L`Illuminismo, ovvero `della felicità`

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L'Illuminismo, ovvero 'della felicità' - II
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L’empirismo anglosassone manifesta caratteri esclusivi in confronto al fratello illuminista francese, primo fra tutti il
rispetto per le tradizioni religiose. La Salvezza non è un movente sufficiente per spronare l’uomo al bene, poiché è
impossibile che esso sia determinato ad agire in base a qualcosa che “non si percepisce”; ciò nonostante, le azioni
morali seguono una scala di valori che corrisponde perfettamente al principio di massimizzazione del piacere: se lungo
questa scala, ad un certo punto, incontrerò un dispiacere, anche lontano, allora la successione delle mie azioni è
sbagliata e irrazionale, e il calcolo mi obbliga a modificare il mio comportamento in base alla necessità di evitare questo
futuro dispiacere. E se questo dispiacere è lungo come l’eternità, allora tanto maggiore è l’obbligazione verso la
condotta morale dettata dai principi della mia fede, in funzione di un utile futuro. La vita è un calcolo continuo, fondato
sul modello mercantile allora dominante, tra il dare e l’avere: non bisogna mai essere in perdita. Tutte le azioni devono
perseguire il massimo di felicità possibile, un massimo che è temperato da un intrico di relazioni umane, sociali e morali
(religiose) che costringono a valutare costantemente rischi e vantaggi di ogni scelta. La società non è altro che un
agglomerato di individui volti alla propria autoconservazione, che dovendo coesistere stringono un contratto le cui
clausole fondamentali valgono a garantire a ciascuno quel massimo di benefici che non lede il diritto altrui alla felicità, il
tutto in una visione puramente strumentale dei rapporti umani e dei valori morali.
Piccolo popolo - Tu prima hai parlato di una sconfitta della filosofia con la messa a morte di Socrate, che noi troviamo
leggendo i dialoghi di Platone … e qui, nell’Inghilterra del Settecento, siamo di nuovo da capo. Insomma, mi sembra che
ci sia qualcosa di molto grosso in gioco in questa Conversazione sul bene: mi sembra che ci sia in gioco il senso stesso
della filosofia.
- Direi il senso stesso della vita.
- Infatti. Ogni volta che l’homo oeconomicus prende il sopravvento, è la fine di ogni senso morale.
Ermetis - Non proprio. In realtà, si potrebbe dire che con il Settecento nasce la moralità. Che è intesa come il giusto
mezzo tra un comportamento sfrenato e un’ascesi improponibile per la conservazione della società.
Piccolo popolo - Ma questo è Aristotele!
Ermetis - Direi che questo è pragmatismo, nella misura in cui anche Aristotele fu il filosofo della vita pratica.
Piccolo popolo - Mettiamo un po’ d’ordine, se non vi spiace. C’è una specie di oscillazione continua nella storia della
nostra civiltà, un’oscillazione tra una concezione che potremmo chiamare “ideale” della vita, e un’altra che potremmo
chiamare “pratica”. È così? Subito dopo la nascita della filosofia, si comincia a discutere su ciò che è bene …
- Che poi fu uno strano modo di discutere del bene, perché in realtà si discuteva di felicità.
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- Appena la filosofia muove i suoi primi passi, insorge “il mondo della vita”, con le sue esigenze pratiche e, soprattutto,
economiche, direi. E la filosofia si sparpaglia, apparentemente sconfitta, in una miriade di interpretazioni volte a salvare
il salvabile di quello che rimaneva dell’anima umana, corrotta dal benessere.
Ermetis - Bellissima immagine ….
Piccolo popolo - Ma nuovamente, con l’inevitabile collasso del sistema, vale a dire il medioevo, assistiamo a un
risorgere della filosofia, sotto le spoglie di una teologia radicale, di una visione quasi totalmente ascetica della vita. In un
certo senso si torna al platonismo ….
- Ma appena le condizioni di vita tornano a migliorare e gli affari riprendono a crescere, questa filosofia torna ad essere
di peso. È questo che vuoi dire?
- Esattamente. Dal Quattrocento in poi è tutto un decostruire e ridimensionare quella che appare essere la potenza
della speculazione pura. La filosofia non va d’accordo con la realtà.
- Ermetis ha accennato a qualcosa di più preciso: ha detto, se ho capito bene, che la filosofia mina l’essenza stessa
della società. Come se, ad applicare la filosofia, l’insegnamento della filosofia, non ci potesse essere qualcosa come la
società, la vita comune. Vorrei capire meglio.
Ermetis - Diciamo che la speculazione filosofica è incompatibile con le strutture che reggono la società civile. Quella
società civile che da sempre, anche nell’Atene del V secolo, è legata agli affari. Non c’è vita economica senza il libero
flusso dei desideri, e senza una vita economica non c’è ovviamente ricchezza. Ma nello stesso momento, la società
civile ha bisogno di regole. Questo oggi lo sappiamo bene, per quanto difficile sia individuarle e applicarle. Insomma:
l’ascesi contemplativa di stampo platonico non può essere un modus vivendi generalizzato, così come l’ascesi cristiana
frena il libero sviluppo dell’iniziativa umana; ma una totale mancanza di freni porta naturalmente all’autodistruzione di cui
parla Hobbes, a uno stato di natura devastante e insostenibile. E allora, come bene aveva intuito Aristotele, la virtù deve
per forza collocarsi nel mezzo, tra gli “opposti estremismi” dell’ascetismo e dell’edonismo. Quindi non è di per sé una
sconfitta della filosofia, perché nessuno fu più filosofo di Aristotele. È, forse, una sconfitta del platonismo, ovvero della
filosofia intesa come distacco, o come pratica elitaria. O forse, meglio ancora, come bisogno di reificare il pensato.
Piccolo popolo - Scusa?
Ermetis - Mi spiego. Torniamo per un istante alla Repubblica di Platone, a quella interpretazione della politica come
esercizio spirituale. Platone ipotizza, in contrapposizione ai suoi nemici ateniesi e tiranni, una società ideale. Ma vi
faccio notare che egli aveva tentato per ben tre volte di realizzare questo modello, rischiando la vita a Siracusa. Viene
sconfitto, ma la sua città ideale rimane come l’impronta più autentica del suo pensiero. Poi arriviamo a Plotino, e alla
radicalizzazione razionalista del principio trascendente platonico. La cultura medievale, pur con tutte le sue
contraddizioni, è un nuovo tentativo di applicare, rendere cioè effettivo, concreto, il modello razionale di virtù e di bene
teorizzato dalla filosofia più speculativa che sia mai esistita. Questa è reificazione, ovvero trasferimento dal piano ideale
a quello reale. Ma la reificazione ha un prezzo altissimo: essa blocca il corso del pensiero, ne elimina la complessità su
un piano di concretezza che non prevede alcuna elasticità e contraddittorio. Insomma, il pensiero reificato è ideologia
belle e buona. Così, il platonismo “applicato” è ideologia, e la teologia cristiana imposta sul piano dei comportamenti
pratici è fondamentalismo.
Discutetene
Ma questo non è l’unico modo di “fare filosofia”. C’è anche quello aristotelico, ovvero il pensiero pratico, l’etica del giusto
mezzo. È, in un certo senso, ciò che rimane della filosofia dopo lo scontro tra l’ideologia e il bisogno di libertà proprio di
una società secolarizzata.
Piccolo popolo - Quindi, in sostanza, il nodo della questione è nel processo di secolarizzazione, ovvero nel periodico
scomparire dei modelli di vita legati al sacro e alla tradizione religiosa?
Ermetis - Potrebbe essere un modo di leggere gli eventi che segnano il passaggio dal platonismo all’aristotelismo e poi
alle filosofie stoica e epicurea, così come il passaggio dall’aristotelismo medievale – filosofia a sua volta reificata in
sistema col cemento del platonismo – al pragmatismo settecentesco, nella duplice versione anglosassone e illuminista
francese.
Piccolo popolo - Chiaro. Non c’è dunque niente di male, in fondo. Voglio dire: forse non è il caso di scandalizzarsi per
questa riduzione del bene al proprio tornaconto.
- Non so … in fondo, come dicevo già prima, mi sento a disagio. È come se non sapessi che posizione prendere.
Questo modo di porre le cose complica decisamente la vita: non è mai possibile fare una scelta precisa, è come se
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fosse sempre necessario oscillare tra due poli opposti.
- Stare nel mezzo …
- È molto filosofico, mi pare.
- È molto inglese …
- A proposito: e Locke?
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Nel corso del Novecento, il concetto di ideologia ha progressivamente assunto un significato neutrale, passando a
indicare qualsiasi insieme di idee e valori sufficientemente coerente al suo interno e finalizzato a orientare i
comportamenti sociali, economici o politici degli individui. In questa accezione, i. è divenuto un termine generico, che
può essere applicato a qualsiasi dottrina politica, a movimenti sociali caratterizzati da un’elaborazione teorica, a
orientamenti ideali-culturali e di politica economica e sociale. Accanto a questo significato generico, il termine ha tuttavia
conservato un significato più specifico e ristretto, che viene utilizzato per indicare dottrine e movimenti politici precisi
(comunismo, nazismo, fascismo), accomunati da alcune caratteristiche: la presenza di un retroterra teorico più o meno
elaborato, che pretende di fornire una spiegazione esaustiva (e definitiva) dei processi storici e sociali; il tentativo di
trasformare totalmente la società e l’uomo, secondo un preciso modello; l’intensa partecipazione emotiva dei militanti,
spesso simile alla ‘fede religiosa’; il ruolo-guida di un partito dotato di una ferrea e capillare organizzazione. [Treccani.it]
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Storia delle idee Conversazione sul bene. Sesta giornata Qui si dice che la filosofia non deve essere messa in pratica,
che non si deve "realizzare il pensiero nei fatti": Ne avete capito la ragione? Che cosa c'è di "pericoloso" nella
reificazione di un pensiero? Per capirci: è bene che un'utopia possa realizzarsi davvero?
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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