”Museums. Merely buildings for culture?”, Napoli, 13 -15.10. 2005 NUOVI MUSEI. NUOVI INVOLUCRI. NEW MUSEUMS. NEW ENVELOPES. Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni Dipartimento di Architettura, Università di Cagliari Piazza d'Armi 16, 09123 Cagliari e-mail: [email protected] Sommario - Negli ultimi decenni si è verificata un'autentica rivoluzione nella tipologia, percezione e fruizione delle opere d'arte: gli oggetti da mostrare, l'argomento da celebrare o semplicemente le esigenze degli artisti non richiedono più unicamente grandi spazi introversi; gli eventi possono svolgersi anche al di fuori delle grandi città e le realtà minori rivendicano un ruolo significativo in seno al panorama culturale mondiale. La valorizzazione delle radici storiche, sociali ed economiche ha accresciuto in modo esponenziale la richiesta di luoghi, dalle dimensioni e caratteristiche più varie, ove dare appropriato ricovero a tutti i segni dell'attività umana e quindi non solo a quelle canonicamente classificate come artistiche. Il diversificarsi dell'offerta e della domanda espositiva non implica più, necessariamente, la monumentalità o il ricorso a soluzioni e materiali ricercati. Non più (o meglio non solo) murature cieche e pesanti, rivestimenti lapidei di pregio o in metalli rari ma anche pareti leggere ed eteree e materiali prima considerati poveri (legno, terra cruda, lamiere, stuoie, cartone, bambù). I nuovi contenuti, e più di recente le tematiche connesse al rispetto per l'ambiente, hanno portato al progetto di contenitori, talvolta a scala ridotta, che trovano nei riferimenti locali, e nel rispetto delle esigenze legate alla sostenibilità e al risparmio energetico, la conferma al proprio linguaggio ed alle soluzioni tecniche e costruttive adottate. In questo quadro generale la progettazione degli involucri è sicuramente tra gli aspetti più interessanti ed innovativi emersi nel corso degli ultimi anni con risultati che appaiono in molti casi tutt'altro che banali. I progetti di Hilton Judin e Nina Cohen per il Museo Mandela a Mvezo (Sud Africa), il Weald and Downland Museum nel West Sussex di Edward H. Cullinan e il recentissimo Nomadic Museum di Shigeru Ban a New York sono, da questo punto di vista, particolarmente significativi. La ricerca, attraverso l'analisi di queste opere, evidenzia come, in ambiti molto distanti tra loro sia fisicamente che culturalmente sia possibile riconoscere allo stesso tempo comunanza di intenti e varietà nella scelta dei materiali e nelle soluzioni progettuali. Questi progetti, di grande contenuto insieme tecnologico e formale, permettono di attribuire a tali scelte di campo un giusto rango qualitativo ed etico che ben rappresentano un nuovo modo di intendere e fare cultura ed architettura. Abstract - Over the last decades a real revolution happened in the type, perception and use of art work: objects to be shown, subjects to be celebrated or more simply the demands of artists don't need large and introvert spaces; the events can happen outside the big cities and the small cities have an important role in the structure of the cultural world. The improvement of the historical, financial and cultural origins increased very much the demand of various and more or less large spaces, where to give the right shelter to all signs of human activity and therefore not only to those canonically classified as artistical. The various expositive offer and demand, doesn't necessarily involve monumental buildings made by rich materials. No more (or better not only) blind and heavy walls, stones and precious metals covering, but also the use of light and ethereal walls that were considered poor materials (like wood, adobe, sheet metal, mats, paper and bamboo). New contents, and most recently, subjects linked to the respect for the environment, caused the concept of volumes, sometimes on a small scale, that find, the confirmation of their own language and the technical constructive solutions in local references, and in the observance of energy saving. In this general description, the envelope project my be one of the most interesting and innovating aspects that come out during the last years, with results that appear in many cases every thing but mere solutions. From this point of view Hilton Judin and Nina Cohen's designs for Mandela Museum in Mvezo (South Africa), the Weald and Downland Museum by Edward H. Cullinan in West Sussex, and the most recent Shigeru Ban's Nomadic Museum in New York are all very significant examples. This research, through the study of these works, shows how it is possible to recognise, in places very far among themselves both physically and culturally, at the same time common objectives and variety of materials and design solutions. These very important both technical and formal plans, allow to assign to these sphere selections a right qualitative and ethical degree, that it well symbolises a new way to see and to do the culture and the architecture. Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni "Vedere queste opere- che in molti casi metteranno in dubbio concetti acquisiti come la fiaba di Ezechiele e dei tre porcellini…può servire da stimolo a recuperare buon senso sia costruttivo che energetico…" (Marco Imperadori) PAROLE CHIAVE: Materiali deboli, materiali tradizionali, tecnologia, sostenibilità. INTRODUZIONE Quando Bernard Rudofsky nel 1964 curò l'allestimento ed il catalogo della celebre esposizione Architecture Without Architect organizzata dal Museo d'Arte Moderna di New York probabilmente non poteva prevedere il tortuoso percorso che il linguaggio architettonico avrebbe compiuto nel corso dei decenni successivi giungendo a concretizzare una radicale evoluzione concettuale e figurativa dei suoi contenuti semantici. La mostra metteva in risalto l'importanza ed il valore di forme che univano la spontaneità degli episodi all'appropriato utilizzo di tecniche tradizionali associate a materiali da costruzione e di finitura sempre reperibili in loco: ad essi corrispondeva una nulla o modesta spesa energetica per la loro produzione e dunque, con un termine allora sconosciuto, sostenibile. In apparente opposizione all'interesse dimostrato dalla cultura ufficiale si svilupparono, nello stesso periodo, le tesi degli Archigram: attribuendo alla tecnologia, e quindi all'architettura, la capacità di dare efficaci risposte alle istanze, da quelle sociali a quelle culturali, che in quegli anni di boom economico e speranze agitavano la società occidentale, esse paiono oggi particolarmente ottimistiche. La crisi energetica degli anni '70 ha infranto molti di quei sogni davanti alla realtà di costi, non solo economici, spesso non sempre proporzionati alle aspettative ed agli obbiettivi. Derivata da queste teorie - utopie l'High – Tech si è poi fattivamente spinta così avanti da risultare stimolante ricerca formale, talvolta quasi esasperata, ma dai contenuti spesso modesti. Nel contempo la sequenza progetto – costruzione ha visto irrompere nel processo edilizio industrie specializzate nella produzione di materiali e sistemi: ad un linguaggio così composito è impensabile poter associare l'intervento da parte dei non architetti nell'atto ideativo. Negli ultimi decenni in opposizione a questo approccio ipertecnologico si è andata affermando, non solo nelle aree considerate deboli, una corrente sbrigativamente classificata Low – Tech che ha reintrodotto nella filosofia della progettazione concetti che sembravano perduti o comunque notevolmente affievoliti: tra questi la semplicità costruttiva ed un atteggiamento definibile ad hocistico di grande rispetto dei luoghi. Tale variante del linguaggio contemporaneo è però rimasta relegata ad interventi di nicchia e comunque, nella gran parte dei casi, relativa ad episodi su piccola scala. Tra i due estremi alcuni autori hanno individuato recentemente una terza via, da essi definita Clever – Tech, che pone in risalto la particolare abilità di alcuni professionisti nell'elaborare progetti in cui cultura, materiali, tecnologia, budget ed ecologia trovano un felice e creativo momento di convergenza. Ciascuno dei tre filoni linguistici possiede condivisibili elementi di fondo e approcci che meritano di essere tenuti in considerazione. Ci piace poter definire la sintesi di questi diversi approcci, con un termine finalmente italiano, come Architettura Lieve dando all'aggettivo la valenza più alta e positiva avendo ben presente, e rivendicando, come in tale definizione non ci sia poca Architettura (o poco d'architetto e poco d'ingegnere) ma, al contrario, in essa ritroviamo molto d'architetto e molto d'ingegnere. È facile riscontrare in questi progetti un alto investimento di pensiero creativo che coniuga le tradizioni locali (o comunque le risorse del luogo) a budget contenuti, scelta dei materiali e sistemi costruttivi appropriati. Non è quindi incidentale se in tutto il mondo anche grandi ed affermati studi di progettazione, primo fra tutti gli Arup, siano sempre più spesso coinvolti in questo tipo di esperienze alla ricerca di nuove e diversificate frontiere espressive. Confrontando le immagini pubblicate a suo tempo da Bernard Rudofsky, e relative alle architetture spontanee, con quelle riguardanti episodi recenti si riscontrano solo apparenti similitudini: in realtà mentre negli anni '60 il protagonista sembrava poter diventare l'utente – consumatore oggi il ruolo del Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni progettista è tornato ad essere centrale e imprenscindibile. Al binomio semplice = povero si è sostituito, in apparente contraddizione lessicale, quello sofisticato = semplice. Anche le architetture legate alla cultura, e in particolare alla museologia, sono influenzate da questo approccio che vede l'intima connessione tra sostenibilità, tradizione, linguaggi, materiali e sistemi. Essi offrono una gamma infinita di forme tale da costituire un campionario in cui, emblematicamente, l'unico filo conduttore pare essere proprio la diversità e l'articolazione delle soluzioni proposte in quanto sensibili e tributarie dell'ambiente locale. È importante che in culture molto diverse tra loro, magari innescate da episodi inizialmente marginali, si vada affermando questa nuova sensibilità. Dall'Asia all'Europa, dal Nord e Sud America all'Australia e all'Africa gli eventi non possono essere considerati come isolati ma, al contrario, fanno parte di un nuovo e diffuso modo di reinterpretare il ruolo del progettista: egli appare protagonista di un futuro compatibile e sintesi felice tra risorse energetiche e culturali. La scelta di mostrare il Museo Mandela a Mvezo (Sud Africa) di H. Judin e N. Cohen, il Weald and Downland Museum nel West Sussex di E. H. Cullinan e il Nomadic Museum di S. Ban a New York è da tutti questi punti di vista particolarmente significativa in quanto permette, partendo dall'analisi delle opere, di scoprire il doppio binario su cui queste opere viaggiano: la diversità e l'analogia, l'appropriatezza e l'unicità, efficace sintesi delle caratteristiche precipue dell'Architettura Lieve. NELSON MANDELA MUSEUM, MVEZO (SUD AFRICA), 2000 Il museo dedicato a Nelson Mandela, progettato dagli architetti Hilton Judin e Nina Cohen(1), fa parte di un vasto ed articolato programma: il Living Landscape project, portato avanti dalle professioniste in collaborazione con il Dipartimento di Archeologia dell′Università di Cape Town. Esso include la realizzazione di un archivio archeologico ed una serie di padiglioni informativi, da localizzare in siti di grande importanza ambientale e culturale attorno alla città di Clanwilliam. La prima fase di questo progetto a lungo termine ha visto il coinvolgimento di organizzazioni professionali locali nella realizzazione di una serie di norme per l′uso del paesaggio circostante, nonché eventi ed esibizioni culturali. Il progetto del museo nei suoi aspetti concettuali è stato sviluppato di concerto con il Dipartimento delle Arti, Cultura, Scienza e Tecnologia, e nel suo complesso può essere a ragione considerato un museo diffuso, in quanto comprende una serie di spazi comuni correlati a tre siti localizzati tutti nel Capo Orientale del Sud Africa, che raccontano nella sua evoluzione la vita del leader. La prima tappa ha avuto inizio nel febbraio del 2000 ad Umtata, Qunu e Mvezo in collaborazione con le comunità locali, con il duplice scopo di realizzare spazi culturali ed allo stesso tempo sopperire alla carenza di infrastrutture generali, quali collegamenti rurali ed approvvigionamento di acqua potabile. Nella logica di tale programma le professioniste hanno progettato un'esposizione temporanea nel sito di Mvezo, chiamata Long walk to Freedom, una permanente a Qunu, dove Mandela è cresciuto, ed una ad Umtata, nel Bhunga building, ex sede dell'assemblea legislativa del governo Transkei, ora riconvertita a museo ed archivio, dove sono conservati i regali che furono fatti a Mandela durante il periodo di presidenza. La struttura realizzata a Mvezo, sul sedime dove sorgeva la casa di nascita di Mandela, è una pensilina aperta su tre lati, formata da pali e travi in legno che sorreggono una copertura in fogli di lamiera. Il quarto lato è schermato da una leggera stuoia intrecciata con canne, che serve a creare ombra e diffondere l'intensa luce del giorno. Il piano calpestabile è costituito da un ordito di tavole in legno poggianti su travi a C in acciaio, protetto dalla pensilina un piccolo volume in mattoni racchiude uno spazio adibito a ufficio Apparentemente semplice nella sua logica geometrica, l'edificio si avvale di dettagli, a volte complessi, risolti con tecnologie costruttive attinte dalla tradizione locale quali: stuoie intrecciate, recinzioni in canne e manufatti di pietra e mattoni. Il progetto ha avuto tra l'altro un'importante valenza sociale, in quanto ha creato numerosi posti di lavoro, soprattutto femminile, sia in termini d'impiego temporaneo, come manovalanza di cantiere, sia in termini di lavoro permanente, da utilizzare nel circuito del turismo. Il complesso include inoltre altre due semplici strutture dislocate nel territorio circostante: una passeggiata in legno ed una piattaforma in pietra che funge da punto panoramico del paesaggio ”Museums. Merely buildings for culture?”, Napoli, 13 -15.10. 2005 Figura 1 – L′area, di circa 22.000 mq è racchiusa da una recinzione tradizionale; in essa sono dislocati il padiglione espositivo (nei pressi dell′ingresso), la piattaforma panoramica in pietra, la passeggiata in legno lunga circa 45 mt e la presa dal fiume per il serbatoio dell'acqua. Figura 3 – Sezione trasversale, dettaglio della stuoia – parete e fase costruttiva del piccolo ufficio in mattoni. Figura 2 – Pianta e prospetto, le dimensioni del basamento in cemento armato sono di circa 18 mt di lunghezza mentre la larghezza varia da 5 mt circa su un lato a 3 mt circa in quello opposto. La copertura invece misura circa 16,50 x 3,00 mt ed è alta mediamente 4,00 mt. Figura 4 – Vista laterale. Lo schema strutturale è formato da due ordini di quattro pali in legno la cui testata, costituita da un capitello in acciaio, sostiene degli elementi IPE in acciaio, sui quali è caricata la copertura in lamiera. Le travi in acciaio portanti il tavolato di pavimentazione poggiano in parte sul basamento in cemento armato. La piattaforma in c. a., rivestita lateralmente da conci irregolari di pietra locale, serve da basamento per i pannelli che portano le fotografie e le notizie biografiche del leader, e da protezione per i resti della casa natale di Mandela. Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni WEALD AND DOWNLAND MUSEUM, CHICHESTER (U.K.), 2001 Sin dal 1971 il ′′Weald and Downland Oper Air Museum′′, ha salvato e recuperato numerosi fabbricati rurali in rovina localizzati nei terreni del museo nel West Sussex. Lo studio Edward H. Cullinan(2) fu incaricato dello studio di un ulteriore addizione al centro, e più precisamente furono commissionati due nuovi spazi dalle caratteristiche molto particolari: un magazzino climatizzato per lo stoccaggio di una nutrita collezione di manufatti recuperati da edifici storici, ed un vasto ambiente da adibire ad officina dove poter restaurare o ricostruire le grandi armature in legno. La scelta progettuale dello staff di Edward H. Cullinan è una delle soluzioni di maggior interesse degli ultimi anni nel campo dell′architettura e dell′ingegneria. L′edificio, situato su un piano esistente di una collina in gesso, è articolato su due livelli: il primo, interrato e costruito in muratura massiccia per realizzare un naturale isolamento termico, comprende il magazzino-archivio. In netto contrasto il secondo livello, fuori terra, adibito ad officina, dove lo scheletro portante a griglia in legno, internamente a vista, rivestito da traversine di cedro rosso ed elementi in policarbonato, conferisce alla parte superficiale della struttura caratteristiche di leggerezza e trasparenza. L′ossatura del volume occupato dal grande spazio dell′officina, poggia sull′estradosso del piano interrato ed è realizzata da una maglia composta da quattro ordini di traverse in legno non stagionato di quercia, proveniente dalla Normandia. La messa in opera è avvenuta con l′ausilio di un ponteggio a martinetti idraulici che, sollevato all′altezza di 10 mt, è stato poi abbassato gradualmente portando così la griglia dalla configurazione piana a quella finale dal profilo curvo che ricorda l′impronta di un serpente. Gli 11.323 nodi della struttura sono connessi mediante un tipo di giunto a morsa, che si è rivelato una validissima soluzione ingegneristica, poiché nonostante l′elevato numero di giunzioni da realizzare in opera, si sono verificate solo 53 casi di rottura. L′intuizione progettuale e le scelte operative di cantiere riportano alla memoria realizzazioni recenti e non dello scenario architettonico europeo, quali la copertura del palazzetto dello sport di Arata Isozaki per le Olimpiadi di Barcellona ed il padiglione del Giappone all′esposizione di Hannover del 2000 di Shigeru Ban. Le opere citate differiscono in verità per alcuni aspetti quali: i materiali, tubi di cartone pressato per Ban, aste e nodi in acciaio per Isozaki. La modalità di messa in opera nella realizzazione del Downland Museum vede la movimentazione del ponteggio (abbassato e non innalzato) in sequenza inversa; ultimo ma non meno importante il sito, tessuto antropizzato per i primi due, campagna rurale per l′opera in esame. La particolare attenzione posta dai progettisti nell′uso di materiali locali si evidenzia in misura notevole nel rivestimento esterno dello scheletro portante a griglia: le superfici sinuose finali sono state rivestite, da un tavolato in legno di cedro rosso Occidentale, proveniente da una locale coltivazione distante 25 miglia dal sito. Parte del guscio fino alla copertura è costituita da elementi in policarbonato che permettono alla luce di filtrare ed illuminare il grande spazio interno. Figura 5 – Prospetto Nord - Sezione, l′edificio presenta su questo lato l′accesso al livello seminterrato, dove sono localizzati il magazzino di stoccaggio dei reperti storici e l′archivio amministrativo. Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni Figura 6 – Fase di montaggio dello scheletro portante a griglia, costituita da strisce lunghe 36 mt a sezione rettangolare di 35x50 mm, sovrapposte a maglia quadrata a formare quattro strati. Le maglie sono state assemblate in piano su un ponteggio portato alla quota di 10 mt. Figura 8 – Giunto a morsa, studiato in collaborazione con gli ingegneri Buro Happold e Andrew Halloway. L′innovativo tipo di connessione è costituito da tre piastre metalliche che tengono unite a due a due le traverse della maglia, mediante due morsetti, consentendo contemporaneamente la stabilità del nodo e lo slittamento reciproco dei piani, necessario in fase esecutiva per ridurre l′azione dell′attrito durante la posa in opera della griglia, ed in situazione di esercizio per alleggerire le sollecitazioni dovute agli sbalzi termici, durante l′arco della giornata e all′alternarsi delle stagioni calde e fredde. Figura 7 – Configurazione finale della struttura ottenuta mediante l′abbassamento differenziato dei nodi collegati ad un sistema di martinetti idraulici. In pianta l′edificio misura 50 x 12 mt mentre l′altezza massima della sezione trasversale (a parabola) è di circa 10 mt. Figura 9 – Rivestimento superficiale dell′ossatura portante costituito, nell′attacco a terra, da tre ricorsi orizzontali di tavole di cedro rosso, che seguono lo sviluppo del profilo curvo, la parte superiore del volume fino all′inserzione con la copertura a nastro ondulato, è caratterizzata dalla trasparenza di una pannellatura in policarbonato. Il trattamento superficiale dell′involucro sia nell′uso dei materiali sia nell′evoluzione della forma spaziale, richiama marcatamente alcuni riferimenti semantici dell′architettura organica ungherese, ed in particolare modo le forme zoomorfe ed antropomorfe dell′ungherese Imre Makovecz. Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni NOMADIC MUSEUM, NEW YORK (U.S.A.), 2005 La mostra “Ashes and Snow” (Ceneri e neve), dedicata all'artista canadese Gregory Colbert, è l'evento culturale attorno al quale ruota la trasferta newyorkese del Nomadic Museum, museo itinerante concepito e progettato da Shigeru Ban(3). Ban, che già si era affacciato allo scenario architettonico contemporaneo con idee progettuali innovative e particolari, ancora sorprende in questo caso nella concettualizzazione culturale dello spazio espositivo, eliminando quel confine così labile ed instabile tra architettura dell'involucro ed allestimento delle opere da esporre. Sullo storico Pier 54, che accolse i superstiti del Titanic, lungo la 13ma West Side Highway, è stata affittata l'area che ha ospitato per tre mesi la struttura museale di circa 4.200 mq. Il nuovo progetto di Shigeru Ban, ha una logica ed una sequenza costruttiva che, in linea con la cifra stilistica dell'architetto giapponese, disarma per la sua linearità e semplicità di esecuzione. Il perimetro dell'edificio, poggiato sul molo, è costituito da 148 containers disposti su quattro file sovrapposte e collegati tra loro a creare una parete a scacchiera, gli spazi vuoti tra un container e l'altro sono obliterati da membrane di tessuto impermeabile poste in diagonale. In ordine successivo vengono caricati gli elementi della copertura preassemblati fuori opera, a costituire sezioni di un tetto a due falde, che sono poggiate sull'ultima fila dei containers e stabilizzati da una struttura formata da false capriate e colonne in tubi di carta pressata riciclata del diametro rispettivamente di 30 e 76 cm. Il volume così racchiuso raggiunge la lunghezza di 205 mt, è largo 18 mt ed è alto 10 mt all'imposta della copertura. La sequenza dei portali in tubi di carta, oltre a stabilizzare il tetto, caratterizza fortemente lo spazio interno creando un notevole impatto scenografico nella percezione dello stesso, altrimenti privo di connotazione formale. La successione delle colonne segnala una passerella centrale in tavole di legno di recupero, al di sopra della quale, in corrispondenza dell'accesso al museo, è sospesa una tenda traslucida che è stata realizzata con un milione di bustine da tè pressate. Il corridoio è inoltre delimitato dalle campate laterali pavimentate con pietre di fiume, dove sono allestite le fotografie a grande scala di Colbert, sospese tra le colonne attraverso un sistema di sottili tiranti. In testata al volume opposta all'ingresso si trova una sala il cui interno, mancante dalle strutture a portale, adibita alla proiezione di audiovisivi dell'artista. Le scelte di Ban, come da lui stesso dichiarato, hanno visto nell'uso dei containers come base costruttiva, la facilità di spostamento della struttura museale, tenuto conto che dei 148 containers, di cui essa è costituita, solo 37 viaggiano trasportando l'allestimento, gli altri 113 vengono recuperati localmente in ogni sede della mostra, rendendo l'operazione più veloce e quindi con un incidenza minore sui costi di trasporto. A queste considerazioni meramente materiali si aggiungono poi valori sia di carattere ambientale dati dall'uso di materiali riciclati e riciclabili, sia di significato simbolico che scaturisce da questo contenitore realizzato con containers sempre diversi dai quali traspare una vita ed una storia ogni volta differente. Figura 10 – Planimetria dell′area, autentica icona della memoria collettiva della città in quanto in essa trovarono ospitalità i superstiti del Titanic. L′edificio occupa tutto il sedime del Pier 54, esattamente un rettangolo largo 18 mt e lungo 205 mt , sul tratto di costa che affianca la West Side Highway. La mostra, rilocata dopo Venezia, è stata a New York da marzo a giugno 2005, in seguito sarà riorganizzata in California quindi, nel 2006, nella Città del Vaticano Gianraffaele Loddo, Daniela Ludoni Figura 11 – Sezione trasversale dell′edificio in cui si nota la logica costruttiva delle pareti laterali costituite dai containers, e la struttura a portale realizzata con tubi di carta riciclata, che partecipa alla stabilizzazione della copertura. Figura 12 – Esploso assonometrico, la sequenza dei portali classifica lo spazio interno ed evidenzia il corridoio centrale come percorso espositivo principale, seguito dalle campate laterali, identificate dalla successione delle colonne, dove trovano posto le opere della mostra. Figura 13 – Veduta complessiva dell′edificio dall′ingresso del molo, si nota la configurazione a scacchiera dei containers che formano le pareti laterali. L'effetto chiaroscurale è dato dall'alternanza tra le multicolori pareti in metallo dei containers con le bianche membrane impermeabili. Figura 14 – Veduta interna della galleria, in primo piano la struttura a portale e sullo sfondo scenografico la percezione del corridoio centrale segnalato matericamente da una passerella in tavole di legno di recupero lunghe 3,6 mt. ”Museums. Merely buildings for culture?”, Napoli, 13 -15.10. 2005 NOTE (1) Hilton Judin (Johannesburg 1962) si è laureata nel 1990 presso la University of the Witwatersrand in architettura e filosofia mentre Nina Cohen (Johannesburg 1967) ha completato gli studi in architettura alla Cornell University nel 1991. Lo studio associato cui hanno dato vita si è subito specializzato nella progettazione di musei ed esposizioni combinando la comprensione spaziale con un'innovativa concezione museale e culturale. Nel 1994, in collaborazione con alcune istituzioni sudafricane, è iniziata una ricerca riguardante la segregazione degli spazi urbani finalizzata all'allestimento di un'esposizione. Dal 1996, con il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Città del Capo, hanno messo a punto il Living Landscape Project per la formazione di un archivio e padiglioni informativi da localizzare presso importanti centri di pitture rupestri. Tra il 1997 e il 1999 diressero, con il contributo di oltre 60 tra scrittori, fotografi e registi, uno studio su Architettura e Apartheid la cui mostra è stata ospitata anche a Berlino e Barcellona. Risale al 2000 la concezione del sistema museale dedicato alla figura di Nelson Mandela. Una loro esposizione temporanea dedicata alla nuova corte costituzionale è stata occasione di nuovo affaccio sul paesaggio di Johannesburg sfruttando le semitrasparenze dei pannelli espositivi. La pratica professionale è integrata da numerosi episodi di edilizia residenziale. (2) Edward Horder Cullinan (Londra, 1931) ha studiato al Queens College di Cambridge collaborando poi con Denys Lasdun nel periodo in cui quest'ultimo lavorava alle residenze dell'Università dell'East Anglia. Ha fondato, nel 1965, lo studio Edward Cullinan Architects in forma cooperativa: nello stesso anno cominciò ad insegnare a Cambridge. Da allora ha sempre affiancato all'attività professionale un intenso impegno nell'insegnamento universitario. Membro della Royal Academy e fiduciario del John Soane Museum. Tra i progetti più recenti elaborati dal suo gruppo le strutture d'accesso di numerosi parchi naturali (Edimburgo, Dorset) ed aree archeologiche (Petra, Stonehenge), numerosi episodi di architettura residenziale (Londra), alcuni importanti Masterplan (Bristol, Liverpool), edifici per l'istruzione (Cambridge, Warwick). (3) Shigeru Ban (Tokio, 1957) si è laureato nel 1984 presso la Cooper Union School of Architecture (N.Y.). Dopo una breve esperienza presso lo studio di Arata Isozaki ha iniziato l'attività in proprio divenendo nel contempo docente in alcune Università giapponesi. Nel 1995 propose alcuni ripari con strutture in cartone per i rifugiati del Ruanda: da allora divenne consigliere della Commissione per i Rifugiati dell'O.N.U. Con alcuni colleghi ha fondato la Voluntary Architects Network (Rete degli Architetti Volontari) che si propone la ricerca di materiali e metodi dedicati alla progettazione di residenze per il Terzo Mondo. Nel 1996 è stato proclamato miglior giovane architetto del Giappone. Tra le sue opere più note le case rifugio per i terremotati di Kobe ed il Padiglione Giapponese per l'Esposizione Universale di Hannover del 2000 tutte realizzate con tubi di cartone: fondamentale a tale proposito la collaborazione con Frei Otto che si è dimostrato dapprima incuriosito poi entusiasta di tali innovativi sistemi costruttivi. Di grande interesse anche le indagini sull'utilizzo del cartone per la realizzazione di arredi e, derivati da questi, dei prototipi di abitazioni in cui la struttura portante è costituita proprio dal sistema di armadi. Nelle interviste si è dichiarato, sia per formazione che per attività, più vicino all'architettura occidentale che a quella tradizionale nipponica. Suo uno dei due progetti finalisti per la ricostruzione del W.T.C. di New York. Ultimamente ha realizzato, sulla terrazza del Centre Pompidou di Parigi, il proprio studio professionale temporaneo da cui seguirà le fasi di costruzione della sede decentrata del Centre a Metz. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI FROMONOT F., Glenn Murcutt, Mondadori Electa, Milano 2002. GERLE J., Makovecz, Serdián, Budapest, 2002. IMPERADORI M., Clever Tech, su Modulo, n. 311, 2005. LODDO G., LUDONI D., Imre Makovecz: l'involucro come pura espressione materica, Proceedings of the International Congress "Involucri quali messaggi di architettura - Building envelopes as architecture’s messages", Luciano, Napoli, 2003. MCQUAID M., Shigeru Ban, Phaidon, London 2003. Nelson Mandela Museum in Mvezo, su Detail, n. 3, 2001. Nomadic Museum, Pier 54, New York, su Casabella, n. 735, 2005. Papiermuseum in Shizouoka, su Detail, n. 7-8, 2003. RUDOFSKY B., Architecture Without Architect, Museum of Modern Art, New York, 1964. SLESSOR C., Long walk to freedom, su The Architectural Review, n. 1257, 2001. The Phaidon atlas of Contemporary World Architecture, Phaidon, London, 2004. VAN SCHAIK L., Sean Godsell, Mondadori Electa, Milano 2004.