NewsMagazine n. 23 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro

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Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano
Gruppo
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In mezzo alla vita accade che la morte venga
a prendere le misure dell’uomo. Quella visita
si dimentica e la vita continua. Ma il vestito
si cuce in silenzio.
(Tomas Tranströmer, Premio Nobel 2011 per la Letteratura)
Cari destinatari,
ogni settimana, ogni giorno oramai ci accorgiamo sulla nostra pelle del mutamento sociale, di quel social change che mobilitò
l’attenzione di coloro che fondarono più di un secolo fa la Sociologia. L’entità e l’accelerazione dei mutamenti a cui la nostra
vita quotidiana va incontro nel contesto attuale, più o meno dalla svolta del nuovo millennio, è impressionante anche se
paragonata a pochi decenni fa: basti citare le parole informatica-internet, biotecnologie, globalizzazione, crisi economicofinanziaria. In Italia poi si è vissuto per anni in una situazione di anomalia politica che non ha riscontro in altri paesi a noi
vicini: il risultato più evidente è stato il disastro etico e insieme la perdita di fiducia nelle Istituzioni che pervade giovani e
meno giovani, pregiudicando il futuro del nostro meraviglioso paese. In un articolo recente, scritto nell’acme della crisi
finanziaria attuale, l’ex-presidente Ciampi ha richiamato l’importanza che i paesi europei riprendano coscienza della loro
memoria e riacquistino fiducia nelle loro grandi potenzialità, nel contributo essenziale che possono dare ad un mondo
globalizzato. E’ un messaggio positivo che vorremmo fare nostro, perché bene si accorda anche con una visione delle Scienze
sociali umanistica e sensibile all’etica quale il nostro Newsmagazine e il nostro Gruppo con le sue modeste forze porta avanti
da anni. Con i migliori saluti e auguri.
Giovanni Gasparini
SOMMARIO
1. Incontri
Forum su “Scrivere a tutto campo” - a cura di Cristina Pasqualini
(Cristina Pasqualini, Michela Bolis, Silvia Cortellazzi)
Claudia Mazzucato, Ciclo seminariale “Giustizia e letteratura (Law and Literature)”
Giusi Venuti, Farsi da parte per Essere Parte. Riflessioni sugli spazi della convivenza oggi
OssCom (a cura di), Tracce Creative: otto conversazioni sui percorsi della creatività nell’industria culturale in Italia
2. Libri & Scritti
-
Vanni Codeluppi, Chi sta uccidendo la Tv?
Alida Airaghi, Tempo di Natale di Gianni Gasparini
Claudio Gambardella, Progettare [interni] come esperienza
Alida Airaghi, Come il fuoco. Uomo e denaro di Franco Riva
3. Arte & Comunicazione
-
Giovanni Gasparini, Due film sulle migrazioni dall’Africa: “Terraferma” di E.Crialese (2011) e “Il villaggio di cartone” di
E.Olmi (2011)
Francesco Mazzucotelli, Silvio Wolf: sulla soglia
4. Vita quotidiana
-
Marco Ermentini, La casa interstizio
Ivana Pais, Interstizi pendolari. Racconti di viaggio tra Brescia e Milano
Rubrica “Le città interstiziali”
-
Lucia Gasparini, Vancouver, interstizio umano tra montagna e mare, tra oriente e occidente
Francesco Mazzucotelli, Sarajevo, il fiore dei Balcani
Pubblicazioni recenti
1. Incontri
Forum su “Scrivere a tutto campo - Note a
margine della presentazione del volume “Tous
azimuts. Il senso della scrittura” di Gianni
Gasparini (FrancoAngeli 2011) - a cura di
Cristina Pasqualini
poliscrittori? Pochi ma autorevoli – basti pensare
a Edgar Morin e Marc Augé. Ci siamo divertiti a
contarli. In Italia sono un numero esiguo e a
livello internazionale una ventina circa, tra cui
Gi(ov)anni Gasparini.
Cristina Pasqualini, Università Cattolica del
Sacro Cuore –Milano.
 Per una introduzione
 Vivere di scrittura. Un dialogo-intervista con
Gi(ov)anni Gasparini
Da tempo Gi(ov)anni Gasparini stava meditando
di scrivere un‟autobiografia e, tra tanti, scelse me
come interlocutrice a cui affidare i suoi ricordi,
per ripercorrere assieme, nella forma del dialogointervista, i nodi e gli snodi più significativi della
sua ampia produzione scientifica e letteraria.
Presso la saletta docenti dell‟Università Cattolica,
comodamente seduti su poltrone di pelle, nella
calda estate 2010, in una atmosfera serena, quasi
domestica, ci siamo dati appuntamento più volte.
Le nostre lunghe conversazioni, interrotte
esclusivamente dal piacevole suono delle
campane della Basilica di Sant‟Ambrogio, sono
oggi parte integrante del volume Tous azimuts e
restituiscono l‟immagine di un uomo, oltre che di
uno studioso, amante della vita, della natura, della
cultura e, soprattutto, della scrittura. Per Gasparini
la natura è costante fonte di ispirazione poetica
oltre che elemento costitutivo della sua persona e
del suo benessere psico-fisico. E la sua scrittura,
come recita il titolo stesso del volume, è a tutto
campo, contaminata e arricchita sì, ma non direi
ibrida, perché i diversi registri di scrittura sono
assolutamente riconoscibili e volutamente distinti
Operazione, quest‟ultima, non facile, soprattutto
nel nostro Paese, in cui le stesse discipline sono
accuratamente tenute separate da steccati, che
Gasparini ama ironicamente e più correttamente
chiamare per quello che sono, ovvero “stecchini”.
In Italia non esiste ancora una vera e propria
cultura della scrittura a tutto campo. Quanti sono i
Il 19 ottobre è stato presentato in Università
Cattolica a Milano l‟ultimo libro di Gianni
Gasparini, “Tous azimuts. Il senso della scrittura”,
che ha dato vita a una vivace tavola rotonda sul
tema “Scrivere a tutto campo”. L‟evento si è
rivelato un‟occasione ricchissima di spunti, su cui
si sono confrontati Piermarco Aroldi, Giampaolo
Azzoni, Duccio Demetrio e Cesare Segre.
Particolarmente suggestiva è stata la presenza del
maestro Stefano Albarello, cultore di musica
antica, che ha accompagnato l‟evento con il canto
e il liuto. “Tous azimuts” costituisce una sorta di
autobiografia intellettuale di Gianni Gasparini,
presentata con uno stile che, come ha affermato
Cesare Segre durante la presentazione di questo
lavoro, anche Calvino avrebbe apprezzato per la
leggerezza e la coerenza. Nel libro l‟autore
riprende tutti i temi che hanno caratterizzato la sua
ricchissima
produzione
che
inizialmente
presentava due anime, una sociologica e l‟altra
poetica e, successivamente, si è arricchita di
numerosi altri registri di scrittura (critica
letteraria, prosa poetica, teatro, racconti,
spiritualità, autobiografia). A questo proposito,
Gasparini utilizza inizialmente l‟efficace metafora
delle due mani e poi quella delle cinque dita di
ciascuna mano per rappresentare la diversità e,
insieme, l‟unitarietà, della sua produzione. In
un‟epoca di iperspecializzazione del sapere, la
scrittura a tutto campo di Gasparini costituisce
un‟eccezione originale e creativa. La sua storia
intellettuale all‟insegna dell‟eclettismo nasce dalla
convinzione che la sociologia e le scienze sociali
debbano essere aperte alle altre discipline, in
nome dell‟innovazione e della creatività.
Michela Bolis, Università Cattolica - Milano
Una “scrittura a tutto campo”. Tra cultura e
sociologia
Uno degli interrogativi più interessanti emersi dal
convegno per la presentazione del libro di Gianni
Gasparini “Tous azimuts” è la contaminazione che
le scienze sociali potrebbero (dovrebbero) avere
con altre discipline, in primis la letteratura. Le
scienze sociali si alimentano di una serie di
richiami letterari e nascono, comunque, all‟interno
2
di un filone, quello delle scienze umane, che della
letteratura, dell‟umanesimo, della filosofia si nutre
fin dalle origini. “Terza via” tra filosofia e
letteratura, questo la sociologia potrebbe essere. E
il libro di Gianni testimonia direttamente quanto
questo sia possibile. I padri fondatori della
disciplina sociologica sono scrittori di vaglia:
pensiamo a Max Weber di Economia e società o
alle scintillanti pagine di Karl Marx nel primo
libro del Capitale. Ma la sociologia, questo
sembra il senso della riflessione di Gianni
Gasparini, non sembra tanto alimentarsi di questo
nutrimento fondativo, quanto propendere per
analisi finalizzate alla conoscenza ristretta e senza
respiro richiesta da alcuni momenti critici e da
alcune mode del momento. Questo potrebbe
essere in parte causato dalla poca sensibilità dei
sociologi ma, anche o soprattutto, dalla scarsa
considerazione che analisi più approfondite (e
sostenute da miglior scrittura) ricevono all‟interno
della nostra società. La sociologia potrebbe aver
smarrito il senso su cui aveva fondato il suo
nascere ma, probabilmente con una spiegazione
più semplice (e anche semplificatoria), l‟interesse
per la conoscenza dei fondamenti della nostra
società si è diradato. Per molti motivi: dalla
politica, che ha perso ogni visione di Stato (e di
società, che ne costituisce il fulcro), alla
complessità macchinosa che la nostra società
esibisce ogni giorno di più, alla scarsità delle
risorse dedicate a ciò che ai sociologi sembrava
importante un tempo e che ora non appare più così
necessario. O per altri motivi meno evidenti, che
vanno dalla strisciante ignoranza su alcuni capitoli
considerati da sempre capisaldi imprescindibili di
un‟umanità colta ma che oggi non hanno più alcun
richiamo, all‟imperare della tecnologia, che
diventa governo incolto di ciò che andrebbe
invece coltivato con diversa attenzione. Da
sempre, Gianni Gasparini è attento al tema del
tempo. Ebbene, di quale tempo parliamo oggi? Il
“tempo reale” della comunicazione istantanea, il
tempo di lavoro (quando il lavoro è scarso anche
il tempo che vi si dedica è di peso diverso e
dunque non più “liberato”, ma desiderato), il
“tempo umanistico” invocato dall‟Autore? Come
viene riempito questo tempo, di quale cultura si
sostanzia? Soprattutto nel nostro tempo, dire che
cosa sia degno di attenzione è compito difficile da
compiere. Come impieghiamo il tempo?
Letteratura,
poesia,
bellezza
sembrano
appannaggio di pochi: dovrebbero essere di tutti,
nella partecipazione agli spazi collettivi, nello
sforzo comune di contribuire alla costruzione di
qualcosa di stabile e di condivisibile, nel rispetto
di (alla fine) poche regole. Il circuito virtuoso tra
condizioni strutturali di benessere condiviso e di
cultura che trascina a riflettere sul bene comune
fonda le società degne di essere abitate. Lasciando
sullo sfondo la struttura sociale, che costituisce
parte a sé stante ancorché indisgiungibile, ci
chiediamo che cosa sia cultura oggi. Che cosa
dobbiamo insegnare, dalla scuola materna, nelle
nostre istituzioni scolastiche e formative? Quale
peso devono avere le diverse discipline? Uno
degli sforzi possibili della sociologia potrebbe
essere di comprendere che cosa alimenta davvero
percorsi di vita soddisfacenti dal punto di vista
culturale. Ma, anche, quanto debbono contare le
materie pratiche nella formazione? I bambini
australiani imparano in prima elementare a infilare
un ago, attaccare un bottone, fare un rammendo,
provvedere in qualche misura ai bisogni della vita
pratica. Sono privi di cultura? Noi abbiamo
dimenticato qualunque riferimento ai bisogni che
collochiamo “in basso” (ma che della cultura sono
la matrice e che richiedono “appagamento
gerarchico”, se vogliamo arrivare alle più alte
vette di quelli spirituali), rimandando a qualcun
altro, a qualcos‟altro la loro soddisfazione.
Abbiamo ribrezzo per le attività pratiche più
semplici, nel vano tentativo di esorcizzare la
nostra corporeità e, in definitiva, la morte,
l‟ultimo tabù. Che cosa può nutrire le nostre menti
e i nostri cuori (sociologici, anche)? Se società
diverse ritengono necessarie discipline che altrove
nel tempo e nello spazio sono considerate in altro
modo, allora le risposte sono difficilissime. I
programmi della scuola, ma soprattutto quelli
universitari sono ridotti all‟osso in termini di
cultura: ci si accontenta di raggiungere alcune
mete di breve raggio, computate diligentemente in
crediti formativi (dove saranno mai spese queste
monete, nessuno lo sa). Le proposte di “pura
cultura” (dove non sono rilasciate attestazioni di
credito), che pure le università offrono, sono di
solito disertate dagli studenti. Nessuno, o pochi
(Gianni Gasparini tra questi), d‟altra parte, dice
loro chiaramente che queste sono le occasioni
dove un nutrimento vero e di qualità è a
disposizione, per la vita e la professione e non
solo per finire presto l‟iter degli studi. Dove
acquisire la prima delle competenze, quella di
sapere che non si sa, insieme al desiderio di
sapere, perché sapere è bello? Probabilmente,
laddove nella prima infanzia sia mancato un
alimento di base composto di libri, parole dette,
suggerimenti proposti; un clima dove abbia potuto
germogliare il primo dei regali familiari, interesse
e curiosità, il compito di rispondere a questa
domanda è pressoché impossibile da compiere. E
la catena di incultura si allunga velocemente.
3
L‟unica risposta è probabilmente di crederci
sempre, di ripresentare sempre l‟argomento, di
fendere le nebbie dell‟indifferenza con tenacia e
coraggio. Credendo in tempi migliori.
Silvia Cortellazzi, Università Cattolica - Milano
 Ciclo seminariale “Giustizia e letteratura
(Law and Literature)”
Per il terzo anno consecutivo, il Centro Studi
“Federico Stella” sulla Giustizia penale e la
Politica criminale dell‟Università Cattolica
organizza un ciclo seminariale dedicato al tema
della giustizia nella letteratura e ispirato ai
numerosi corsi di Law and Literature di molte
università inglesi e americane. Un fil rouge tesse
l‟intero ciclo seminariale, in linea con le edizioni
precedenti: mettere a contatto i partecipanti, grazie
alle testimonianze di eminenti scrittori e critici
letterari, con le interpretazioni di significativi testi
letterari pertinenti al tema della giustizia
(specialmente penale), affinando così l‟apertura al
dialogo interdisciplinare, la sensibilità culturale e
il “senso di giustizia” degli appartenenti al mondo
delle professioni, non solo giuridiche, e degli
studenti. L‟edizione 2011-2012 disegna un
itinerario che si dispiega in territori volutamente
disparati quanto ai generi letterari, alle epoche e
agli ambienti culturali considerati: dalla tragedia
greca al grande cinema americano a cavallo tra i
due millenni, passando per la fiaba e il romanzo
ottocenteschi. Si comincia con Manzoni: non,
come sarebbe stato più “scontato”, La storia della
colonna infame, bensì I Promessi Sposi e, in
particolare, l‟evoluzione della domanda di
giustizia in Renzo, diviso tra istanze vendicative
che “chiudono” ogni prospettiva di compimento –
e ogni moto narrativo – e slanci verso una
giustizia altra e “vera” che nel perdono troverà
l‟apertura alla realizzazione di sé e rimetterà in
modo la storia (“La via stretta: vendetta, giustizia,
perdono nei Promessi sposi”, relatore Pierantonio
Frare, discussant Luciano Eusebi, 10 novembre
2011). Sarà poi la volta del seminario intitolato
“La legge in mare: Melville da Benito Cereno a
Billy Budd” (relatore: Francesco Rognoni,
discussant Arianna Visconti, 16 febbraio 2012): il
mondo della legge è onnipresente nelle opere di
Melville, nel registro documentario di White
Jacket come in quello semicomico di Bartleby,
nelle tonalità tragiche di Benito Cereno o quasi
religiose di Billy Budd. Il seminario avrà ad
oggetto queste ultime due opere, con frequenti
riferimenti al capolavoro, sempre ricco di spunti,
Moby Dick. Il Pinocchio di Collodi, capolavoro
della
letteratura
mondiale,
condurrà
all‟esplorazione
della
devianza
seguendo
peripezie, bugie, inganni e incontri di cui è
protagonista e vittima il notissimo burattino, per
ritrovarsi infine al cospetto di una giustizia
capace, con il per-dono, di generare
trasformazione e compimento (“Il caso Pinokkio:
tra menzogna, violenza e perdono”, relatori
Giovanni Gasparini e Ruggero Eugeni, discussant
Gabrio Forti, 15 marzo 2012). Il seminario di
aprile, dal titolo “Limite, trasgressione e
responsabilità: riscritture moderne della tragedia
antica” (relatrice Anna Maria Cascetta, discussant
Francesco D‟Alessandro, 19 aprile 2012), è
interamente dedicato al genere letterario che, forte
del carattere performativo del teatro, ha
attraversato i secoli elaborando sempre nuove
declinazioni, fino ad arrivare al nostro tempo con
riscritture
e
revisioni
profonde,
cifra
dell‟incessante ricerca di senso dell‟uomo in
merito alla giustizia, alla libertà e alla
responsabilità, alla punizione. Chiude il ciclo
seminariale
una
tavola
rotonda
sulla
cinematografia di Stanley Kubrick. L‟opera di
Kubrick consegna allo spettatore un‟idea di
giustizia ambivalente: alla giustizia degli uomini
si contrappone una giustizia “superiore”,
svincolata da logiche e regole comprensibili e
dominata dal caso. L‟alternanza fra queste due
facce della giustizia si ripercuote sui destini dei
protagonisti, creando forme cinematografiche
dagli sviluppi costantemente aperti (“La giustizia
indifferente: etica e casualità nella cinematografia
di Stanley Kubrick”, relatori Gian Battista
Canova, Remo Danovi, Ruggero Eugeni, Carlo
Enrico Paliero, 10 maggio 2012). Il ciclo
seminariale 2011-2012 di “Giustizia e letteratura
(Law and Literature)” si propone quindi come un
viaggio del pensiero i cui “paesaggi” culturali e
“climi” letterari svelano il senso profondo,
unitario e comune, dell‟andare in cerca della
giustizia attraverso la letteratura: un andare che,
nell‟edizione di quest‟anno, pare più che mai
condensarsi intorno all‟interrogativo difficile su
violenza e male e intorno alla risposta difficile
circa i modelli di giustizia che a quel male e a
4
quella violenza desiderano porre rimedio1.
Claudia Mazzucato, Università Cattolica Milano
Farsi da parte per Essere Parte. Riflessioni
sugli spazi della convivenza oggi.
(Resoconto ragionato della seconda edizione del
corso residenziale di Alta Formazione in
Umanesimo Cristiano tenutosi presso l‟Almo
Collegio Borromeo di Pavia dal 29 agosto al 3
settembre 2011).
Un‟isola felice. È questo il pensiero che mi ha
accompagnato durante la permanenza al Collegio
Borromeo. L‟eccellente ospitalità del Rettore don
Ernesto Maggi, l‟alta preparazione dei relatori, la
profonda umanità degli organizzatori2 e la
piacevole disposizione al confronto dei
partecipanti, ha confermato quello che già
pensavo prima di arrivare e cioè che il problema
del rilancio o della rinuncia di valori - nonostante
la tristezza, l‟indifferenza e la liquidità che sembra
segnare il nostro tempo - è una opzione profonda
dell’anima propria di ogni tempo: sta a ciascuno
di noi sapere se vogliamo tenerli e sostenerli o se,
ignorandoli, cediamo sotto il peso di un compito
che i più dicono essere, ormai, insostenibile.
Utilizzando appieno quanto sostiene Simone Weil
potremmo allora dire che, contro questa
vittimistica perdita di realtà, è forse necessario
imparare a discrearsi. E questo - rispetto ad
un‟esperienza come il corso di Alta Formazione significa che dobbiamo, certamente, continuare a
nutrirci di incontri culturalmente alti, lasciando,
però, perdere l‟infantilistica pretesa di un
immediato indottrinamento una volta fuori da
questi luoghi. Dobbiamo cioè riscoprire la
paziente arte della mediazione se vogliamo,
davvero stare, nel mondo con la consapevolezza di
non essere completamente del mondo. Potremmo
dire che si tratta di imparare ad agire quasi non
agendo, mettendoci da parte. Con questa
rotazione interiore diveniamo, paradossalmente,
parte viva del mondo. Attenzione, però, a non
confondere questa operazione come un nuovo
rifugio nell‟intellettualismo, nel misticismo o
nella vita eremitica. Farsi da parte è un
movimento attivo e passivo allo stesso tempo. È
una scelta dettata dalla contingenza che, però, va
1
Per maggiori informazioni e per scaricare il programma dei
seminari (sottoposti a condizioni di iscrizione e accesso):
CSGP – CENTRO STUDI “FEDERICO STELLA”,
Via Carducci 30 – 20123 Milano
Tel. 02.7234.5175 – Fax. 02.7234.5179
Sito Web: csgp.unicatt.it
2
Prof. Giampaolo Azzoni, Università di Pavia; Prof.
Stefano Semplici, Università Tor Vergata di Roma.
oltre la contingenza stessa. È un fare posto ad
altri, non uno svuotarsi di sé. C‟è, al fondo,
un‟attività. Ci si rende disponibili e permeabili,
orientati dall‟idea che il nostro lavoro, vista la
nostra natura di esseri individuali di sostanza
razionale, non possa essere determinato solo
dall‟egoistico procacciamento del cibo, ma che
abbia anche un radicale (ontologico) bisogno di
essere scandito dal desiderio altruistico della
costruzione del bene comune. La domanda
potrebbe allora essere: come realizzare questa
rotazione di pensiero? Con Giovanni Gasparini
ritengo che si potrebbe cominciare imparando a
risignificare il tempo nel quale siamo, facendolo
transitare dalla ferrea logica dell‟efficienza a
quella simbolica del tempo debito (Kairòs) in cui
ciascuno di noi, in prima persona, si mette in
gioco e si dona al mondo nel rispetto del vissuto e
del luogo da cui proviene.
Giusi Venuti, dottore di ricerca in Scienze
Cognitive, Università degli Studi di
Messina
Tracce Creative: otto conversazioni sui
percorsi della creatività nell’industria culturale
in Italia
OssCom – Centro di ricerca sui media e la
comunicazione dell‟Università Cattolica di
Milano
e
l‟agenzia
di
comunicazione
TBWA\Italia sono promotori del progetto “Tracce
Creative. Otto conversazioni sui percorsi della
creatività nell‟industria culturale in Italia” (dal 12
ottobre al 30 novembre presso l‟Università
Cattolica). Attraverso il confronto diretto con i
protagonisti, “Tracce Creative” racconta le storie
di persone e prodotti che hanno recentemente
tracciato percorsi innovativi, attraverso esperienze
originali capaci di rappresentare l‟energia diffusa
nel contesto nazionale. Personalità del mondo del
cinema, della televisione, dell‟editoria, della
musica, dell‟arte, del teatro e dei media digitali
che hanno rotto gli schemi e trovato vie nuove di
espressione nel proprio mercato di riferimento.
Innovatori che hanno avuto il coraggio di
cambiare le regole e le prospettive. Il blog satirico
collettivo
Spinoza.it,
la
free
press
sull'intrattenimento urbano Zero Magazine, il
gruppo di ricerca teatrale Babilonia Teatri, il
regista
cinematografico
Michelangelo
Frammartino, l'artista Marco Fantini, il magazine
maschile del Sole24ore IL - Intelligence in
Lifestyle, il portale di musica indipendente italiana
Rockit e la fiction italiana Boris sono i
protagonisti di questo ciclo di conversazioni. Ad
essi si affiancano diversi interlocutori: giornalisti,
teorici e docenti, professionisti del mercato,
5
personaggi del mondo della cultura. L‟obiettivo di
“Tracce creative” è offrire un contributo per
rianimare e approfondire un dibattito pubblico il
cui interesse è nello stesso tempo culturale,
istituzionale e produttivo. Ovvero per discutere,
attraverso alcuni interpreti del cambiamento, sia
dei possibili percorsi di emersione della creatività
italiana in una fase di stagnazione, sia di un tema
che non può più essere ridotto a pochi stereotipi.
“Tracce Creative” è allora una piccola
esplorazione a tappe, intorno alle circostanze che
valorizzano la capacità dei soggetti di mettersi in
connessione, creare nuovi legami, contaminare
competenze diverse, far dialogare mercati e
prodotti che in precedenza erano distinti e
separati. Tutti i casi considerati infatti evidenziano
l‟importanza di alcuni fattori che vanno aldilà del
puro „genio ideativo‟, e mostrano il ruolo decisivo
della spinta abilitante di fattori „esterni‟ o
contestuali (la presenza di reti di relazioni, di
ambienti informali o istituzionali, di condizioni
nelle politiche pubbliche). Un percorso in cui
emerge come la creatività non è solo questione di
idee, ma di processi sociali (culturali e politici)
che vedono al centro la possibilità e la capacità di
„costruire ponti‟, „mettere in contatto‟ esperienze
diverse, in partenza persino distanti.
OssCom - Centro di Ricerca sui media e la
comunicazione (a cura di), Università Cattolica
- Milano
2. Libri & Scritti
 Chi sta uccidendo la Tv?
Dopo la Paleotelevisione e la Neotelevisione
teorizzate qualche anno fa da Umberto Eco, oggi
stiamo cominciando ad entrare nell‟epoca della
Transtelevisione», cioè di una televisione “aperta”
e caratterizzata dalla mancanza di precisi confini.
Nella Transtelevisione infatti cadono gli steccati
interni tra i generi e ogni distanza rispetto alle
persone che guardano, mentre il pubblico diventa
il vero protagonista del flusso comunicativo. I
reality show in programmazione da diversi anni
hanno stancato gli spettatori, ma il loro modello
rappresenta comunque quello verso cui si sta
muovendo la televisione contemporanea. Nel mio
recente volume Stanno uccidendo la tv (Bollati
Boringhieri, Torino, 2011) ho cercato di
dimostrare che molti ritengono che la televisione
sia arrivata al termine del suo ciclo di vita, mentre
in realtà possiede ancora delle notevoli possibilità.
Va considerato, ad esempio, che Internet oggi
sfrutta spesso i contenuti creati dalla televisione
(non a caso rintracciabili in gran parte su
YouTube). I due mezzi si stanno sempre più
fondendo, ma i contenuti sembra che potranno
rimanere in gran parte quelli televisivi. Inoltre, i
più giovani si stanno spostando su social network
come Facebook, ma spesso guardano la
televisione e commentano simultaneamente in
Rete i programmi che stanno vedendo. La
televisione è un mezzo potente che possiede una
notevole capacità d‟influenza sulle persone e la
politica ha cercato perciò da tempo di controllarla
per creare consenso. Il controllo eccessivo ha
generato però progressivamente un effetto
boomerang: la fine della competizione interna e
l‟omogeneità dell‟offerta, che hanno indebolito il
mezzo e fatto perdere interesse agli spettatori. È
possibile pensare però a un modello differente di
televisione, dove a prevalere sia principalmente la
natura di strumento di acculturazione e di
emancipazione di tale mezzo, nel solco di molti
degli esempi che sono stati forniti in passato dalle
televisioni pubbliche di vari Paesi, a cominciare
dall‟Italia. Chi gestisce i network televisivi deve
tenere conto di ciò e cercare di sviluppare dei
linguaggi innovativi. La fiction di qualità,
l‟informazione e i grandi eventi sono solo alcuni
esempi delle aree verso cui la televisione può
orientarsi. La Tv è in grado inoltre di aiutare chi
guarda a comprendere meglio quello che accade
ogni giorno. Può pertanto recuperare parte dello
spirito pedagogico degli inizi, seppure
comunicandolo attraverso un nuovo linguaggio.
Vanni Codeluppi, Università di Modena e
Reggio Emilia
Gianni Gasparini, Tempo di Natale, Viator
editore
Gianni Gasparini, docente di Sociologia alla
Cattolica di Milano, poeta e scrittore dai
molteplici interessi, ha dedicato questi dieci
racconti “diversissimi e convergenti” - come
recita la quarta di copertina – alla festività del
Natale. Racconti tenui e velatamente malinconici,
tenuti insieme appunto dal filo rosso
dell'occasione natalizia, ma ambientati in epoche e
luoghi molto lontani tra di loro: dalla Val d‟Aosta
alla Spagna, dalla Liguria alla Danimarca. E i
protagonisti imprevedibili e originali si rincorrono
nelle loro vicende accomunati da una sensibilità
attenta e discreta nei riguardi dell'atmosfera
delicata e struggente del 25 dicembre. Così un
Garcia Lorca bambino vive la notte della vigilia
con la sospesa premonizione del suo futuro
destino di poeta, un anziano vedovo ritrova
casualmente un suo antico amore, uno scrittore
demotivato recupera l‟ispirazione per un racconto
natalizio nella solitudine di un bosco. E ancora un
6
trovatore catalano di otto secoli fa tenta di
sfuggire alla passione per la sua signora cercando
scampo nei suoi versi e in un altrove nutrito di
nostalgia, un incompreso liutista inglese del 1600
mette in musica il Salmo 100 proprio il mattino
della natività, un aquilone sperso nel cielo
invernale riesce a dare l'allarme di un glaciomoto
e a portare soccorso ad alcuni sopravvissuti. Il
Natale “è il presente di Dio”, “festa di una
memoria che ritorna”, una giornata unica che
mantiene la sua magia anche nell'epoca di
internet, un momento particolare in cui piantare
“il seme del dono, con la fiducia che il dare e il
ricevere possano un giorno congiungersi”. La
natura partecipa silenziosa e buona alla
commozione delle persone:“ su tutto aleggiava
come un manto la profonda concentrazione
dell'inverno”. Dieci racconti poetici, in cui non
appare il male, che sembra sconfitto almeno per
ventiquattro ore, perché – come dice un
personaggio- “nel Natale del nostro Signore
bambino dobbiamo avere nel cuore allegrezza e
gratitudine, qualunque sia la sofferenza che ci
affligge”.
Alida Airaghi, scrittrice
Claudio Gambardella, Progettare [interni]
come esperienza, Aracne Editrice, Roma 2010.
Che spazio viene riservato dalla cultura del
progetto al mondo interiore delle persone, in
primis dei progettisti stessi e degli studenti
universitari, degli abitanti di una casa, dei
lavoratori di un ufficio, dei fedeli di una chiesa,
dei pazienti di un ospedale? È la domanda
implicita con cui Claudio Gambardella affronta
nel libro Progettare [interni] come esperienza
alcuni temi sensibili della disciplina dell‟Interno
Architettonico. L‟architettura di questi anni di
«dittatura dei mercati finanziari», per dirla con
Latouche, prestandosi ad essere l‟arma mediatica
di «una globalizzazione trionfante e arrogante
(seppure in crisi)», si manifesta attraverso
splendide
carrozzerie
ipertecnologiche
e
stupefacenti
epidermidi
comunicative;
quest‟architettura, innamorata narcisisticamente
della sua immagine e sempre più autoreferenziale,
preferisce stupire con “oggetti abitabili” che
aggravano la progressiva frammentazione dei
paesaggi, urbani e naturali, tipica della modernità,
anziché misurarsi nell‟antico magistero del
dialogo paziente con i luoghi. L‟architettura
diventa design, lo spazio interno un calco di gusci
vuoti, l‟abitare una simulazione, un esercizio in
3D. All‟affermarsi di società nuove dovrà
corrispondere un‟architettura liberata dalla
sottomissione
nei
confronti
della
«tecnoeconomia», che plachi la sua ossessiva
frenesia di apparire a tutti i costi, che si preoccupi
di farsi “rete” riannodando i rapporti recisi tra
uomo, città e natura e che rivaluti l‟interno
architettonico – “architettura invisibile” dell‟era
della globalizzazione - come spazio dell‟uomo,
delle sue esperienze interiori e dell‟ascolto di sé,
spazio dei sentimenti, della vita, delle relazioni,
spazio conviviale, per propagarsi all‟esterno e
dare forma all‟architettura nella sua unità e
interezza. Attraverso la raccolta di elaborati di
esami e tesi di laurea degli studenti della Facoltà
di Architettura della Seconda Università di
Napoli, viene illustrato un metodo progettuale
sperimentato nel corso dell‟attività didattica.
Nonostante la diversità dei temi affrontati
(l‟attesa, le case per immigrati, gli arredi per la
cura di sé), un unico fil rouge li lega facendo
entrare in gioco l‟esperienza interiore nelle fasi
preliminari del progetto. In particolare, quello dei
luoghi dell‟attesa negli ospedali è stato un tema
sviluppato attraverso una straordinaria esperienza,
umana e scientifica, ispirata alle precedenti
ricerche sugli “interstizi” del professore Giovanni
Gasparini, che l‟autore del libro ha condotto nel
corso di un forum con pazienti e familiari, medici
e infermieri, tenutosi anni fa presso l‟Istituto di
Psicologia Oncologica del Pascale di Napoli.
Claudio Gambardella, Seconda Università degli
Studi di Napoli
Franco Riva, Come il fuoco. Uomo e denaro,
Cittadella ed., Assisi 2011.
Quando si parla del denaro, ci si scontra con la
sua ambivalenza strutturale. San Francesco lo
chiamava “sterco del demonio”, per Calvino esso
esprimeva la benevolenza di Dio, per Sartre aveva
un carattere “magico”. Il filosofo Franco Riva gli
dedica uno stimolante studio, in cui afferma che
ormai il denaro è diventato un feticcio universale,
una sorta di religione globale, con “i suoi
sacerdoti, il suo popolo, i suoi templi, le sue
liturgie, i suoi riti”. Una nuova divinità, quindi,
che permea e invade la nostra quotidianità, si
insinua negli ambienti domestici e lavorativi,
prolifera e domina qualsiasi attività del nostro
tempo libero: dallo sport al turismo, dalla
contemplazione di opere d'arte all'utilizzo dei
servizi igienici nelle stazioni. Ormai paghiamo un
ticket per qualsiasi espressione della nostra
volontà: “La contraddizione totalitaria della
liberissima società dei consumi non consiste nel
ridurre tutto a consumo, ma nell'imporre senza che
nessuno protesti sul serio...dei ticket per accedere
al diritto stesso di consumare”.
7
È proprio tutto così sconfortante? L'homo
oeconomicus ha quindi assorbito totalmente ogni
altra caratteristica dell' essere umano? Quali valori
si sottraggono al nuovo credo del denaro? La
verità, la fede, i diritti umani, la giustizia, la difesa
dell'ambiente, la gratuità del dono, la
solidarietà...Ma ne siamo certi, o fingiamo un
candore da anime belle che preferiscono la cecità
all'efferatezza del realismo? Cosa ci può salvare, a
questo punto? Franco Riva richiama tutti a una
“resistenza silenziosa ed eroica”, a un
ripensamento dei propri valori, a una dignità
dell'impegno nella vita comune: allora anche il
denaro può essere d'aiuto nel soccorrere chi si
trova in difficoltà, nel diffondere cultura, nel
riequilibrare la giustizia attraverso il risarcimento
piuttosto che con la vendetta, nel recuperare l'idea
della propria professione non solo come ricerca
del profitto ma anche come pienezza e
soddisfazione di vita.
Alida Airaghi
3. Arte & Comunicazione
 Due film sulle migrazioni dall’Africa:
“Terraferma” di E.Crialese (2011) e “Il villaggio
di cartone” di E.Olmi (2011)
Il tema scottante delle migrazioni dall‟Africa in
Italia, con l‟arrivo dei barconi di clandestini, è
affrontato
da
due
film
usciti
quasi
contemporaneamente ad opera rispettivamente di
Emanuele Crialese e di Ermanno Olmi. In
entrambi abbiamo a che fare con sbarchi che
costano la vita in mare ad una parte dei clandestini
che tenta di raggiungere le coste italiane, con una
donna che partorisce un bambino appena arrivata,
con l‟accoglienza riservata a questi migranti. In
generale, il tema è quello del confronto tra culture
diverse e distanti ma oggi destinate ad avvicinarsi
e a incontrarsi a motivo della facilità dei
collegamenti e della stessa posizione geografica
del nostro paese. I due film sviluppano in modo
ben diverso la tematica: Crialese aveva firmato
nel 2002 un film singolare ed efficace (Respiro)
raccontato su una Lampedusa che non conosceva
ancora il drammatico problema degli sbarchi,
mentre quella di oggi (anche se le riprese sono
state effettuate nella vicina Linosa) ne è
profondamente coinvolta e traumatizzata, pur non
rinunciando ad una vocazione turistica. Nel film si
assiste all‟arrivo di un gruppo di disperati che
viene avvistato e soccorso dalla barca su cui
stanno pescando l‟anziano Ernesto, uno degli
ultimi tenaci pescatori dell‟isola, e il ventenne
nipote Filippo. Quest‟ultimo appare disorientato
tra la “legge del mare” che il nonno gli testimonia
quando accoglie immediatamente i naufraghi e si
tuffa in mare per salvare una donna e il suo
bambino, e un atteggiamento di rifiuto dei
migranti che si verifica in un episodio successivo
quando Filippo respinge le mani di coloro che
vorrebbero attaccarsi alla sua imbarcazione per
salvarsi. Il nonno e la nuora (vedova di suo figlio
e madre di Filippo) accolgono in casa la donna
salvata con il figlio, proprio mentre questa sta per
partorire un altro bambino, e la aiutano a proprio
rischio, opponendosi alle leggi che impongono la
denuncia dei clandestini; alla fine sarà proprio
Filippo a condurre alla salvezza verso il
continente la donna con il neonato e l‟altro
bambino. Al realismo equilibrato e problematico
di Crialese fa da contrappunto una narrazione
decontestualizzata e quasi simbolica di Olmi,
dove il confronto tra culture e tra persone diverse
si incarna soprattutto nella figura del vecchio
prete che accoglie nella chiesa appena dismessa e
privata dei suoi arredi un gruppo di clandestini
africani, i quali costruiscono al suo interno un
precario “villaggio di cartone”. La narrazione di
Olmi, che si avvale di immagini suggestive, trova
il punto centrale nella contrapposizione tra fede e
carità di cui si fa interprete il prete, già in crisi sul
senso della propria opera svolta in tanti anni per i
parrocchiani: il bene supera ogni altro obiettivo,
aiutare gli altri è la priorità assoluta, anche se
entra in rotta di collisione con le leggi degli
uomini. La sensibilità di un regista come Olmi è
ovviamente fuori discussione, ma la sua proposta
filmica rischia di cadere qui in una retorica
stucchevole: come nella discussione sulla violenza
che avviene tra i membri del gruppo di
clandestini, o nella scena improbabile del prete
che dà un‟ombrellata in testa al capo dei tutori
dell‟ordine entrato in chiesa per arrestarne gli
occupanti e in tal modo lo fa desistere; o come,
per finire, nella sovrimpressione che conclude il
film, in cui gli spettatori vengono avvertiti che la
storia ci sta cambiando se non la cambiamo noi. Il
messaggio di Olmi è evidente, ma sorge il dubbio
che per trasmetterlo sarebbe stato meglio lasciar
parlare le immagini, le musiche e le vicende
raccontate; e che i dialoghi, anche se firmati da
persone di valore come Magris e Ravasi, abbiano
reso intellettualistico l‟approccio a un tema che in
Crialese acquista invece vivezza ed efficacia di
racconto.
Giovanni Gasparini, Università Cattolica Milano
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 Silvio Wolf: sulla soglia
Il titolo della mostra è quasi un manifesto
programmatico. La personale di Silvio Wolf,
allestita al PAC di via Palestro dal 6 Ottobre al 6
Novembre scorso, è stata impostata tutta intorno
al tema della soglia. Non solo per le fotografie di
portali arabeggianti che si aprono su squarci di
palmeti e di deserti, in un gioco di luci e di ombre,
di pieni e di vuoti. Non solo per le immagini
fortemente simboliche, le architetture, i rimandi a
un Altrove lasciato all‟immaginazione di chi
osserva. Ma perché tutta la tematica quasi
trentennale dell‟artista milanese lavora, come egli
stesso afferma, sul “rapporto fra reale visibile,
superficie e soggetto”. Si potrebbe dire che alcune
delle opere esposte sperimentino la possibilità che
non possa nemmeno darsi un reale visibile senza
l‟interazione con un soggetto. Giochi di luce,
apparizioni e scomparse, superfici riflettenti e
specchi nascosti da drappeggi: l‟artista vuole
mostrare come sia l‟atto stesso dell‟osservare a
mutare la natura di ciò che viene osservato. In un
certo senso, è l‟osservatore stesso a entrare dentro
l‟opera e a doversi porre degli interrogativi. La
mostra di Wolf si svolge attorno al tema della
soglia e del passaggio anche nel modo di
affrontare il rapporto tra luci e oscurità, tra
l‟assenza di dati e immagini e il loro eccesso.
L‟artista dichiara che, in un mondo ormai saturo
di immagini di ogni tipo, l‟unica operazione
d‟avanguardia sia quella di lavorare per
sottrazione e di investigare le possibilità
dell‟assenza. La serie “Orizzonti” è quella che
forse maggiormente colpisce l‟immaginario di chi
visita la mostra: una selezione di frammenti di
scarto del processo fotografico, spezzoni di
pellicola che rimane impressionata durante il
caricamento, prima che il fotografo componga la
sua immagine. Forme e colori allo stato liquido,
una fotografia prima della fotografia, una
immagine che si scrive nella breve soglia prima
che il fotografo decida cosa farle scrivere. Con le
sue sperimentazioni, mai comunque così tanto
“sperimentali” da risultare illeggibili al resto del
mondo, le opere di Silvio Wolf offrono stimoli e
prospettive interessanti di riflessione anche teorica
sul “quasi” e sul “non ancora”.
Francesco Mazzucotelli, Università Cattolica –
Milano
4. Vita quotidiana
 La casa interstizio
Che strana costruzione, non ne esiste una simile.
Nei miei lungi viaggi non ho visto mai qualcosa
come la casa interstizio. Si trova in un quartiere di
ville suburbane, nella zona Occidentale della
citta`. Ad un certo punto, dove la strada curva
improvvisamente, te la trovi proprio di fronte. La
casa si presenta differente da tutte le villette
circostanti. Si vede un gran tetto con spioventi e
abbaini come appoggiato al terreno. Ad una prima
occhiata sembra che ci sia stato un terremoto e
conseguentemente la copertura sia crollata a terra.
Poi, avvicinandosi un poco, si capisce che non si
tratta di un crollo, ma la cosa e` voluta. Si sa che il
proprietario, il professor Gianni, e‟ un tipo molto
strano. Dopo una brillante carriera scientifica, si
e´ fatto costruire una ben curiosa casa. Un giorno
sono riuscito a farmi invitare. Il prof. Gianni mi
ha accolto con simpatia e mi ha accompagnato
nella visita. Il grande tetto ha spioventi come le
case svizzere con abbaini luminosi, il sottotetto
custodisce una bellissima soffitta con tanti mobili,
armadi, contenitori, oggetti dappertutto; insomma
proprio come la soffitta dei sogni dove ritroviamo
le vecchie cose dei nonni e i giochi della nostra
infanzia. Poi c‟è una ripida scala che porta al
piano interrato con una grande cantina dove
trovano spazio i salami, le provviste, i vini, i
formaggi e le biciclette. Tutt‟intorno corrono una
serie di intercapedini e di corridoi stretti. Alla fine
della visita perplesso chiedo al mio interlocutore
perché ha rinunciato ai locali veri e propri, perché
non ha un soggiorno, una cucina e una camera da
letto come tutte le case, perché non esiste il piano
terreno? Mi ha risposto così: “ Ho capito che nella
casa interstizio si può salire verso l‟astrazione
della soffitta e allo stesso modo discendere nella
cantina sognando di trovare un tesoro sepolto. Ho
evitato quindi il piano terra della pura razionalità,
così posso finalmente abitare poeticamente”.
Marco Ermentini, Shy Architecture Association
Interstizi pendolari. Racconti di viaggio tra
Brescia e Milano
Giovedì 15 settembre 2011, ore 7:27, stazione di
Brescia. Sul treno regionale per Milano sale un
9
passeggero d'eccezione: il Vescovo Luciano
Monari. Vuole conoscere da vicino l'esperienza
dei pendolari. Per un'ora e otto minuti, mentre il
treno copre lo spazio interstiziale tra Brescia e
Milano, studenti e lavoratori raccontano storie di
vita quotidiana. Il tragitto è uno solo, ma ognuno
lo percorre a modo suo. Studenti universitari che
prendono il treno locale, più lento ma meno
affollato, per poter leggere con tranquillità;
professionisti che preferiscono l‟eurocity, per
raggiungere prima il luogo di lavoro. Se c‟è una
cosa che li accomuna è il “kit del pendolare”:
maglione anche d'estate, per difendersi dall'aria
condizionata oppure lo scotch per coprire i
bocchettoni dell'aria; cuscini da viaggio per stare
più comodi o un semplice telo per evitare il
contatto diretto con tessuti spesso sporchi. E tutti
parlano la “microlingua” delle Ferrovie: chiamano
i treni per numero e sono gli unici in grado di
decifrare gli annunci in caso di ritardo.Durante il
viaggio, il treno diventa sala di lettura per chi
deve studiare, cabina telefonica per chi inizia in
viaggio la propria giornata lavorativa, bar per chi
scambia qualche opinione leggendo il giornale.
Esigenze spesso incompatibili tra loro, ma le
divergenze emergono solo nei momenti di
tensione, quando ci sono guasti o ritardi. Perché la
carrozza di un treno, per i pendolari, è un luogo
sociale: uno spazio di relazione, dove si fa
comunità. Una comunità che ora è anche digitale:
grazie ai messaggi istantanei, i pendolari sono
informati dei ritardi da chi prende il treno nelle
stazioni precedenti; nei gruppi di discussione,
condividono informazioni e scambiano opinioni,
esprimono il loro dissenso e organizzano le
proteste. Il Vescovo ascolta, fa domande, poi
racconta i suoi viaggi da studente-pendolare. E ci
si accorge che, nei ricordi, i viaggi sono meno
faticosi. Stazione centrale di Milano. Prima che il
treno riparta per Brescia, c'è giusto il tempo per
una visita a quello che è diventato un vero e
proprio centro commerciale. I pendolari fanno le
scale, per non perdere tempo con i lunghi percorsi
obbligati dei tapis roulant. Capita anche che
facciano acquisti, ma poi rimpiangono le sale
d‟attesa. Perché nelle stazioni di nuova
generazione anche gli spazi interstiziali sono a
pagamento.
Ivana Pais, Università Cattolica - Milano
Rubrica “Le città interstiziali”
Vancouver, interstizio umano tra montagna e
mare, tra oriente e occidente
Ho sempre sentito parlare in termini molto
elogiativi di questa città sulla costa occidentale
del Canada, vicinissima agli Stati Uniti eppure
così diversa dall‟atmosfera che si respira in tante
metropoli americane, ma non ho mai capito
esattamente chi mi decantava Vancouver da cosa
fosse motivato: non mi si raccontava infatti nulla
di particolare, nessun monumento o museo
prestigioso (anche se il MOA smentisce ciò in
parte), nessuna architettura mozzafiato, nessun
piano urbanistico originale, insomma nulla di
caratterizzante. La mia curiosità si è acuita quando
questa estate, in occasione di un viaggio in
Canada, ho chiesto un consiglio ad un amico
canadese – della costa Est, quindi non imputabile
di campanilismo- riguardo all‟organizzazione del
viaggio e mi ha suggerito caldamente di stare
almeno quattro giorni a Vancouver. Mi sembrava
esagerato, per una città bella sì ma che non pareva
aver nulla di particolare e caratterizzante. Così,
sulla fiducia, abbandonata la natura grandiosa dei
parchi canadesi dell‟Ovest, mi sono messa gli
abiti cittadini per visitare Vancouver. E‟ stata una
vera e propria scoperta: è una città straordinaria
nel suo essere assolutamente normale, dove però
in questa normalità rientra uno degli standard di
qualità della vita più alti al mondo. Non so
esattamente cosa concorra a determinare questo
livello, ma senz‟altro da fruitrice di questo
ambiente urbano e naturale (poiché le due
componenti non si possono assolutamente
scindere a Vancouver) posso indicare il panorama
delle montagne innevate visibile da ogni punto
della città, i chilometri di spiaggia bianca su cui si
gioca a beach-volley, si prende il sole e si fa picnic che potrebbero farti pensare di essere in
Florida (anche se poi non lo pensi perché sullo
sfondo ci sono i ghiacci), un‟estensione enorme di
giardini e parchi che sarebbe meglio chiamare
boschi o foreste in cui quando entri un cartello ti
avverte di fare attenzione perché potresti
incontrare il coyote, un parco in particolare – lo
Stanley Park- che sembra una via di mezzo tra una
foresta tropicale e una foresta selvaggia di
conifere, il “Pacific spirit” - ovvero lo spirito dei
nativi - che è presente e si sente, un mix
equilibrato, elegante e particolare tra elementi
culturali ed estetici orientali ed occidentali, una
qualità particolare della luce, quella dell‟oceano.
Girare a piedi e in bicicletta questa città è forse il
modo migliore per vivere una continua scoperta di
forme, colori, ambienti, gente, in particolare molti
giovani, completamente diversi tra loro e che
eppure sembrano essersi armonizzati. Certo è una
città che ho vissuto per poco e in tempo di
vacanza, ma non tutte le città che si visitano in
vacanza lasciano questo senso di bellezza e
serenità. Per rimanere in tema interstiziale potrei
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dire che davvero Vancouver è città interstiziale
per eccellenza: dislocata su vari isolotti all‟interno
di una foce, si trova tra mari e monti, e
culturalmente è intersezione visiva e palpabile di
occidente - americano ed europeo –, oriente –
Cina, Giappone ma anche India - e la comunità
nativa locale. L‟interstizio in questa città è
esperienza vissuta nel quotidiano: nell‟attraversare
i ponti che collegano le varie isole dal carattere
differente tra loro; nella sospensione tra oriente e
occidente che viene messa in mostra nella cura dei
giardini pubblici e privati o nelle architetture delle
case; nelle passeggiate per strada dove incroci
gente di ogni provenienza; nell‟alternanza
continua tra mare, collina, montagna, foresta,
lago.
Lucia Gasparini, dottoranda, Università
Cattolica - Milano
Sarajevo, il fiore dei Balcani
Verrebbe da dire: Istanbul e Vienna, il Tirolo e la
Turchia condensati nello stesso posto; ma sarebbe
una banalizzazione di una città troppo affascinante
e ricolma, forse suo malgrado, di storia. Già
arrivando lungo la strada che sale dall‟Adriatico si
avvertono eco di avvenimenti non lontani nel
tempo: milizie asserragliate sulle montagne; mani
che scavano il terreno gelato sotto la pista
dell‟aeroporto per creare un tunnel di fortuna e
tentare di sfuggire a un assedio infame e senza
fine. Il boulevard di ingresso alla città,
praticamente l‟unica grande arteria in questa valle
allungata e stretta, con i monti tutti attorno, scorre
accanto ai palazzoni socialisti della città nuova e
agli impianti realizzati per le olimpiadi invernali
del 1984, che invece appaiono vestigia di
un‟epoca assai remota. Si passa accanto
all‟Holiday Inn e al palazzo del parlamento.
Anche se ricostruiti e oggi scintillanti, tornano alla
memoria fotogrammi di edifici in fiamme. La via
Ferhadija, nel centro della città, è una lezione di
storia e geografia dell‟Europa orientale. Partendo
dal monumento in onore dei partigiani che
combatterono contro il nazifascismo, si entra in
una strada di aspetto viennese, con i caffè, le
banche (turche), i negozi delle grandi firme
(globali) e la cattedrale cattolica. Una grande
piazza dove i vecchi giocano con gli scacchi
giganti, anche sotto la neve, e la cattedrale serboortodossa “nuova” (cioè dell‟Ottocento), perché
quella “vecchia”, con le sue preziose icone, è più
su, vicina alla sinagoga vecchia. La sinagoga
nuova, in stile moresco, invece è dall‟altra parte
del fiume. Entrambe, insieme a un museo e
all‟associazione caritatevole “La Benevolencija”,
testimoniano di quattrocento anni di storia ebraica
sefardita: i giudei scacciati dai re cattolici della
penisola iberica e venuti a prosperare qui, in
mezzo ai Balcani ottomani, conservando il loro
idioma castigliano medievale. Si giunge infine
nella Bašcaršija, il “mercato principale” di
chiarissima impronta turca, coi bedesten (mercati
coperti), le madrase (scuole coraniche) e le
splendide
moschee
in
stile
ottomano,
frequentatissime dai fedeli musulmani. Fra negozi
e ristoranti tipici si arriva alla biblioteca
nazionale, anch‟essa in fiamme nelle guerre
etniche degli anni Novanta. Altre immagini troppo
in fretta rimosse dalla memoria dall‟altra parte
dell‟Adriatico. Si gira verso il fiume per tornare
indietro e si arriva a un ponte. Qui, un giorno del
1914, un certo Gavrilo Princip sparò a un arciduca
della casa d‟Asburgo, con le conseguenze che tutti
conoscono. La grande storia, a Sarajevo, è sempre
dietro l‟angolo. Non è un peso facile da
sopportare, e spesso si ha l‟impressione di
avvertire per strada una cupa rassegnazione e il
desiderio di lasciar cadere nell‟oblio ricordi
troppo ingombranti e dolorosi. Grbavica è il
quartiere che sta sull‟altra sponda del fiume
Miljacka rispetto al centro storico. È anche il
nome di un film di Jasmila Žbanic, il film che più
amaramente affronta il tema della memoria,
dell‟amnesia e della difficoltà di fare i conti con il
passato. Il rapporto conflittuale tra una madre e
una figlia, un padre morto da eroe che poi si
scoprirà mai esistito, la rivelazione agghiacciante
delle violenze atroci inferte sul corpo delle donne.
Ci vogliono determinazione e delicatezza per
porsi in relazione con questo muro di amnesie,
diffidenze e dolore irrisolto. Nel tinello della loro
villetta di periferia, I. e L., una coppia “mista” di
settantenni vissuti con l‟utopia di edificare la
società socialista, tra buone letture e vacanze
estive in Italia, scuotono la testa. La “loro”
Sarajevo, dicono, non esiste più. I quartieri sono
di fatto segregati su base etnica e la politica locale
continua a essere intrisa di discorsi nazionalisti. I.
e L. ancora non si capacitano. Si chiedono cosa è
andato storto, dove hanno sbagliato. La vita
riprende a fluire in questa città; ma sarebbe
salutare ricordarsi ogni tanto che in questa città
così europea, così vicina a Trieste e Ancona, in
giorni neanche troppo lontani sono iniziate a
succedere alcune cose terribili.
Francesco Mazzucotelli
Pubblicazioni recenti

Marc Augé, Straniero a me stesso. Tutte le
mie vite di etnologo, Bollati Boringhieri,
Milano 2011.
11




Marc Augé, Diario di un senza fissa dimora,
Cortina, Milano 2011.
Jacques Derrida, Gli occhi della lingua,
Mimesis, 2011.
Mario Aldo Toscano, Altre sociologie.
Dodici lezioni sulla vita e la convivenza,
FrancoAngeli, Milano 2011.
Rivista “Culture della sostenibilità”, n. 8,
2011, fascicolo monografico a cura di
Enrico M. Tacchi e Mario Salomone,
dedicato all’VIII Convegno dei Sociologi
dell’ambiente, svoltosi a Brescia il 23-24
settembre.
I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Il coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
Tel. 02.7234.2547
Cristina Pasqualini
(La segreteria)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
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Redazione:
Piermarco Aroldi, Giampaolo Azzoni, Giovanni Gasparini, Ivana Pais, Cristina Pasqualini
I corrispondenti:
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Numero chiuso il: 23 novembre 2011
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