha un campo di applicazione più esteso rispetto al significato letterale della
disposizione; di interpretazione restrittiva nel caso opposto.
Qualche osservazione merita poi la provenienza dell’interpretazione.
L’interpretazione giudiziale, cioè fatta dal giudice nel caso che deve decidere è in realtà la formulazione di una
regola concreta, che il giudice stesso applica per risolvere la controversia.
Questa interpretazione, nel nostro sistema, non è vincolante per altri soggetti né per altri giudici che decidano casi
simili: solo il giudice, a cui la Cassazione rinvii la causa per la decisione di merito, è vincolato ad applicare il principio
di diritto formulato dalla Suprema Corte (v. avanti, cap. 47).
Tuttavia, l’interpretazione giudiziale ha un’influenza di fatto, soprattutto quando si forma un orientamento costante
(interpretazioni eguali ripetutamente affermate dai giudici). In particolare, la formazione di orientamenti
giurisprudenziali è influenzata dalle decisioni della Corte di Cassazione (la cui funzione è proprio quella di assicurare
una certa uniformità nell’applicazione del diritto) e in modo speciale dalle decisioni emesse «a Sezioni unite», per
superare contrasti di giurisprudenza.
In realtà, come si è detto, l’evoluzione del diritto, la creazione di nuovi istituti, in definitiva la formulazione di regole
non espressamente dettate dal legislatore è opera della giurisprudenza: l’espressione (usata anche dalla Corte
costituzionale) «diritto vivente» può essere retorica ma rende l’idea che il diritto «reale» è quello applicato (lo ius quo
utimur), non quello immaginato come un grande apparato di testi scritti.
Una qualche influenza ha anche l’interpretazione dottrinale, cioè quelle proposte di interpretazione che vengono
avanzate dagli studiosi del diritto. In altri sistemi l’autorità del giurista è considerata una fonte da cui il giudice può
attingere per la decisione. Non è così da noi; ma anche in questo caso, una buona proposta di interpretazione ha una
certa probabilità di essere accolta, e di contribuire a formare orientamenti che determinano l’evoluzione del diritto
«reale».
Del tutto diverso il rango della c.d. interpretazione autentica, cioè fatta dallo stesso legislatore con una o più
nuove disposizioni normative che prescrivono come si debbano interpretare disposizioni vigenti che siano risultate di
difficile interpretazione, o che comunque abbiano condotto a risultati che il legislatore vuole evitare.
Naturalmente, anche le disposizioni che prescrivono l’interpretazione autentica debbono essere interpretate: l’antico
sogno dei legislatori, di scrollarsi di dosso gli interpreti, è destinato al fallimento.
4. L’idea di «sistema» e l’interpretazione.
Le disposizioni normative che il giurista deve interpretare non sono testi isolati, ma fanno parte di un insieme
unitario, che chiamiamo «ordinamento giuridico». Se l’ordinamento giuridico nascesse «a tavolino», l’interprete
avrebbe una formidabile guida per orientare il suo lavoro: potrebbe partire dalla premessa, che il linguaggio usato in
tutte le disposizioni sia eguale a se stesso – cioè, grosso modo, che termini eguali siano impiegati, in contesti simili, con
significati eguali – e che l’intero complesso di regole sia diretto a ottenere dei risultati coerenti.
Un ordinamento giuridico come il nostro, però, non si è formato istantaneamente, seguendo un disegno organico. Si
è sviluppato invece nel tempo, e accumula ormai uno sull’altro diversi «strati geologici» di disposizioni normative.
Nonostante l’apparente eterogeneità, l’idea stessa di ordinamento giuridico pone l’esigenza di considerare la totalità
delle norme come un sistema, cioè come un insieme in cui «tutto si tiene» e ogni parte influenza e spiega le altre.
Questa idea sta alla base di tre criteri di lavoro del giurista: l’interpretazione sistematica, l’impiego dell’analogia e il
ricorso ai principi generali.
Il criterio dell’interpretazione sistematica prescrive di attribuire a una disposizione normativa quel significato che
essa può avere in quanto posta in relazione con tutte le altre che fanno parte del «sistema». C’è sotto l’idea, che il
linguaggio usato dal legislatore sia coerente (significati eguali per termini eguali in contesti simili) e che sia
riconoscibile anche una coerenza dei fini (della ratio delle norme).
Facciamo un semplice esempio: poiché l’art. 2 stabilisce che la maggiore età si acquista a diciotto anni, di fronte a
una qualsiasi norma che usi la parola «minore» o «minore di età», senza precisazioni, intenderò: «minore di diciotto
anni»; età inferiori dovranno essere espressamente indicate.
Il criterio funziona senz’altro all’interno di un istituto, o di un complesso di istituti, o all’interno di un testo
legislativo unitario come è il codice. È dubbio che oggi si possa sempre farlo funzionare nell’interpretare la legislazione
speciale: c’è chi sottolinea che a volte questa segue criteri di linguaggio e di «politica» così particolari, che si deve
parlare di «microsistemi» che non comunicherebbero con l’esterno.
5. (segue) L’analogia. I principi generali.
L’interpretazione sistematica non compare tra i criteri prescritti nell’art. 12 disp. prel. Ma all’idea di «sistema» si
ispira il secondo comma dell’articolo, che stabilisce come si debbano colmare le lacune dell’apparato normativo. Il
problema nasce quando il giudice, chiamato a decidere un caso, non trova una disposizione normativa che sia
applicabile alla situazione di fatto a lui presentata. Si suppone, naturalmente, che neppure un’interpretazione estensiva
di disposizioni esistenti possa risolvere il problema. Esiste un «vuoto» nel tessuto delle disposizioni normative: una
«lacuna». Come colmarla?
Il nostro sistema è retto dal principio per cui il giudice non può «creare» una regola di diritto, che riempia il vuoto
legislativo. D’altra parte, vale anche il principio – che era espresso nel codice Napoleone – per cui il giudice non può
negare giustizia, rifiutando di risolvere il caso.
L’antinomia tra i due principi non lascia che una strada: stabilire una specie di postulato, secondo cui qualsiasi caso
può essere risolto sulla base delle regole dell’ordinamento giuridico. Lo si potrebbe chiamare il postulato della
completezza dell’ordinamento, che è necessario per mantenere la chiusura del sistema, cioè per escludere che l’apparato
normativo possa essere integrato da regole attinte a fonti estranee all’ordinamento medesimo.
Il postulato non è espressamente formulato, ma è la premessa logica del secondo comma dell’art. 12 disp. prel.
Infatti, di fronte al caso non previsto da alcuna disposizione normativa – neppure estensivamente interpretata – il codice
dispone che il giudice segua, in successione, i due criteri seguenti.
a) Anzitutto, si cercherà di risolvere il caso utilizzando «disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe»;
si tratta della c.d. analogia (analogia legis), che corrisponde a un criterio logico fondamentale: soluzioni simili per
problemi simili.
La «somiglianza» tra caso e caso va riconosciuta alla luce della ratio della regola che si vuole utilizzare: il caso non
previsto cioè, deve porre un problema analogo a quello, che un’altra norma ha inteso risolvere in un caso simile.
L’analogia non porta ad applicare al caso non previsto la regola che disciplina il caso simile (come avviene
nell’interpretazione estensiva); ma, avendo «riguardo» (come dice l’art. 12 disp. prel.) alla disposizione che vale per la
situazione analoga, il giudice in sostanza stabilirà una regola concreta adatta alla questione che deve risolvere.
Questo carattere «creativo» dell’analogia spiega i limiti imposti al suo impiego: non possono essere applicate per
analogia le leggi penali (nullum crimen sine lege) e le leggi eccezionali, cioè che stabiliscono una eccezione a regole
più generali (art. 14 disp. prel.).
b) Il ricorso all’analogia rende elastico il sistema normativo, ma non può garantire la tenuta del postulato di
completezza e del principio di chiusura. Occorre un criterio, che permetta di chiudere qualsiasi lacuna. Il legislatore lo
individua nei princìpi generali dell’ordinamento giuridico (c.d. analogia iuris).
L’idea di «principi generali dell’ordinamento» è strettamente legata all’idea di «sistema» normativo. Sappiamo
infatti che ogni singola norma risponde a una ratio, è cioè diretta a conseguire un certo risultato razionale. Se
immaginiamo un sistema di regole coordinate, interamente razionale, dobbiamo pensare che, nel suo insieme, sia diretto
a raggiungere degli scopi fondamentali, che si specificano poi in obiettivi particolari.
La parte finale dell’art. 12 disp. prel. ci prescrive di considerare in questo modo l’ordinamento italiano; di ricavare
quindi, dallo studio di tutte le regole espresse, delle grandi linee di tendenza, e formulare queste linee come regole di
contenuto molto ampio: i principi.
In molti casi, il legislatore ci aiuta, dettando espressamente i suoi princìpi; in particolare nella Costituzione possiamo
trovare enunciazioni, come quelle che riguardano la tutela dei diritti fondamentali e della personalità (art. 2), la libertà
dell’iniziativa economica privata (art. 41, comma 1o) e i suoi limiti (art. 41, comma 2o), il principio di legalità
dell’espropriazione (art. 42, ult. comma), ecc. Ma molti principi sono impliciti nel sistema, ricavabili cioè soltanto come
una sintesi prescrittiva di norme e istituti: così, nel diritto privato vale il principio dell’affidamento per cui va protetta la
fiducia giustificata dalle circostanze.
.
3. LE SITUAZIONI GIURIDICHE (CENNI)
1. Prescrizioni, situazioni, rapporto giuridico. – 2. Le situazioni elementari: dovere-obbligo, facoltà, potere. – 3. (segue) Soggezione e onere. – 4. Il
diritto soggettivo. – 5. (Omesso). – 6. Ufficio e potestà. – 7. Diritti assoluti e relativi.
1. Prescrizioni, situazioni, rapporto giuridico.
Consideriamo una tra le più semplici regole del nostro codice. “Chi trova una cosa mobile deve restituirla al
proprietario...” (art. 927). Come ogni norma, anche questa contiene una prescrizione, che impone un certo
comportamento: si deve restituire ciò che si trova.
Anche una regola così semplice, quando trova applicazione, colloca due soggetti – chi ritrova la cosa, e il
proprietario della cosa trovata – in una precisa posizione o situazione giuridica: il primo nella situazione di chi è tenuto
a comportarsi in un certo modo (restituire); il secondo nella posizione di chi può pretendere dal primo un
comportamento a lui favorevole.
Si stabilisce così tra i due protagonisti una relazione disciplinata dalla legge, o come si usa dire un rapporto
giuridico: in questo caso il rapporto tra chi deve e chi può pretendere che il dovere sia osservato.
Il rapporto mette in relazione due soggetti ciascuno dei quali è investito di una situazione giuridica soggettiva: la
situazione, o posizione, in cui viene a trovarsi un soggetto, per effetto della applicazione di una o più regole di diritto.
Si chiama, in genere, situazione giuridica attiva quella in cui si trova la parte avvantaggiata, il cui interesse è
protetto nel rapporto, e situazione giuridica passiva quella in cui si trova la parte svantaggiata, il cui interesse è
sacrificato: espressioni molto usate, anche se non del tutto precise (lo svantaggiato deve spesso fare qualcosa, non solo
subire).
Lo schema che abbiamo tracciato si ripropone per qualsiasi norma giuridica, con maggiore o minore complessità.
Descrivere esattamente il rapporto giuridico che una norma crea, indicare con precisione e proprietà le situazioni
giuridiche che lo compongono, permette di rappresentare fedelmente il contenuto delle norme e di rendersi conto
dell’equilibrio di interessi che esse intendono realizzare.
Il linguaggio giuridico offre numerosi concetti che ci consentono di riassumere il contenuto di una norma giuridica, e
il risultato della sua applicazione, dal punto di vista del soggetto di cui la norma stessa regola comportamenti e
interessi: concetti cioè che servono ad indicare “situazioni” o “posizioni” in cui le regole del diritto “collocano” una
persona.
Sono termini che incontriamo anche nel linguaggio di tutti i giorni, anche se con significati meno precisi o differenti:
il dovere, l’obbligo, il potere, la facoltà, la soggezione, l’onere, il diritto, la funzione ecc.
2. Le situazioni elementari: dovere-obbligo, facoltà, potere.
Dovere-obbligo
Funzione primaria, e secondo qualcuno l’unica essenziale, della norma giuridica è quella di imporre ai suoi
destinatari un determinato comportamento.
La categoria logica che corrisponde a questa funzione è quella del dovere. La norma ci dice che una certa condotta è
dovuta; il che significa che solo un comportamento come quello soddisfa la prescrizione, mentre un comportamento
opposto o diverso, viola la norma.
Dal punto di vista del linguaggio normativo, le espressioni con cui una norma può imporre un dovere sono
molteplici. La norma può indicare il comportamento che vuole imporre (nell’esempio già fatto: restituire al proprietario
la cosa trovata) e collegarlo a espressioni come “deve”, “è tenuto a”, “ha l’obbligo di”, ecc. (formule di comando).
Oppure può indicare un comportamento che vuole sia evitato (per esempio: fumare in locale pubblico) e collegarlo a
espressioni come “è vietato”, “non è lecito”, “non può” ecc. (formule di divieto). Si tratta sempre di imporre un dovere
formulato in modo positivo o negativo.
La situazione soggettiva della persona, che è tenuta ad un certo comportamento (a fare o a non fare qualcosa:
dovere positivo o negativo) si chiama obbligo. L’obbligo di non fare è un divieto.
Contro quel che può sembrare, il primato della categoria del dovere-obbligo corrisponde a una concezione liberale
del diritto, secondo cui tutto ciò che non è obbligatorio o vietato è lecito: la legge non crea libertà, ma garantisce la
naturale libertà dell’individuo e la limita (imponendo obblighi o divieti) per consentire la convivenza. Dunque, non
occorre una norma per dire che si può fare qualcosa.
Facoltà e potere
Ma in realtà le norme giuridiche però svolgono spesso una diversa funzione, storicamente e politicamente preziosa,
quella di stabilire quali comportamenti si possono tenere.
Anche qui il linguaggio è vario: la regola può essere formulata dicendo che un soggetto “può” fare qualcosa (ad
esempio “Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo”: art. 841) oppure che “ha diritto di” (ad esempio “il
proprietario ha diritto di godere e disporre della cosa”: art. 832). Almeno due diversi concetti sono invece necessari per
descrivere la situazione della persona che può tenere un determinato comportamento.
Va chiarito anzitutto che il verbo “potere” non ha un solo significato: anche nel linguaggio corrente, la frase “Tizio
può fare questo e quest’altro” indica talora che a Tizio è consentito di comportarsi in quel certo modo, talora invece che
Tizio è in grado di fare certe cose, riesce a produrre certi risultati. Noi italiani abbiamo qualche difficoltà a percepire
immediatamente questa distinzione perché disponiamo di un unico verbo “potere”; in altre lingue esistono due verbi
differenti che corrispondono al nostro “potere”: il tedesco ha dürfen e können, l’inglese ha may e can; in entrambi i casi,
il primo verbo esprime l’idea di avere la libertà o il permesso di comportarsi in un certo modo, il secondo invece l’idea
di avere la capacità, la possibilità di ottenere un risultato. Noi possiamo esprimere le due idee con chiarezza usando le
perifrasi: avere la facoltà o avere il potere.
Nel linguaggio giuridico compare un’analoga distinzione.
In certi casi, l’espressione “può”, o altre simili, è usata per indicare che una certa condotta è lecita, cioè è consentita.
Dal momento che tutto ciò che non è vietato o obbligatorio è lecito, quella particolare indicazione serve soprattutto nei
casi in cui il legislatore vuole indicare che solo una certa persona può, solo a una certa persona è lecito, oppure per
stabilire, indirettamente, i limiti di ciò che una persona può fare (così p. es. negli artt. 981 e 1021).
Noi diciamo, in questi casi, che una persona “ha la facoltà” di comportarsi nel modo indicato. Diciamo, per esempio,
che il titolare di un diritto d’uso (art. 1021) ha la facoltà di usare la cosa; di facoltà di godere parliamo con riguardo al
proprietario, anche se la legge preferisce, nell’art. 832, l’espressione “ha il diritto”.
Facoltà è dunque la situazione del soggetto che può lecitamente compiere un atto (al quale è lecito tenere il
comportamento descritto dalla norma).
In altri casi, però, l’espressione “può” ha un significato diverso. Cosa significa, per esempio, dire che il proprietario
può vendere la sua cosa? Non solo che gli è consentito di vendere (ne ha la facoltà), ma anche che, se vende, trasferisce
la proprietà delle cose, cioè produce l’effetto cui il suo atto è diretto: è questo un potere, che la legge gli riconosce.
Potere è dunque la situazione del soggetto che può efficacemente compiere un atto (al quale è dato cioè di produrre
determinate conseguenze giuridiche).
Facoltà e potere sono dunque due concetti diversi: il primo indica la posizione di chi può compiere lecitamente un
atto, il secondo la posizione di chi può compiere efficacemente un atto.
3. (segue) Soggezione e onere.
.
Usiamo il termine soggezione per indicare la situazione di un soggetto che, senza essere obbligato a un determinato
comportamento, subisce le conseguenze dell’esercizio di un potere altrui.
Il termine nasce per descrivere la posizione di chi è soggetto a un’autorità altrui: per esempio, la posizione dei figli
minorenni che sono soggetti alla potestà dei genitori (v. avanti, par. 7). La persona investita dell’autorità può prendere
decisioni e compiere atti che riguardano il “soggetto”, il quale, semplicemente, ne subisce gli effetti.
Da questo modello, il concetto di soggezione viene esteso a casi, in cui non c’è una subordinazione ad un’autorità o
potestà altrui, ma il soggetto è “esposto” alle conseguenze dell’esercizio di un altrui potere. Per esempio, l’art. 874
prevede il caso in cui un proprietario abbia costruito sul confine, e attribuisce al vicino il potere di chiedere (e, se
esistono i presupposti, determinare) la comunione del muro. La posizione del primo proprietario, che subisce le
conseguenze della richiesta, è di soggezione.
L’esercizio del potere cui una persona è soggetta può far nascere degli obblighi a suo carico: ma altro sono queste
conseguenze, altro è la soggezione in sé e per sé.
Non sempre le norme giuridiche impongono un comportamento (lo qualificano, cioè, come dovuto o vietato). In
alcuni casi, la regola si limita a stabilire che un certo risultato può essere ottenuto solo da chi terrà (senza esservi
obbligato) un certo comportamento: la situazione del soggetto si chiama allora, non obbligo, ma onere.
4. Il diritto soggettivo.
Un termine dominante nel linguaggio giuridico è “diritto”; il diritto di proprietà, il diritto di credito, i diritti reali, il
diritto di voto, il diritto all’immagine, il diritto agli alimenti, il diritto sul proprio corpo.
In linea molto generale, possiamo dire che la parola “diritto” è impiegata per indicare la situazione giuridica di un
soggetto alla quale una o più norme assicurano la possibilità di soddisfare un certo interesse economico o morale; si
parla perciò di diritto soggettivo: il concetto di diritto, così usato, riassume il contenuto delle norme dal punto di vista
del soggetto.
In passatosi è tentato di dare una sola definizione di diritto soggettivo che si adattasse a tutti i diversi casi in cui
questa espressione viene usata. Nel corso del tempo, si è dapprima definito il diritto soggettivo come “facoltà di agire”.
Si è poi accentuato l’aspetto della pretesa, valorizzando il modello in cui un soggetto ha il potere di esigere da un altro
un certo comportamento.
In realtà, una definizione unitaria di “diritto soggettivo” è problematica per due ragioni.
a) Da un lato, si sono moltiplicate le situazioni in cui si parla di “diritto soggettivo”: prerogative nuove, lontane dai
modelli tradizionali, di contenuto assai vario; esse mostrano il diritto ridursi, in certi casi, al potere di chiedere al
giudice la cessazione di un abuso altrui (come nel diritto al nome); in altri casi, sia lo schema della pretesa sia quello
della facoltà sembrano del tutto insufficienti (per esempio, nel “diritto alla salute”).
b) Dall’altro, anche nei diritti “classici”, come la proprietà o il credito, si è mano a mano valorizzata la complessità
della situazione.
È evidente insomma che il concetto di diritto soggettivo non indica posizioni sempre eguali; qualche volta si riferisce
a situazioni in cui prevale l’aspetto della libertà di agire, o della facoltà, altre volte a posizioni in cui predomina il
potere, altre volte a complesse posizioni che comprendono facoltà, poteri, e anche doveri.
Una definizione unitaria è tuttavia possibile, perché due aspetti sono presenti in tutti i casi nei quali si parla di
“diritto soggettivo”:
a) l’attribuzione di un potere – o come potere di pretendere un comportamento altrui, o come potere di impedire
altrui interferenze, o almeno come potere di rivolgersi al giudice per la tutela del proprio interesse;
b) lo scopo immediato e diretto di tutelare l’interesse del soggetto, cui quelle prerogative sono conferite.
Si può quindi ritenere una definizione accettabile di diritto soggettivo la seguente: si parla di diritto soggettivo
quando la legge attribuisce a un soggetto un potere per la tutela primaria e diretta del proprio interesse.
5. (Omesso)
6. Ufficio e potestà.
Ben distinte dal diritto soggettivo sono, anche nell’ambito privatistico, quelle posizioni in cui si combinano insieme
potere e dovere e che possono comprendersi tutte nell’idea di funzione o ufficio di diritto privato.
In contesti tra loro molto diversi accade che un soggetto sia investito di un potere che gli è affidato non per la tutela
di un proprio interesse ma perché egli persegua e curi un interesse altrui. Così è, ad esempio, per i poteri attribuiti ai
genitori per curare l’interesse del figlio minore (art. 320); per i poteri attribuiti al tutore di un minore o di un interdetto
(art. 357); per i poteri attribuiti al curatore del fallimento (artt. 28 e ss. r.d. 16.3.1942 n. 267, c.d. “legge fallimentare”);
per i poteri attribuiti a varie figure come il curatore dei beni di una persona scomparsa (art. 48) il curatore dell’eredità
giacente (artt. 528 e ss.) il curatore dell’eredità accettata con beneficio di inventario (art. 508).
Questo scopo, con cui la legge caratterizza l’attribuzione stessa del potere, ha due conseguenze:
a) che l’attività giuridica oggetto del potere è anche oggetto di un dovere: il titolare può e deve, al tempo stesso,
compiere tutti gli atti che sono opportuni per curare l’interesse a lui affidato;
b) che il potere stesso è vincolato allo scopo, cioè ogni atto di esercizio del potere che si discosti dallo scopo fissato
dalla legge costituisce un abuso (v. avanti, fine capitolo).
Vi sono casi nei quali la funzione o l’ufficio attribuito ad un soggetto ha un contenuto tale che il rapporto con
l’interessato perde quei caratteri di parità che sono propri di ogni rapporto di diritto privato, e assume invece i connotati
della autorità.
Il caso più evidente è quello dei genitori: essi sono investiti, nei confronti dei figli minorenni, di un potere-dovere di
cura della persona e degli interessi del minore (artt. 30 Cost. e 147 cod. civ.), che comprende in sé anche aspetti di
autorità: il genitore può assumere decisioni nell’interesse dei propri figli e in certi limiti disporre, senza il loro
consenso, dei loro interessi.
La legge italiana conserva il termine antico di “potestà” – sostituito, in altri ordinamenti, con quello di “autorità” –
per indicare il complesso dei poteri-doveri dei genitori, che sono da un lato i compiti di cura della persona dei figli
minori (art. 316) dall’altro il potere di rappresentare i figli minori “in tutti gli atti civili” (art. 320).
Alla potestà corrisponde, come abbiamo già detto, la soggezione della persona su cui l’autorità si esercita: essa
subisce gli effetti delle decisioni e degli atti compiuti dal titolare del potere; questi, d’altra parte, non agisce nel proprio
interesse o secondo un puro arbitrio, perché il suo potere è vincolato allo scopo di realizzare l’interesse di chi gli è
soggetto (cfr. artt. 330 e ss.).
La figura della potestà dei genitori è il modello su cui si costruisce anche l’autorità del tutore, sia nel caso di minori
privi di genitori che possano esercitare la potestà, sia nel caso degli infermi di mente che siano stati interdetti e
sottoposti a tutela (v. art. 357).
7. Diritti assoluti e relativi.
La categoria dei diritti soggettivi è varia – come abbiamo visto – perché gli interessi che il diritto protegge sono di
varia natura; anche gli strumenti di protezione sono dunque diversi tra loro, in funzione del tipo di interesse che sono
diretti a tutelare.
Ci sono però degli schemi-base, dei modelli fissi, che è bene saper distinguere.
Una prima, utile distinzione è quella tra diritti assoluti e diritti relativi.
I primi sono quelli che si possono far valere verso chiunque (come si diceva in latino, erga omnes, cioè verso tutti);
diritti relativi invece sono quelli che si fanno valere solo nei confronti di determinati soggetti.
Diritti assoluti sono tra gli altri quei diritti che proteggono la persona, come il diritto alla vita, all’integrità fisica
(art. 5), al nome (artt. 6-9) all’immagine (art. 10) alla vita privata, e in genere tutti i diritti della personalità (salvo
quanto si dirà più avanti). E’ facile comprendere che, proprio per la natura degli interessi protetti, il diritto si faccia
valere nei confronti di tutti i consociati.
Ma i diritti personali possono anche essere relativi : così, per esempio, il diritto di ciascun coniuge alla fedeltà, al
rispetto, alla collaborazione dell’altro (art. 143); il diritto del figlio verso i genitori all’educazione, al rispetto della
personalità, eccetera.
4. I FATTI E GLI ATTI GIURIDICI (CENNI)
1. Fatti e atti nel diritto privato. Atti giuridici in senso ampio. – 2. I fatti illeciti. – 3. L’idea di “atto giuridico”.. – 4. L’idea di autonomia privata.
1. Fatti e atti nel diritto privato. Atti giuridici in senso ampio.
L’espressione “fatto giuridico” indica in generale ogni fatto al quale una norma giuridica collega un qualsiasi
effetto.
Con la parola “fatto” indichiamo qualsiasi accadimento (qualcosa che accade nel mondo) come la nascita, o il
comportamento cosciente e volontario di una persona, o il crollo di un edificio, o una dichiarazione fatta davanti a un
notaio. Con l’aggettivo “giuridico” indichiamo brevemente che il fatto, di cui stiamo parlando, è previsto da una regola
di diritto che collega al suo accadere determinate conseguenze e gli attribuisce così “rilevanza giuridica”: il fatto preso
in considerazione da una norma entra nel campo visivo del sistema giuridico e cessa di essere “irrilevante” cioè estraneo
o indifferente al diritto.
Le situazioni di fatto Diversità di fatti e diversità di aspettiche sono prese in considerazione dalle regole di diritto
sono però molto diverse tra loro: “fatti giuridici” sono la nascita e la morte, l’età della persona, il matrimonio, il
contratto, la delibera del condominio, la sentenza del giudice, il crollo di un edificio, il difetto di costruzione di
un’automobile, e via dicendo.
Ogni diverso fatto “rileva” secondo il modo in cui la legge lo considera, cioè in ragione dei particolari “connotati”
che la regola di diritto prende in considerazione nel definire la “fattispecie”.
Si pensi, per esempio, al caso di una persona che perde la vita in un incidente d’auto. Da un primo punto di vista,
quel che importa (che “rileva”) è il fatto della morte in sé e per sé, al quale conseguono, ad esempio, la successione
ereditaria, lo scioglimento del matrimonio, ecc. Sotto un altro aspetto, però, lo stesso accadimento – la morte di una
persona in un incidente stradale – dovrà essere considerato da tutt’altro punto di vista: quello dell’atto umano che ha
provocato l’incidente e la morte, e che avrà conseguenze per il diritto penale (se in quell’atto si riconosce un reato come
l’omicidio) o per il diritto civile, se in quell’atto si riconosce un illecito che obbliga chi l’ha compiuto a risarcire il
danno.
L’esempio suggerisce, dunque, una prima distinzione: nella grande classe dei fatti giuridici, è bene separare i fatti
in senso stretto, che vengono considerati in modo oggettivo, cioè in tanto in quanto accadono, e gli atti, cioè le azioni
umane, delle quali è rilevante l’aspetto che chiamiamo “soggettivo”, cioè la consapevolezza e volontarietà dell’azione.
Così, ad esempio, meri fatti giuridici sono la nascita (art. 1), la morte (artt. 149, 456), il crollo di un edificio (art.
2053); atti giuridici sono il contratto (art. 1321), il testamento (art. 587), il matrimonio (art. 84), la confessione (art.
2730).
La legge collega determinate conseguenze a un atto umano solo in tanto in quanto lo considera come un’azione di
una persona: cioè un comportamento riferibile alla sfera di responsabilità di un “soggetto” (protagonista), ovvero a lui
“imputabile” secondo i diversi criteri previsti dalla legge (v. alla fine del capitolo).
In senso ampio dunque si può parlare di atto giuridico per ogni comportamento, lecito o illecito, che la legge prende
in considerazione in quanto imputabile ad una persona come sua propria azione.
All’interno degli atti in senso ampio, un’utile distinzione è quella tra atti leciti e atti illeciti.
Il senso della distinzione, in termini generali, è il seguente:
– siamo di fronte a un atto lecito quando una norma attribuisce rilevanza giuridica (cioè effetti giuridici) ad una
condotta lecita; si tratterà quindi, in generale, dei casi in cui una persona fa uso di libertà o esercita poteri, con diverse
possibili conseguenze;
– siamo di fronte a un atto illecito quando un comportamento viene in considerazione proprio perché è contrario ad
una norma o ad un principio dell’ordinamento giuridico, ed ha perciò come conseguenza una sanzione (ma meglio v. il
prossimo paragrafo).
2. Gli atti illeciti. L’illecito civile.
Una condotta umana è giuridicamente illecita quando viola una regola di diritto – cioè quando corrisponde ad un
comportamento vietato, o quando non corrisponde al comportamento dovuto – e perciò lede gli interessi protetti dalla
norma.
La valutazione dell’illiceità è un giudizio complesso. Si tratta di confrontare la condotta, di fatto tenuta, con la
prescrizione normativa, per vedere se sussista o non sussista quel contrasto, che rende illecito il comportamento. Ma
questo raffronto non è meccanico e formale: secondo i comuni criteri di interpretazione e applicazione la norma si
riterrà violata solo in quanto si possa affermare che il comportamento è tale da ledere gli interessi protetti dalla regola
legale.
Vi sono interi settori del diritto nei quali, per ragioni diverse, il legislatore prevede in modo espresso e
tendenzialmente preciso il comportamento vietato o obbligatorio. Così, in campo penale vige il principio “nullum
crimen sine lege”: non c’è reato, e non si dà pena, se una regola di diritto non lo prevede espressamente. Il diritto penale
è perciò costruito attraverso la previsione normativa di fattispecie tipiche di reato, delle quali si deve accertare in
concreto la realizzazione per poter pronunciare la condanna. In base allo stesso principio vale, in campo penale, il
divieto dell’analogia (v. sopra).
La valutazione di illiceità, allora, si fonda primariamente sul raffronto tra i connotati della fattispecie astratta e quelli
del caso concreto; anche se, nell’interpretare la norma e nel valutare se sia violata, ha sempre un grande peso la
questione dell’interesse – o, come si dice, del “bene” – protetto dalla legge.
In altri casi invece, la stessa regola legale è formulata in modo da porre in primo piano non tanto la descrizione di
specifici “connotati” del comportamento obbligatorio o vietato, quanto il risultato che il legislatore vuole assicurare: la
soddisfazione di determinati interessi o la tutela di determinati valori. La valutazione di illiceità di una condotta
concreta si presenta, allora, come una risposta a questa domanda: se il comportamento tenuto si possa ritenere lesivo
degli interessi protetti dalla norma. Un esempio facile ed importante è quello del dovere imposto ai genitori di educare i
figli nel rispetto dell’inclinazione naturale, delle capacità, delle aspirazioni dei figli (art. 147). La norma prescrive un
comportamento senza far ricorso a dei connotati esteriori, ma facendo riferimento a una gamma di interessi che
debbono essere “rispettati”. La condotta dei genitori è illecita se ed in quanto non soddisfa quegli interessi: una condotta
materialmente identica può essere lecita in un caso, illecita in un altro; quel che conta è il rispetto o la lesione
dell’interesse protetto.
In rapporto al tipo di regola violata, alla natura dell’interesse leso, alle sanzioni predisposte, si possono utilmente
distinguere diverse “specie” di illecito.
La categoria dell’illecito penale comprende tutti quei comportamenti che la legge considera lesivi di un “bene” la
cui tutela è di interesse generale, e che espressamente prevede come fattispecie di reato, cui si collega una pena a
carico dell’autore dell’illecito.
La categoria dell’illecito amministrativo comprende tutti i comportamenti che violano norme poste a tutela di
quegli interessi di ordine generale, la cui soddisfazione è affidata alla Pubblica Amministrazione.
Nel campo del diritto privato, occorre distinguere tra una generale nozione di atto illecito, ed una più specifica
nozione di illecito civile.
Per qualificare un atto umano come atto illecito in senso ampio, bastano le condizioni già indicate: è contrario alla
legge un atto che viola una norma giuridica e che perciò stesso lede gli interessi (generali o particolari) da essa protetti.
In questo senso, è illecita la condotta di un genitore che viola il dovere di educare ed istruire i figli (art. 147), e che
perciò si espone a diverse sanzioni, tra le quali la decadenza dalla potestà (artt. 330-333), è illecita la condotta di un
coniuge che non osserva il dovere di fedeltà (art. 143), e al quale potrà, di conseguenza, essere addebitata un’eventuale
separazione (art. 151, comma 2o); è illecito il contratto che viola una norma inderogabile e che, proprio perciò, è nullo
(art. 1418).
Con il concetto di illecito civile ci riferiamo invece, più specificamente, ad un comportamento che
a) lede direttamente un interesse particolare protetto da una norma giuridica;
b) provoca, perciò, un pregiudizio per il soggetto leso.
L’illecito civile è fonte di responsabilità, e cioè dell’obbligo di risarcire il danno cagionato.
La responsabilità civile è però solo una delle “forme di tutela” apprestate dall’ordinamento giuridico per la
protezione degli interessi particolari.
Sempre maggiore importanza assume, in particolare, la c.d. tutela inibitoria (cioè l’ordine giudiziale di cessare
l’attività lesiva) che è prevista da diverse norme giuridiche (per esempio agli artt. 7, 10, 949, 2599) e di cui si discute se
possa essere considerata come un rimedio generale, applicabile anche nei casi in cui la legge non lo preveda
espressamente: qui, il presupposto è la violazione del diritto, cioè una condotta contraria ad una norma che protegge un
interesse privato: ma non è necessario che si sia prodotto un danno, perché la tutela ha anche funzione preventiva.
3. L’idea di “atto giuridico”.
Nel codice civile, la parola “atto” viene usata con significati diversi. Talora essa equivale a “comportamento, azione”
(ad es., nell’art. 2598 che definisce gli “atti di concorrenza sleale”) e si estende anche alle azioni illecite, come
nell’ampia nozione qui proposta sopra, al par. 1.
Il legislatore però impiega il termine “atto” in una accezione più “tecnica” e con un significato più ristretto; per
riferirsi ad uno specifico campo dell’attività giuridica, per il quale ritiene necessario stabilire particolari requisiti. In
questa accezione, atto giuridico è lo strumento con cui si esterna, e insieme si attua, una decisione circa la sorte dei
propri interessi; e in realtà, attraverso l’atto giuridico il privato può determinare la disciplina dei propri interessi nei
limiti segnati e secondo le regole predisposte dal legislatore: può cioè esercitare la propria auto-nomia, la possibilità
di regolare da sé i propri affari.
Tra questi atti, i principali – come il contratto, il testamento, il matrimonio, una procura – sono dichiarazioni o
manifestazioni della volontà di uno o più autori dell’atto: chi conclude un contratto dichiara o manifesta la volontà di
realizzare una certa operazione economica; chi fa testamento dichiara le proprie ultime volontà; gli sposi dichiarano la
volontà di prendersi reciprocamente in marito e in moglie, chi dà procura dichiara la volontà di nominare un
rappresentante, ecc.
Altri atti invece – come la confessione, il giuramento, il riconoscimento di figlio naturale – sono dichiarazioni di
conoscenza o di verità: chi confessa o giura non manifesta di volere qualcosa, ma asserisce che certi fatti si sono
verificati; chi riconosce un figlio asserisce di avere generato quella tale persona, ecc.
4. L’idea di autonomia privata.
Autonomia La nozione di “autonomia privata”è una parola molto usata nel linguaggio comune. È composta di due
parti: – nomia, che deriva da nomos, regola, norma, e quindi vuol dire regolazione, normazione; e auto –, che usiamo,
in molte espressioni di tutti i giorni, per indicare che un’attività o un modo di essere non è imposto o prodotto
dall’esterno.
Autonomia significa dunque dare regole a se stessi, farsi da sé le proprie regole.
Dire che gli atti giuridici sono atti di autonomia significa allora riconoscere che, con questi atti, i soggetti ottengono
il risultato di regolare da sé i propri interessi. L’espressione riassume tutto un modo di essere caratteristico del diritto
privato, quello appunto per cui l’ordinamento giuridico “sceglie” di far dipendere la disciplina di una gran parte di
interessi dalla decisione, cioè dalla volontà, degli stessi interessati.
L’ampiezza dell’autonomia privata dipende dal modo in cui, in un certo periodo storico, sono considerati gli
interessi che si tratta di regolare: come interessi privati, di cui le parti stesse possono liberamente disporre (interessi
“disponibili”) o invece come interessi che vanno garantiti anche contro la volontà delle parti (e sono perciò “non
disponibili”).
Per esempio, il fatto che nel nostro sistema sia riconosciuta l’autonomia nel testamento, significa che la sorte dei
beni dopo la morte del loro proprietario è considerata, in certi limiti, un interesse privato di quest’ultimo (suo “affare
privato”, insomma). Ma appunto, in certi limiti: perché, se chi fa testamento ha marito, o moglie, o figli, non è libero di
escluderli dall’eredità; essi hanno diritto a una quota minima del patrimonio del testatore, anche contro la sua volontà (e
qui finisce la sua auto-nomia).
Ancora, con riguardo al matrimonio, mentre la libertà di sposarsi, non sposarsi, scegliere lo sposo è un principio
fondamentale del nostro sistema, non è autonoma la determinazione degli effetti del matrimonio, che sono quelli, e solo
quelli, stabiliti dalla legge: perciò, per esempio, un patto con cui i coniugi escludono in via assoluta di coabitare, o di
avere rapporti sessuali, o di essersi fedeli, è senza alcun valore.
L’autonomia non è quasi mai, quindi, una soluzione pura, ma quasi sempre parziale e combinata con elementi più o
meno forti di eteronomia (regolazione dall’esterno, cioè imposizione).
Anche per questi atti, la legge stabilisce dei requisiti: basti leggere, per il più chiaro esempio, la regola dell’art. 1325
in tema di contratto, che vale come modello per la generalità degli atti giuridici
Nel modello del contratto, i requisiti sono: a) l’accordo delle parti, che presuppone due o più soggetti dotati di
capacità giuridica e di agire, la cui volontà sia correttamente formata e manifestata; b) un oggetto possibile, lecito,
determinato o determinabile; c) una causa – cioè una funzione economico-sociale – lecita; d) la forma prescritta dalla
legge (art. 1325).
.
Quando un atto di autonomia presenta tutti i requisiti, che la legge prevede come necessari perché quel tipo di atto
possa valere come fonte di auto-disciplina, noi diciamo che quell’atto è valido: ovvero, che è in sé idoneo a produrre i
suoi specifici effetti giuridici.
. Legittimazione
Ma non basta che l’atto sia valido ( cioè in sé dotato dei requisiti previsti. Perché gli effetti voluti si producano, è
necessario che chi compie l’atto sia legittimato a farlo; così, la giustificazione per l’assenza a scuola di un ragazzo
minorenne, firmata da un vicino di casa, non ha effetto, perché solo i genitori sono “legittimati”, essi soli hanno il
potere di incidere su quella determinata situazione giuridica.
Si chiama legittimazione il potere di compiere (efficacemente) un atto giuridico con riguardo a un determinato
rapporto.
La legittimazione deriva sempre da una situazione giuridica, che investe del potere di incidere su un determinato
rapporto: ad esempio, la proprietà della cosa comprende il potere di venderla; il titolare del credito ha il potere di
riscuoterlo e dare quietanza, eccetera.
Rappresentanza
Una fonte particolare di legittimazione è la rappresentanza, cioè il potere, conferito ad un soggetto (rappresentante)
di compiere atti giuridici che producano direttamente i loro effetti nei confronti di un altro soggetto (rappresentato o
dominus).
Secondo l’art. 1387, il potere di rappresentanza può essere: a) conferito dalla legge; b) conferito dall’interessato. Nel
primo caso si parla di rappresentanza legale; nel secondo di rappresentanza volontaria.
Ciascuno Rappresentanza volontaria. La procuradi noi può conferire ad un’altra persona il potere di rappresentanza.
L’atto, con cui il potere si conferisce, si chiama procura ed è regolato negli artt. 1387 e seguenti del codice.
La procura è un atto unilaterale, diretto ai terzi. Ciò significa che non si tratta di un accordo fra il rappresentante e il
rappresentato; l’accordo, tra i due, se c’è, dà origine ad un contratto (p. es. di mandato, di società, di lavoro) che
regolerà i rapporti tra le due parti (p. es., tra datore di lavoro-rappresentato e lavoratore-rappresentante, oppure tra socirappresentati e amministratore-rappresentante). Ma il contratto, come vedremo, non riguarda i terzi, gli estranei al
rapporto che esso regola: verso i terzi occorre “investire” il rappresentante del potere di agire in nome e per conto (cioè
nell’interesse) del rappresentato.
A ciò serve la procura, che è un atto unilaterale di attribuzione del potere di rappresentanza.
Il rappresentante però, anche come tale, ha dei doveri; anzi, un dovere essenziale: se usa la procura, deve
comportarsi in modo da fare l’interesse del rappresentato (come dice l’art. 1388). Ed infatti, il conflitto di interessi e il
contratto con se stesso sono casi di annullamento del contratto, che studieremo a suo tempo (cap. 22, par. 7 e cap. 23,
par. 6).
Talvolta, il sostituto ha soltanto il potere di trasmettere una dichiarazione dell’interessato (così, p. es., nel caso del
c.d. “matrimonio per procura” art. 111): si tratta allora di un messo, un “nuncio”; la volontà espressa è esclusivamente
volontà del rappresentato.
Il vero rappresentante, invece, non è solo un messo, ma è una persona che ha il potere di dare il suo consenso con
effetti per il rappresentato.
L’art. 1387 del Codice civile prevede che il potere di rappresentanza possa essere “conferito dalla legge”: a tali
ipotesi si riferisce il concetto di rappresentanza legale.
In realtà, l’attribuzione del potere è prevista dalla legge, ma deriva sempre da una fattispecie: è questa che, a voler
essere precisi, conferisce il potere.
Così, la rappresentanza legale dei genitori per i figli minori (art. 320) è basata sull’esistenza di un rapporto
giuridico di filiazione che implica la potestà sui figli (artt. 316, 317, 317 bis: v. il capitolo 6).
In altri casi poi, la rappresentanza è conferita, in situazioni previste dalla legge, da un provvedimento del giudice:
così per il tutore di un minore (quando mancano genitori esercenti la potestà), o di un interdetto; per l’amministratore
di sostegno con riferimento ad alcuni atti. Anche qui la rappresentanza è legale, perché il potere non è conferito
dall’interessato, ma d’autorità: però è necessario il provvedimento del giudice.
Va notato, ancora, che l’espressione rappresentanza legale non vuol dire soltanto che il potere non è attribuito
dall’interessato, ma anche che l’esercizio del potere non è sotto il controllo dell’interessato (il quale negli esempi fatti è
minore o incapace) ma si attua secondo norme particolari, dirette a proteggere l’interesse del rappresentato, e con il
controllo del giudice. Perciò la revoca del potere è legata alla violazione dei propri doveri o all’abuso di potere da
parte del rappresentante, ed è disposta dal Tribunale per i minorenni nel caso dei genitori, (artt. 330, 38 disp. att.) e dal
giudice tutelare nel caso del tutore (art. 383).
Dalla rappresentanza legale va distinta l’assistenza, che si ha quando la volontà di un soggetto diverso si affianca,
senza sostituirla, a quella dell’interessato: così nell’ipotesi del curatore dell’inabilitato o dell’amministratore di sostegno
(v. cap. 6, par. 8).
5. I SOGGETTI
1. L’idea di soggetto di diritto. – 2. La determinazione dei soggetti. Soggetto e persona.– 3. La capacità giuridica. – 4. 5 (Omessi) .6. La capacità di
agire. – 7. La posizione del minore. La potestà dei genitori. –
1. L’idea di soggetto di diritto.
Quando osserviamo la realtà sociale, ci troviamo di fronte ad una scena animata da diversi protagonisti: i singoli
individui, ciascuno con caratteristiche particolari di età, capacità, attitudini, ruoli; i gruppi – la famiglia, le associazioni,
le chiese, i partiti e i sindacati; le organizzazioni economiche; le istituzioni pubbliche. Sulla scena si svolgono e si
intrecciano molteplici vicende: bisogni e interessi di singoli e di gruppi, esigenze particolari e generali, iniziative e
attività si pongono in rapporto di conflitto o di sintonia.
L’ordinamento giuridico è un sistema di regole che ha lo scopo di dare un ordine a questa realtà. Regolando i
comportamenti, tende a realizzare una ragionevole composizione degli interessi in campo, e quindi a prevenire o
risolvere conflitti di interessi. È dunque ovvio che i molteplici e diversi protagonisti della scena sociale siano anche i
protagonisti della scena giuridica. Ma in che ruolo, e con quali caratteristiche?
Se guardiamo all’ordinamento giuridico come ad un insieme di prescrizioni, che stabiliscono come ci si debba o ci si
possa comportare nelle relazioni sociali, allora il ruolo di protagonista spetta ai destinatari delle prescrizioni : alle
persone i cui comportamenti sono regolati dalla legge
Se guardiamo all’ordinamento giuridico come ad un sistema di composizione dei conflitti d’interesse, il ruoo di
protagonista spetta ai titolari di interessi protetti: non solo chi deve o può fare questo o quello, ma per esempio il
bambino protetto dalla norma che impone un dovere ai suoi genitori; oppure l’associazione o la società in cui diverse
persone si raccolgono per perseguire interessi comuni.
.
Nel linguaggio dei giuristi, il protagonista delle relazioni e delle attività regolate dal diritto è sempre indicato come
«il soggetto»; ma si deve distinguere
a) il soggetto di diritti e obblighi, o, più tecnicamente, capo d’imputazione di situazioni e rapporti giuridici;
b) il soggetto di attività giuridica, o capo d’imputazione di atti (e fatti) giuridici.
2. La determinazione dei soggetti. Soggetto e «persona».
Ogni ordinamento giuridico individua i propri «soggetti»: stabilisce cioè chi possa avere diritti e obblighi
nell’ambito dell’ordinamento stesso; o per meglio dire, quali protagonisti della realtà sociale debbano essere presi in
considerazione come «centri di interessi» protetti dalle norme giuridiche, e quindi possano fungere da «centri di
riferimento» di rapporti giuridici.
La scelta può essere esplicita, cioè avvenire tramite un’espressa disposizione dell’ordinamento stesso. Per esempio,
il diritto canonico individua espressamente i propri «soggetti» nei battezzati (canone 87); l’ordinamento sportivo
individua i propri soggetti nei tesserati delle diverse associazioni e federazioni; l’ordinamento dell’ONU individua i
propri soggetti negli Stati aderenti al Trattato che ha istituito l’organizzazione, ecc.
In altri casi la scelta può essere implicita: in assenza di una regola espressa, i possibili soggetti si individuano in base
al modo in cui le comuni norme dell’ordinamento attribuiscono diritti e obblighi. Così avviene, ad esempio, nel diritto
internazionale, le cui regole fondamentali non sono scritte, ma nel quale si pensa che «soggetti» siano solo i «potentati»
internazionali, cioè gli Stati e altri enti «sovrani» come ad esempio l’Ordine di Malta.
Nel Libro I del Codice civile i protagonisti della scena giuridica sono indicati con il termine persona, che subito si
sdoppia in due «specie»: nel Titolo I (artt. 1-10) sono raccolte le norme che riguardano le persone fisiche; nel Titolo II
(artt. 11 e ss.) le norme che riguardano le persone giuridiche. La prima espressione indica gli esseri umani, la seconda
una varietà di centri di interesse diversi dall’uomo singolo: enti pubblici, associazioni, società – insomma, collettività e
organizzazioni in genere.
Per quanto riguarda le persone fisiche il legislatore usa, per indicare la qualità di soggetto, l’espressione «capacità
giuridica». All’art. 1 stabilisce infatti che «la capacità giuridica si acquista con la nascita»; il significato
dell’espressione, in uso del resto da tre secoli nel linguaggio dei giuristi, risulta anche dal secondo comma dell’articolo:
è l’attitudine a essere titolari di diritti e obblighi, dunque la stessa qualità di soggetto di diritto.
Alle sole persone fisiche è pure dedicato l’art. 2, che disciplina la capacità d’agire, cioè l’attitudine a compiere
validamente atti giuridici che producano effetti per l’agente: la persona fisica viene considerata, qui, come soggetto di
attività giuridica.
Per quanto riguarda le persone giuridiche, la legge si limita a stabilire in qual modo gruppi e organizzazioni
acquistano la «personalità giuridica» ; ma è chiaro che, nell’idea del legislatore, questa qualità non è altro che la
situazione di quegli «enti diversi dall’uomo» che «godono dei diritti» (art. 11) come se fossero persone.
3. La capacità giuridica.
L’art. Nozione e valore della capacità giuridica1 del Codice civile, al primo comma, enuncia il principio per cui «la
capacità giuridica si acquista con la nascita».
Il legislatore non ha sentito il bisogno di definire «capacità giuridica», perché il termine è in uso da quasi tre secoli
nel linguaggio dei giuristi. L’espressione compare nella letteratura giuridica alla fine del ’600; all’origine, essa
riassumeva le tre posizioni fondamentali che la persona poteva rivestire nel mondo del diritto: cittadinanza, libertà,
famiglia (status civitatis, libertatis, familiae).
L’idea di capacità giuridica indicava così il modo in cui un uomo è considerato dal diritto: e perciò, quando con le
grandi rivoluzioni si afferma il principio di eguaglianza davanti alla legge, l’idea che tutti siano capaci di diritto fin
dalla nascita e senza distinzioni, assume valore di principio fondamentale. Tutti, si dice, sono egualmente capaci di
diritto, cioè protagonisti, su basi eguali, della scena giuridica.
Viene da quel tempo il collegamento, di cui troviamo traccia nei nostri testi legislativi, tra l’affermazione dei diritti
inviolabili dell’uomo (v. ora art. 2 Cost.) e l’attribuzione della capacità di essere titolare di diritti ad ogni uomo, fin dal
momento della nascita (art. 1). La stessa capacità giuridica diviene così una prerogativa costituzionale dell’individuo:
l’art. 22 Cost. dice che «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica».
Per molto tempo, nel definire la capacità, l’accento è stato posto sull’attitudine ad avere diritti. Questo significato
dell’espressione traspare ancora, direttamente, dal secondo comma dell’art. 1, che volendo disciplinare la posizione del
nascituro così si esprime: «I diritti che la legge riconosce a favore del concepito...».
Una volta maturata un’idea più «tecnica» di soggetti di diritto, la definizione si completa: capacità giuridica è
l’attitudine ad essere titolare di diritti e obblighi, ovvero di rapporti giuridici.
La funzione di una regola come quella dell’art. 1 può sembrare, oggi, scontata e di scarso valore pratico. Siamo
abituati a pensare che qualsiasi uomo abbia dei diritti. Ma non sempre è stato così. In altri periodi storici – fino al secolo
scorso fuori d’Italia – un uomo, se schiavo, poteva essere comprato e venduto, e considerato non come una persona, ma
come una cosa, che non ha diritti. In passato, anche l’ergastolo era considerato come una «morte civile»: il condannato
a vita era «morto» alla vita sociale e giuridica, perdeva cioè ogni diritto.
Lo straniero
Degna di nota oggi è la particolare situazione dello straniero extracomunitario. Il criterio tradizionale è quello
espresso nell’art. 16 disp. prel., il quale dispone che «Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al
cittadino a condizione di reciprocità (...)», cioè in tanto in quanto l’ordinamento dello Stato cui il soggetto appartiene
riconosca eguale posizione ai cittadini italiani. Peraltro, i fortissimi flussi migratori degli ultimi anni e la disastrosa
condizione umana di questi profughi hanno indotto il legislatore a riconoscere senz’altro i diritti civili a tutti gli stranieri
regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato (art. 2 d. lgs. 25.7.1998 n. 286); la condizione di reciprocità vale
quindi ormai solo nei casi di mancanza del permesso di soggiorno.
L’espressione «diritti civili» si considera equivalente a «diritti nascenti da rapporti di diritto privato». Lo straniero
non gode dunque dei diritti politici in senso stretto (elettorato attivo e passivo). Sono poi preclusi allo straniero molti
impieghi pubblici. Per converso, la condizione di reciprocità non vale per il godimento dei diritti inviolabili e delle
libertà che la Costituzione garantisce a ogni uomo (cfr. artt. 2, 19, 21 e ss., 24 e ss., 32 cpv.).
Posizione del nascituro
Circa i «diritti che la legge riconosce» al nascituro, sono da distinguere due aspetti.
Nell’ambito patrimoniale, tutto si risolve nella capacità di succedere per successione legittima o per testamento (art.
462, comma 1o) e di ricevere una donazione (art. 784). Per testamento può ricevere anche il non-concepito, purché
figlio di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore (art. 462, comma 2o); un criterio parallelo
vale per la donazione (art. 784, comma 1o). Queste attribuzioni, però, sono subordinate alla nascita: in caso di mancata
nascita, si considerano come mai avvenute; se invece la nascita si verifica, diventano definitive.
Nell’ambito non patrimoniale, si discute molto se ci siano diritti «personali» del nascituro concepito.
A parte la disciplina dell’interruzione di gravidanza (l. n. 194/1978), che implica, in qualche misura, la protezione
della vita del nascituro (art. 1), in caso di conflitto tra la vita del feto e la salute della madre (cfr. artt. 4, 5, 6) si discute
del diritto al risarcimento del danno per lesione dell’integrità fisica subita durante la gravidanza (p. es. in un incidente
stradale) o addirittura con la procreazione (trasmissione di malattia ereditaria, o malformazioni dovute a procreazione
da parte di soggetti che avevano assunto farmaci o droga: c.d. danno da wrongful life).
Inoltre, la possibilità di intervenire con trattamenti medici e anche chirurgici durante la gravidanza, per prevenire o
curare malattie del feto (terapia prenatale), pone problemi di disciplina del consenso al trattamento medico e della
responsabilità del professionista: al riguardo, è concorde l’opinione che il feto debba essere trattato come un paziente,
rappresentato naturalmente dai genitori.
Problemi più precoci o di meno univoca soluzione si presentano con riguardo alle nuove tecniche di formazione
dell’embrione in vitro, sia a fini di fecondazione artificiale, sia a fini di ricerca. In ambito europeo, si è avvertita
dovunque l’esigenza di una specifica disciplina legislativa, che è stata via via emanata in Spagna (1988), Inghilterra
(1990), Germania (1990) e Francia (1992), anche se con orientamenti differenziati: più severe le leggi spagnola e
tedesca, più liberale la legge inglese.
In Italia, la legge 19.2.2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) contiene diverse
misure di protezione dell’embrione. Anzitutto, essa vieta in modo assoluto la sperimentazione sull’embrione umano e
consente la ricerca clinica e sperimentale solo per finalità di diagnosi e terapia che siano dirette a vantaggio
dell’embrione stesso (art. 13); si vietano poi la formazione di embrioni ad ogni fine diverso da quello della procreazione
assistita ed ogni forma di selezione a fini eugenetici, di alterazione del patrimonio genetico, di clonazione o di
produzione di ibridi e chimere combinando DNA umano e non umano. È anche vietata, come meglio diremo, la
crioconservazione (congelamento) e successiva soppressione di embrioni umani. Si configurano così dei veri diritti
dell’embrione che la legge, all’art. 1, tutela nel loro insieme, accennando ad una soggettività dell’embrione (con
l’espressione «soggetti coinvolti» nella procreazione assistita): naturalmente questa soggettività sussiste in relazione ai
particolari diritti riconosciuti all’embrione (e poi al feto, secondo il principio già presente nella legge sull’interruzione
di gravidanza) non invece come capacità giuridica ex art. 1 cod. civ.
Nascita e morte
L’art. 1 del codice civile collega la soggettività della persona alla nascita. La prova della nascita viene fatta
coincidere tradizionalmente con la prova dell’autonoma respirazione, non importando se il soggetto sia vitale; ma il
criterio è in tensione, man mano che anche per la sopravvivenza dei neonati si afferma l’impiego di strumenti di
rianimazione.
Per quanto riguarda la fine della vita umana, il nostro legislatore aveva, in passato, evitato di enunciare una
definizione di morte. La legge faceva implicito rinvio alla pratica medica; nella generalità dei casi, valeva perciò una
nozione semplice di morte, legata alla cessazione irreversibile del battito cardiaco e della respirazione: al medico era
rimesso, in tal senso, l’accertamento della morte (art. 141 della legge sull’ordinamento dello stato civile).
Questa disciplina era però inadeguata rispetto ai problemi nascenti dalle tecniche di rianimazione e di
«sopravvivenza assistita», e dalle pratiche di prelievo d’organi da cadavere a fini di trapianto.
La materia è ora disciplinata dalla L. 29 dicembre 1993, n. 578 («Norme per l’accertamento e la certificazione della
morte») che ha enunciato una definizione unitaria di morte, valida in tutti i casi, secondo la quale «la morte si identifica
con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo» (cosiddetta «morte cerebrale»).
Quest’unico evento si accerta però in modi diversi e cioè:
a) nei modi tradizionali e cioè con il rilievo empirico della cessazione del battito cardiaco e della respirazione, e con
la cautela di un periodo di osservazione di 24 ore (art. 4 della legge citata);
b) in modi rigidamente disciplinati di accertamento precoce che sono di due tipi:
b1) la morte «per arresto cardiaco» si intende avvenuta quando la respirazione e la circolazione sono cessate per
un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo» (art. 2, comma 1o,
della legge citata); un decreto del Ministro per la Sanità precisa i modi tecnici di questo accertamento
(elettrocardiogramma piatto protratto per almeno 20 minuti).
b2) nel caso di soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a rianimazione, la cessazione irreversibile delle
funzioni dell’encefalo si accerta rilevando, per un periodo di osservazione non inferiore a sei ore, una serie di
«condizioni» (stato di incoscienza, assenza di riflessi del tronco cerebrale e di respiro spontaneo, silenzio elettrico
cerebrale) la cui simultanea presenza determina il momento della morte (art. 4 della legge citata); anche qui, le modalità
tecniche sono definite per decreto, in modo da permettere un adeguamento allo sviluppo dei criteri scientifici; in
particolare periodi di osservazione più lunghi sono previsti per i bambini al di sotto dei cinque anni.
6. La capacità d’agire.
Nell’art. 2 la parola «capacità» riappare nell’espressione «capacità d’agire». Anche questa volta, manca una
definizione diretta; ma la formula è più trasparente: l’articolo dispone che «con la maggiore età si acquista la capacità
di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa».
La capacità d’agire è dunque l’attitudine a compiere atti giuridici; essa si acquista, per la generalità degli atti, al
compimento del 18o anno di età (maggiore età).
La norma dell’art. 2 risponde ad un’esigenza non difficile da capire. L’esercizio dell’autonomia presuppone la
capacità di provvedere ai propri interessi. Se però la verifica di questa capacità dovesse avvenire caso per caso, si
porrebbe, per chiunque partecipa al «traffico giuridico», il problema spesso insolubile di valutare se il proprio partner
sia o non sia, in concreto, capace di badare ai propri interessi; e la questione sarebbe fonte di incertezze e litigiosità. La
legge allora adotta un criterio standard, e dice: considero in grado di provvedere ai propri interessi, e quindi di
partecipare all’attività giuridica, tutti quelli che hanno raggiunto i 18 anni d’età.
Il sistema deve, naturalmente, avere un correttivo, perché ci sono molte cause che possono influire sulla capacità
reale di provvedere ai propri interessi da parte di una persona maggiorenne: l’età, la malattia, le condizioni psichiche,
ecc. Nel nostro ordinamento, i correttivi sono di due ordini:
a) si prevedono ipotesi, in cui la capacità di agire può essere perduta o limitata (interdizione, inabilitazione,
amministrazione di sostegno);
b) si attribuisce una limitata rilevanza alla concreta incapacità di intendere o di volere del soggetto capace di
agire.
Una persona può essere totalmente privata della capacità di agire per effetto di un provvedimento del giudice (anche
se il giudice può riconoscerle la capacità per taluni atti): si tratta della sentenza di interdizione, che presuppone
un’abituale infermità di mente di gravità tale da rendere la persona incapace di provvedere ai propri interessi (art. 414:
interdizione giudiziale). Può invece trovarsi privata della capacità di agire per gli atti patrimoniali tra vivi per effetto di
una condanna penale (all’ergastolo o a una reclusione superiore ai cinque anni) che la pone automaticamente in istato di
interdizione legale (art. 32 cod. pen.). In entrambi i casi, la persona divenuta incapace non può compiere validamente
atti giuridici con riguardo ai propri interessi; essa è sostituita nell’attività giuridica patrimoniale attraverso la
rappresentanza legale attribuita al tutore .
La perdita della capacità a seguito dell’interdizione è totale: l’interdetto è incapace di compiere validamente
qualsiasi atto patrimoniale, anche di piccola entità; non può fare testamento; non può sposarsi; non può riconoscere un
figlio naturale. Tuttavia, il giudice può stabilire che l’interdetto conservi la capacità con riguardo a taluni atti di
ordinaria amministrazione (v. più avanti in questo stesso paragrafo).
Inoltre, la donna interdetta può richiedere personalmente l’interruzione della gravidanza a norma dell’art. 13 l. n.
194/1978 (dovrà essere sentito, in tal caso, il parere del tutore).
Una situazione di limitata capacità d’agire deriva invece dalla sentenza di inabilitazione, fondata su una infermità
di mente meno grave, o su altri presupposti di cui oltre diremo (par. 8): l’inabilitato può partecipare all’attività giuridica,
ma, per determinati atti, dev’essere affiancato (assistito) da un curatore.
Un recente ed importante intervento legislativo, la legge 9.1.2004, n. 6, , oltre ad apportare numerose modifiche alle
disposizioni che concernono l’interdizione e l’inabilitazione, introduce nel libro primo del codice civile (titolo XII, capo
I) la figura dell’amministratore di sostegno. Si tratta di una riforma che mira a tutelare i c.d. soggetti deboli (cioè, come
vedremo, le persone «prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana»),
attuando interventi di sostegno temporaneo o permanente, con la «minore limitazione possibile della capacità di agire»
(art. 1 della legge), e che, in prospettiva, è destinata a confinare i due strumenti tradizionali in un ruolo marginale.
Il provvedimento è graduabile sul caso concreto, in quanto spetta al giudice di valutare se e per quali atto debba
essere limitata la capacità dell’interessato e stabilito un potere di rappresentanza dell’amministratore. La nomina può
avvenire anche su richiesta dello stesso interessato, in previsione di una incapacità futura
È da sottolineare subito che, quando sussiste un’incapacità legale, la concreta capacità di provvedere ai propri
interessi da parte dell’incapace non è di regola rilevante ai fini di una sua valida attività negoziale: il soggetto è escluso
dall’attività giuridica, e tanto basta per rendere annullabili gli atti di autonomia da lui compiuti in nome e per conto
proprio (v. però quanto si dirà riguardo al minore nel par. 7).
L’eventuale capacità di fatto dell’incapace legale è rilevante nel caso di attività negoziale da lui svolta in nome
altrui: infatti con la procura un soggetto capace di agire può attribuire il potere di rappresentanza anche a un incapace
legale, purché questi abbia la capacità di intendere e di volere commisurata alla natura dell’atto da compiere (art.
1389).
Rilevanza dell’incapacità di fatto
Il secondo correttivo cui si accennava è questo: ferma restando – sulla base dell’indicata valutazione standard circa
l’idoneità a curare i propri interessi – la capacità legale d’agire, si attribuisce limitata rilevanza all’incapacità naturale
o di fatto. A norma dell’art. 428, è causa d’annullamento degli atti giuridici l’incapacità di intendere o di volere (cioè
di capire natura e contenuto dell’atto e di decidere autonomamente) che sussista, per qualsiasi causa anche transitoria
(assunzione di alcool o stupefacenti, stati di infermità mentale, malattia debilitante, stati confusionali, ecc.), al momento
in cui l’atto è compiuto. L’incapacità non è però causa sufficiente: occorre che l’atto sia gravemente pregiudizievole per
l’incapace; se si tratta di un contratto, occorre invece la malafede dell’altra parte (v. meglio cap. 22).
La nozione di incapacità di intendere o volere è stata intesa per molto tempo in modo restrittivo – come
«obnubilamento totale» – proprio perché il problema dell’idoneità a curare i propri interessi è risolto con criteri
standard di cui si è detto. Solo di recente si è affermata un’interpretazione più larga, che ritiene sussistere l’incapacità
naturale quando esista una menomazione tale da impedire un serio controllo del comportamento e una cosciente
volontà.
Il quadro così descritto riguarda la capacità di compiere atti giuridici e più precisamente atti di autonomia. Diverso il
discorso riguardo agli atti illeciti e ancor più riguardo ai meri atti materiali.
L’imputabilità degli atti illeciti
Per gli atti illeciti, il criterio per riferire l’atto al soggetto, così da accollargliene la responsabilità (imputabilità) è la
pura capacità di intendere e di volere sussistente nel momento in cui l’atto è compiuto (art. 2046). Essa può riscontrarsi
ovviamente nel minore o nell’interdetto legale, ma anche nell’interdetto giudiziale: non è detto infatti che l’infermità di
mente, pur «abituale» implichi una continua e ininterrotta incapacità di intendere o di volere.
Infine, nessun requisito di capacità rileverà in quei casi in cui il comportamento di una persona viene in rilievo come
puro fatto materiale: così, il ritrovamento casuale di una cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può
provare di essere proprietario (art. 932), fa acquistare la proprietà a chi fa la scoperta, anche se privo di capacità di
intendere e volere.
7. La posizione del minore. La potestà dei genitori.
La maggiore età determina, come si è detto, l’acquisto della capacità di compiere tutti gli atti per i quali non è
stabilita un’età diversa (art. 2). Parrebbe dunque che la posizione del minore sia quella di un soggetto del tutto privo –
salvo eccezioni espressamente previste – di capacità di agire. In realtà, il discorso è più complesso.
La Potestà dei genitoriposizione del minore è anzitutto quella definita dall’art. 316 cod. civ.: il figlio, sino all’età
maggiore, è soggetto alla potestà dei genitori. Le nozioni di potestà e soggezione sono già state definite (sopra, cap. 4,
par. 7). Vediamo ora di precisarne alcuni aspetti.
La potestà dei genitori comprende:
a) un complesso di prerogative che riguardano la cura della persona del figlio: si tratta del diritto-dovere di
mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.), tenendo conto – precisa l’art. 147 – delle loro capacità,
dell’inclinazione naturale, delle aspirazioni (cioè del valore della personalità dei figli);
b) un potere-dovere di amministrazione dei beni di cui i figli minori siano titolari (art. 320);
c) un potere di rappresentanza legale, per il quale i genitori sostituiscono il figlio nel compimento di «tutti gli atti
civili» (art. 320);
d) l’usufrutto legale sui beni del figlio, che consente ai genitori di percepirne i frutti, i quali sono però destinati al
mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli (anche diversi dal titolare dei beni).
La potestà si esercita di comune accordo tra i genitori (art. 316); in caso di disaccordo, una decisione provvisoria può
essere presa, in caso di urgenza, dal padre. Ma per risolvere il conflitto tra i genitori, è previsto che ciascuno di essi
possa ricorrere al Tribunale per i minorenni. Il giudice cerca di raggiungere una soluzione concordata; se non riesce,
non può assumere la decisione al posto dei genitori: può tuttavia affidare il potere di decidere, per la questione concreta,
a quello dei due che gli sembri più idoneo a curare l’interesse del figlio (art. 316, ult. comma).
Regole particolari vigono per l’esercizio della potestà sui figli naturali, e sui figli di genitori separati o divorziati .
La potestà si perde nell’ipotesi di decadenza, cioè per effetto di una sentenza del Tribunale per i minorenni in caso
di violazione di doveri o di abuso di poteri da parte del genitore, che rechi grave pregiudizio al figlio (art. 330). Se la
condotta dei genitori, pur pregiudizievole al figlio, non è così grave da giustificare la decadenza dalla potestà, il giudice
«può adottare i provvedimenti convenienti» – anche ordinando ai genitori un tipo di condotta – ed eventualmente
allontanare il figlio dalla casa familiare (art. 333).
Se entrambi i genitori muoiono, o decadono dalla potestà, il minore è soggetto a tutela.
I poteri del tutore sono simili a quelli dei genitori: egli ha la «cura della persona» del minore (cioè può e deve
provvedere all’educazione e all’istruzione del minore, e vigilare sulla sua condotta) provvede all’amministrazione dei
beni del minore e ne ha la rappresentanza legale. È però soggetto a più intenso controllo da parte del giudice tutelare (v.
gli artt. 371, comma 1o, 384) e del Tribunale, la cui autorizzazione, su parere del giudice tutelare, è necessaria per gli
atti di disposizione elencati nell’art. 375, e per la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa (art. 371, comma 2o). In caso
di cattiva amministrazione, o di abuso di potere, è prevista la revoca dall’ufficio (art. 384).
Il potere di indirizzare il comportamento del minore, e di decidere riguardo ai suoi interessi (la salute, la scuola, la
pratica religiosa, le amicizie, ecc.) ha però un’estensione sempre minore, e soprattutto modi di esercizio sempre meno
gerarchici, man mano che il minore cresce e acquista una capacità di valutazione autonoma e quindi di uso delle proprie
libertà (di pensiero, di scelta religiosa, ecc). Questo graduale acquisto di libertà da parte del minore si riflette anche
all’esterno, cioè sulla sua capacità di compiere atti giuridici (per esempio: iscriversi a un’associazione, chiedere o
permettere un intervento medico, dare o negare il consenso alla riproduzione dell’immagine).
Importanti aspetti di capacità si riscontrano per la donna minore nella disciplina dell’interruzione di gravidanza (l.
25 maggio 1978, n. 194).
Infatti, la richiesta di interruzione della gravidanza deve provenire dalla stessa minore. Occorre bensì l’assenso di
chi esercita la patria potestà o la tutela. Ma nei primi novanta giorni, per seri motivi, il difetto di assenso può essere
superato con un provvedimento del giudice tutelare che autorizza l’interruzione della gravidanza (art. 12) o, in caso di
urgenza, con la sola certificazione del medico. Dopo i primi novanta giorni (quando l’aborto richiede uno stato di
necessità) la minore dei diciotto anni è in tutto parificata alla donna maggiorenne.
La Convenzione di Strasburgo (Convenzione europea per l’esercizio dei diritti dei minori) del 1996, ratificata
dall’Italia nel 2003, accentua l’autonoma persona del minore, la sua presenza come soggetto nei procedimenti che lo
interessano, il rilievo della «capacità di discernimento» (artt. 3, 4, 6, 10) via via acquisita dal minore nel corso della
crescita (nel suo testo originale, la convenzione evita persino l’uso del termine «minore» per sottolinearne gli aspetti di
capacità).
6. I DIRITTI DELLA PERSONA
1. Personalità e diritti inviolabili. – 2. Vita, integrità fisica e salute. – 3. Autodeterminazione, gestione del proprio corpo, libertà fondamentali. – 4.
Dignità e integrità morale. – 5. La tutela dell’identità. – 6. Diritto alla vita privata e alla riservatezza. – 7. Lesione della personalità e mezzi di tutela
(cenni).
1. Personalità e diritti inviolabili.
Il tema dei diritti della persona è stato considerato per molto tempo come una questione ai margini del diritto
privato, concepito essenzialmente come il diritto dei rapporti economici. Questa tendenza si riflette ancora nel Codice
civile del 1942 che, tolta la disciplina dei rapporti familiari, colloca nel Titolo «Delle persone fisiche» solo poche norme
relative al diritto al nome (artt. 6-9) al diritto all’immagine (art. 10) e alla disciplina degli «atti di disposizione del
proprio corpo» (art. 5).
Negli ultimi decenni, però, si è avvertita in modo sempre più intenso l’esigenza di proteggere interessi di carattere
strettamente personale – la dignità, la vita privata, la salute – non solo nei rapporti tra il cittadino e lo Stato, ma anche
nei rapporti tra privato e privato.
I Fonti normativegiudici e gli studiosi del diritto privato si sono trovati a dover soddisfare una «domanda» di tutela
sempre crescente, avendo a disposizione un materiale normativo ampio, ma non organico: da una parte, la
Costituzione, che tutela ampiamente la personalità individuale (art. 2) e la dignità di ogni cittadino (art. 3) e sancisce la
gamma dei diritti e delle libertà fondamentali e (artt. 4, 13-24, 30-34, 41, 42 comma 2o); ancora, la Convenzione
Europea dei diritti dell’uomo del 1950, diventata diritto vigente in Italia con la ratifica del 1955 e alla quale fa rinvio
il Trattato di Amsterdam (art. 6, comma 2o); la recente Convenzione sui Diritti dell’uomo e la biomedicina (Oviedo,
1997 ratificata dall’Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145) promossa dal Consiglio d’Europa; dall’altra parte, i pochi
articoli del Codice civile, che abbiamo elencato; le norme penali di tutela dell’integrità fisica, dell’onore, del segreto
della corrispondenza; alcune importanti leggi speciali che tra breve indicheremo.
La L’art. 2 Cost.norma dell’art. 2 Cost. contiene il fondamento di tutti i rapporti tra la persona, i gruppi sociali e lo
Stato: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità (...)».
Il significato della norma è complesso, e male si presta a essere riassunto in poche righe; ma in estrema sintesi:
a) l’art. 2 stabilisce una correlazione tra il valore della personalità individuale e la gamma dei diritti inviolabili
dell’uomo: lo strumento e il criterio con cui si protegge la personalità è la garanzia dei diritti fondamentali;
b) i diritti inviolabili sono garantiti non solo guardando all’uomo «come singolo» ma anche «nelle formazioni
sociali», cioè all’interno dei gruppi che si creano nella realtà della vita sociale: come la famiglia, le associazioni, le
confessioni religiose, ecc.; in questi gruppi dunque, prima e oltre che nella cornice dello Stato, la Costituzione riconosce
i «luoghi» in cui si realizza il valore della persona.
Si riconosce perciò nell’art. 2 della Costituzione la base normativa di un’ampia gamma di diritti che hanno in
comune la funzione di garantire lo svolgimento della personalità: i «diritti della personalità».
Va ricordato che, mentre è indiscussa la relazione dell’art. 2 con le libertà e i diritti regolati nel Titolo dedicato ai
«rapporti civili» (artt. 13 e ss.) e in quello relativo ai «rapporti etico-sociali» (artt. 29 e ss.) più controverso è il
collegamento con i principi costituzionali in materia di rapporti economici (artt. 35 e ss.). Qui, la personalità potrebbe
venire in gioco come fondamento per la tutela del lavoro (artt. 35 e ss.), dell’iniziativa privata (art. 41) e della proprietà
(art. 42): tutte espressioni costanti dello «svolgimento» della personalità umana. Ma il nostro Costituente non ha
qualificato la proprietà come diritto fondamentale dell’uomo, cioè imprescindibile per la tutela della persona; mentre il
lavoro si collega più strettamente ad esigenze di tutela della dignità e della libertà (art. 36).
Alla luce del principio costituzionale, consideriamo ora i singoli diritti, nei quali si concreta la tutela della
personalità individuale.
2. Vita, integrità fisica e salute.
L’elementare diritto alla vita non è neppure menzionato dalla nostra Costituzione, che l’ha ritenuto troppo ovvio
per dover essere espressamente proclamato. Nella legge ordinaria il bene della vita ha sempre trovato protezione nelle
norme penali che sanzionano i «delitti contro la vita e l’incolumità individuale» (artt. 575 e ss.); come sempre è stata
ritenuta «danno ingiusto» per eccellenza la lesione del diritto alla vita. Nell’affrontare il problema dell’aborto, la Corte
costituzionale ha fondato la tutela della vita umana sull’art. 2 Cost. (sentenza n. 27/1975); e il legislatore ha enunciato
per la prima volta espressamente il principio secondo cui «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio» (art. 1, l. n.
194/1978), principio che giustifica i limiti – più sensibili dopo i primi novanta giorni – imposti all’interruzione di
gravidanza.
La lesione dell’integrità fisica – prevista in varie norme penali come fattispecie di reato – è sempre stata
considerata «danno ingiusto» e quindi fondamento di responsabilità civile (art. 2043). Ma l’integrità fisica è un «bene»
che la legge considera in certi limiti indisponibile. L’art. 5 del Codice civile vieta gli atti di disposizione del proprio
corpo quando ne consegua una diminuzione permanente dell’integrità, o che siano comunque contrari alla legge (p. es.
una sperimentazione medica non autorizzata o pratiche abortive fuori dai casi consentiti) all’ordine pubblico (schiavitù)
o al buon costume (offesa al pudore).
I limiti dell’art. 5 sono espressamente derogati dalle leggi che consentono i trapianti di organi tra viventi (l.
26.6.1967, n. 458 sul trapianto di rene; l. 16.12.1999, n. 483 sul trapianto parziale di fegato; l. 4.5.1990, n. 107 sui
prelievi di cellule staminali e midollari; l. 6.3.2001, n. 52 sulle donazioni di midollo osseo). Ma più ampiamente occorre
tener presente che il divieto limita una generale libertà di disporre di sé che né è il contenuto normativo implicito (v.
par. seguente).
Il diritto alla salute è protetto da norme di carattere pubblicistico che riguardano la sanità pubblica, l’igiene,
l’ambiente. Dal punto di vista privatistico, trova protezione in diversi rapporti contrattuali (rapporto di lavoro, di
locazione). È poi riconosciuto da una ricca giurisprudenza come un diritto soggettivo assoluto (erga omnes), sulla base
dell’art. 32 Cost. e tutelato quindi con il risarcimento del danno (v. il cap. 30 in tema di danno biologico). Compare
infine come diritto «fondamentale» dei consumatori e utenti nell’art. 1 della l. 30.7.1998, n. 281 (v. avanti).
3. Autodeterminazione, gestione del proprio corpo, libertà fondamentali.
Il diritto di decidere in merito alla propria sorte – di scegliere ciò che per sé stessi sia bene o male – non è
menzionato, tradizionalmente, tra i diritti della personalità, perché compare in tutti quanti come un aspetto essenziale:
quello della disponibilità di ciascun interesse protetto.
Esso assume però il carattere di uno specifico diritto della personalità con riferimento alla gestione del proprio
corpo Il corpo fa parte, nel linguaggio tradizionale, del regno degli oggetti di diritto: ma non è sempre un oggetto
disponibile. La legge si preoccupa, anzitutto, di vietare quegli atti di disposizione da cui derivi una lesione permanente,
o che siano contrari all’ordine pubblico e al buon costume (art. 5 cod. civ.).
Tradizionalmente, si dice che il soggetto è «proprietario» delle parti staccate dal «proprio» corpo: così, si possono
vendere i propri capelli al fabbricante di parrucche. La l. 4 maggio 1990, n. 107, che ha abrogato la l. n. 592/67, vieta la
cessione del proprio sangue a fini di lucro che un tempo era consentita ai «datori professionali» (artt. 1, n. 4 e 17, n. 3)
ma ne ammette di regola la «donazione».
Nei trapianti tra vivi (v. ad es. la l. 26 giugno 1967, n. 458, sul trapianto di rene tra persone viventi e la l.
16.12.1999, n. 483, sul trapianto parziale di fegato) si fa «dono» di un tessuto o di un organo, «cosa» di cui si dispone –
perché «propria»? – ma non commerciabile.
Anche il cadavere è per certi aspetti una «cosa», di cui però non si può disporre se non nei modi stabiliti dalla legge
e per fini pubblici; fuori dai casi previsti, al corpo morto dell’uomo è riconosciuta una dignità e riservata una protezione
che induce a negare la sua natura di «cosa», e a considerarlo come un aspetto della personalità individuale del soggetto
defunto, che riceve una protezione «postuma». Sul cadavere si prolunga però il potere di disporre sul proprio corpo,
attraverso la dichiarazione di volontà relativa al prelievo di organi e tessuti (l. 1.4.1999, n. 91: v. meglio avanti, cap. 9,
par. 3).
Sul versante opposto della vita umana, si discute la natura dell’embrione formato in vitro (altro è il discorso
sull’embrione formato in utero, che ha la condizione del concepito) (v. cap. 6). E almeno su un punto tutti sono
d’accordo, che l’embrione – sia o non sia qualificabile come «uomo» – non è una cosa: non appartiene al regno degli
oggetti del diritto.
Nel corpo, poi, è scritto il DNA di ciascuno di noi: e per questo aspetto, ogni parte del corpo, anche separata, è la
sede dell’identità genetica.
Una «dazione» del corpo si ravvisava tradizionalmente nel matrimonio, concepito anticamente come un atto che
creava in ciascun coniuge un diritto sul corpo dell’altro (servitù d’amore, diceva ironicamente Filippo Vassalli).
Ancora, la libertà sessuale – che è tutelata contro le molestie o le violenze altrui e che non è riconosciuta al di sotto dei
quattordici anni – è un esempio di autodeterminazione.
Ma è con riferimento alle questioni bioetiche che questo diritto assume sempre maggiore consistenza. La necessità
del consenso al trattamento medico da parte del paziente, purché capace di fatto, e il diritto di rifiutare le cure, si
fondano, per giurisprudenza ormai consolidata, sul principio della autodeterminazione, che viene affermato con
sempre maggiore forza fino a ipotizzare un diritto a rifiutare le cure e lasciarsi morire (ipotesi da non confondere con
l’eutanasia, dare la morte a chi la chiede). Le basi normative sono l’art. 2 e l’art. 13 della Costituzione, che garantisce
l’inviolabilità della libertà personale, e che trova riscontro nell’art. 32, comma 2o, Cost., secondo cui nessuno può
essere obbligato a trattamento sanitario fuori dai casi previsti dalla legge, e salvo comunque il rispetto dovuto alla
persona umana. Inoltre va ancora richiamato, per la libertà che implica, lo stesso art. 5 del Codice civile.
Una particolare applicazione di questi principi si osserva nella disciplina dei prelievi e trapianti di organi e tessuti da
cadavere (l. 1o.4.1999, n. 91). Tutti i cittadini (è un onere proprio dello status di cittadinanza) a seguito a formale
richiesta del Ministero della Sanità, sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e
tessuti del proprio corpo successivamente alla morte (art. 4, comma 1o): la mancata dichiarazione – se la richiesta è stata
regolarmente notificata – è considerata assenso alla donazione (silenzio-assenso).
Al di là di questo ambito più elementare, l’autodeterminazione si articola nelle libertà fondamentali: dalla libertà
personale, alla libertà di circolazione, alla libertà di riunione, di associazione, di fede religiosa, di manifestazione del
pensiero (artt. 13-21 Cost.). Questo campo più ampio, che può sembrare schiettamente pubblicistico, pone problemi di
tutela nei rapporti tra privati. Nel rapporto di lavoro, ad esempio, lo Statuto dei lavoratori (art. 1) garantisce la libertà di
manifestare liberamente il proprio pensiero sotto il profilo politico, sindacale, religioso, nei luoghi di lavoro. Ma anche
nei rapporti familiari si afferma un principio di rispetto delle libertà fondamentali come aspetto di tutela della
personalità in quella «formazione sociale» che è la famiglia (art. 2 Cost.): v. sopra, cap. 6, par. 7, e avanti cap. 44.
4. Dignità e integrità morale.
La dignità della persona è prevista in numerose norme della Costituzione (artt. 4, 13, 15, 19, 21, 32, comma 2o, 41,
42, comma 2o). È un diritto ampio che impone sotto diversi aspetti comportamenti di rispetto della persona: un esempio
importante è quello del rispetto della dignità dei soggetti «vulnerabili» come il malato negli ospedali, il detenuto nelle
carceri, il militare nelle caserme ecc. Spesso però il rispetto della dignità si risolve in più specifici doveri e diritti, come
il rispetto della autonomia, della intimità, del pudore, dell’onore, ecc. Un esempio di tutela della dignità, anche se
connesso ad aspetti di privacy, può essere offerto dalle norme dello Statuto dei lavoratori che disciplinano l’uso di
impianti audiovisivi per il controllo a distanza, gli accertamenti sanitari e le visite personali di controllo (artt. 4, 5, 6).
L’integrità morale è un «bene» oggetto di tutela penale nei casi di ingiuria e diffamazione considerati delitti contro
l’onore (artt. 594 ss. cod. pen.). Fuori da queste ipotesi, la tutela dell’integrità morale è una questione piu delicata,
perché l’interesse a preservare l’onore e il decoro può trovarsi in conflitto con altri, che sono oggetto di tutela
costituzionale: come la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e il c.d. «diritto di cronaca» che trova
appoggio nella stessa norma costituzionale.
5. La tutela dell’identità.
Il valore dell’identità affiora pure gradualmente nel diritto privato, dapprima in singoli tradizionali aspetti (nome,
immagine), poi come valore in sé (identità personale).
Prevista dal codice civile (art. 10), che fa rinvio alla legge sul diritto d’autore, è la protezione dell’immagine; ne è
vietata sia la riproduzione, sia la diffusione senza il consenso della persona raffigurata, salvo i casi in cui si tratti di
personaggio o avvenimento di interesse pubblico (ma anche qui, con rispetto dell’onore, della decenza, ecc.). La norma
protegge l’immagine fisica della persona (fotografia, ritratto, caricatura ecc.); se ne ricava però, per analogia, la
protezione di altri aspetti identificativi, come la voce. La difesa avviene con l’inibitoria (ordine di cessare l’abuso) salvo
il risarcimento dei danni (artt. 10 cod. civ. e 96 l. dir. autore).
Un altro aspetto di tutela della personalità che si è affermato in giurisprudenza è il diritto all’identità personale, e
cioè il diritto a non essere «presentati» agli occhi del pubblico in modo falsato rispetto ai valori e ai connotati
fondamentali con i quali si caratterizza la presenza sociale della singola persona; esso confina con il diritto all’integrità
morale ma, a differenza di quest’ultimo, protegge la persona anche contro quella alterazione della sua identità che non
ne aggredisce l’onore o la reputazione, ma semplicemente ne dà una rappresentazione infedele: ognuno ha diritto a
essere conosciuto per ciò che realmente è.
Infine, irrompe oggi il problema della tutela dell’identità genetica, che si articola in questioni diverse: la tutela
contro la manipolazione, la tutela rispetto all’accesso ai dati genetici (da parte di datori di lavoro, assicuratori, estranei
in genere: un aspetto essenziale della riservatezza), il diritto a conoscere le proprie origini genetiche (ad esempio da
parte dell’adottato).
6. Diritto alla vita privata e alla riservatezza.
Il problema di tutela della sfera di vita privata della persona non è di oggi; le prime elaborazioni risalgono alla fine
del secolo scorso, stimolate soprattutto dalla difesa della intimità personale e familiare dall’invasione dei media e delle
organizzazioni economiche.
Esso comprende due aspetti essenziali: da un lato, si fa riferimento alla difesa di una zona di intimità, in cui «essere
lasciati in pace» (right to be let alone); dall’altro, si fa riferimento al controllo sulle informazioni che riguardano la
nostra persona, in tutte le sue espressioni: fisiche, affettive, morali, di opinione, patrimoniali. Dal primo punto di vista
prevale lo strumento di tutela del divieto e, in caso di abuso, dell’inibitoria; dal secondo punto di vista la tutela deve di
necessità farsi più complessa, e dare al singolo i poteri di vigilanza ed intervento necessari per non perdere il controllo
delle informazioni che lo riguardano.
Un generale diritto alla riservatezza non è previsto nella Costituzione né nel Codice civile. Un diritto alla vita
privata è previsto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo del 1950. Nelle norme interne, aspetti
particolari di protezione della vita privata sono costituzionalmente protetti nella garanzia del domicilio (art. 14 Cost.,
art. 614 cod. pen.) e della corrispondenza (artt. 14 Cost.; 93 e ss. l. dir. autore; 616 e ss. cod. pen.). Più di recente,
intimità personale e riservatezza hanno ricevuto tutela nello Statuto dei lavoratori (divieto di indagini sulle opinioni,
limite alle visite di controllo).
Il trattamento dei dati personali
Nel 1989 l’Italia ratificava la Convenzione di Strasburgo del 1981, che protegge il diritto alla vita privata (privacy)
nei confronti dell’elaborazione automatica dei dati di carattere personale (c.d. «protezione dei dati»), sia di carattere
pubblico che privato. La Convenzione però ha avuto attuazione solo con la legge 31.12.1996, n. 675, intitolata «Tutela
delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali» e con successiva legge-delega n. 676 in
eguale data.
La legge non tutela solo la privacy; suo scopo è garantire che il «trattamento» dei dati personali si svolga nel rispetto
dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla
riservatezza e all’identità personale (art. 1). L’applicazione della legge è affidata ad un Garante (art. 30) cioè ad un
collegio di quattro membri eletti due dalla Camera dei Deputati e due dal Senato.
Per «trattamento» si intende la raccolta, la conservazione, l’elaborazione, l’utilizzazione, la comunicazione, la
diffusione, la distribuzione ed altre operazioni proprie alle «banche dati», sia che si svolgano con mezzi elettronici o
automatici, sia che si realizzino con mezzi tradizionali (art. 1, lett. b, art. 5). Per «dati personali» la legge intende
qualsiasi informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente o associazione che risultino identificate o
identificabili anche indirettamente, cioè per mezzo di altre informazioni o anche di un numero di identificazione
personale (art. 2, lett. c). All’interno di questa vastissima definizione, si delimita un cerchio più ristretto e delicato di
«dati sensibili» (art. 22) cioè quei dati personali che concernono l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso,
filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali relativi allo stato di salute e alla vita sessuale.
Solo il consenso espresso e in forma scritta dell’interessato permette, normalmente, il trattamento dei dati (art. 11),
salvo che si tratti di elementi risultanti dai pubblici registri, di raccolte di dati anonimi a soli fini statistici, o di dati
raccolti per l’attività giornalistica, purché in modo conforme alla deontologia professionale, o infine di trattamento
necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Per il trattamento di dati sensibili, oltre al consenso scritto dell’interessato, è necessaria l’autorizzazione del
Garante, salvo che la raccolta avvenga per l’esercizio di professioni sanitarie, o da parte degli organismi sanitari
pubblici, limitatamente ai dati indispensabili per la tutela della salute dell’interessato (artt. 22 e 23); anche il giornalista
può raccogliere dati sensibili (che non riguardino la salute o la vita sessuale) senza autorizzazione ma solo nei limiti del
diritto di cronaca e in particolare dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico (art. 25).
L’interessato ha poi il diritto di conoscere l’esistenza dei trattamenti consultando il registro tenuto dal Garante; di
essere informato delle modalità di raccolta e trattamento; di ottenere dal titolare la conferma dell’esistenza dei dati che
lo riguardano, la cancellazione o trasformazione di quelli trattati in violazione di legge, l’aggiornamento o
rettificazione; di opporsi al trattamento per motivi legittimi, e di opporsi senza necessità di motivare al trattamento fatto
a fini di informazione commerciale, di invio di materiale pubblicitario o di marketing.
Esenzioni Alcuni particolari tipi di raccolta, o particolari categorie di dati sono però esenti da questa disciplina: il
trattamento dei dati effettuato dalla Pubblica Sicurezza, dalla Difesa, dalla Sicurezza dello Stato, soggetti a norme
speciali; o ancora la raccolta di dati del casellario giudiziale e quelle organizzate nell’ambito degli Uffici giudiziari, del
Consiglio Superiore della Magistratura o del Ministero di grazia e giustizia (art. 4). Esente è anche il trattamento di
dati effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali (indirizzari, catalogazioni, ecc.) sempre che non
siano destinati alla diffusione.
Da sottolineare, infine, la norma sulla responsabilità civile: colui che cagiona danno ad altri per effetto del
trattamento di dati personali deve risarcire il danno stesso a norma dell’art. 2050; il trattamento è considerato «attività
pericolosa» e fonte di responsabilità oggettiva (art. 18).
La materia del trattamento dei dati personali è stata oggetto negli anni recenti di ulteriori interventi normativi, di
numerosi provvedimenti del Garante, e della direttiva 2002/58 del Parlamento e del Consiglio UE. Si era quindi
disposta, con legge 24.3.2001, n. 127, la delega al Governo per l’emanazione di un testo unico in materia di trattamento
dei dati personali. La delega è stata attuata con il d. legisl. 30.6.2003, n. 196, che ha riordinato l’intera materia
formando un amplissimo codice in materia di protezione dei dati personali di 186 articoli. I principii e le regole di
base della disciplina previgente restano invariati, ma la materia è regolata in un solo testo in tutta la sua ampiezza, a
partire – secondo una tecnica legislativa sempre più diffusa – dalla enunciazione di principi generali e dalla definizione
normativa dei termini usati nella stessa legge. Dopo avere definito i diritti dell’interessato, il codice detta le regole
generali sul trattamento dei dati, sui soggetti che lo effettuano, sulla sicurezza dei dati e dei sistemi di raccolta; quindi
detta le regole relative a specifici settori – giudiziario, di polizia, di difesa e sicurezza dello stato, amministrativo,
sanitario, dell’istruzione, storico-scientifico, del lavoro e della previdenza, bancario, assicurativo, delle comunicazioni
elettroniche, delle libere professioni e investigazione privata. Infine disciplina gli strumenti di tutela ed in particolare la
struttura, le competenze, i poteri dell’Autorità Garante.
7. Lesione della personalità e mezzi di tutela (rinvio).
La varietà degli aspetti della «personalità» richiede, come abbiamo visto, vari mezzi di tutela: l’inibitoria, la
pubblicazione delle sentenze, il risarcimento del danno. Non sempre la legge li prevede espressamente: ma l’analogia
permette di utilizzare i mezzi di tutela, previsti in un caso, anche in ipotesi non regolate espressamente, o nelle quali è
carente la disciplina degli strumenti di protezione. Un limite tradizionale alla protezione efficace dei diritti della
personalità era costituito dalla difficoltà di ottenere una tutela risarcitoria per il danno non patrimoniale: molto è
cambiato però da questo punto di vista con le novità introdotte dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza
ordinaria in tema di danno biologico e danno esistenziale: v. avanti, cap. 30.
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