Critica minore Dicembre 2010 – Gennaio 2011 Numeri 19 e 20 Periodico di cultura politica - filosofia - sociologia - letteratura - arte Sommario pag. 5 Per “Critica minore”. *** pag. 7 Consigli politici – A un governante incolto – Plutarco pag. 9 Schieramenti politici e aree culturali di Arnaldo Guarnieri pag. 14 Ecco gli italiani dai piedi leggeri di Franco La Cecla pag. 17 Perché anche la religione è politica di Giuseppe Moscati pag. 21 Peter Eisenman e l’esperienza della trasformazione: Magre vittorie e gloriose sconfitte: liberare la forma dall’immagine di Andrea Canclini pag. 29 Scuola - Così la democrazia diventa catechismo di E. Galli Della Loggia (Repl.) (Repl.) pag. 33 “Guardare” la Shoah. Breve excursus in alcune immagini Sebaldiane di Diana Napoli pag. 52 Aldo Capitini da Perugia al mondo. Andata e ritorno di Giuseppe Moscati pag. 57 Norberto Bobbio – Il maestro laico che manca all’Italia di Claudio Magris pag. (Repl.) 61 Retorica e Multiculturalismo di Davide Fricano pag. 83 L’Architettura come luogo dell’ “Apertura” di Giovanni Mensi segue a pag. 3 Il presente fascicolo (numeri 19 e 20) della rivista “Critica minore” è stato realizzato anche con il contributo di: =\JPXQW=DOHVNL6WLFKWLQJ $PVWHUGDP La rivista “Critica minore” è disponibile nelle seguenti librerie: La rivista “Critica minore” è disponibile nelle seguenti librerie: Milano: Libreria Feltrinelli Libreria Rizzoli - Galleria Mantova: Libreria Feltrinelli Sondrio: Libreria Alice Perugia: Libreria L’altra Verona: Libreria Cortina Editrice Libreria Gheduzzi - Le giubbe rosse Libreria Ghelfi e Barbato Libreria Rinascita Brescia Libreria Cidneo Libreria Feltrinelli Libreria Ferrata Libreria Il Libraccio Libreria La Fenice Libreria Punto Einaudi Libreria Punto Giunti Libreria Resola Libreria Rinascita Libreria Tarantola Libreria Tebaldo Brusato Libreria Università Cattolica Libreria Universitaria (Via S.Faustino) e inoltre presso: Brescia Biblioteca Queriniana Emeroteca comunale Biblioteca 1^ Circoscrizione Biblioteca 2^ Circoscrizione Sala di lettura “Cavallerizza” Galleria dell’Incisione – Via Bezzecca Verona Società letteraria Critica minore Periodico di cultura politica - filosofia - sociologia – letteratura - arte E-mail : [email protected] Sito web: www.criticaminore.it E-mail sito: [email protected] ____________________________________________________________________________________ Direttore Responsabile: Arnaldo Guarnieri Direzione e redazione: Via Cacciadenno, 18 - 25133 Brescia Tel. / Fax 030 2004662 Autorizzazione Tribunale di Brescia n. 60 del 19.11.2001 Stampa: Com & Print srl – Editoria e Stampa e-mail: [email protected] Via della Cascina Pontevica, 40 (Fraz. Folzano) 25010 Brescia Tel. 030 2161291 Editore: Arnaldo Guarnieri Via Cacciadenno 18 - 25133 Brescia Questo numero è stato chiuso in redazione il 20 dicembre 2010 e viene distribuito gratuitamente. E’ vietata la riproduzione non autorizzata, anche parziale, dei testi e delle immagini. Sommario (2^ parte) pag. 91 Le nuove regole contro la crisi di Natalino Irti pag. 93 Cara sinistra riconquista la cultura pag. 95 Abuso dell’arte per un’estetica al potere di Maristella Cervi (Repl.) 5 domande a Vincenzo Cerami a cura di Giovanna Mancini (Repl.) pag. 115 Il concetto di critica in Foucault: dalla Riforma a Kant di Antonio Coratti pag. 127 La Prima Guerra mondiale di Giuseppe Moscati pag. 142 L’italiano, una lingua democratica di Vittorio Messori (Repl.) pag. 145 Il principio di neutralità in Bruce Ackerman: una proposta di giustizia distributiva dopo Rawls di Paola Chiarella pag. 179 Il mercato unico non basta più: l’Europa ora punti sulla cultura di Antonio Puri Purini (Repl.) pag. 181 INVITO ALLA LETTURA: (a cura di Gianmaria Merenda) George Steiner: Heidegger; Michele Mari: I demoni e la pasta sfoglia; Jacob von Uexküll: Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili; Valerio Magrelli: Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire; Antonin Artaud: Al paese dei Tarahumara e altri scritti; Daniele Benati: Opere complete di Learco Pignagnoli; Christoph König: Strettoie. Peter Szondi e la letteratura; Adolf Reinach: La visione delle idee; Daniel C. Dennet: Coscienza. Che cosa è. ARTE pag. 201 Sculture ceramiche di Tonino Negri Sito web www.criticaminore.it e-mail: [email protected] 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED Per “Critica minore” Con il 2011, la nostra rivista entra nell’area temporale del decimo anno di attività. Come spesso accade, viene voglia (dopo dieci anni di pensieri, di scritti, di parole che sono prodotto di analisi, di confronti, di intese, di approfondimenti) viene voglia, dicevamo, di un piccolo bilancio. Per segnare uno spazio, oltre che un’area temporale. Per assicurare uno spazio praticabile per tutti quei giovani (e non più giovani) che desiderano ancora ragionare, studiare, “teorizzare” e, sostanzialmente, capire prescindendo dalla politica militante, dallo scontro fisico, dall’ineleganza, dal cattivo gusto, dallo sberleffo. Prescindere fin che si può, naturalmente, fino a quando la sconcezza non rischia di entrarti in casa, chè, allora, ci si difende con tutti i mezzi che la dignità e la decenza (pur sempre) consentono. Dieci anni di discorsi, di comportamenti e di scelte che hanno riunito, attorno a “Critica minore”, alcune migliaia di amici e di lettori provenienti da tutte le regioni d’Italia e, sempre più, anche dall’estero. Un sincero profondo ringraziamento a coloro che ci hanno finora sostenuto con la convinzione, palese, che si tratta di salvaguardare, fin che si può, una specie preziosa e protetta, quella della libera cultura critica. * * * 5 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED ______________________ Consigli politici _____ A un governante incolto “Il potere non riesce a nascondere i vizi e come gli epilettici quando si trovano in luoghi elevati soffrono di vertigini e sono attanagliati dall’angoscia, così le persone incolte e ineducate, quando la fortuna li favorisce attribuendo loro fama e ricchezza, immediatamente sono sovrastate dalla vertigine del potere e incominciano a rovinare in basso. Per maggiore chiarezza: come capita quando ci troviamo di fronte a due vasi, uno integro e uno rotto, possiamo distinguerli soltanto se versiamo al loro interno del liquido che vedremo colare da quello incrinato, così le anime guastate non riescono a contenere il potere e lasciano uscire avidità, desideri di vendetta, ira, arroganza e volgarità”. Plutarco Plutarco: Consigli politici – “A un governante incolto”. (Traduz. Milano 1994 – Edizione “Les Belles Lettres”, Paris 1984) _____________________ 7 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED Schieramenti politici e aree culturali di Arnaldo Guarnieri E’ sempre più evidente che la partita politica (e non tanto quella elettorale) si gioca sulla tenuta culturale dei vari schieramenti che si danno battaglia in questo periodo, nel nostro Paese. Che cosa significa: “tenuta culturale”? Significa la presenza o meno, di uno spessore storico, di una consapevolezza dei significati e delle scelte politiche da parte di generazioni di militanti, nonché di una accettabile profondità speculativa nelle elaborazioni teoriche che hanno fondato quelle scelte e quei significati. Senza questo patrimonio ideale, morale ed intellettuale, uno schieramento politico ha un valore strettamente simbolico, addirittura il peso effimero di un gesto. Un buon numero di osservatori e di frequentatori di questo tipo di problematiche, si spinge anche oltre, nel constatare, per esempio, il diffuso desiderio di un recupero nostalgico delle ideologie da parte soprattutto di concentrazioni partitiche nuove o seminuove. Si pone, in questo caso, la questione se siano esse (le ideologie) recuperabili a tutti gli effetti e rilanciabili nel cuore dell’attualità e della contemporaneità più immediata, o se abbiano semplicemente il diritto di essere riconosciute come semplici coefficienti organizzativi e/o riferimenti orientativi molto generici. Del resto la dimensione del “post-ideologico” non si è ancora guadagnata i “galloni” di una vera e propria “categoria dello spirito” a tutti gli effetti, di una esauriente e matura fenomenologia politica ed esistenziale (soprattutto in Italia). Sembra piuttosto che il vissuto un po’ schizofrenico di quei partiti che vogliono prendere le distanze dalle ideologie di provenienza, non riesca ancora a mettere a punto una convincente area culturale alternativa. Bisogna riconoscere che non è cosa facile costruire, in uno spazio mentale nuovo, il “lessico” morale e teorico di un messaggio politico che interpreti i reali bisogni spirituali e materiali di una nuova epoca storica. Soprattutto quando questa “nuova epoca” è abitata da un popolo che si rifiuta spesso di essere tale, preferendo mettersi in pratica piuttosto come agglomerato di etnie caratterizzate da consuetudini, al posto di veri propri caratteri culturali, capaci di contributi e interpretazioni originali. Mai come in questo momento ritorna di attualità la celebre immagine del “trovarsi in mezzo al guado”. Solo che, in questo particolare momento, essa 9 significa che le “forze politiche” sono estenuate dallo sforzo di una intensiva disintossicazione anti-ideologica e, mentre non hanno ancora concluso l’auto-terapia in atto, non hanno, contemporaneamente, creato i presupposti per un futuro sufficientemente strutturato. Un futuro fondato, soprattutto, su finalità sociali che non escludano la dimensione individuale nella scelta dei principi morali, e rilancino contemporaneamente quella collettiva, nella individuazione di regole cogenti e universalmente riconosciute. L’attualità ci dice clamorosamente, che, in Italia, persiste una forma di isterismo generalizzato che denuncia soprattutto la mancanza di prospettive reali e stabili. Si sprecano gli stereotipi come, per esempio: “…la navigazione a vista “, “…la flessibilità come nuova capacità di intendere la vita stessa e non solo i rapporti di lavoro…” ecc. ecc. Se questi “princìpi” fossero stati formulati in un periodo di ridente opulenza, essi non apparirebbero gravemente sospetti come appaiono ora! Si tratta, ovviamente, di “princìpi” di una sociologia spicciola costruita su misura per certi contenitori economici che tendono a stabilizzare alcuni vecchi centri di potere, a carico di generazioni di forza-lavoro, che dovranno rassegnarsi ad essere perennemente fluttuanti e, come minimo, a vivere alla giornata, cioè, di fatto, senza le risorse psicologiche e materiali per poter formulare un libero giudizio politico sulle dinamiche sociali e sui rapporti umani. Cioè, in sostanza, senza la possibilità di una valutazione contrassegnata dalla presenza di una cultura critica. In un periodo di crisi gravissima dei rapporti umani (oltre che economici) dove la famiglia degrada nel familismo” e si trasforma da “punto di partenza” (per il suo approdo vero e appropriato che è la società) in “punto di arrivo”, cioè cittadella fortificata nella quale trovare definitivo rifugio psicologicamente armato; per proseguire nel progressivo e consapevole impoverimento critico della scuola e dei suoi connotati culturali fondamentali (si veda in “Critica minore” sito web l’articolo di E. Galli Della Loggia dell’8 novembre scorso, dal Corriere della Sera), tutto sembra concorrere drammaticamente a privare quelle cosiddette “forze politiche” del supporto decisivo della cultura che (quando c’è davvero come insieme di valori ispiratori) diventa punto di riferimento per tutte le classi sociali che cominciano a confluire in variegate realtà di popolo e che, finalmente, si attivano nella costruzione di nuovi modelli e di nuove sintesi unitarie di bisogni e idealità. Senza retroterra culturale (inopinatamente sepolto insieme alle ideologie), senza neppure intravedere la sponda opposta immersa nella nebbia più fitta, il “passaggio del guado” si presenta rischiosissimo. Per restare nella metafora, prima di gettarsi nelle acque gelide del fiume, bisognerebbe organizzare sulla sponda di partenza tutta una rete di garanzie 10 e di strutture ben studiate e collaudate per vincere ogni ostacolo e ogni imprevisto. Per fare ciò occorrono unità di intenti, abilità tecniche, consapevolezze morali, limpide intelligenze. Ma più si elencano le risorse che sarebbero necessarie, più si allontana la fiducia nella possibilità di completare quel processo di formazione di una “italianità” che rimane ostinatamente un miraggio. L’Italia è: “Un Paese troppo lungo” (recita il titolo di un bel libro recentissimo di Giorgio Ruffolo). Un Paese che per ampi periodi ha subito pesanti invasioni straniere e sottomissioni che hanno lasciato segni indelebili e “veleni” come il servilismo e il ricorso all’espediente delle “vie brevi” per conseguire i risultati, (come carattere peculiare di una buona parte della penisola!) La “vocazione europea” che ha caratterizzato molte e prestigiose testimonianze e sostanziali omogeneità di stile e di qualità morali tra gli intellettuali italiani di ogni latitudine (anche nei periodi più oscuri della nostra vita politica) è presente e viva in splendidi scritti e opere di ogni genere. Basterebbe non umiliare con il giudizio di irrilevanza la ricerca di queste risorse intellettuali e morali, per riattivare antiche e nuove energie e riversarle in un intelligente, intenso programma di recupero. Si tratta di un immenso patrimonio che, nel giro di pochi anni, porterebbe frutti abbondanti per tutta la comunità, nonostante le molte centrali di dirottamento, di travisamento e di vera e propria dequalificazione programmata, che si attivano sempre tempestivamente, in questo paese, che sembra aver dichiarato guerra all’ingegno, all’eccellenza, alla qualità e, in definitiva, alla cultura. E non è sufficiente “voltarsi indietro” per ritrovare i connotati culturali peculiari di una forza e di una esperienza comune. Ci sono ex esponenti politici di primo piano (soprattutto democristiani) che rievocano volentieri, in questo periodo e in ripetute occasioni pubbliche, vicende significative della vita politica italiana (a volte anche scabrose) per dimostrare, in sostanza che “governare è difficile” soprattutto quando la necessaria mediazione deve avvenire tra la moralità e il potere. La mediazione di potere è un conto, la mediazione politica è un altro. Perfino Aldo Moro, in varie occasioni, scelse la prima delle due (benché certamente a malincuore) con grande determinazione (vedi lo scandalo Lockheed). Questo “voltarsi indietro” nella rievocazione di dinamiche politiche trascorse (non certo limpidissime dal punto di vista della coerenza morale) può anche essere un aspetto della vita culturale di un Paese, perché rivela la consapevolezza spesso sofferta delle difficoltà, appunto, di una mediazione che dovrebbe essere sempre politica e mai di “potere”. 11 L’azione di governo, in un paese come l’Italia, si è sempre rivelata estremamente ardua anche perché chi governa si è sempre trovato di fronte ad una diffusa indulgenza nei riguardi di un’anti-cultura militante, sensibile solo ai richiami populistici pronti a legittimare qualsiasi comportamento trasgressivo, purchè funzionale a qualche “convenienza” non solo privata. La convivenza civile, in Italia, è il risultato residuale ed enfatico di uno scontro fisico tra esigenze individualistiche o tra clans. Se c’è chi ritiene di “voltarsi indietro” per recuperare un po’ di spessore esperienziale collettivo e di vita almeno propedeutica alla politica, vi sono anche, al contrario, alcuni esponenti vecchi e nuovi, di altri schieramenti, che non azzardano neppure questo tipo (in fondo elementare) di scelta, nel timore di peggiorare la propria situazione. Essi preferiscono parlare avidamente di futuro perché solo guardando avanti sperano in nuovi, radicali riscatti, rispetto a tenebrosi trascorsi epocali. In un recente convegno che ha visto riuniti i responsabili europei di periodici impegnati in argomenti di “cultura politica”, il rappresentante di una rubrica radiofonica svizzera, con toni sinceramente affranti, ha dichiarato che l’Italia, spesso, impiega tesori di intelligenza per indicare la necessità di un recupero del livello culturale medio dei propri lettori. Il risultato, però, è clamorosamente insufficiente visto che i militanti dell’anti-cultura (che spesso operano in strutture criminogene istituzionalizzate) dispongono di mezzi dissuasivi di grande portata capaci di eliminare i centri di propulsione culturale più qualificati. La conclusione di quell’analisi chiara e puntuale è stata che il “caso Italia” non può avere altro che una soluzione europea. In attesa, però, che l’Europa si coalizzi per lanciare all’Italia un buon salvagente, aprendo una solida carta di credito circa le nostre possibilità di ricostruzione civile, gli schieramenti politici dovrebbero innanzitutto accantonare definitivamente gli impulsi faziosi e le dipendenze settarie che distruggono in partenza ogni possibilità di far cultura. Essi dovrebbero, quindi, procedere ad una serena acquisizione delle testimonianze di qualità che provengono con grande generosità e ricchezza dalla società civile “prepolitica”. Questa società civile “pre-politica” è sempre più diversa da quella alla quale si fa spesso riferimento nel corso del dibattito politico in corso. Gli esponenti dei vari partiti che si confrontano abitualmente tendono ad assimilare la società civile a quella politica, con la battuta sbrigativa: “…la società civile ha la classe politica che si merita!” Sono, per fortuna, in molti in Italia, a constatare che c’è un abisso tra la vera società civile e la classe politica. Una profonda differenza sulla quale si fondano esplicitamente molte (e ultime) speranze concrete di rinnovamento sociale. 12 La vera società civile ignora, progressivamente, le varie forme di potere che la classe politica si attribuisce per rigenerare se stessa. La vera società civile si rivolge, da tempo, alla cultura, al dibattito reale, al confronto genuino tra le forze sociali per rifondare la politica sui rapporti umani autentici e dar luogo ad istituzioni e strutture finalmente non deviate e non deviabili. Questa società civile vera, sviluppa ogni giorno di più una vita parallela a quella politica ufficiale, tanto che è sempre più intollerabile il contrasto irreversibile tra una vita civile, da una parte, e un andazzo spurio e millantatore dall’altro. La storia ci insegna abbondantemente che il parallelismo tra società civile e società incivile non è eterno e che l’evidenza, ad un certo punto, chiama fatalmente all’impatto. Arnaldo Guarnieri 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 13 TRIBU’ SOCIALI GENERAZIONE FIGLI DI ERASMUS Dicono: “Parigi è la città italiana migliore che c’è”. Scelgono l’Europa perché la sentono casa e così vanno a caccia della meritocrazia che da noi manca. Ecco gli italiani dai piedi leggeri di Franco La Cecla C’è una nuova classe, apparentemente invisibile, che si sta formando da circa vent’anni, una classe che non fa parte della borghesia italiana, che non rientra nell’esercito di precari, né in quello dei raccomandati per famiglia, politica, censo e appartenenza. E’ una strana compagine di quarantenni, trentenni, ventenni che ha abbandonato l’Italia appena finiti gli studi, o addirittura durante gli studi, fulminata sulla via dell’Erasmus dalla scoperta che la vita all’estero, in Europa, poteva essere tre volte più interessante, facile, appassionante che in Italia. Non si tratta di emigrati nel vero senso della parola e nemmeno di una fuga di cervelli, ma di italiani, ragazzi e ragazze, uomini e donne che stanno all’estero in Europa “come se fossero in Italia”. Hanno scoperto che le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell’università italiana, lo strangolamento delle potenzialità giovanili è una malattia solo italiana e semplicemente, rapidamente si sono messi in salvo con un’ora di aereo, chi a Barcellona, chi a Berlino, chi a Parigi, chi ad Amsterdam e altri in Polonia, Portogallo, a Londra, e perfino a Riga e Vilnius. Io che sono più anziano di loro, ho scoperto a un certo punto che era stupido vivere in una città cara e inefficiente come Milano e che Parigi offriva molto di più con un costo della vita molto inferiore e un’apertura al mondo impossibile a Milano. Quando mi chiedevano dieci anni fa perché stessi a Parigi rispondevo: “E’ l’unica città italiana che funziona”. E non era una battuta, davvero per me Parigi era quello che l’Italia poteva essere se non fosse stata governata negli ultimi cinquant’anni da una classe dirigente che faceva e fa di tutto per restare indietro rispetto all’Europa e al mondo. La mia era una protesta contro le regole ridicole di una società, quella italiana, che umiliava il merito e ignorava la globalizzazione con un disprezzo verso la cultura, gli intellettuali, i ricercatori. Ricordo ancora l’incredibile piacere di essere chiamato da agenzie sconosciute, da datori di lavoro mai visti, da centri di ricerca i cui direttori non mi avevano mai invitato a cena, ma avevano letto le mie ricerche. Che felicità essere giudicato dal proprio fare e non dalla propria rete di compiacenti alleati! Quella che mi sembrava una scelta individuale era già invece la scelta di migliaia di architetti, esperti di comunicazione, curators d’arte, videoartisti, fotografi, psicologi, antropologi, registi, artisti, musicisti, danzatori e danzatrici. Il mio amico Emiliano Armani, piacentino, stava da quindici anni a Barcellona. Vi 14 era andato a cercare una formazione in Italia impossibile, quella nello studio del grande Miralles che ti prendeva in stage, ma ti pagava anche. Incredibile per un giovane architetto che era abituato ad essere sfruttato dagli studi milanesi o a volte dover pagare per lavorare in un’agenzia di una grande firma. Emiliano sta ancora a Barcellona, la situazione è cambiata, un po’ più difficile, oggi con la crisi, ma non ha la più vaga intenzione di tornare in Lombardia. E’ lui però a dirmi che in realtà ha scoperto di essere italiano proprio a Barcellona. Perché, dice, gli italiani in Italia sono individualisti e non fanno quasi mai gioco di squadra, è solo all’estero che scoprono di avere qualcosa di particolare che li distingue dagli altri, un’italianità che gli “altri”, gli “stranieri” riconoscono subito e che è considerata una qualità e non solo un tic nervoso. E ribadisce che Barcellona per lui è una città italiana, nel senso che lui ci si muove pensando di restare italiano, di non perdere i contatti con l’Italia. Ma è da Barcellona che può agire con una libertà e una creatività che in patria sarebbe solo punità come impertinenza giovanile e incapacità di rispettare faccendieri, speculatori, malavitosi e politici ignoranti. Michele Ferrà è un siciliano che si è trasferito a Berlino per impiantare una casa di produzione di video e film. Berlino gli dà la tranquillità, l’efficienza, la convenienza – qui la vita costa quattro volte meno che in Italia – e una rete mondiale di contatti. Michele rimane siculo e palermitano fino in fondo, ma non tornerebbe mai a Palermo, città a cui non perdona il carattere nero, spaventosamente squallido e corrotto, la voragine della connivenza mafiosa e l’incapacità di sperare e di fare. Eppure lui non diventerà berlinese, né americano – paese in cui va spesso – né thailandese, paese in cui gira i suoi film. Matteo Pasquinelli è un ricercatore nel campo dei mass media e dei cultural studies. Ha fondato Rekombinant, è una delle persone più informate e preparate sul mondo del web, della trasformazione post-globale, delle mutazioni del neo-capitalismo. Pensate che gli abbiamo mai offerto nulla in Italia? Pensate che l’Università di Bologna gli abbia spalancato le porte dei laboratori? Ma nemmeno per sogno. Allora sono dieci anni che vive sostenuto da istituzioni britanniche, olandesi, tedesche e che continua a inventare analisi della situazione reale, a scrivere sulle riviste specializzate, ad aprire siti. Lui non diventerà olandese, né tedesco perché è indelebilmente uno spinozista romagnolo, epicureo riminese, nelle sue valigie stipa, a ogni ritorno, farina di castagne dell’Appennino e sangiovese. Quando andiamo a spasso in una delle sue città europee alla ricerca di un ristorante che non ci faccia troppo sentire la nostalgia a me della caponata e a lui della piadina, ho l’impressione che qualcosa di differente sta accadendo a una parte d’Italia. Queste persone e molte, moltissime altre sono l’Europa, senza bisogno di troppi discorsi e teorie, e hanno capito qualcosa che i teorici dell’Europa non hanno mai capito: che l’euro e l’Europa sono la possibilità di restare italiani, greci, spagnoli, francesi senza essere umiliati dalle stupide politiche nazionali dei rispettivi paesi. Essere europei significa mantenere una propria identità senza doverla confondere con un’appartenenza ad una classe dirigente che in patria blocca i processi d’apertura e trasformazione. Ovviamente questo è il quadro positivo, profondamente innovatore di questa compagine di nuovi europei, sono quello che George Steiner chiama 15 “luftmenschafte”, uomini dai piedi leggeri, una definizione sprezzante con cui i nazisti appellavano gli ebrei e tutti i cosmopoliti. La parte tragica sta nel fatto che questo è il risultato di un’espulsione: per l’Italia si tratta della liquidazione di una potenziale classe dirigente di professionisti, pensatori, ricercatori, imprenditori. E questa è davvero una tragedia: ognuno dei miei amici italiani in Europa condivide amari ricordi di strade bloccate, di rifiuti, di offerte di lavoro ricattatorie, di posti universitari in cambio di una beota fedeltà alla noia accademica. Allora stare in Europa è diventata anzitutto una forma di cura, un dirsi: ma no, ma no, il mondo non può essere così meschino, c’è merito, speranza, possibilità di trovare persone con cui costruire assonanze e con cui inventare, sperimentare, creare senza il peso di coloro che hanno sempre fatto sì che il mondo dovesse sembrare solo un circolo chiuso e vizioso. Franco La Cecla FOTO S. Santioli L’articolo sopra riprodotto è stato pubblicato domenica 1 agosto 2010 da IlSole24Ore. Ringraziamo la direzione del giornale e l’autore per la gentile concessione. 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 16 Perché anche la religione è politica Alcune considerazioni a partire da La fede ferita di Mariano Borgognoni di Giuseppe Moscati Quella che il saggio di Mariano Borgognoni La fede ferita1 intende riconquistare, anche grazie a un vero e proprio attraversamento dell’opera e in particolare dell’apocalittica di Sergio Quinzio, è una posizione di sostanziale ripensamento di ciò che è fede. La fede di cui qui si parla è una fede ferita perché sofferta, riscoperta anche in virtù del riconoscimento delle debolezze e fragilità e vulnerabilità, una fede rimessa coraggiosamente in discussione. E la ferita della fede va pensata. Così ferita, sanguinante, la fede non può proporsi come chiusa in se stessa e priva di “timori” e “tremori” (per richiamare Kierkegaard), bensì ha da farsi fede adulta alla Dietrich Bonhoeffer, il quale è suggeritore di una straordinaria immagine di Cristo come essere-per-gli-altri. Anche perché, con ironia lo ha ricordato non molto tempo fa Paolo Flores D’Arcais2, la pretesa di conoscere la volontà di Dio e di parlare in suo nome in psichiatria si chiama “delirio di onnipotenza”. Ripensando l’idea di fede, allora, non possiamo che ripensare anche l’immagine di Cristo. Leggendo La fede ferita mi è tornato in mente – fatto forse un po’ curioso – San Bonaventura, per il quale Cristo non è più, come invece per i Padri della Chiesa, la fine della storia, bensì il centro della storia; con Cristo e con il suo paradigma eticoreligioso, ma direi anche politico-sociale, la stessa storia sembra avere un nuovo inizio. Anche la religione è politica. In questo lavoro di ripensamento, la pagina di Quinzio, sentinella insonne, è molto ficcante. Ridando centralità al testo dell’Apocalisse, infatti, egli mette in evidenza la ferita della fede e, come dice efficacemente Borgognoni, nel bene e nel male ci obbliga a “stare nella contraddizione”. Non è certo facile comunicarlo, questo paradosso di una fede che è abbandonarsi e insieme restare inquieti, ma è possibile. La fede quinziana con cui Borgognoni discute, senza d’altra parte rinunciare a un serio atteggiamento critico che qua e là lo porta a rimarcare anche le 1 M. Borgognoni, La fede ferita. Un confronto col pensiero apocalittico di Sergio Quinzio, Cittadella Editrice, Assisi 2009. 2 P. Flores d’Arcais, La religione e la democrazia, La Repubblica 4 maggio 2010. 17 distanze oltre che le vicinanze3, non è una fede assoluta, caratterizzata da quelle che Italo Mancini chiamava “le false alture spiritualistiche”, ma piuttosto è la fede della speranza assoluta. Direi, in questo senso, che è l’esatto contrario dell’idea della fede come possesso, che fin troppo spesso abbiamo visto tradursi pericolosamente in arma. Se non si vuole che la fede rischi di diventare un oggetto contundente da brandire contro l’altro, contro il diverso, contro chiunque la pensi diversamente da se stessi e dal proprio clan, si deve essere pronti a una rinuncia e a un impegno. La rinuncia è quella, appunto, a una fede conchiusa e onnisciente, sicura di sé al punto da tapparsi le orecchie alle parole dell’alterità (ogni volta etichettata in questo o quel modo); l’impegno è quello per uno sforzo di disinnesco: dobbiamo disinnescare la fede contundente, come dicevo, ma anche la fede-bomba a orologeria. Vale a dire dobbiamo disinnescare quella fede che – allontanandosi per esempio anni luce dal cristianesimo delle origini e dal messaggio dello scándalon del Cristo che condanna il dominio e le varie forme di idolatria – scende a patti con il potere e addirittura si fa essa stessa potere nel senso deleterio del termine. Andando al di là di Quinzio e volendo anche prestare attenzione all’attualità, mi sembra opportuno citare le parole di un potente del mondo che ha oggi nelle sue mani la preziosa possibilità di riformare il concetto stesso di potere, se davvero dovesse riuscire – come mi auguro – a declinarlo come potere dal basso, Barack Obama. Nel suo libro-raccolta di interventi intitolato La mia fede4 leggiamo: «Ho l’impressione che noi facciamo un errore quando non vogliamo riconoscere il posto che la fede occupa nella vita della gente […]. A prescindere dal fatto che sia religiosa o meno, la gente è stanca di vedere che la fede viene usata come un’arma d’attacco […] per sminuire e per dividere»5. Mi ripeto: anche la religione è politica. L’elemento del tragico è chiaramente co-essenziale al religioso e nello specifico al cristianesimo. Da una parte ricorderei Francesco con la sua “eccedenza di carità”, dall’altra – ma non certo in opposizione – Emmanuel Lévinas con la sua tematica del volto ‘ferito’ dell’atro. La croce continua del resto, fortemente, a rimanere un paradosso e un paradigma dell’etica cristiana, ma al tempo stesso continua anche a rappresentare un simbolo incarnato. La croce, di fatto e senza sosta, funge ancora oggi (e non può essere diversamente) da pungolo per i cristiani affinché non si “siedano”, non si accomodino sull’accogliente poltrona della certezza, ma sappiano assumere in pieno la difficile opzione per il dubbio e l’altrettanto scomoda 3 Cfr., per esempio, M. Borgognoni, La fede ferita, cit., pp. 133-134. B. Obama, La mia fede. Come riconciliare i credenti con una politica democratica, Marsilio, Venezia 2008. 5 Ivi, p. 29 e p. 43. 4 18 sfida dell’apertura dell’ascolto reciproco e di un dialogo autenticamente interreligioso, o meglio intrareligioso come a ragione preferisce dire Raimon Panikkar. E dunque un dialogo aperto, senza più barriere confessionali e che sia veramente incontro ‘con’ e ‘fra’ le interiorità religiose dei dialoganti. È bene tra l’altro anche interrogarsi tutti, seriamente, su una questione cruciale: a che punto siamo, oggi, rispetto a questo processo di trasformazione dell’interreligioso nella nuova prospettiva dell’intrareligioso, inteso appunto come partecipazione attiva delle interiorità religiose al dialogo? Ripartendo da questa idea di fede in cammino, possiamo recuperare anche una piattaforma che considero imprescindibile per affrontare alcuni temi decisivi che si presentano a noi contemporanei in tutta la loro urgenza e inaggirabilità, temi quali quelli del confronto genuino con l’altro, della valorizzazione di ciò che è alterità e della stessa cooperazione interculturale. Mi riferisco alla piattaforma conoscitivo-esistenziale dell’io-tu, buberiano e prima ancora feuerbachiano, quale vero e proprio fondamento della verità. Ecco la fonte profondamente umana, esigenziale, della religione, ma ecco anche la dimensione comunitaria di quella che vorrei chiamare una laicità responsabile: siamo agli antipodi del laicismo come pure della posizione di indifferenza verso il sacro. Ma, ancora una volta, vediamo come la religione sia politica. Proprio a proposito dell’io-tu come luogo della verità, coincidente con la verità, Leo Lestingi, scrivendo del bel classico di Lessing Nathan il saggio6, ha affermato: «ciascuna religione dovrebbe percepire se stessa come frammento»7, la fede «può e deve mordere nella realtà concreta e può essere soggetto di produzione storica solo attraverso la mediazione dell’elemento etico»)8; il segno religioso può così finalmente darsi al plurale nello stesso momento in cui è peraltro vivibile come unico. Nello scegliere la via del dialogo, insomma, non è necessario rinunciare all’unicità e alla peculiarità dell’intima persuasione religiosa per questa o quella fede, che non deve pertanto ridursi a identità esclusivisticamente irrigidita e chiusura dogmatica (fede autoritaria e tetragona), ma che deve continuamente riscoprirsi sentimento religioso ed esperienza religiosa, come ci suggerisce il nostro Aldo Capitini. Ed in tal senso è un peccato che non si sia mai aperto un vero dialogo tra Quinzio e Capitini, pur essendocene tutte le potenzialità. 6 Cfr. G.E. Lessing, Nathan il saggio, a cura e con traduz. di Leo Lestingi, Palòmar, Bari 2009. 7 L. Lestingi, Introduzione, in G.E. Lessing, Nathan il saggio, cit., p. 22. 8 Ivi, p. 20. 19 Solo considerando il tu all’interno di una relazione orizzontale di pari diritti e di pari dignità con l’io riusciamo dunque a intendere realmente la verità nei termini dialogici dell’incontro tra alternative possibili, di collaborazione piena e soprattutto di co-evoluzione. Ovvero nei termini di una crescita comune perché comune è il bene in gioco, sia esso riconducibile alla salvezza eterna nell’ottica del credente o, laicamente, alla vita su questa Terra, pianeta in tutto e per tutto maltrattato (come tristemente ci ricorda il disastro ecologico in Louisiana) per i non credenti, o comunque riconducibile in qualche modo alla nostra responsabilità verso le generazioni a venire. FOTO T. Negri Giuseppe Moscati 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 20 Peter Eisenman e l’esperienza della trasformazione. Magre vittorie e gloriose sconfitte: liberare la forma dall’immagine. “Vivere rettamente è come un’opera d’arte” (Abraham Joshua Heschel) “La conoscenza della verità da sola non basta…” (Albert Einstein) di Andrea Canclini La presenza di architetti ebrei nello star system dell’architettura, si manifesta compiutamente solo negli anni Ottanta del Novecento, a seguito delle fugaci esperienze espressioniste di Mendelsohn. Improvvisamente, alcuni dei principali architetti sulla scena mondiale sono ebrei, e soprattutto operano una poetica dai forti legami con i caratteri dell’ebraismo. L’architettura, disciplina che l’ambiente culturale ebraico tenne a lungo ai suoi margini, inizia a incarnare la ricerca di un esito, l’ansia della ricerca di liberazione dalla «patria portatile»: ciò accade proprio negli anni in cui milioni di ebrei si stabiliscono negli Stati Uniti. Poche generazioni, ed emergono i rappresentanti di una professione orientata a esprimere la propria poetica in oggetti stabili, possibilmente duraturi. La letteratura anticipa: circa vent’anni prima la Jewish Renaissance è formata da scrittori come Saul Bellow, Philip Roth, Jerome David Salinger, Norman Mailer, Arthur Miller, Isaac Bashevis Singer. Pronto, il «diverso», dopo avere rotto il mito dell’omologazione, irrompe anche in architettura. Chi potrà meglio esprimere, in termini ormai post-moderni, il senso di spaesamento, di assenza d’identificazione (a vantaggio dell’individualità), della mancanza di topos e di «luogo», lo sgretolamento degli ideali? Chi, meglio dell’ebreo, che di tali assenze ha sempre denunciato il disagio? Anche in architettura la differenza si era fino allora manifestata, appunto, come un’assenza: nel non esercitare la professione. Il disagio di esercitarla sarà comunque inferiore a quello drammaticamente vissuto dagli artisti impegnati nelle arti figurative, ove il conflitto tra spiritualità e impegno artistico porrà la questione della riproduzione delle immagini sacre; in architettura la questione è certamente minore, anche se non assente. Per questi architetti una delle principali questioni che si pongono riguarda la scelta di come coniugare la secolare e unica posizione del popolo ebraico rispetto alle nazioni e ai popoli; come declinare l’assenza di stabili istituzioni e, ciò che qui rappresenta una questione, l’assenza di luoghi? 21 Luoghi assorbiti dall’esodo, che si è fatto ed è stato tempio, scuola, dimora, surrogato diffuso. Spesso si è considerata la visione del mondo dell’ebraismo come una concezione temporale, mai riducibile a un’elaborazione spaziale; lo stesso dio ebraico compare in un momento preciso della storia del popolo, per trarlo dalla schiavitù d’Egitto, preciso evento storico, non come creatore del mondo, il luogo. E anche la creazione è comunque un processo che sottostà alla condizione del tempo, i giorni della creazione. Un’altra questione derivante dal rapporto con le nazioni e i popoli, riguarda il fatto che la cultura ebraica ha sempre tenuto conto delle culture «altre», e l’opposizione è stata così spesso positiva che forse la storia della cultura ebraica può essere fatta solo in dialettica con i pensieri della storia e dei luoghi; anche se è necessario precisare che in altre occasioni l’individualità ebraica, riguardo ad alcune precise posizioni teoriche, ha prodotto opposizioni integrali come, ad esempio, sul tema dell’iconografia sacra, per cui resta valido il divieto di rappresentare il sacro in immagini. Nel Novecento però le parti sembrano essersi rovesciate; la relatività delle posizioni continua a essere l’obiettivo, la discontinuità e le interpretazioni passano nei codici, la dissonanza rompe le certezze moralistiche aprendo strade anticonformistiche verso ogni direzione. In ciò la cultura ebraica ha prodotto figure di primo piano, contribuendo a rivoluzionare il pensiero moderno: in dissenso alle regole assolutiste queste figure sono divenute di dominio comune e costituiscono la ragione di maggior spaesamento contemporaneo. In più, lo stesso concetto di «diversità» estende i propri diritti a ogni individuo, così che lo smarrimento compone il carattere pauroso della storia contemporanea; in ciò la cultura ebraica gioca in casa: le teorie della dissonanza, dell’inconscio, della relatività sono nate nel suo stesso seno, inconcepibili fuori da quella matrice, dove l’atavica condizione di smarrimento sembra costituire i presupposti ideali per lo sviluppo. Quali sono gli architetti ebrei, europei, statunitensi o israeliani, che sono (o sono stati) sul proscenio dell’architettura internazionale contemporanea? Eccone alcuni: Peter Eiseman, Frank O. Ghery, Daniel Libeskind, Zvi Hecker, Richard Meier. E ancora: Louis Kahn, Richard Neutra, Richard Rogers. Paradigmatico è Peter Eisenman: quasi ottantenne newyorkese, probabilmente il più intellettuale, colto e indipendente professionista degli ultimi decenni, ha sempre subìto, e sempre rifiutato, la definizione di «decostruttivista»; la vicinanza (e collaborazione) col filosofo Jacques Derrida fu sufficiente. La ricerca della liberazione della forma dai significati l’ha portato all’erosione del senso, per un linguaggio dalle parole spogliate, soprattutto dalla contingenza della storia. 22 Eisenman vive una sincera passione per l’opera dell’architetto razionalista italiano Giuseppe Terragni. Il manierismo combinatorio dell’architetto comasco è la strada attraverso cui passeranno i virtuosismi grammaticali di Eisenman. Uno dei punti di partenza interpretativi per comprendere Eisenman è la critica della concezione artistica del cubismo, inteso come un movimento solo apparentemente dinamico, in cui invece di occuparsi dell’auto-farsi delle forme ci si occupa del montaggio delle forme. Rigettando i dogmatismi delle proporzioni e delle simmetrie l’ebraismo celebra la non-regolatezza del vero, smentendo l’ideale assoluto del bello classico greco e delle sue leggi autoritarie. Come Schönberg dissacra l’ottava e formula la dodecafonia, così anche per Eisenman, e per altri, l’impegno sarà dissacratore e laico. Il ricordo del vitello d’oro imporrà l’avversione ai miti, immanenti o trascendenti, in termini quasi scientifici. Nell’alveo artistico dell’espressionismo la poetica di Eisenman è disposta a demolire i tabù linguistici senza ricostruirne altri; azzeratrice, quest’operazione apparentemente negativa cerca di destrutturare, non come operazione linguistica auto-ponentesi come visione alternativa, ma con lo scopo stesso di escludere una visione spaziale alternativa. Non distrugge per ristrutturare ma elimina gli idoli estetici e linguistici per porre l’autoevidenza delle forme, così che il moto della materia non si ponga solo sul piano formale o contenutistico ma sia alla base stessa della comunicazione, nel linguaggio. Come lo yiddish, che non ha formato strutture linguistiche nette: chiunque tenti di formalizzarne una grammatica si trova una lingua che si dà nervosa, breve e quasi solo parlata. Come nota Kafka, il popolo non cede lo yiddish ai grammatici. In più, si compone quasi solo di parole straniere e ne conserva l’originaria velocità d’uso. Serve energia per tenere unito tutto ciò, amalgamato nell’impasto di qualche regola, ma soprattutto con la libertà dei dialetti, che sono lo yiddish stesso. Un metalinguaggio al quadrato. Il mondo culturale ebraico è quindi dinamico, appassionato, esplosivo; di fronte, il mondo culturale ellenico: statico, moderato, armonioso. Quando l’essere greco si pone come fisso e immobile, per il mondo ebraico esso non sarebbe nemmeno un’entità: poiché, estraniato dal movimento, non esistente. Dunque se per i greci ogni architettura è un oggetto di per sé, che sia il tempio o la casa, per l’ebreo invece conta l’abitare. Così il tempio greco è fisso, ordinato secondo le leggi dell’armonia (prestabilita) mentre l’architettura ebraica si pone come funzione, libera da formalismi, simmetrie, rapporti, proporzioni, regole, soggetta all’unica legge del mutamento. 24 Quando, nei primi secoli del cristianesimo, il pensiero ebraico eserciterà qualche influenza su quello latino, la cella chiusa del tempio, che ospitava le statue e gli idoli, verrà spalancata per essere percorsa e vissuta. La cella aperta entra nel tempo sacro del rito, per non restare solo spazio sacro. Eisenman, quindi; e il senso della forma; problema originario di ogni disciplina estetica. In aperta sfida alla meccanica cartesiana, egli pone sofisticate combinazioni ermeneutiche (ed ermetiche) in cui il grado di nascondimento indica il grado di protezione del senso. Si può dire, infatti, che un primo livello di nascondimento sia svelato solo dalla critica contemporanea, informata dal modello interpretativo analitico e descrittivo; un secondo livello interpretativo riguarda invece il pensiero poetico dell’autore. Ma solo un terzo livello di nascondimento cela il rapporto con la cultura ebraica. A questo livello l’opera e i suoi enigmi si pongono come un’unità, personificazione metafisica. Forse Benjamin lo definirebbe “il contenuto di verità di un’opera”. Anche senza riproporre qui le osservazioni benjaminiane sui rapporti tra senso e significato, tra ricerca del contenuto di verità e ricerca del contenuto reale, vorrei solo ricordare il valore del legame tra i due concetti, di quanto stretto e invisibile sia il loro rapporto, di come il contenuto reale rimanga in superficie rispetto alle stratificazioni possibili del contenuto di verità. E quindi di come una critica che si rivolga all’opera con obiettivo veritativo si debba porre necessariamente nella prospettiva più difficile, anche se unica, di consentire di cercare e di trovare nell’apparire del reale e attraverso gli strati del senso, almeno una porzione di quella verità motrice che sta nel nucleo dell’opera, per provare ad arrivare dove sta il presupposto della forma, dove si rivela il mistero della relazione sovrana. Ciò può darsi solo in una visione in cui i concetti di origine e divenire siano categorie storiche: dove, sempre con Benjamin, l’origine stia nel flusso del divenire, dove l’origine sia ciò che scaturisce dal divenire; dove, quindi, sia sottratta da ogni illusoria fissità, dall’essere categoria ontologica. Se dunque la lingua crea, compie, è insostituibile non come paradigma della verità ma per il rapporto che intrattiene con la parola. La relazione sottrae i termini da una generica indeterminatezza. In architettura l’estetico-fenomenico domina, eccede il metafisico, non fosse altro che per il dominio del paradigma tecnico-scientifico nella disciplina dell’architettura contemporanea. In Eisenman invece il testo architettonico, apparentemente chiaro e perentorio, si mostra affondato in un’impenetrabilità oscura non appena si cerchi di esaminarlo: la ricerca interpretativa si rivela un’inestricabile barriera. Su tale orizzonte, solo la luce sorgente può, in trasparenza, illuminare dal retro il foglio traslucido ove sono i tratti del testo eisenmaniano. 26 3HWHU+HLVHQPDQ Quella sola luce è il pensiero ebraico, nel suo darsi teorico -estetico, tanto classico da potere essere paradigma, quel pensiero che connota l’opera è in aperta antitesi con il paradigma greco-cristiano; dice Eisenman: “Senza fini e senza origini, priva dell’oggetto e priva di ragione”. Questa dichiarazione preclude al nuovo Esodo, esodo del linguaggio, dall’Egitto della ridondanza della forma greco-cristiana verso la forma promessa. Verso la presenza di un’assenza. Non rappresentativa, in rifiuto della tradizione iconologica; e priva di ragione (come simulacro della verità), cioè arbitraria e artificiale. È così tentato l’assalto: il pensiero greco teorizza la verità, il pensiero ebraico la rende struttura, la prima sviluppando e facendosi percorrere da un linguaggio antropocentrico, la seconda da un linguaggio logocentrico, non solo rivolto alla mistica tradizionale ma anche al pensiero filosofico moderno, comunque sempre attraverso la mediazione del nome, della parola, del Logos, e del ricordo del vero che vi sta. È solo nel cono di luce proiettivo della potente cosmica simbolica ebraica che i principi formali eisenmaniani possono mostrare la loro essenza, per un’architettura senza tempo, non-rappresentativa. Parole chiave dell’ebraismo, come atopia, e instabilità assumono un valore poetico e reale, dove lo spazio non è che la forma mobile del tempo. Andrea Canclini Architetto ____________________________________________ Bibliografia: Pier Vittorio Aureli, Marco Biraghi, Franco Purini, Peter Eisenman. Tutte le opere, Electa, 2007. Peter Eisenman, Contropiede, Skira, 2005. Peter Eisenman, La base formale dell’architettura moderna, Edizioni Pendragon, 2009. Renato Rizzi, La muraglia ebraica, Mimesis Edizioni, 2009. Manfredo Tafuri, Five Architects, Officina Edizioni, 1981. Matteo Zambelli, Tecniche di invenzione in architettura. Gli anni del decostruttivismo, Marsilio Editori, 2007. __________________________________________________ 28 Scuola Così la democrazia diventa catechismo di Ernesto Galli Della Loggia Non sono molti gli italiani a conoscenza del fatto che a partire da quest’anno in tutte le scuole della Repubblica, sia nel primo che nel secondo ciclo, viene insegnata per un’ora alla settimana una nuova materia: “Cittadinanza e Costituzione”. Dunque d’ora in poi, dai sei ai diciotto anni, per un totale non insignificante di 429 ore, ad ogni giovane del nostro Paese saranno impartite le opportune nozioni per diventare un cittadino modello, nel senso, come vedremo, di “un perfetto democratico”. E si badi: questa volta si tratta di un insegnamento a sé stante, autonomo, il cui voto ha lo stesso valore di quello di qualsiasi altro; insomma un vero e proprio salto di qualità rispetto all’”Educazione civica” o all’”Educazione alla convivenza democratica” di una volta, che erano collocate come appendici di altre materie. Si compie così un nuovo, decisivo, passo avanti lungo quella china micidiale che sta portando la scuola italiana al disastro: cioè la sua trasformazione dal luogo di apprendimento che era un tempo a una sorta di insignificante agenzia alla socializzazione. Un mutamento genetico in atto da almeno tre decenni, che è rispecchiato nel modo più impressionante dal gergo insulso e insieme pomposo con cui è ormai redatto ogni documento ministeriale riguardante l’insegnamento, infarcito di “itinerari formativi”, di “percorsi di responsabilità partecipate”, di “prese di coscienza”, di “mappe concettuali” e via di questo passo. Del resto in uno “Statuto delle studentesse e degli studenti”, elaborato a suo tempo dal ministro Berlinguer e peraltro caduto immediatamente nel dimenticatoio, non si definiva forse la scuola, badando bene a evitare la parola tabù “studio”, “una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni”? Definizione perspicua che potrebbe altrettanto bene attagliarsi per il Touring Club o per una colonia sansimoniana. Il “Documento d’indirizzo” emanato dal Ministero nel marzo di quest’anno (2009 N.d.r.) per spiegare in che cosa consista l’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” è per l’appunto un esempio perfetto di questo gergo pedagogicodemocratico. Ed è sintomatico della vischiosità burocratica che domina nei ministeri, oltre che della grande timidezza culturale della destra italiana, il fatto che al documento stesso (beninteso non solo per come è scritto ma specialmente per quello che dice) abbia apposto la sua firma il ministro Gelmini. La quale, com’è normale per questo genere di documenti, non ne è l’autrice, ma evidentemente non ha potuto fare altro che adeguarsi alle idee e alle parole di colui che è invece il vero autore dello scritto, cioè Luciano Corradini.Vale a dire uno dei massimi esponenti di quell’oligarchia accademico-ministeriale d’ispirazione infallibilmente “progressista”, in questo caso nella sua versione cattolica, accumulatrice di cariche di ogni tipo, la quale da anni gestisce a suo 29 piacere la scuola italiana e che anche in questo caso ha puntualmente presieduto il gruppo di lavoro ministeriale per l’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”. Una scelta appropriata, bisogna peraltro ammettere, dal momento che il caposaldo del Corradini-pensiero e dei tanti che lo condividono è proprio l’ineluttabilità, che dico l’assoluta necessità, del passaggio dall’istruzione, tipica della vecchia scuola liberal-classista-nozionista, all’Educazione, irraggiante invece roussoiana libertà e armonia. In questa prospettiva “Cittadinanza e Costituzione” è chiamata per l’appunto a rappresentare il vertice dell’Educazione. Il documento in parola assegna alla scuola lo scopo, in pratica, di formare nulla di meno che l’Uomo nuovo. Stando a ciò che si legge, essa infatti dovrebbe insegnare non solo “ il riconoscimento e la promozione della capacità da parte dello studente di assumersi la responsabilità cognitivo-emozionale delle proprie intenzioni e azioni” (in un ragazzo, chessò, di 15 anni?), ma altresì come “maturare la propria capacità di cercare e di dare un senso all’esistenza”: sì, avete letto bene: “Dare un senso all’esistenza”. Il tutto, naturalmente, sempre sotto l’etichetta di “Cittadinanza e Costituzione”. Che in tal modo diviene l’insegna di un prescrittivismo buonista le cui ambizioni sembrano non conoscere limiti. In un crescendo di titanismo pedagogico quasi delirante, il documento corradiniano-ministeriale, infatti, proclama che la materia in parola dovrà insegnare a essere “solidali”, “responsabili”, “consapevoli”, inoltre pronti al “dialogo”, all’”interscambio culturale”, a stare dalla parte dei “diritti umani” e “delle altre culture” ; ancora: ad essere capaci di “gestire conflittualità e incertezze” (?), “promuovere il benessere proprio e altrui” (?), “esprimere sentimenti, emozioni e attese nel rispetto di se stessi e degli altri”, “esprimere autenticamente se stessi”. Nient’altro. Non senza naturalmente una doverosa avvertenza finale: ognuno dei traguardi pedagogico-morali di cui sopra va inserito – e chi poteva dubitarne? – “nella prospettiva di un’etica universale” (pp. 12-15 e 18). E’ così che si realizza, attraverso la perdita di centralità dell’Istruzione, nell’ideologia dell’istituzione scolastica prima ancora che nei programmi, attraverso l’assegnazione alla scuola di compiti educativi che ostentatamente prescindono dall’Istruzione, il distacco gravissimo tra la dimensione dell’Educazione e quella della Cultura. E’ per questa via che si compie il passaggio dalla scuola dei saperi, in cui si andava per apprendere qualcosa, a quella – come leggiamo nei documenti ufficiali – dove invece si compiono “percorsi formativi” e si acquisiscono “competenze”. Ed è così che, alla fine, dalla scuola della pagella si passa a quella del certificato di civismo. Ma ciò che in questo modo si perde – che in sostanza anzi sembra essere già perduto – è qualcosa di decisivo: è né più né meno che la consapevolezza del valore moralmente educativo del sapere in quanto tale. L’idea, cioè, cara a tutta la tradizione umanistica occidentale, anzi cuore stesso di tale tradizione, che la Cultura, in quanto rivolta costitutivamente alla Bellezza e alla Verità, è in sé e per sé, in quanto tale, matrice decisiva di raffinamento etico e di crescita civile: non si può più essere barbari, insomma, una volta che si apra Virgilio o che ci si ponga a studiare l’algebra. L’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” – la cui appartenenza, nel documento ufficiale che ne segna l’esordio, viene non a caso esplicitamente rivendicata al campo dell’Educazione piuttosto che della 30 Cultura – sancisce viceversa la virtuale cessazione di questo rapporto ovvio che fino a non molto tempo fa esisteva tra i due ambiti. Ci si può chiedere: e che male c’è? Che male c’è se l’obiettivo sacrosanto dell’Educazione viene perseguito di per sé, autonomamente, senza passare attraverso la Cultura, cioè attraverso l’Istruzione , attraverso l’apprendimento della Storia, della Letteratura, della Matematica e di quant’altro? E’ presto detto, e lo dimostra proprio il documento di cui sto dicendo. Il male è che mentre la Cultura e l’Istruzione che ne è la principale via d’accesso lasciano liberi di formarsi la propria identità, cioè di costruire come si vuole, con i materiali messi a disposizione, i propri valori e la propria personalità – sicchè l’Educazione attraverso la Cultura è realmente una educazione alla libertà per il tramite della propria liberazione dal non-sapere, dall’ignoranza – viceversa l’Educazione perseguita programmaticamente in quanto tale non può che essere prodotta in modo autoritario, adottando preliminarmente un modello di personalità, una determinata tavola di valori assunti a priori e calati dall’alto. Quei valori, solo quelli e non altri. Nel nostro caso, ci viene per l’appunto detto, i valori della Costituzione. Naturalmente l’istruzione, la cultura, possono anche produrre l’adesione a cattivi valori morali e civici. Un grande fisico, un valente filologo classico, possono benissimo essere dei leninisti o dei nazisti. Ma ciò non fa altro che confermare il profondo rapporto che il binomio Cultura-Istruzione ha con la libertà e con l’autonomia personale. Dal momento che i contenuti della cultura hanno spesso un volto oscuro e ambiguo è inevitabile, infatti, che nella libertà di cui stiamo parlando ci sia sempre ed anche il rischio dell’errore. Ma se non ci fosse un tale rischio, che libertà sarebbe? In realtà, quando nella scuola e poi di conseguenza anche nella società in generale, all’Istruzione si sostituisce l’Educazione, si apre una frattura gravissima: l’identità della persona e la sua costruzione si slegano dalla fruizione e dall’esperienza dei prodotti culturali, dalla loro polifonia viva ed emotivamente coinvolgente, per essere tutte affidate all’adeguamento a una norma astratta, a una “Tavola del dover essere”. D’ora in poi l’esperienza personale sarà pure talora ammessa, ben che vada, ma a patto che conduca al risultato voluto: quello del Perfettismo e del Buonismo universali. A questo punto non starò a dire, come pure mi verrebbe subito alle labbra da dire, che in tal modo, a dispetto delle rosee speranze dei novatori, è garantita solo una cosa, e cioè la produzione di analfabeti da un lato e di bulli dall’altro. M’interessa di più sottolineare come tutto l’impianto del nuovo insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, oltre alla frattura appena detta, produca anche un ulteriore, grave, mutamento di prospettiva nel senso comune. Quell’insegnamento, come si è visto, mira in sostanza a far introiettare “eticamente” la democrazia con l’affermarne perentoriamente la prescrittività. Ma accade così che la democrazia stessa finisca per assumere un’immagine quanto mai discutibile. Questa, infatti, non appare più tanto come una determinata organizzazione dei pubblici poteri in funzione precipua della migliore tutela di un certo numero di diritti di comune accordo stabiliti, ma come qualcosa che attiene a tutt’altro genere di ambito: come un modello di relazioni etiche tra gli individui e tra gli individui e le istituzioni. Al posto della migliore tutela dei diritti si sostituisce l’affermazione, sub specie della Cittadinanza, del Bene sul Male. 31 La conseguenza ultima, che a me pare di enorme importanza, è che in questo modo agli occhi dei giovani la Costituzione viene sottratta alla dimensione storico-politica, che è e dovrebbe essere propriamente l’unica sua, ma sottoposta ad un processo di eticizzazione che la trasforma nel vangelo di una vera e propria “religione politica”, in linea di principio analogo ad altre religioni di questo tipo che hanno funestato il Novecento: in un paradigma protototalitario. La nostra Costituzione non è più una carta politica, dunque politicamente discutibile, di cui si possa dire per esempio che quella tedesca o quella americana le sono superiori, e che quindi magari può essere cambiata per avvicinarla, chessò all’una o all’altra. No, essa è in realtà qualcosa che trascende la mutevole realtà della storia: è la via maestra al Cittadino Perfetto, all’Uomo Nuovo Democratico. Che per il solo fatto di essere perfetto e democratico non risulta certo meno agghiacciante. Ernesto Galli Della Loggia FOTO S. Santioli L’articolo sopra riprodotto è stato pubblicato in data 8 novembre 2009 da Il Corriere della Sera. Ringraziamo la direzione del giornale e l’autore per la gentile concessione. 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 32 Guardare la Shoah. Breve excursus in alcune immagini Sebaldiane di Diana Napoli 1. La storia immaginaria «Ricordo adesso, soggiunse Ferber, che lo zio Leo – professore di latino e greco in un liceo di Würzburg, finché non lo avevano rimosso dall’insegnamento – aveva mostrato allora a mio padre un ritaglio di giornale del 1933, in cui si vedeva la fotografia del rogo dei libri sul Residenzplatz della città. Lo zio definì quell’immagine una contraffazione. Il rogo dei libri, così disse, aveva avuto luogo la sera del 10 maggio, la sera del 10 maggio, ripeté più volte e, poiché con il buio che c’era a quell’ora le fotografie non potevano certo essere venute, qualcuno era andato per le spicce, sosteneva lo zio, inserendo un imponente pennacchio di fumo e un cielo notturno nero come la pece nell’immagine di un qualsiasi altro raduno davanti alla Residenz. Il documento fotografico pubblicato sul giornale era quindi un falso. E così come quel documento era un falso, disse zio Leo quasi che la scoperta da lui fatta rappresentasse la prova indiziaria decisiva, allo stesso modo tutto era sin dall’inizio una falsificazione»9. Leo era lo zio di Max Ferber, un pittore di origine ebrea che viveva e lavorava a Manchester, città in cui si era trasferito poco prima dell’adolescenza, alla fine degli anni Trenta, grazie ad un visto procuratogli dai suoi genitori affinché lasciasse la Germania. Il passaggio riportato si riferisce ad una considerazione di Leo che, notando la falsificazione materiale di un’immagine fotografica (foto 1) – nella fattispecie la foto del famigerato rogo dei libri non “ariani” alla Residenzplatz organizzato dai nazisti nel maggio del 1933 – argomentava una più generale e pericolosa falsificazione della storia di cui la fotografia in questione, a suo parere, testimoniava. La foto contraffatta della Residenzplatz era il segno di una realtà il cui discorso era costituito dalla menzogna con la stessa operatoria semplicità con cui si poteva truccare una fotografia. 9 W.G. Sebald, «Max Ferber», Gli Emigrati, Adelphi, Milano 2007, p. 197-198. Il testo è preceduto dalla riproduzione della fotografia in oggetto [foto 1]. 33 1 Restando in un campo «immaginario», dalla lettura di queste brevi righe si potrebbe concludere la necessità di mettersi alla ricerca delle fotografie «vere», come se potesse esistere una sorta di album fotografico del mondo in cui, Shoah – Foto 1) IRWR diversamente dalla immagini in cui si era imbattuto lo zio Leo, il reale sarebbe perfettamente visibile nella sua «verità». Non è per caso che abbiamo scelto di iniziare la nostra riflessione partendo da questo ricordo del pittore Max Ferber, protagonista di un racconto della raccolta Gli Emigranti, di W.G.Sebald.10. Questo ricordo, infatti, ci porta direttamente al cuore della questione che ci interessa, cioè sapere se sia possibile fidarsi delle immagini nella nostra «quête du réel» e, particolarmente, di quel determinato «reale» la cui scena è occupata dalla storia della distruzione degli Ebrei. C’è un senso nell’utilizzare immagini, in particolare fotografie, per parlare della Shoah, per confermare il nostro discorso o, semplicemente, per comprendere? E’ sufficiente, per «vedere», smascherare l’eventuale presenza di falsificazione materiale cui sarebbe stata sottoposta la nostra immagine? Tali questioni non si limitano a inquadrare un problema di estetica o di sociologia delle immagini e dei suoi usi, concernendo piuttosto il tipo di discorso storiografico che è stato costruito intorno alla Shoah. Il problema, in sé, è più che conosciuto e non è questa la sede per analizzarlo minuziosamente: 10 Sebald nasce in un piccolo paesino del Sud della Germania nel 1944 e la sua vita è tragicamente terminata nel 2001 a causa di un incidente d’auto. E’ considerato uno degli scrittori più importanti della seconda metà del XX secolo. Giovane studente lascia la Germania (di cui aveva criticato una sorta di « complotto del silenzio » relativo alla storia del nazismo e la Shoah almeno per i primi venti anni del dopoguerra) e si trasferisce in Inghilterra dove diventerà professore di Letteratura all’Università di Norwich. 34 la svolta memoriale, il dovere di memoria, le dimensioni della temporalità che sembrano non scorrere più in maniera tradizionale, sono tutti tasselli di una questione che trova origine in una storia della Shoah di cui la storiografia ufficiale fatica a prendersi carico11. Fiumi d’inchiostro sono stati spesi per definire il ruolo del testimone, per dare una collocazione corretta ai ricordi dei sopravvissuti nel lavoro dello storico, per calibrare gli strumenti del mestiere («les outils du métier», come avrebbe scritto Marc Bloch) alla presenza delle vittime o dei loro familiari. E tuttavia, questi sforzi che la metodologia storica e la riflessione storiografica hanno profuso, non sempre sembrano riuscire a colmare quella che pare essere, secondo un’espressione di Walter Benjamin, una «perdita dell’esperienza» – esperienza che, nei suoi differenti livelli di comprensione, dovrebbe costituire il sostrato per la costruzione di un sapere storico. Ebbene, la distruzione degli Ebrei fatica ad assumere i connotati dell’esperienza, ponendosi piuttosto come fuori da ogni storia e dunque da ogni esperienza, la cui “mancanza” e la cui “perdita” sarebbero abbondantemente riempite dalle immagini; noi conosciamo, tutti, le immagini divenute ormai il simbolo dei campi di concentramento: i corpi scheletrici ammassati, i volti scavati dietro il filo spinato; ci sono le prime fotografie scattate immediatamente alla Liberazione, così come le immagini filmiche divenute onnipresenti, quelle che noi vediamo in occasione delle commemorazioni o nei musei espressamente costruiti per conservare il ricordo di questo tragico evento. Tuttavia, queste immagini di cui siamo circondati, contengono la «verità» di quello che è accaduto? Sono sufficienti per permetterci quella che Koselleck definiva un’«acquisizione di esperienza» che, al di là dello choc iniziale12, permettesse l’ela11 Occorre spiegare che non si tratta di discutere lo stato della ricerca che ha anzi visto dei lavoro imprescindibili, tra tutti la monumentale opera di Raul Hilberg (in particolare La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino, 1999). Piuttosto, come ricordava Koselleck, si tratta del fatto che esiste un livello di tensione, una sorta di irrisoluta opposizione (almeno sul piano teorico) tra una storia “reale” e una storia “scritta” e che è il campo e il lavoro della storiografia, la quale, tra le altre cose, si pone il problema di capire come sia possibile fare, di un’esperienza, una storia. La questione che noi poniamo è proprio quella di cercare di comprendere quale livello di elaborazione e di approfondimento dell’esperienza la nostra società ha elaborato relativamente alla distruzione degli Ebrei. Tra l’altro lo stesso Hilberg si confronta con la storia della distruzione degli ebrei vista dall’alto delle vittime e dei testimoni e lo fa in maniera abbastanza problematica – o comunque molto differente rispetto alla sua tradizionale impostazione storiografica – nel testo Carnefici, vittime, spettatori (Einaudi, 1996) testo composto anche dopo la conoscenza del regista di Shoah, Lanzmann. 12 Naturalmente la sorpresa, quando si viene confrontati la prima volta con le fotografie dei campi, è la reazione più immediata. Interessante, per esempio, è la “testimonianza” di Susan Sontag ; non sarebbe un azzardo affermare che il suo atteggiamento fu quello di tutta una generazione nel momento in cui vide le prime foto (cfr. il testo di S. Sontag Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004). 35 borazione di un sapere storico capace di ripensare completamente la nostra storia?13 Questa storia (e in verità ogni storia) che noi pensiamo mercé le immagini è, appresa in tale maniera, estremamente problematica; come hanno infatti mostrato gli studi oramai classici di Roland Barthes e Susan Sontag, il ruolo e lo statuto stesso della fotografia nel mondo restano problematici e ambigui, mettendo capo ogni analisi più a paradossi che a chiarificazioni. Ci soffermiamo brevemente sulle conosciute riflessioni di questi due studiosi, al solo scopo di indicare i possibili effetti della presenza fotografica sul nostro immaginario relativo alla storia della Seconda Guerra. Con Barthes, per esempio, che ha privilegiato un approccio fenomenologico (approccio peraltro, come vedremo, non senza importanza per il nostro percorso), la questione potrebbe essere riassunta con la considerazione per cui una fotografia, pur essendo evidente, non è mai trasparente14 e che dunque, guardandola, è sempre «altro» che si guarda. Quello che ci interessa nell’analisi di Barthes è che il lato «falso» di un’immagine, da questo punto di vista, non risiede solo – o tanto – nella sua eventuale falsificazione materiale: senza voler considerare quest’ultima come irrilevante, l’attenzione verso la presunta verità dell’immagine si sposta al livello della relazione che lo sguardo tesse tra essa e noi. La fotografia, per Barthes, ha un noema che è la sua posizione di realtà (quello che lui chiama il «ça a été» di cui nessuno può dubitare), ma che in sé è insufficiente per dirci qualcosa del suo significato. Quest’ultimo è tutto nell’investimento del nostro sguardo, colpito dal punctum, dal «senso ottuso» della fotografia che sfugge ad ogni pratica connotativa. Non c’è che la foto, posta in «un lieu entre l’infini et le sujet», soggetto destinato a prendersi carico di tutto ciò che, guardandolo come in un certo senso fa il punctum, finisce per ricadere sotto il suo proprio sguardo15. La pratica connotativa che pure presiede 13 Come fanno inoltre notare Clément Chéroux e Ilsen About la maggior parte di queste fotografie sono prive di referente e manca una riflessione sul modo in cui andrebbero “trattate” dalla ricerca storica (che spesso se ne serve senza alcuna consapevolezza del modo in cui analizzare). Cfr. I.About e C. Chéroux in L’histoire par la photographie, in “Etudes photographique), 10(2001). 14 «Quoi qu’elle donne à voir et quelle que soit sa manière, une photo est toujours invisible : ce n’est pas elle qu’on voit», R. Barthes, La chambre claire, Gallimard, Parigi, (coll. “Cahiers du cinéma”), 1980, p. 18. 15 Barthes ha scritto che la fotografia è il suo proprio referente, che è caratterizzata da una pienezza analogica che rende paradossale ogni sforzo di connotazione, ciò che avviene quando costruiamo un testo servendoci di immagini. Anche se esistono delle pratiche di produzione della fotografia che sono in sé connotative, la fotografia, nella relazione con colui che la guarda (e anche nella sua struttura ontologica) resta isolata e autosufficiente, senza un vero e proprio codice e, al massimo, impregnata di un senso “ottuso” da cui solo lo «spectator» può essere toccato. Cfr.R. Barthes, La chambre 36 alla produzione di certe immagini fotografiche è già dunque la prima coercizione, la prima falsificazione che tenta di differire la pienezza analogica della foto. Vedremo che queste osservazioni di Barthes, ora brevemente riportate, saranno estremamente efficaci per comprendere l’uso sebaldiano della fotografia. Susan Sontag, dal canto suo, ha messo in evidenza che l’utilizzo accentuato nella nostra società dell’immagine fotografica ha reso il mondo stesso un’immagine, nel senso che è invalsa l’abitudine di catturare il reale sotto il segno di criteri immaginari, cioè i criteri che ci permettono di guardare o di scattare una fotografia. Il mondo diviene così un’illusione (e anche un ricordo) che riceve la sua attestazione di realtà dalla fotografia (che, a sua volta, mostra la sua qualità di memento mori). Tali questioni si traducono, in relazione alla storia della Shoah, nel rischio di trasferire questa storia in una sorta di immaginaria «atemporalità» favorita proprio da un utilizzo «universalistico» delle immagini (fotografiche ma anche filmiche)16 la cui onnipresenza ha finito per creare un mondo senza alcuna referenza – o meglio autoreferenziale – sublimazione di un incubo e delle peggiori atrocità che proprio la traslazione in immagini-simbolo allontana dal reale. Come Susan Sontag aveva fatto notare, la fotografia innanzitutto anestetizza il nostro impatto con il mondo, perché una serie continua di foto, anche con la pretesa di documentare la realtà, di fatto ce ne allontana; in secondo luogo essa è in fondo un’arte surreale la cui essenza potrebbe essere riassunta nella convinzione che comprendere il mondo è un vano tentativo e che meglio sarebbe collezionarlo; di conseguenza, la Shoah conosciuta principalmente attraverso le immagini è divenuta senza storia, è divenuta essa stessa un’immagine (l’immagine per eccellenza della sofferenza inconcepibile), invece di essere conosciuta per quello che è: una produzione umana e storica determinata17. Le immagini a cui associamo immediatamente il nostro pensiero sulla Shoah (quelle dei film ormai famosi, che quasi tutti hanno visto, per esempio, nelle scuole), le fotografie dei sopravvissuti, formano una galleria in cui ci si potrebbe condurre come in un museo. Senza alcuno sforzo di ricostruzione, né claire, cit., et R. Barthes, L’obvie et l’obtus, Seuil, Parigi,1992 (in particolare i capitoli: « Rhétorique de l’image », «L’obvie et l’obtus», «Le texte e l’images»). 16 Cfr. il breve saggio «La photo de presse et la libération des camps en 1945» di B. Zaliger, in M.B. Vincent (ed), La dénazification, Perrin, Parigi, 2008. 17 A questo proposito è interessante leggere della difficoltà della storiografia a confrontarsi con le dimensioni immaginarie e collettive della Shoah che sconvolgono i tradizionali strumenti del mestiere dello storico. Un utile compendio è A.Wieviorka, L’ère du témoin, Plon, Parigi, 1998. 37 di spiegazione, le immagini sono là, nella loro crudezza esemplare, impossibili da cancellare o da distruggere. A quale storia appartengono? O a quale esperienza possibile che il sapere storico potrebbe elaborare? Non parlano forse da sole? D’altronde non è di molti anni fa, a questo proposito, la polemica tra DidiHubermann e altri intellettuali raccolti attorno alla figura di Claude Lanzmann. Se il primo ha mostrato l’esigenza di un’analisi attenta delle fotografie dei campi, a partire dalle pochissime scattate probabilmente a guerra e sterminio ancora in corso, Lanzmann ha sempre rivendicato la distanza esistente tra un’immagine e la verità, arrivando addirittura ad affermare che nel caso di un ipotetico ritrovamento di immagini concernenti direttamente lo sterminio degli ebrei (che fossero anche immagini “dirette” delle camere a gas) avrebbe persino forse sentito l’esigenza di distruggerle – proprio per sottolineare che il piano della verità non è quello dell’evidenza “immaginaria”18 (spingendosi persino a rivendicare che il suo terreno non è quello del documento, ma quello del monumento). Per cercare di offrire una risposta a tali questioni, o quanto meno per avvicinarci a tali problematiche, abbiamo scelto di trarre alcuni esempi dall’opera di W.G.Sebald. Noi non siamo specialisti di storia dell’arte o della fotografia; tuttavia abbiamo scelto di operare questo spostamento temporaneo in una materia che non è la nostra perché la scrittura di Sebald, interrotta, ossessionata o portata a compimento dalle immagini, pone con forza tutte le dimensioni della storia con le sue impasses attuali (l’ambiguità della temporalità tradizionalmente considerata, la perdita dell’esperienza, le dimensioni dell’oblio e della memoria) e può dunque essere considerata un luogo da cui osservare il funzionamento della storiografia e, per quel che ci riguarda, il suo rapporto possibile con una «dimensione immaginaria» della Shoah. Inoltre, come nota a margine, non è inutile riportare una considerazione di Michel de Certeau riguardante il «ruolo» della letteratura: essa non è il riflesso 18 In verità le polemiche di Lanzmann e dei suoi sostenitori si indirizzavano non tanto all’analisi o agli interventi in sé di Didi-Hubermann, quanto alla mostra tenuta a Parigi nel 2001 Mémoire des camps, photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999) e al catalogo contemporaneamente pubblicato di questa esposizione. La critica di Lanzmann si riferiva all’idea, sostenuta in effetti nel catalogo, che nuove immagini avrebbero finalmente arricchito la nostra conoscenza sulla Shoah, di cui esisteva un livello di “visibilità”, come testimoniava una foto scattata, correndo un enorme rischio, in un campo, da un certo Alex (probabilmente un ebreo polacco). Le considerazioni di Didi-Hubermann a proposito di due foto scattate da Alex avevano suscitato le ire di Lanzmann, innescando una feroce diatriba intellettuale. 38 della società, ma il suo «rovescio», nella misura in cui «elle énonce ce qui est perçu comme manquant»19. 2. Lo sguardo obliquo I libri di Sebald sono disseminati di immagini. Il ruolo di queste immagini che arrestano, interrompono, scombinano o rendono opaca la scrittura è stato oggetto di numeroso studi20. Noi ci concentreremo su un corpus molto ristretto di immagini tratte dal romanzo Austerltiz e su due immagini del racconto «Max Ferber»21 e ci limiteremo inoltre all’uso che di queste immagini è fatto, ricordando che la nostra riflessione su questo autore ha una funzione euristica allo scopo di cercare di comprendere lo sguardo che è possibile portare alla Shoah per mezzo delle immagini. Il nostro punto di partenza erano state le considerazioni dello zio Leo che, fortemente indignato per la falsificazione della fotografia del rogo dei libri alla Residenzplatz, si preoccupava della più vasta contraffazione che si stava preparando per la storia in generale. Già questa prima osservazione ci avvicina ad un approccio alla falsificazione che oltrepassa la pratica materiale di alterazione dell’immagine per soffermarsi piuttosto sulla pratica discorsiva che utilizza le immagini per confermarsi. Detto altrimenti, è sul versante dello «sguardo» (come, in quale contesto e secondo quali norme si esercita lo sguardo) che la falsificazione trova il suo luogo proprio22. E se è sufficiente, per provocare indignazione, scoprire una 19 M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Parigi, 2002, nota 21, p. 430. In effetti le interazioni tra testo e immagine nell’intera opera di Sebald e nello stesso Austerlitz danno luogo a differenti tipi di interazione. Noi ci siamo limitati ad indicare solo alcuni esempi pertinenti per il nostro percorso e la nostra analisi non ha nessuna pretesa di esaustività relativamente al ruolo dell’immagine nella scrittura sebaldiana. 21 Non è questa la sede per avventurarsi in una definizione dello statuto del testo sebaldiano : dire «finzione» o «prosa documentaria» o «romanzo documentario» è sempre riduttivo. Si tratta di prosa che prende origine (non a titolo di semplice «ispirazione» da persone che l’autore ha conosciuto. Le stesse immagini sono per lo più «originali», cioè appartenute in qualche modo ai personaggi di cui si parla. Ma nel nostro caso si tratta meno del valore «documentario» strictu sensu delle foto che dell’uso che se ne può fare in un discorso che si costruisce attorno alla Shoah. 22 D’altronde, ad essere fortemente falsificatrice è già l’idea stessa che il mondo possa essere riassunto in immagini, il che equivarrebbe a dire che il mondo sia un seguito di immagini per cui ogni inquadratura è allo stesso tempo arbitraria e possibile («non occorre che inquadrare il soggetto in maniera differente», scrivava S.Sontag). La Sontag dichiarava che ogni fotografia non è determinata che dall’uso che se ne fa essendo, in sé, priva di un senso univoco. In questo modo la proliferazione di fotografie (e la proliferazione di «sensi» a esse connesso) contribuisce all’erosione della nozione stessa di senso. Cfr. ancora il saggio di Sontag Sulla fotografia, cit. 20 39 manomissione in una riproduzione riportata su un quotidiano, cosa che era avvenuta a Leo, non basterebbe certo la riproduzione della foto “vera” per comprendere la storia nella sua pienezza. L’idea, d’altronde, che esistano foto vere e foto false è introdotta e resa possibile dalla convinzione di poter scambiare, come perfettamente coincidenti e specchio l’una dell’altra, immagine e realtà, laddove, forse, l’intuizione più originale a questo proposito, l’aveva avuta, alle origini di questa pratica fotografica di creazione immaginaria del mondo, Balzac. Egli aveva in effetti avanzato l’ipotesi che le fotografie fossero un impoverimento della realtà e non una semplice e fedele copia, come se ad ogni scatto non si facesse che sottrarre al reale uno degli strati di cui è costituito e, alla fine, esaurirlo23. L’album fotografico del mondo non sarebbe altro, allora, che un mondo fotografico autoreferenziale la cui pienezza analogica non necessiterebbe di alcun «reale» se non per consumarlo. Si potrebbe dire che Balzac aveva, in anticipo, smascherato l’illusione secondo la quale le immagini abbiano la funzione di «farci vedere», in un’ideale trasparenza, la realtà e questo soprattutto – per ritornare al nostro tema – nei momenti in cui questa è e si mostra come «abominevole». Di fronte alla pletora di immagini da cui siamo circondati e riflettendo sulla possibilità di risolvere la storia della Shoah in una rappresentazione “immaginaria”, Sebald aveva riportato, in un’intervista, una considerazione di Benjamin per cui non c’è ragione di esagerare ciò che è già abominevole24. E questo perché le immagini che tutti conosciamo e che, bisogna ricordare, hanno un effetto pernicioso, ci impediscono di pensare, anestetizzando piuttosto il nostro senso morale. Dunque, proseguiva Sebald sempre riferendosi alla storia della distruzione degli Ebrei, «non è che in maniera obliqua, indiretta, per allusione piuttosto che frontalmente, che si possono abbordare tali questioni»25. Ed è proprio questa maniera “obliqua”, tipicamente sebaldiana, di utilizzare la fotografia che cercheremo di interrogare. Una delle fotografia più emblematiche del romanzo Austerlitz (foto 2) riportata a pagina 197, riproduce Jacques Austerlitz, all’età di quattro o cinque anni, vestito da paggio in occasione di una festa. 23 Si tratta di un ricordo a proposito di Balzac riportato probabilmente da Nadar e citato da S.Sontag nel suo libro Sulla fotografia: «chaque corps dans la nature se trouve composé de séries de spectres, en couches superposées à l’infini, foliacées en pellicules infinitésimales… L’homme à jamais ne pouvant créer – c’est-à-dire d’une apparition, de l’impalpable, constituer une chose solide, ou de rien faire une chose – chaque opération Daguérrienne [sic] venait donc surprendre, détachait et retenait en se l’appliquant une des couches du corps objecté». 24 Si tratta di un’intervista a Sebald riportata nel testo curato da L.S. Schwarz, L’archéologue de la mémoire. Conversation avec W.G.Sebald, Actes Sud, 2009, p. 90. Non sono riuscita a consultare la versione originale dell’intervista. 25 Ibi, p. 84. 40 Shoah - Foto 2) IRWR Austerlitz, professore di architettura, era arrivato in Inghilterra con un Kindertransport, uno di quei treni speciali grazie ai quali alcuni bambini ebrei erano riusciti a sottrarsi al nazismo; allevato presso la famiglia di un pastore protestante e vittima di una sorta di amnesia, solo durante l’adolescenza verrà a conoscenza del suo vero nome e solo in età adulta recupererà la propria vicenda così come quella dei suoi genitori, vittime del nazismo, arrivando a inscriverla nella più vasta storia tragica della seconda guerra mondiale e della Shoah. Noi conosciamo la sua storia grazie al ricordo di un “ascoltatore” incontrato casualmente alla stazione di Anversa, ricordo che segue il perenne ritorno del rimosso nella vita di Austerlitz e che è inframmezzato da immagini (in particolare fotografie) che erano state a lui legate da Austerlitz in circostanze molto particolari e commoventi. Questo ricordo ripercorre il racconto di Austerlitz che disvela man mano la propria biografia, dalla “scoperta” del nome a scuola, fino alla presa di coscienza della morte dei suoi genitori, il padre catturato probabilmente in Francia dove si era rifugiato e la madre deportata prima a Theresienstadt e in seguito, dopo un periodo di permanenza nel campo/ghetto, ancora verso Est trovandovi la morte. Già solo la fotografia del paggio che abbiamo indicato solleva numerosi interrogativi. Ritrovata dopo una peregrinazione rocambolesca per l’Europa, la fotografia in questione testimoniava di una vita che Austerlitz aveva completamente rimosso e che si ritrovava a dover prendere in conto a partire dallo sguardo impietoso del paggio che non faceva che reclamare ciò che gli spettava: «quasi le immagini avessero anche loro una memoria e si ricordassero di come allora eravamo noi, i sopravvissuti»26. Il paggio, con il suo sguardo interrogatore, domandava allo spettatore di scongiurare l’infelicità oramai consumatasi a partire dal quel luogo (temporale) da cui, in maschera, guardava. 26 W.G.Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano, p. 197. 41 Rispetto a questo luogo temporale è Barthes che ha qualcosa da dirci. Come scriveva ne La Chambre claire la fotografia, in relazione a noi, in un approccio fenomenologico, non ha che un solo noema: «ça a été». La fotografia è il suo proprio referente e la sola posizione di realtà che si possa attribuirle è il passato di cui noi siamo i destinatari. Nessuno può dubitare che il paggio «sia stato» e nemmeno si potrebbe dubitare che tra il suo sguardo interrogatore e Austertliz incapace di sottrarvisi si sia consumata una catastrofe di cui il solo resto è la capacità di Austerlitz stesso, adulto, di guardare27. Barthes scriveva che noi siamo colpiti dal punctum di una foto che è certamente il dettaglio che ci corrode tenendoci legati all’immagine, ma che è anche il Tempo, «l’emphase déchirante du noème (ça a été)»28, che ha potuto offrire un luogo in cui giacere a ciò che, fino ad arrivare a noi, è accaduto. Tra la fotografia «image vivante d’une chose morte»29 e noi, non c’è che la realtà che noi siamo in grado di prendere in conto. Ma cosa accade in questo spazio di realtà, dall’inizio del quale il paggio reclama il suo « dovuto », scongiurando Austerlitz adulto di farvi, in qualche maniera, fronte ? Per tentare di rispondere alle questioni sollevate dal paggio, prendiamo in esame altre due fotografie, una di Agata (foto 3), la madre di Austerlitz, e una rubata dal film di propaganda girato dai nazisti nel campo di Theresienstadt (foto 4). La prima fotografia è in realtà un risultato molto tardivo della ricerca di Austerlitz che si era messo sulle tracce dei suoi genitori cercando disperatamente un’immagine del volto materno, di cui non aveva che ricordi confusi. Dopo una serie di vani tentativi, nell’archivio del teatro della città di Praga, dove sua madre aveva lavorato come attrice, Austerlitz trova finalmente la fotografia che pareva coincidere col ricordo pur oscuro che aveva della madre30. Ma, prima di questo ritrovamento c’erano stati numerosi tentativi andati a vuoto. Uno dei più emblematici riguarda il citato film che i nazisti fecero girare 27 «E ogni volta mi sentivo scandagliato dallo sguardo interrogatore del paggio, il quale era venuto a reclamare la sua parte e ora, alle prime luci del giorno, lì sul campo vuoto, aspettava che io raccogliessi il guanto e allontanassi la sciagura incombente su di lui», ibi, p. 198. 28 R. Barthes, La chambre claire, cit., p. 148. 29 Ibi, p. 123. 30 W.G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 269. 42 IRWR IRWR nel ghetto/campo di Terezin allo scopo di farlo visionare da alcuni ispettori della la Croce Rossa. Avendo saputo della deportazione di sua madre a Theresienstadt e della presenza di questo “film”, Austerlitz aveva pensato che forse vi avrebbe potuto scorgere il volto della madre, suo malgrado filmata, ragion per cui si era immerso nella visione di questo documento filmico pur cosciente che si trattava di una falsificazione immaginaria destinata ad essere consumata dai rappresentanti dell’organizzazione internazionale. Anche se egli stesso aveva a studiato a fondo il lavoro di G.H. Adler31, che aveva ricostruito minuziosamente sia il funzionamento del campo sia le procedure adottate dai nazisti in questa costruzione immaginaria, sorta di falsificazione al secondo grado nel senso che si era modificata la realtà ancora prima dell’eventuale modificazione materiale dell’immagine, Austerlitz non cessava di pensare che, se solo avesse visto il film, avrebbe potuto intuire le reali fattezze del ghetto/prigione di Terezin e della vita che si vi si conduceva. Tuttavia, ciò che questa visione conservava non era che una sequela incessante di rumori e volti stranieri che apparivano al massimo per una frazione di secondo. Preso atto di questa inafferrabilità che caratterizzava lo svolgersi della pellicola, Austerlitz riuscì a farsi confezionare una copia del film a velocità ridotta la cui visione si rivelò assolutamente sorprendente: era stato sufficiente modificare la velocità delle immagini per scoprirvi il loro lato omicida. Un minimo di attività capace di rompere l’equilibrio immaginario costruito dai nazisti era in grado di mostrare il «nascosto». In questa nuova visione rallentata «la cosa più inquietante […] era però la metamorfosi dei suoni. In una breve sequenza, subito all’inizio […] l’allegra polka di un qualche compositore di operette austriaco che si udiva nell’accompagnamento musicale della copia berlinese, si è trasformata in una marcia funebre che si trascina con indolenza addirittura grottesca, e anche gli altri brani musicali, sottesi al film e di cui io sono riuscito ad identificare soltanto il cancan da La Vie parisienne e lo scherzo dal Sommernachtstraum di Mendelssohn, si muovono in un mondo per così dire sotterraneo, in abissi terrificanti […] nei quali nessuna voce umana è mai scesa»32. E tuttavia, in questo mondo ctoniano, «appare il viso di una donna più giovane, quasi indistinguibile dall’ombra nera che la circonda […]. Intorno al collo […] porta una catenina a tre giri sottili che risalta appena sul suo abito scuro e accollato, mentre fra i capelli, da una parte, ha un fiore bianco. Esattamente così come mi immagino l’attrice Agàta sulla base dei miei deboli ricordi e degli altri scarsi riferimenti che oggi posseggo, esattamente questo – 31 Si tratta del lavoro di H.G. Adler, Theresienstadt. 1941-1945.. Das Antlitz einer Zwangsgemeinschaft. Geschichte, Soziologie, Psychologie, la cui prima edizione è del 1955. 32 W.G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 266. 44 penso – è il suo aspetto e continuo a guardare quel viso nel contempo estraneo e familiare»33 (foto 4). Decostruendo una costruzione immaginaria Austerlitz aveva estratto l’orrore che essa nascondeva, mostrando il velo fragile (l’immagine filmica, in questo caso), con cui si era tentato di occultare una pratica si distruzione – certo si renderà anche conto che il volto agognato non era quello di sua madre, per vedere apparire il quale dovrà attendere un ritaglio oscuro di un quotidiano conservato in un archivio teatrale. Ma questo rumore di morte di cui la visione al rallentatore testimonia, non è ancora in grado di dirci nulla sul destino della madre di Austerlitz, né della distruzione degli ebrei, né ci mostra un’eventuale rappresentazione della Shoah. Per ora Austerlitz non ci ha mostrato che volti: nessuna foto con corpi ammassati, né scene di partenza presso, per esempio, il palazzo delle esposizioni a Vysehrad, dove sua madre aveva ricevuto l’ordine di recarsi con un piccolo bagaglio dai Tedeschi che oramai occupavano la città, e nemmeno immagini della vita nel ghetto di Theresienstadt che era anche un campo di concentramento. E tuttavia, nonostante queste immagini non siano né prodotte né riprodotte, il nostro sguardo che resta testimone è costretto ad operare uno sforzo di ricostruzione, senza alcuna necessità di mostrare l’«immagine presente». La posizione di passato che la foto impone a colui che la guarda porta con sé la ricomposizione dello spazio tra il «ça a été» della fotografia e il soggetto. Per ricostruire l’orrore di Theresienstadt, anche se certo la minuziosa analisi di Adler esaurisce tutte le domande che ci si potrebbe porre, non c’è bisogno di mostrare direttamente l’orrore «esagerando» come direbbe Benjamin, ciò che è già abominevole. E’ sufficiente, per esempio, anche osservare le macabre foto di quel che resta nel Comune di Terezin in cui è conservata ancora tutta la disfatta di cui il luogo è stato depositario (foto 5, 6, 7): Terezin, divenuto appunto un ordinario comune, ma che con «l’aspetto ostile delle mute facciate delle case», «le finestre cieche», i «desolati edifici » sembra abitato dai fantasmi. Ma la presenza più opprimente è senza dubbio l’«Antikos Bazar» (foto 8) , colmo di oggetti tra i più bizzarri e il cui solo legame era «senza equivoco» il fatto di essere sopravvissuti alla distruzione del loro proprietari. Così, per comprendere cosa fosse accaduto in questo luogo, antica fortezza costruita durante l’epoca moderna, bastava, da parte dello spettatore, tessere il 33 Ibi, p. 268. 45 IRWR IRWR IRWR legame tra quelle porte di legno desolate, i bizzarri oggetti del bazar, i rumori ctoniani del film di Theresienstadt al rallentatore, l’aria di dissolutezza che si respirava nelle vie del comune di Terezin, il bel viso nell’ombra di Agata e l’inquietante sguardo interrogatore del paggio che non cessava di reclamare che Austerlitz «raccogliesse il guanto e allontanasse la sciagura incombente su di lui». L’abbandono mostrato da queste immagini, tutto ciò che costituisce il loro punctum, dava ad Austerlitz la sensazione che le persone un tempo rinchiuse a Theresienstadt non fossero mai state evacuate34 e per questa visione qualunque foto l’avesse riprodotta sarebbe stata insufficiente: o perché avrebbe tolto al reale qualcosa (uno strato di realtà, come diceva Balzac) o perché l’avrebbe falsificato. Le immagini attraverso cui Austerlitz si è mosso (ma questo vale per qualunque lettore) non ci mostrano, in sé, una storia, non la spiegano né sono connotate dalle parole che le precedono o le seguono: esse non sono nemmeno dei semplici «aide-mémoire». Al contrario agiscono quasi come ostacolo alla visione35 che è costretta, per «vedere», a ripartire dallo sguardo reciprocamente interrogante che lega la fotografia e lo spettatore. Le foto dei romanzi di Sebald non sono delle classiche foto di reportage e non si potrebbe nemmeno parlare di foto artistiche36. Per tentare di spiegare la ragione che ha presieduto alla loro scelta occorre ancora una volta ricordare la volontà 34 «[…] Sentii con inequivocabile certezza che quelle persone [le circa sessantamila rinchiuse a Terezin] non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e ne isolai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura lo spazio fra cielo e terra che una pioggia sottile tratteggiava di grigio», W.G. Sebald, Austerlitz, cit., pp. 215-216. 35 Cfr. il saggio di M. Anderson «Fino allo sciogliersi delle cose. W.G. Sebald e la prosa della fotografia», in G. Pulvirenti (a cura di), Le muse inquiete, sinergie artistiche nel Novecento tedesco, Firenze, Olschki, 2003. 36 Ricordiamo che nell’opera di Sebald sitrovano usi differenti della fotografia e che il nostro proposito non era quello di analizzare la totalità del corpus di immagini sebaldiano. Non è forse inutile ricordare una considerazione di Barthes per cui la fotografia aveva in sé sempre qualcosa di allucinatorio, quasi arrivasse da una regione delle follia, essendo essa un «néant d’objet» della cui realtà, però, nessuno poteva dubitare. Per addomesticare questo lato allucinatorio della fotografia o la si rendeva un’arte (e allora il noema della foto veniva dimenticato: che senso avrebbe di fronte ad una foto d’arte, domandarsi «ça a été»?) o la si generalizzava trasformando il mondo stesso in immagini. Di fronte a questi comportamenti ben radicati, bisognava scegliere : sottomettersi («soumettre son spectacle au code civilisé des illusions parfaites») o «affronter en elle [la Photo] le réveil de l’intraitable réalité». Cfr. R. Barthes, La chambre claire, cit., pp. 176 et ss. 47 di Sebald di abbordare questioni come la distruzione degli Ebrei in maniera «obliqua». Le immagini rientrano in questa volontà: il loro valore non risiede in ciò che ci mostrano, ma in ciò che presagiscono e nascondono. Il loro valore risiede nel modo in cui si posizionano in un luogo, come diceva Barthes, «entre l’infini et le sujet»37 obbligando lo spettatore a riempire questo spazio con la storia iscrittasi al suo interno e che ha come compimento il nostro sguardo. Questo spazio riempito è il luogo in grado di ospitare una storicità, scomparsa in una rappresentazione immaginaria della Shoah tale quella cui ci siamo abituati. In Sebald la foto diventa lo strumento attraverso il quale invece di «vedere» siamo costretti a interrogare lo spazio che ci separa da essa. In sé, la desolazione opprimente delle stradine di Theresienstadt non potrebbe essere nulla più che un esempio di degrado o disfatta della modernità. Se essa diventa il segno di una più vasta rovina che ci permette di significare il silenzio e l’abbandono del luogo, è perché le immagini che noi vediamo non hanno alcuna pretesa di essere vere. In sé le immagini sono false perché è a noi che incombe l’obbligo e anche la responsabilità di intersecarvi una storia di cui, in sé, esse sono incapaci di testimoniare. Siamo noi a diventare i testimoni. Queste foto non illustrano nulla, né rappresentano alcunché, né sono illustrate né, nella maggior parte dei casi, commentate. Sono piuttosto, paradossalmente, un ostacolo alla visione, rendendo oscura la realtà invece di illuminarla e imponendo allo spettatore lo sforzo di rischiararla. Sempre nel libro Austerlitz si trova una brevissima nota sul luogo della verità che, è detto, «si trova altrove» rispetto a dove noi rivolgiamo lo sguardo38. Questo motto spiega bene l’uso obliquo della fotografia di cui si è appena parlato: la verità di una foto non si trova nella sua evidenza, là dove i nostri occhi si fissano nella speranza di abbracciare con lo sguardo ciò che è accaduto nel luogo limitato dalle dimensioni dell’apparecchio fotografico. E’, per esempio, ciò che racconta Sebald in un’intervista ad Arthur Lubow del 2001, poco prima di morire, relativamente ad una foto in cui figuravano i suoi genitori, suo padre e sua madre incinta accompagnati da un’amica. Come riporta Lubow, nulla nella fotografia lasciava «vedere» il nazismo : né le bandiere con le svastike, né la guerra con le sue privazioni e men che meno ebrei con la divisa a righe o la vicinanza inquietante della città di Norimberga, luogo di raduno del partito nazista. E nemmeno che l’uomo della fotografia, il padre di Sebald era in permesso. Eppure, nonostante queste non presenze alla visione, tutto nella fotografia portava l’impronta del nazismo, tutto era stato autorizzato dallo Stato, compreso il nome di Winfried Georg, il bambino concepito durante 37 R. Barthes, La chambre claire, cit., p. 121 Si tratta del professore di storia di Austerlitz, secondo il quale quando noi cerchiamo di fare della storia fissiamo il nostro sguardo sulle immagini consumante che popolano la nostra mente, mentre la verità si trova «altrove», in un luogo in cui nessuno guarda, cfr. W.G.Sebald, Austerlitz,cit., p. 82. 38 48 il permesso del soldato e che, una volta cresciuto, come ricorda Lubow, prediligerà farsi chiamare Max39. Nelle foto in questione, il regime nazista non si mostra nella visibilità dei suoi simboli o delle sue pratiche. Esso si trova «altrove», nella coercizione esercitata sulla realtà (su di un altro piano, ma si tratta della stessa operazione di costruzione preliminare della realtà che aveva preceduto la realizzazione del film su Theresienstadt: invece di falsificare l’immagine, si falsifica il mondo) che non lascia tracce nella materialità dell’immagine ma che trova posto nel nostro sguardo. E poiché la fotografia è evidente senza mai essere trasparente, è forse, come diceva Kafka, solo distogliendo lo sguardo (anche chiudendo gli occhi) che si potrebbe finalmente vedere, liberi dall’illusione che il reale si trovi nella facile pratica di visione sensoriale di uno scatto40. Il fatto che la dimensione abominevole della catastrofe non sia inquadrata direttamente, ci potrebbe ricordare facilmente il tentativo di Claude Lanzmann nel suo film Shoah, in cui la combinazione di immagini e parole crea un effetto di distanza e in cui l’alterità di ciò che si vede resta intera. In questo film – dove si vede quello che si vedrebbe oggi andando ad Auschwitz (un po’ come Austerlitz che si rende nell’ordinario comune di Terezin) – le traduzioni in “diretta” delle risposte alle domande che il regista poneva, le lunghe strade ferrate tra un’intervista e l’altra, da New York a Tel Aviv o Treblinka, gli interventi dello storico Raul Hilberg, l’insieme del montaggio… tutto ha come risultato di impedire un’identificazione emotiva e di porre una distanza che arriva fino a noi, condizione preliminare per la presenza di una dimensione di storicità41. Lo sconvolgimento non è al livello del sentire, ma nella distanza che obbliga a riflettere – il che si rivela uno sforzo difficile da sopportare anche guardando il film oggi. Ma ritorniamo agli inizi di questo excursus, alla storia di Max Ferber. Era, come abbiamo detto, un pittore che viveva a Manchester, vicino al porto ormai a digiuno di merci della città. La produzione principale del suo lavoro era in realtà, più che il quadro, la polvere. Abbozzava sulla tela qualcosa che subito dopo eliminava in un lavoro quasi infinito che produceva una calmante e grigia polvere quasi calcificata in gran parte della sua abitazione/atelier. Ferber aveva lasciato Monaco, come abbiamo già detto, avendo ottenuto un visto, contrariamente ai suoi genitori che trovarono la morte sotto il nazismo. 39 W.G. Sebald in un’intervista in L.S. Schwarz, L’archéologue de la mémoire. Conversation avec W.G. Sebald,cit., p. 175. 40 Cfr. R.Barthes, La chambre claire, cit., p. 88. 41 Ricordiamo che abbiamo citato questo film, geniale, solo a titolo di esempio, nel senso che l’obiettivo di Lanzmann era quello di girare un film e non di “creare” un materiale storico. 49 Nel racconto che ha per cuore la sua storia, storia dallo svolgimento labirintico tipico delle scritture sebaldiane, la sola fotografia il cui soggetto sia direttamente la Germania e il nazismo è quella indicata come una falsificazione dallo zio di Ferber, Leo. Dopo questa falsificazione smascherata, nessuna foto avrebbe potuto sopportare di essere presa come testimonianza del reale. Noi vediamo infatti riprodotti squarci della città di Manchester, l’hotel in cui alloggiava il narratore, l’apparecchio sveglia/teiera regalato sempre al narratore in occasione del suo primo soggiorno inglese – quasi oggetto simbolo della svolta grottesca presa dalla modernità. Non ci sono altre fotografie che potrebbero essere ricondotte alla Shoah, se non alla fine del racconto, quando allora campeggia un’immagine la cui caratteristica è quella di non essere riprodotta. Paradossalmente molte persone hanno avuto la sensazione di aver visto questa immagine «diretta» della distruzione degli Ebrei e di essere guardati da uno sguardo insostenibile colto nel presente dell’annientamento. Come si potrebbe infatti sostenere lo sguardo di colui che sta per essere distrutto? Ebbene, questa immagine si trova alla fine del racconto e non ci si può ricordare della lettura senza avere la certezza di averla vista42. Ma, quando si riprende il libro per verificare e controllare se lo sguardo sia insostenibile proprio così come ce lo ricordiamo, riaprendo il libro non si trovano altro che queste parole, trasmesse dal narratore (del resto molto somigliante a Sebald stesso) il quale incontra un’ultima volta Ferber all’ospedale e ricorda, dopo questo incontro, un’esposizione, una mostra vista a Francoforte. Si trattava di fotografie del ghetto di Lodz: «Dietro un telaio verticale sono sedute tre donne giovani, sui vent’anni. Il tappeto, che stanno annodando, ha un motivo irregolarmente geometrico […]. Chi siano quelle giovani donne, non lo so. A causa del controluce prodotto dalla finestra alle loro spalle, non riesco a vederle bene negli occhi, ma sento che tutte e tre mi guardano, perché io sono proprio nel punto in cui si era piazzato […il fotografo]. Delle tre giovani donne, quella in mezzo ha capelli biondo chiaro e assomiglia in certo qual modo a una sposa. La tessitrice alla sua sinistra tiene la testa leggermente piegata da una parte, mentre quella di destra mi rivolge uno sguardo così fisso e implacabile che io non riesco a sostenerlo a lungo. Vado almanaccando quale sarà stato il nome di quelle tre giovani – Roza, Lusia e Lea oppure Nona Decuma e Morta, le figlie della Notte, con il fuso, il filo e le forbici»43. 42 Si tratta di una sensazione provata da quasi tutti i lettori. Una testimonianza tra tutte, quella di R.Vogel-Klein, in «Détours de la mémoire. La représentation de la Shoah dans la nouvelle Max Aurach de W. G. Sebald», in F. Rétif (ed), L’indicible dans l’espace franco-germanique, Parigi, 2004 e, dello stesso autore, nella raccolta sotto la direzione di L.S. Schwarz, L’archéologue de la mémoire, cit. 43 W.G. Sebald, «Max Ferber», in Gli Emigrati, cit., p. 252-253. 50 L’immagine immateriale della Shoah diviene la sola immagine possibile e allo stesso tempo impossibile da riprodursi. Tutte le fotografie presenti negli scritti di Sebald rimandano in qualche maniera alla Shoah interrogando lo spettatore affinché costui trovi lo spazio per una storia. E tuttavia la Shoah è alla fine centrata «direttamente» in questa visione immateriale che non cessa di ossessionarci – soprattutto quando chiudiamo gli occhi. In luogo di una galleria fotografica da contemplare, seppur con orrore, diventiamo i testimoni di una storia che siamo obbligati a ricostruire perché ne siamo i destinatari di fronte all’immagine che ci guarda non cessando di reclamare il proprio dovuto, senza che questo imponga la necessità di esagerare l’abominevole o di cercare a tutti i costi la foto della “presenza” come fosse, quest’ultima, l’evidenza mostrata nella sua pienezza. Per essa è sufficiente l’indicazione di Kafka: esistono immagini che si vedono meglio chiudendo gli occhi – proprio come, nella Biblioteca di Babele44, l’unico libro importante, che forse contiene tutti i libri e la storia intera del mondo, non poteva essere aperto. Diana Napoli Diana Napoli è dottoranda di ricerca in Storiografia all’EHESS sotto la direzione di F. Hartog. E’ docente di Filosofia e Storia a Brescia. Shoah - Foto 8) IRWR 44 Si tratta del racconto di J.L. Borges, «La Biblioteca di Babele», in Finzioni, Milano, Adelphi, 2003. 51 Aldo Capitini da Perugia al mondo. (Andata e ritorno) di Giuseppe Moscati «La vita non è una foto, ma è l’attimo che se ne va e insieme porta via i colori e porta via la verità. E la cultura è un ideale e il sogno è quasi già realtà» (Stefano Rosso) «Sono nato a Perugia il 23 dicembre 1899, in una casa nell’interno povera, ma in una posizione stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile»45. Così esordisce Aldo Capitini nella sua nota autobiografia intitolata Attraverso due terzi del secolo, le cui bozze egli, morto il 19 ottobre 1968, non ebbe il tempo di rivedere e le cui pagine costituiscono una sorta di testamento ‘spirituale’ – e tuttavia profondamente laico – del filosofo umbro. Ma il testo era stato da lui comunque consegnato in buone mani, quelle dell’amico fraterno Guido Calogero 46 che lo avrebbe ospitato nella sua prestigiosa rivista “La Cultura”. Ventuno anni prima Capitini aveva dedicato alla sua città un volumetto, che aveva chiamato Perugia. Punti di vista per una interpretazione, apparso per la prima volta all’interno della collana “Città italiane” de La Nuova Italia di Firenze. Di quel testo, ripubblicato a cura della Regione dell’Umbria nel 1986 con l’aggiunta di una preziosa prefazione di Walter Binni, fine letterato e altro grande amico di Capitini, è uscita una terza edizione nel luglio 2008. Tale riedizione, curata dal Comune di Perugia su progetto della Fondazione Centro 45 A. Capitini, Attraverso due terzi del secolo, in Id., Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, Protagon, Perugia 1992, p. 3. 46 Come si legge nelle ultime lettere del loro carteggio, edito nell’ambito dell’epistolario capitiniano che si deve alla Fondazione Centro Studi Aldo Capitini: cfr. A. Capitini – G. Calogero, Lettere (1936-1968), a cura di Th. Casadei e G. Moscati, Carocci, Roma 2009, p. 598 e segg. 52 Studi Aldo Capitini, era stata suggerita da Luciano Capitini, nipote del filosofo e presidente dell’Associazione nazionale “Amici di Aldo Capitini”. Come chiarisce lo stesso sottotitolo di questo libello, l’autore intende proporre dei punti di vista attraverso i quali “leggere” la città di Perugia, che naturalmente è vista nel suo insieme inscindibile di città propriamente fisica e comunità civica in senso lato, ovvero come «qualche cosa di vivente e di rinnovantesi»47. Questi punti di vista rappresentano dunque dei veri e propri ponti grazie ai quali gettare sulla città delle ipotesi interpretative, che, se da una parte si arricchiscono degli sviluppi culturali della formazione che Capitini ha maturato con le sue esperienze tanto di autore di testi filosofici e religiosi che di docente universitario di Filosofia morale e di Pedagogia (a Pisa, Cagliari e Perugia), in realtà nascono anche da tutta una serie di osservazioni e partecipazioni dirette alla vita perugina: con le parole di Capitini, «alcuni punti di vista dai quali ho guardato e sento la città»48. Già dalle prime battute emerge con evidenza la caratteristica fondamentale di questo scritto, quella cioè di una riflessione filosofico-antropologica di ampio raggio: la campagna che circonda il centro urbano non si limita ad essere luogo meramente naturale e materico, ma agli occhi di Capitini è anche – e forse soprattutto, direi – campagna “tutta storica” come in generale il paesaggio umbro è paesaggio “tutto umano” perché tutto marcatamente inscritto nella storia49. Del resto è lo stesso Binni a sottolineare quanto grande fosse l’affetto di Capitini per le zone più campagnole e popolari del comprensorio perugino, zone la cui peculiarità è la semplicità e che tuttavia nascondono una “forza dentro” che coincide con quella che per Capitini è l’“armonia umbra”50. Ma Binni è particolarmente attento anche alla cura capitiniana per la storia della tradizione laica e democratica di Perugia, città dall’acceso spirito d’indipendenza e dalla forte vocazione all’autonomia e alla centralità politica 47 A. Capitini, Perugia. Punti di vista per una interpretazione, Tipografia comunale, Perugia 2008, p. 29. 48 A. Capitini, Perugia…, cit., p. 17 (corsivo mio). 49 Cfr. ivi, p. 22. 50 Cfr. W. Binni, Prefazione, in A. Capitini, Perugia…, cit., pp. 5-6. 53 contro l’assolutismo papale51. Perugia città, soprattutto, forte di quell’identità civile medievale e primo-rinascimentale e poi ottocentesca52 che torna assai fertile per il lavoro contemporaneo cui Capitini si dedica a trecentosessanta gradi. Ed è a Perugia e da Perugia che Capitini «svolse la sua fecondissima attività di lotta, di organizzazione, di educazione contro la dittatura fascista e a favore di quell’originale “liberalsocialismo” di cui egli fu primo ideatore […], per poi, dopo la guerra e la liberazione, farsi, a Perugia, geniale inventore di quei “Centri di orientamento sociale” che rappresentavano per lui l’inizio di un “potere dal basso”, di un “potere di tutti”, di una politica e di un’amministrazione che cominci nella libera discussione di assemblee popolari»53. Perugia è allora, scrive ancora Binni, il centro concreto e ideale dell’attività capitiniana tutta; è l’appoggio costante dell’ispirazione di un intellettuale radicato nella sua origine e peraltro portato dalla sua stessa più intima persuasione a rivolgersi ad innumerevoli altri centri, anzi a ricreare egli stesso in ogni dove un centro che possa portare con sé condivisione, comunità, socialità. Perugia è «il luogo o l’intreccio di luoghi (quei colli, quelle vie, quelle piazze che percorreva solo od insieme agli amici più cari) su cui collocare le sue intuizioni più alte, le sue immagini più intense, i suoi sentimenti e i suoi affetti più intimi e sacri e insieme un vivo nucleo di tradizione cui collegare lo sviluppo della sua stessa prospettiva spirituale e della sua prassi coerente» 54. Ma quali sono veramente “le sue intuizioni più alte”? Sicuramente quelle che ritroviamo nel cuore del lavoro che, da Capitini auspicato per una condivisione di tutti e da lui svolto in prima persona, si concentra sull’educazione democratica, vale a dire il lavoro di coraggiosa rottura nei confronti di quegli schemi etico-politici del passato che sono diventati inadeguati. E allo stesso tempo il lavoro di apertura della realtà in direzione di un orizzonte di libertà, responsabilità e giustizia sociale. 51 Emblematico è il caso del XX giugno 1859 quando «circa duemila soldati svizzeri […] effettuarono le famose stragi “per ricondurre la città al dominio papale”» (A. Capitini, Perugia…, cit., p. 43), il cui ricordo ogni anno rinnovava in Capitini un eccezionale sentimento civile accompagnato da “mestizia e un senso solenne” (cfr. ibidem). 52 Cfr. W. Binni, Prefazione, in A. Capitini, Perugia…, pp. 5-8. 53 Ivi, pp. 7-8. 54 Ivi, p. 8. 54 Ecco la “realtà liberata” di cui ci parla insistentemente Capitini nel corso di tutta la sua produzione, tesa a riscrivere una nuova etica e una nuova politica che finalmente si pongano come fortemente critiche del realismo di trazione machiavellica. Ecco l’“aggiunta” che, sotto varie forme e ognuno come può, tutti siamo chiamati ad offrire a questa realtà da liberare (da liberare dai limiti della realtà attuale): aggiunta religiosa; aggiunta politica e sociale; aggiunta filosofica, letteraria, culturale. Quella cui guarda Capitini è dunque una realtà liberata, ma è una realtà che parte necessariamente dal basso e che è di tutti e per tutti, altrimenti non è, non si dà. Al modo in cui Capitini interpreta le relazioni che danno vita alla città sono collegati a doppio filo diversi elementi della sua filosofia, che vale la pena di richiamare qui seppur per sommi capi. Innanzitutto dobbiamo aver presente l’elemento fondamentale della nonviolenza, che Capitini trae da Gandhi e, però, originalmente rielabora in persuasione nonviolenta anche in virtù della frequentazione della pagina di Carlo Michelstaedter, con il cui singolare esistenzialismo egli colloquia intensamente. Poi va ricordata la ferma opposizione di Capitini al fascismo e in generale al male con cui egli invita a non collaborare, insieme all’impianto teorico-pratico del movimento liberalsocialista, co-ideato insieme al già ricordato filosofo romano Guido Calogero. Ancora, la vicinanza del pensiero di Capitini con la filosofia dialogica di un Martin Buber; le sue posizioni dell’antistoricismo e dell’antidogmatismo; le sue battaglie contro il potere della più deteriore “cattolicità”, che gli sarebbero costate scomunica e censura: il 1929, con il Concordato con il regime fascista – regime di repressione, violenza, guerra e annullamento di ogni libertà – secondo il suo modo di vedere non poteva che segnare il “tradimento del Vangelo” da parte della Chiesa cattolica. Si può così continuare con l’atteggiamento ‘religioso’ di fondo di Capitini: la sua è una religione aperta ai tutti, compresi gli animali, le piante e le cose (Elementi di un’esperienza religiosa, 1937; Religione aperta, 1955); con l’idea altrettanto originale della compresenza (La compresenza dei morti e dei viventi, 1966); con l’orizzonte e ideale regolativo dell’omnicrazia o potere di tutti, nessuno 55 escluso, a partire dalla considerazione ‘kantiana’ dell’altro come fine e non soltanto come mezzo, ancora una volta in chiave anti-machiavellica. Da tutto ciò non sono dunque scollegate le riflessioni che Capitini elabora sulla vita umile, comune e affettuosa e sulla religiosità aperta, popolare ed eretica del Duecento umbro, che muove da Francesco d’Assisi e giunge a Jacopone di Todi. Giuseppe Moscati 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 56 NORBERTO BOBBIO Il maestro laico che manca all’Italia di Claudio Magris Se fosse vivo e in età ancor combattiva, non so se Norberto Bobbio - trovandosi in un mondo sempre più opposto al suo modo di essere, di sentire e di pensare – sarebbe più spronato a dar libero corso alla sua vena “iraconda” , come egli diceva, e polemica oppure ad abbandonarsi a una rassegnata e stoica amarezza. Bobbio incarna esattamente ciò che manca, sempre più vistosamente e volgarmente, alla nostra società: la capacità di ragionare, di distinguere, premessa fondamentale dell’onestà verso gli altri e verso se stessi. Una volta, alle scuole elementari, ci insegnavano che non si possono sommare litri a chili o a metri, cosa che ora si fa normalmente, in un coro di imbroglioni e imbrogliati che sono spesso le medesime persone. Mai come oggi è mancata la laicità e Bobbio è anzitutto un maestro di laicità, non nel senso stupido e scorretto in cui viene correntemente usata questa parola, quasi significasse l’opposto di credente, di religioso o di praticante, come credono e vogliono far credere gli ignoranti e i disonesti. Bobbio ha insegnato che laico non indica il seguace di una specifica idea filosofica, bensì chi è capace di distinguere le sfere delle diverse competenze; distinguere 1RUEHUWR%REELR ciò che è oggetto di dimostrazione razionale da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno ad essa. Laicità: distinguere fra diritto e morale, sentimento e concetto, legge e passione; articolare le proprie idee secondo principi logici non condizionati da alcuna fede né ideologia; mettere in discussione pure le proprie certezze; sceverare l’autentico sentimento dalle incontrollate reazioni emotive, ancor più nefaste dei dogmatismi. Oggi viviamo in una temperie culturale assai poco laica, funestata dai fondamentalisti religiosi come da quelli aggressivamente atei, entrambi capaci di ragionare solo con le viscere e con slogan orecchiati. La cronaca di ogni giorno ci mostra come si confondano e si pasticcino politica e morale, diritto e sentimentalismo, in un’allegra sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica che mette spesso il soggetto all’accusativo e viceversa, per scambiare i ruoli tra vittime e colpevoli e mettere in galera il derubato anziché il ladro. 57 Il sistema politico regredisce a una barbarie premoderna, cancellando progressivamente secoli di civiltà liberale che aveva elaborato controlli e garanzie per impedire abusi di potere. Oggi c’è più che mai bisogno di intelligenza e di passione come quelle di Norberto Bobbio, che ha difeso e vissuto questi valori – i quali, prima di essere cardini della vita civile e del buon governo, sono il sale dell’esistenza quotidiana – sui fronti più diversi, dai mirabili studi filosofici e giuridici, che fanno di lui un eccezionale maestro, alla milizia etico-politica e alla presenza generosa e creativa nella vita culturale. In quel vero, sobrio capolavoro che è De Senectute, un commiato dalla vita insieme classico e cocentemente contemporaneo, Bobbio, richiamandosi al mito platonico dei due cavalli dell’anima, si duole di aver permesso al destriero irascibile di aver prevalso su quello nobilmente razionale, ma non so se sia un’autocritica giustificata. Semmai, è stato troppo mite; oggi c’è bisogno più dell’ira che della mitezza a lui cara, nel baraccone in cui ci troviamo. La sua lucidità nasce da un cuore generoso, ricco di affetto e amicizia, di ironia e autoironia. Bobbio ha insegnato che la battaglia del pensiero è talora pure una battaglia contro la propria passione, ma sempre nutrita di passione, anche quando deve dolorosamente dominare quest’ultima. Il cuore va sempre ascoltato, anche quando urta contro la legge, ma sapendo che spesso il cuore è pure “pasticcio e gran confusione”, come ha scritto in un suo romanzo un altro grande piemontese, Stefano Jacomuzzi. La sofferta chiarezza chiamata a far rispettare l’umano, anche quando ciò – nel groviglio delle contraddizioni – può far male al cuore, affonda le proprie linfe in quest’ultimo. Bobbio, maestro nel difendere i valori “freddi” della democrazia – l’esercizio del voto, le fondamentali garanzie giuridiche, l’osservanza delle regole e dei princìpi logici – sa che essi sono meno appassionanti dei valori “caldi” del sentimento, degli affetti, degli amori; magari pure meno appassionanti delle passeggiate nel suo amato Piemonte o nella nostra Torino, capitale di quell’Italia più civile che credevamo possibile. Ma Bobbio ci insegna che solo i valori freddi, i quali stabiliscono condizioni di partenza uguali per tutti, permettono a ognuno di coltivare i propri valori caldi, di inseguire la propria passione. La logica rende possibile l’umanità e difende la “calda vita”, come direbbe Saba. Anche a rischio dell’impopolarità – la vita vera è impopolare – come quando Bobbio, da vero laico, faceva chiarezza sulla vita nascente e sui diritti del nascituro o come quando rivendicava, in certe vicende eclatanti che eccitavano l’opinione pubblica in nome di buoni sentimenti, la prosaica osservanza della legge contro l’enfasi strappalacrime pronta a calpestare il diritto, ponendo così le basi per nuove ingiustizie. 58 Quasi tutte le cronache quotidiane – politiche, giudiziarie, culturali – smentiscono questa liberale lucidità. Ogni riga di Bobbio è una diga contro la marea di melmosa, sordida e sentimentale pappa del cuore che avanza. Consapevole dei propri limiti, Bobbio, a differenza dei mediocri, non si sopravvalutava. Al massimo poteva ritenere di aver “travajè ben”, lavorato bene, come dice un detto piemontese a lui caro. E’ andato incontro alla morte perplesso ma fermo nella propria perplessità, “credendo di non credere”, come scrive, ma dubitando pure di quella sua provvisoria posizione e non ritenendola certo più evoluta di altre. La sua asciuttezza è la cifra della classicità, che consiste nella simbiosi di passione e controllo. Anche il vero poeta, diceva Saba, è insieme un bambino che piange e un adulto che non si lascia sommergere da quel pianto. Claudio Magris L’articolo sopra riprodotto è stato pubblicato il 13 settembre 2009 da Il Corriere della Sera. Ringraziamo l’autore e la Direzione del giornale per la gentile concessione. 59 FOTO T. Negri 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED RETORICA E MULTICULTURALISMO di Davide Fricano Introduzione: tra Filosofia e Scienze sociali Intorno ai primi anni ’90 si è registrato un incremento considerevole della produzione bibliografica delle scienze sociali in merito al fenomeno del Multiculturalismo. Antropologia, etnologia, sociologia, psicologia sociale, concentrano la propria attenzione su di un tema che diventa il leit-motiv degli studi di fine millennio: l’esame della possibilità (e delle eventuali modalità) di convivenza tra culture differenti che si va affermando come esigenza primaria e complessa via via che gli Stati cominciano ad assumere connotati multietnici sempre crescenti. Gli eventi storici, più o meno recenti, che hanno determinato l’emergere di questo fenomeno, e la conseguente presa di coscienza dello stesso da parte degli intellettuali europei, si possono riassumere nell’estesa richiesta e diffusione di forme di democrazia a livello intercontinentale attuatasi attraverso i molteplici processi di decolonizzazione; l’attivarsi di continui e massicci flussi di emigrazione verso i continenti “ricchi”; l’affermarsi della globalizzazione; la fine della Guerra Fredda con la caduta dei regimi totalitari dell’est Europa. Questi fattori avrebbero contribuito a ridimensionare fortemente la matrice culturale fondamentale dell’Occidente: il razionalismo scientifico. Il sorgere del Postmoderno sarebbe la causa, ed al contempo il segno, in ogni caso il fattore essenziale della corrosione di un modello gnoseologico fino ad allora ritenuto unico ed assoluto anche – ma non solo - perchè celebrato come tale dal pregiudizio di una presunta superiorità culturale: stiamo parlando di quella che Searle definisce Tradizione Razionalista 55 Occidentale55 (paradigma di J.R.Searle (2008). Searle imputa proprio ai postmodernisti (quali ad es. Derrida, Foucault ecc.) l’ attivazione dell’operazione culturale di erosione della tradizione di pensiero occidentale (o, se vogliamo, della tradizione occidentale del pensiero). Tale 61 strutturazione del sapere che secoli di Filosofia hanno contribuito a produrre e studiare). Per essere più precisi, in verità, non va però trascurato il fatto che non sia stata per nulla estranea storicamente alla filosofia l’esperienza della commistione culturale. Facciamo un esempio. Se da un lato è vero che sfogliando un qualsiasi manuale di storia della filosofia tra le pagine iniziali si troveranno interi capitoli dedicati alla peculiarità delle categorie di pensiero Tradizione Razionalista Occidentale è caratterizzata dal riconoscere come scopo essenziale della scienza quello di ricavare affermazioni vere, le quali dovranno assumere forma di teorie specifiche sottoponibili a critiche. Questo principio, a sua volta, si basa sull’assunto cha la realtà preesista e sia autonoma rispetto al linguaggio, il quale avrebbe come sua precipua funzione quella di rappresentarla (funzione referenziale e comunicativa). Tale prospettiva, denominata Realismo, spiegherebbe anche perché, tra i caratteri attribuiti alla Tradizione in oggetto, quello del “logocentrismo” sia uno dei più peculiari. Al quadro delle qualità fondamentali tratteggiato da Searle, che in fondo fa dell’Occidente una vera e propria entità geoculturale, una civiltà complessa data dalla sintesi articolata di etica, religione, etnia, economia, la letteratura filosofica aggiunge ulteriori profili di rilevante pertinenza: la credenza in un tempo cumulativo e lineare, la voglia di dominare tecnicamente la natura, l’idea che la ragione – calcolatrice ed analitica – debba guidare le azioni (da cui deriva una sorta di efficientismo pragmatista che vede nel successo del proprio agire il criterio principale del proprio operato), la valorizzazione della competizione antagonistica da cui selezionare una ristretta elites economica e politica della società (anche se le possibilità di rientrarvi sono potenzialmente riconosciute a tutti), il perdurante tentativo di ricomposizione unitaria ed armonica dei conflitti che pure permanentemente strutturano le relazioni socio-culturali. Ora, secondo Searle, l’affermarsi del Postmoderno avrebbe determinato il ridimensionamento radicale di questa specifica tradizione culturale dettato dalla necessità di proiettarla su di un piano di assoluta parità rispetto ad altre tradizioni culturali (le quali, anzi, sarebbero viste come preziose riserve di spunti ed istanze assimilabili dalla civiltà razionalista europea e angloamericana). Effettivamente alcuni tratti definitori della corrente postmoderna mostrano in pieno una direzione contraria rispetto a quelli sopra descritti e riferiti alla TRO: la negazione di fondamenti ultimi e unitari del sapere e dell’agire che comporta l’affermarsi di una Ragione instabile, di un Pensiero debole cui negare unicità e natura tecnoscientifica; la corrispettiva esaltazione della plurivocità, molteplicità, difformità, dell’ibridazione tra forme di sapere e, quindi, di una specie di policentrismo che nasce dalla promozione del “particolare”, del “locale”, del “diverso” che possa dar vita ad un mondo a frammenti ben lontano dall’universalismo moderno basato sulla unicità di fede, verità e sistema di valori. Del resto, il contesto socio-culturale di gestazione del Postmoderno indica in modo chiaro le direttrici di sviluppo che avrebbe poi preso tale opzione di pensiero: la società complessa di tipo postindustriale (di cui il Postmoderno vorrebbe essere la coscienza), il poststrutturalismo francese (il decostruzionismo di 62 della tradizione filosofica (spesso volutamente aggettivata come “occidentale”, proprio per evidenziare come la filosofia sia figlia soltanto dell’area “geoculturale” dell’occidente) rispetto ad altre modalità di riflessione culturale presenti in altre civiltà, è – dall’altro – anche vero che diversi autorevoli pensatori hanno riconosciuto il debito ed il tributo culturale che il pensiero filosofico serba nei confronti di altre culture, a cominciare da quelle orientali. Anzi, in merito si è registrata una curiosa inversione di tendenza: mentre accreditati filoni critici e storiografici hanno sottolineato le rilevanti differenze tra “occidente” ed “oriente” in ordine alla natura ed ai modi di realizzazione della speculazione cognitiva (si pensi ad esempio al capitolo introduttivo del primo dei 5 voll. di Storia della Filosofia antica di G.Reale56), altri – più recentemente – tendono a rivalutare le prospettive di coloro che hanno sempre esaltato i contributi del pensiero orientale a teorie filosofiche di grande spessore nella tradizione critica occidentale. Gli esempi in tale direzione abbondano: a cominciare dalle tangenze tra la spiritualità religiosa indiana e i culti orfici (con relativa dottrina della metempsicosi) rielaborati dalla filosofia platonica e pitagorica, passando per la valorizzazione della sapienza orientale operata da Schopenhauer e della religione persiana del VI sec. a.c. riscontrabile nello Zarathustra nietzscheiano, sino a concludere questo tragitto con la genesi della cosiddetta new age che pure qualche attenzione in sede filosofica ha destato. Amartya Sen57, Nobel indiano per l’Economia nel 1998, non ha mancato di far Derrida e l’ontologia delle Differenze di Deleuze), l’epistemologia postpopperiana (soprattutto nella sua versione anarchica promossa da Feyerabend). 56 Editi da Vita e Pensiero, Milano, 1993. Lo stesso Autore peraltro, insieme a Dario Antiseri, ha pubblicato un corso di storia della filosofia intitolato, non a caso, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La Scuola, Milano, 1983. 57 L’intento dell’intellettuale indiano è quello di tutelare e promuovere tali concetti difendendoli dalle critiche cui vengono sottoposti, soprattutto nei paesi islamici asiatici e mediorientali, per puro spirito antioccidentale. In un articolo del Corriere della sera del 26 febbraio 2006, criticando la confusione che spesso si fa tra “multiculturalismo” e “pluralità di monoculture”, l’Economista indiano si spinge oltre, individuando nel gran moghul indiano Akbar colui che più convintamente in sede politica valorizzò il dialogo introducendovi, peraltro, spunti di marcata laicità. Egli sostenne il principio della libera 63 notare come molte delle idee che si reputano di esclusiva filiazione occidentale sarebbero in realtà già state partorite antecedentemente in ambito orientale. Caso emblematico: il concetto di “democrazia”. Ebbene, negli ultimi anni soprattutto si è fatto di tale principio etico-politico il vessillo, l’emblema di un tratto di civiltà rappresentativo in modo caratteristico della cultura politica e sociale occidentale che – per i pregi che lo contraddistinguono – andrebbe esportato. Amartya Sen mostra come già nei concili buddisti, o nell’impero indiano di Ashoka (III sec. a.c.) o, ancora, nel principato buddista del giapponese Shotoku, ben sei secoli prima della Magna Charta inglese, fossero stati fissati in una sorta di costituzione gli ideali della tolleranza, nonché l’importanza di una discussione pubblica che fosse incardinata su regole e che precedesse ogni tipo di decisione politica. In cosa consiste allora la novità registratasi nel tardo novecento? A differenza dei precedenti testè descritti i quali, ancorché significativi, non hanno peraltro avuto la forza di imporsi in modo diffuso nella storia del pensiero filosofico, ciò che si è verificato è la graduale tematizzazione, da parte della Filosofia, del fenomeno “multiculturalismo”. Salvo spunti del tutto sporadici di alcuni, sparuti filosofi, la filosofia in quanto disciplina non si era posta organicamente il problema della multiculturalità come oggetto di riflessione cui dedicare esplicita attenzione. A riprova di questo cambio di mentalità così radicale, prima del periodo cui ci riferiamo non era neanche stato teorizzato il concetto di “multiculturalismo” pur non mancando contatti tra civiltà differenti; è, infatti, lo spirito totalmente nuovo che anima gli eventi storici che hanno condotto a nuovi confronti, a favorire questa rivoluzione culturale. Eventi che non si presentano più come realizzazione di una eurocentrica sopraffazione che concepisce come unica scelta razionale nell’intraprendere il cammino di fede nel proprio credo religioso, tracciando così il sentiero della Ragione (rahi agl) per uscir fuori dalla “terra paludosa della tradizione”. Coerentemente con tali assunti l’imperatore, che era mussulmano, si confrontò spesso con studiosi islamici, ebrei, cristiani, induisti ed anche con i seguaci di carvaka, setta di pensatori indiani atei che operò dal VI sec. a.c. 64 forma di comunicazione possibile con le altre culture quella del monologo cui concedere all’ “altro” (il “barbaro”) di assistere, ma sono l’espressione dell’orgoglio di culture e nazionalità represse che avanzano e s’impongono sempre di più. A tale espressione corrisponde la maturazione di una disponibilità al dialogo paritetico da parte delle culture “dominanti”, dopo un doloroso ed approfondito lavoro di autocoscienza vertente sui torti storici, sui pregiudizi e gli errori culturali che hanno segnato fino a pochi decenni orsono la storia dei rapporti tra le nazioni. Soltanto sulla base di questa mutata forma mentis i contatti tra queste ultime sono stati inquadrati in un’altra ottica, più elevata, apparendo come contributi critici che, per un verso, segnano i rapporti di arricchimento e conflittualità strutturanti le comunicazioni tra queste civiltà eterogenee, per l’altro compromettono l’integrità chiusa dell’assetto culturale e scientifico occidentale dischiudendolo ad altri orizzonti e rendendolo più permeabile. Alle scienze sociali e storiche andrà il compito di descrivere e studiare le dinamiche di tale processo reso possibile dalle (e, a sua volta, produttore delle) variazioni di mentalità e cultura filosofica di cui abbiamo parlato. 1. Cultura, Liberalismo e Comunitarismo Storia, Filosofia, Scienze Sociali: sarebbe ovviamente riduttivo restringere ad una questione di pura priorità cronologica il problema della definizione dei rapporti tra gli eventi storici accaduti, il correlativo cambiamento dell’idea di conoscenza e realtà che la Filosofia elabora e lo studio – condotto dalle scienze sociali – sulle conseguenze socioculturali prodotte. Per capire la specificità del contributo filosofico all’inquadramento del tema vanno infatti presi in considerazione due piani di riflessione, uno dei quali (il primo) si pone peraltro come possibile nodo d’intersezione tra scienze umane e filosofia. Individuare tale duplice prospettiva significa tener presenti: a) sia una propedeutica definizione di “cultura”; b) sia le principali teorie che si sono cimentate nel 65 tentativo di analizzare il “multiculturalismo” giungendo a conclusioni anche radicalmente divergenti. - Spetta a Kluckhohn (Lo specchio dell’uomo) fornire una definizione di “cultura” all’interno della quale sintetizzare le istanze della filosofia e quelle dell’antropologia. Solitamente per “cultura” s’intende il patrimonio di valori e norme condivise che una persona, in quanto membro di una comunità, riceve dal gruppo di appartenenza. In senso generale tali valori corrispondono ai modi di percepire, concepire ed organizzare la vita (con annessi comportamenti con cui essi vengono realizzati). In senso più specifico tali valori si traducono in modelli lavorativi, in forme di produzione di merci che assumono rilevanza per la società che le confezionano e commerciano, in usi familiari, in modalità di gestione del tempo libero, nonché nel linguaggio simbolico adoperato per esprimere l’insieme di questi elementi. Ogni cultura si presenta come fenomeno estremamente eterogeneo in quanto caratterizzato da un continuo dinamismo dovuto sia alle pressioni esterne prodotte dai rapporti dialettici con le altre culture, sia ad un livello di conflittualità interna sufficientemente apprezzabile. Ora, secondo Kluckhohn, “cultura”, nell’accezione antropologica, non significa soltanto questo, ma corrisponde in modo più proprio alla spiegazione che possiamo darci della genesi di tale complesso di fattori; spiegazione che risponde all’intimo e naturale bisogno umano di promuovere schemi con cui esplicare il proprio agire. Ebbene, questa esigenza è ricollegata al più ampio imperativo che spinge l’uomo a comprendere sé stesso e a capire e prevedere le sue maniere di agire. Questo input è, come può facilmente vedersi, una sollecitazione di carattere prettamente filosofico, dato che costituisce un oggetto di riflessione tipico della filosofia morale. - I connotati di intrinseca instabilità e di persistente presenza di urti, opposizioni che segnano lo svilupparsi di una cultura, aiutano a capire come mai abbiano preso corpo due dottrine che offrono versioni fortemente contrastanti del 66 panorama di incroci e convivenze tra molteplici, differenziate culture note anche come “multiculturalismo”. Ci riferiamo al Liberalismo ed al Comunitarismo. A parere dei liberali l’appartenenza culturale è privata, essa cioè può essere frutto di auto-attribuzione e non può influire sui diritti pubblici. In altre parole, la diversità culturale (che nelle società multietniche si presenta sempre più come un dato di fatto cui è vano, oltre che insensato, porre rimedio)58 non può costituire un ostacolo alla partecipazione alla vita pubblica. Il diritto di cittadinanza prescinde dall’identità culturale. Ma se dovesse emergere (come ormai accade sempre più frequentemente nel panorama storico) il problema di raffrontare quest’ultima con l’identità politica, secondo il comunitarismo il liberalismo fallirebbe perché la neutralità dello Stato in merito alle concezioni del Bene promosse dalle varie culture (tollerandole tutte) cozzerebbe con l’esigenza delle culture minoritarie di ottenere non soltanto tutela e riconoscimento pubblico, ma soprattutto valenza politica. Il comunitarismo prende vita proprio dalla denuncia dell’insufficienza del parametro liberale che si risolve nel preferire la società (intesa come raggruppamento costituito da vincoli esterni e retto da un contratto stipulato per pura convenienza) alla comunità. I membri di una comunità invece subordinano il senso di appartenenza politica al riconoscimento della loro identità etnica e culturale. Da questo punto di vista la sopravvivenza della cultura prevale sulla tutela dei diritti individuali. Poiché soggetti dei diritti e della libertà non sono considerati gli individui, ma i gruppi in cui sono inseriti per tradizione, l’essenza culturale di una comunità risulterà violata se, anziché aver cura dei diritti del gruppo, si terranno in considerazione prevalentemente i diritti civili individuali. Si tratta in fondo di valutare se rispettare il “principio della dignità universale”, in virtù del quale si ritengono gli uomini tutti uguali perché ci si basa su ciò che in essi 58 Ciò spiega ad esempio perché ad avviso di Dahrendorf è inutile ricercare comunanza di contenuti ove si registrano differenze profonde (si pensi ai credi religiosi). Si può soltanto elaborare un insieme di norme e strumenti atti a regolamentare e formalizzare i conflitti ed i loro meccanismi di attivazione. 67 appare uguale, oppure il “principio delle differenze” (per il quale sono le peculiarità a dover essere valorizzate). Il secondo principio corre il rischio di degenerare in discriminazione, il primo – invece – nega le differenze appiattendosi nell’omologazione ad una monocultura egemone (perpetrando così una forma di discriminazione più sottile perché, sotto la presunta uguaglianza, dà vita ad una società disumana, cieca rispetto alle diversità). La purezza culturale diventa così un metavalore, a fronte del quale ogni scambio si traduce in inquinamento, contagio culturale patologico da prevenire attraverso adeguata profilassi politica. In conclusione, il comunitarismo acquisisce una valenza ben determinata: sembra rispondere indirettamente alla sfida lanciata dal liberale Dahrendorf, il quale invita provocatoriamente a trattare il tema del multiculturalismo dal punto di vista di coloro che non si trasferiscono volontariamente in un altro Stato, di quegli emigranti per necessità – cioè – che non hanno nessuna intenzione di lasciarsi metabolizzare ed integrare in un’altra cultura. 2. L’Interculturalità Tra la chiusura vagheggiata dal comunitarismo e la marginalizzazione svalutativa e riduzionistica predicata dal liberalismo, esiste una terza via. Essa vorrebbe mediare le due precedenti, superandone i limiti in virtù della filosofia che la ispira, votata a legittimare e promuovere lo scambio pubblico tra le culture. Stiamo parlando di Pannikar (2006) che denomina la sua prospettiva “interculturalità”, proprio per sottolineare la natura effettivamente transculturale delle comunicazioni tra i gruppi umani e degli assetti che ne derivano nelle società politiche multietniche che vanno prendendo sempre più spazio. Egli, che si considera in un certo senso l’esempio vivente della percorribilità della sua ipotesi teorica59, preferisce tale denominazione a quella di “multiculturalità” 59 Essendo filosofo e sacerdote (ragione e fede, tra l’altro, non sempre, né da tutti, sono considerati ambiti della cultura suscettibili di dialogo) ispanico ma di origine indiana. 68 perché ritiene che quest’ultima faccia rima, anche concettuale, con “metaculturalità”; il suo principale difetto consisterebbe, cioè, nel sembrare condizionata da un’ottica che ne tradirebbe lo spirito di fondo: parrebbe far emergere l’idea di una cultura superiore che con generosa benevolenza ammetta al proprio interno il contributo delle altre. Obiettivo ideale sarebbe invece, ad avviso dello Studioso, conseguire uno stato di “relatività culturale” equidistante sia dall’assolutismo dominante dell’omologazione, sia dal relativismo particolaristico. L’assunto del principio da lui sostenuto è la constatazione realistica dell’impossibilità che ogni popolo prescinda dalle proprie categorie culturali nell’articolare i criteri di valutazione delle altre culture. L’importante però è che vi si ricorra con la netta consapevolezza di non pretendere di imporre quelle categorie come se fossero le uniche esistenti o idonee ad essere utilizzate60. Di fatto, la tesi di Pannikar è quella che si presta maggiormente ad esplicitare l’ulteriore ruolo che la Filosofia potrebbe interpretare in questo gioco intrecciato della comunicazione interculturale. Se è vero che Pannikar tende, per ovvi motivi, ad esaltare il dato positivo ed ottimistico del dialogo tra le culture, ossia la sua potenziale ricchezza e fattibilità, è altrettanto vero che ammette quanto difficoltoso possa rivelarsi l’itinerario di attuazione di questo dialogo. Le culture in questione dovrebbero infatti reciprocamente dichiararsi disposte a persuadersi vicendevolmente ad accogliere e rielaborare principi, valori, norme e caratteri estranei ai propri orizzonti tradizionali. Il che già pone un problema sostanziale, sul quale a nostro avviso s’è indagato poco e che meriterebbe 60 Ciò consente all’Autore di assumere una posizione più decentrata, non compiutamente coincidente con l’istanza universalistica cristiana tanto cara, ad es., a Giovanni Paolo II. Base di questa visione classica del cattolicesimo è la presupposizione dell’aprioristica unità del genere umano, fondata sulla comunanza di un insieme di valori validi per tutti e acquisita come dato storico ed ontologico alla luce del quale comprendere l’autentico e pieno senso delle differenze. Soltanto così può, per la dottrina cattolica contemporanea, spiegarsi la possibilità di dar vita a documenti miliari nella storia dell’etica che costituirebbero la trascrizione della grammatica universale dei valori morali (si pensi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo 1948). 69 maggiore attenzione, non foss’altro che per la sua propedeuticità – metodologica – rispetto all’avvio di questo dialogo fruttifero tanto auspicato. L’impostazione e la soluzione di tale problema, lo anticipiamo, spettano alla Filosofia. 3. Retorica e interculturalismo: un’ipotesi di lavoro Il problema è, innanzitutto, di metodo e, in quanto tale, preliminare. Dire che culture differenti, nel rispetto della loro identità, possano e – meglio – debbano vivere il dialogo in vista di un reciproco arricchimento e sviluppo, dato anche dall’accoglimento e dal recepimento di elementi ed istanze appartenenti a civiltà diverse, estranee, equivale ad inquadrare il fenomeno in un ambito comunicativo specifico: quello retorico. Occorre cioè focalizzare il versante della comunicazione direttamente coinvolto in questa delicata operazione dialogica di confronto reciproco. Non si tratta di valutare quali possono essere le condizioni generali (“trascendentali”, direbbe Apel) di un tipo di comunicazione che voglia essere strutturata su codici semantici e regole universali e, dunque, comprensibili da tutte le popolazioni e le comunità culturali coinvolte. La delineazione delle norme che potrebbero regolare la vita di questa ideale comunità strutturata su un modello di comunicazione universale è già stata abbondantemente studiata ed articolata da filosofi quali Apel ed Habermas. Quello che invece va fatto è un salto ad una dimensione più tecnica del processo comunicativo, da analizzare con pari attenzione. Ci si dovrebbe infatti chiedere quale modello di logica argomentativa dovrebbe essere attivato (e concepito) per produrre quella persuasione utile, necessaria ad effettuare gli scambi comunicativi tra culture diverse. In altre parole: culture che si presentano a volte radicalmente eterogenee quali tipi di argomentazione, quali regole e strategie persuasive devono mettere in campo per convincersi dell’opportunità di acquisire e mutuare vicendevolmente una serie di elementi, nozioni, usi, abitudini, comportamenti, principi dissimili tra loro? Se inseriamo tale domanda all’interno della particolare questione, sollevata da Dahrendorf, 70 degli incontri tra comunità occidentali e comunità di migranti, le possibili risposte sono tre: 1) la procedure e le tecniche argomentative tipiche del Paese ospitante. In questo caso il prevalere del modello argomentativo della comunità di accoglienza costituirebbe un ulteriore segno di quella posizione di forza tipica dei rapporti coloniali; questa si risolve, infatti, in un dominio economico, politico e sociale vincente proprio perché già preparato dalla imposta superiorità dei percorsi e delle procedure argomentative con cui selezionare gli elementi culturali da offrire e assimilare; 2) procedure e tecniche retoriche del Paese dell’ “ospite” (del migrante). Una sorta di galateo comunicativo con cui la comunità ospitante dovrebbe accettare le regole della comunicazione persuasiva delle comunità ospitate che, però, correrebbe il rischio di tradursi in una passività culturale eccessiva, tanto marcata da presentarsi come la forma attenuata ed edulcorata di una vera e propria invasione; 3) una via ibrida: esiste la possibilità di strutturare un’unica logica argomentativa universale che tenga debitamente conto di tutti gli spunti dei modelli di comunicazione argomentativa elaborati dalle singole comunità culturali coinvolte? Oppure le modalità persuasive messe in atto dalle varie civiltà sono talmente distinte da rendere impraticabile (e, forse, neanche giusta) la creazione di tale paradigma argomentativo transculturale? Può esistere, in definitiva, una sorta di metaretorica che nasca dall’apporto paritetico delle retoriche concepite dalle comunità etniche e culturali inserite nel multiforme crocevia geoculturale alla cui formazione stiamo assistendo? Se sì, tale retorica “comparata” quali caratteri dovrebbe possedere per esercitare la sua delicata e complessa funzione di ponte di comunicazione tra le stesse? Storicamente si sono date occasioni d’incontro tra tecniche retoriche, inventate da comunità politico-culturali differenti? La retorica e l’oratoria romana, ad es., trova la sua genesi nell’assimilazione della retorica greca, opportunamente emendata secondo la forma mentis romana, per dare peso a quegli elementi più confacenti al costume culturale, filosofico e 71 politico della civiltà latina61. Ma si tratta, in ogni caso, di un transito consumato all’interno di codici culturali omologhi, nati dalle categorie tipiche del pensiero occidentale (Roma non ha una filosofia propria, ma – grazie anche all’opera di traduttore filosofico attuata da Cicerone – recepisce e sviluppa ecletticamente le dottrine filosofiche greche). Quella che, invece, andrebbe indagata è l’eventualità di un incontro produttivo tra retorica occidentale, africana, orientale (tanto per rimanere all’interno di quadri molto generali e, di necessità, generici). Come si vede, tale questione è già, di per sé, “multiculturale”. Ossia, inquadrare il problema del “interculturalismo”, riferendolo e riducendolo alla fattibilità degli scambi culturali tra comunità diverse, comporta la propedeutica definizione della possibilità di uno scambio tra culture diverse che deve avvenire “a monte”: la messa in comune delle tecniche argomentative di ciascuna di esse che, poi, permetterà la messa in comune degli elementi più peculiari e preziosi dei loro patrimoni culturali. Ma questo è uno spunto di riflessione non ancora adeguatamente approfondito, in quanto privo di riscontri in termini di studi ad esso specificamente dedicati in letteratura. Si è sempre, infatti, dato per scontato che le argomentazioni in base alle quali avviare i molteplici confronti dialogici tra culture diverse debbano di fatto corrispondere al modello filosofico e retorico occidentale. 4. Profilo retorico dell’Interculturalità E così, in attesa di vagliare contributi in proposito, possiamo limitarci a riconoscere che almeno un aspetto emerge chiaro ed evidente dalle considerazioni fatte: uno dei tratti pregnanti dell’interculturalità si identifica nell’essenza e nella natura retorica della sua attuazione. Non c’è interculturalità 61 Le parti del sistema retorico greco (heuresis, taxis, lexis, hypocrisis) vengono recuperate dalla tradizione romana (inventio, dispositio, elocutio, actio), la quale si limita a dare maggiore spessore all’actio (rispetto alla considerazione di cui godeva la performance recitativa dell’oratore nella tecnica retorica greca) e ad inserire, in più, la 72 che si possa realizzare senza attuare processi di reciproca persuasione, tra le culture coinvolte, che vanno opportunamente definiti e studiati. Rimaniamo, dunque, all’interno dell’impostazione classica sopra delineata; essa vede, come detto, nel paradigma occidentale l’unico sino ad ora implicato in tali operazioni comunicative interculturali. Anche qui emerge però una lacuna: non esistono studi che facciano luce in modo mirato sul perché, per quali profili ed aspetti, la questione multiculturale sia, appunto, una questione prima di tutto retorica. A questa analisi daremo adesso spazio. L’interculturalità si fonda innanzitutto sulla consensualità vissuta come tratto fondamentale del raggiungimento di un equilibrio tra rispetto delle differenze e progressiva unificazione (equilibrio connesso strutturalmente all’attuale, ineludibile processo di globalizzazione). Ciò comporta un propedeutico cambiamento di atteggiamento, ossia il conseguimento di una delle tipiche forme definitorie della “persuasione”. L’attento perseguimento del consenso attraverso il processo persuasivo viene infatti considerato come fondamento della convivenza civile tra istanze culturali diversificate. Per assicurarlo occorre naturalmente muoversi entro coordinate operative di assoluta imparzialità, in quanto tese a salvaguardare le differenze di volta in volta registrate. Tale imparzialità non va però confusa con la “neutralità” nei confronti delle più rilevanti concezioni etico-religiose (quelle, ad es., vertenti sul Bene) tipica della tolleranza laica di matrice liberale checome abbiamo già avuto modo di dire – relega quel tipo di convinzioni alla sfera del privato. Parimenti distante da un assetto dialogico improntato alla prassi del consenso si presenta – ovviamente – il Comunitarismo, secondo il quale se è vero che bisogna dotarsi di un sistema di regole tese a garantire coesione all’interno della singola comunità mercè il drastico ridimensionamento del dissenso (perché soltanto così è possibile garantire la sopravvivenza culturale di un gruppo), è pur vero che non è ritenuto necessario valorizzare – memoria (una sorta di catalogo delle nozioni che vanno ricordate per eseguire con successo l’atto retorico) che mancava nella partizione greca. 73 in misura direttamente proporzionale – il consenso a livello della comunità generale (sintesi, o meglio somma, delle singole comunità che si trovano a comporla). Per il Comunitarismo, infatti, le finalità collettive ed i comportamenti privati dei membri di una comunità vanno imposti, conformandoli ai modi di vita dominanti che costituiscono lo spazio pubblico. A parere di Rawls , invece, la Ragione Pubblica costituisce l’ambito di discussione ottimale per la realizzazione del consenso62 soprattutto quando si mira alla sua forma più estrema, ossia l’unanimità, e non si pone invece come un elenco di precetti cui doversi uniformare nell’elaborare le proprie credenze ed attivare i propri atti sociali e individuali. Ancora più distante la teoria di Habermas secondo la quale le eredità culturali dovrebbero invece poter essere acquisite mantenendo una piena libertà di consenso e, soprattutto, dissenso. Ebbene, l’idea che occorra un forum pubblico entro cui sperimentare ragionevolmente il confronto multiculturale impone allora una sfida essenziale: giungere a concezioni che comportino adesioni forti (in quanto strettamente legate alla persona ed alla dimensione più profonda del suo bagaglio culturale: quella etico-religiosa) senza dividere, ma unificando più prospettive, accogliendo quelle altrui senza però tradire le proprie – percepite normalmente come le più vere - , ma mostrando anzi la possibilità di una ricerca concepita come cooperazione in virtù della quale poter aver ragione insieme agli altri e non “contro” qualcuno. Quest’idea riconduce alla dialogicità interculturale vagheggiata da Pannikar e si fonda su una concezione dell’argomentazione razionale tesa ad armonizzare i bisogni degli individui e delle comunità specifiche tra loro, ponendosi come elemento istitutivo di una comunità eponima (“argomentativa” per l’appunto) dalla quale saranno di fatto esclusi coloro che non sono in grado di comunicare argomentativamente perché sprovvisti di tale capacità all’interno dei loro orizzonti culturali tradizionali. 62 L’estensione del quale, è bene precisarlo, allo Studioso non interessa qualora esso dovesse riguardare concezioni comprensive del Bene. 74 Questa comunità presenterà alcuni caratteri, o “postulati”, che sono vere e proprie regole universali e necessarie alla modulazione dell’agire comunicativo finalizzato all’intesa ed al consenso, ossia veicolato da quella che per Habermas rappresenta la situazione discorsiva ideale. In essa l’argomentare esclude il ricorso a strategie spregiudicate, articolandosi unicamente sulle norme cui prima accennavamo: condizioni trascendentali ed a priori della comunicazione effettuata in quel tipo di comunità. Quali sono queste regole? A quale agorà daranno vita? Va premesso e ribadito ancora una volta che l’autentico consenso dovrebbe concernere le procedure argomentative, gli strumenti per praticare quel dialogo tanto auspicato tra chi parte da presupposti culturali differenti, nonché il linguaggio stesso da adoperare per giustificare argomentativamente l’estensione universale di valori etici che trovano invece la loro genesi in contesti più specifici. Giocoforza, ci affidiamo per adesso all’unico modello di argomentazione disponibile ed apprezzato: quello occidentale. Le sue regole si costituiscono come momenti di sviluppo degli elementi che Aristotele ha individuato come essenziali all’articolazione dell’atto retorico. La Retorica aristotelica ha infatti poi esplicitamente influenzato tutti i tentativi fatti in sede filosofica, linguistica e psicologica di definire – anche formalmente – i tratti dell’argomentazione (si pensi a Perelman e Olbrecht-Tyteca con il Trattato sull’argomentazione). 4.1 Etica nell’argomentare Aristotele, primo teorizzatore in sede filosofica di una tecnica retorica (volta a scoprire ciò che può essere persuasivo in ogni tema trattato), immerge nell’eticità l’intero processo argomentativo-persuasivo, dato che i soggetti su cui si polarizza quest’ultimo sono investiti, a vario titolo, di funzioni che presentano aspetti di rilevanza morale. Egli sostiene, infatti, che l’atto retorico più efficace si costituisce su tre prove tecniche, ossia escogitate direttamente dal retore: la prova emotiva (finalizzata ad indurre nell’ascoltatore lo stato emotivo più adatto al conseguimento della persuasione), la prova etica e quella 75 dimostrativa. Le ultime due, peraltro strettamente connesse tra loro, sono quelle che ci riguardano da vicino. Con la prova etica il retore, attraverso il discorso offerto all’uditorio, vuole apparire a chi lo ascolta saggio, benevolente, virtuoso (qualità, lo sottolineamo fin d’ora, che denotano una certa dimestichezza con la verità da parte di chi le possiede)63. Il campo etico, però, si estende sino a comprendere anche il destinatario dell’argomentazione etico-retorica: l’intero ragionamento retorico (quello che Aristotele definisce sillogismo entimematico) è mirato ad attivare nell’uditorio l’articolazione di un giudizio che si estrinseca in una scelta, una deliberazione64, cioè un ragionamento che rientra nell’area della pratica ed il cui studio è di pertinenza della filosofia morale. Ora, ogni tradizione culturale (e le forme di vita che le animano) si riproduce sul presupposto di poter convincere soggetti caratterizzati da personalità profondamente influenzabili ai fini dell’assimilazione culturale. Il che non riguarda soltanto il transito intergenerazionale, ma concerne anche – e soprattutto – ruoli e comportamenti di coloro i quali sono portatori di tradizioni culturali differenti da quelle con cui vengono a contatto. Derrida ha giustamente sottolineato come in una società multiculturale gli interlocutori dialoganti assumono la veste di “stranieri morali”. Modello della figura di “straniero” (xenos), ad avviso del Filosofo francese, è quella tratteggiata da Platone nel Sofista: esso pone domande che rimettono continuamente in discussione l’autorità del logos paterno, del padrone di casa, senza perciò risultare parricida (in quanto non facente parte della famiglia ospitante). Lo straniero, nomade perenne che vive in una condizione di strutturale spaesamento che alimenta il sentimento di nostalgia verso l’ ethos rappresentato dalla lingua materna, deve cimentarsi con valori morali (amicizia, ospitalità, pace, rispetto) che 63 Per essere ancora più precisi, ciò che conferisce spessore etico all’argomentare del retore è la trasparenza delle sue intenzioni resa possibile dall’inserimento, nell’argomentazione stessa, di una serie di massime e proverbi. Cfr. Retorica 1356 a 2 e 13, 1366 a 10-11, 1378 a 8, 1395 b 13-18. 76 costituiscono modalità di indirizzarsi all’ “altro” di natura strutturalmente linguistica65. In ottica multiculturalista su tali valori66 vi può essere accordo consensuale anche senza condivisione pienamente sentita. Tale prospettiva definisce dunque una tipologia di ragionamento pratico che possa esprimere i molteplici rapporti tra concezioni politico-morali diversificate per arrivare ad un’accettabile compenetrazione di orizzonti. Così, come peraltro auspicato da Amartya Sen, la diversità verrà celebrata come atto di scelta frutto di un libero ragionamento (ed, in quanto tale, più apprezzabile). Ragionamento nel quale, com’è evidente, deve essere riservato all’uditore/interlocutore un posto da coprotagonista. L’atto retorico/etico implica difatti un elevato grado di coinvolgimento (involvement, secondo la psicologia sociale) dell’ascoltatore dettato appunto dallo spazio primario concesso nella discussione ai suoi valori ed interessi (sintetizzati negli endoxa e nei topoi67 ). La vera natura dell’atto retorico, come ben messo in luce da Meyer, si rivela allora essere la “negoziazione” che riduce le distanze tra il retore ed il pubblico attraverso un ciclico proporsi e riproporsi di domande e risposte tra i due soggetti. Chi argomenta ha bisogno di un interlocutore e, al di là dell’ovvia considerazione sulla socialità di ogni atto comunicativo, ciò è confermato dallo sforzo da lui profuso nel convincerlo. Ciò rende l’atto intrinsecamente dialogico, in quanto la produzione del discorso che lo innerva richiede la corresponsabilità di chi parla 64 Cfr. Retorica 1357 a 1-2, 1377 b 20-21, 1391 b 18-20, 1403 b 8-10. Si veda anche Etica Nicomachea 1113 a 4 e 11. 65 J. Derrida, (1997:118): “in senso lato la lingua, quella con cui ci rivolgiamo allo straniero o lo udiamo, se lo udiamo, è l’insieme della cultura, sono i valori, le norme, i significati che abitano la lingua. Parlare la stessa lingua non è soltanto un’operazione linguistica. Coinvolge l’ ethos in generale.” 66 L’analogo di tali valori, nella Retorica aristotelica, è identificabile negli endoxa: opinioni notevoli, in quanto diffuse nella maggioranza della popolazione o, comunque, nella parte più qualificata di essa. Esse costituiscono spesso le premesse del sillogismo retorico. Aristotele però ne esige la condivisione completa, pena l’esclusione dalla comunità di riferimento e l’assoluta inutilità e nullità persuasiva dell’atto retorico che ne dovesse essere sprovvisto. 67 Schemi argomentativi tra i più validi ed efficaci in quanto maggiormente diffusi. 77 e di colui che ascolta; tanto più marcata essa sarà, quanto più quest’ultimo risulterà complice attivo del gioco linguistico argomentativo in virtù della sua inclusione in esso grazie all’implicito accordo con il retore sulle premesse del ragionamento che gli è indirizzato. Ecco perché, tornando a Pannikar, la comunicazione interculturale per eccellenza è dialogale e non dialettica. La dialetticità comporta la realizzazione di due logoi razionali in competizione tra loro ed una “ragione” che funge da arbitro per stabilire quale sarà il discorso vincente. La dialogicità, invece, lascia spazio ad un ascolto ed una comprensione del “prossimo” tutt’altro che scontata o banale; non assolutizza le proprie convinzioni perché, più che convincere, richiede un impegno reciproco alla ricerca comune (anche a costo di mutare convinzioni radicate da tempo) fondata su una forte affinità affettiva. Appendice: verità, etica e argomentazione L’idea che l’argomentazione debba avere una sostanza etica è stata recepita e sviluppata da tutti i modelli contemporanei di tecnica argomentativa. Uno dei postulati essenziali della comunità argomentativa vagheggiata da Apel è che i membri che la compongono siano considerati “enti morali”, vincolati a riconoscersi reciprocamente come titolari di pari diritti a prescindere dalle differenze culturali, religiose, etniche e linguistiche. La soluzione dei problemi che si presentano nelle comunità socio-politiche richiede infatti solidarietà e cooperazione tra i loro membri che, oltre ad esserne protagonisti, diventano corresponsabili dell’efficienza della società argomentativa virtuale nata per affrontare quei problemi. Tale parità di diritti si traduce innanzitutto nell’attribuzione a ciascuno dei partners della possibilità di impiegare discorsi utili alla formulazioni di pretese di verità in grado di ottenere effettivo consenso. Proprio questo è il criterio di base di articolazione dei postulati di Apel: per rivendicare la legittima appartenenza alle relazioni degli scambi argomentativi coloro che – appunto – argomentano, devono impegnarsi ad evitare di offrire menzogne e falsità, devono mostrarsi disponibili ad accogliere 78 opinioni altrui qualora fossero ritenute vere, devono sottomettersi in genere ai principi di perspicuità, trasparenza, verità e veridicità ereditati direttamente dalla tradizione retorica aristotelica. Secondo lo Stagirita, infatti, la retorica non è per niente esclusa dal rapporto con la verità, tutt’altro68. Semmai occorre precisare a quale particolare tipo di verità essa si rapporta. Se esaminiamo il ragionamento retorico, l’entimema, noteremo che esso si erige diffusamente su eikota, ossia assunti/premesse verosimili. Ebbene, tali premesse condividono un tratto essenziale con la tipologia di ragionamento pratico cui devono dar luogo nel giudice-ascoltatore (cioè la deliberazione): esse hanno a che fare con ciò che è per lo più, può in sostanza essere o non essere (o comunque essere altrimenti da com’è). Ciò ha causato un equivoco di fondo: s’è sempre letta la logica della retorica come una logica di serie B, che può al massimo aspirare ad un grado inferiore di verità rispetto a quella scientifica, e ad una forma d’argomentazione non strettamente, né rigorosamente dimostrativa (Perelman, non a caso, la definiva una “quasi logica”) e, dunque, non razionale. Ma la retorica, lungi dall’essere irrazionale, offre invece l’unico paradigma di razionalità adattabile all’ambito operativo che le è proprio: quello delle azioni e dei valori. In quest’area specifica c’è spazio unicamente per ciò che è di per sé, per sua natura ontologica, verosimile, probabile, discutibile grazie al ricorso ad un insieme di argomenti la cui validità e correttezza non può essere riconducibile alla conformità a schemi prestabiliti che ne assicurino semplicemente la coerenza con la verità degli assiomi. Ciò, ovviamente, non esclude affatto che l’argomentazione retorica abbia carattere dimostrativo, apodittico. Anzi, come abbiamo già scritto, la terza prova tecnica è detta anche “logica” perché si concretizza nel fornire argomenti di per sé dotati di una certa evidenza e forza dimostrativa. Ora, Searle ha in certo qual modo scardinato l’interconnessione tra etica e verità che invece la retorica ha contribuito ad affermare; la Tradizione 68 Cfr. Retorica 1355 a 5-6, 16-18, 20-21, 38-39, 1357 a - b1, 1402 b 36-39, 1404 a 6, 1414 a 33-37, 1417 b 21. 79 Razionalista Occidentale, a Suo avviso, deve basarsi sul principio che la pretesa alla verità debba essere indipendente dall’ethos di chi la propone (a sua volta condizionato dall’etnia cui appartiene e dai pregiudizi culturali che lo contrassegnerebbero)69. Tale concezione comporta che la giustificazione di proposizioni cui ascrivere valore di verità possa risultare convincente per tutti i soggetti inclusi nell’atto argomentativo. Ma questo asserto costituisce proprio il punto debole dell’impostazione searleiana: è difficile incontrare verità valide da tutti i punti di vista, che permettano – perciò – di bollare come “irrazionali” coloro che dovessero rifiutarle. Infatti ogni pretesa alla verità avanzata deve poter essere rettificabile e correggibile con l’accoglimento dei contributi altrui più pertinenti alle nostre posizioni. Questa flessibilità, o permeabilità, non esclude certo l’eventualità di continuare a coltivare certezze (più che verità) assolute; anzi, spesso tale sicurezza rende praticabile il confronto dialogico perché ci spinge ad affrontare le divergenze con la convinta fiducia di volgerle a nostro favore. Davide Fricano Davide Fricano è nato a Palermo nel 1971. Docente ordinario in Storia e Filosofia, è Dottore di ricerca in Filosofia del Linguaggio. Collaboratore della redazione palermitana di “Aggiornamenti sociali”. 69 Per cui nella comunità fondata sulla Tradizione Razionalista Occidentale va abolito il cosiddetto argumentum ad hominem, per il quale va ritenuto vera e credibile un’argomentazione prioritariamente sulla base dell’affidabilità di chi la propone (e viceversa: va rifiutata in quanto proferita da qualcuno reputato non credibile di per sé, o incoerente rispetto al suo contenuto). 80 BIBLIOGRAFIA Amartya Sen (2003), Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari Aristotele (2204), Retorica e Poetica, a cura di M.Zanatta, Utet, Torino Bauman Z. (2003), Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari Cicerone (2006), De Oratore, a cura di E.Narducci, BUR, Milano Cultrera F. – Pariotti E. – Schiavello A. – Viola F. (2001), Etica pubblica e pluralismo, Edizioni Messaggero, Padova Dahrendorf R. (1996), Diari europei, Laterza, Roma-Bari Derrida J. (1997), Sull’ospitalità, Baldini&Castaldi, Milano Foucault M. 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I nuovi compiti della democrazia, Laterza, Roma-Bari 81 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED L’Architettura come luogo dell’”Apertura” Sul ruolo di Spazio e Luogo nella città contemporanea Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta. M. Foucault di Giovanni Mensi Bruno Zevi, già nel 1948, notava un fatto interessante: spesso nelle illustrazioni fotografiche dei libri di architettura non compaiono figure umane, se non (sfuggite all’attenzione del fotografo) come presenza indesiderata. Trovo sia un atteggiamento comune, soprattutto tra gli architetti: si vuole catturare un’immagine il più possibile estatica; un’immagine, cioè, che sia “fuori dal corpo della vita”, quasi assoluta, un’astrazione dell’architettura.70 Spesso rappresentiamo e pensiamo l’architettura come un’immagine astratta, come vivesse di per sé; anzi: come se non-vivesse. Invece che mettere in evidenza il carattere fondamentale dell’architettura (e cioè l’abitare, l’uomo), la si snatura, tentando ossessivamente e incomprensibilmente di avvicinarla alla pittura, alla scultura, al cinema e alle arti visive in genere.71 70 Naturalmente la tecnologia, soprattutto quella relativa ai programmi di disegno 2D e soprattutto 3D, amplifica enormemente la tendenza all’astrazione in fase di progettazione e di comunicazione al pubblico. Paradigmatico, in questo senso, è lo “spazio assoluto” che ogni schermata iniziale di default dei più diffusi programmi di modellazione 3D presenta all’utente come tabula rasa (si noti che il termine “default”, in informatica, sta ad indicare lo stato di un sistema in assenza di interventi); molti architetti hanno sviluppato un linguaggio di comunicazione progettuale asettico ed astratto che ne imita l’assolutizzazione. Il risultato è costituito da rappresentazioni in cui la pulizia geometrica dei volumi si spinge pericolosamente nel campo della pittura astratta. Si vedano, ad esempio, alcune presentazioni (render e disegni) dei lavori dello studio Hadid; tra le altre, in particolare: Zollhof Media Park (Dusseldorf, 1989-1993), Global Cities at the Tate Modern (Londra, 2007), Grand Building, Trafalgar Square (Londra, 1985), One North Masterplan (Singapore, 2001-2021), Bahrain International Circuit (Sakhir, 2007). 71 Il lavoro dell’architetto, in modo particolare oggigiorno, si dispiega in un mondo di “giustapposizione degli spazi”, proprio come succede nel cinema e nelle arti visive: dal mondo “3D” dell’immaginazione, a quello 2D del foglio di carta (o del foglio 83 Ci sono diversi motivi per cui si vuol fotografare o ritrarre un’architettura vuota; ergo: ci sono diversi motivi per cui si vuol guardare allo spazio in senso newtoniano, come ad un piano astratto in cui l’architettura “domina” sul nulla. Va detto che nell’”architettura desertificata”, quella spogliata della vita, si cela un “ospite inquietante”, per dirla con Galimberti: vi si nasconde l’astrazione. L’astrazione non è di per sé un concetto negativo (molte discipline ci hanno abituato alla concettualizzazione con scopi e risultati più che nobili). È pericoloso per l’architettura. È pericoloso perché l’architettura, come ha detto Espuelas, è l’arte del fattuale;72 è un’arte che ha a che fare con lo spazio tanto quanto col tempo e col divenire. Qui l’astrazione apre un processo che toglie attenzione alle cose del luogo per portarle nello spazio assoluto dove le cose vivono di sé; come in quel “teatro dell’assenza” che è il Padiglione (d’esposizione) dove, scrive Tafuri, “l’uomo, spettatore di uno spettacolo veramente totale perché inesistente, è obbligato ad una pantomima che riproduce il vagare nel labirinto urbano di esseri-segni fra segni privi di senso, da lui quotidianamente esperito”.73 Nel Padiglione tempo e movimento compenetrano lo spazio (ecco lo spaziotempo), ma la loro unione si dispiega nella desertica dimensione di un mondo che non esiste. Come dire: il modello e l’ideale sono principi generatori di possibilità, non sono architettura. Gropius, in conclusione al suo Per un’architettura totale, scriveva: “Abbiamo incominciato a intendere che modellare il nostro ambiente fisico non significa applicarvi uno schema formale fisso, ma richiede piuttosto un incessante sviluppo interiore, una convinzione che va continuamente ricreando la verità al servizio dell’uomo”.74 Dal momento che l’architettura è il prodotto di una prefigurazione di possibilità, non è “architettura” nemmeno lo stato di fatto elettronico CAD), a quello di nuovo 3D della fase di rendering (ormai imprescindibile nel processo di progettazione). A questo si aggiunga quella dimensione a metà tra il 2D e il 3D qual è l’assonometria. È chiaro che una tale giustapposizione di spazi di lavoro e di studio debba trovare una propria gerarchia interna, un proprio ordine. Io credo che l’origine di buona parte della confusione disciplinare che investe l’architettura contemporanea vada ricercata nell’incapacità di mettere ordine all’interno di questa “giustapposizione di spazi”. 72 Si veda Espuelas, F., Il vuoto - Riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2009. 73 Tafuri, M., La sfera e il labirinto, Einaudi Editore, Torino, 1980, p.135. Il corsivo è mio. 74 Gropius, W., Per un’architettura totale, Edizioni Abscondita, Milano, 2007, p.180. 84 così come ci si presenta. Modelli e preesistenze, allora, creano architettura se interpretati criticamente e trasformati in progetto.75 Ne sono un chiaro esempio le opere di Ungers e di Kahn: per entrambi (in modo diverso e nonostante le accuse d’eccessivo concettualismo) l’astrazione delle forme non procede di per sé, ma prevede sempre, ad un certo punto del processo progettuale, quel travaso nella “Lebenswelt” che le dà motivo d’essere; l’astrazione, per avere senso come strumento di analisi e di ricerca, deve sempre trovare un’applicazione. Spesso, in varie discipline, l’astrazione è stata concepita come dimensione di verità.76 A mio parere esistono verità specifiche all’interno di una complessità data; ma tali verità portano con sé una sola verità, lo scopo essenziale che sta al fondamento dell’architettura: l’abitare. Esiste una verità “assoluta” per l’architettura (l’abitare) ed esistono verità specifiche (legate al contingente) che portano con sé quella assoluta e la mettono in pratica, relazionandola all’esistente; quindi: portano alla presenza l’abitare, dandogli forma. L’architettura, allora, deve aprirsi ad una doppia dimensione: è un sistema abitativo che per prodursi necessita, in fase di progetto, sia dell’atto dell’astrazione che di quello della percezione;77 trae origine cioè dall’unione degli elementi paradigmatici della disciplina (che sono uno strumento) con una situazione specifica (la realtà, che dà forma a quegli elementi). In altri termini, trae origine dalla trasformazione di una porzione di spazio in luogo.78 75 In questo senso, nel panorama della critica e della pratica architettoniche italiane, è fondamentale la figura di Ernesto Nathan Rogers: attento all’importanza della continuità storica e delle preesistenze (particolarmente influenzato dalla figura e dal pensiero di Enzo Paci) Rogers concepiva l’architettura come “sinonimo di vita (…): realizzare un’architettura è ‘presentificare’ il passato e ‘infuturare’ il presente”. Citazione tratta da Architettura assurda, articolo apparso su “Casabella-continuità”, n.257, novembre 1961. 76 Tra gli altri Canguilhem, già nel ’43 (nel suo Il normale e il patologico), mette in discussione l’astrazione dei concetti di “media” e di “normalità” in campo medico: non terrebbero in debita considerazione la variabile particolare e soggettiva del vivente, direttamente relazionata all’ambiente in cui vive. 77 Come sottolinea Augé, Merleau-Ponty, nella sua Fenomenologia della percezione, “distingue uno spazio ‘geometrico’ da uno spazio ‘antropologico’ inteso come spazio ‘esistenziale’, luogo di una esperienza di relazione con il mondo da parte di un essere essenzialmente situato ‘in rapporto ad un ambiente’”. Citazione tratta da Augé, M., NonLuoghi - Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera Editrice, 2005, Milano, p.75. 78 Norberg-Schulz ha scritto: “Il luogo rappresenta quella parte di verità che appartiene all’architettura: esso è la manifestazione concreta dell’abitare dell’uomo, la cui identità 85 É un punto delicatissimo. Spazio. Luogo. Qualche puntualizzazione al riguardo. Io credo che lo spazio sia sinteticamente rappresentato o da un tutto-pieno, o da un tutto-vuoto. Il miglior modo di guardare allo spazio, in architettura, sta nel considerarlo come estensione illimitata che accoglie la materia informe (non in-formata, cioè, da un’utilità); come ricettacolo, come “Madre”, per dirla con Platone.79 Tuttavia l’uomo, per portare lo spazio a sé e renderlo adatto all’abitare, deve possederlo ed occuparlo; per farlo deve mettere mano alla materia già da sempre data e darle forma di architettura (come ha detto Jean Nouvel, il lavoro dell’architetto si basa sul ritrattamento della materia). L’uomo deve porre nello spazio una cosa sua, stabilendo così la presenza di un luogo.80 L’azione dell’uomo, quindi, è determinante. In questo processo, l’architettura, in quanto cosa dell’uomo,81 non viene alla presenza per sé (ab-stracta dal mondo della vita), ma come mezzo per stare nel mondo, per abitarlo. Lo dice chiaramente Heidegger: “Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire”;82 occorre “anzitutto imparare ad abitare”.83 Nel celebre esempio del “Ponte”, il filosofo tedesco intende chiarire gli effetti del costruire sull’ambiente circostante, cioè sullo spazio indifferenziato. Col costruire, l’uomo riunisce le cose e le riconosce come parte del suo ambiente. L’architettura, quindi, dipende dall’appartenenza ai luoghi”. Citazione tratta da Norberg-Schulz, C., Genius Loci - Paesaggio Ambiente Architettura, Electa Editore, Milano, 2009, p. 6. 79 Sulle diverse letture dei concetti di spazio e di luogo si veda il IV capitolo Riflessioni sul luogo dello scritto di Giovanni Piana La notte dei lampi - Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Editore Guerini e Associati, Milano, 1988. 80 A questo proposito sarebbe utile prendere in considerazione i due concetti su cui Norberg-Schulz ha basato le proprie riflessioni in campo architettonico: il concetto di “spazio esistenziale” e di “genius-loci”, trattati rispettivamente in Esistenza, spazio, architettura (1971) e in Genius Loci - Paesaggio, ambiente , architettura (il cui sottotitolo originale recita: Towards a phenomenology of architecture, 1979). Con l’espressione “spazio esistenziale” l’autore intende fare riferimento alla relazione tra “spazio” e “carattere” (tra orientamento e identificazione). Dal momento che NorbergSchulz ritiene che il luogo sia uno spazio dotato di un carattere distintivo, ritengo plausibile tradurre il concetto di “spazio esistenziale” con luogo (come lo intendo io qui). Col concetto di “genius loci” (spirito del luogo), invece, l’autore intende mettere in evidenza che “l’identità dell’uomo presuppone l’identità del luogo” (Norberg-Schulz, op.cit., p.22). Lo spirito del luogo dev’essere parte integrante del progetto di architettura. 81 “L’architettura é ciò che la natura non può fare” (Louis Kahn). 82 Heidegger, M., Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia Editore, 2006, p.107. 83 Ivi, p.108. 86 (in quanto prodotto del costruire) produce un luogo (che, a differenza dello spazio, è determinato dalla relazione tra pieni e vuoti). Il luogo deve la sua presenza all’architettura stessa: il luogo non c’è prima dell’architettura. Ecco perché luogo ed architettura sono inscindibili (quando sono scissi si parla di non-luogo).84 Il luogo limita le cose dell’uomo entro un sistema di relazioni; é un sistema di relazioni: è, allo stesso tempo, il confine ed il vuoto entro cui si dispiega un sistema di relazioni. Come direbbe Aristotele, in questo senso, il luogo è statico: il movimento (la relazione) avviene al suo interno. Quando Le Corbusier si trova alle prese con uno stato di fatto, tanto stimolante quanto disorientante, come quello di Chandigarh (in cui la tabula rasa dello spazio illimitato giocava a cavallo tra le infinite possibilità e nessuna), pronuncia una frase decisiva: “Era opportunità di occupare uno spazio”.85 Vale a dire: di trasformare quella porzione di spazio in un luogo attraverso l’atto dell’occupare. “Occupare” significa prendere possesso (per primi): rendere propria una porzione di spazio ed insediarvi un luogo. Parafrasando Einstein, in Le Corbusier, l’essenziale non sono le cose dell’uomo (le architetture), ma lo spazio tra loro interposto.86 Lo spazio, in questo senso, permane nel mondo dell’uomo, ma non come entità astratta: lo spazio esiste come misura della distanza tra i luoghi. Quindi: essenziale non è l’oggetto architettonico, ma il sistema di relazioni che produce con l’intorno. Ecco allora che l’architettura non ha a che fare soltanto con lo spazio assoluto (la Madre), ma anche e soprattutto con lo spazio umano in rapporto dialettico col luogo; questo spazio “umano” è una porzione di spazio assoluto che trova accoglienza nel luogo come misura della distanza tra i luoghi. All’interno del concetto di luogo inteso come sistema di relazioni, però, si agitano alcune differenze che reclamano una propria specifica determinazione. Tali differenze sono frutto della sempre più crescente 84 Secondo Marc Augé, “se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo”. Citazione tratta da Augé, M., op.cit., p.73. 85 Citazione tratta da Constant, C., From the Virgilian dream to Chandigarh: Le Corbusier and the modern landscape, in AA..VV., Denatured Visions, The Museum of Modern Art, New York, 1991, p.87. 86 “Occorreva una potente immaginazione scientifica per discernere che nella descrizione dei fenomeni elettrici non sono né le cariche, né le particelle che costituiscono l’essenziale, bensì lo spazio interposto tra cariche e particelle”. Citazione tratta da Einstein, A., Infeld, L., L’evoluzione della fisica, Universale scientifica Boringhieri, Torino, 1985, p.255. 87 complessità del reale cui è soggetta la città negli ultimi secoli (e, in particolar modo, negli ultimi decenni). Michel Foucault ha parlato di una particolare tipologia di luogo, l’”eterotopia”. L’eterotopia riassume i vari tipi di luogo che presentano determinate caratteristiche tali da renderli “assolutamente differenti”87 dagli altri luoghi (cioè, da quelli che rappresentano un sistema di relazione). Si tratta di luoghi estranei al sistema di relazioni instaurato dall’architettura. Il loro essere “assolutamente altro”, infatti, li pone ai margini della città, fuori dalla città, al suo limite (sia in senso metaforico che, spesso, fisico). Il luogo-altro è il luogo dell’architettura-altra che sta fuori dal sistema di relazioni; quindi: è uno spazio umano fuori dal luogo, emarginato. In questi particolari spazi umani l’uomo instaura, con lo spazio e con il tempo, un rapporto innaturale: in questi luoghi l’uomo si chiama fuori dal tempo storico e fuori dallo spazio della città (si astrae dal sistema di relazioni) per immergersi all’interno di un sistema di negazione e di esclusione, un frammento urbano separato, isolato ed indipendente dal resto. Un “luogo” che manca di identità (un luogo che è qui nello stesso modo con cui potrebbe essere altrove) non è un luogo, è un frammento di spazio adibito ad una funzione che esula dall’abitare. Il nonluogo per eccellenza è sempre un’astrazione del luogo (un luogo-comune),88 un ritorno al modello funzionale calato (e non insediato!) all’interno dello spazio umano. In questo senso Augé ci fa notare che “la moda del termine ‘spazio’ (…) testimonia al contempo dei temi che ossessionano l’epoca contemporanea (la pubblicità, l’immagine, il tempo libero, la libertà, lo spostamento) e l’astrazione che li corrode e li minaccia, come se i consumatori di spazio contemporaneo fossero in primo luogo invitati ad appagarsi di parole”.89 Il non-luogo è la degenerazione astratta del luogo, ma nasce sempre da quello e si distacca da esso per isolarsi e vivere di sé. L’enclave è la sua immagine. Secondo David Harvey,90 la crisi 87 Citazione tratta da Foucault, M., Utopie Eterotopie, Edizioni Cronopio, Napoli, 2008, p.12. Secondo Foucault l’eterotopia è una sorta di “contro-spazio”, si tratta di una forma di luogo che non appartiene a nessuno spazio. Alcuni esempi di eterotopia a cui si riferisce Foucault sono: il cimitero, il museo, la biblioteca, le prigioni, le fiere, i villaggi vacanza. Quando Augé parla di non-luogo si riferisce, tra gli altri, a club vacanze, aeroporti, grandi magazzini, catene alberghiere. 88 Come il luogo-comune, il non-luogo ha un principio di verità (lo spazio umano), ma è banalizzato (perde il carattere “esistenziale”). 89 Augé, M., op.cit., p.78. 90 Si veda a questo proposito il libro di David Harvey La crisi della modernità, Edizione EST, Milano, 1997. 88 dell’urbanistica modernista deriverebbe dal processo di frammentazione della città postmoderna in enclaves. Di conseguenza, la progettazione dello spazio (sia pubblico che privato) tende al frammento isolato e, quindi, ad un sistema di relazioni sempre più chiuso in se stesso. Quando un’entità non è più parte di un sistema di relazioni chiamato ad “accudire e curare” le cose dell’uomo decade a fondo cui attingere per il ciclo produzione-consumo (di qualsiasi cosa induca desiderio). Di seguito, il luogo decade nell’auto-referenzialità: l’indifferenza tra architetture, allora, genera la caduta di quella concezione dello spazio come misura della distanza tra luoghi.91 Il luogo non è più da nessuna parte se non in sé. In poche parole: cade la concezione del luogo come spazio umano aperto all’altro. L’architettura, per potersi relazionare in modo dialettico alle altre discipline artistiche e scientifiche, deve continuare a possedere un’identità e a controllarla.92 Inoltre, occorre considerare la complessità e le contraddizioni del contemporaneo come un’occasione di progetto, come un valore da interpretare (inutile invocare un ritorno a ciò che non può più essere); occorre guardare alla progettazione dello spazio umano come apertura al dialogo tra le differenze per valorizzare l’identità del luogo. “Apertura” e “Contestazione” sono i principi di un’architettura delle identità che sappia vivere con distanza critica il proprio presente. L’Apertura è continuità di relazioni. La chiusura del luogo è discontinuità (nelle enclaves e nei precincts93), è presenza fuori-luogo (nelle architetture ultra-spettacolari delle archistar), è assenza di distanza (nelle comunicazioni virtuali). 91 “Soltanto una città può essere abitata; ma non è possibile abitare la città, se essa non si dispone per l’abitare, e cioè non ‘dona’ luoghi. Il luogo è dove sostiamo: è pausa – è analogo al silenzio in una partitura. Non si dà musica senza silenzio. Il territorio postmetropolitano ignora il silenzio; non ci permette di sostare, di ‘raccoglierci’ nell’abitare. Appunto, non conosce, non può conoscere distanze. Le distanze sono il suo nemico”. Citazione tratta da Cacciari, M., La città, Pazzini Editore, Villa Verucchio (RN), 2009, p.36 92 A questo proposito si veda il libro di Vittorio Gregotti Contro la fine dell’architettura, Einaudi Editore, Torino, 2008. 93 “I precincts [quartieri sorvegliati; zone delimitate e protette], che siano a iperinvestimento o a disinvestimento, centrali o periferici, vecchi o moderni, sono spazi controllati, protetti dalla polizia, in cui si svolge un’attività specifica e da cui gli indesiderabili vengono esclusi”. Citazione tratta da “Enclaves” e recinti, di Graham Shane, articolo pubblicato su “Casabella”, n.597-598, Gennaio-Febbraio, 1993, p.59. 89 La frammentazione dello spazio non è una contestazione del sistema di relazioni, ma una rinuncia al luogo, accondiscendenza allo stato di fatto. È la rinuncia al dubbio che percorre il mondo della vita nelle sue relazioni tra identità diverse e, insieme, la “certezza” di un mondo isolato, chiamatosi fuori dal sistema di relazioni dell’architettura. La chiusura, in definitiva, dimentica una legge troppo spesso trascurata: l’arte è contestazione. In quanto domanda. Giovanni Mensi 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 90 Il rapporto tra norme e spazi economici LE NUOVE REGOLE CONTRO LA CRISI di Natalino Irti La crisi mondiale dell’economia suscita l’attesa di nuove regole. Viene usata la parola “regola” con qualche pudore linguistico e paura ideologica: ma essa non può non designare la norma giuridica, emanata da una volontà che sia provvista di forza sanzionatoria. L’appello alle regole, se non vuole sfumare nell’impotenza del desiderio o nella fiducia più credula, è schietto appello ad un’autorità vincolante e coercitiva. Incalza qui una prima notazione: che così si riconosce la capacità conformatrice del diritto nei confronti degli atti economici. Vecchia disputa, che vede, da un lato, i teorici di un’economia auto-regolantesi, i quali chiedono allo Stato soltanto sicurezza delle strade e difesa delle frontiere; e, dall’altro, i teorici (e, fra di essi, l’autore del presente scritto) della priorità logica del diritto, cioè della decisione politica che configura i singoli assetti dell’economia mediante permessi e divieti e sanzioni. Le crisi segnano ore di riscoperta dei poteri pubblici, di ritorno alla politica, di invocazione di norme. Ma chi ha questa potestà regolatrice, capace di emanare norme e di garantirne la pratica e concreta applicazione? La crisi è mondiale, e il “mondo” della produzione e degli scambi, dell’economia reale e della finanza, non combacia più con il territorio di singoli Stati. Si è rotta la coincidenza territoriale fra politica diritto economia, e, mentre le prime due forze si sciolgono a fatica dal vincolo dei luoghi, l’ultima è indefinita e sconfinata. Le norme giuridiche sono così chiamate ad un’efficacia spaziale, che superi le antiche frontiere degli Stati, e stringa Paesi lontani e diversi. Il problema sta nel rapporto fra norme e luoghi, nella dissociazione di territorio statale e spazio economico. Ne ebbe piena e lucida consapevolezza il fondatore della scuola italiana di diritto pubblico, Vittorio Emanuele Orlando, che, risalendo nell’aprile del 1947 la cattedra romana, teneva uno splendido discorso su “La rivoluzione mondiale e il diritto”. Il grande vegliardo – allora ottantasettenne – enunciava l’alternativa: o la supremazia di uno Stato o un accordo fra Stati; o “con un procedimento di forza o per manifestazione di libere volontà o in una combinazione, la cui misura può essere indefinitamente varia, delle due maniere”. Orlando non mostrava preferenze, e consegnava al futuro la scelta dell’una o dell’altra maniera. Il problema ha oggi assunto uno straordinario rilievo: l’unità globale dell’economia esige, o sembra esigere, l’unità globale del diritto. Il bisogno è di ristabilire la coincidenza spaziale tra norma regolante e fatto regolato, sicchè l’economia non dilaghi in spazi vuoti di diritto (a-nomici), e dunque di responsabilità e di sanzioni. Forse l’alternativa non è così secca, poiché è pur concepibile che il mondo si divida in aree economico-politiche, occidentali e orientali, industriali e agricole, e che ciascuna – come teorizzava Carl Schmitt – esprima un proprio nomos, un proprio criterio di ordine e di diritto. La dottrina dei “grandi spazi”, ancorché enunciata o piegata al servizio dell’espansione 91 germanica, coglie un’esigenza profonda del nostro tempo, cioè il dilatarsi dell’economia, e di ogni umana attività, oltre i confini degli Stati e la nascita di connessioni spaziali secondo criteri diversi dagli antichi. Quello che un tempo si diceva “mondo”, e ci appariva comprensibile e preciso, è ora in attesa di una nuova definizione: è ancora un mondo o si scompone nella pluralità dei mondi? Quale che ne sia l’esito, è da credere che il processo storico volgerà ad altre configurazioni spaziali, instaurando, sull’intero pianeta o su singole frazioni, il profondo rapporto fra diritto e luoghi, fra àmbiti del potere politico-giuridico e àmbito dell’economia. La definita e chiusa territorialità cede alla spazialità, che suscita nuovi criteri di determinazione politica e nuovi tipi di ordinamento giuridico. La crisi economica, non diversamente da ogni altro periodo di disordine e discontinuità, avrà, anche sotto il riguardo giuridico, una sicura efficacia creativa. Natalino Irti L’articolo sopra riprodotto è stato pubblicato il 4 marzo 2009 da Il Corriere della Sera. Ringraziamo l’autore e la direzione del giornale per la gentile concessione. 92 93 94 Abuso dell’arte per un’estetica al potere La filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer come spiegazione dell’interdipendenza tra arte e politica nel Terzo Reich di Maristella Cervi In Germania, sin dalla fine dell’800, storici dell’arte, artisti e filosofi lavorano sul tema della forma, intesa come nuovo linguaggio attraverso cui chiarire il mondo e come destino dell’arte che conferisce senso alla realtà. Tra questi, Konrad Fiedler (1841-1895) inizia a guardare all’arte come luogo di produzione del reale. Il filosofo sostiene che l’arte elabora concetti secondo leggi proprie, in virtù del suo potere conformativo; che ogni forma d’arte si giustifica soltanto in quanto necessaria per rappresentare qualcosa che altrimenti non sarebbe rappresentabile. Così nasce il concetto di "pura visibilità": il vero significato di un’opera artistica non si trova in contenuti estrinseci, come il tema rappresentato, bensì nel modo in cui questo è reso visibile, fissato nella struttura di una forma, che produce un senso di realtà e che denota la specificità di ogni realizzazione artistica. Le Schriften über Kunst (Scritti sull’arte) di Fiedler, di cui fanno parte anche gli Aphorismen (Aforismi), compariranno soltanto nel 1914, anche se già dal 1893 molti dei temi da lui trattati sono anticipati dalla pubblicazione di Das Problem der Form (Il problema della forma) di Hildebrand. L’esperienza, nel suo complesso, è vista come una variabile tensione tra due poli opposti: il mondo e l’io. Questi possono mutare nella forma, nel contenuto, nell’ampiezza e nel significato, istituendo aspetti sempre nuovi del loro interagire; nell’arte, però, trovano uno spazio in cui consolidarsi, per rendersi fautori di una realtà espressa dalla loro relazione stessa, non più caotica e mutevole, ma ordinata ed armonica. "L’antiteticità dei due poli", così la definisce Antonio Banfi nella sua introduzione agli Aforismi sull’arte edita da Minuziano nel 1945, confluisce in un accordo "che reciprocamente li differenzia e li unisce", così che il mondo possa rivelarsi all’io e l’io possa aprirsi al mondo. Come un processo in continuo divenire, la costituzione della realtà non smette di rinnovarsi nelle molteplici interazioni tra l’io e il mondo, e in tal modo Fiedler recupera il trascendentalismo critico kantiano nella sua intuizione basilare. Ogni forma, sia essa un concetto o un’opera d’arte, fa parte della realtà e, allo stesso tempo ne è principio di sviluppo, determinando una "struttura di ideale obbiettività" e dando vita alla natura autoproduttiva della realtà spirituale. L’accordo reciproco tra l’io e il mondo, che confluisce nell’arte, innesca l’elevazione dell’uomo, inteso come individuo, all’uomo, inteso come 95 espressione; dove per espressione si debba intendere l’obbiettività spirituale hegeliana in cui momento soggettivo e momento oggettivo dell’esperienza si ritrovano per trarre, dalla propria fusione, verità. L’io si esprime, dunque, quando supera la sua velleità soggettiva, quando mette in moto il processo dialettico che trascende i due momenti, soggettivo ed oggettivo. Allo stesso modo, l’arte supera la mimesis, copia di un’entità già esistente, così come lo statuto di prodotto immaginativo, per definirsi espressione, nei termini appena descritti: l’arte diventa, per Fiedler, produttività artistica della realtà, espressione intesa come complessa ed infinita tensione dialettica. Per realizzare ciò, l’esperienza, i suoi piani intuitivi di sensibilità, le forme concrete di espressione, la personalità dell’artista, sono coinvolte in un unico sviluppo. Non è l’artista, alla maniera romantica, ad esprimersi, bensì l’esperienza che si dischiude attraverso l’artista, sino a raggiungere la realtà e l’oggettivazione artistica. "L’arte figurativa", dice Fiedler, "non si volge all’occhio, ma sorge dall’occhio". L’attenzione si rivolge dunque non tanto all’attività dell’artista, quanto all’attività dell’arte attraverso l’artista, come se l’occhio non dovesse attendere di essere impresso dalla luce esterna per vedere ma come se, già immerso nella luce del mondo, si riservasse di aggiungervi qualcosa: il suo sguardo, la sua intuizione espressiva, una nuova forma, l’impronta del suo stile. Lo stile è ciò che conclude l’opera d’arte secondo una legge interiore propria: lo stile organizza l’opera e la oltrepassa, suscitando attorno a sé un mondo. Quando Fiedler scrive ad Hans von Marées, l’amico pittore che sostenne per anni finanziariamente e al quale dedicò il proprio tempo e le proprie osservazioni per la formulazione delle sue teorie artistiche, esprime pienamente questo concetto: “Il suo quadro di aranci mi fa continuamente pensare che gli artisti moderni o non conoscono la natura o non sanno superare l’intuizione del particolare, mentre questa è solo il gradino più basso, il primo inizio; quanto l’artista offre dovrebbe essere sempre il risultato di una lunga esperienza fatta su un’osservazione finissima della natura, altrimenti si tratterà sempre di qualche cosa di povero, per quanto fedelmente cerchi di rendere il dato naturale. Tutto questo baccano che si sta facendo adesso a proposito di naturalismo e realismo è quanto mai stolido, perché proprio coloro che vengono osannati si limitano a conoscere della natura quel che vedono sul momento, e per lo più non è molto. Solo chi sa molto della natura può dare l’astrazione del sensibile, e sa limitarsi agli elementi puramente necessari, perché ognuno di essi apre lo sguardo di chi li sa avvicinare su tutto un mondo di immagini; dietro ad una semplicità apparente si nasconderà così un’infinita ricchezza, mentre ora, così spesso, dietro ad un’apparente ricchezza non c’è che un’illimitata povertà. Nel 96 suo quadro mi sembra che ogni forma, ogni albero, ogni monte sia tipico, la fine e il principio di tutta una serie di immagini94.” Altro si intende invece per "maniera", che ha più a che fare con la standardizzazione formale, come fosse copia di un originale e che, dunque, più che stile, può essere chiamata stilizzazione: nessuna tensione interna la anima e dal suo delinearsi non sorge dimensione del mondo alcuna. L’opera d’arte originale, quella che come si è detto sa rivelare uno stile, si pone come frammento di una realtà, costituendo un intreccio della trama infinita dell’arte. A detta dello stesso Fiedler, "l’arte è un infinito, ogni opera d’arte è un frammento, benché appaia un reale in sé compiuto"95. Accanto alle considerazioni fiedleriane, che chiaramente recuperano gli spunti filosofici di Schopenauer per l’ardire con cui si riconosce l’arte come aspetto essenziale della spiritualità e, di conseguenza, di spazio produttivo della realtà, un altro testo è destinato ad avere un notevole influsso sul ruolo delle forme artistiche. Nel 1908 un ventiseienne, Wilhelm Worringer, ottiene la pubblicazione a Monaco della sua prestigiosa tesi di laurea dal titolo Abstraktion und Einfühlung (Astrazione ed empatia). Formatosi sulla filosofia di Schopenauer, W. Worringer sottolinea la tensione che si instaura tra realtà e forma, tra vita e astrazione: l’oggettivazione pare quindi essere ciò che caratterizza e dà forza alla civiltà moderna; senza cristallizzare la realtà in forme, infatti, non sarebbe possibile controllarla in alcun modo. Il concetto di arte inizia ad allontanarsi dall’idea di tradizione artigiana, di mestiere basato sul "saper fare", per inscriversi in un’attività proiettata al "voler fare", ovvero a ricreare il mondo. È per mezzo dell’Einfühlung, la capacità di empatia, che è possibile ricondursi al realismo e ad una condizione di dominio del mondo esterno. L’analisi teorica che W. Worringer applica alla creazione artistica, pone in evidenza l’arte come frutto di un’esigenza psichica, del Kunstwollen, il volere artistico. Le istanze psichiche dell’uomo dettano una modalità espressiva all’arte secondo i propri bisogni e così l’arte potrà creare un mondo a seconda della tipologia antropologica a cui dovrà far fronte. Ritornando a Fiedler e tenendo ben conto della filosofia di Kant volta a sviluppare l’assoluta connessione tra l’io e il mondo, del schopenauerismo che inneggia al mondo come volontà e rappresentazione e delle teorizzazioni worringeriane in merito al carattere produttivo dell’arte, non si può fare a meno di evidenziare come il mondo sembri appartenere proprio a chi (forse dovremmo dire a ciò che) lo produce. Mi permetto di citare di nuovo gli Aforismi: 94 K. Fiedler, Aforismi sull’arte, a cura di Antonio Banfi, Alessandro Minuziano Editore, 1945, p. 170, originale Aphorismen, in K. Fiedler, Schriften über Kunst, hrsg. Von herman Konnerth, München, 1914, p.101. 95 Ibidem, p. 60. 97 “Il mondo è di chi agisce: questo è vero non solo nell’accezione pratica comune, ma nel suo significato profondo della relatività del mondo: solo la ricchezza e la vitalità dello spirito ne sviluppano l’essere. Indebolendosi lo spirito, anche l’essenza del mondo sbiadisce e scompare96.” Ecco che la forma si prospetta come legge del movimento stesso della materia, il regno delle forme è concepito come regno dello spirito e l’arte costituisce uno dei mezzi che sono stati dati all’uomo per appropriarsi del mondo. Il principio dell’attività artistica è la produzione della realtà, nel senso che nell’attività artistica la realtà raggiunge la sua esistenza, mentre l’arte si configura come uno sviluppo necessario della stessa immagine del mondo. È lo spirito a conferire un volto alle cose attraverso l’attività della rappresentazione artistica, è lo spirito che attraverso l’arte ottiene l’oggettivazione, nonché la comprensione del mondo come totalità di forme: è questo il "realismo". Analogamente, Ernst Cassirer (1874-1945) identifica nell’arte, in quanto forma simbolica, lo strumento per la determinazione del risultato conoscitivo. Per Cassirer è il potere del simbolo a rendere possibile il mondo delle cose umane. L’uomo, infatti, non è in grado di cogliere se stesso e il suo mondo come un’unità: egli si trova di fronte a svariati modi di concepire e vedere l’uomo, tanti quante sono le varie sfere dell’attività umana. Ad un simile stato di frammentazione percettiva, Cassirer offre una soluzione attraverso la definizione dell’uomo come animale simbolizzatore, ovvero animal symbolicum. Il simbolo pervade tutte le attività umane e su di esso la cultura poggia ogni suo fondamento. Per Cassirer, dunque, il potere simbolizzatore rende possibile anche la sfera dell’etica, che è movimento dai fatti agli ideali. La sua intera opera è un tentativo di guidare l’uomo contemporaneo a ritrovare la propria strada all’interno della frammentazione sociale della vita novecentesca: quanto più ci si allontana dalla frammentarietà dell’esperienza sensibile e l’oggetto si avvicina ad una forma estrema e perfetta in grado di garantire una durata della coscienza, come può essere un concetto, tanto più una forma simbolica si rende stabile e le relazioni che la coscienza stabilisce tra sé e il mondo esterno si fanno oggettive. Ciò che permane viene distinto da ciò che fluisce, nonostante il simbolo risulti comunque composto da elementi sensibili e attraversato dal tempo. La forma simbolica è possibile perché nel movimento della coscienza si stabilisce una rete di relazioni costituente l’immagine durevole: cose, situazioni, proprietà e attività non sono per Cassirer contenuti dati nella coscienza, ma maniere della sua attività formatrice o meglio di quella attività produttiva dello spirito che è l’arte. Per quanto una ricerca sulle origini del concetto cassireriano di forma simbolica non sia ancora completa, le principali fonti filosofiche si possono suddividere in 96 Ibidem, p. 140. 98 gruppi tipologici: fonti logico-metafisiche si riscontrano in Leibniz, per la distinzione tra conoscenza simbolica e conoscenza intuitiva formulata nelle Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, la definizione di simbolistica generale in De analisi situs e in primo luogo la nozione di idea come simbolo, sviluppata in Quid sit Idea; in Kant, per il percorso proposto all’interno di una dialettica trascendentale come principale fonte filosofica di E. Cassirer: in particolare, per quanto riguarda il concetto di forma simbolica, si è individuata nell’interpretazione morfologica della Critica del giudizio, espressa in Kants Leben und Lehre (1918), una fonte diretta della teoria delle forme simboliche. A tal proposito è possibile segnalare una citazione dal primo libro della Antropologia kantiana, riportata nel terzo volume della Filosofia delle forme simboliche, nel contesto della patologia della coscienza simbolica: “Le forme delle cose (intuizioni), in quanto servono solo come mezzi della rappresentazione mediante concetti, sono simboli e la conoscenza relativa è detta simbolica o figurata97.” Tra le fonti scientifiche si devono annoverare la teoria dei segni di Helmholtz, la teoria fisica di Mach e la teoria dei simboli di Hertz. Per Helmholtz il sapere riguardante gli oggetti precede il sapere che concerne le sensazioni; sensazioni e rappresentazioni si definiscono però segni e non copie degli oggetti. Il segno assume un ruolo di spicco rispetto alla copia perché non richiede alcuna somiglianza oggettiva negli elementi ma soltanto una corrispondenza funzionale tra le due strutture. Per quanto riguarda Mach, Cassirer rileva la relazione tra condizione e condizionato: queste vengono in effetti riconosciute dal fisico come il vero elemento permanente e sostanziale, ovvero come qualcosa la cui scoperta rende possibile una stabile immagine del mondo. Hertz risulta fondamentale per la sua definizione di spazio, tempo e massa degli oggetti esterni, secondo un principio di coordinazione e traduzione tra dati e simboli matematici poiché, secondo quanto formulato dallo studioso in Die Prinzipien der Mechanik (I principi della meccanica), 1894, quel che la mente può conoscere dipende dai simboli che crea. Il principale riferimento a Hertz, tuttavia, si trova nel testo che Cassirer scrive ed intitola Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen (La teoria della relatività di Einstein. Considerazioni gnoseologiche), testo chiave per la comprensione del concetto cassireriano di forma simbolica: il termine vi compare per la prima volta, inoltre il testo si volge a determinare l’oggetto fisico come oggetto nel fenomeno (fenomeno che, visto con gli occhi di chi già conosce le osservazioni di Cassirer, potrebbe essere identificato con l’arte), 97 I. Kant, Antropologia del punto pragmatico, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino, 1986, p. 612. 99 segnando compiutamente e consapevolmente il passaggio della teoria della conoscenza come riproduzione, alla teoria della conoscenza come funzione, secondo il punto di vista kantiano. E. Cassirer è, nella sua epoca, uno dei pochi studiosi a porre la teoria relativistica einsteiniana su un piano di simbolismo matematico, dunque su un piano a-metafisico. Le forme della conoscenza sono riconosciute nella loro pluralità morfologica, esistono cioè molteplici e differenti attribuzioni di forma e di senso alla totalità della conoscenza scientifica (forma teoretica, etica, estetica ecc.): viene così negata l’unilateralità della visione naturalistica. L’immagine ottiene la sua liberazione da tale unilateralità, ogni singola forma si relativizza rispetto alle altre e, poiché non la singola, bensì solo la totalità sistematica di forme sarebbe espressione valida della realtà, ecco che è attraverso la totalità delle forme simboliche che si perviene al concetto di una realtà articolata nel rapporto tra l’io e il mondo. Fonti estetiche sono rintracciabili in Hegel, per le ricerche hegeliane sul simbolismo nell’arte e per la tensione continua verso una conciliazione tra idea e forma: “...die simbolische (Kunst), worin die der Idee angemessene Gestaltung noch nicht gefunden ist, vielmehr der Gedanke als hinausgehend und ringend mit der Gestalt als ein negatives Verhalten zu derselben, der er zugleich sich einzubilden bemüht ist, dargestellt wird. …l’arte simbolica in cui non si è ancora trovata la figurazione adeguata all’Idea, e in cui il pensiero viene presentato piuttosto come oltrepassante la figura e in lotta con essa, come un comportamento negativo verso la figura sulla quale esso a un tempo si sforza di imprimersi98.” Fonti estetiche si ritrovano poi nell’ampio studio su Goethe e sulla sua teoria dei colori, che lascia trapelare una netta sovrapposizione tra la simbologia cromatica e la vita, come se i due elementi della creatività non potessero prescindere l’uno dall’altro. Infine, a tale quadro, va ricondotta anche la filosofia del linguaggio di Humboldt, che si ricollega alla critica kantiana per il primato riconosciuto alla forma e alla correlazione tra soggetto e oggetto e che vede ogni lingua come manifestazione esterna dello spirito di un popolo, come la maniera spirituale di esprimere concretamente il pensiero. Per Cassirer il linguaggio, come l’arte, non può però assolutamente essere pensato come una 98 G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (Enciclopedia delle scienze filosofiche), a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano, 1996 (edizione con testo tedesco a fronte), pp. 902-903. 100 mera opera dello spirito, bensì come una forma che rappresenti il carattere peculiare di quest’ultimo. Il discorso storiografico delle fonti estetiche della forma simbolica si intreccia, per concludere con i raggruppamenti tipologici, con quello delle fonti iconologiche, ovvero dei rapporti di Cassirer con Aby Warburg e Erwin Panofsky. Aby Warburg (1866-1929), attivo ad Amburgo già dai primi anni del Novecento, è la personalità che dà inizio ad un approccio contestuale dell’opera d’arte, influenzando l’orientamento iconologico dell’epoca. La sua indagine, pur muovendo da posizioni formaliste di esegesi dell’opera d’arte, si orienta verso una conoscenza contenutistica ed iconografica del testo visivo, sino a tracciare una storia dei fenomeni artistici come testimonianza di uno sviluppo diacronico e sincronico del simbolo. Lo stesso dominio dell’arte si colloca, per Warburg, nella sfera del simbolo, in quanto luogo di rivelazione del profondo. Il suo sguardo si rivolge al regno interiore della psiche, credendo che l’arte esteriorizzi nella storia ciò che è sedimentato nel profondo dell’anima umana. Quello di Warburg è un credo nei confronti del genio artistico: una volta trovati i simboli che con maggiore forza di sintesi espressiva rappresentano l’esteriorizzarsi del regno interiore, l’immagine prende forma come opera d’arte, affermando il sensibile ad un livello di permanenza. Il simbolo è dunque concepito come limite estremo dell’espressione: l’espressione artistica è, oltretutto, espressione di una lotta per l’affermazione di una identità sovratemporale in un momento di conflittualità storica tra epoche. Qui entra in gioco il recupero dell’antico: il pathos della coscienza può rivolgersi anche ad espressioni antiche di pathos, per il raggiungimento di una nuova formula che rappresenti il nuovo corso della storia. Il saggio di Cassirer del 1923, Der Begriff der symbolischen Form (Il concetto di forma simbolica), inaugura la collana dei Vorträge der Bibliothek Warburg, in cui compaiono i contributi più significativi della scuola iconologica e che introduce la prima formulazione sistematica generale delle forme simboliche, espressioni dello spirituale attraverso segni e immagini sensibili. Dal punto di vista morfologico non si tratta di conoscere o riconoscere il significato del simbolo in ogni manifestazione "spirituale", piuttosto di comprendere fino a che punto l’arte, come totalità, porti in sé il carattere generale di forma simbolica, qualora la si intenda come qualsiasi energia dello spirito attraverso la quale un contenuto viene ricollegato- ad un segno concreto e sensibile. L’arte è in tal senso forma simbolica. Nel 1924, nella collana medesima, appare il saggio Eidos und Eidolon. Das Problem des Schönen und der Kunst in Platons Dialogen (Eidos e Eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei "Dialoghi" di Platone), scritto in occasione di un discorso pronunciato alla Biblioteca Warburg e in cui si chiarisce il valore sistematico della concezione platonica dell’estetica, argomento peraltro anticipatamente affrontato rispetto al contributo del 1925, Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon (La filosofia greca dalle origini a Platone): l’idea, l’eidos, si identifica con la 101 forma e diventa espressione del contenuto semantico del logos. Il filosofo interpreta la storia della filosofia greca come la storia della configurazione del contenuto nella forma, dunque della configurazione del logos nell’eidos. Il problema che viene posto in risalto in questo studio tocca la natura essenzialmente platonica di ogni estetica o speculazione postplatonica sull’arte, tentando di superare quella dicotomia tra sensibile e intelligibile che dichiarerebbe l’arte come non suscettibile di pensiero, in quanto puro oggetto dei sensi. Il tentativo di Cassirer sta proprio nel ricondurre il fatto sensibile, che costituisce l’esperienza artistica, alla forma intesa, in senso platonico, come principio di ordinamento del reale. Per far ciò egli individua, nella storia del pensiero estetico successiva a Platone, una tensione tra i concetti di eidos (Gestalt, forma) e eidolon (Bild, immagine), risolvendolo in un rapporto simbolico tra le due entità, che consiste nel riconiare l’esistenza sensibile in forma di significato intellettuale, imprimendole il vero sigillo dell’essere e recuperando, se vogliamo, la parusia platonica (dal greco parousìa, presenza. Si intende la presenza attiva delle idee nelle cose). La natura non è un puro concetto interno alle cose materiali, ma prende parte, tramite l’ordine eterno che la domina, al regno delle forme. Cassirer mette in discussione la visione dicotomica della filosofia di Platone, che vede generi universali contrapposti alla molteplicità delle cose, le idee (in condizione di pensabilità, in considerazione gnoseologica) contrapposte alle cose (in condizione di esistenza, quindi in considerazione ontologica): in realtà è il pensiero che deve dominare, unito al concetto, su ogni forma particolare. Inoltre, per spiegare come la forma simbolica sia radicata direttamente nel funzionamento della coscienza, lo studioso ricorre alla nozione di una semplice linea disegnata, di un Linienzug, esemplificazione del funzionamento della coscienza di fronte ad un oggetto teorizzata in ben due sue opere del 1927: Das Symbolproblem und seine Stellung im System der Philosophie e il terzo volume della Philosophie der symbolischen Formen. Cassirer invita dapprima il lettore a partecipare ad una verifica percettiva, inducendolo ad osservare la linea rispetto alle sue qualità puramente sensoriali (determinatezza spaziale, levità, spessore, direzione, l’andamento spezzato o continuo): in tal caso, si nota come lo stato d’animo dell’osservatore sia influenzato dall’andamento e dalle caratteristiche della linea, che si presenta come una totalità animata. Assumendo, in un secondo momento, un altro punto di vista e considerando la linea come una struttura matematica, l’osservatore è spontaneamente orientato a giudicarla come schema di una legge geometrica, scorgendovi le relazioni e le proporzioni che rappresenta, anziché le variazioni che la distinguevano come dinamismo espressivo. Infine, il filosofo propone una terza e una quarta prospettiva, invitando a cogliere il Linienzug come simbolo mitico che segna la divisione tra sacro e profano o come oggetto di contemplazione estetica. Come D. P. Verene espone nell’introduzione a Symbol, Myth and Culture. Essays and Lectures of Ernst Cassirer 1935-1945, si spiega, dunque, come Cassirer possa definire ogni atto percettivo colmo di "pregnanza simbolica", se per quest’ultima si intende la 102 maniera in cui un’esperienza vissuta dalla percezione, in quanto esperienza di senso, racchiude in sé un determinato senso non intuitivo e acquista una sorta di articolazione spirituale. La symbolische Prägnanz suggerisce che il simbolo inerisce alle più rudimentali manifestazioni della coscienza, ampliando l’accezione di forma simbolica oltre la sua designazione di forme culturali. Sempre del 1927 è anche uno degli scritti più famosi ed esemplari di Erwin Panofsky che riprende il concetto, prima warburghiano e poi cassireriano, di simbolo e forma simbolica dall’antichità classica all’età moderna, nel suo contributo intitolato Die Perspektive als symbolische Form. Mentre Cassirer pensa di collocare ogni attività simbolica all’interno di un più ampio contesto culturale, Panofsky prevede di riferire gli sviluppi dell’arte all’interno della Weltanschauung di un’epoca storica determinata: questi riconosce nella capacità di produrre simboli una delle facoltà umane più importanti. Produrre simboli significa, per lo storico dell’arte, astrarre e accostare un significato ad una forma. A ben vedere, egli si avvicina, senza però ancorarsi ad un’analisi psicologica, a quella visione archetipica del simbolo che la psicanalisi di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung diffondono nella prima metà del Novecento: Panofsky sa che l’archetipo nasce, come informazione universale, impersonale ed ereditaria, come possibilità di rappresentazione, da una memoria collettiva; egli riconosce l’inconscio collettivo come tradizione riguardante una popolazione e un periodo storico. A questo punto è necessario inoltrarsi nella filosofia cassireriana e vedere un po’ più da vicino le formulazioni teoriche relative alla nozione di simbolo, con l’intento parallelo di intrecciarvi considerazioni di confronto rispetto ai meccanismi propagandistici del Nazionalsocialismo. La politica hitleriana ostenta una mistica celebrazione dell’uomo, una fede illimitata nell’opera dell’uomo e la comunità è la fonte di legittimazione del potere politico. La sostanza sacrale diventa così lo spirito del popolo, il Volksgeist, che si tramuta in realtà storica attraverso i membri della collettività. Si deve considerare, inoltre, che spesso le teorie del Nazionalsocialismo esulavano dal mondo nazionalsocialista stesso e che fattori concomitanti agli avvenimenti storici hanno potuto partecipare, talvolta, al rafforzamento delle ideologie in corso di espansione: è questo il caso dell’interdipendenza tra la politica nel Terzo Reich e la filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer. L’intenzione non è infatti quella di dimostrare la concausalità dei due fenomeni, quanto di stabilirne un confronto, per evidenziare come vi si ritrovino aspetti analoghi, nonostante la diversità delle intenzioni. Perciò è questo anche il caso del ruolo dell’arte nel Nazionalsocialismo, del suo abuso come potere politico estetizzato al fine di identificare l’individuo con l’organizzazione nazionale, secondo un principio aggregante che recupera elementi del passato, li collega al presente e li indirizza ad un futuro. L’arte si fa, durante il Terzo Reich, strumento di distinzione di un popolo, rappresentante di un’identità nazionale, promotrice di un nuovo ordine della realtà e dunque di un potere politico che da questa non può prescindere. L’arte è in grado di convocare il popolo, seducendolo con la produzione di una 103 realtà attraverso immagini, anche archetipiche, o simboli. Meccanismo, se vogliamo, riconducibile a quello delle forme simboliche di cui Cassirer parla. Per Cassirer il mito, l’arte, la conoscenza e il linguaggio divengono tutti simbolo, in quanto forme culturali espresse dalla coscienza: “Wenn man die Sprache, den Mythos, die Kunst als «symbolische Formen» bezeichnet, so scheint in diesem Ausdruck die Voraussetzung zu liegen, daȕ sie alle, als bestimmte geistige Gestaltungsweisen, auf eine letzte Urschicht des Wirklichen zurückgehen, die in ihnen nur wie durch ein fremdes Medium erblickt wird. Die Wirklichkeit scheint für uns nicht anders als in der Eigenart dieser Formen faȕbar zu werden; aber darin liegt zugleich, daȕ sie sich in ihnen ebensowohl verhüllt wie offenbart. Se il linguaggio, il mito, l’arte vengono designate come forme simboliche, si presuppone che tutti questi ritornino, in quanto modalità definite e spirituali della forma, ad un ultimo strato originario della realtà, uno strato che in loro stessi si scorge come strumento ignoto. La realtà non ci appare in altro modo se non come queste stesse forme propongono; ma allo stesso tempo la realtà è in esse celata e altrettanto evidente 99.” La "filosofia delle forme simboliche" proviene dal presupposto che, qualora esista una definizione dell’essere e della natura dell’uomo, questa definizione sia da intendere in termini di funzionalità e non di sostanzialità. Ecco dunque che la domanda Was ist der Mensch? trova una sua risposta adeguata non in una definizione metafisica dell’essere o fisica della natura, ma semplicemente nel suo agire. L’azione, o meglio il sistema delle attività umane, definisce die Sphäre des Menschenseins. Di conseguenza, l’agire politico, di per sé non identificabile come forma simbolica ma che ad essa tende per simulare un’entità che oltre a mostrarsi come forma sia già nel suo apparire anche significato, instaura uno stretto legame di dipendenza con l’arte, che si designa invece come simbolo. Posta al servizio politico, quest’ultima rende possibile un mondo secondo le percezioni sensoriali dell’uomo (o del popolo che dir si voglia), dei concetti che gli vengono imposti dal totalitarismo, delle istituzioni con cui viene a contatto. L’arte, del resto come il linguaggio, diventa perciò una funzione umana che elargisce visioni del mondo colte dall’operar politico e veicolate nel medium espressivo. Scrive Cassirer in Zur Metaphysik der symbolischen Formen, la quarta parte a lungo inedita della "Filosofia delle forme simboliche": 99 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Buchgesellschaf, Darmstadt, 1954, Band 3. 104 Formen, Wissenschaftliche “[Wie die Sprache ist es die bildende Kunst, in der die Erhebung des Menschen von] der Stufe der sinnlichen Wahrnehmung zur Stufe des eigentlichen Sehens statt [findet]. Sie sind die beiden in ihrem Gebrauch zusammengehörigen und zusammenwirkenden Organe für die Gewinnung eines anschaulichen Weltbildes [...]. Nel linguaggio come nell’arte ha luogo l’elevazione dell’uomo dallo stadio della percezione sensoriale allo stadio del vero e proprio vedere. Linguaggio e arte sono due organi che nel loro sviluppo si coappartengono e cooperano per il raggiungimento di un’immagine intuitiva del mondo […]100” Il pensiero cassireriano introduce nel panorama filosofico del Novecento una definizione di simbolo non precisamente determinata, ma sicuramente in connessione con la problematica della teoria della conoscenza: "il vero e proprio vedere" di cui si parla nella citazione appena menzionata recupera, se vogliamo, ciò che anche Leonardo da Vinci ha chiamato il "saper vedere" e ciò che Goethe ha chiamato il "vedere con gli occhi dello spirito". Le immagini simboliche, secondo la These der Pathologie des Symbolbewusstseins, si rendono fondamentali ai fini dell’acquisizione del mondo e per far questo la coscienza stabilisce di continuo relazioni, imponendosi essa stessa con una struttura relazionale cognitiva ed operativa. In tal modo, ogni contenuto viene rimandato ad altri contenuti attraverso mediazioni che rendono possibili totalizzazioni. Appare chiaro che dei simboli si voglia porre in risalto il carattere prettamente strumentale, non solo, soprattutto il partecipare dello strumento alla determinazione del risultato conoscitivo. Ernst Cassirer, quindi, non limita la sua visione di simbolo ad un mezzo in grado di rispecchiare un determinato oggetto, al contrario estende le forme simboliche ad entità capaci di fornire strumenti di conoscenza nell’unità dei fenomeni che esse stesse producono nel loro senso. Di tutti i teorici dell’estetica del XIX secolo, egli riconosce a Konrad Fiedler il merito di aver visto nel modo più chiaro la necessità di costruire il sistema dell’estetica sul sicuro fondamento della critica della conoscenza. Quest’ultimo cerca di delineare una trasposizione della "rivoluzione copernicana" di Kant101 nel mondo delle forme artistiche: fin dai tempi antichi due grandi principi, quello dell’imitazione e quello della trasformazione della 100 Citazione relativa al testo di E. Cassirer, Zur Metaphysik der symbolischen Formen, ma tratta da T. Bevc, "Zur Interdipendenz von Kunst und Politik. Ernst Cassirer und die Kunst als symbolische Form.", in W. Hofmann, H. O. Mühleisen (Hrsg. von), Kunst und Macht. Politik und Herrschaft im Medium der bildenden Kunst, Lit Verlag, Münster, 2005, Band 2, trad. it. a cura di Giulio Raio, Metafisica delle forme simboliche, Sansoni, Milano, 2003, p. 100. 101 È il mutamento di prospettiva effettuato da Kant. 105 realtà, si sono contesi il diritto a essere la vera espressione dell’essenza dell’attività artistica; ora, la disputa trova una risposta in un terzo principio, il principio della produzione della realtà. Infatti, l’arte non è altro che uno dei mezzi attraverso i quali l’uomo consegue la realtà. Le cose ottengono un volto solo perché lo spirito e, nel caso del movimento nazionalsocialista, lo spirito del popolo, lo conferisce ad esse, in un modo e in una direzione determinati della sua attività (la rappresentazione artistica, il linguaggio). In tal modo si compie un passo decisivo verso l’oggettivazione, verso la comprensione del mondo come una totalità di forme, verso quel realismo tanto acclamato da Hitler.102 Cassirer estende poi questa concezione. Le varie manifestazioni dello spirito, la scienza, l’arte, il mito, la religione sono rilette, nello stesso tempo, come modalità ben definite finalizzate alla costituzione del reale. Facile riconoscere come la dittatura hitleriana si sia avvalsa di arte e mito. Molto più in generale, si evidenzia l’idea che le attività dello spirito si muovano in un universo simbolico, per ricondursi alla determinazione di un oggetto unicamente attraverso la mediazione di una certa struttura logico-concettuale. Nello studio sul concetto di azione e funzione, che nella scienza moderna si è venuto sostituendo a quello di sostanza, Cassirer mette in luce l'importanza del linguaggio e del segno, nella costituzione degli oggetti di cui si occupa la scienza. Egli sceglie, in questo modo, di percorrere un nuovo sentiero che guida la rivoluzione copernicana al suo ampliamento a tutte le forme della cultura, riconosciute nella loro irriducibile autonomia, cioè alla filosofia delle forme simboliche. Si tratta, in realtà, di un ampliamento che coinvolge anche un autentico mutamento di prospettiva. Nella Filosofia delle forme simboliche permane l'esigenza sistematica caratteristica del neocriticismo marburghese, ma essa si realizza in una "critica della cultura" in cui si considera ogni attività spirituale nella sua forma caratteristica, nel suo manifestarsi peculiare, nel suo (come dice Cassirer) "esser così", in una ricchezza di forme che rispecchiano la stessa ricchezza della vita. Ciò che accomuna le diverse sfere della cultura (linguaggio, mito, religione, arte, ecc.) è la loro natura di "forme simboliche" in quanto rappresentano, mediante segni simbolici, il contenuto dello spirito: il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero ma il suo organo necessario ed essenziale. L'atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico. Il compito della filosofia sarà allora quello di mostrare come attraverso l'espressione simbolica si generino le varie forme della realtà spirituale e, se si vuol a questo punto di nuovo invadere il territorio della «rivoluzione tedesca», sarà utile rammentare come lo scopo del Terzo Reich sia stato quello di rinnovare la spiritualità dei Tedeschi, facendo appello alla natura, all’eredità germanica e dunque anche al Volk, come mito e ricettacolo di forza vitale, come momento di contatto tra l’individuo e la «realtà superiore», lo 102 M.K. Ibidem. 106 «spirito del cosmo». Racconta G. L. Mosse in Le origini culturali del Terzo Reich: “La «nuova» Germania, egli asseriva (Arthur Möller van den Bruck103), doveva venire infiammata dall’idea del passato germanico e della potenziale grandezza futura; essa avrebbe dovuto ridar vita, rendendole operanti nell’era nuova, alle tradizioni del messianismo medievale. Il materialismo contemporaneo, l’esistente società e la scienza dovevano essere dimenticati, e così l’anima tedesca avrebbe preso lo slancio e seguito senza più deviazioni la parabola del Geist. […] La ristrutturazione in senso corporativistico avrebbe garantito alla nazione i benefici di una società comunitaria, benefici che la borghesia non era stata in grado di assicurarle. Integrando in sé certi aspetti del socialismo, il nuovo organismo avrebbe reso santi e intoccabili particolari raggruppamenti come gilde, stati sociali, orini, i quali dal canto loro avrebbero dovuto subordinarsi alle necessità del Volk nel suo insieme. […]104” Un altro aspetto del pensiero cassireriano che, pur non dimenticandone le diverse implicazioni, può esser confrontato con il panorama ideologico nazista è il concetto di mito, una tra le varie forme simboliche che il filosofo elenca. Se le immagini del mito sono considerate innanzitutto simboli, il mito sarà in grado di produrre un mondo autonomamente, in quanto attività originaria dello spirito. Il mito possiede però un proprio significato preciso, da non confondere con quello delle altre forme spirituali. Per Cassirer sarebbero individuabili due filosofie della mitologia: quella di Schelling, che vede nel mito l’espressione dello spirito; quella positivistico-psicologico-sociologica, che riscontra una giustificazione della forma culturale mitica a partire unicamente dalla storia e dall'organizzazione sociale. Cassirer oppone all'interpretazione positivistica del problema mitico una riflessione trascendentale che si sforza di non dipendere dall'esterno, dalla società e dalle influenze storiche, apprezzando ed elogiando piuttosto la teoria di Schelling. Il mito non ricopia la realtà, bensì la struttura. Anche nello studio del mito, perciò, Cassirer palesa un'impostazione trascendentale diretta a studiare le condizioni che permettono la nascita di determinati fenomeni nella storia e nelle diverse culture. Inoltre, il mito non può che essere una forma pratica, visto il suo intimo legame con la vita dell'uomo, col suo operare, oltre che col suo pensare e strutturare il mondo. Il mito è, da 103 A. M. van den Bruck (1876-1925), storico e filosofo della politica. G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, trad. it. di F. Saba-Sardi, Il Saggiatore, Milano, 1968. 104 107 sempre, una modalità di intendere il mondo, la modalità "antica" di comprensione del mondo. Per riassumere, il mito, l'arte, la religione, la storia, fanno parte dell'universo simbolico, sono "i fili che costituiscono l'aggrovigliata trama dell'esperienza umana". Se tutte le forme della vita culturale dell'uomo sono forme simboliche, allora anche l'uomo potrà ormai essere definito animal symbolicum: in tal modo si indicherà ciò che lo caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie, e si potrà capire la speciale via che l'uomo ha intrapreso: la via verso la civiltà, (forse una civiltà superiore se osservata dal punto di vista hitleriano). Di vero c’è che il Nazionalsocialismo sfrutta la sovrapposizione tra mundus sensibilis e mundus intelligibilis, tra significante e significato, che il concetto di forme simboliche alla maniera cassireriana propone: nulla ha significato al di fuori delle forme che rappresentano il significato stesso. La rappresentazione è riconosciuta come presupposto essenziale per la costruzione di una conoscenza e, ancor più (ritornando al Volk), di una coscienza. Nello studio della cultura totalitaria in genere, si ritrovano solitamente precise formulazioni in cui si afferma che l’arte non è semplicemente una sfera autonoma di attività dello spirito umano, ma un oggetto creato secondo scopi predeterminati, non necessariamente utilizzato a buon fine. È inoltre del tutto estranea alla coscienza totalitaria il concetto di arte pura, di art pour l’art, di leggi di evoluzione dell’arte indipendenti dalla volontà umana, trattandosi esse di teorizzazioni pericolose dal punto di vista delle ideologie dittatoriali stesse. L’arte nazionalsocialista si ritrova pertanto a svolgere funzioni sociali con lo scopo di plasmare la coscienza del popolo e di distoglierlo dai compiti urgenti della lotta di classe. I nazionalsocialisti cercano di riformare l’intera cultura e di assoggettarla alla loro ideologia, omologando l’arte al proprio apparato di potere. Già negli anni di scalata politica, Adolf Hitler dimostra interesse per tutti i problemi di sensibilità collettiva, riservando attenzione ai segni, ai simboli e ai colori, elementi essenziali della scenografia di massa. Per questo motivo è possibile affermare che "l’appello alle masse" e "lo spirito popolare" rappresentano, nell’arte totalitaria, due facce della stessa medaglia: così l’appello rivolto dall’arte al popolo, all’Herrenvolk (il popolo dominatore), alla Weltanschauung (la visione del mondo), si identifica in realtà con un appello alle masse. Arte, letteratura, cinema e teatro cessano, durante il periodo nazista, di essere espressione della personalità dell’artista e vengono tollerati soltanto in quanto utilizzabili a fini propagandistici. La propaganda stessa acquista lo statuto di arte di "nuovo tipo" e l’organizzazione della vita artistica rientra costantemente sotto la sua giurisdizione. In Germania la camera di cultura dell’impero viene organizzata come parte del ministero dell’informazione e della propaganda di Goebbels. Fondamentale importanza ricoprono i suoi diari, a cui era dedicata una parte della giornata e che riferiscono sulla vita di Goebbels dal 1924 al 1945: egli era così legato alla 108 sua scrittura intimistica, da predisporre che i diari fossero riprodotti in microfilm e sepolti in una foresta nelle vicinanze di Berlino (da lui considerata patria spirituale in cui poter dar vita a nuovi mezzi di comunicazione di massa), mentre gli originali rimasero nella cancelleria del Reich. Con il nome di Kampfzeit, l’era della lotta, si designa il periodo in cui Goebbels fonda i giornali, supporto di trasformazione delle informazioni politiche in informazioni di influenza e quindi di potere, in grado di assicurare il dominio di Hitler (il suo eroe) sul partito e sulla Germania intera. Come Hitler, Goebbels credeva nella superiorità della parola detta su quella scritta, come strumento di rigido controllo. Col passare degli anni Hitler attribuisce a questo ministero, Ministerium für Volksaufklärung105 und Propaganda, un’importanza sempre maggiore, assegnandogli stanziamenti più consistenti e concependo la propaganda come una rivoluzione spirituale del popolo, come un’arte effettiva. Nel Mein Kampf Hitler si esprime così a tal proposito: “Ich lernte dabei schon frühzeitig verstehen, dass die richtige Verwendung der Propaganda eine wirkliche Kunst darstellt [...] Ho precocemente imparato a comprendere che il giusto utilizzo della propaganda rappresenta una vera arte […]106. Die Propaganda bearbeitet die Gesamtheit im Sinne einer Idee und macht sie reif für die Zeit des Sieges dieser Idee, während die Organisation den Sieg erficht durch den dauernden, organischen und kampffähigen Zusammenschluȕ derjenigen Anhänger, die fähig und gewillt erscheinen, den Kampf für den Sieg zu führen [...]" La propaganda lavora la collettività nel senso di un’idea e la rende matura per il tempo del trionfo di questa idea. L’organizzazione procura la vittoria aggregando a sé, in modo costante, organico e belligerante, quei partigiani che appaiono disposti a combattere per la vittoria107.” Le arti figurative, la letteratura, il cinema, il linguaggio in genere debbono operare in favore della propaganda, che a sua volta deve precedere l’organizzazione politica e guadagnare a quest’ultima il materiale umano da rielaborare, come se si trattasse di una fabbrica del consenso. La propaganda 105 Ironicamente l’espressione di Aufklärung, illuminismo, rappresenta nel ministero di Goebbels una maniera totalmente emotiva e irrazionale di accostarsi alla mentalità del popolo tedesco. 106 A. Hitler, Mein Kampf, p. 193. 107 Ivi, p. 653. 109 cerca così di imporre (eliminata la parola subdolamente) una dottrina al popolo intero, mentre l’organizzazione mira a comprendere nelle sue cornici unicamente coloro che non minacciano, da un punto di vista psicologico, di essere d’ostacolo all’ulteriore diffusione dell’idea bündisch, ovvero corporativa, del Nazionalsocialismo. La concezione stessa del mondo esige di essere trasformata in partito e venir riconosciuta come unica ed esclusiva. I manifesti nazisti che si diffondono al primo apparire del movimento, costituiscono un solido esempio dell’interazione propagandistica con il popolo, mentre segni e simboli si fanno emblematici della politica hitleriana: la presenza della svastica, nera in campo bianco e rosso, diventa sintesi di tradizione, novità e lotta108; i baffetti del Führer permettono ai fruitori di captare a prima vista la matrice politica del manifesto. La stilizzazione dei messaggi si accompagna, perciò, ad un simbolismo visivo e, come M. Crouzet fa notare in Storia del mondo contemporaneo109, l’arte non separa più artificialmente i problemi di forma dalle preoccupazioni di sostanza, cerca piuttosto una forma, la sola che sia capace di esprimere un contenuto umano. Il simbolo, nella sua sintesi di forma e significato conduce ad una percezione immediata ed essenziale, ovvero a formule stereotipate del linguaggio, dando la possibilità alle masse di fronteggiare l’arte, di farla propria e, insieme ad essa, di far proprio anche il regime. Così scrive Hitler nel Mein Kampf: “L’organizzazione delle nostre truppe d’ordine richiese la soluzione di un problema assai importante. Fino allora, il movimento non possedeva distintivi né bandiere di partito. La mancanza di questi simboli era dannosa per il presente e intollerabile per l’avvenire. Gli svantaggi consistevano anzitutto in questo, che i membri del partito non possedevano un segno esterno permettente di riconoscere la loro comune appartenenza al nostro movimento; e per il futuro non era ammissibile la mancanza d’un distintivo che avesse il carattere d’un simbolo della nostra azione e che, come tale, potesse essere opposto all’Internazionale. […] Fummo allora fortemente occupati dal problema della nuova bandiera, ossia del suo aspetto. Da ogni parte venivano proposte 108 Precisamente il rosso rimanda al socialismo, il bianco all’idea nazionalista e la croce uncinata color nero ribadisce fermamente la missione di combattere. Dal sanscrito svastika (derivante da svasti, «fortuna», «felicità»), è il segno costituito da una croce avente bracci eguali, ripiegati ad angolo retto, che si è caricato di un valore magicoreligioso connesso con il movimento rotatorio del sole. Il segno – presente, sembra, sin dal IV millennio a.C. nell’Asia mesopotamica, poi in India e nel Tibet – viene assunto in Germania sin dal primo Novecento,come emblema dei movimenti razzisti antisemiti; da questi passa al nazismo. 109 M. Crouzet, Storia del mondo contemporaneo, trad. it. di G. Manacorda, Sansoni, Firenze, 1974. 110 che rivelavano buone intenzioni ma valevano poco. Perché la nuova bandiera doveva non solo essere il simbolo della lotta ma anche fare un grande effetto negli affissi, nei manifesti ecc. Chi ha molto a che fare con la massa, sa che queste apparenti minuzie hanno grande importanza. Un’insegna producente grande impressione può in migliaia di casi dare la prima spinta ad interessarsi ad un movimento. Per tale motivo dovremmo declinare le proposte, venute da molti lati, di identificare, per mezzo d’una bandiera bianca, il nostro movimento col vecchio Stato, o meglio, con quei fiacchi partiti la cui unica meta è la ricostruzione d’un regime tramontato. Inoltre, il bianco non è un colore trascinante. È adatto a caste associazioni di fanciulle, non a travolgenti movimenti d’un epoca rivoluzionaria. Fu pure proposto il nero: conveniva, bensì, al nostro tempo di lutti, ma non conteneva nessuna chiara rappresentazione della volontà del nostro movimento. Ed anche questo colore non è abbastanza trascinante. […] Al nero-rosso-oro" (quella dell’antico impero medievale) "non era il caso di pensare. E nemmeno al nero-bianco-rosso," (quella della Repubblica di Weimar) "per i già citati motivi: almeno, non nel modo in cui quei colori erano disposti finora. Questa associazione di colori è di gran lunga più mirabile d’ogni altra. È l’accordo più radioso che esista. […] Dopo innumerevoli saggi, compilai la forma definitiva: una bandiera di panno rosso con un disco bianco, nel cui mezzo stava una nera croce uncinata. Dopo lunghi tentativi trovai pure un determinato rapporto fra la grandezza della bandiera e quella del disco bianco, e così pure tra la forma e l’intensità della croce uncinata dipinta. Ed al mio progetto ci attenemmo. […]Ed è in realtà un simbolo110” Nell’ottobre 1940 Goebbels fonde la direzione artistica e quella politica del suo ministero, subordinando a tutti gli effetti l’arte agli scopi politici. Così viene messo in luce come il compito dell’arte e degli artisti non sia soltanto quello di unire la collettività: compito loro è di modellare, plasmare mantenendo un legame costante con il popolo. Soltanto un’arte che crei attingendo pienamente alla nazione può in definitiva assumere un ruolo di spicco per il popolo, per il quale è stata creata. Sulle basi di queste speculazioni, l’arte nazionalsocialista rivela la tendenza a soddisfare un bisogno di oggettività che si contrappone all’instabilità, al soggettivismo, all’affermazione individuale, in un rapporto che Berthold Hinz in L’arte del nazismo (Milano, 1975, p.21) definisce di "correlazione": essa si trova in effetti in una realtà soprastorica e permanente 110 A. Hitler, op. cit., trad. it. di B. Revel, La mia battaglia, Bompiani, Milano, 1939 (nel testo riporto direttamente la traduzione data la lunghezza del passo). 111 che si prefigge di partire dal temporale per approdare all’eternità. Secondo le concezioni di Goebbels, l’artista non deve più credere di dipingere per il suo tempo, al contrario, deve cogliere il senso di una negazione del tempo storico in cui vive ed opera, per trasformarlo in uno spazio del fare artistico, per pervenire ad "un’arte ontologica, sostanziale", per citare Hinz. Una sostanzialità dell’arte che si purifica dalla degenerazione (i nazionalsocialisti parlavano di Deutsche Kunst ed Entartete Kunst, arte tedesca e arte degenerata appunto), si associa ad una sostanzialità del popolo, che deve essere ripulito dai gruppi dei cosiddetti emarginati al fine di costituirsi come pura razza ariana. Una definizione sostanziale di arte e di popolo che può determinarsi come tale, in realtà, solo se riletta, alla maniera cassireriana, in termini di funzionalità. Nonostante E. Cassirer non appoggi mai il movimento nazionalsocialista e, anzi da questo venga pure perseguitato data la sua origine ebraica, un confronto tra le sue teorizzazioni filosofiche e il meccanismo politico hitleriano di assoggettamento dell’arte al regime per trarne beneficio politico, non è affatto azzardato. La direttiva secondo la quale l’arte totalitaria deve essere comprensibile al popolo, oltre che fondamentalmente appoggiata dal consenso di Adolf Hitler, costituisce un argomento centrale nella lotta per il realismo e funge da raccordo con la Philosophie der symbolischen Formen di Ernst Cassirer, che è in grado di delineare chiaramente il concetto di interdipendenza tra arte e politica che sussiste all’interno del movimento nazionalsocialista del Terzo Reich. In nessun caso come nel Nazismo, l’identificazione di politica e arte è forse mai apparsa tanto evidente. La stessa persona del Führer diventa un’icona, un’incarnazione simbolica del potere politico, della nazione tedesca, del popolo. L’arte totalitaria hitleriana può essere considerata un realismo di tipo particolare, diverso da tutti gli altri realismi europei, poiché riflette ideologia e mito in guisa di realtà e offre un metodo per instillare nella nazione e nel mondo una percezione particolare, "totalrealista", come la definisce Igor Golomstock111, arrivando ad oltrepassare ed estremizzare l’Ottocento realista, prediletto peraltro da Hitler, sino a raccogliere gli empiti più antichi dell’arte e recuperare i canoni classici. L’idea della lotta come forza trainante della storia e rappresentata da immagini di guerra oltre che da uno scontro eroico dell’uomo verso la natura, ritratti celebrativi di Hitler (sia nella pittura che nella scultura monumentale), temi storico-rivoluzionari volti a presentare il "creatore" della storia del Terzo Reich a capo delle masse rivoluzionarie, rappresentazioni allegoriche del dittatore, raffigurazioni della quotidianità popolare e della dedizione al lavoro e ancora paesaggi industriali in segno di avanzamento sociale: con questi raggruppamenti tematici, l’arte totalitaria si pone al servizio del culto nazionalsocialista, attribuendo alle opere d’arte il carattere simbolico della sacralità e imponendosi come apoteosi del progresso. Così, per quanto 111 Cfr. Ivan Golomstock, L’arte totalitaria, Leonardo, Milano, 1990. 112 l’intera opera di Albert Speer, capo architetto del Terzo Reich, si sia attivata per sublimare nell’arte gli intenti politico-propagandistici, il carattere estetico del potere nazionalsocialista si conferma, a mio parere, come stile "oggettivante" per la produzione e l’appropriazione di una realtà che riveste anche la volontà di un popolo di identificarsi con l’inarrestabilità di una necessità storica. Maristella Cervi Maristella Cervi ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Teoria e Analisi del testo, presso l’Università degli Studi di Bergamo. 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 113 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED Il concetto di critica in Foucault: dalla Riforma a Kant. di Antonio Coratti Niente mi è più estraneo dell’idea di un padrone che impone la propria legge Foucault INTRODUZIONE Come Kant, nel suo famoso articolo del 1784, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo, aveva incitato i suoi contemporanei al Sapere aude, al coraggio di uscire dallo stato di minorità in cui versavano, così Foucault, in una sua conferenza del 1978, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklarung), invita gli individui del XX secolo ad appropriarsi degli spazi di libertà che spettano loro di diritto, attraverso la critica, cioè attraverso un atteggiamento, una vera e propria arte dell’esistenza. E’ in questo contesto che l’autore di Sorvegliare e punire, delinea nuove prospettive nel rapporto tra soggetto e potere. La filosofia della cura di sé, la prova storico-pratica, l’arte di non essere eccessivamente governati, sono concetti alla base della consapevolezza che deve infondersi nel soggetto, nel singolo individuo, nell’elaborare il suo rapporto con tutte quelle forme di dominio, manifeste o latenti, che, quotidianamente, tentano di dirigere il suo corpo, la sua anima. E’ solamente acquisendo questa consapevolezza che la critica diventa virtù, diventa lo strumento per fare dell’uomo un soggetto storico in grado di resistere, combattere, dare forma nuova al corso della storia stessa, della sua propria storia. Oltre il dominio. Il pensiero di Michel Foucault è stato sempre caratterizzato da un rapporto ambivalente tra le forme di potere che di volta in volta ha preso in considerazione nelle sue ricerche e il soggetto su cui il potere agisce. Sicuramente, il fatto che Foucault, soprattutto nei suoi primi scritti, si sia dedicato profondamente ad indagare i rapporti di coercizione esercitati all’interno di istituzioni totali, come carceri e case di internamento, ha contribuito a far emergere visioni pessimistiche sulle possibilità di libertà aperte agli individui, soffermandosi, come lui stesso afferma, “troppo sulle 115 tecniche di dominio” (Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Volume III 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998). In questo contesto, sono evidenti i motivi che hanno portato Foucault a denunciare i limiti di quelle scienze, come ad esempio le scienze umane, che tendono a dominare, ad imbrigliare ogni devianza dal sistema scientifico stesso, non consentendo spazi di autonomia e libertà al di fuori dei canoni ufficiali e facendo dell’individuo, un oggetto calcolabile e descrivibile. La conferenza tenuta da Foucault nel 1978 presso la Société Française de Philosophie, dal titolo Qu’est – ce que la critique? (Critique et Aufklarung), può essere interpretata, nel concetto di critica elaborato, come un momento di cesura nel pensiero foucaultiano, attraverso cui l’autore giungerà ai suoi ultimi scritti, incentrati, in particolar modo, su una nuova concezione dell’individuo. Nell’ultimo Foucault, infatti, per l’individuo, inteso non più come mero prodotto, investito in tutto il suo essere da relazioni di potere che lo dominano e che, tutt’al più, egli affronta con quel minimo di resistenza (anche se solo corporea, come in Sorvegliare e punire) di cui è capace, si apre un territorio, non ancora esplorato, in cui egli instaura un certo tipo di rapporto con se stesso, che non si configura necessariamente nella forma del dominio e dell’indottrinamento. All’interno dei nuovi confini sono accessibili, per i soggetti, spazi di auto-creazione, di edificazione di se stessi, non solo attraverso codici imposti dai meccanismi sociali e culturali, ma anche, e soprattutto, attraverso regole che l’individuo sceglie, allo scopo di creare se stesso nel migliore dei modi possibili. E’ Foucault stesso ad evidenziare questa nuova prospettiva durante un’altra conferenza, tenutasi nel 1981, dal titolo Sessualità e solitudine : “Poco a poco mi sono reso conto che in tutte le società esiste un altro tipo di tecniche: quelle che permettono agli individui di effettuare, autonomamente, alcune operazioni sui loro corpi, le loro anime, i loro pensieri, le loro condotte, e questo in modo da produrre una trasformazione di se stessi, una modificazione, e da raggiungere un certo stato di perfezione, di felicità, di purezza, di potere soprannaturale. Chiamiamo queste tecniche le tecniche del sé” (Ibidem). Pur non cessando di essere pervasi dalle ragnatele del potere, per gli individui si aprono nuovi spazi di autonomia, di azione, di resistenza attiva e, perfino, di libertà. “Se si vuole analizzare la genealogia del soggetto nella civiltà occidentale – continua Foucault – si deve tener conto non soltanto delle tecniche di dominio, ma anche delle tecniche del sé. Si deve mostrare l’interazione che si produce tra i due tipi di tecniche” (Ibidem). 116 Critica come atteggiamento. Il riferimento al termine tecnica non è casuale per introdurre il concetto foucaultiano di critica. Come l’autore afferma nella conferenza del 1978 “quel che per secoli nella Chiesa greca si è chiamata technè technòn,…era proprio la direzione di coscienza, l’arte di governare gli uomini” (M. Foucault, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma, 1997) e la critica si pone come éthos filosofico, come atteggiamento limite, come l’arte di non essere eccessivamente governati. “Non si tratta di un atteggiamento di rigetto. Dobbiamo sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro; dobbiamo stare sulle frontiere… Caratterizzerò dunque l’ethos filosofico, proprio dell’ontologia critica di noi stessi, come una prova storico–pratica dei limiti che possiamo superare, e quindi come un lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi” (Ibidem). E’ da evidenziare il fatto che, all’interno della conferenza sul concetto di critica, il richiamo a Kant sia incentrato sull’analisi dell’articolo del filosofo tedesco: “Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?” apparso nel 1784 e non sulle sue tre opere maggiori e più note. Foucault sottolinea come nel suo articolo Kant, da un lato, abbia caratterizzato l’Aufklarung in rapporto a uno stato di minorità nel quale sarebbe tenuta, in maniera autoritaria, l’umanità e, dall’altro, abbia definito questa minorità come l’incapacità dell’umanità di servirsi del proprio intelletto senza la direzione di un altro. Se è vero, quindi, che Kant ha effettivamente imputato la causa della minorità umana ad un’autorità che esercita il suo potere oppressivo, è altrettanto vero che ha imputato questa minorità a una mancanza di decisione e di coraggio dell’uomo stesso. Seguendo questa interpretazione, Foucault evidenzia che, se la riflessione sui limiti, presente nella Critica della Ragion Pura di Kant, consisteva nell’indagare fin dove, attraverso la ragione, la conoscenza può legittimamente spingersi e dove, al contrario, essa non trova più fondamento di verità, il compito della critica della modernità, nel senso di Aufklarung, consiste proprio nel superamento di questi limiti. Sarebbe importante, secondo Foucault, riproporre l’Aufklarung come questione centrale del mondo contemporaneo, proprio come fece Kant nel suo articolo, che si presentò, all’epoca, come una critica, ovvero, un atteggiamento critico, nei confronti dell’attualità che si stava vivendo in quel preciso momento storico, un’analisi di ciò che è in rapporto al presente stesso e non più in riferimento al passato, come modello da imitare o, comunque, con cui confrontarsi. E’ in questo senso che Foucault, in un’opera successiva, dichiarerà di vedere nell’Illuminismo la prima epoca che si riconosce il nome che porta, basata su una nuova filosofia, quella dell’ontologia dell’attualità (M. 117 Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano, 1984). Paolo Napoli, nella sua introduzione alla conferenza di Foucault, Qu’est – ce que la critique? (Critique et Aufklarung), chiarisce il pensiero di Foucault sul concetto di ontologia dell’attualità: “L’Illuminismo instaura una presa diretta col mondo, al punto che i criteri per comprendere derivano anch’essi da quel mondo, non possono essere presupposti in maniera astratta nell’uomo. Le manifestazioni della ragione sono integralmente storiche, è questo il valore permanente dei Lumi” (M. Foucault, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma, 1997). L’immersione totale nel presente fa sì che l’Illuminismo stesso diventi ethos filosofico, assuma a pieno i connotati del concetto di critica foucaultiano, diventi atteggiamento nei confronti del presente e solo di esso, senza rimandi a epoche altre. Ma l’aspetto più rilevante del discorso di Foucault è quello di non trattare il problema della critica in termini di filosofia, ma come atteggiamento da assumere, richiamandosi fortemente all’incitamento al Sapere aude di Kant. “La critica non appare lo strumento di un’egemonia intellettuale che segna il privilegio di una casta; … è, invece, una forma di vita che caratterizza l’autonomia etica di ogni individuo, il lavoro progettuale di un’esistenza. Sottratta alla rigidità del metodo, essa resta l’esperienza pratica in cui concepire l’esercizio della libertà” (Ibidem). Il Soggetto e la cura di sé. L’atteggiamento critico (come l’arte di non essere eccessivamente governati) si pone alla base delle nuove forme di soggettività che Foucault spera possano affiorare sulle ceneri dell’uomo, del soggetto ermeneutico cristianofreudiano, ormai morto. “Il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto di liberare l’individuo dallo Stato e dalle sue istituzioni, quanto liberare noi stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato” (M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano, 1984). E’ in questo contesto che Foucault inserisce le tecniche del sé di cui abbiamo accennato in precedenza. Nel terzo volume sulla Storia della sessualità, Foucault evidenzia come l’austerità nelle pratiche sessuali, o, comunque, la definizione di contesti e limiti, non siano nati con la diffusione della morale cristiana, ma siano stati presenti già nelle filosofie fondate sulla cultura di sé, sia nell’antica Grecia che nella Roma imperiale. La differenza sostanziale consiste nel fatto che, mentre la morale cristiana condannerà il sesso, il piacere, in sé, la più antica filosofia della cura di sé interpretava la resistenza ai piaceri, ai desideri, come 118 una virtù che l’uomo voleva raggiungere per sé e solo per sé, ovvero senza il dovere di renderne conto ad alcun sistema sociale, istituzionale o legale. Essendo questo atteggiamento un elemento di scelta esclusivamente personale, uno spazio di reale autonomia in cui l’individuo decide volontariamente e razionalmente di dominare i propri istinti, le proprie pulsioni, Foucault arriva a parlarne come una vera e propria etica. Più esattamente, Foucault parla di un’etica come estetica dell’esistenza, come lavoro su se stessi, costruzione del proprio essere del proprio stile di vita, senza costrizioni esterne, nel nome della pura libertà su se stessi, sul corpo e nell’animo. Con il Cristianesimo, la cura di sé si associa ai precetti religiosi che predicano la rinuncia a se stessi, ai desideri, ai piaceri corporei, in nome della salvezza eterna: quella che era un’estetica dell’esistenza, diventa una forma di egoismo, di amor proprio nel senso rousseauiano del termine. La cura di sé era una forma di governo di se stessi che si poneva alla base dell’etica civile e del governo delle relazioni nella famiglia come nella comunità, “ .. è il potere su se stessi che regola il potere sugli altri” (Ibidem). “Nel nostro tempo” - sostiene Foucault - “dal momento che la maggior parte di noi non crede più che l’etica possa essere fondata sulla religione, e dato che non vogliamo un sistema legale che interferisca con la nostra vita privata, morale e personale, dovremmo riflettere sulla possibilità di promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli” (Ibidem). Kant e Foucault. Nonostante il fatto che per introdurre il suo discorso sull’autonomia e la libertà dell’individuo nella conferenza del 1978, Foucault abbia più volte fatto riferimento all’esortazione di Kant al Sapere aude, tuttavia, riconosce egli stesso che un’assimilazione incondizionata del concetto di Aufklarung nel senso kantiano e del concetto di critica come atteggiamento, non sarebbe corretto, in quanto “si potrebbe facilmente dimostrare che per lo stesso Kant il reale coraggio di sapere, consiste nel riconoscere i limiti della conoscenza e che per lui l’autonomia è lungi dall’essere opposta all’obbedienza ai sovrani” (M. Foucault, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma, 1997). Il Kant che Foucault rimuove decisamente, è quello che concepisce l’autonomia in astratto, sulla base di canoni universali, dove, per il filosofo francese, il problema del governo di se stessi, obiettivo positivo della critica, risponde sempre a quel momento di differenza storica di cui l’idea di presente è, per sua natura, portatrice e che nessun principio normativo a priori può sopprimere. L’uomo non deve essere pensato e la sua azione non può essere concepita al di fuori della storia attuale; immerso in una radicale condizione storica, il 119 soggetto non ce la fa ad assumere una posizione valida a priori, all’esterno del mondo che gli sta innanzi e del tempo in cui vive. Ma è proprio questo rapporto così stretto tra il soggetto e la sua storia che non permette di fondare l’atteggiamento critico su principi generali e universali; ciò che caratterizza in maniera radicale il concetto di critica foucaultiano è che esso, per manifestarsi, deve essere riferito a un determinato contesto storico e a determinati rapporti, relazioni, tra il potere e il soggetto su cui questo potere esercita la sua coercizione. Ad una domanda postagli al termine della conferenza, Foucault risponde evidenziando fortemente come l’atteggiamento critico che spinge ad esprimere la volontà di non essere governati non sia una sorta di aspirazione originaria, ma risponda alla volontà di non essere governati così, in un certo modo, da questo o da quello, a un dato prezzo. Sapere e Potere. Accantonata la riflessione sulla differenza tra il concetto di Aufklarung e di Critica nel pensiero kantiano, Foucault si propone di considerare l’aspetto storico della questione tra il XIX e il XX secolo, in cui lo sviluppo della scienza positivistica, di un sistema statale che si imponeva come ragione e come razionalità profonda della storia e di una scienza dello Stato stesso, avevano legittimato, di fatto, la Critica kantiana, molto più che il Sapere aude dell’Aufklarung. La questione dell’Aufklarung a partire da Kant, “per opera sua e probabilmente in ragione di questo scarto tra Aufklarung e Critica che egli ha introdotto”, è stata posta essenzialmente in termini di conoscenza, “ovverossia partendo da quello che fu il destino storico della conoscenza al momento della costituzione della scienza moderna”, fino a interrogarsi sulla “legittimità dei modi storici del conoscere” (Ibidem) e della conoscenza stessa. A questo approccio Foucault propone di sostituirne un altro che indaghi l’Aufklarung secondo il tema, non della conoscenza, ma del potere, mettendo da parte la questione della legittimità e fondandosi sulla procedura di evenemenzializzazione. “Si tratta – dice Foucault – in questa pratica storico–filosofica, di farsi la propria storia, di fabbricare, come per finzione, la storia che sarebbe attraversata dal tema dei rapporti tra le strutture razionali che articolano il discorso vero e i correlati meccanismi di assoggettamento (…) la questione sposta gli oggetti familiari agli storici sul terreno del soggetto e della verità” (Ibidem). La differenza sostanziale con ogni filosofia della storia e con la storia della filosofia consiste in un “ritorno all’empiricità attraverso il contenuto storico 120 stesso, che si sostituisce all’insieme dei contenuti storici elaborati altrove, preparati dagli storici e recepiti come meri fatti” (Ibidem). Partire dal contenuto storico attuale, secondo Foucault, significa innescare un genere di procedura che, “sottraendosi al criterio della legittimazione…percorre il ciclo della positività, movendo dal dato dell’accettazione per giungere al sistema dell’accettabilità, analizzato alla luce del gioco sapere-potere” (Ibidem). Se l’interpretazione dell’Aufklarung secondo il tema della conoscenza e della legittimazione ha condotto, paradossalmente, al furore del potere, ciò è da imputare al nesso inscindibile tra i due elementi: non si forma senso se non come effetto di strutture coercitive. Già in Sorvegliare e punire (1975) Foucault aveva evidenziato come ogni sapere, ogni verità, fosse il correlato di un’applicazione coercitiva sui corpi, sulla materia, ovvero su ciò che c’è di più basso. Allo stesso modo, nulla può funzionare come meccanismo di potere se non si afferma con procedure, strumenti, mezzi, obiettivi, che possano essere convalidati in sistemi più o meno coerenti di sapere. Il problema da porsi, quindi, non è descrivere ciò che è sapere e ciò che è potere, ma individuarne il legame, così da cogliere le condizioni di accettabilità di un sistema. Il concetto di Evento. Nel primo scritto di Foucault, l’introduzione ad un trattato di psicologia di Ludwig Binswanger, Sogno ed esistenza (1954), il tema centrale è l’affermazione del sogno come simbolo, piuttosto che semplice segno, come vorrebbe l’interpretazione freudiana, che associa il sogno a una manifestazione dell’inconscio. Nel simbolo, sostiene Foucault, il significato vi è già contenuto nella sua immediatezza, senza alcuna funzione referenziale che opera, invece, nel concetto di segno. Il soggetto del sogno è il sogno stesso, inteso nella sua totalità, nel suo essere événement, e non più l’individuo, l’io che sogna. Interpretato come “la maniera radicale di fare l’esperienza del proprio mondo” (M.Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza, 1954) il sogno si configura, quindi, come verità autentica, assoluta. In L’archeologia del sapere (Rizzoli, Milano, 1971), l’oggetto di studio sono i discorsi, considerati non come semplici insiemi di segni che rimandano a contenuti e rappresentazioni che esistono a prescindere dal fatto di essere nominati, ma “pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano”. Alla nozione di discorso Foucault preferisce, infatti, quella di enunciato, che include in sé, contemporaneamente, il soggetto che parla, il testo e l’oggetto di cui si parla, in un’immanenza che “non necessita di alcun rimando a 121 referenti originari”(Ibidem). In questo modo l’enunciato diventa événement: “esso non viene più considerato semplicemente come la messa in opera di una struttura linguistica, né come la manifestazione episodica di un significato più profondo; viene considerato nella sua irruzione storica …Un enunciato è sempre un événement che né la lingua, né il senso possono completamente esaurire” (Ibidem). E’ in questa prospettiva che Foucault introduce il livello archeologico di indagine nella conferenza che abbiamo analizzato, riferendolo a quei sistemi storici, caratterizzati da connessioni tra meccanismi di coercizione e contenuti di conoscenza, che vengono osservati empiricamente in quanto già accettati nel sistema, per poi analizzare e cercare di capire ciò che li rende accettabili, non in generale, ma solo là dove questo avviene storicamente. Scavo archeologico e ricerca genealogica. Come l’enunciato ne L’archeologia del sapere costituiva una positività in sé, così l’événement qui preso in considerazione (ovvero l’insieme di elementi in cui interagiscono questo elemento di sapere, sia questo meccanismo di potere), è preso come totalità positiva reale, ma non necessaria. E’ chiaro come l’importante, a questo punto dell’analisi, non sia la questione della legittimità, ovvero sapere quel che è vero o falso, fondato o infondato, reale o illusorio, scientifico o ideologico, legittimo o abusivo; ma indagare quali sono i legami, le connessioni che possono essere segnalati tra meccanismi di coercizione ed elementi di conoscenza, quali giochi di rimando e sostegno reciproco si instaurano. Un aspetto che Foucault evidenzia a questo punto della conferenza è la problematicità che sorge dal momento che “queste positività non si sono rese accettabili grazie a qualche diritto originario, non si giustificano di per sé, non costituiscono un a-priori e non sono contenute in alcuna anteriorità” (M. Foucault, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma, 1997). E’ evidente che l’intento del filosofo francese sia quello di evitare che si possa pensare ad un fondamento, ad un sistema alla base del suo discorso sull’événement, ovvero tornare ad una filosofia della storia, o, ancora peggio, ad un’analisi storica che tratti le sue positività come elementi da analizzare attraverso il ricorso alle classiche procedure esplicative. A una genesi che si orienta verso l’unità di una causa principale gravida di una discendenza multipla, si tratterebbe di opporre una genealogia, vale a dire il tentativo di “restituire le condizioni dell’emergere di una singolarità a partire da fattori multipli di determinazione, di cui non sarebbe il prodotto ma l’effetto” (Ibidem). Come Nietzsche aveva usato il concetto di genealogia per demistificare la morale e spogliarla del suo carattere assoluto, eterno, riconducendola alle sue 122 origini umane, troppo umane, cosi Foucault, staccando l’ événement da un’origine logica, da un principio di necessità, lega la loro esistenza a semplici condizioni di accettabilità, a partire dalle quali si instaurano una serie di relazioni discontinue, di interazioni fra le diverse positività, in cui nessuna di queste relazioni, interazioni, risulti primaria o totalizzante. “L’intento non è quello di non considerare più valido il principio di causalità, che, anzi, è chiamato molte volte ad agire in questa rete di relazioni, ma quello di evidenziare che la singolarità che emerge da questa mobilità perpetua, da questa essenziale fragilità, si configuri come mero effetto” (Ibidem). E se l’événement da prendere in considerazione in questo nuovo approccio pratico-storico non è effetto di una causa unica e necessaria, ma di una logica tipica di un gioco di interazioni, “con i suoi margini sempre variabili di incertezza, in cui confluiscono rapporti tra individui e gruppi di persone, che implicano soggetti, tipi di comportamento, decisioni, scelte, si tratta di riuscire a sviluppare nuove forme di analisi strategiche”(Ibidem). Analisi che devono tenere in forte considerazione, dunque, il potere esercitato dai singoli individui, dai singoli événements. Il tema del potere, da cui Foucault era partito per teorizzare la sua originale interpretazione dell’Aufklarung, perde il suo carattere di unico principio esplicativo, inserendosi in un rapporto indissociabile con diverse forme di sapere e sempre inserito in un campo di possibilità e quindi di reversibilità, di possibile ribaltamento. Il potere non si esercita mai in via esclusiva in un determinato periodo storico, per determinati obiettivi, ma i suoi dispositivi coercitivi provengono sempre da tecniche più antiche, nate, magari, in contesti e per finalità diverse. “Quando queste tecniche riaffiorano, in corrispondenza di certe svolte locali della storia e, sempre, per un gioco di forze, il fatto di essere riadattate in altri contesti e per altre finalità, produce effetti di verità nuovi, discorsi di potere diversi, crea nuovi soggetti e nuovi oggetti”(Ibidem). Il concetto di evenemenzializzazione risiede, essenzialmente, “nella consapevolezza di qualcosa la cui stabilità, il cui radicamento e fondamento, non sono mai tali da impedire, in qualche misura, se non di immaginarne la scomparsa, almeno di decifrare i fattori che rendono questa scomparsa possibile” (Ibidem). Critica e governamentalizzazione: la Riforma. Finora abbiamo, per lo più, evidenziato come nella conferenza sul concetto di critica, Foucault lo abbia interpretato come un atteggiamento a disposizione del soggetto, del singolo individuo. E’ Foucault stesso a sostenere che “la critica, in sostanza, designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti 123 di potere e il potere nei suoi discorsi di verità” (Ibidem). In realtà, c’è un’altra chiave di lettura che interpreta l’atteggiamento critico in riferimento, non al soggetto storico, al singolo individuo, ma a eventi capitali della storia dell’occidente. In particolare, l’attenzione di Foucault è incentrata sul fenomeno della Riforma, essendo la critica storicamente biblica. Come per il fenomeno dell’Aufklarung, anche in questo contesto Foucault parte dall’articolo kantiano del 1784, in cui, riferendosi alla minorità, come incapacità dell’umanità di servirsi del proprio intelletto senza la direzione di un altro, Kant adotta il termine leiten, che “ha un senso religioso, storicamente definito” (Ibidem). E’ dunque chiaro come la governamentalizzazione si strutturi, nel pensiero di Foucault, in modo peculiare, sulla direzione di coscienza esercitata dalla Pastorale Cristiana per molti secoli. Ma come giunge l’autore di Sorvegliare e Punire a vedere nel governo delle anime la manifestazione più oppressiva di potere esercitato sugli uomini, tanto da far emergere la critica, intesa, ora, nel senso di fenomeno storico, culturale e sociale? In realtà, già nell’evoluzione dei meccanismi di potere e di controllo, nel passaggio dallo splendore dei supplizi al panoptismo, si possono rintracciare le radici di questo pensiero foucaultiano. Il momento del passaggio da punizioni corporee, che dovevano essere tanto più cruente, quanto più dovevano esaltare la potenza del re, del sovrano, a un potere esercitato silenziosamente e quotidianamente, non più per martoriare, distruggere il corpo, ma per sfruttarne le risorse fino in fondo, avviene in nome dell’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle potenzialità del corpo. Il sapere, come abbiamo accennato precedentemente, nasce, secondo Foucault, dal potere esercitato sul corpo, perché il corpo racchiude una straordinaria capacità di resistenza, che stimola il potere alla formazione di nuove relazioni da esperire, nuove metodologie, ovvero, nuovo sapere. Guidato dal metodo genealogico, Foucault rintraccia le modalità di funzionamento del panoptismo (trasparenza, visibilità totale, attenzione ad ogni minimo particolare negli atteggiamenti degli individui) nelle pratiche di confessione della Pastorale cristiana. L’attività pastorale della Chiesa cristiana era basata sull’idea, completamente estranea alla cultura antica, che ogni individuo, per tutta la sua vita, deve essere governato e lasciarsi governare verso la salvezza da qualcuno al quale sia legato da un rapporto globale e, al tempo stesso, particolareggiato, articolato, di obbedienza. Il problema è sorto quando questa attività di direzione della coscienza si è laicizzata, uscendo fuori dai conventi, dai ristretti gruppi spirituali, 124 espandendosi nell’ambito della società civile fin da prima della Riforma. E’ chiaro, afferma Foucault, che la critica, “in un’epoca in cui il governo degli uomini era essenzialmente un’arte spirituale, una pratica derivata dall’autorità di una Chiesa” (Ibidem), si sia manifestata in un movimento che cercasse con la Scrittura un rapporto diverso da quello legato al funzionamento della dottrina di Dio. Se “oggi il termine riforma indica la modifica di una situazione esistente con qualcosa di nuovo e di diverso, nel linguaggio del XVI secolo, riformare voleva dire rimuovere ciò che si era aggiunto nei secoli e riportare le cose a come Dio le aveva concepite” (M.Rubboli, I protestanti, Il Mulino, Bologna, 2007). Anche per quanto riguarda il movimento della Riforma, dunque, non si tratta di un atteggiamento critico che intenda affermare il diritto a non essere governati in assoluto, ma quello di non essere governati a determinate condizioni, di essere liberi di poter mutare il proprio rapporto con questo potere, questa verità. In fondo “governare significa strutturare il campo di azione possibile degli altri” e non implica riferimenti a origini naturali, normali; anche “il governare appare come evento della storia, che va riportato in superficie per mostrare il limite della sua comparsa e ipotizzare la possibilità del suo mutamento” (M. Foucault, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma, 1997). Il messaggio di Foucault. Nonostante questa seconda possibile lettura interpretativa della conferenza di Foucault sul concetto di critica, riteniamo che il fatto della scelta della Riforma, come movimento storico di critica, riconduca al rapporto della critica direttamente con il soggetto, con il singolo individuo. Proprio ponendo il governo come arte pratica, come événement, come semplice strumento per penetrare nella storia, Foucault sottolinea il carattere occasionale anche dei movimenti, come la Riforma, che si oppongono ad un governo in un determinato periodo; come per lanciare un messaggio all’individuo, mostrandogli che, in fin dei conti, è lui stesso ad avere il potere di sottrarsi al governo (a maggior ragione della sua anima) come meglio crede, secondo le sue esigenze, i suoi desideri, le sue aspirazioni. “Si comprende come il gioco reciproco della governamentalizzazione e della critica abbia prodotto fenomeni capitali nella storia della cultura occidentale. Ma il nucleo originario della critica rinvia a quel fascio di rapporti in cui si intessono i problemi del potere, della verità e del soggetto” (Ibidem). Come Kant, nel suo articolo Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo, aveva incitato al Sapere aude i suoi contemporanei, così 125 Foucault rassicura l’uomo del XX secolo sugli spiragli di libertà che l’atteggiamento critico, come una vera e propria virtù, ancora garantisce, intatti. Antonio Coratti Il dott. Antonio Coratti è laureato in Filosofia e Scienze della Comunicazione. BIBLIOGRAFIA Archivio Foucault 2 (1971-1977); Feltrinelli, Milano 1997 Archivio Foucault 3 (1978-1985); Feltrinelli, Milano 1997 Binswanger L.(1954): Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993 Dreyfus-Rabinow: La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie Edizioni, Firenze 1989 Foucault M. (1961): Storia della follia nell’età classica, Rizzoli Editore, Milano 1994 Foucault M.(1966): Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1996 Foucault M.(1975): Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1995 Foucault M.(1976): La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1996 Foucault M.(1978): Illuminismo e critica,Donzelli Editore, Roma 1997 Kant I.(1784): Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, in Bobbio-Firpo-Mathieu (a cura di): Scritti di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1965 Rubboli M.: I protestanti, Il Mulino, Bologna 2007 126 La Prima Guerra mondiale Risvolti storici e culturali di un’immane tragedia – Crisi di un’idea di civiltà – La non ineluttabilità della violenza. di Giuseppe Moscati § 1) Ricognizione storica di un panorama complesso Indagare da vicino, e il più possibile nello specifico, il tema della dialettica guerra/pace all’interno di un periodo storico vasto e complesso quale è quello interessato dagli eventi della Prima Guerra mondiale (1914-18), se da una parte comporta un lavoro di ricognizione storiografica non indifferente, dall’altra offre peraltro la preziosa opportunità di individuare alcuni fondamentali e significativi ‘intrecci’ interdisciplinari. Va precisato innanzitutto che il conflitto della cosiddetta Grande Guerra, coinvolgendo la maggior parte degli Stati europei e diversi altri Stati mondiali, sviluppatosi soprattutto come lunga e logorante serie di azioni belliche di trincea, è caratterizzato da un senso tragico della guerra, dalla drammaticità senza precedenti. Una guerra totale, complice anche l’impiego di armamenti radicalmente innovativi e dall’eccezionale capacità distruttiva che avrebbero portato ad un numero elevatissimo di morti (si parla di circa nove milioni di vittime). L’evoluzione della tecnica bellica è, in questo periodo, indubbiamente impressionante. Nell’anno 1915, mentre in Germania H. Junkers dà vita al primo aereo costruito interamente in metallo, in Inghilterra ne viene realizzato uno in grado di lanciare siluri. Vengono inoltre fabbricati, in Francia e nella stessa Inghilterra, i primi carri armati; da lì a poco i tedeschi avrebbero inaugurato l’impiego dei gas tossici a scopi militari (sul fronte occidentale) e usato i primi lanciafiamme (a Verdun). Al tempo stesso, però, è sicuramente utile ricordare come il secolo XX si fosse presentato, almeno nei suoi anni iniziali, come un secolo di relativa e diffusa pace o quantomeno pressoché totale assenza di conflitti. A scuotere tragicamente le coscienze sarebbe tuttavia giunta una sensazione di terrore generalizzato, non tanto allo scoppio vero e proprio della guerra nel mese di agosto del 1914, bensì più precisamente nel momento in cui si cominciò a diffondere la consapevolezza della frenetica mobilitazione degli apparati militari, quindi dell’enorme dispiegamento di forze in campo e delle sterminate dimensioni raggiunte dal conflitto stesso. 127 Parallelamente a tutto ciò, non va neanche dimenticato quel sottile e articolato lavorio retorico cui i rispettivi reggenti ricorsero per addossare le responsabilità del conflitto in atto a questa o quella nazione nemica. Il tutto, inoltre, avveniva in un panorama di sostanziale co-implicazione di interessi di vario genere: interessi economici – industriali, commerciali (per materie prime e per manufatti), finanziari e legati all’investimento di capitali esteri – , interessi politici, interessi di supremazia militare e/o di prestigio politico. Numerose sono le questioni sollevate dalla guerra, se pensiamo a come da più parti e con differenti accenti sia stata portata avanti la campagna interventista; a come non siano mancati, d’altra parte, i tentativi politici e diplomatici di opposizione all’intervento stesso in guerra, da parte di diversi Paesi; a come, ancora, ci fosse in gioco tutta una congerie di giustificazioni ed autogiustificazioni. Queste ultime, poi, erano di volta in volta tese a difendere la causa di una sovranità politica, quella dello sfruttamento di una determinata porzione di mercato internazionale o quell’altra di una spartizione territoriale studiata ‘a tavolino’ dai potenti di turno. Il tutto, però, a fronte di un vero e proprio, terribile massacro di popoli ‘sul campo’. Incontriamo dunque vari elementi che danno corpo alla politica bellica intrapresa in vario modo dai Paesi dell’Europa e non solo dell’Europa, una volta accantonata l’idea che fosse ancora possibile praticare strategie fedeli alla vecchia logica dell’equilibrio europeo. La propaganda militare adottata dalle diverse nazioni, del resto, passava da una certa tendenza ad attenuare gli effetti della guerra sulle rispettive popolazioni, alla volontà di potenza da esercitare contro l’avversario. Essa concentrava la sua attenzione, infatti, ora verso la retorica di incoraggiamento all’inasprimento bellicistico – finalizzato a contrastare l’imperialismo di una potenza ostile, a vincere l’isolamento o, più esplicitamente, a conquistare nuove terre (Germania) –, ora verso la costruzione dell’immagine di un preteso diritto trionfante contro il nemico sfruttatore. Altrove, poi, la propaganda inclinava anche verso l’enfatizzazione ideologica di quella che si voleva spacciare per “guerra di liberazione” o addirittura per “guerra di parificazione dei popoli” (Intesa). Oppure, in diversi casi, essa spingeva verso la giustificazione di episodi di inaudita crudeltà, di terribili nefandezze nonché della violazione non solo della neutralità di qualche nazione che fino ad allora si era tenuta fuori dal conflitto, ma anche dei più elementari diritti umani di tanti e tanti individui, militari e civili che fossero. Muovendo dalla consapevolezza di questa intricata situazione di corresponsabilità delle varie potenze, possiamo affermare che non a caso il dibattito storiografico più avanzato è passato attraverso tutta una serie di riletture degli eventi storici, delle cause o meglio delle concause nonché delle stesse figure dei principali protagonisti politici e militari della Grande 128 Guerra. Lo ha fatto finendo, quindi, con il conquistare una notevole maturità di riflessione critica. La quale, a volte, è risultata anche assai distante da quelle conclusioni che erano state tratte in anni ancora troppo vicini al dopoguerra per permettere di elaborare un’adeguata interpretazione di ciò che ha rappresentato quel conflitto. Tale dibattito, del resto, non ha prodotto a sua volta un’interpretazione univoca dei fatti e delle loro ricadute in senso lato, e non è questa la sede giusta per tentare una sorta di presentazione delle diverse posizioni storiografiche. È pur vero, tuttavia, che forse proprio questo rappresenta il senso più intimo e vivo di quello che può intendersi per dibattito storiografico. Venendo a quello che è stato l’inizio dello scontro armato, si è costretti dunque a citare un’intensa concatenazione di cause. C’era il desiderio di raggiungere posizioni di egemonia mondiale e di dominare vaste aree di influenza di tipo economico-politico; c’era una forte collisione tra gli interessi propri dei gruppi forti del capitalismo tedesco – la cui azione di controllo era rimasta fino ad allora limitata alla sola parte sud-orientale dell’Europa – e quelli propri dei centri di potere del ben più ricco capitalismo di matrice franco-britannica. Ma c’erano anche le aspirazioni ad un rapido sviluppo economico e le ambizioni imperialistiche di altre potenze europee. Interagivano, poi, nervosi antagonismi variamente ispirati alla sete di espansione del potere colonialistico (anche e specialmente per l’Italia), alla politica dell’autoritarismo, alle retoriche patriottiche o all’esasperazione dei miti del militarismo e del nazionalismo. Non mancavano, del resto, altre questioni da tempo rimaste aperte, come quella dell’antica contrapposizione tra Austria e Russia nell’area balcanica, area che sarebbe stata poi interessata da due guerre nel biennio 1912-13 e nella quale giocava un ruolo di primo piano la cosiddetta Grande Serbia. Altre annose questioni erano poi, più in generale, quella dei riemergenti conati tanto irredentistici che sciovinistici e quella, ancora, della disgregazione già avviata dello sterminato impero ottomano. C’è ancora da considerare come quello della Germania di fine Ottocentoprimi del Novecento sia stato uno sviluppo davvero straordinario, sia da un punto di vista più squisitamente economico (soprattutto quanto alla produzione di metalli e ai progressi del settore chimico dell’industria) che da un punto di vista più strettamente tecnologico. Ciò, se da una parte era alla radice della volontà tedesca di raggiungere mercati da decenni controllati da Francia e Gran Bretagna, dall’altra costituiva il principale motivo di preoccupazione da parte proprio di queste due potenze, per questo sempre più tra loro vicine in chiave antitedesca. Non è secondario, allora, l’elemento del progresso della Germania nel campo della metallurgia proprio in quanto lo ritroviamo alla base del progetto di 129 costituzione di una potente flotta che fosse finalmente all’altezza di quella inglese. A ulteriore complicazione del quadro, c’è anche da dire che in questi anni, per molti Stati come spesso purtroppo è avvenuto nella storia in coincidenza con eventi bellici, la scelta della guerra ha tuttavia, significativamente, anche un sinonimo particolare: quello di diversivo per l’opinione pubblica rispetto ad altri gravi problemi irrisolti di politica interna e di controllo sociale. In diversi casi, inoltre, non possiamo dimenticare la connivenza di istituzioni religiose ed ecclesiastiche con la politica imperialistica portata avanti dalle potenze coinvolte nel conflitto. Tutte queste contraddizioni che la Grande Guerra, come ogni guerra, si portava con sé le possiamo forse ben sintetizzare grazie a una singolare e paradossale espressione, coniata appositamente per definire uno degli atteggiamenti di fondo propri della Prima Guerra mondiale: quella di “pacifismo guerrafondaio”. § 2) Elementi culturali e intrecci interdisciplinari della dialettica guerra/pace Abbiamo potuto vedere, attraverso una ricognizione dei vari fattori in gioco – economici, sociali, politici, militari e così via – che quello riferibile alla Prima Guerra mondiale è un quadro storico assai complesso e ricco di rimandi di vario genere. Per limitarsi alla sola questione delle (con)cause scatenanti il conflitto mondiale e che si è tentato qui di richiamare in forma sintetica, possiamo del resto affermare con convinzione che ricondurre il tutto univocamente all’episodio dell’assassinio a Sarajevo, da parte di uno studente irredentista di origine serba, dell’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando (il 28 giugno del 1914) altro non sarebbe che una pericolosa semplificazione storiografica (come del resto è stato più volte autorevolmente affermato). Ma siamo al contempo anche giunti ad una prima considerevole conclusione: ha un suo notevole interesse, per la presente indagine, il problema della percezione della guerra da parte delle popolazioni che si sono ritrovate al centro delle ostilità militari. Si è già detto di come la coscienza dell’Europa sia stata sconvolta dalla repentina presa di consapevolezza di quale e quanto imponente fosse il dispiegamento delle forze contrapposte. È il caso ora di aggiungere come ad una iniziale convinzione diffusa di trovarsi all’interno di un conflitto di sostanzialmente breve durata abbia fatto ben presto seguito una più drammatica cognizione dei tempi effettivamente molto prolungati della guerra. Se di quest’ultima è necessario studiare le 130 cause, o come abbiamo ripetuto più volte le concause, e approfondire il multiforme spettro delle conseguenze, crediamo allo stesso tempo anche opportuno non sottovalutare questo ordine di considerazioni legate alla percezione del conflitto mondiale da parte degli uomini e delle donne testimoni della Grande Guerra. A tale scopo non può che risultare particolarmente fecondo prendere in esame proprio quegli intrecci interdisciplinari di cui dicevamo all’inizio, nella convinzione – da non confondere con posizioni di tipo storicistico – che non esista soluzione di continuità tra quello che è l’insieme degli accadimenti propriamente storici e quello che possiamo intendere per ‘spirito culturale’ dell’uomo di una determinata epoca. Tante e diversificate potrebbero essere le piste possibili da seguire per tentare di cogliere lo spirito culturale appartenente all’uomo del tragico momento storico della Prima Guerra mondiale. Si potrebbe pertanto qui fare riferimento a svariati autori della letteratura e della filosofia, della storia dell’arte e delle scienze. Potrebbero risultare particolarmente indicative in questo senso le pagine di un Georges Sorel che nel 1908, quindi sei anni prima dello scoppio della guerra, scrive le sue sofferte Riflessioni sulla violenza; o quelle di un autore come Oswald Spengler che, con il noto saggio del 1918 intitolato Il tramonto dell’Occidente, comunica il senso di crisi di tutto un mondo culturale, oltre che politico, religioso ed economico, ovvero argomenta di un vero e proprio decadimento della forma mentis, dell’identità e del pensiero tipici dell’universo occidentale. Ma, anche in chiave di visione speculare, sarebbe sicuramente interessante approfondire, da una parte, l’opera e la figura di un Gabriele D’Annunzio – che sappiamo essere non solo il poeta esteta della straordinaria Pioggia nel pineto, bensì anche il prim’attore della quantomeno controversa questione della conquista di Fiume (1919-24), a sua volta collegata con il risentimento di tanti italiani per la cosiddetta vittoria mutilata – e, dall’altra parte, l’elaborazione teorica e l’azione concreta che traspaiono dalle Tesi di aprile e da Stato e rivoluzione di Lenin, scritti pubblicati entrambi nel 1917. Prestando attenzione invece a quelli che sono i risvolti più propriamente economici di un mondo in grande subbuglio come quello lacerato dalla Grande Guerra, viene immediato il riferimento agli studi di John Maynard Keynes, tra l’altro autore nel ’19 di un saggio, dedicato a Le conseguenze economiche della pace, che sarebbe poi stato a lungo al centro di un dibattito vivace e di largo respiro. E come non dare il giusto peso a un episodio cruciale, e per la cultura e per la politica internazionale, come quello dell’arresto e della condanna, nel ’18, del filosofo gallese Bertrand Russell in quanto pacifista e obiettore di coscienza? E poi, per richiamare un altro autore indubbiamente decisivo per 131 la promozione di una cultura della tolleranza o meglio ancora di un maturo pluralismo democratico, ricordiamo che è nel bel mezzo della guerra mondiale, precisamente nel 1916, che il filosofo e pedagogista americano John Dewey dà vita a quel capolavoro di Democrazia ed educazione che tanta eredità avrebbe lasciato in consegna al panorama del pensiero contemporaneo. Potremmo continuare all’infinito, se per esempio volessimo raccogliere i segni e i simboli più o meno nascosti tra le righe kafkiane de La metamorfosi (1916) o del Nella colonia penale (’19), racconti che molto ci trasmettono, attraverso una narrazione eccezionale sia per livello letterario che per coinvolgimento esistenziale, del senso di tragicità di cui dicevamo sopra. Proviamo dunque ad esaminare alcune coordinate di fondo del nostro tema – coordinate nelle quali si intrecciano appunto risvolti storici e risvolti culturali – seguendo una linea di ricerca che parte dalla scienza psicoanalitica freudiana, passa attraverso alcuni spunti della letteratura italiana (Pirandello) e della poetica inglese (War Poets) per poi cogliere le più vivaci suggestioni provenienti dal movimento Dada. § 3) La ricerca psicoanalitica di Freud e lo scontro tra eros e thanatos Volendo per esempio analizzare la corrispondenza tra, da un lato, la percezione della guerra da parte dei singoli individui, dei gruppi sociali o di interi popoli e, dall’altro, quelle che sono state le espressioni più tipiche del mondo culturale degli anni Dieci e Venti del ’900, un autore illuminante è senza dubbio Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, grande studioso dei disagi psichici individuali e collettivi e delle pulsioni che risiedono a monte dell’aggressività umana. Un autore brillante, Freud, proprio in quanto con la sua opera ci introduce efficacemente nel vivo di quella che abbiamo chiamato dialettica di guerra e pace: la sua teoria psicoanalitica si concentra infatti non solo sul concetto di pulsione, che potrebbe nel nostro caso apparire in parte generico, ma anche su quello più specifico di “conflitto pulsionale”. Secondo lo scienziato tedesco, l’apparato psichico dell’uomo presenta una coesistenza di pulsioni dell’Io (dette anche pulsioni di auto-conservazione) e pulsioni di natura sessuale; ad una lettura più profonda, poi, Freud ritiene di individuare una distinzione possibile tra quelle che sono le pulsioni di vita, che egli riassume sotto il termine di eros, e quelle che invece all’opposto sono le pulsioni di morte, ovvero le pulsioni di thanatos. È abbastanza evidente come in Freud sussista una convinzione fondamentalmente dualistica, riconducibile in larga parte all’idea di quella 132 psicoanalitica come di una teoria dinamica e non meramente descrittiva della psiche: quest’ultima è teatro di un perenne conflitto di forze opposte, la forza di eros e la forza di thanatos appunto, e luogo in cui si perpetua incessantemente la (auto)conservazione delle pulsioni stesse. Torna particolarmente utile all’analisi del nostro tema una delle maggiori opere freudiane, il saggio intitolato Al di là del principio del piacere, scritto nel 1919 e pubblicato l’anno dopo e quindi di poco posteriore alla fine del conflitto della I Guerra mondiale. Va ricordato intanto che Freud era già stato autore, nel 1917, di una fondamentale Introduzione alla psicoanalisi; e va segnalato anche che nel saggio del ’19 egli affronta questioni che avrebbe poi ampiamente ripreso nel ’23 con lo studio de L’Io e l’Es (non a caso un’altra contrapposizione di forze). In Al di là del principio del piacere, comunque, egli sembra avvertire ancora l’eco degli scontri bellici che avevano visto la sua Germania tra le potenze più massicciamente implicate nella guerra. In buona sostanza, questo importante saggio possiamo dire rappresenti una sorta di tragica conclusione di quelle premesse sui temi della guerra, della morte e dell’aggressività umana che Freud stesso aveva argomentato nelle pagine precedentemente dedicate alla categoria psicoanalitica di “narcisismo primario”. Quest’ultimo, in estrema sintesi, finisce per coincidere con un investimento libidico – quindi ancora una volta pulsionale – dell’Io su se stesso, prima ancora che sugli oggetti a lui esterni. Indagando proprio in un terreno che si pone al di là del principio di piacere, nel senso oppositivo dell’espressione, Freud sostiene che esistono nell’apparato psichico umano degli istinti di morte opposti a quelli propriamente libidici. Egli postula questo principio della pulsione di morte, che può dirigersi contro se stessi (istinto di auto-aggressione) e contro gli altri (istinto aggressivo verso l’esterno), come un principio che tende a ristabilire una certa condizione primitiva rispetto a quella simboleggiata dal piacere e caratterizzata dal processo di totale liberazione (scarico) dell’energia pulsionale accumulata. § 4) La disgregazione del principio di verità nella visione del mondo pirandelliana Prendiamo adesso in considerazione l’opera letteraria di Luigi Pirandello, altro autore che si trova a scrivere diverse pagine che sicuramente risentono del clima di orrore prodotto dalla guerra e del senso tragico vissuto dall’uomo della seconda metà degli anni Dieci. Pirandello, che non è peraltro insensibile alle suggestioni offerte dagli studi psicoanalitici di quegli anni, contribuisce in larga misura ad offrire interessanti spunti di 133 riflessione per la tematica che ci siamo proposti di affrontare. Va innanzitutto sottolineato il fatto che un testo dalla notevole base filosofica quale è quello della commedia di Così è (se vi pare), rappresentata nel bel mezzo della Prima Guerra mondiale (1917), si pone come interrogativo fondamentale sulle sorti dell’umanità. E proprio verso il destino dell’uomo l’autore pare manifestare una profonda pietà, visto che gli uomini sono presentati come esseri prigionieri di una pena perenne, vale a dire come soggetti cui sfugge continuamente la possibilità di conoscere la verità (si parla di relativismo pirandelliano) e perciò condannati a una vita che al suo fondo mantiene sempre una fatale malinconia. Non solo: in maniera coerente e consequenziale con tutto ciò, nell’universo pirandelliano è abbastanza evidente che gli uomini sono anche vincolati ad un destino di radicale solitudine, che vanno il più delle volte incontro a situazioni di ostilità e che comunque rimangono distanziati gli uni con gli altri a causa di una insuperabile, disperata incomunicabilità. Risulta dunque importante notare come Così è (se vi pare) [d’altra parte una delle commedie più significative dell’intera sua produzione] costituisca per Pirandello l’occasione di ragionare su uno dei temi centrali per l’opera dell’autore siciliano: l’identità. Quell’identità che, da vecchia solida certezza ridotta a prepotente senso della precarietà esistenziale, era stata messa in crisi proprio dai terrificanti eventi bellici del conflitto mondiale. Ora Pirandello non fa che trarre, magistralmente dal punto di vista letterario, le conclusioni di quella crisi identitaria: l’uomo contemporaneo è franto nell’intimo della sua personalità, non possiede ormai più le forti convinzioni di un tempo ed è quindi esposto, in tutta la sua più profondamente umana vulnerabilità, al male del mondo. Tale male, tra l’altro, ha origine nell’uomo stesso, uomo che per giunta è per lo più confuso dalle diverse forme in cui gli va apparendo la verità: chi potrà mai sciogliere il dubbio sulla vera identità della donna di cui si parla nel testo pirandelliano in questione? È effettivamente la seconda moglie del signor Ponza, come costui afferma, o è invece la figlia della signora Frola, come ribatte energicamente quest’ultima? L’apparenza, insomma, la fa da protagonista, stabilendo che la verità è appunto (solo) quella che appare, ambiguamente all’uno o all’altro individuo, e confermando così una condizione umana di sostanziale enigmaticità del vivere. Il lettore/spettatore, dunque, non troverà una soluzione definitiva alla questione sollevata da Così è (se vi pare) e alla fine perverrà a una scomoda scoperta. Egli arriverà infatti a intuire, con un grande senso di inquietudine e ormai sull’orlo del panico, una natura di sostanziale indefinibilità e indecifrabilità di quella verità che a lungo aveva cercato di possedere. Egli 134 dovrà anzi non solo rassegnarsi alla realtà effettiva di questo scontro di tesi contrastanti, concludendone che la situazione principe finisce con l’essere quella di una conflittualità irrisolta di fondo, ma anche giungere all’amara considerazione del fatto che non sempre può esistere un lieto fine. § 5) Il senso tragico della guerra nei versi dei War Poets Spostando ora la nostra attenzione verso il primo Novecento inglese, sempre guardando alla drammaticità della guerra per come essa è stata in qualche modo rielaborata dall’arte e dalla cultura, nel campo della poesia troviamo diversi aspetti particolarmente interessanti. È intanto sufficiente anche solo una rapida lettura di alcuni di quei componimenti poetici che possiamo annoverare nella produzione dei cosiddetti War Poets per cogliere il senso di angoscia che dominava quegli anni così devastati e martoriati dagli orrori della Grande Guerra. I versi volutamente imperfetti di un Wilfred Owen, di un Rupert Brooke, di un Siegfried Sassoon o di un Isaac Rosenberg, anzi, sembravano nascere proprio con una forte, tenace volontà di aggrapparsi a quegli orrori per pronunciare, in maniera il più possibile aderente alla realtà, una loro coraggiosa denuncia. Ma per dire quel terrore e quelle brutture era necessario rinvenire un nuovo linguaggio e quindi anche una comunicabilità poetica radicalmente diversa da quella appartenente alla tradizione letteraria fino ad allora in auge. Quanto alla questione più specificatamente tecnico-linguistica, va allora aperta una parentesi per ricordare come in questi stessi anni sia stato veramente decisivo l’apporto del movimento anglo-americano dell’imagismo. Questo vivace movimento avrebbe avuto tra i suoi esponenti di area britannica scrittori come Richard Aldington, autore di Immagini e di Immagini di guerra (rispettivamente del 1915 e del ’19), Madox Ford, che scrisse nel ’15 il romanzo intitolato Il buon soldato, e lo stesso James Joyce (il cui celebre Gente di Dublino è anch’esso del ’15), che avrebbe poi ripreso anche alcuni spunti di tecnica letteraria da Ford. Il movimento imagista – che avrà nel poeta e critico americano Ezra Pound il suo più energico promotore – si presentava in buona sostanza quale proposta, in chiave antiromantica, di un’arte poetica dell’immagine dura (hard dry image), nitida, fortemente realistica e senza infingimenti né concessione alcuna alla retorica. Un’immagine che deve rendere la condizione penosa in cui verte l’uomo schiacciato da un’età di bellicismo, d’altra parte, non può che ricorrere a parole d’acciaio, a espressioni taglienti e in generale a forme espressive estremamente dure. 135 Tornando ai War Poets e all’arte della loro war poetry, va ribadito che si trattava appunto di poeti che prendevano in prima persona parte alle azioni militari e poi riversavano abilmente la cruda realtà del vissuto di guerra nella poesia. Sassoon, per esempio, trae ispirazione per le sue prime raccolte poetiche proprio dall’esperienza vissuta nell’agone del campo di battaglia, sia in terra francese che in Palestina. Ne nasce una poetica della pietà, dell’amarezza e insieme del disgusto, dove i soggetti principali diventano le vittime di una forza assurda e maligna che non guarda in faccia nessuno perché protesa esclusivamente verso una cieca distruzione di massa. Una poetica, tuttavia, che conosce anche alte vette di lirismo. Uguale discorso può farsi per i sonetti, peraltro venati di un peculiare idealismo, di Rupert Brooke, poeta-soldato morto ventottenne in Grecia (stessa sorte di Rosenberg, caduto sul fronte francese alla stessa età) e di cui vennero pubblicati postumi nel ’15 i versi di 1914 and Other Poems. Allo stesso modo anche il più popolare dei poeti di guerra, Wilfred Owen, che da bambino con la sua famiglia aveva conosciuto pure la miseria, dopo l’esperienza bellica sente di dover affidare ai suoi versi la triste verità dello sterminio. La guerra, nei componimenti di questo struggente poeta inglese in buona parte debitore a Sassoon (che conosce in un ospedale di guerra), è vista soprattutto come portatrice di un trauma indelebile. Lo stesso trauma che Owen sperimenta concretamente sulla propria pelle a partire dal 1917, cioè dopo aver riportato un forte shock da esplosione di una granata. Lo stesso trauma che il poeta tenta di comunicare con parole che riescano a rievocare, vividamente, la morte per avvelenamento da gas di migliaia di giovani soldati. E così pure parole che, altrettanto efficacemente, sappiano far riascoltare l’assordante fragore e gli odori nauseabondi dello scontro armato. C’è questo senso di asprezza del vivere un’esperienza da testimoni di guerra, insomma, alla base del verseggiare tipico di poesie quali Strange Meeting, Anthem For Doomed Touth, It Was A Navy Boy, The Parable Of The Old Man And The Young, o della più nota Dulce Et Decorum Est, poesia, quest’ultima, che riprende una celebre frase oraziana (delle Odi) sulla morte in guerra per capovolgerne significativamente e totalmente il senso. E forse ci appare ancora più tragica la morte di Owen, se teniamo conto del fatto che avvenne il 4 novembre del 1918, ovvero a una sola settimana dalla fine delle ostilità dichiarata dall’armistizio. «Ogni orgoglioso combattente si vanta / di far guerra alla morte per delle vite; non agli uomini per delle bandiere», recita tristemente la sua The Next War. 136 § 6) La rivoluzione dadaista e il sogno di una realtà alternativa alla guerra Un altro elemento culturale di notevole interesse, oltre che di ampio respiro internazionale, che può aiutarci a meglio definire la nostra ricerca nell’ambito del periodo storico della Grande Guerra, è senz’altro rappresentato dalla rivoluzione artistica promossa e sviluppata dagli esponenti del movimento dadaista. Nato a Zurigo, tale movimento ha avuto il suo primo e fondante manifesto il 14 luglio del 1916, recitato da Hugo Ball nei locali del Cabaret Voltaire (da qui l’omonima rivista Dada), e si è andato sviluppando poi con notevoli rapidità e diffusione sino al ’22, anche se molta della sua eredità artisticoconcettuale la ritroviamo ben oltre tale data. Molti degli esponenti del dadaismo, peraltro, li scopriamo protagonisti anche di altri movimenti contemporanei o successivi al Dada, veri e propri artisti trasversali: il geniale alsaziano Jean Arp, per esempio, è tra i fondatori del dadaismo eppure aderirà sia al surrealismo che al movimento denominato Abstraction-Création, mentre il brillante dadaista tedesco Kurt Schwitters – d’altronde convinto assertore della necessità di un’ibridazione delle arti – passa significativamente anche attraverso esperienze espressioniste, cubiste, costruttiviste... È il caso di ricordare, a proposito della nascita del movimento a Zurigo, come allo scoppio del conflitto mondiale la Svizzera avesse dichiarato la propria neutralità; e va anche aggiunto, però, che tale movimento si è saputo radicare in diversi Paesi come per esempio in America, in Francia e nella stessa Germania. Oltre a New York, Parigi e Colonia, soprattutto Berlino, la Berlino in ginocchio, la Berlino sciaguratamente disastrata dagli eventi bellici, si è distinta come città dadaista. Essa è infatti stata sede, tra l’altro, sia delle riviste tedesche “Der Dada” e “Neue Jugend”, sia del ritrovo degli artisti Dada-Club, la cui peculiarità era una netta politicizzazione in chiave filosovietica (ecco, anche, gli effetti economici della guerra), e sia ancora della prima Mostra internazionale del dadaismo (1920). È significativo che tale movimento, lungi peraltro dall’abbracciare un pensiero sistematico, si ponga già nei suoi esordi artistico-programmatici come una sorta di potente esigenza culturale di pace o comunque di superamento dello stato di conflitto che tanta barbarie aveva generato nelle zone interessate dalla Grande Guerra. Quanto al nome, per la verità, sarebbe più appropriato riferirsi al movimento Dada, piuttosto che al dadaismo, considerando il fatto del resto non secondario che i suoi esponenti avevano assunto, come un loro vero e proprio imperativo morale, la battaglia contro i vari -ismi (ideologici, artistici, letterari), ormai di moda nella cultura ufficiale a loro 137 contemporanea. Il motivo della scelta della parola Dada, peraltro, non si è mai del tutto chiarito: si è infatti pensato al raddoppio del “da” (“sì”) della lingua russa o a un termine scelto a caso oppure ancora, forse più verosimilmente, ad un puro suono del tutto privo di senso. Sta di fatto che quello del Dada si caratterizza in primo luogo come un movimento artistico-culturale a diffusione internazionale e dalla forte carica anticonformista. Un movimento di idee e di prodotti – dalla poesia al teatro e alla pubblicistica, dalle arti visive alla grafica, alla musica e al cinema – potentemente ribelle rispetto alle convenzioni, agli stessi cliché artistici e ai canoni tradizionalistici dell’estetica, nonché, e questo ci interessa da vicino, energicamente antibellico. Gli esponenti che hanno animato questo movimento, anzi, hanno mossi i loro propri passi da una ferma e compatta presa di posizione contro gli orrori e le mostruosità della Grande Guerra. Arrivando, così, a denunciare ciò che secondo loro costituiva il reale fondamento della logica del bellicismo, vale a dire l’assetto politico-sociale ed economico, ma in un certo senso anche ‘culturale’, dell’ordine instaurato dalla borghesia. Tale denuncia si traduce tanto in un’effettiva e multiforme produzione artistica che in un’articolata, densa e ricca di sviluppi, elaborazione teorica. La rivolta morale e lo spirito ideale insisti nell’una e nell’altra venivano quindi alimentati dalla sincera convinzione che a generare i massacri della Prima Guerra mondiale era stata direttamente tutta una cultura in stato di decomposizione. Abbiamo ragione di ritenere che gli esponenti del Dada ben poco avrebbero poi ritrovato, della loro comune aspirazione al superamento di tutte le guerre, in quei trattati di pace con i quali si è di fatto concluso quel logorante conflitto mondiale (Versailles, Saint Germain-enLaye, Neuilly, Trianon, Sèvres…). La guerra, agli occhi di quella generazione di artisti e letterati così ribelle e indomita, rappresentava il nemico numero uno da combattere senza indugi, ma già a partire dalla sua base teorica, dalla sua giustificazione pseudoculturale. Pur senza arrivare a forme di pacifismo utopistico, il Dada si scagliava contro la guerra soprattutto attraverso la sua opposizione al mito della ragione e alle sirene del progresso, al miraggio della coerenza logica e alle false certezze di sfrenate retoriche militariste, dunque contro il dominio del razionalismo e del positivismo di derivazione ottocentesca. Dada, insomma, è soprattutto sinonimo di rivolta ideale e fattuale contro la guerra. Di tutto ciò che attiene al mondo della logica ufficiale i vari Marcel Duchamp, Guillaime Apollinaire, Tristan Tzara, Paul Eluard, Francis Picabia, André Breton, Man Ray, Louis Aragon, Max Ernst e gli altri arrivano così a farsi beffe. Ora con le stilettate irriverenti delle massime satiriche, ora con l’umorismo amaro delle considerazioni sulla guerra ed ora con la finezza ironica di opere d’arte che, se addirittura non irritano, 138 spiazzano decisamente quello che fino ad allora era il senso comune di bellezza. Basti pensare, per questo, al celebre orinatoio duchampiano, intitolato Fontana, del 1917 (dove il quotidiano, mutato il contesto, si fa arte) o all’altrettanto celebre quadro raffigurante la classica Monna Lisa, ma con tanto di baffi e pizzetto (L.H.O.O.Q., 1919). Lo fanno in nome della massima libertà creatrice mai neanche immaginata e del principio fondamentalmente anarcoide che risiede alla radice del loro stesso rifiuto di ‘razionalizzare’ – che equivarrebbe quindi ad accettare – un fenomeno barbarico quale è quello della guerra. Il Dada è allora prima di tutto voce di eversione e spirito di rivolta, è sovvertimento di un ordine che ha prodotto guerra e dolore; non si limita ad essere semplicemente un atto polemico, ma sperimenta forme di ribellione universale. Oltre a ciò, proprio negli anni in cui il movimento va sviluppandosi, se vogliamo tornare a considerare l’aspetto di quella che è stata la percezione della Prima Guerra mondiale, l’evento bellico sembrava veramente interminabile. Esso non faceva che provocare, tanto più in chi si riconosceva negli ideali del Dada, un forte e diffuso senso di nausea, di repulsione nei confronti di una realtà così drammatica che non si poteva e non si voleva considerare come ineluttabile. Non c’erano argini possibili a frenare la forza d’urto del significato straordinariamente rivoluzionario delle pagine contenute in quei vivaci manifesti, in quelle riviste e in quei giornali, in quelle vibranti poesie e in quei sorprendenti testi teatrali, per i quali ricordiamo almeno il primo Brecht, quello del Baal composto ad Augusta nel biennio 1918-19. Non si poteva in alcun modo frenare l’energia prorompente di quelle opere d’arte, frutto il più delle volte di un curioso accostamento di materiali e/o abbinamento di forme, e di quelle esibizioni pubbliche cui i dadaisti erano soliti ricorrere. Non esistevano insomma paletti, in generale, per quell’inedita capacità travolgente dell’espressione artistica del Dada. Tutto crollava dinanzi a quelle manifestazioni ‘urlate’ di arte, fosse essa in versi o su tela, tanto da far pensare all’autodistruzione dell’arte stessa, e d’altra parte non mancarono forme di vero e proprio nichilismo. Tra i bersagli dadaisti, del resto, oltre alle diverse espressioni del modernismo sarebbero finite anche le altre espressioni della cosiddetta arte d’avanguardia, della quale il Dada stesso è la versione più estremista. Quelle espressioni, che pure si presentavano come innovative, tuttavia all’artista Dada sembrano pur sempre velleitarie e, per giunta, in qualche modo funzionali al mantenimento dell’ordine di idee e di valori propri dell’ipocrita società borghese che è invece prioritario ed urgente abolire. In questo senso possiamo parlare anche di una anti-arte in quanto modalità di opposizione radicale alla tradizione e al pensiero tradizionale che hanno 139 permesso il verificarsi della profonda crisi morale di un tempo tragico come quello della Grande Guerra. Non possiamo neanche trascurare, però, il fatto che nelle stesse intenzioni degli esponenti dadaisti risiedeva, comunque, l’idea che il lettore/spettatore/fruitore dei prodotti del loro ingegno fosse direttamente chiamato in causa per distruggere un senso scontato dell’arte e sostituirlo con un’impressione individuale, in ultima istanza strettamente soggettiva. La risultante dell’incontro tra la professione agguerrita e caustica del dissenso, l’abbandono all’irrazionale e al giocoso nonsenso, e il desiderio impellente di denuncia di cui dicevamo, quindi, può essere considerata la più intima essenza del Dada. E quel dissenso, quell’abbandono e quella denuncia venivano messi in pratica spesso con toni volutamente enfatici e attraverso varie forme di pungolo della sopita opinione pubblica. Tutto ciò ha via via trovato forme espressive decisamente originali, ispirate al progetto di distruzione delle convenzioni sociali e delle ideologie politicoculturali dell’epoca. Ne è derivata tutta una serie di influssi esercitati a lungo e in profondità su gran parte dell’arte moderna e specificatamente su altri movimenti coevi o posteriori al Dada, quali tra gli altri il surrealismo, l’espressionismo, il nouveau réalisme, il new dada e la pop-art. Il Dada rimane comunque, al di là di tutto, simbolo di un’arte nuova per una società e un mondo nuovi. Nuovi, ma da conquistarsi innanzitutto attraverso il superamento della condizione tragica e delle indicibili sofferenze causate all’umanità dalla guerra – quella Grande Guerra, guerra storicamente determinata – e, allo stesso tempo, delle radici più profonde della possibilità dell’insorgenza della guerra in ogni tempo e in ogni luogo. A tale progetto erano massimamente vitali il ricorso al paradosso, fino agli estremi limiti della corrosività, e la ricerca di una inedita capacità comunicativa dell’arte, della poetica, della prosa e in generale della cultura. Giuseppe Moscati 140 FOTO T. Negri 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED LA POLEMICA SUI DIALETTI L’italiano, una lingua democratica di Vittorio Messori Il guaio dell’età che avanza – parlo per esperienza – è soprattutto la noia. Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti, degli stessi temi, degli stessi equivoci. E’ naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma per il povero anziano, è pur sempre tedioso. Tra i “tormentoni” ricorrenti, ecco di nuovo, in queste settimane, la questione – rinfocolata periodicamente dalla Lega – del rapporto tra lingua nazionale e dialetti locali. Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movimenti stranieri federalisti o separatisti. In effetti, non vale per l’Italia quanto – osservava Ernest Renan – è vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bretoni, normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi. Il castigliano imposto da Madrid a catalani, baschi, valenciani, galiziani, aragonesi. L’inglese imposto da Londra a gallesi, scozzesi, irlandesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave. Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue, divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti: il tedesco e l’italiano. Entrambe sono, per dire così, “democratiche”. Per comunicare tra loro, le genti germaniche, prive di unità politica, dopo un lento avvicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sassone aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia. Quanto all’Italia, anch’essa frammentata, ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una “nazione”. A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era distinto dagli altri popoli come un “italiano”. Ma già nel Medio Evo, tra le “nazioni” riconosciute in Europa – ad esempio, nelle università e nelle corporazioni di mestiere – c’era quella “italiana”. Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differenze di ogni tipo tra le Alpi e lo Jonio. Ebbene, spesso si dimentica che, se in Italia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, soprattutto, di cultura, di ogni angolo di quello che solo molti secoli dopo sarebbe divenuto uno Stato. In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un’autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l’esercito. Da noi, ancor più che in Germania, l’idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono con l’accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale. Lingua “democratica”, dunque, e al contempo “aristocratica” nel 142 senso che, sino all’unità politica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere. Ci vollero non tanto la scuola obbligatoria quanto prima l’Eiar e poi la Rai, nonché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi. Sta di fatto che – a differenza di un catalano nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese – nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli imposto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura. Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali “padani”, pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Ottocento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Amicis, il saluzzese Pellico, il torinese D’Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini. E che, ancor prima, l’astigiano Alfieri, il subalpino Baretti, i milanesi Verri e Beccaria, molto avevano fatto per radicare la lingua comune. Per tornare all’Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il “federalista” lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provocavano nel nizzardo Garibaldi coloro che mettevano in discussione l’unità dell’idioma. Morì accanto a lui, all’assedio di Roma, il genovese Mameli, che aveva cantato l’unione di “Fratelli d’Italia” in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti “padani” o, almeno, “nordisti”; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro. “E’ la storia, bellezza!”, verrebbe da celiare con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche prepotente forestiero. E’ colpa, o merito, della storia se non si dice un chimerico “padano”, ma neanche un “lombardo” (si capiscono, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue. Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio padre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poeti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi. Vittorio Messori L’articolo sopra riprodotto è stato pubblicato il 19 agosto 2009 da Il Corriere della Sera. Ringraziamo la direzione del giornale e l’autore per la gentile concessione alla riproduzione. 143 FOTO T. Negri 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED IL PRINCIPIO DI NEUTRALITA’ IN BRUCE ACKERMAN: UNA PROPOSTA DI GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA DOPO RAWLS. Sommario: 1. La teoria della giustizia di John Rawls. 2. Bruce Ackerman: interlocutore critico di John Rawls. 3. La teoria della giustizia di Ackerman: i principi del dialogo neutrale. 3.1. Il consenso razionale. 3.2. La cittadinanza. 3.3. La giustizia intergenerazionale. 3.4. L’ingegneria genetica. 3.5. Il concetto di Undominated equality. 3.6. Il valore della neutralità dello Stato. 4. Conclusioni. di Paola Chiarella 1. La teoria della giustizia di John Rawls. Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti godettero per circa venticinque anni, di un periodo di grande progresso socio-economico e scientifico, che permise loro di imporsi, accanto all’Unione Sovietica, come potenza egemone sulla scena mondiale. Su questa ondata di prosperità, la Presidenza del democratico Kennedy, lanciò negli anni 60’ il mito della New Frontier, eldorado di ulteriori conquiste scientifiche (anche in campo spaziale) e di rivendicazioni civili a favore delle persone di colore e delle sacche più emarginate della società. Dopo la sua morte, il successore Johnson completò quel progetto, attraverso l’approvazione del Civil Rights Act (1964), con il quale si vietavano le varie forme di discriminazione razziale, del Voting Rights Act (1965), volto ad eliminare ogni impedimento al pieno esercizio da parte dei neri del diritto di voto e perseguendo inoltre l’intento di creare la «Grande Società», nella quale gli americani sarebbero stati sgravati dalla piaga del pauperismo112. Nonostante gli sforzi della Presidenza orientati in tal senso, la politica di integrazione razziale non ottenne i risultati sperati, mentre il problema della 112 In argomento v. D. B. Rodriguez – B. R. Weingast, The Positive Political Theory of Legislative History: New Perspectives of 1964 Civil Right Act and its Interpretation, in Univ. of Pennsylvania Law Review, 2003, vol. 151, p. 1417 ss.; L. N. Gueron, An Idea Whose Time Has Come: A Comparative Procedural History of The Civil Rights Act of 1960, 1964 and 1991, in Yale Law Journal, 1995, vol. 104, p. 1201 ss.; C. Lang, Between Civil Rights and Black Power in the Gateway City: The Action Committee to Improve Opportunities for Negroes (ACTION), 1964-1975, in Journal of Social History, 2004, vol. 37, p. 725 ss.; R. Pildes, Law and the Political Process the Nineteenth Annual National Student Federalist Society Symposium on Law and Public Policy – 2000: Panel III: Voting Rights, Equality and Racial Gerrymandering Diffusion of Political Power and the Voting Rights Act, in Harvard Journal of Law & Public Policy, 2000, vol. 24, p. 119 ss. 145 povertà rimaneva difficile da risolversi. In un tale clima di sfiducia verso la politica riformista, i neri manifestarono atteggiamenti di rivolta113, mentre le classi medie preoccupate dal crescente deficit statale e dall’inflazione che ormai salutava gli anni d’oro del precedente boom economico, si orientarono verso l’ala conservatrice o verso frange reazionarie. Ad aggravare ulteriormente questo quadro politico e sociale, contribuirono le caldissime polemiche sull’opportunità della guerra in Vietnam, sui fallimenti del welfare state, sul femminismo, sulla liberazione sessuale e sulle nuove tendenze giovanili sempre più avvezze all’uso di droga ed alcool. In un siffatto contesto culturale, la pubblicazione di A Theory of Justice di Rawls114, che si proponeva di tracciare una via alla soluzione del problema delle disuguaglianze, viene accolta con grande entusiasmo non solo dalla comunità accademica115, ma anche dal grande pubblico116, il quale, resosi sensibile alle problematiche innanzi considerate, percepiva nell’opera di Rawls caratteri di novità e di freschezza di cui avrebbero potuto giovarsi le istituzioni politiche. Inoltre, in una società già da tempo multiculturale, come quella statunitense, il pregio di Una teoria della giustizia era quello di volere edificare una concezione del giusto che potesse essere condivisa anche da coloro che possedessero diverse concezioni del bene e ponendosi in una prospettiva sub 113 Si pensi alle cruente rivolte dei neri nei ghetti urbani, alcuni dei quali, come i Musulmani Neri di Malcom X, rifiutarono la politica di integrazione cercando di ottenere una propria indipendenza. 114 In argomento per una rilettura della teoria v. E. Pattaro – A. Verza, La realistica utopia della giustizia. Addio a John Rawls, in Riv. int. fil. dir., 2003, p. 137 e ss.; L. Baccelli, John Rawls fra giustizia e comunità, in Filosofi del diritto contemporanei, a cura di G. Zanetti, Cortina, Milano 1999, p. 63 e ss.; A. Porciello, Diritto Decisione Giustificazione. Tra etiche procedurali e valori sostanziali, Giappichelli, Torino 2004, p. 63; W. E. Schaller, Rawls, the difference principle, and economic inequality, in Pacific Philosophical Quarterly 79 (1998) p. 368 e ss.; J. Furman, Political Illiberalism: The paradox of Disenfranchisement and the Ambivalences of Rawlsian Justice, in Yale Law Journal, 1997, vol. 106, p. 1197 e ss.; J. Moriarty, Desert and Distributive Justice in A Theory of Justice, in Journal of Social Philosophy, Vol. 33 No.1, Spring 2002, p. 131 e ss.; 115 Nella quale si era da tempo consolidata l’idea che la «filosofia politica di lingua inglese fosse morta» e che dopo le opere di Sidgwick e Mill nessun filosofo avesse contribuito in modo apprezzabile a questa tradizione filosofica (v. F. Romani, Introduzione all’edizione italiana di B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, Il Mulino, Bologna 1984, p. 12, ed. originale: Social Justice in the Liberal State, Yale University Press, New Haven and London 1980). 116 C. I. Massini Correas, La teoría contemporanea de la justicia, de Rawls a MacIntyre, in Riv. int. fil. dir., 1993, pp. 204-205: «Aparecieron volúmenes colectivos dedicados a la obra del profesor de Harvard se organizaron simposios, ciclos de conferencias y congresos para debatir la nueva teoria de la justicia y los medios de diffusión simplificaron sus ideas para hacerlas comprensibles al gran público». 146 specie aeternitatis117, appariva come teoria idonea a superare le contingenze di una società storicamente determinata. Rawls avvertiva infatti che la condivisione di una medesima concezione della giustizia fosse un requisito indispensabile al fine di creare legami di convivenza civile, in una società in cui le tendenze disgregatrici sono generalmente favorite dai conflitti che tendono per lo più a sorgere circa il modo in cui devono essere distribuite le risorse economiche e sociali. Egli, pertanto, giunse all’individuazione di una concezione della giustizia, concepita quale parametro di riferimento per le istituzioni sociali, in virtù del compito che le stesse sono tenute ad assolvere, ovvero quello della distribuzione dei doveri sociali, dei diritti fondamentali, dei benefici e degli oneri della cooperazione interindividuale. A tal fine, Rawls riteneva decisivo apportare dei correttivi alle disuguaglianze economiche e sociali, che essendo determinate da fattori immeritati (come le doti naturali, ad esempio, o la famiglia di origine), non appaiono di conseguenza suscettive di essere tollerate all’interno di una società bene-ordinata118. Infatti, nessun individuo potrebbe affermare che le proprie doti naturali siano in qualche modo riconducibili ad un fattore meritocratico, poiché nessuno, ad esempio, può dire di aver contribuito a nascere con una salute non cagionevole o con un piacevole aspetto fisico. Questi fattori fortunati sono piuttosto frutto della lotteria naturale, la quale opera secondo una logica totalmente estranea al dominio dell’uomo e alla sue potenzialità di incidenza. Di conseguenza, dato il carattere immeritato delle doti fisiche, è opportuno che le istituzioni sociali prevedano dei correttivi per denaturalizzare la giustizia naturale che opera in virtù del principio «a ciascuno secondo la propria natura»119. La giustizia sociale invece parte dal presupposto che le doti fisiche siano irrilevanti ai fini dell’individuazione di argomenti giustificativi della distribuzione delle risorse, ma rilevanti al fine di procedere alla neutralizzazione delle stesse, affinché soggetti naturalmente diseguali possano essere visti, dalla visuale prospettica della giustizia, come eguali. 117 La prospettiva dell’eternità non è, a dire di Rawls, «un posto fuori dal mondo, né il punto di vista di un essere trascendente; è invece una certa forma di pensiero e di sentimento che le persone razionali possono adottare in questo mondo. E avendolo fatto, qualunque sia la loro generazione, possono comporre insieme in un unico schema tutte le prospettive individuali, e giungere insieme a principi normativi che possono essere affermati da ognuno che viva sulla loro scorta, ciascuno dal proprio punto di vista» (cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2002, p. 477, ed. originale: A theory of Justice, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge - Mass, 1971). 118 Una società bene-ordinata è per Rawls quella in cui tutti i membri accettano i principi di giustizia e dove le istituzioni fondamentali operano per la loro soddisfazione. Op. cit, p. 22. 119 B. Celano, La denaturalizzazione della giustizia, Ragion pratica, 2000/14, p. 81. 147 In tal senso la “natura matrigna”120 della giustizia naturale viene ammansita e corretta dalla giustizia distributiva avente carattere artificiale in quanto i suoi principi sono correttivi di equalizzazione delle differenze individuati ad arte dall’uomo. Lo stesso può dirsi per le differenze sociali, che dipendono anch’esse dalla fortuna (chi può dire di meritare di essere nato nella famiglia a cui appartiene? E ciò è vero, sia per chi nasce in un ambiente familiare di elevata estrazione, sia per chi invece si ritrovi ad appartenere ad una famiglia tristemente degradata). Le distribuzioni naturali e sociali, afferma Rawls, non sono né giuste, né ingiuste, sono semplicemente “fatti naturali”, mentre giusto o ingiusto può essere invece il modo in cui le istituzioni si pongono nei loro riguardi, a seconda cioè che avvertano o meno il problema della disuguaglianza ed intervengano in modo adeguato121. I fatti naturali (come la povertà o le condizioni di minorità fisica) vengono in tal modo trasformati in fatti istituzionali, conferendo rilevanza sociale a circostanze che altrimenti verrebbero accettate passivamente come stati di cose definitivi. La necessità che le istituzioni sociali intervengano nei processi distribuitivi delle risorse dipende oltre che dall’inesistenza di un qualche fattore di merito alla loro titolarità, anche dal fatto che le differenze cagionate dalle doti naturali e sociali, possono raggiungere livelli di ingiustizia così elevati che gli sforzi degli individui intesi a migliorare la loro condizione potrebbero risultare del tutto inadeguati ed incapaci a sortire l’effetto di contrastare fattori di discriminazione potenzialmente dotati di un’incidenza continuata e pervasiva nell’esistenza di un individuo. A queste ineguaglianze, che influenzano le opportunità che gli uomini hanno nella vita, devono essere applicati i principi della giustizia sociale, i quali varranno quali parametri regolatori della scelta della “costituzione politica” e dei principali elementi del sistema economico e sociale di una comunità122 per far in modo che lo stesso funzioni in modo equo e permetta una distribuzione di beni sociali tale da non suscitare legittime contestazioni da parte di alcuno individuo. Questa attenzione nei confronti delle pretese di ciascun soggetto rende la teoria della giustizia di Rawls quella che meglio si pone in veste di “etica pubblica”, poiché prende in considerazione le pretese di ciascuno nell’individuazione dei criteri distributivi delle risorse economiche e sociali, a differenza di quanto invece faccia l’utilitarismo secondo cui i comportamenti richiesti agli individui in una società, sono quelli che permettono di massimizzare l’utilità, la soddisfazione, la felicità del maggior numero delle persone, essendo quest’ultimo il parametro definitivo del giusto e dell’ingiusto. Esso ignora e sacrifica così gli interessi della minoranza, anche se quelli del maggior numero trovano invece soddisfazione. 120 Op. cit., p. 84. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 99. 122 Op. cit., p. 24-25. 121 148 Di conseguenza, mentre gli utilitaristi adottavano una visione teleologica dell’etica reputando giusto ciò che permette di raggiungere la felicità del maggior numero ed anteponendo così al giusto il concetto del bene oggettivo dell’utilità, Rawls invece adotta un’etica deontologica che antepone il giusto al bene dove il primo non dipende da nessuna particolare concezione del secondo e finisce per far sì che coloro che posseggono diverse concezioni del bene possano ugualmente giungere ad un accordo intersoggettivo sui principi distributivi. Vi è da chiedersi, a questo punto, attraverso quale procedimento Rawls individui i principi di giustizia, dal momento che essi non discendono da nessuna concezione del bene e non sono tratti dalla natura o dalla ragione (come vorrebbe un orientamento giusrazionalistico). A tal fine, si dovrebbe parlare più che di procedimento, di procedura. Infatti i principi di giustizia sono individuati «sulla base di una procedura di scelta neocontrattualista, che recupera le idee giusrazionalistiche di stato di natura e di contratto sociale»123. La giustizia come equità risponde alla nozione di giustizia procedurale pura, nella quale la giustizia del risultato si ricava mediante il ricorso alla procedura stessa, senza l’esistenza di un criterio indipendente di giustizia ed in una condizione iniziale equa nella quale si trovano i soggetti deputati alla scelta. Rawls, a tal fine, immagina che la scelta dei principi sia il frutto di un accordo originario, di un contratto stipulato tra determinati individui che si trovano nella cosiddetta “posizione originaria”. Essa è una situazione simile alla stato di natura della teoria classica del contratto sociale, in quanto anche i soggetti in questione sono liberi e tra di loro eguali, ma in tale caso lo sono grazie alla copertura di un velo d’ignoranza che impedisce ad ognuno di avere la ben che minima informazione circa il proprio essere determinato nella società. Rawls ha cura di precisare che il ricorso all’artificio espositivo del contratto non è volto a spiegare (come fecero Locke, Rousseau e Kant), l’origine della società civile, ma procedendo verso un livello più alto di astrazione, esso viene utilizzato per piegarlo ai fini dell’individuazione dei principi di giustizia distributiva124. Per far sì che i soggetti impegnati nella scelta non vengano influenzati da informazioni che li riguardano personalmente e che sarebbero tali da sfasare l’equità del risultato, egli li colloca nel “puro regno della ragione”125, nel quale è celata, in virtù del velo d’ignoranza, ogni conoscenza circa il posto dei contraenti nella società, la propria fortuna nella distribuzione di doti e capacità naturali, forza, intelligenza, concezione del bene, caratteristiche psicologiche come l’avversione al rischio o la tendenza al pessimismo o all’ottimismo126. Questa circostanza è chiaramente decisiva per garantire l’equità del risultato in quanto, se i contraenti godessero di tali informazioni, certamente sceglierebbero 123 M. Barberis, Breve storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna 2004, p. 35. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 27. 125 A. Porciello, Diritto Decisione Giustificazione, cit., p. 68. 126 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 125. 124 149 principi di giustizia più vicini ai propri interessi e di conseguenza il carattere generale e universale dei criteri distributivi verrebbe irrimediabilmente compromesso. L’equità del risultato inoltre viene ancora più garantita dall’ignoranza circa le situazioni specifiche della società in cui vivono i soggetti, non sapendo infatti né quale sia la situazione politica ed economica, né il livello di civiltà e cultura raggiunto. I contraenti posseggono soltanto cognizioni su fatti generali che concernono la società, comprendendo infatti quali siano i problemi politici, i principi della teoria economica, le basi dell’organizzazione sociale, le leggi della psicologia umana e tutti gli altri fatti generali che influenzano la scelta dei principi di giustizia127. Infine, le parti contraenti sanno di avere un senso di giustizia che li rende capaci di operare la scelta dei principi distributivi e sanno inoltre di avere una propria concezione del bene (non però quale essa sia in concreto), e di conseguenza tenderanno verso principi che gli permetteranno di vederla realizzata128. A questo punto si possono individuare i due principi di giustizia su cui poggia l’intera costruzione rawlsiana e che sono il principio di uguale libertà ed il principio di differenza, organizzati secondo un ordine lessicografico per cui il primo gode di una posizione di priorità rispetto al secondo e ciò fa sì che la libertà possa essere limitata solo in nome della libertà stessa129. Il primo principio presenta la seguente formulazione: «Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti»130. La titolarità di questo insieme di libertà fondamentali definisce il paradigma dell’eguaglianza così come «la disuguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come disuguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente»131. Le libertà fondamentali sono sostanzialmente la libertà politica, libertà di parola, di riunione, di coscienza, di pensiero, libertà della persona, libertà di possedere proprietà, libertà dall’arresto e dalla detenzione arbitrari132. I cittadini di una società giusta devono pertanto godere degli stessi diritti fondamentali, 127 Op. cit., p. 126. I principi di giustizia ricavati mediante accordo stipulato nella posizione originaria dovranno avere i caratteri della generalità, in quanto non devono riferirsi a casi e situazioni specifici; della universalità per quanto riguarda il profilo applicativo, dovendo infatti valere per ogni individuo; della pubblicità in quanto i principi sono condivisi da ciascun soggetto, essendo il frutto di un’esplicita pattuizione; della definitività poiché i principi non possono essere modificati facendo appello ad istanze superiori; ed infine dell’imporre un ordinamento alle pretese conflittuali secondo la loro importanza. 129 Op. cit., p. 255. 130 Ibidem. 131 L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Laterza, Roma – Bari 2001, p. 26. 132 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 66. 128 150 non essendo ammissibile che taluno ne sia carente o vi rinunci in cambio di maggiori vantaggi sociali ed economici, né che i sacrifici di alcuni possano essere giustificati facendo appello ad un maggior bene aggregato come vorrebbe la concezione utilitarista. Il principio di libertà non è stato contestato dai critici a differenza di quanto sia accaduto al secondo principio che presenta tale formulazione: «Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio del giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità»133. Il principio di differenza, sebbene subordinato nell’impianto teorico al primo principio, rappresenta il punto nevralgico della concezione rawlsiana, perché è quello che meglio compendia la sua visione della giustizia. Esso è costruito al fine di rimediare agli errati esiti distributivi a cui conduce l’uguaglianza delle opportunità. Essa si basa infatti sull’assunto che presupposto indispensabile per la giustificazione delle disuguaglianze tra i cittadini è che nessuno sia vittima di forme di discriminazione fondate sul sesso, sulla razza, sulla lingua, sulle condizioni economiche o sullo status sociale. Di conseguenza le disuguaglianze esistenti sono giustificate se determinate in modo esclusivo dalle capacità di ciascuno. Seguendo tale ragionamento, coloro che guadagnano di più, se non sono stati avvantaggiati per motivi riguardanti la condizione economica, sociale o il sesso, possono essere considerati i migliori e pertanto aventi pieno titolo a godere dei privilegi la cui posizione comporta e tutto ciò indipendentemente dal prevedere un sistema che possa andare a vantaggio di coloro che stanno peggio. L’uguaglianza delle opportunità sarebbe, in sostanza, foriera del motto “che vinca il migliore!” e così facendo sottovaluta che non basta garantire l’assenza di discriminazioni sessuali, economiche e sociali, se non si tiene in conto il primo forte fattore di discriminazione che è quello della differente e talvolta bizzarra distribuzione delle doti naturali. Se all’interno di un gruppo di dieci persone, tre hanno un quoziente intellettivo elevatissimo, tre medio, due inferiore alla media, e due pari a zero, il fatto di puntare, per giustificare le disuguaglianze, sull’argomento dell’assenza di discriminazione sessuale, economica e sociale, produce un esito altamente ingiusto poiché pur in assenza delle suddette discriminazioni, gli ultimi quattro soggetti del gruppo non potranno mai essere i migliori tra i dieci e non potranno mai giungere alle stesse posizioni di prestigio a cui, con ogni probabilità, potranno giungere i primi sei soggetti. Dal momento che le doti naturali non sono fattori imputabili al merito del titolare, ne deriva che la disuguaglianza a cui esse portano deve essere corretta. Ora, Rawls non propone di annullare ogni tipo di differenza, ma ritiene che le disuguaglianze presenti nella società debbano migliorare le aspettative dei meno 133 Op. cit., p. 255. 151 avvantaggiati poiché «se è vero che nessuno deve avvantaggiarsi delle disuguaglianze naturali immeritate, è vero anche che possono esservi casi in cui questi vantaggi arrecano un beneficio a tutti. Nessuno merita di beneficiare dei propri talenti naturali, ma consentire a qualcuno di beneficiarne non sarà ingiusto se questo privilegio lavorerà a vantaggio di coloro che nella “lotteria naturale” sono stati meno fortunati»134. Come si può notare dalla formulazione del principio di differenza, Rawls non nasconde l’importanza del principio dell’uguaglianza delle opportunità, poiché infatti è inserito nel principio in questione, ma lo ritiene da solo insufficiente se si vuole affrontare in profondità il problema della diseguaglianza, ed il miglior modo per farlo è quello di vederla operare a vantaggio dei meno avvantaggiati. In tal senso il principio di differenza assume i caratteri del principio di riparazione «poiché, anche se non mira ad annullare le minorazioni, tende però a porre i benefici discendenti dalle doti naturali a disposizione di tutti, con l’obiettivo di attenuare gli effetti dei valori del merito e dell’efficienza. […] Fornisce, infine, un’applicazione del principio di fraternità, corrispondente all’idea di non desiderare maggiori vantaggi se non si favoriscono contemporaneamente i meno fortunati»135. La critica principale che viene mossa al principio di differenza, è dunque quella di non assumere un atteggiamento veramente propositivo per il problema della diseguaglianza, ma prevede semplicemente un artificio per renderla più accettabile. A questo punto ci si potrebbe domandare perché i soggetti rawlsiani rappresentativi della scelta giungano ad un accordo proprio su questo principio a fronte di altri egualmente prospettabili. La risposta a tale perché coincide con il concetto di massimizzazione della posizione minima o, più notoriamente, di maximin136. Partendo dalla consapevolezza che i soggetti coperti dal velo di ignoranza non sanno quale sarà il posto che occuperanno nella società, essi saranno propensi ad orientarsi a favore di un principio che migliori la propria situazione nella sfortunata ipotesi in cui dovessero realmente trovarsi nelle peggiori condizioni naturali, economiche e sociali. La preferibilità razionale del secondo principio di Rawls si può spiegare attraverso questo esempio. Si immagini di dover scegliere tra tre schemi distributivi di risorse da ripartire tra tre soggetti, nessuno dei quali sa quale sarà la porzione che gli toccherà in concreto. Il primo schema prevede che al primo soggetto vengano date 10 risorse, al secondo soggetto 9, al terzo 1. Il secondo schema prevede invece che al primo soggetto vengano assegnate 10 risorse, al secondo 8, al terzo 2. 134 W. Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Feltrinelli, Milano 2000, p. 71. 135 A Scerbo, Giustizia Sovranità Virtù, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 75. 136 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 137. 152 Infine il terzo schema assegnerebbe al primo soggetto 8 risorse, al secondo e al terzo 6. Dinnanzi a queste tre possibilità Rawls afferma che i tre soggetti sceglierebbero il terzo schema distributivo poiché la terza posizione è di gran lunga migliore rispetto a quella prevista dai primi due schemi distributivi. In una logica del genere opera il principio di differenza, poiché i contraenti, che non sanno quale sarà la loro posizione nella società, tenderanno verso un principio che massimizzi la condizione di coloro che stanno nella posizione minima, dal momento che non sono in grado di escludere che essa gli capiterà in concreto. Per rimediare agli esiti della lotteria naturale e ai vantaggi conseguenti dalle posizioni sociali date a ciascuno (in modo indeterminato) dalla sorte, la teoria della giustizia di Rawls vorrebbe che fosse data a ciascuno la stessa quantità di beni sociali, quali reddito, ricchezza, diritti e libertà, opportunità e poteri. La posizione originaria si giustifica non solo per il fatto di creare una situazione di uguaglianza tra le parti contraenti, dal momento che tutti hanno eguali diritti nella procedura di scelta dei principi potendo fare proposte e avanzare ragioni per la loro accettazione, ma anche perché essa è in grado di generare un equilibrio riflessivo tra i principi ed i giudizi ponderati delle parti stesse. Infatti, alla concezione della giustizia come equità non si arriva mediante un procedimento sillogistico di derivazione da giudizi di granitico contenuto, simili a verità assolute e immutabili, ma al contrario, i giudizi stessi possono subire a loro volta delle rivisitazioni ed emendamenti alla luce dei principi stessi. Si raggiunge l’equilibrio quando i principi coincidono con i nostri giudizi ed è un equilibrio riflessivo perché si sa a quali principi i nostri giudizi si conformano e perché, più in generale, i principi si giustificano alla luce di un “aggiustamento globale” tra molteplici considerazioni. Raggiunto l’equilibrio, esso non è tuttavia definitivo, in quanto nulla esclude che i giudizi stessi possano essere nuovamente sottoposti a revisione137. La teoria della giustizia di Rawls, da ultimo, non si pone in contrasto con il libero mercato e con il capitalismo in generale, ma esige che il potere pubblico intervenga nei meccanismi distribuiti delle risorse, al fine di garantire, in un sistema di equa uguaglianza delle opportunità, correttivi alle azioni del mercato ogniqualvolta esse si rendano incompatibili con un sistema fondato sulla giustizia come equità. Un sistema economico giusto apporta dei limiti alla proprietà privata, prevede imposte sui redditi e sui consumi, controlla il mercato del lavoro, garantisce un reddito minimo e regola il fenomeno successorio. La teoria della giustizia di Rawls, sebbene possa sembrare intuitivamente condivisibile, presta il fianco ad una serie di critiche che i commentatori dell’opera non hanno potuto fare a meno di rilevare. 137 Op. cit., p. 56. 153 2. Bruce Ackerman: interlocutore critico di John Rawls. Tra i numerosi interpreti dell’opera di Rawls si pone Bruce Ackerman, che si inserisce nel dibattito filosofico sulle questioni della giustizia nel 1980, con l’opera La giustizia sociale nello stato liberale138, la quale, adottando una prospettiva anti-utilitarista, giunge ad una soluzione simile a quella rawlsiana, consistente nel proporre una distribuzione ugualitaria delle risorse, ma divergendo da quella sotto l’aspetto metodologico e argomentativo. Ackerman contesta, al riguardo, in primis, il ricorso all’artificio del contratto, in quanto ritiene che i principi di giustizia ricavati nella posizione originaria (che hanno ottenuto il consenso delle persone rappresentative della scelta) non possano poi vincolare le stesse persone in un futuro molto lontano rispetto al momento della scelta, né vincolare anche coloro che non abbiano preso parte al contratto e che non si trovano in concreto in quella situazione così rarefatta di realtà come quella ipotetica della posizione originaria. Infatti, «se gli uomini non sono equamente vincolati dai contratti a cui hanno dato il loro consenso effettivo, perché dovrebbero essere vincolati ad un contratto sociale a cui hanno accordato solo un consenso ipotetico?»139. Inoltre, la visione contrattualista presuppone che i soggetti deputati alla scelta precedano la società e siano in possesso di diritti e doveri di cui sono già titolari dal precedente stato di natura e la cui base di esigibilità è rappresentata semplicemente dalla promessa di rispettare il contratto e non già dalle forme argomentative attraverso le quali si arriva a riconoscere l’esistenza, in capo a quei soggetti, di una complessa gamma di diritti e doveri. Ackerman ritiene infatti che il fondamento giustificativo degli stessi, vada ritrovato non nel momento preciso in cui si giunge ad una pattuizione, ma nella complessiva impresa discorsiva o meglio dialogica, attraverso la quale, gli individui, ragionando insieme, si riconoscono reciprocamente e ugualmente titolari di diritti e obblighi. Il momento dell’accordo è, in altre parole, il punto di arrivo e non di partenza, dal quale rivendicare nei confronti dello Stato e dei terzi, pretese soggettive. Alla critica del contrattualismo rawlsiano, Ackerman fa seguire, in maniera quasi immediatamente logica, quella alla posizione originaria che, come si visto, è la condizione artificiosamente allestita da Rawls per poter piegare ai propri fini la procedura della scelta dei principi di giustizia. In quella situazione irreale, lontana da una dimensione pratica e nell’alveo, invece, di una solamente teoretica, i soggetti coperti dal “velo d’ignoranza” giungerebbero, guidati dalla ragione, ai due principi di giustizia sopra visti. Ackerman non condivide affatto questo metodo, poiché individua in esso l’astuzia, potremmo dire, del suo autore e non già - come direbbe Hegel - della ragione. 138 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, Bologna, Il Mulino, 1984, (ed. originale: Social Justice in the Liberal State, Yale University Press, New Haven and London 1980). 139 Op. cit., p. 273. 154 Infatti, è persuasiva la mossa del velo di ignoranza, (che compre tutte le conoscenze personali dei soggetti circa la propria esistenza), perché dimostrerebbe che i soggetti deputati alla scelta non sono mossi da nessun egoismo volto ad avvantaggiare la categoria alla quale appartengono e pertanto alla luce dell’argomento del maximin, il principio di differenza risulta evidentemente la migliore tra le possibili soluzioni al problema della diseguaglianza. Ma Ackerman muove un’obiezione precisa che è quella della caratterizzazione dei soggetti della scelta, con la quale dimostra che l’idea brillante del velo d’ignoranza non può funzionare. Infatti, se i soggetti non sono provvisti di «un qualsiasi insieme di preferenza a guida del loro giudizio»140 la possibilità di operare una scelta è pressoché nulla, in quanto aggiunge Ackerman «ex nihilo nihil fit»141. La caratterizzazione rawlsiana dei contraenti palesa una particolare visione dell’identità personale, che verrebbe ad essere determinata in modo del tutto autonomo dai legami con la realtà concreta che è poi la società. Tuttavia, se è pur vero che Rawls non è un comunitarista (e pertanto non può avere la visione dell’individuo come soggetto che si determina anche grazie al suo essere in società), non si può nascondere che le vesti degli Io noumenici in cui fa calare i contraenti, sono fin troppo asettiche e finiscono per sottovalutare le potenziali utilità che possono derivare dalla conoscenza delle questioni concrete afferenti la vita degli individui e della società. Al riguardo, Ackerman afferma, in senso contrario, che «qualunque individualità io possegga, non l’ho ottenuta indipendentemente dalla società, bensì l’ho ottenuta come risultato dell’interazione con la società»142. Occorre però aggiungere che Rawls, essendo consapevole che l’ignoranza assoluta alla quale ha vincolato i contraenti avrebbe potuto prestare il fianco a delle critiche, ha avuto cura di precisare che i contraenti hanno delle conoscenze generali sull’economia e la politica tali da permettergli comunque di procedere con la scelta143. Ma neanche questa mossa soddisfa Ackerman, poiché anzi rivelerebbe chiaramente l’astuzia di cui sopra si è detto ed infatti egli osserva «quali cose noi manipolatori del velo, dovremmo permettere ai contraenti di vedere? Infatti le loro scelte, com’è naturale, non saranno altro che il prodotto del nostro gioco di ombre»144. In definitiva è il contrattualista stesso a determinare il risultato della scelta e non già i contraenti mediante l’attivazione delle proprie esclusive facoltà mentali. Essi invero, si muoverebbero alla luce della critica di Ackerman, come marionette sul palco della posizione originaria. I contraenti invece di mascherare la consapevolezza che hanno di sé ed affrontare il problema della scarsità delle risorse in una situazione di morale 140 Op. cit., p. 444. Ibidem. 142 Op. cit., p. 433. 143 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 126. 144 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., p. 444. 141 155 amnesia145, sono chiamati da Ackerman ad affrontare il problema a viso scoperto, avendo piena conoscenza di chi sono e di cosa sono chiamati a fare. Se, infatti, i soggetti deputati alla scelta dei principi di giustizia non sapessero neanche (come vuole Rawls) quale sia la propria concezione particolare del bene, non potrebbero individuare soluzioni pratiche, né veramente eque poiché le trattative anteriori al raggiungimento di un accordo sarebbero esercitazioni ioci causa ed i soggetti non saprebbero in concreto quale sia la missione da compiere. Invece, come si vedrà, per Ackerman è essenziale avere consapevolezza della propria concezione del bene per rivendicare diritti sulle risorse. Sul solco di queste critiche, Ackerman affronta la definizione rawlsiana di classe meno avvantaggiata, nel cui interesse, alla luce del principio di differenza, devono essere risolte le diseguaglianze. Questa definizione ha incontrato le obiezioni anche di altri critici poiché tra la categoria dei meno avvantaggiati, Rawls pone tutte le persone «con meno della metà del reddito e della ricchezza medi»146e così facendo, esclude coloro che sono afflitti da handicap genetici. Le minorazioni fisiche, anche da sole, senza il concorso della scarsità di risorse economiche e di condizioni sociali particolari, sono tali da incidere, spesso in modo irrimediabile sulle prospettive di una vita da vivere al meglio delle possibilità. Per cui, sebbene la teoria di Rawls, superi il parametro dell’uguaglianza delle opportunità, quando si appresta a trovare la soluzione al problema, non include però, tra coloro che meriterebbero misure compensatorie, anche gli affetti da minorazioni genetiche147. Ackerman invece discostandosi dai critici su questo punto, ritiene che i soggetti minorati geneticamente sarebbero comunque ricompresi nella categoria dei meno avvantaggiati, ma l’ingiustizia consisterebbe proprio nel porli sullo stesso piano del proletario sano. Ora, dal momento che il numero dei proletari sani è più elevato rispetto a quello delle persone con difetti congeniti, gli interessi degli appartenenti a questa minoranza verrebbero sacrificati per massimizzare la posizione della classe complessivamente considerata, poiché le pretese della minoranza sarebbero d’intralcio alle rivendicazioni del gruppo più consistente. Una persona dunque affetta da gravi handicap secondo Ackerman, sarebbe, alla luce della teoria di Rawls, come un «frammento sommerso» della classe meno avvantaggiata148. Una teoria liberale invece, deve tenere seriamente conto della posizione dei minorati geneticamente, non potendola subordinare nel perseguimento degli interessi di altri soggetti. In tal senso, aggiunge Ackerman, «è semplicemente grottesco rispondere alla condizione di X [persona portatrice di handicap] 145 B. A. Ackerman, R. Dworkin, J.C. Harsanyi, J. Rawls, Teorie della giustizia sociale, a cura di A. Besussi, Ed. Unicopli, Milano 1986, p. 75. 146 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 95 147 W. Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, cit., p. 88. 148 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., p. 356. 156 raccontandogli tutte le belle cose fatte per i proletari bianchi, maschi e sani»149. Di conseguenza ci sarebbe sfruttamento (termine che Ackerman usa per indicare una situazione ingiustamente diseguale), non solo tra coloro che appartengono alla classe meno avvantaggiata e gli altri soggetti più fortunati, ma anche tra gli stessi membri della classe in questione, con la conseguente impossibilità di provvedere al soddisfacimento delle pretese dei portatori di handicap, poiché essendo in numero ridotto rispetto agli altri, verrebbero esclusi dagli interessi dello stato attivista. Al contrario, afferma Ackerman, «il liberalismo assicura ai contraenti che, per quanto impotenti possano essere, le loro richieste non passeranno mai inascoltate»150. Come si può rilevare, la stessa critica che Rawls aveva rivolto all’Utilitarismo, di non tenere in conto le pretese della minoranza e di sacrificarle invece in nome del perseguimento della massima felicità per il maggior numero, Ackerman la indirizza a Rawls, il quale nella elaborazione del principio di differenza si imbatterebbe nello stesso errore argomentativo. Inoltre, la definizione di classe meno avvantaggiata presenta, secondo Ackerman, un’altra imperfezione, che è quella di sottovalutare il fatto che vittime di sfruttamento e di ingiuste discriminazioni possono essere anche soggetti che appartengono alle classi medie, come gli uomini di colore e le donne. Essi, pur potendo avere un reddito e una ricchezza pari alla media, possono nondimeno essere vittime di sfruttamento e, di conseguenza, la teoria di Rawls sarebbe un’elaborazione escludente le legittime rivendicazioni di soggetti che subiscono torti pur gravi. «Una teoria liberale non ha bisogno di sminuire i reclami di persone che si trovino in una posizione elevata nella struttura di potere complessiva, le quali scoprono che le loro rivendicazioni […] sono state loro negate a causa della loro razza, del loro sesso o di una concezione del bene impopolare»151. Per tali ragioni, Ackerman ritiene che la teoria di Rawls debba essere superata, anche perché il principio di differenza nella sua complessiva formulazione non si sforza di risolvere il problema delle disuguaglianze, ma si limita semplicemente ad individuare le condizioni alle quali esse possano essere tollerate e dunque ammesse e quindi reputate, se vogliamo, anche giuste. 3. La teoria della giustizia di Ackerman: i principi del dialogo neutrale. La teoria liberale di Ackerman intende individuare la soluzione al problema delle diseguaglianze, attraverso argomentazioni chiaramente differenti da quelle di Rawls, seppure nella sostanza aventi in comune con quella una vocazione egalitaria del meccanismo distributivo delle risorse. Il liberalismo per Ackerman 149 Op. cit., p. 357. Op. cit., p. 358. 151 Op. cit., p. 361. 150 157 rappresenta un «modo di parlare del potere, una forma di cultura politica»152 che esclude che in uno stato liberale qualcuno possa godere del beneficio dell’invisibilità, ovvero del privilegio di non giustificare la titolarità ed il godimento esclusivo di beni. Questa cultura politica trova esplicazione anche sul piano pratico, poiché l’arroccarsi al suddetto privilegio determina l’illegittimità del potere che ne deriva. Da più parti dell’opera emergono infatti il valore e le potenzialità del confronto tra gli individui i quali attraverso la continua interazione dialogica possono evitare le ingiustizie e presentare le proprie legittime istanze. I diritti infatti, non sono, secondo Ackerman come i frutti di un albero che crescono spontaneamente e si presentano da sé pronti per essere raccolti da qualcuno, ma l’unico modo per rivendicarli è la possibilità di confrontarsi con qualche potenziale concorrente. L’uguaglianza infatti non si giustifica in base al sentimento, ma in base ai discorsi che gli individui presentano a sostegno delle rispettive rivendicazioni. L’impostazione dell’opera rifugge dalla finzione contrattualista della posizione originaria e del velo di ignoranza, ma non manca anch’essa di una buona dose di irrealtà. Infatti Ackerman immagina di imbarcarsi insieme al lettore e a tutti gli altri su una navicella per un viaggio di esplorazione che li porterà alla scoperta di un nuovo mondo, sul quale decidono di atterrare e quivi insediarsi. Il mondo che si offre agli occhi dei colonizzatori presenta un’unica risorsa, la manna, la quale è divisibile, malleabile all’infinito ed in grado di trasformarsi in qualsivoglia oggetto153, ma purtroppo presenta una caratteristica comune alle risorse terrestri che è la scarsità. Per questa ragione i colonizzatori si troveranno coinvolti in lunghi dialoghi volti a rinvenire la regola migliore per procedere equamente alla distribuzione della manna. Il primo elemento interessante che si coglie è che a differenza di quanto accada nella posizione originaria di Rawls, tutti i soggetti possono partecipare alla scelta del criterio distributivo e non soltanto alcuni soggetti rappresentativi e questo perché l’uguaglianza di tutti va tenuta presente non solo nel momento distributivo delle risorse, ma anche, e soprattutto, nel momento in cui si decide come procedere nella distribuzione, perché questo è il momento cruciale in cui si gioca veramente la partita dell’uguaglianza. I colonizzatori del nuovo mondo nei lunghi dibattiti propongono diverse soluzioni, che devono conformarsi a tre principi fondamentali organizzativi del discorso liberale che, come le pareti di una diga, convogliano le argomentazioni dei partecipanti verso una sola soluzione distributiva possibile che è quella dell’uguaglianza delle risorse. Mentre Rawls riteneva indispensabile apportare delle restrizioni alle informazioni godute dai soggetti rappresentativi della scelta, Ackerman invece permette ai colonizzatori di sapere concretamente chi 152 153 Op. cit., p. 45. Op. cit., p. 75. 158 sono e non considera quindi l’ignoranza una mossa decisiva per la scelta dei principi di giustizia, poiché «invece che cancellare le nostre identità particolari […] lo stato liberale permette ad ognuno di noi di parlare del fatto che noi, dalla vita, vogliamo cose diverse»154. È invece decisivo porre delle restrizioni al dialogo che è definito pertanto vincolato. Infatti i colonizzatori quando propongono gli schemi distributivi devono prestare attenzione ai principi di Razionalità, Coerenza e Neutralità, se vogliono che le proposte avanzate siano tenute in considerazione, poiché la minima violazione di anche uno solo dei tre principi comporta la caducazione della proposta, in ossequio alla formula aristotelica contra principia negantem non est disputandum. I tre principi di giustizia non vengono ricavati attraverso un procedimento simile a quello rawlsiano, per cui i soggetti rappresentativi della scelta si convincono razionalmente della bontà dei principi di libertà e di differenza. Ciò si giustifica in ragione del fatto che i principi di Ackerman sono nel loro insieme la grundnorm presupposta che dà validità alle argomentazioni relative alla distribuzione delle risorse. I cittadini del nuovo mondo non possono infatti dubitare della loro giustezza ed eventualmente contestarla, poiché i principi vengono offerti come unica possibilità per poter fondare, attraverso il loro rispetto, un argomento distributivo accettabile. Mentre i principi di Rawls sono principi operativi attraverso i quali si può ricavare in via diretta il criterio egualitario distributivo, i principi di Ackerman, invece, sono principi di giustificazione di proposte distributive, che portano in un momento successivo all’accettazione della regola egualitaria. A presidio dei tre principi Ackerman pone (tra gli altri) un personaggio immaginario che è la Comandante, la quale, piuttosto che «dominare dispoticamente tutti noi, imporrà solo certe regole di fondo alla conversazione, e precisamente i tre principi richiesti dalla concezione liberale del legittimo discorso sul potere»155. Il primo di essi (Razionalità) esige che «Ogni volta che qualcuno mette in dubbio la legittimità del potere altrui, il detentore del potere deve rispondere non reprimendo il contestatore, ma fornendo una ragione la quale spieghi perché egli abbia un diritto alle risorse maggiore di chi lo contesta»156. Questo principio ha carattere generale e risponde ad un’esigenza di trasparenza nell’ambito della titolarità e del godimento delle risorse, in quanto qualsiasi posizione di potere deve essere giustificata, non ammettendo a nessuno, in virtù della sua posizione sociale ed economica di comportarsi, in un regime democratico, come un imperioso feudatario, sordo alle contestazioni dei suoi simili o, come Proteo la divinità marina dotata di saggezza e virtù profetiche che assumeva le più svariate sembianze per sfuggire alle domande di chi intendeva indurlo a parlare. Il principio di razionalità esprime un’esigenza di giustificabilità delle posizioni 154 Op. cit., p. 450. Op. cit., p. 76. 156 Op. cit., p. 42. 155 159 di potere e delle rivendicazioni al godimento non egualitario delle risorse. In tale prospettiva i diritti hanno un fondamento dialogico non trovando sostegno normativo in concetti quali lo stato di natura o il contratto sociale. Il secondo principio (Coerenza) serve per preservare l’intellegibilità del dialogo avviato dalla razionalità poiché «le ragioni addotte in una determinata circostanza da chi esercita il potere non devono essere incompatibili con le ragioni che adduce per giustificare le altre rivendicazioni sul potere»157. Infine, il principio di Neutralità è come il principio di differenza di Rawls, la pietra angolare su cui poggia tutta la sua teoria e sostiene che una «giustificazione non è valida se richiede al detentore del potere di asserire: a) che la sua concezione del bene è superiore a quella affermata da uno qualunque dei suoi concittadini, oppure b) che a prescindere dalla sua concezione del bene, egli è per natura superiore a uno o più suoi concittadini»158. Il principio di neutralità è quello che crea più problemi ai colonizzatori nel momento in cui presentano le rispettive richieste riguardanti la manna. Alcuni ad esempio, vogliono avere una porzione di manna superiore a quella degli altri concittadini perché con essa creeranno delle cattedrali bellissime o perché la impiegheranno per nobili scopi e dal momento che la loro concezione del bene è superiore a quella di coloro che invece se ne serviranno solo per riempirsi la pancia, pretendono che il meccanismo distributivo delle risorse non sia egualitario. Tuttavia benché sia apprezzabile il fine per il quale questi soggetti vorranno impiegare la manna, esso non è una ragione sufficiente per avere porzioni maggiori poiché il principio di neutralità nella prima parte della formula prevede il divieto di selettività che dichiara indifferenti, ai fini distributivi, le concezioni del bene sostenute dai soggetti. Non è infatti possibile operare dei giudizi di valore e discriminare così, sul piano distributivo, gli individui a seconda di una concezione più o meno nobile del bene, poiché non esiste alcun parametro che ci possa venire incontro in una siffatta impresa. Per rivendicare una porzione di manna è sufficiente avere una certa concezione del bene (qualunque essa sia) ed il dialogo neutrale traccia dunque ai colonizzatori il sentiero che permette loro di affermare, ciascuno a suo modo, la propria concezione del significato della vita, evitando al contempo di porre limiti alla eguale affermazione dei loro concittadini. In virtù di ciò il diritto all’eguale considerazione e rispetto di ciascuno è un dato indispensabile da tener ben presente per potere fondare una richiesta che sia legittima. I colonizzatori poi, a fronte della contestazione derivante dalla violazione della prima parte del principio di neutralità, non potranno avanzare pretese su porzioni maggiori di manna, dichiarando che comunque essi sono esseri superiori ai loro concittadini e che pertanto questo basterebbe a sostenere le 157 158 Op. cit., p. 46. Op. cit., p. 50. 160 proprie richieste. La seconda parte del principio contiene infatti il divieto di affermazione di superiorità incondizionata, il quale prevede come dato incontestabile l’uguaglianza morale dei soggetti ed il diritto di ciascuno all’eguale considerazione. Uno stato liberale pertanto si deve porre, nei confronti delle diverse concezioni del bene, così come nei confronti di tutte le persone, quale che sia la loro posizione sociale e livello economico, in atteggiamento di assoluta imparzialità ed equidistanza nel momento in cui si appresta ad affrontare il problema della distribuzione delle risorse. Di conseguenza, data l’uguaglianza morale dei colonizzatori, ne deriva che il metodo migliore per ripartire la manna è procedere mediante una distribuzione in parti uguali all’interno di un sistema transazionale flessibile in cui viene concesso a ciascuno di poter scambiare liberamente i propri diritti iniziali. Pertanto se un individuo non può chiedere di più rispetto a quanto è dato agli altri, tuttavia può chiedere che gli venga dato almeno quanto hanno gli altri. Se qualcuno dovesse negargli il diritto alla sua eguale porzione di manna, non ha che difendersi mediante la mossa conversazionale «poiché valgo almeno quanto te». I tre principi di giustizia presentati da Ackerman concorrono a definire una terza versione del concetto di tolleranza alternativa a quella tradizionale di «un atteggiamento intenzionale (…) di sopportazione da parte di un soggetto normativamente competente ad assumere un tale atteggiamento (…) rispetto ad una condotta che è prima facie giudicata (…) come riprovevole (…), ma che viene ammessa o non punita»159, ed anche rispetto a quella rawlsiana che è intesa come la traduzione in diritti positivi riconosciuti ad ogni cittadino e finisce per essere un concetto che esclude l’idea stessa della tolleranza perché i diritti non si devono tollerare ma riconoscersi e proteggersi160. La versione della tolleranza che emerge dall’opera di Ackerman potrebbe essere intesa piuttosto come “principio di esercizio del diritto”161, poiché se i diritti in genere non ci indicano le modalità del loro esercizio e della loro applicazione concedendo ai loro titolari un certo spazio di discrezionalità, la stessa ha bisogno di essere «resa controllabile cioè soggetta a forme intersoggettive e pubbliche di razionalità»162, se non si vuole che si trasformi in arbitrio. I tre principi di razionalità, coerenza e neutralità disciplinano le forme di esercizio del diritto all’uguaglianza morale, riconosciuto ad ogni soggetto, prescrivendo che ad ogni richiesta di legittimazione del potere venga data una risposta, la quale non contraddica le giustificazioni di potere date in precedenza e non faccia appello al concetto di superiorità morale o esistenziale del soggetto. 159 M. La Torre, Tolleranza, in Seminari di Filosofia del diritto, a cura di M. La Torre e G. Zanetti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, p. 152. 160 Op. cit., p. 154. 161 Op. cit., p. 158. 162 Op. cit., p. 160. 161 3.1. Il consenso razionale. Il metodo dialogico che Ackerman predilige presenta delle affinità con la teoria del discorso di Habermas che propone il principio D come parametro di validità delle norme giuridiche che si legittimano non attraverso una procedura di produzione monologica, ma in virtù di un’impresa discorsiva che coinvolge autore e destinatario della legge. In una visione della democrazia come ideale normativo, che recupera il valore dell’autonomia individuale e pubblica, messo in ombra dalla visione metodologica della stessa, possono dirsi valide «soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali»163. Nei confronti dei potenziali interessati, che sono in sostanza coloro che potranno subire gli effetti di una prassi generale regolata dalla norma, le norme si pongono in una posizione di legittima aspettativa di riscattabilità quanto a validità, nel senso che le stesse avanzano una pretesa di legittimità discorsiva che poggia sul fatto di poter essere accettate razionalmente164. E dunque la validità delle norme si configura a partire dalla possibilità che su di esse si formi un consenso universale. Questo concetto era già presente in Kant secondo il quale ogni legislatore è tenuto a fare le leggi come se potesse derivare il contenuto d’esse dalla volontà comune di tutto il popolo, considerando ogni suddito, che voglia essere cittadino, come se avesse dato il proprio consenso a quella volontà. Questa è in definitiva secondo Kant la pietra di paragone della legittimità di ogni legge pubblica165, per cui se la legge è fatta in modo tale che su di essa sarebbe impossibile formarsi il consenso di tutto il popolo, allora la legge non è giusta. Invece se è «solo possibile che un popolo consenta a tale legge allora si ha il dovere di ritenerla giusta»166. Il principio del discorso può applicarsi a qualsiasi problematica che avanzi una pretesa di validità e permette di dare un fondamento imparziale alle norme d’azione. In questo modo una produzione giuridica legittima assume forma procedurale poiché la ragione che produce le norme non poggia sui diritti universali dell’uomo o risiede nella sostanza etica di una data comunità, ma fa appello alle regole discorsive e argomentative il cui contenuto normativo deriva «dalla base di validità dell’agire orientato all’intesa, dunque – in ultima istanza dalla struttura della comunicazione linguistica e dall’ordinamento insostituibile 163 J. Habermas, Fatti e norme, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 131. M. Lalatta Costerbosa, Diritto e potere, in Una introduzione alla filosofia del diritto, a cura di M. La Torre e A. Scerbo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 178. 165 I. Kant, Sul detto comune: «ciò può essere giusto in teoria ma non vale per la prassi», in Stato di diritto e società civile, N. Merker (a cura di), Editori Riuniti, Roma 1995, p. 160; ["I. Kant - Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” - 1793 - trad. Maria Chiara Pievatolo]. 166 Ibidem. 164 162 di una socializzazione comunicativa»167. Anche Ackerman segue questo tipo di impostazione dal momento che i diritti dei cittadini nascono attraverso l’arte maieutica del dialogo, in quanto prima di questo momento i soggetti non possono dirsi titolari di alcun diritto, ma i tre principi presentati dal filosofo americano sono, da soli, sufficienti a regolare ogni questione relativa alla distribuzione delle risorse. Per cui, così come il procedimento discorsivo di Habermas, attraverso le forme della comunicazione, istituzionalizza i discorsi e le trattative assegnando una presunzione di ragionevolezza a tutti i risultati raggiunti, allo stesso modo i principi dialogici conferiscono il crisma della ragionevolezza solo a quei discorsi, rivendicativi o giustificativi delle risorse, conformi ai tre principi del dialogo neutrale. Di conseguenza una proposta distributiva sarà reputata valida in quanto incontrerà il favore di tutti i potenziali soggetti interessati dalla stessa e non perché ad esempio prevarrà una considerazione sostenuta da interessi personali non universalizzabili. 3.2. La cittadinanza. Lo Stato liberale non è un circolo privato, ma è una zona pubblica in cui ciascun cittadino può ottenere che gli sia riconosciuta la propria condizione di essere libero e razionale ed ottenere risposta alle rivendicazioni di diritti. Essere in possesso della cittadinanza ha dunque una rilevanza fondamentale perché essa permette o nega l’accesso a determinate risorse e diritti. Il godimento della cittadinanza non è riconosciuto a tutti, ma solo a coloro che soddisfano i requisiti della stessa, rappresentati dalla capacità di superare la «prova d’inchiesta», «la prova difensiva» e quella «comportamentale». La prova d’inchiesta s’intende superata se si ha la capacità di avanzare richieste di legittimazione relative a posizioni di potere del tipo «perché dovresti averla tu e non io?»168, mentre si supera la prova difensiva se si è in grado di rispondere neutralmente alla richiesta di legittimazione avanzata da altri come ad esempio «perché valgo almeno quanto te»169. Chiaramente superano questa prova soltanto gli individui che siano giunti ad un’età tale che permetta loro di sfruttare le competenze dialogiche. Non sarebbero ancora cittadini i neonati, i bambini e le persone incapaci. Ciò però, se non implica l’esclusione di questi soggetti dalla previsione di forme di protezione in loro favore, fa sì che mentre i cittadini possono rivendicare i loro diritti facendo appello al dialogo Neutrale, i non-cittadini invece, se vogliono acquistare diritti in nome proprio, dipendono dalle scelte politiche dei cittadini. In una visione del genere la cittadinanza si presenta come discriminatrice, non 167 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 351. B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., p.126. 169 Ibidem. 168 163 solo se vista nel rapporto tra cittadini e stranieri, ma anche all’interno della comunità stessa, tra coloro che si trovano a condividere un medesimo spazio di vita e di azione. Gli incapaci di sostenere un dialogo neutrale non sono, nella teoria di Ackerman, cittadini optimo iure e neanche cittadini diminuiti. Non sono affatto cittadini. Tale scelta non appare condivisibile, perché non si comprende l’utilità dell’esclusione dalla cittadinanza dei neonati, dei bambini, e degli incapaci se poi gli stessi, com’è comprensibile, non sono privati di forme di tutela. La scelta di Ackerman porrebbe piuttosto un problema consequenziale; a questo punto perché gli incapaci ed i bambini che non sono cittadini dovrebbero ricevere prestazioni di assistenza a differenza degli stranieri? Per non incorrere in tale dilemma sarebbe invece opportuno distinguere tra la titolarità dello status civitatis e la titolarità della capacità d’agire. Lo status civitatis è la situazione di appartenenza di un individuo ad uno Stato e gli ordinamenti giuridici moderni lo fanno dipendere da parametri che nulla hanno a che vedere con la capacità d’agire che invece implica l’idoneità a compiere manifestazioni di volontà atte a modificare la propria situazione giuridica. I parametri di riferimento per la cittadinanza sono in genere il ius sanguinis e il ius soli. La cittadinanza è una situazione giuridica soggettiva che invece di collegarsi alla capacità d’agire si collega alla capacità giuridica che richiede l’evento nascita. Se lo status civitatis non implica automaticamente la capacità d’agire, l’incapacità d’agire non comporta l’esclusione dallo status civitatis170. Nel sottolineare invece la capacità di sostenere un dialogo neutrale quale requisito della cittadinanza, Ackerman arriva ad affermare addirittura che i diritti delle scimmie parlanti sarebbero più solidi di quelli del vegetale umano, poiché la cittadinanza, com’egli dichiara, ha a che fare con la teoria politica e non con la biologia. Tuttavia quest’ultima affermazione sulla cittadinanza è in contraddizione con quanto precedentemente sostenuto, (e quindi Ackerman stesso violerebbe il principio di coerenza) ovvero che la cittadinanza spetta all’«Homo sapiens biologicamente maturo»171. Ma l’incapacità dei bambini di sostenere un dialogo, o l’incapacità dei portatori di handicap di superare la prova d’inchiesta e la prova difensiva che così determinano l’esclusione dalla 170 La Costituzione italiana, ad esempio, prevede che nessuno possa essere privato della cittadinanza per motivi politici e men che meno, si potrebbe desumere, per ragioni di incapacità, dal momento che la norma in questione integra e tutela principi contenuti in altre disposizioni costituzionali, quali l’art. 3 (il principio d’uguaglianza prevede nella sua formulazione che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») e l’art. 2 che tutela i diritti inviolabili della persona. 171 Op. cit., p.128. 164 cittadinanza, non è una questione di biologia? e le scimmie cosa hanno a che vedere con l’Homo sapiens biologicamente maturo? Nelle teoria di Ackerman invece, il «dialogo minimale necessario per la cittadinanza stabilisce un esile legame di mutua intelligibilità fra cittadini»172 e questo è l’unico requisito della cittadinanza. Una volta superato l’esame dialogico ed assicurato il reciproco diritto al rispetto di ciascuno, i cittadini sono «liberi di dissentire su tutto il resto», potendo scegliere la propria strada senza intralciare le scelte degli altri concittadini. Per quanto riguarda l’ultima condizione necessaria per la cittadinanza, la prova comportamentale richiede che i cittadini debbano essere in grado di conformare le azioni ai propri discorsi, affinché le rivendicazioni di ciascuno non si esauriscano in un «ozioso chiacchierio». Le pretese di ciascuno devono dunque giustificarsi sia a livello teorico che pratico alla luce della prova d’inchiesta e della prova difensiva. Infatti nessuno, una volta avanzata la richiesta di una porzione di manna, potrebbe appropriarsene facendo uso della forza bruta. La cittadinanza inoltre è, in modo connaturale, discriminatrice, se vista nel rapporto tra cittadini e stranieri. Come devono rispondere i cittadini di un paese ricco nei confronti degli stranieri appartenenti a paesi poveri che vogliono diventare membri di quella comunità, senza violare i principi del dialogo neutrale? Di certo non possono fare appello ad argomenti del tipo «noi siamo più evoluti, più civili, più buoni di voi, o semplicemente più fortunati e per questo abbiamo ragione d’escludervi». Ackerman sostiene che l’esclusione possa giustificarsi in ragione del fatto che la situazione economica del paese verrebbe certamente compromessa accogliendo in modo indiscriminato gli stranieri. Uno stato liberale deve predisporre un effettivo programma di aiuti per i paesi sottosviluppati che intendono aprirsi ad una politica liberale e i cittadini di quel paese devono lottare essi stessi per far in modo che la propria terra si elevi dalla miseria e si allontani da forme di governo non democratiche. Infatti «quando lottiamo con successo contro le forme di sfruttamento interne, non solo costruiamo la nostra società su fondazioni più solide, ma diamo anche agli altri un esempio del significato liberale della libertà - un esempio che riuscirà loro utile per interpretare la loro esperienza»173. A questo punto si pone un’altra questione rilevante; e se un soggetto di acclarata ideologia nazista volesse diventare membro di uno Stato liberale, quest’ultimo come dovrebbe rispondere ad una tale richiesta? Potrebbe impedirgli l’accesso basandosi su una considerazione del tipo: “Le tue idee sulla purezza della razza sono pericolose o più semplicemente noi non le condividiamo e nella nostra società noi, esseri come te non ne vogliamo!”? La richiesta del nazista non può essere negata su queste basi, perché un’affermazione del genere, nell’intento di preservare la comunità da idee 172 173 Op. cit., p. 129. Op. cit., p. 343. 165 discriminatrici fondate sulla superiorità della razza, infrange il divieto di selettività e di affermazione di superiorità incondizionata, poiché le idee liberali sono concepite come superiori a quelle naziste ed i nazisti vengono reputati, in definitiva, essere inferiori. Basterebbe infatti che il Nazista dicesse che vale almeno quanto i suoi concittadini per rivendicare la sua eguale porzione di manna, in fondo se questi crede di essere superiore agli ebrei, vuol dire che fino ad un certo punto egli si considera pari a loro. La neutralità dello Stato deve, come diceva Rawls, tollerare anche gli intolleranti, per cui ad esempio anche una setta religiosa intollerante dovrà essere tollerata e questo non perché gli intolleranti non potrebbero dolersi dell’intolleranza, ma perché viene in gioco il fattore della stabilità delle istituzioni giuste, il quale è capace di convertire gli intolleranti alla libertà di coscienza semplicemente sulla base del fatto che la libertà di cui essi stessi godono è in grado di attivare un meccanismo psicologico per cui l’interesse a non perderla viene riconosciuto come meritevole di tutela anche rispetto agli altri. In definitiva, si ritiene che «il solo modo di ridurre l’intollerante ad accettare la tolleranza sia non la persecuzione ma il riconoscimento del suo diritto ad esprimersi»174, poiché sebbene ciò non garantirà la conversione dell’intollerante è pur certo che «l’intollerante perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberale»175. La tolleranza cessa nel momento in cui la società rischia seriamente di disintegrarsi, poiché la sicurezza dei cittadini e quella delle istituzioni di libertà vengono messe in pericolo. D’altra parte sostiene Rawls, dal momento che «esiste una costituzione giusta, tutti i cittadini hanno il dovere naturale di sostenerla», «la giustizia (infatti) non richiede che gli uomini se ne stiano con le mani in mano mentre altri distruggono le basi della loro esistenza»176. Ackerman è concorde sul fatto che la presenza di persone naziste non possa essere sottovalutata e propone a tal fine un sistema di freni e contrappesi che possa impedire alle deliranti idee naziste di trovare pratica attuazione. Infatti, «l’intento è quello di dividere il comando fra una serie di uffici e di fornire a ciascun ufficio degli incentivi istituzionali a frenare l’azione degli altri uffici, quando i detentori della carica tentano di abusare dei loro poteri in direzioni autoritarie»177. Tuttavia, i cosiddetti checks and balances da soli, non potrebbero mai assicurare completamente l’assenza di una pur minima possibilità di prese di potere totalitarie per cui, come osserva Ackerman, se lo Stato vuole assicurare la sopravvivenza della società e proteggere i principi liberali, potrà anche ricorrere all’uso della forza. Il ricorso a quest’ultima è invece – dal il filosofo - precluso se tutti i cittadini fossero convinti della bontà delle idee naziste e volessero edificare un regime 174 N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1997, p. 244. Ibidem. 176 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 189. 177 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., p. 156. 175 166 improntato a quei (dis)valori. A questo punto però non si comprende perché, il sistema di pesi e contrappesi dovrebbe valere contro le farneticanti idee sostenute da un solo nazista o da gruppi isolati, mentre se tutta un’intera società fosse preda di un delirio di onnipotenza la si potrebbe lasciare libera di incorrere in una strada senza via d’uscita178. È possibile che neanche il valore della dignità umana e della vita possano imporsi in uno Stato liberale? Non esiste nessuna ipoteca teorica in uno Stato liberale? Se così fosse allora ogni forma di attività umana, da quella giuridica a quella artistica sarebbero dei passatempi in attesa della fine, strappati del valore della bellezza del vivere insieme per vivere bene. La maggior parte delle costituzioni liberali contiene la previsione di principi e valori fondamentali la cui garanzia non può essere negletta poiché si pongono, seguendo l’insegnamento di Dworkin, come “trump cards” che prevalgono su ogni altra considerazione ed assolvono al compito di fungere da barriera e limite contro la tentazione di esercitare forme arbitrarie di potere in contraddizione con i diritti e i valori fondamentali. La libertà, dunque, come ha sostenuto anche Hanna Arendt risulta, l’autentica ragione per cui gli uomini vivono insieme in un’organizzazione politica. Senza di essa, infatti, la stessa vita politica sarebbe priva di significato179. 3.3. La giustizia inter-generazionale. I cittadini di uno stato liberale godono della libertà di scegliere lo stile di vita che preferiscono e di raggiungere il proprio bene in modo del tutto autonomo, non avendo alcun rilievo quale sia in concreto la particolare concezione del bene, né la moralità o l’immoralità delle loro scelte. Alcune scelte personali hanno però un raggio d’azione che va oltre l’esistenza dei loro titolari e, per tale ragione, finiscono col riguardare anche le nuove generazioni, potendo determinare il loro grado di benessere e la loro stessa esistenza. Viene allora in rilievo il problema delle relazioni intergenerazionali. I colonizzatori del nuovo mondo potrebbero decidere di mettere completamente a loro disposizione la manna ed escludere dal godimento della stessa le nuove generazioni? La risposta di Ackerman è negativa. Alle generazioni successive occorre garantire un’eguale porzione di manna. Tuttavia emerge una contraddizione nella teoria di Ackerman secondo cui l’attuale generazione avrebbe il diritto di rifiutarsi di avere dei figli, se questa è la concezione del bene prevalente, poiché «uno spirito che non otterrà mai un corpo terreno non potrà mai porre la richiesta di legittimazione; (…) le sue non domande 178 È interessante a tal fine ricordare la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana che vieta, sotto qualsiasi forma, la riorganizzazione del disciolto partito fascista. 179 H. Arendt, Che cos’è la libertà, in Ead. Tra passato e futuro, trad. it. Garzanti, Milano 1991, p. 196. 167 richiedono non-risposte»180. In questa prospettiva l’autonomia dei soggetti potrebbe spingersi al punto da determinare la fine del genere umano e così facendo il valore assoluto della vita non riesce, neanche in questo caso, ad affermarsi. Ma il potere di bloccare la successione generazionale non incorre in definitiva nel divieto di superiorità incondizionata per cui l’esistenza degli attuali soggetti è reputata, vista la sua incidenza nei fatti, superiore a quella di coloro che naturalmente verrebbero ad esistere? Se come dice Ackerman, i cittadini non possono consumare l’intera manna perché mai potrebbero consumare il mondo intero? In definitiva la scelta di tali soggetti incide non solo, come legittimo, sulla propria esistenza, ma su quella dell’intero pianeta. Ed il mondo non ha diritto di sopravvivere? Se invece messi al mondo, i figli delle successive generazioni hanno diritto ad avere la stessa quantità di manna ricevuta dai loro genitori. Ciò si giustifica in ragione del fatto che un giorno le nuove generazione, depredate della loro uguale porzione di manna, potrebbero contestare la scelta dei genitori arguendo che «noi pensiamo che tutti i cittadini abbiano lo stesso valore a prescindere dalla loro data di nascita. E se noi valiamo almeno quanto voi, dovremmo cominciare la nostra vita perlomeno con la stessa quantità di manna con cui avete cominciato voi»181. Da ciò ne deriva che i cittadini devono mettere al mondo un numero di figli proporzionato alla quantità di manna che sono in grado di mettere a loro disposizione rispondendo così chiaramente ad un principio di responsabilità. Quand’anche la propria concezione del bene consistesse nell’avere un numero elevato di figli ai quali però non si sia in grado di assicurare una vita dignitosa, essa dovrà recedere dinnanzi alla possibilità di dar vita ad esseri infelici e dunque dinnanzi alla violazione del principio di uguaglianza morale dei soggetti che deve essere invece assicurato quale che sia la data di nascita. D’altra parte, una cattiva forma di tutela generazionale, non è meno biasimevole di un furto consumato ai danni di un concittadino. «Qual è infatti - afferma Ackerman - la differenza fra sottrarre i possessi iniziali del vostro prossimo e sottrarre i possessi di un cittadino di cui sapete che sarà un vostro prossimo? È vero che la parte lesa non contesterà immediatamente la vostra azione, ma in questo modello abbiamo postulato che verrà un momento in cui l’Anziano sarà chiamato dal Giovane a render conto della sua condotta. E in quel momento l’Anziano non troverà niente di Neutrale da dire a difesa dell’atto di aver privato il Giovane del diritto ad una posizione di partenza uguale alla sua»182. La giustizia tra le generazioni esige dunque che la prima, la seconda e le altre successive generazioni abbiano la stessa porzione di manna e nulla di più. Ackerman pertanto si discosta dal piano del giusto risparmio di Rawls secondo il quale occorre che la prima generazione predisponga uno schema distributivo 180 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., p. 172. Op. cit., p. 171. 182 Op. cit., p. 281. 181 168 in virtù del quale la seconda generazione risulti più avvantaggiata della prima, che la terza risulti più avvantaggiata della seconda e via di seguito, finendo per prevedere una situazione di benessere che cresce nel tempo. Infatti, secondo Rawls il principio del giusto risparmio «rappresenta un’interpretazione, raggiunta nella posizione originaria, del dovere naturale precedentemente accettato di sostenere e far progredire le istituzioni giuste»183. La soluzione di Ackerman, alternativa al programma del giusto risparmio, non sembra in realtà migliore, perché è pur vero che ognuno auspicherebbe di vivere a partire dalla seconda generazione e che dunque gli appartenenti alla prima si ritrovano ad avere risorse inferiori a quelle dei loro discendenti, tuttavia, gli appartenenti alla prima generazione vengono ugualmente tutelati dal principio di differenza poiché ciò che loro conta è che gli svantaggiati possano trarre profitto dalla disuguaglianza nei confronti dei loro concittadini, poiché è plausibile che ragionino in una visione di hinc et nunc e potrebbero non avere nulla in contrario, come farebbe ogni persona ragionevole, ad un crescente benessere delle generazioni successive, come non si ha nessun interesse ad impedire che il progresso tecnico e scientifico raggiunga sempre nuovi e migliori traguardi. Nessuno direbbe mai che è ingiusta rispetto alle precedenti generazioni la nostra possibilità di utilizzare l’illuminazione elettrica, gli aerei, i telefoni ed Internet. Rawls d’altra parte ha avuto modo di sottolineare che comunque la relazione tra le generazioni non dà luogo a difficoltà insuperabili ed ha trovato fuori luogo l’obiezione suddetta, perché è evidente – egli afferma – che «noi possiamo fare qualcosa per i posteri, ma essi non possono far nulla per noi. La situazione non può essere mutata, e quindi non si pone alcuna questione di giustizia. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni trattano i limiti naturali, e il modo in cui esse sono strutturate per trarre vantaggio dalle possibilità storiche»184. L’uguaglianza morale degli appartenenti alle giovani generazioni può essere violata anche attraverso il fenomeno successorio. Dal momento che i cittadini hanno la più ampia libertà di scegliere come utilizzare la propria porzione di manna, potendola anche distruggere se ciò gli arreca piacere, nulla esclude che questi stessi soggetti possano voler che i rispettivi figli partano, nella corsa della vita, da una posizione economica più vantaggiosa rispetto ad altri. Per raggiungere tale scopo, i genitori potranno ad esempio aver risparmiato e accumulato un’ingente quantità di manna da lasciare in eredità ai loro successori. La situazione che verrebbe a crearsi non sarebbe meno lesiva dell’uguaglianza morale dei soggetti rispetto all’ipotesi sopra presa in considerazione. Infatti, l’effetto di tale scelta comporterà l’esistenza di soggetti più favoriti di altri, che andranno sicuramente incontro alle contestazioni degli sfavoriti. Come poter allora giustificare e permettere la volontà dei genitori di 183 184 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 245. Op. cit., pp. 246-247. 169 avvantaggiare i propri figli? Lo si potrebbe fare facendo appello all’argomento del vantaggio generale, o al concetto di uguaglianza di sacrifici, per cui i soggetti sarebbero disposti a rinunciare all’eguale porzione di manna alla condizione che la disparità di dotazione torni comunque a loro vantaggio. Appare dunque plausibile ammettere privilegi speciali per pochi se i diritti di tutti ne vengono arricchiti e ciò si potrebbe realizzare attraverso la previsione di tasse di successione. In questa soluzione si possono cogliere gli echi del principio di differenza di Rawls che considera tollerabili le disuguaglianze che si rivolgono a vantaggio dei meno avvantaggiati. 3.4. L’ingegneria genetica. Il rapporto tra le generazioni rileva anche sotto il profilo genetico. La questione che si pone a questo punto è quella dell’uso dei poteri che la tecnologia mette sempre più a disposizione in tale settore. Un dato incontrovertibile è che il confine tra l’uguaglianza e la disuguaglianza tra i soggetti passa non solo per la quantità di risorse e di benessere, la qualità dell’educazione, ma anche per la salute cagionevole o vigorosa. Ed allora entro quali limiti si possono usare gli strumenti tecnologici e scientifici nell’affascinante dominio genetico sempre meno misterioso? Se ci fosse un Genetista Capo capace di fare bambini in provetta, a comando, assecondando tutte le preferenze dei genitori, tutto ciò sarebbero giusto, oltre che lecito, in uno Stato liberale? Ammettiamo che una coppia di genitori abbia deciso di avere tre figli e per tutti e tre abbia garantito un’eguale porzione di manna. Potrebbero questi genitori sfruttare i mezzi che la tecnologia offre per far sì che il primo figlio sia alto, biondo, con gli occhi azzurri, amante dell’arte e della musica e vegetariano, il secondo di media statura, capelli neri, occhi verdi, amante della matematica e goloso di dolci, il terzo con un fisico imponente, con poco cervello ma moltissima abilità nei giochi olimpici e amante della dieta mediterranea? Se tutti i genitori possono addirittura decidere di non avere figli, determinando la fine della specie umana con la loro morte, perché non permettere loro di creare esseri così perfetti superiori a chi, nato naturalmente, presenta gravi handicap o anche a chi si ritrovi con un aspetto fisico poco piacevole, con un’intelligenza mediocre e senza alcun gusto estetico, ma con un buon cuore? Ackerman sostiene che i genitori non possono manipolare a proprio piacimento il patrimonio genetico dei figli poiché se è pur vero che in uno Stato liberale è riconosciuta la più ampia libertà di decidere cosa fare della manna, la differenza che c’è tra la manna e il corredo genetico dei figli sta nel fatto che mentre i figli generati in provetta potranno un giorno contestare le scelte operate dai loro genitori, un pezzo di manna non potrà mai contestare al suo titolare l’uso che questi ne abbia fatto. Con riferimento all’esempio sopra presentato, potrebbe accadere che il primogenito dei tre figli contesti la scelta dei suoi genitori, perché anziché essere un esteta avrebbe di gran lunga preferito passare le 170 proprie giornate in uno stadio olimpico temprando il proprio fisico con gli effetti della ginnastica, piuttosto che trascorrere la maggior parte del suo tempo chiuso nei musei o nei teatri. Per questa ragione, Ackerman sostiene che i genitori non possono usufruire dei mezzi della tecnologia per assecondare i loro gusti, ma potranno invece attraverso un’educazione liberale, che favorisca la realizzazione delle attitudini dei figli, prospettare lo stile di vita loro più gradito, lasciando però agli stessi la massima libertà di non seguirlo. Questa soluzione appare condivisibile se non si vuole un mondo pieno di infelici, ma sensibili Frankenstein le cui richieste, noi Prometei moderni, non saremmo più in grado di soddisfare e ciò al fine di evitare, quale eterogenesi dei fini, il risultato di una modernizzazione non più desiderata, ma subita. Ora, se invece di generare bambini secondo il gusto dei genitori, si trattasse di poter dare la vita solo a bambini sani ai quali non si garantisse niente di più che una buona salute, questa possibilità sarebbe biasimevole? È possibile pensare che un bambino sano una volta cresciuto possa contestare ai suoi genitori di averlo corredato di un sano patrimonio genetico? Chiaramente no, ma si potrebbe evitare che lo faccia un figlio portatore di handicap. Ed allora Ackerman sostiene che se tutti i cittadini pensassero che un determinato corredo genetico possa determinare una situazione di dominio genetico, il Genetista Capo lo potrà escludere. Occorre però che tutti i cittadini o gruppi di cittadini abbiano questa credenza. Se lo ritenesse invece un solo soggetto, questo non sarebbe possibile, perché, afferma Ackerman, si lascerebbe aperta la porta agli impostori, a coloro cioè che si serviranno dei mezzi genetici per perseguire obiettivi illiberali. Nell’esempio presentato da Ackerman, si vuole impedire che un soggetto, al fine di imporre i propri ideali al figlio, nella scelta tra l’avere un figlio sano, ma con un carattere poco influenzabile ed uno malato con un docile carattere, possa scegliere la seconda opzione. Tuttavia il problema si manifesta allorché Ackerman afferma che se un gruppo di persone reputasse che un certo corredo genetico di tipo B sia migliore, sebbene darà la vita ad esseri ciechi, sordi e muti, che portano però con sé nell’esempio fatto da Ackerman - il marchio dell’approvazione divina, allora si potrebbe dare via libera al Genetista. Siamo sicuri di poter escludere che una volta cresciuti tali soggetti non benediranno il giorno in cui i rispettivi genitori hanno avuto questa brillante idea? Perché mai permettere ad un intero gruppo di generare esseri infelici e non permetterlo a due soli genitori? La dittatura può essere esercitata anche da gruppi e non solo da singoli soggetti185. Emerge allora, dal modo con cui Ackerman affronta le questioni finora considerate, che egli tende a sconfinare verso posizioni utilitariste, il che vuol dire che non essendoci un parametro definitivo o assoluto di giustizia, 185 Invece, proprio il pericolo della dittatura, porta Ackerman ad escludere che quella scelta possa essere fatta da un solo soggetto. 171 quest’ultimo potrebbe limitarsi a coincidere con ciò che la totalità del gruppo crede e che, come è evidente, non offre, in definitiva, garanzia alcuna di giustizia. 3.5. Il concetto di Undominated equality. A questo punto è possibile introdurre il concetto di undominated equality che rappresenta nell’ingegneria de La Giustizia sociale nello stato liberale l’equivalente del principio di differenza rawlsiano in Una teoria della giustizia. Essendo giunto ad affermare che il modo migliore per procedere alla distribuzione della manna nell’ambiente irreale del nuovo mondo, sia quello egualitario, consapevole che nella realtà in cui viviamo nessuno Stato possa effettivamente fare in modo (neanche con riguardo ad una sola generazione) che i suoi membri possano partire con uguaglianza di risorse in tutti i campi (dalla salute ai rispettivi patrimoni), la strategia che i governanti dovrebbero attuare, per equalizzare le differenze, è quella di procedere ad una compensazione dei vantaggi e degli svantaggi economici e sociali, attraverso un programma politico che premi chi ha avuto di meno in certi ambiti, con qualcosa di più in altri. Questo piano dovrebbe attuare una compensatio dell’aliquid mancante con un’aliqua re e scongiurare così quella che Ackerman definisce una situazione di sfruttamento ovvero una situazione di ingiusta diseguaglianza. Il piano compensativo dovrebbe attuare un meccanismo di tutela negativo ed uno positivo. Per fare un esempio, ad un bambino cieco si dovrà garantire, sotto il profilo negativo, che la cecità non lo discriminerà in altri settori, per cui la qualità dell’educazione dovrà essere uguale a quella che ricevono i bambini sani, poiché «il fatto che i ciechi subiscano un’ingiustizia non è un buon motivo perché ne debbano subire un’altra»186. Un serio piano di tutela dovrà poi fare in modo che in almeno un altro settore il bambino sia più avvantaggiato degli altri, ad esempio sotto il profilo della quantità di risorse. Quest’ultimo è l’aspetto positivo del piano in questione che prevede dunque un’assistenza speciale attraverso un equipaggiamento maggiore per i soggetti affetti da patologie invalidanti. In tal modo, Ackerman non incorre nella critica con cui dovette fare i conti Rawls, quella cioè di trattare allo stesso modo situazioni diseguali, allorché il suo piano di tutela poteva ritenersi soddisfatto una volta realizzata l’eguaglianza delle risorse. È pur vero che nessuna somma di denaro potrà equivalere alla funzione della vista, ma almeno una quantità di risorse maggiori equivarrà a migliorare la situazione dal momento che un soggetto colpito dalla cecità andrà incontro a spese maggiori soprattutto nel campo dell’istruzione rispetto ai soggetti sani. 186 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., p. 330. 172 Nell’esigenza di procedere individualmente con riferimento a ciascun soggetto, all’opera di compensazione negativa e positiva, Ackerman dimostra una particolare attenzione per tutti i soggetti morali dal momento che ognuno vale quanto ciascun altro, ed in virtù di ciò, attesa la grande particolarità e diversità di circostanze di vita in cui ci si può venire a trovare, l’attività di intervento dello Stato non può procedere mediante un ragionamento condotto per gruppi di individui, come faceva Rawls quando parlava della classe meno avvantaggiata, poiché esso finirebbe per passare sopra e sommergere soggetti che, pur non rientrando nella definizione del gruppo, abbisognano ugualmente di tutela. Infatti l’attenzione verso il soggetto non può tradursi in una tutela dello stesso in quanto uomo, (categoria evanescente utile per le vuote declaratorie ma inutile sul piano della tutela), ma in quanto persona perché, fissando lo sguardo su un luogo preciso e adottando una prospettiva più ampia e sensibile si può prestare la giusta attenzione alle effettive condizioni personali e sociali dell’individuo e provare a trovare la soluzione più adatta alle sue esigenze. Se l’ottica nella quale interviene lo Stato è ad personam l’uguaglianza morale dei soggetti, lungi dal restare una conquista ideale contemplabile nel puro mondo delle idee, diventa un principio operativo e si traduce in un meccanismo pratico di efficace perequazione che consente di invalidare non solo l’ingiustificato godimento di risorse da parte di qualcuno (apportandovi dei correttivi), ma anche la stessa attività statale che, se non corregge le disuguaglianze immeritate, finisce per essere intollerabilmente ingiusta dal momento che - come disse Rawls - la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali (come la verità lo è dei sistemi di pensiero). E dunque, uno Stato che non pratichi la giustizia non si giustifica né moralmente né giuridicamente. 3.6. Il valore della neutralità dello Stato. Nel perimetro della cittadinanza lo Stato si adorna delle vesti della neutralità, reputando indifferenti le diverse concezioni del bene, garantendo ai cittadini la più ampia libertà di autodeterminarsi, di scegliere cioè cosa fare della propria esistenza ed in tal maniera li rispetta come esseri pienamente morali. Lo Stato non potrebbe indicare ai cittadini né quale sia la via migliore per conseguire il bene, né quale sia il bene da raggiungere, ma gli uomini possono sostenere una qualunque concezione etica e politica che ritengono valida a loro «insindacabile giudizio»187 . Nessuno, fuorché il soggetto stesso, può stabilire cosa sia il bene e come conseguirlo, anche in ragione del fatto che ogni individuo è diverso dall’altro e pur in presenza di affinità culturali o di identità di valori, la concezione del bene può essere diversa. Questa idea di autonomia morale trova 187 P. Chiassoni, Ackerman e il fantasma della libertà, in Materiali per una storia della cultura giuridica, a. XIV, n. 2, dicembre 1984, p. 549. 173 una prima formulazione nel pensiero di Aristotele che nell’Etica Nicomachea definisce morale l’azione che è deliberata e scelta liberamente da chi la compie ed è presente anche in Kant per il quale il soggetto morale è il legislatore di se stesso poiché «nessuno, - afferma il filosofo - può costringermi ad essere felice a suo modo (nel modo cioè in cui egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ad ognuno è lecito ricercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché alla libertà degli altri di tendere ad analogo scopo, (libertà che può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale), egli non rechi pregiudizio alcuno (cioè non pregiudichi questo diritto degli altri)»188. Questo principio di libertà insieme a quello di uguaglianza e di indipendenza di ogni membro in un corpo comune in quanto cittadino, è il fondamento dello stato civile. Il principio di libertà ha in odio un governo paternalistico nel quale i sudditi vengano concepiti alla stregua di figli minorenni che in quanto incapaci di discernere ciò che per loro è utile da ciò che è dannoso, devono passivamente attendere che il capo dello Stato giudichi al posto loro in quale modo devono essere felici. Il bene pubblico che deve innanzi tutto essere tenuto in considerazione è «quella costituzione legale che garantisce a ciascuno la sua libertà mediante le leggi; con ciò rimane a lui lecito di cercare la sua felicità per ogni qualsiasi via che gli sembri la migliore, purché egli non violi quella libertà generale conforme alla legge, e quindi il diritto degli altri sudditi consociati»189. La neutralità dello Stato comporta secondo Ackerman la necessità che l’azione pubblica realizzi gli ideali di imparzialità, non-discriminazione ed eguaglianza di rispetto attraverso un atteggiamento antiperfezionistico per cui lo Stato non è tenuto a rendere moralmente migliori i cittadini. L’antiperfezionismo permette di raggiungere i due importanti obiettivi della coesistenza pacifica e dell’uguale libertà, perché l’indifferenza dello Stato di fronte alle diversità esclude che i disaccordi morali e religiosi possano sfociare in conflitti politici e sociali e che le convinzioni di alcuni possano ritenersi privilegiate rispetto alle altre. Il concetto di neutralità non esclude tuttavia che individui liberi, uguali e razionali possano concordare su «considerazioni non contestuali ed accessibili ad un uditorio tendenzialmente universale»190. In questo modo esso supera la relatività del pensiero morale che in quanto è anche ragionamento morale è aperto a tutti coloro che sono dotati di ragione191. In questo contesto viene in gioco il principio di universalizzabilità di Habermas che si applica alle questioni morali che, a differenza delle questioni etiche che 188 I. Kant, Sul detto comune: «ciò può essere giusto in teoria ma non vale per la prassi», cit., p. 154; [I. Kant – “Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” - 1793 - trad. Maria Chiara Pievatolo]. 189 Op. cit., p. 161. 190 M. La Torre, Diritti umani, in Questioni di vita o morte, cura di M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa, A. Scerbo Giappichelli, Torino 2007, p. 13. 191 Ibidem. 174 concernono le scelte esistenziali del soggetto connesse alla sua visione della «vita buona», riguardano le questioni di giustizia aventi ad oggetto le relazioni intersoggettive. Le questioni dunque morali sono suscettibili di essere universalizzate e tali da poter ottenere su di esse l’overlapping consensus a cui faceva riferimento Rawls, mentre le questioni etiche connesse ad una «forma di vita già data o a un certo programma di vita, non possono essere affrontate da un punto di vista esclusivamente e fortemente normativo»192. Tuttavia mentre i principi di giustizia di Rawls ottengono il consenso dei soggetti rappresentativi della scelta, i principi di Ackerman non sono il prodotto di un accordo razionale, venendo invece piuttosto imposti ed il loro rispetto non dà garanzia che l’appello, sebbene universale, sia il frutto di un consenso consapevolmente formatosi su di essi. Il valore della neutralità dello Stato nella versione proposta da Ackerman presta il fianco ad alcune critiche di Habermas. Infatti se la neutralità implica che il «giusto ha preminenza sul bene – una preminenza fondata sulla logica dell’argomentazione - e dunque che le questioni di vita buona devono retrocedere dietro le questioni di giustizia»193, essa vuol anche dire che le questioni etiche devono essere estromesse dal discorso politico? Se così fosse allora, la neutralità sarebbe intesa come «conversational restraint» [discorso ristretto] ed il potere politico risulterebbe dimidiato della forza necessaria a far sì che vengano trasformati «razionalmente atteggiamenti prepolitici, interpretazioni di bisogni e orientamenti di valore»194. In questa prospettiva la neutralità prescriverebbe di non indagare le questioni pratiche che sono «prima facie» controverse; essa fa in modo che le questioni di bene siano trattate come mere faccende «private»195 e viene ad essere garantita dall’esistenza di regole di astensione preventiva, dette anche «gag rules» [regole bavaglio] (come il principio di neutralità di Ackerman) che però estromettendo le questioni etiche dal dibattito pubblico, impediscono di scandagliare e «sondare le possibilità inerenti a un’intesa discorsivamente raggiunta»196. Ed infine un’ultima considerazione, la procedura di Ackerman potrebbe risultare solo apparentemente neutrale poiché anch’essa sembra prediligere una particolare concezione della vita buona che è appunto la concezione liberale. A tal fine ci si potrebbe chiedere: «la neutralità dello Stato è giusta in quanto veramente neutrale o è giusta perché cara allo Stato, ovvero perché sostenuta dallo stesso?». Su una questione analoga, relativa alla santità ed all’empietà, discorse Socrate con Eutifrone nell’omonimo dialogo platonico. Eutifrone che non aveva esitato ad accusare suo padre per l’omicidio di un servo a sua volta 192 M. La Torre, Norme, istituzioni, valori, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 269. J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 366. 194 Ibidem. 195 Op. cit., p. 367. 196 Ibidem. 193 175 assassino, interrogato da Socrate su ciò che è santo afferma: «è santo ciò che è caro agli dèi, e ciò che non è caro non è santo»197. Questa definizione però finisce per sottrarre al concetto di santità ogni rilevanza sostanziale e lo fa coincidere con ciò che (anche arbitrariamente) piace agli dèi. Socrate chiaramente non può che contestare tale visione. Allo stesso modo se del concetto di neutralità non si porta avanti una qualche dimensione sostanziale ad esso sottesa (ovvero la predilezione della concezione liberale quale ideale della vita buona), la sua applicazione in uno Stato liberale non può in definitiva che giustificarsi in virtù del fatto che piace allo Stato. Per superare questa obiezione Habermas ritiene allora che si dovrebbe provare che il principio di neutralità di Ackerman rientra «in una prassi che è senza alternative ovvero inevitabile»198 e una prassi è inevitabile «quando – in modo non surrogabile da altre prassi – adempie a certe funzioni vitali»199 che impedisce come dice Ackerman stesso “gli estremi della scomunica e della repressione violenta”. Le quattro strade maestre tracciate da Ackerman verso la neutralità liberale sono: il realismo sulla corrosività del potere, il riconoscimento del dubbio quale necessario passo verso la conoscenza morale, il rispetto dell’autonomia degli uomini, lo scetticismo riguardo alla realtà del significato trascendente. Per quanto riguarda quest’ ultimo aspetto dello scetticismo liberale esso si basa sulla dura verità che «non esiste nessun significato morale nascosto nelle profondità dell’universo. Tutto ciò che esiste siamo voi ed io, che lottiamo in un mondo che non è stato creato né da noi, né da alcun altro essere»200. Da questa constatazione ne deriva che gli unici significati che possiamo conoscere sono quelli creati dagli uomini, benché passeggeri e superficiali. 4. Conclusioni. Partendo dal contesto immaginario e atipico del mondo ideale descritto ne La giustizia sociale nello Stato liberale, attraverso la metafora della “manna”, Ackerman trova il sistema per poter affrontare una pluralità di questioni, mettendo in evidenza che il problema della giustificazione del potere pur se riguarda in primis quello esercitato dallo Stato, coinvolge altresì ulteriori rapporti: quelli infra e inter-generazionali, quelli tra genitori e figli, famiglia e scuola, non esimendo nessuno dal compito necessario di giustificare l’uso di un certo potere. Il fondamento storico della giustificazione del potere da parte dei governanti, risale alla fine del ‘700, ed in particolare all’epoca della rivoluzione francese ed 197 Platone, Eutifrone, Tutte le opere, a cura di E. V. Maltese, Newton e Compton editori, Roma 2005, vol. I, [7a], p. 39. 198 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 368. 199 Ibidem. 200 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, cit., 478. 176 americana le quali hanno portato all’affermazione dello Stato di diritto e del principio della sovranità popolare, abbattendo la figura del sovrano legibus solutus che poteva liberamente affermare sic volo, sic iubeo. La sovranità, ora appartenendo al popolo, fa sì che i governanti debbano rispondere del loro operato nei confronti di quest’ultimo e non più unicamente nei confronti di Dio. Questo cambio di referente impedisce che si possano ammantare della volontà di Dio decisioni e poteri che trovano origine nel puro e semplice arbitrio del sovrano. Come nello Stato liberale non sono permessi poteri legittimati dall’uso della forza, così nella famiglia, nella scuola e in qualsiasi altro contesto, secondo Ackerman, occorre il rispetto della procedura indicata dal dialogo vincolato, il quale ammette solo quelle giustificazioni di potere conformi ai princìpi di razionalità, coerenza e neutralità. Tra questi princìpi, quello di neutralità assume le vesti di leading rule, in quanto garantisce, ai cittadini di uno Stato liberale, la massima libertà nel perseguire la propria concezione del bene e, impedendo che siano ammesse imposizioni e costrizioni in tal senso, assicura il diritto di ogni individuo ad autodeterminarsi liberamente. Da ciò si ricava che il valore connesso alla persona umana è invariabile poiché non è condizionato nel suo riconoscimento all’adesione ad una determinata concezione del bene (magari quella che uno Stato totalitario potrebbe imporre), essendo piuttosto legato all’essere uomo quale membro di una collettività e portatore di una qualsivoglia concezione del bene. Il compito di uno Stato liberale consiste nell’assicurare ai cittadini il suo attivo intervento nell’opera di bilanciamento delle varie risorse, sopperendo alle diseguaglianze genetiche, educative ed economiche che la realtà presenta. Si individuano così i due tipi di azioni che lo Stato liberale deve tenere: una negativa e un’altra positiva. L’azione negativa è connessa come si è visto al valore della neutralità ed impedisce che lo Stato possa imporre una determinata concezione del bene, l’azione positiva invece rigetta la figura dello Stato guardiano prevedendo piuttosto un suo attivo ed efficace intervento, in chiave di protezione delle posizioni dei soggetti deboli ed al fine di attuare le finalità della giustizia sociale. La teoria di Ackerman sulla giustizia è dunque caratterizzata dalla convinzione che il dialogo sia la miglior forma per realizzare l’ideale liberale che si sostanzia in un ordine sociale in cui soggetti liberi siano nelle condizioni di perseguire il bene a modo proprio entro una struttura di potere giusta che riconosce nell’uguale rispetto e considerazione di tutti i cittadini, il mezzo per addomesticare la lotta per il potere adottando misure adeguate a garantire che: 1) nessun cittadino domini geneticamente un altro; 2) ciascun cittadino riceva un’educazione liberale; 3) ciascun cittadino inizi la vita adulta in condizioni di uguaglianza materiale; 4) ciascun cittadino possa liberamente scambiare i suoi diritti iniziali all’interno di un sistema transazionale flessibile; 5) ciascun cittadino, al momento della morte, possa asserire di avere adempiuto ai suoi 177 doveri di tutela liberale lasciando alla generazione successiva una struttura di potere non meno liberale di quella di cui egli stesso ha usufruito. Il passaggio dal contesto ideale del nuovo mondo a quello reale in cui viviamo, non dà spazio all’illusione di avere trovato la pronta soluzione dei conflitti sociali attraverso le regole del dialogo neutrale, tuttavia non toglie la convinzione che l’impegno collettivo nella politica può trasformare in una forma di vita ciò che appare ancora soltanto uno scheletro201. Paola Chiarella Paola Chiarella è dottoranda di ricerca in Teoria del diritto e ordine giuridico europeo, Università Magna Graecia di Catanzaro. 201 Op. cit., p. 350. 178 La crisi dell’identità comune ____________________________ Il mercato unico non basta più: l’Europa ora punti sulla cultura di Antonio Puri Purini Se i Paesi fondatori dell’Unione Europea – soprattutto Francia, Germania, Italia – avessero a suo tempo deciso che anche la cultura, non solo l’economia, è fondamentale per fare avanzare l’Europa, non ci troveremmo oggi di fronte a una pericolosa contraddizione: da un lato, la condivisione di una moneta unica e di uno spazio senza frontiere; dall’altro, il ritorno aggressivo di fenomeni di nazionalismo, populismo, individualismo. Questi insidiosi avversari dell’unità europea sono attivi in vari Paesi: in Ungheria, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Italia, in Slovacchia. I problemi economici e finanziari sono prevalenti ovunque. Detto questo, se si vuole arrivare e bisogna riuscire, al sentimento di comune appartenenza necessario a far funzionare l’Europa, è essenziale spiegare perché si vive insieme e che cosa significhi vivere insieme. Questa è cultura. Altrimenti non esisterà mai un’unità europea e ogni Paese si ritroverà prigioniero di egoismi e pregiudizi. La cultura, come desiderio di stare insieme e finezza di sentimenti, è la somma di molte componenti: da Bach a Verdi, da Raffaello a Mondrian, da Cervantes a Proust; ne fanno parte anche le voci di tanti cantautori. Ne abbiamo bisogno come antidoto agli antagonismi, riscoperta di legami comuni, strumento per sorridersi, reazione all’egoismo. Una convivenza serena non turbata da giudizi sommari e risentimenti farà alla fine funzionare meglio anche il mercato unico. Nel mondo globalizzato, costituisce inoltre una garanzia contro la perdita d’identità: l’unitarietà della cultura europea ci difende dai processi d’omologazione imperanti. L’Unione Europea viene spesso descritta come una comunità di destini basata su comuni valori. Ma quanti vi credono veramente? E’ ridicolo parlare di un destino comune se non si compie poi lo sforzo per unire gli europei nella salvaguardia della propria eredità storica e culturale. Siamo lontani da questo traguardo: abbiamo anzi fatto dei passi indietro. Alcuni decenni orsono, le televisioni europee proponevano programmi culturali di altissima qualità nella fascia oraria di maggiore ascolto (dai film storici di Roberto Rossellini alla serie televisiva Civilization di Kenneth Clark); la televisione italiana produceva anch’essa programmi eccellenti, oggi sacrificati al mercato. Invece di spiegare alle giovani generazioni che l’unità europea è un investimento nel futuro ed un’avventura affascinante che rende consapevoli del filo rosso che ci unisce, l’Unione Europea ha trascurato tradizione umanistica e capitale umano. Ha puntato sul funzionalismo. I Paesi portatori storici del progetto europeo hanno fatto trionfare l’indifferenza. Le pur ottime stagioni 179 musicali o esposizioni museali in tutta Europa non riescono a nascondere l’arretramento generale subito dalla cultura. Le classi dirigenti hanno dimenticato che una visione umanistica costituisce un valore aggiunto per l’Europa intera e una garanzia per la democrazia. Ognuno dovrebbe essere consapevole d’operare in un sistema unitario di valori. L’autodifesa e la chiusura che scaturiscono dall’accantonamento del capitale umano sono la sorgente dell’ignoranza, di pregiudizi, di risentimenti. I danni provocati dall’indifferenza sono molteplici. La crescente emarginazione della storia, dell’arte, della letteratura dai programmi scolastici ha portato all’esaltazione dell’apparenza, alla concentrazione sul localismo, all’accantonamento della solidarietà. I fatti perdono d’importanza perché non devono essere appresi; la scelta avviene su Internet; la memoria diventa quindi irrilevante; il passaggio all’oblio è rapido. Il mondo esterno, con cui dobbiamo confrontarci giorno dopo giorno, perde di valore. Basti vedere in quale misura – il caso dell’Italia è sintomatico – si moltiplica in Europa il trionfo della bruttezza sulla bellezza. Il patrimonio culturale di molti Paesi viene maciullato, gli interessi privati impongono sempre il proprio punto di vista. Ne consegue che la cultura, questo è il caso dell’Italia, non offre quasi più sbocchi professionali a giovani preparati ed entusiasti. Bisognerebbe mettere mano a parecchie modifiche: non solo nei programmi universitari o nella collaborazione fra i musei, ma soprattutto nella sensibilità delle persone. Serve una politica trasparente sulla difesa del paesaggio naturale e urbano europeo. Serve una televisione, certamente in Italia, capace di guardare all’Europa. Anche gli intellettuali potrebbero fare molto di più: incalzare, motivare, spiegare. Per dimostrare che l’Europa non è una nozione geografica, ma una vera comunità culturale, bisogna passare dai propositi ai fatti. Non si tratta d’indugiare nel rituale richiamo alle comuni radici della classicità, del cristianesimo, del rinascimento, dell’illuminismo, dei diritti umani. La cultura va proiettata sul presente: la cultura è vita e humanitas. Garantisce che l’Europa si sviluppi non sulla base di un’aggregazione generica ma attraverso il sapiente incastro di tasselli che formano un mosaico comune. Non siamo lontani dalla meta. Sappiamo di condividere una civiltà comune: i contrassegni – le piazze, le chiese, i palazzi – lo ricordano continuamente. Sentirsi europei significa aggiungere una dimensione alla propria città, al proprio paese: quella europea. Per riuscire, abbiamo bisogno che la politica affronti questi argomenti con determinazione e responsabilità. In Italia questo oggi è un sogno. Spetta quindi alla società civile farsi carico di responsabilità abbandonate dalla politica in attesa di tempi migliori. Antonio Puri Purini L’articolo sopra riprodotto è stato pubblicato il 13 agosto 2010 da Il Corriere della Sera. Ringraziamo l’autore e la direzione del giornale per la gentile concessione. 180 ,QYLWRDOODOHWWXUD a cura di Gianmaria Merenda 181 George Steiner, Heidegger Garzanti, Milano, 2002, pp. 197 George Steiner, nato a Parigi nel 1929, è uno dei più importanti e influenti letterati dei nostri tempi. Ha insegnato in numerose università, e tra le più prestigiose: Princeton, Stanford, Cambridge, Oxford e Ginevra. In questo suo libro su Heidegger (scritto nel 1978) Steiner fornisce una avvincente introduzione al filosofo tedesco. Non essendo un ‘filosofo di professione’ Steiner si preoccupa, fin dall’introduzione, del linguaggio di Heidegger: quindi si impegna in modo professionale sulla filosofia heideggeriana, più di quanto possa fare un approccio più tecnico-filosofico. Immediatamente siamo messi al cospetto di un dilemma pressoché inestricabile: Heidegger è stato uno dei maestri della filosofia di tutti i tempi o “un ciarlatano prolisso”? Questa domanda nasce dall’accoglienza che gli scritti heideggeriani hanno avuto fin dal loro primo apparire. I fans più accaniti di Heidegger sostengono che il suo filosofare, compreso il personalissimo linguaggio che utilizzò per fare filosofia, è uno degli ultimi esempi di pensiero forte. Un pensiero che, anche solo per essere compreso nel suo semplice dire, richiede un certo impegno e sforzo (ed anche una certa fede). I detrattori più intransigenti invece (pensiamo ad esempio a un Bertrand Russell che nella sua Storia della filosofia occidentale non lo nomina nemmeno) sostengono che Heidegger non ha prodotto nulla di rilevante e quello che ha prodotto lo ha detto in un modo incomprensibile (pensiamo ai glossari che immancabilmente chiudono le edizioni delle sue opere). Steiner, che come abbiamo accennato poco sopra non è un ‘filosofo di professione’, propone una via differente per comprendere il personaggio Heidegger e la sua filosofia. A suo parere, egli fu l’inventore di un linguaggio tutto suo, un ‘idioletto’, perché doveva poter estrarre dal linguaggio la ricchezza originaria di significato che il tempo aveva sepolto e corrotto; i soliti mezzi filosofici non erano all’altezza del suo proposito. Lo stile di Heidegger, che per i più ha un’intrinseca incapacità al dialogo, è per Steiner l’urgenza fatta cosa della necessità di rallentare e trattenere il lettore al cospetto del linguaggio stesso. Solo in questo suo essere trattenuto, il lettore può essere condotto alla profondità originaria del linguaggio, e quindi dell’essere stesso. Per Steiner, Heidegger è un 182 altro ordine e un’altra dimensione del significato e dell’essere: se potessimo cogliere Heidegger in tutta la sua estensione con un solo colpo d’occhio egli non sarebbe più il filosofo che è stato e avremmo di fatto scavalcato tutta la metafisica occidentale. Quindi, a causa dei nostri limiti intellettuali, attraverso Heidegger e attraverso sua filosofia bisogna passare. Altro aspetto indicato da Steiner: Heidegger è il filosofo del transito e del movimento verso l’Essere, basta leggere i titolo di alcuni sui fondamentali scritti per accorgersene: In cammino verso il linguaggio, Holzwege (Sentieri interrotti nella traduzione italiana), Il sentiero di campagna, Soggiorni. Viaggio in Grecia e Segnavia. “Martin Heidegger è il grande maestro della meraviglia, l’uomo il cui stupore di fronte al semplice fatto che noi siamo invece di non essere ha posto un luminoso ostacolo sul sentiero dell’ovvio. Suo è il pensiero che rende dimenticabile un’affabile attenzione, anche momentanea, all’esistere. Nella radura del bosco, cui conducono i suoi sentieri circolari, sebbene non la raggiungano, Heidegger ha postulato l’unità di pensiero e poesia; di pensiero, di poesia e dell’atto più alto dell’orgoglio e della celebrazione umana che è il render grazie. Ci sono metafore peggiori con cui vivere” (p. 182). 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 183 Michele Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di ferro Roma, 2010, pp. 616 Michele Mari è uno degli scrittori italiani tra i più interessanti e versatili: scrive romanzi, poesie, saggi. Scrive con uno stile originale e riconoscibile anche quando cambia genere letterario, una sua cifra d’eccezione che ha il suo essere nella estrema cura della parola. Questo è forse dovuto alla sua professione: insegna letteratura italiana presso l’Università di Milano; o forse la sua professione di docente è conseguente alla sua ossessione per la letteratura. La tecnicità che nasce dal suo conoscere la letteratura più che essere un pesante fardello è per Mari la possibilità di scrivere romanzi mimetici: prosa secentesca, fan accanito dei Pink Floyd, poeta dell’amor cortese adattato ai tempi moderni, pirata in preda ad allucinazioni marinare come in La stiva e l’abisso. Nell’introduzione della raccolta di saggi I demoni e la pasta sfoglia Mari ricorda che gli scrittori prediletti dalla maggior parte dei lettori (Mari offre un lungo elenco in cui sono compresi praticamente tutti i grandi della letteratura mondiale: Poe, Melville, Tasso, Gadda, Conrad, Maupassant, Stevenson, Lovecraft, Gombrowicz, Roth, Gogol’, Céline, Benjamin, Simenon, Manganelli, King, Landolfi, Buzzati, Borges, Proust, Leopardi e moltissimi altri ancora) sono degli ossessi: “Ossessione è da assedio, ma il suo nome scientifico, anancasma, è da destino, ananke. Scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa, sì 184 che nessuna interpretazione mi pare fuorviante come quella che ne riconduce l’opera a un intento salvifico, quasi la scrittura sia solo un surrogato della pratica psicoanalitica” (p. 17). Essi sono delle persone che hanno delle ossessioni che si riversano nello stile, nei temi, nelle storie da loro narrate, volenti o no: la loro scrittura non è salvezza dall’assedio della vita, al contrario è il destino che si materializza. Essi sono persone che vivono e narrano le loro storie “nella loro provvidenziale presunzione di essere un mondo”. I demoni e la pasta sfoglia è lo sguardo gettato sul micro-mondo di ogni scrittore; micro-mondo che per la potenza del pensiero e della letteratura di quegli uomini s’è riversato nel corso della storia nel nostro macro-mondo di lettori accaniti. Ad ogni autore Mari dedica un saggio (qualcuno inedito e altri apparsi negli anni in riviste o altri scritti) in cui sviscera l’amore e la passione dello scrittore - e di Mari medesimo - per quel mondo ideale che solo la letteratura sa creare: Igino Ugo Tarchetti, rappresentante della Scapigliatura milanese, “era convinto che il fine dell’arte fosse svelare le «congiunzioni misteriose» fra la realtà sensibile e il sovrannaturale («Dove rintracceremo noi quella linea che separa l’immaginario dal vero? E nel mondo dello spirito, nelle sue vaste concezioni, esiste qualcosa che noi possiamo chiamare assolutamente reale o assolutamente fantastico?»)” (p. 83). I lettori di questo mappamondo disegnato da Mari non hanno che l’imbarazzo della scelta, ognuno può trovare il suo scrittore feticcio. Gadda, ad esempio, che è talmente ossessionato dal mondo che lo circonda, dagli oggetti che lo occupano, dalle parole che servono a descrivere quegli oggetti e quel mondo, che nel momento in cui mette mano alla penna tutte le parole che lui cesella, che discrimina dal vocabolario italiano, per imbastire i suoi racconti, possono far scaturire un senso del comico anche involontario: “Votato fin da giovane al rimuginante borbottio del misantropo, questo grande introverso ci rapisce e ci spiazza in continuazione perché ogni sua parola è il trionfo di un’istrionica estroversione, e porta seco la contagiosa energia del travaglio alchemico” (pp. 246-47). Oppure si può trovare il comune motivo che ha portato Poe e Melville a scrivere, il primo Storia di Arthur Gordon Pym di Nantucket e il secondo Moby Dick, o la balena. Jeremiah Reynolds al ritorno da una sua spedizione iniziata nel 1829 scrisse 185 Mocha Dick: o, La balena bianca del pacifico. Oppure si può scoprire il senso dei passages parigini descritti da Céline e da Benjamin nelle rispettive opere. Oppure (da non confondere queste curiosità come esempi di un compendio di banale gossip sugli autori, prodotto dalla collezione di Mari) il saggio su Manganelli. Scrittore non ancora ‘gestito’ con sicurezza dalla critica e dai lettori, forse perché letteralmente divorato dalle proprie Furie, forse perché abilissimo gestore della lingua italiana, forse perché capace di “mettere il lettore con le spalle al vuoto” - e non al muro - forse perché: “Di lui si può ben dire ciò che egli ebbe a dire un giorno di Dante: «Era inattuale già ai suoi tempi: un dispettoso, anacronistico, chimerico scrittore; figuriamoci oggi. E avete visto come scrive?»” (p. 558). Michele Mari, in I demoni e la pasta sfoglia, dà una sua interpretazione della letteratura che i suoi (i nostri) scrittori sono capaci di produrre: “è lusso ed è vendetta, e soprattutto non inganna mai: perché ci costringe a credere solo quello che crede l’autore, e nessun autore, come nessun uomo, crede in qualcosa come alle proprie passioni, alle proprie idiosincrasie e alle proprie ossessioni” (p. 19). 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 186 Jacob von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili. Illustrazioni di Georg Kriszat, a cura di Marco Mazzeo, Quodlibet, pp. 164 Il barone Jacob von Uexküll (nato in Estonia nel 1864 e morto a Capri nel 1944) può essere considerato il fondatore dell’etologia contemporanea. Non è poca cosa, anzi. Se pensiamo solo per un attimo alle conseguenze alle quali può portare il sostantivo ‘etologia’ comprendiamo che un intero universo di complicazioni si para di fronte a noi. Von Uexküll si occupò del comportamento animale, ma come compresero immediatamente i filosofi a lui contemporanei, la sua ricerca avrebbe avuto ripercussioni sul comportamento politico, esistenziale e filosofico dell’uomo. Heidegger fu tra i primissimi suoi estimatori. Leggendo Ambienti animali e ambienti umani non si può non cogliere le necessarie implicazioni esistenziali che Heidegger svilupperà nella sua filosofia dell’‘essere-nel-(rispettivo)-ambiente’. L’ambiente che von Uexküll descrive, nel suo scorrevole saggio del 1933 corredato dalle illustrazioni di Georg Kristzat, coincide quasi perfettamente con l’ambiente heideggeriano. Più in là nel tempo, rispetto al presente di von Uexküll, si può capire l’interessamento di altri filosofi che hanno segnato con forza il Novecento: tra i quali, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan, Gilles Deleuze e Giorgio Agamben. L’operazione compiuta da von Uexküll, l’osservazione scientifica del comportamento di insetti, aracnidi e animali, non può che avere ricadute consistenti in una filosofia novecentesca che tenti di spiegare il perché della ‘brevità’ del secolo. Tutti i tragici accadimenti del Novecento possono essere interpretati con l’etica di von Uexküll. Gilles Deleuze, sfrenato spinoziano, affermerà che Etica di Spinoza altro non è che un etologia, un compendio del comportamento animale dell’uomo che vive e non subisce il suo proprio ambiente. L’uomo con l’etologia è ricondotto al suo essere animale, al suo comportamento reattivo rispetto agli stimoli che l’ambiente e la propria struttura percettiva gli impongono. Non ci sono spazi per una morale acquiesciente, tutto si svolge su un piano etico, umano e animale ad un tempo. Essere e tempo sono kantianamente correlati (von Uexküll sarà un buon lettore di Kant assieme all’amico poeta Rainer Maria Rilke) in von Uexküll. Basta leggere questo passo: «La nostra impressione è che il tempo faccia da contenitore per qualunque 187 avvenimento e che, di conseguenza, sia l’unico elemento stabile nel continuo fluire degli avvenimenti. Abbiamo visto, invece, che è il soggetto a dominare il tempo del suo ambiente. Mentre fino ad ora avremmo detto che senza tempo non può darsi un soggetto vivente, ora sappiamo che occorre dire: senza soggetto vivente, il tempo non può esistere» (p. 53). Il saggio di Jacob von Uexküll ha il duplice pregio di poter essere letto per quello che è (l’affascinante trattato di un etologo) e per quello che può essere (un’indagine sull’agire dell’a- nimale uomo). Portando i concetti Umwelt (ambiente), Stimmung (tonalità emotiva) e Umgebung (dintorni) da un contesto ‘naturalistico’ a quello decisamente filosofico, politico ed estetico ad un tempo, si può capire come la ricerca di Jacob von Uexküll sia entrata capillarmente nella filosofia di tutto il Novecento. Diventa quasi un gioco andare a scoprire come i suoi termini si siano prestati alla teoresi della bio-politica. Valerio Magrelli [1] Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 230 Può una poesia dissolversi nelle opere più eterogenee del Novecento? La solubilità del sonetto Recueillement (contenuto nelle Fleurs du mal) di Charles Baudelaire è indagata da Valerio Magrelli. Sono dieci gli autori, tutti francesi tranne Vladimir Nabokov e Samuel Beckett, (quest’ultimo scrisse molte sue opere in francese) che hanno sentito la necessità di inserire un qualche riferimento all’opera di Baudelaire nei loro scritti. In ordine di apparizione: Valéry, Michaux, Céline, Prévost, Colette, Nabokov, Beckett, Queneau, Perec e Houellebecq. Molto affascinanti sono quei capitolo in cui Magrelli va a scovare Recueillement negli abissi degli scritti. 188 Differentemente dai casi in cui la poesia è palesemente presente nelle opere analizzate, come in Prévost, Beckett e Houellebecq, in alcune altre opere si deve compiere un’elaborata operazione di svelamento. Tanto più Baudelaire è nascosto nelle pieghe del testo, tanto più la forza della poesia diventa estrema. Il capitolo dedicato a Nabokov ne è uno splendido esempio. Magrelli sviscera il testo di Recueillement dalle righe di Lolita per far notare quanto Nabokov scriva in lingua inglese utilizzando segni (le parole francesi pronunciate dal protagonista) che di fatto producono una vera e propria appropriazione della cultura europea nei confronti di quella americana. Oppure: Perec nella sua riscrittura lipogrammatica (Perec scrisse un romanzo intitolato La disparition, La scomparsa, in cui non appare mai la necessaria, per il francese, lettera ‘e’) del sonetto di Baudelaire riscrive, ri-traduce da francese a francese, la poesia in una lingua senza lettera ‘e’ riformulando il senso di una scomparsa ben più tragica: ‘e’ come ebreo, ‘e’ come eux (in francese la lettera ‘e’ è omofona al pronome plurale ‘loro’), intendendo i genitori di Perec. Genitori che sono scomparsi nell’orrore della Shoah. Esercizio di stile estremo, l’opera di Perec rende visibile la possibilità di un racconto, una soggettività, che può ancora essere tale anche e nonostante una mutilazione del linguaggio così importante come la mancanza di una lettera. Come indica Magrelli nel capitolo finale del saggio, Logiche di inclusione letterarie (p. 198), «la parabola di Recueillement porta ad interrogarsi sulle logiche che regolano l’inclusione e l’assorbimento, l’assimilazione e la dissimulazione di un testo letterario all’interno di altri». Al di là della ‘semplice’ indagine attorno a un sonetto, per Magrelli si troverebbe la consistente tensione logico-politica di un testo criptico che, nascosto all’interno di altri testi (una lingua nella lingua) produce un’infezione che propaga la tradizione all’interno del nuovo che solo apparentemente non ha nulla a che fare con la tradizione stessa. La solubilità di Recueillement «è consistita nella diffusione di particelle esogene, di colonie straniere, di materiali alloctoni, di presenze aliene, ossia, altrimenti detto, di citazioni.» (p 213). Una diffusione che mette in luce la pervasività della trasmissione del sapere letterario. [1] Valerio Magrelli è poeta e professore di letteratura francese all’Università di Cassino. 189 Antonin Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, Milano 2009, pp. 245, Antonin Artaud è stato scrittore, drammaturgo, regista e attore teatrale, saggista e poeta. Fu vittima della pazzia: «bisogna capire che tutta l’intelligenza è solo una ampia eventualità, e che si può perderla, […] ritrovarsi in uno stato d’estrema scossa, rischiarata d’irrealtà, con pezzi del mondo reale in un angolo di sé» (p. 36). Questo libro contiene delle lettere e degli scritti che possono far comprendere chi era Artaud e quale fu la sua influenza sulla cultura francese ed europea. In particolare Artaud fu un teorico del teatro. Il manifesto del teatro della crudeltà è il suo progetto rivoluzionario per la rappresentazione teatrale, rappresentazione in cui vengono ad infrangersi i confini tra gli attori e il pubblico (ricordiamo che siamo nei primi anni Trenta e che nel 1937 pubblicherà il suo testo più importante: “Il teatro e il suo doppio”). Collaborò con i surrealisti ma ne prese le distanze perché in polemica con l’adesione del movimento artistico al partito comunista francese. Nell’antologia sono contenute le lettere che Artaud scrisse a Jacques Rivière (editore della Nouvelle Revue Française fu tra i primi a capire il valore artistico di Baudelaire e Proust) per cercare di comprendere il rifiuto dello stesso Rivière alla pubblicazione delle sue poesie. È interessante lo scambio epistolare per capire come si costruisce il rapporto tra i due, il poeta e l’editore. In una prima lettera Rivière comunica ad Artaud che non può pubblicare le sue poesie («nelle sue poesie, gliel’ho detto dal primo momento, ci sono goffaggini e soprattutto stranezze sconcertanti». p. 8), pur trovandole interessanti, tanto che invita lo stesso Artaud a passare in redazione per un incontro. Rivière capisce che le «stranezze sconcertanti» di Artaud sono il frutto di una ricerca nel linguaggio piuttosto che di 190 una mancanza di controllo, di una sgrammaticatura congenita. Altrove, in un’altra lettera Rivière propone ad Artaud di pubblicare sulla rivista le lettere da lui ricevute. Artaud in quelle lettere descrive la sua necessità di scrivere poesie, formula, in un certo qual modo, una teoria della poesia, una teoria sull’uomo. Nel testo Al paese dei Tarahumara Artaud narra con passione e partecipazione la sua esperienza con il peyote, un cactus dalle proprietà psicotrope. Già segnato dall’eroina, Artaud descrive un’avvincente “comunione” con la natura, con la roccia e con il rituale dei Tarahumara: «con i Tarahumara si entra in un mondo terribilmente anacronistico e che è una sfida a questi tempi» (p. 90). In questa frase si possono leggere molti significati. Certamente si trova il senso di non appartenenza di Artaud al suo tempo (siamo nell’anno 1936). Artaud denuncia un anacronismo, in una popolazione messicana, che rivela in sottotesto, l’impreveduta presenza dei macelli della Seconda guerra mondiale, in Europa. Di quegli eventi egli non parla apertamente, ma, con la sua fuga dall’ordinaria realtà, ne è un critico testimone. Un altro testo, breve ma micidiale, contenuto in questa antologia, è intitolato Gli argani del sangue (Realtà). È un dialogo, un solipsismo accanito con sé stesso. Le relazioni che legano il suo corpo alla crudele realtà, costringono Artaud ad una lotta indefinita con il proprio io, con il soggetto che si preoccupa di pensare nel suo corpo: «in pozze di coscienza inutilizzata e che più tardi, viste da vicino, stimolerò un giorno con un essere di volontà in me. Con un blindaggio torchiato del mio io» (p. 229). Artaud dà la possibilità al suo lettore di scendere nel suo inconscio, di sondare ciò che solo apparentemente non si conosce. Una lettura che, per chi ha in mente i deliri lisergici della beat generation (movimento artistico nato negli Stati Uniti d’America alla fine del secondo dopoguerra e sviluppatosi fino alla fine degli anni cinquanta), non può che essere riconosciuta in ogni pagina. 191 Daniele Benati, Opere complete di Learco Pignagnoli, Aliberti Editore, Reggio Emilia 2006, pp. 172 Il libro di Daniele Benati è divertente, caustico e costringe il lettore a pensare. È l’esempio - letteralmente: “ciò che si tira fuori” - più lampante di cosa può fare la letteratura quando è «di buzzo buono». Al limite del non-sense, Benati (professore universitario in Italia e all’estero, traduttore e scrittore) riesce a dire certe indicibili realtà della critica letteraria (cfr. l’Opera 111) e scrivere una vera letteratura critica. Benati sfodera un’autoironia che spesso servirebbe al mondo della critica letteraria per non prendersi troppo sul serio, ovvero, alla critica l’ironia sarebbe utile per non rendere opaca l’opera letteraria. Benati per compiere questa impresa si inventa il personaggio: lo scrittore Pignagnoli e tutta la sua opera. Di questo fantomatico scrittore, leggero e colto ad un tempo, si sa poco o nulla: «Learco Pignagnoli è nato a Campogalliano e a San giovanni in Persicelo (…). Lavora pressa la ditta Scoppiabigi e Figli, dove tiene dietro al loro lupo» (dal risvolto di copertina). Leggendo le 245 Opere di Pignagnoli, però, si può capire che è una brava persona, semplice, diretta e mai scontata. In inglese esiste una perifrasi che può farci comprendere meglio chi sia Pignagnoli: larger than life, “più largo della vita”, esagerato, straripante. Già queste caratteristiche non sono cosa da poco: averne di scrittori come lui…! Il libro contiene un romanzo, una raccolta di poesie e un’Opera teatrale. Parleremo principalmente della sezione delle Opere. Le Opere sono uno specchiato esempio della tradizione barocca del frammento. Un barocco in cui l’alto e il basso, il colto e l’incolto si mischiano fra loro. Piccoli brani, sentenze, massime e brevissimi racconti formano il moderno corpus hermeticum di Learco Pignagnoli. Si diceva, dunque, di un insieme di frammenti che tanto ricordano Einbahnstrasse di Walter Benjamin. Anche qui, come nell’opera di Benjamin, il cumulo di macerie dei frammenti riesce a creare un senso diverso, differente, da quello che solo apparentemente si legge sulla carta. Dalla barocca tragedia e dal senso di morte che da essa scaturisce, numerose, infatti, sono le Opere che contengono riferimenti tanatologici. Si crea un incredibile spasmo all’angolo della bocca, si forma il sorriso che si beffa di tutto: vita, morte e miracoli della modernità (leggi ad esempio le Opere che criticano con insistenza Alberto Moravia, Alain Elkann e Giovanni Pascoli). Torniamo alle Opere, sono un cumulo di frammenti, talvolta eterogenei, che permettono di vedere la realtà da un punto di vista particolare, totale e singolare ad un tempo. Pignagnoli è un “autore” arcipelago: il suo pensiero è formato da 192 isole maggiori, pensiamo all’Opera 238, e da alcune minori, poco più che uno scoglio franto dai flutti, vedi l’Opera 191. Per chi fosse stato in navigazione nel mar Egeo, al largo della Grecia continentale, avrebbe certo notato le affinità con lo sguardo di Pignagnoli: una volta che il traghetto ha lasciato il molo e s’è diretto verso il mare aperto (la seconda navigazione platonica vorrà pur significare qualcosa) si può già intravedere la prima isola all’orizzonte. Più ci si avvicina all’isola, più si può scorgere la successiva e quelle limitrofe. Che vuol dire? Pignagnoli - usciamo dalla metafora marinara e torniamo allo scrittore - è il filosofo che riesce a trattenere (termine molto paolino, cfr. Paolo, 2 tessalonicesi 2,5-2,12) la perdita del senso causata dalle rovine barocche, e dalle macerie delle Opere. Pignagnoli mantiene vigile lo sguardo. Sa di aver abbandonato la terra ferma e di aver iniziato un viaggio periglioso. Però, mantiene la rotta guardando all’orizzonte per scorgere, prima degli altri, l’isola che verrà a posarsi sull’effimera linea geografica. Mantiene, comunque, lo sguardo sulle isole limitrofe. In questo modo Pignagnoli riesce a tenere relate fra loro le Opere che altrimenti tenderebbero allo sfilacciamento distruttivo, perché spesso sono distanti fra loro per quel che riguarda il senso. In «Opera 119» si dichiara: «Una cosa da mettersi bene in testa è che con l’autore Learco Pignagnoli c’è poco da farsi tante idee sbagliate. Che non ci confondiamo con Moravia. Con Learco Pignagnoli voi vi mettete lì, non leggete niente, non voltate pagina, ma almeno lo sapete che non state leggendo niente e che semmai, se vi salta il ticchio di voltar pagina, lo fate solo per far piacere all’autore. Poveretto! Chissà dov’è? Chissà chi è e cosa fa? È un atteggiamento diverso, più umano. Leggerlo o non leggerlo, chi se ne importa? Ha scritto roba corta, roba lunga, chi se ne importa? Ha scritto un romanzo, non l’ha scritto, chi se ne importa? Tutto quello che ha fatto è in queste poche pagine? chi se ne importa? Non è Alessandro Manzoni? chi se ne importa? Bisogna ragionare così. Leggere, non leggere, chi se ne importa? È Alessandro Manzoni? Non lo è? Chi se ne importa? Bisogna ragionar così. È così che ci si accosta a un libro di questo genere.» Daniele Benati è nato Reggio Emilia. Ha insegnato in università degli Stati Uniti e dell’Irlanda. Ha tradotto James Joyce, Flann O’Brien e Ring Lardner. Con Gianni Celati ha tradotto e curato Storie di solitari americani. È’ anche scrittore. Tra le sue opere troviamo Silenzio in Emilia, Cani dell’inferno, Un altro che non ero io e con Paolo Nori, Baltica 9. 193 König, Christoph, a cura di Massimo Pizzingrilli, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 120 C’è qualcosa di molto importante che si può apprendere dalla lettura di questo breve testo introduttivo al metodo di lavoro e alla vita di Peter Szondi, l’egemonia dell’ermeneutica di Heidegger e di Gadamer ha un’alternativa: «L’ermeneutica di Szondi procede in effetti ad una analisi del testo che si scontra con le precedenti teorie, in prima linea con l’ermeneutica filosofica inaugurata da Heidegger e professata ancora da Gadamer. L’attenzione di Szondi per la cifra testuale, per il particolare, il frammento secondo la lezione di Benjamin, implica una distanza critica che permette all’interprete di considerare in una volta sia la complessità dell’opera completa che la complessità degli oggetti particolari all’interno dell’opera stessa» (p. 12). Non è un caso che nella vita del critico Szondi, [basta scorrere la sua biobibliografia (pp. 97-110)] ci si imbatta spesso nello sguardo, che tutto coglie, della filosofia. Al di là dei nomi che ricorrono, Heidegger, Gadamer, Adorno e Benjamin, basterebbe solo la loro evocazione per comprendere la portata della ricerca di Szondi: la dialettica che necessariamente viene ad essere messa in opera dallo stesso sguardo dell'interprete sull’opera. Cercando di comprendere il testo nella sua totalità e nella complessità dei particolari che lo formano, necessariamente si deve tener conto di come il testo completo e i frammenti che lo compongono dialoghino fra loro. È la sintassi interna del testo, oltre la sintassi della lingua scritta, a produrre la geometria che dona un senso al testo. Citando una frase di Paul Valéry, tradotta da Szondi come prova di traduzione per un editore, «la syntaxe est une faculté de l’âme», König ci sta indicando il punto nevralgico del sistema ermeneutico del critico ungherese. Szondi implica 194 e complica nell’atto della critica letteraria l’anima, sua e dell’opera da criticare. Una implicazione, scelta o imposta dalla sua stessa anima, che Szondi pagherà con il suicidio. Portare con sé il peso della propria anima è certo un esercizio difficile ma necessario. Fare propria anche l’anima di un’opera letteraria, come può essere ad esempio la poesia di Celan, non deve essere stato facile. Sono gravi, pesanti, i fattori messi in gioco dal rapporto con Celan: l’ebraismo e la diaspora, lo stermino nazista, il rientro in Germania dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Questi sono problemi epocali, ma Szondi «nella sua interpretazione «tecnico-psicologica», vorrebbe proprio portare allo scoperto il carattere impersonale che definisce le poesie di Celan. Di conseguenza, distoglie lo sguardo dall’autore. Non l’autore parla, bensì il testo che testimonia Auschwitz senza farsene per questo immagine» (p. 78). Adolf Reinach, La visione delle idee, a cura di S. Besoli e A. Salice, Quodlibet, Macerata 2008, pp. LXXIV-228 Allievo e assistente di Edmund Husserl, Adolf Reinach sarebbe stato sicuramente un esponente di spicco della filosofia del Novecento, accanto a Scheler e Heidegger. Purtroppo morì al fronte nel 1917 durante la Prima guerra mondiale. Il testo che proponiamo in lettura è una raccolta degli scritti filosofici. Questa specificazione è importante perché Reinach ebbe anche una formazione giuridica (cfr. p. LXX) e il suo lavoro ‘giuridico’ non è presente in questa raccolta. Reinach, da assistente, aiutò Husserl nella revisione delle ‘Ricerche Logiche’ rimanendone ovviamente influenzato. Fu dopo la pubblicazione delle ‘Ideen’ di 195 Husserl, avvenuta nel 1913, che Reinach insieme ad altri anziché seguire il maestro nella fenomenologia trascendentale decise di rimanere più vicino al lavoro precedente di Husserl. «La tesi secondo cui le idee si vedono non ricorre a un modo di dire incontrollato, frutto di spurie reminescenze platoniche, ma esprime il nucleo più autentico della dottrina fenomenologica di Husserl» (p. IX), così l’attacco di Stefano Besoli nel suo approfondito saggio introduttivo: “La pregnanza del metodo descrittivo e il rispetto delle datità. Adolf Reinach e la traccia di una vera «fenomenologia»”. Il centro della filosofia fenomenologica di Reinach è la visione delle idee: ovvero il superamento dell’apparire delle cose con un rigoroso metodo d’analisi filosofica per una visione d’essenza: il suo fu «un ampliamento di orizzonti che portò a rimuovere le restrizioni ontologiche e le implicazioni soggettivistiche dello psicologismo, estendendo la nozione di esperienza al di là di ciò che è empirico in senso stretto» (p. XIII). Ecco perché le idee si vedono. Le idee possono e devono essere trattate, si potrebbe dire analiticamente, come se ci si trovasse di fronte a degli oggetti reali. Si devono eliminare i possibili impedimenti, ontologici o soggettivi, che possono nuocere alla visione d’essenza. Reinach intendeva la fenomenologia come un discorso che servisse a vedere le cose e non un insieme di concetti che potesse solo ingabbiare il significato «con rigide definizioni». Ci siamo riferiti ad un discorso fenomenologico perché la ricerca reinachiana partì sempre da un’attenta analisi delle parole utilizzate nelle proposizioni e del loro significato. Per questo motivo si può definire Reinach un precursore della filosofia analitica. Nel primo breve saggio della raccolta: William James e il pragmatismo, Reinach affronta la filosofia di James. Dapprima sembra seguire e far sue le teorie del pragmatismo, ma è chiaro da subito che l’analisi dei termini e delle conseguenze dell’impiego di quei termini è solo il metodo fenomenologico messo all’opera. Infatti, sul finire dello scritto Reinach, dopo aver messo in luce i limiti della filosofia pragmatica di James (…«ridurre la verità a una qualsiasi utilità e accordare il significato solo ai problemi da cui risultano conseguenze pratiche»), mette in evidenza l’esistenza di una particolare scienza che affianca le altre scienze. Questa scienza è la fenomenologia: essa senza andare oltre i fenomeni, anzi proprio perché sa coglierli, può colmare le lacune delle scienze positive. Kant in questa raccolta è presente ed è studiato senza timori reverenziali da Reinach. Un saggio concerne la critica alle regole delle inferenze razionali e un secondo l’interpretazione kantiana del problema di Hume. La problematicità sta nel fatto che Kant attribuisce a Hume la definizione che le proposizioni matematiche sono analitiche. Reinach pesando parola per parola, scompone due proposizioni kantiane tratte dallo scritto La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche. La prima proposizione: «Una caratteristica della caratteristica è una caratteristica della cosa stessa» per le inferenze razionali positive e la seconda: «Ciò che contraddice la caratteristica di una cosa, contraddice la cosa stessa» per le inferenze negative (p. 11). Le proposizioni vengono smontate con il seguente ragionamento: «Se assegniamo a un oggetto singolo (questo libro) una caratteristica di proprietà (rosso) e poi a questa caratteristica di proprietà 196 assegniamo di nuovo una caratteristica di proprietà (intenso) o una caratteristica di genere (colore), allora non possiamo attribuire all’oggetto né la seconda caratteristica di proprietà né la caratteristica di genere senza cadere in errore» (p. 15). È evidente che il concetto libro non ha niente ha che fare con il concetto rosso, quindi il concetto rosso, caratteristica di una caratteristica, non può essere una caratteristica del concetto libro. Nel secondo caso (il problema di Hume) apprendiamo con stupore che Kant avrebbe ascritto a Hume, sbagliando, l’opinione che le proposizioni matematiche sono analitiche. Anche qui con il solito piglio analitico Reinach mette in luce il fatto che in Hume una simile qualificazione porterebbe a delle aporie nella sua filosofia (p. 37). Il saggio che più mette in chiaro il metodo reinachiano, la sua fenomenologia, è quello che si intitola, appunto, Sulla fenomenologia. Le parole, l’espressione e il significato sono i motivi da cui l’analisi fenomenologica deve iniziare la propria indagine. Questo per evitare equivoci «che si trovano in particolare nella terminologia filosofica» (p. 178). Le stesse cose che Reinach evidenziava proprio nei saggi su Kant. Particolare punto su cui Reinach si concentra è la conoscenza a priori. Si è detto che la sua intenzione di fenomenologia deve superar i limiti ontologici e soggettivistici, perciò Reinach prima chiarisce la problematicità dell’a priori e poi indica il possibile superamento di quella problematicità: «Ciò che ci si fa incontro per così dire dall’esterno nella percezione sensibile, pare debba essere presente «nell’interno». Così le conoscenze a priori sono trattate da proprietà dell’anima, da qualcosa di innato – anche se solo virtuale – a cui il soggetto ha solo bisogno di rivolgere lo sguardo per rendersi conto di esso con indubitabile certezza. […] Vi sono delle connessioni a priori indifferentemente dal fatto se tutti o molti o nessun uomo o altri soggetti le riconoscano. Esse sono universalmente valide al massimo nel senso che chiunque voglia giudicare correttamente, deve riconoscerle» (pp. 180-81). E poco oltre: «Solo una cosa è corretta: ovvero che ogni conoscenza a priori è capace, senza eccezione, di un’evidenza inconfutabile, cioè di un’intuizione offerente ultima del suo contenuto. Ciò che si fonda nell’essenza di oggetti può essere portato a datità ultima nella visione d’essenza. Certo ci sono delle conoscenze a priori che non possono essere conosciute in se stesse, ma necessitano di essere dedotte da altre. Ma anche riconducono, infine, a connessioni ultime in se stesse evidenti. Non le si acceterà certo ciecamente, non si farà affidamento su un mitico consensus omnium o su un’enigmatica necessità del pensiero – nulla è più lontano dalla fenomenologia di ciò; esse devono invece essere portate a chiarificazione, alla datità ultima […]» (p. 183). Un lavoro di chiarificazione eseguito con un metodo rigorosissimo che porterebbe la filosofia al limite di una scienza positiva. Ma come dice Reinach alla fine del suo saggio, la filosofia non è un ‘lavoro’ del singolo ma è l’espressione di un lavoro di molti, ripetuto, rivisto, corretto, emendato per secoli: «Essa diverrà una scienza rigorosa – non imitando le scienze rigorose, ma riflettendo sul fatto che i suoi problemi richiedono un modo di procedere proprio, la cui attuazione richiederà il lavoro di secoli» (p. 188). La raccolta è chiusa da un saggio di Alessandro Salice, Agganciarsi a un’anima. Il domandare e i vissuti sociali della coscienza in Adolf Reinach. L’atto di domandare è visto come un’agganciarsi all’anima della persona a cui si pone la domanda, e ciò è possibile perché il domandare ha una veste corporea 197 e investe l’altro a cui si chiede, personalmente (cfr. in particolare pp. 204-05). L’atto di domandare in Reinach è alla base dei suoi studi sugli atti sociali. È la manifestazione di un bisogno che ha necessità dell’altro per essere soddisfatto. Salice attribuisce a Reinach «il pieno merito di riconoscere e descrivere la natura specifica di tutte quelle esperienze vissute che, come la promessa, il comando, la richiesta ecc., per essere compiute con successo richiedono la soddisfazione delle medesime condizioni ritrovate per la domanda. […] la struttura ontica, la necessità di intendimento e il riferimento personale al destinatario dell’atto» (p. 206). Gli studi reinachiani sugli atti sociali, sulla domanda, sono per Salice ancora in statu nascendi. Si farebbe un torto a Reinach e alla filosofia considerarli come marginali alla storia della filosofia. La raccolta dei saggi di Reinach proposta da Besoli e Salice ha anche il compito di andare oltre agli studi specialistici e di far conoscere la figura del giovane filosofo tedesco a più persone. Daniel C. Dennett, Coscienza. Che cosa è, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 608 «La coscienza umana è praticamente l’ultimo mistero che ancora sopravvive» (p. 31). Daniel C. Dennett in questo suo saggio cerca di affrontare il mistero della coscienza umana e propone una sua ipotesi come tentativo di avvicinamento alla verità. Il suo è un approccio diverso da quello che, a suo parere, ha contribuito a formare dei falsi miti attorno alla coscienza umana. Egli non fornisce una soluzione al mistero, sarebbe impossibile, cerca però di togliere i possibili impedimenti teoretici, i dogmi del pensiero, che possano mettersi di traverso alla risoluzione del problema coscienza. Il libro è frutto di una lunga analisi attorno al concetto. Dennett se ne occupa dopo aver dialogato a lungo con psicologi, psichiatri, neurofisiologi, filosofi e scienziati in genere. Le discipline scientifiche appena elencate si occupano, ognuna per sé, dello stesso problema: quando diciamo ‘io’ cosa intendiamo? 198 Chi dice ‘io’? Chi o che cosa decide di muovere un braccio o percepisce l’immagine che l’occhio ha inquadrato? Secondo Dennett non ci si deve fermare alla prima evidenza: “è ovvio che ‘io’ muovo il mio braccio, che io posso dire io”. La formazione del pensiero cosciente va oltre la semplice auto percezione dell’evento. Un primissimo chiarimento che Dennett vuole far comprendere al suo lettore, passa attraverso la considerazione della filosofia di Cartesio e della sua concezione dualistica mente-corpo. Il grande accusato, infatti, sarà sempre il dualismo cartesiano: ovvero la separazione delle facoltà mentali dalla fisicità del cervello, attributi cartesiani che comunicano fra loro grazie all’invenzione della ‘ghiandola pineale’. Cartesio con la sua ideazione dualistica ha segnato la storia della filosofia e della scienza. Il grosso dubbio che si può rilevare all’analisi del dualismo cartesiano si trova appunto nella dinamica del dialogo tra mente e cervello. Se il cervello, la parte fisica, è facile da analizzare - oggi sempre di più grazie all’evoluzione della diagnostica per immagini - la mente, che invece non si trova nella fisicità del cervello – se non nei segnali di un’attività neuronale -, pone dei problemi per la comprensione di cosa sia la coscienza umana. Dennett chiede: se la mente, l’io che parla nei nostri soliloqui, non ha sede nel cervello - infatti Cartesio deve escogitare la ghiandola pineale per connettere i ‘due mondi’ - dove è? Una volta che l’io ha occupato il ‘mio’ cervello, come può governare il ‘suo’ stesso cervello? Il percorso che Dennett imprime alla sua ricerca è doverosamente ampio ma non particolarmente difficile da seguire. Egli infatti, per la fortuna del suo lettore, adotta uno stile colloquiale e diretto, ricco di esempi e contro-proposte. Dennett utilizza concetti ed esempi tratti dalla neurofisiologia, dalla fisica o dalla cibernetica, ad esempio sono spiegati i tempi ed i modi di reazione del nostro cervello agli stimoli esterni. La cosa più difficile da fare è eliminare ogni possibile residuo del «Teatro cartesiano» - il cervello è un luogo in cui una mente può agire, può interpretare la vita di qualcuno -. Fulcro di questo teatro è l’idea che un sedicente soggetto abbia il potere di governare il cervello. Un trascendente grande dittatore, un’eminenza grigia, «Autore Centrale» o «Quartier Generale» occuperebbe e governerebbe la mente umana. Questo suo potere potrebbe chiamarsi coscienza. Dennett propone altro: «Non c’è un unico e definitivo «flusso di coscienza», perché non c’è un Quartier Generale centrale, un Teatro Cartesiano dove «tutto converge» per essere attentamente scrutinato da un Autore Centrale. Invece di un unico (per quanto ampio) flusso del genere, ci sono canali multipli in cui i vari circuiti specializzati tentano, in un pandemonio parallelo, di fare varie cose, creando man mano delle Molteplici Versioni» (pp. 283-84). Quindi non un unico autore della coscienza, ma una molteplicità di versioni che nella loro intrinseca differenza produrranno il racconto migliore dell’io del soggetto. Ogni stimolo produce nella mente tutta una serie di possibili soluzioni, risposte fisiologiche e cognitive allo stimolo, che vengono via via vagliate ed eliminate lasciando alla fine solo la risposta più coerente con l’integrazione del corpo con la mente. 199 Dennett arriva a questa sua idea di coscienza attraverso la fisiologia. L’ambiente fisico è, spinozianamente, idea della mente e quindi è un modo differente di intendere il mondo psichico, per questo motivo non richiede un «Autore Centrale». Dennett, esempio dopo esempio, rivela al lettore la complessità sottostante ogni nostro atto percettivo e al conseguente atto cognitivo (c’è un oggetto, si forma l’immagine retinica, si forma la stimolazione neuronale che mi ‘rende cosciente’ di quell’oggetto, si forma in me la possibile reazione all’immagine di quell’oggetto). Atto cognitivo che si definisce nel sé di ognuno di noi. L’io coscienza che narra incessantemente, ad ognuno di noi, la miglior storia possibile: la nostra. Forse la metafora del racconto è un po’ esausta ma coglie effettivamente il senso di una raffinazione delle risposte multiple che il sistema della molteplici versioni richiede. Il dialogo incessante e rapidissimo, sono ‘decisioni’ che la nostra mente prende in frazioni infinitesime di secondo, che si sviluppa continuamente nell’incontro della nostra coscienza con il mondo fenomenico. Proprio per la complessità di nozioni che la teoria di Dennett mette all’opera e per quell’imponderabile resto che non può che rimanere all’analisi dell’io umano, il nostro autore ci avvisa dell’incompletezza del suo lavoro. Ma, correttamente, Dennett aveva avvisato che la coscienza umana rimane un grande ed inspiegato mistero e che tutt’al più egli avrebbe potuto fornire un nuovo strumento di indagine. «La mia spiegazione della coscienza è tutt’altro che completa. Si potrebbe perfino dire che è stato solo un inizio, ma è un inizio perché rompe l’incantesimo creato dalle idee che fanno sembrare impossibile una spiegazione della coscienza. Io non ho sostituito una teoria metaforica, il Teatro Cartesiano, con una teoria non metaforica («letterale, scientifica»). Tutto quello che ho fatto, realmente, è stato sostituire una famiglia di immagini e metafore con un’altra: ho rimpiazzato il Teatro, il Testimone, l’Autore Centrale, il Figmento con il Software, le Macchine virtuali, le Versioni Multiple, un Pandemonio di Homunculi» (p. 508). Ciò che rimane al lettore è l’affascinante idea che l’io sia un racconto da ascoltare incessantemente. Punto fermo per ascoltare senza impedimenti è l’abbandono della filosofia cartesiana per una concezione più spinoziana della relazione mente-corpo, una concezione che tratta la mente e il corpo come differenti definizioni di un’unica sostanza e non come due mondi completamente distinti. ____________________ Tutte le recensioni della rubrica “Invito alla lettura” sono curate da Gianmaria Merenda, dottore di ricerca in Teoria e analisi del testo e dottorando in Antropologia ed epistemologia della complessità, presso l’Università di Bergamo. ____________________ 200 ARTE IN GIARDINO Sculture ceramiche di Tonino Negri Mostra a cura della Galleria GULLIVER di Marciana Marina presso Hotel Cernia – Capo Sant’Andrea (Isola d’Elba) )RWRGL7RQLQR1HJUL Con l’esposizione delle opere di Tonino Negri, nella stagione primavera-estate 2010, è ripreso il percorso artistico nei sentieri del Giardino delle Osmunde dell’Hotel Cernia Isola Botanica (Sant’Andrea – Isola d’Elba), per la 6^ edizione di ARTE IN GIARDINO. a cura di Susanna Busoni […] Il lavoro di Tonino Negri si snoda dalle grandi istallazioni, realizzate in occasione di eventi folkloristici e feste popolari, in piazze e parchi pubblici in Italia e all’estero, spaziando fino a lavori teatrali veri e propri, con partecipazioni alla realizzazione di scenografie e allestimenti di spettacoli; esperienze che trasferisce nelle opere scultoree in ceramica, materiale prediletto, nelle quali ritroviamo il gusto del racconto fantastico, della creazione di mondi, storie e personaggi immaginari. Nelle sue opere la natura rimane la principale fonte di ispirazione: “- mi ispiro all’acqua, alla terra, al fuoco, all’aria ma anche all’anima –“ , dice. E in questo senso il lavoro con l’argilla, il contatto quindi con la terra, è per lui una forma di meditazione che le sue sculture, le sue lampade, i suoi oggetti, trasferiscono anche una volta ultimati. In questo luogo la forza primaria che lo ha ispirato è stata sicuramente la magia dell’acqua, che scorre impetuosa nei due ruscelli che qui confluiscono, per raggiungere a valle la spiaggia e disperdersi in mare. Troviamo in ogni opera un richiamo a questo elemento, a volte formale nelle fogge degli elementi/contenitori che la delineano, siano essi vasi, otri o coppe dei suoi “Giocolieri” e degli “Acquaioli”; altre volte ci chiede la partecipazione a un gioco improvvisato e quindi ecco la fontana dei “Sette salti” che dobbiamo riempire con una piccola zucca, ascoltando e osservando il rivolo che si tuffa da un contenitore all’altro per arrivare alla fine e farci riprendere il giro; a volte invece lascia che sia la natura stessa a intervenire e quindi la pioggia che riempie le forme crea queste piccole pozze a cui si abbeverano le sue bianche colombe mescolate ai merli e alle rondini che popolano il giardino. Altre tracce di riferimento le troviamo nei temi dei viaggi per mare, “Naviganti” e barche a vela gonfiate dal vento; i vasi-isola e le isole-vaso in omaggio all’Isola d’Elba, che lui conosce da molto tempo e che racchiude nella sua storia personale con le memorie e le immagini vissute; sirene, canti di balene musicali, pescatori e pesci pescati; boschi misteriosi e qua e là, incagliate su grandi massi di granito del giardino, scopriamo piccole e grandi maestose arche, restate a secco e finalmente salvate dopo le incessanti piogge. Susanna Busoni 203 +RWHO&HUQLD,VRODG·(OEDVHGHGHOODPRVWUD´$UWHLQ*LDUGLQRµ Una storia di acqua, continenti e balene che cantano di MariaGrazia Morganti E’ soprattutto di notte che, all’Elba, si sente vivere il mare. Quando i rumori del traffico si smorzano e dal basso arriva con le onde un vento profumato di fiori, spezie e salsedine che aiuta gli uomini a chiudere gli occhi e riposarsi dalla fatica di vivere. Ma se qualcuno, colpito da insonnia d’amore o dalla nostalgia struggente di viaggi mai intrapresi, restasse sveglio a guardare verso il largo, riuscirebbe certo a vedere coi suoi occhi lo spettacolo che Tonino Negri ha colto. Un mondo di acque tranquille ma pieno di sorprese, fra balene che cantano, cernie a dondolo, pesci acrobatici color turchese che s’impilano con un guizzo su palloni sferici per formare arditi totem balneari e sirene un po’ soprappeso, dalle chiome arricciate come capitelli ionici, che vivono in placida simbiosi col pesciolone che le ospita ingoiandole a metà. Anche la luna partecipa a questa vita nata sotto il segno di una divinità bonaria, che ha i tratti indecifrabili di quel Buddha, convenientemente assorto ed enigmatico nell’osservare con distaccata benevolenza un microcosmo privo di asprezze, dove nemmeno i rovi hanno le spine e tutto è governato da un’armonia spontanea in cui non sono previsti bruschi cambiamenti di piani, tanto meno spigoli o zig-zag. Niente di artificioso o luccicante, solo argilla e ingobbio chiaro, tanto che sembra quasi che sia stata l’azione congiunta del vento e dell’acqua (e non la sapiente pazienza dell’autore) a levigare perfettamente queste forme tondeggianti che hanno l’essenzialità e la stessa concisa ironia di un haiku, capace di riassumere un mondo di sensazioni nel giro di poche sillabe. Perfino Galla Placidia, l’altera figlia di Teodosio il Grande dal temperamento guerriero che regnò con ineguagliato splendore a Ravenna, nelle mani di Negri si trasfigura in un’immagine di donna solida e carnale, con le braccia arcuate sui fianchi in una posa che richiama certo i canòpi etruschi ma fa di lei anche una sorta di imperiale arzdòura, la mitica matriarca romagnola. E’ la figura femminile, del resto, a dominare questo mondo di acque di fonte e di mare. Donne/nassa dal corpo a rete traforato come una veilleuse del Settecento, donne/cariatidi che sorreggono intere isole simili a dolci di marzapane posandole su piatti da portata o tengono la luna ben alta sulla testa, come se temessero di perderla nel gorgo di un torrente. Anche i Cinque Continenti hanno l’aspetto di donne dalle lunghe braccia, ben tornite ed assorte come antichi Haniwa, le statue che i giapponesi disponevano attorno alle tombe perché le proteggessero dagli spiriti malvagi. Sotto la loro rigida compostezza da divinità arcaiche, però, nascondono un carattere accomodante ed ospitale, aperto all’integrazione col mondo circostante, disposte come sono a farsi invadere dalla natura che, qui al Cernia, occupa qualsiasi spazio anche minimo sotto forma di esuberanze vegetali d’ogni genere, e perfino a diventare punti di ritrovo per i numerosi uccellini del parco botanico. (continua pag. 207) 205 Una vena scanzonata più o meno avvertibile, percorre comunque tutta l’opera di Tonino Negri, emergendo con malizia nelle giocose “reliquie”: il naso di Pinocchio, la cui autenticità è garantita dalla leggendaria sincerità del suo proprietario o la patatina “di” San Carlo, per un gioco di parole che ha l’innocente irriverenza di uno sberleffo infantile. Anche il sorridente minimalismo zen di certe piccole plastiche, ideali per una meditazione tascabile e pronta all’uso, affiora chiaramente in quei Passaggi che, si direbbe, un Pollicino molto preoccupato di non trovare più la via del ritorno ha segnato con un sentiero serpeggiante fitto di ciottoli colorati, o nella coppia di colombe “bizantine” che si abbeverano alla Fonte finalmente all’aria aperta, stanche di aver atteso inutilmente Galla Placidia nel suo mausoleo per un millennio e passa. Un filo sottile, un rivolo d’acqua, anzi, lega fra loro tutte queste creature, dal Navigante incoronato da un arc de triomphe ittico, che reca in sé le distese marine attraversate, al Mago d’acqua che trasforma il suo getto in un arcobaleno di ghiaccio, fino alla serie degli acquaioli, distanti interi continenti ma affratellati, sembra, da un’identica fatica che li consuma fino a pietrificarne i tratti del volto e a rendere assai simili le loro figure, chiuse entro l’ovale rigido di un abito senza tempo né luogo. A ben vedere, del resto, non è nient’altro che un acquaiolo in movimento anche quel Giocoliere del Marocco che è rimasto prigioniero del proprio gioco, letteralmente immobilizzato dalla sua stessa abilità, forse un monito ironico al lavoro dell’artista. Ed è ancora l’acqua ad essere scelta, per un dono rituale al cielo, da quell’offerente chiuso in una sua privatissima dimensione atemporale, che si situa non a caso al confluire dei due ruscelli del Cernia, luogo magico per eccellenza, fonte di vita e di energia. A questo punto si capisce come mai il luogo possa costituire una sorta di lussureggiante terra promessa, dopo tanto peregrinare, per tutte quelle arche panciute e compatte che hanno trovato qui il loro personale Ararat di pietra o di argilla. Perché l’arte, si sa, è soprattutto gioco e illusione, e quindi un otre bucherellato può senza sforzo trasfigurarsi in un firmamento, una lampada diventare una scenografia deserta nell’attesa di un dramma che forse si è già compiuto e l’Arca-lago rappresentare un luogo dell’anima, in cui sarebbe così confortante pensare di potere essere accolti in occasione di un sempre meno improbabile diluvio prossimo venturo. MariaGrazia Morganti 207 FOTO S. Santioli 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED 208 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED FOTO T. Negri 7RQLQR1HJUL6FXOWXUDFHUDPLFD´$UWHLQ*LDUGLQRµ,VRODG·(OED Critica minore Periodico di cultura politica - filosofia sociologia - letteratura - arte SITO WEB www.criticaminore.it e-mail sito: [email protected]