Europa - Treccani

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Euròpa (gr. EôrÒpg, lat. Europa). – Parte occidentale del continente eurasiatico, delimitata a O dall’Oceano
Atlantico, a N dal Mar Glaciale Artico, a S dal Mar Mediterraneo; tutt’altro che ben definiti sono invece i suoi
limiti orientali, per i quali v. più avanti. ƒTAV.
Nome e individuazione. – In origine il nome greco designò un territorio ristretto, forse la regione a N dell’Egeo,
ma già i geografi ionici chiamavano E. tutta la terra conosciuta a N del Mediterraneo, cui fu dato in seguito per
confine verso E il Tanai (Don), che rimase tale per tutto il Medioevo. Nella riforma amministrativa
dell’Impero romano operata da Diocleziano, E. fu il nome di una delle quattro province in cui fu divisa la
diocesi di Tracia; vi era compresa tutta la zona costiera (e parte dell’entroterra) a N del Mar di Marmara. Per
tutto questo tempo prevalse l’idea che l’E. fosse un continente, separato dall’Asia per la presenza di una zona
istmica. Più tardi il nome si estese progressivamente verso levante, a comprendere i territorî abitati dagli Slavi
orientali (Ucraina, Bielorussia, buona parte della Russia). Il problema di una più esatta delimitazione dell’E.
verso E si pose a partire dal Cinquecento e si fece più pressante con la nascita della geografia moderna. A
partire dal secolo 18 si assume quale confine tra E. e Asia la catena degli Urali: una scelta che ha avuto grande
fortuna nella manualistica della geografia descrittiva e che viene abitualmente seguita ancor oggi. Invero tale
scelta è tutt’altro che soddisfacente per diversi motivi: 1) la catena uralica, assai lunga ma poco elevata, non
costituisce in alcun modo una barriera, e non ha alcun significato politico, economico e culturale, essendosi
l’organizzazione territoriale russa prima e sovietica poi estesa ben al di là di essa, determinando fra l’altro flussi
e relazioni intense in senso O-E; 2) i paesaggi, naturali e umani, si ripetono pressoché identici ai due lati della
catena; 3) gli Urali, in ogni caso, sono un limite incompleto, poiché terminano alla latitudine di circa 50 N e
più a S nessun elemento fisico può essere ragionevolmente assunto quale limite dell’E., com’è provato dal fatto
che come confine con l’Asia centrale alcuni scelgono il fiume Ural e altri il f. Emba, e come confine con l’Asia
meridionale alcuni preferiscono la catena caucasica e altri una depressione che corre più a N, lasciando
integralmente all’Asia tale catena. In realtà, nessun criterio fondato su elementi esclusivamente fisici è
soddisfacente, perché l’E. può essere individuata soltanto come area culturale, per i caratteri e i
comportamenti della popolazione. È per questo che l’idea stessa dell’E. è venuta modificandosi nel tempo,
ampliandone e restringendone il territorio secondo le contingenze storiche: per esempio, il lungo dominio
turco su gran parte della Penisola Balcanica ha sottratto per secoli alla sfera europea questa regione, compresa
la Grecia, cioè proprio quel paese da cui due millennî e mezzo or sono nacquero i germi della civiltà da cui l’E.
è caratterizzata. Nell’impossibilità di definire con esattezza il limite dell’E. verso E, ma, al tempo stesso, nella
necessità di darne una descrizione territoriale, in questa sede si esclude il territorio di influenza slavoorientale. Con questa scelta non si vuol certo escludere che Ucraina, Bielorussia, Moldavia e ampie aree della
Russia abbiano caratteri europei e siano entrate a pieno titolo nella storia d’E.; ma si ritiene più utile rinviare,
per una trattazione più efficace, alle relative voci (comunque quei paesi sono riportati per memoria nel
prospetto riassuntivo). Accettare tale punto di vista, poi, non è senza significato sotto il profilo geograficofisico: infatti, amputata dei territorî suddetti, l’E. risulta piuttosto ben distinta nell’ambito dell’Eurasia: essa si
protende da quel continente verso NO come una grossa penisola, a sua volta articolata in numerose penisole
minori e isole, penetrata da mari dipendenti dall’Atlantico, interessata da climi marittimi o per lo meno
influenzati dal mare. ƒEntro questi limiti l’E. copre circa 4.950.000 km2, appena il 3,3% delle terre emerse,
ospitando, però, quasi 500 milioni di ab., il 10% della popolazione mondiale. Delle isole artiche vengono
ascritte all’E. quelle norvegesi (Jan Mayen, Svalbard); di quelle atlantiche, oltre ovviamente alle Isole
Britanniche, sono considerate europee l’Islanda e le Azzorre; di quelle mediterranee viene esclusa – e
considerata asiatica – Cipro.
GEOLOGIA E GEOGRAFIA FISICA
Geologia. – La struttura geologica dell’E. è molto complessa ed è il risultato delle interazioni che l’E. ha avuto
con altre masse continentali secondo i meccanismi, oggi largamente accettati, della teoria della tettonica a
zolle. Le ricostruzioni della paleogeografia europea risultano abbastanza dettagliate per ciò che riguarda gli
ultimi 200 milioni di anni, mentre per i periodi precedenti esse sono alquanto incerte e, in qualche caso,
addirittura arbitrarie; ciò nonostante, la serie cronologica dei terreni risulta completa, dalle età più antiche a
quelle più recenti della storia della Terra. Il nucleo più antico dell’E. (Precambriano), corrispondente allo
scudo canadese dell’America Settentrionale, è lo scudo baltico, formato da scisti cristallini e rocce granitoidi
che, mentre affiorano nella Svezia e in Finlandia, formano la base della sterminata piattaforma russa, rimasta
indenne dai movimenti orogenici. Lo scudo baltico, viceversa, presenta una struttura molto complessa a causa
delle diverse fasi orogeniche in cui è stato coinvolto. In E. terreni precambriani affiorano anche a ovest dello
scudo baltico, in particolare nella Scozia settentrionale e lungo le coste atlantiche della Norvegia, nonché in
residui sparsi in altre parti del continente, mentre sulle Alpi e nel Massiccio Centrale francese il Precambriano
non è documentato con sicurezza. Nel Paleozoico, tra il Cambriano e il Siluriano, la paleogeografia terrestre
era caratterizzata dalla presenza di almeno sei masse continentali separate da bacini oceanici e/o da mari poco
profondi: Gondwana (America Meridionale, Europa meridionale, Africa, Arabia, India, Australia,
Madagascar, Nuova Zelanda e Antartide); Laurentia (America Settentrionale e Groenlandia); Baltica (Russia e
gran parte dell’Europa settentrionale); Kazakhstania (Asia centrale); Cina (Cina e Malaysia); Siberia. Al
passaggio Siluriano-Devoniano la paleogeografia europea subì notevoli cambiamenti: la collisione tra i due
continenti Laurentia e Baltica dette luogo alla fascia orogenica caledoniana-appalachiana; si andò così a
costituire un’unica massa continentale (Laurussia) sulla quale una catena montuosa decorrente da SO a NE era
estesa dall’Irlanda, per l’Inghilterra e la Scozia, fino alla Norvegia. Nel Devoniano medio e nel Carbonifero
inferiore (370• 340 milioni di anni fa) la paleogeografia terrestre era caratterizzata da cinque grosse masse
continentali: Gondwana, Laurussia, Kazakhstania, Cina e Siberia. Gondwana era separata dagli altri
continenti attraverso una ampia fascia oceanica denominata Oceano medio Europeo o Oceano Reico. Sul bordo
orientale del Laurussia si estendeva invece l’Oceano Uraliano o Pleionico. Nel Carbonifero inferiore, quindi, su
gran parte dell’Europa si estendeva un dominio marino; i lineamenti di questa fascia oceanica dovevano però
modificarsi durante questo periodo, poiché solo nella regione mediterranea europea rimase un ambiente
francamente marino, mentre nell’Europa occidentale erano presenti prevalentemente ambienti continentali e
paralici. Un clima caldo-umido, l’abbondanza di vegetazione e soprattutto le ripetute fasi di sommersione per
subsidenza cui furono soggetti gli ambienti costiero-lagunari dettero luogo agli estesi depositi di carbone che
caratterizzano questo periodo geologico. Alla fine del Carbonifero e agli esordî del Permiano, i movimenti di
deriva delle masse continentali, già iniziati precedentemente, portarono alla collisione tra i diversi blocchi
crostali, dando luogo all’orogenesi ercinica, che in Europa innalzava, a sud della precedente fascia orogenica
caledoniana, due nuove catene: l’armoricana, estesa da NO a SE, che dall’Irlanda e dall’Inghilterra
meridionale si continua nella Bretagna (Armorica) e nel Massiccio Centrale francese fino alle Cevenne, e la
varisca, che dall’altopiano francese – per i Vosgi, la Selva Nera, la Selva di Turingia, lo Harz e la Boemia –
giunge fino ai Sudeti. Le stesse fasi collisionali portarono inoltre alla formazione della catena degli Urali.
Intrusioni granitiche e vulcanismo accompagnarono nella fase finale l’attività orogenica; nella regione alpina,
rocce plutoniche formate durante questo periodo costituiscono i massicci cristallini dell’Argentera, del
Pelvoux, del M. Bianco e dell’Aar-Gottardo. Alla fine del Paleozoico, circa 250 milioni di anni fa, si era così
costituito un unico supercontinente (Pangea), circondato da un unico e vastissimo oceano denominato
Pantalassa (Oceano Pacifico primordiale). Un braccio di mare (Tetide) orientato circa E-O e limitato ad
occidente dalle masse continentali, separava la parte centro-settentrionale del Pangea denominata Laurasia (di
cui faceva parte l’Europa), da quella centro-meridionale, denominata Terra di Gondwana (di cui faceva parte
l’Africa). La Tetide si sarebbe realizzata attraverso sistemi di fratture orizzontali localizzate nell’attuale area
mediterranea, lungo le quali l’Africa e l’Europa si sarebbero mosse tra la fine dell’orogenesi ercinica e il
Triassico superiore, portando a una frammentazione delle catene erciniche e all’individuazione di una serie di
piccole zolle crostali. Nel Mesozoico, a partire dal Triassico (230 milioni di anni fa), sistemi di fratture
distensive associate a magmatismo basaltico portarono a una scissione del Pangea, all’inizio della apertura
dell’Oceano Atlantico e alla separazione dei continenti boreali (Laurasia) da quelli australi (Terra di
Gondwana), con espansione dell’Oceano Tetideo. In tutta l’Europa centrale le aree continentali vennero
invase dal mare e i massicci ercinici furono ricoperti discordantemente da terreni mesozoici. Nel Giurassico
superiore si ebbe la massima espansione della Tetide, con lo sviluppo di veri e proprî fondi oceanici, mentre
nel Cretacico inferiore iniziarono i movimenti di deriva, con convergenza tra Africa ed Europa, che portarono,
a partire dal Cretacico superiore, alla chiusura dell’Oceano Tetideo, alla collisione delle due masse continentali
e quindi alla orogenesi alpina (Paleogene e Neogene). Tracce di quell’oceano sono oggi rappresentate da rocce
di natura ofiolitica, considerate porzioni di vecchia crosta oceanica, inglobate nelle catene montuose corrugate.
Nelle Alpi, esse sono incluse nei calcescisti del Piemonte. In questo periodo si formarono o si completarono i
Balcani, le Alpi Transilvaniche, i Carpazî, le Alpi, le Dinaridi, il Giura, l’Appennino, i Pirenei e la Cordigliera
Betica. L’orogenesi fu accompagnata da un intenso risveglio dell’attività vulcanica e plutonica: nelle Alpi si
formarono i plutoni di Traversella, dell’Adamello, della Val Masino e della Val Bregaglia. Risalgono a
quest’epoca la formazione dell’Islanda, i basalti della Scozia e dell’Irlanda, gli apparati vulcanici dell’Eifel,
dell’Alvernia, della Boemia, della Sardegna, come pure quelli degli Euganei e dei Berici. Nel Quaternario
l’Europa venne assumendo la configurazione attuale, in seguito a diversi fenomeni di natura climatica e
geologica di cui restano ancora tracce ben visibili: nelle regioni montuose i ghiacciai modellarono i rilievi e le
valli grazie alla loro azione erosiva e all’accumulo di vaste quantità di depositi glaciali, fluvioglaciali e
periglaciali. Il clima e le variazioni glacio-eustatiche del livello del mare portarono ad alterne fasi di
alluvionamento e di incisione delle valli fluviali, con formazione di terrazzi, mentre nelle regioni costiere le
continue emersioni e sommersioni cambiarono il contorno dei continenti, determinando così periodi di
collegamenti tra isole e aree continentali.
Lineamenti morfologici. – In E. si riconoscono almeno quattro grandi regioni morfologiche. La prima è la
Fennoscandia (Finlandia e Scandinavia, ad eccezione della Scania). Mentre la piattaforma che circonda il
Baltico non ha subito altri corrugamenti, la parte occid. della Scandinavia fu influenzata dai corrugamenti
caledoniani. Le glaciazioni recenti hanno poi impresso i lineamenti essenziali alla Fennoscandia. Netto, in
particolare, è il contrasto tra le aree elevate, residuo delle antiche superfici di spianamento, e le valli glaciali,
occupate dai fiordi. Alle glaciazioni si devono anche la grande ricchezza di laghi e l’irregolarità della rete
idrografica, che presenta caratteri giovanili. La seconda regione è il grande Bassopiano Franco-germanicopolacco, in massima parte di origine alluvionale. La terza è la regione delle montagne medie centro-occidentali che
abbraccia buona parte delle Is. Britanniche, della Francia (alpina e pirenaica), della Germania. I rilievi che
costituiscono queste regioni rappresentano i residui di sistemi montuosi di epoche geologiche diverse, rotti da
fratture e da sprofondamenti in lembi isolati, demoliti e spianati in lunghi periodi di emersione. Si possono
riconoscere i resti dei rilievi caledoniani (Scozia, Galles, Inghilterra settentrionale, parte dell’Irlanda), che
appaiono con forme di media montagna, separati da fratture e da fosse sui margini delle quali si riscontrano
effusioni basaltiche, e dei rilievi ercinici, sia armoricani (Irlanda meridionale, Cornovaglia, Inghilterra
meridionale, Ardenne e poi rilievi della Bretagna, della Normandia e del Massiccio Centrale) sia varisci
(Massiccio Scistoso Renano, Vosgi, Selva Nera, Harz, Giura Franco-Svevo, Monti Metalliferi, Massiccio
Boemo). Interposti tra gli antichi rilievi esistono bacini depressi (come quelli di Parigi e di Londra in seno ai
rilievi armoricani) che sono stati colmati da materiali più recenti ceno- e neozoici. Questi rilievi si presentano
ora, dopo essere stati intensamente spianati, come massicci o gruppi isolati, con forme morbide, cupoleggianti
o tabulari, di modesta altezza (1500• 1800 m), separati da bacini depressi e affiancati a N da estesi bassopiani.
La regione delle catene giovani mediterranee è la parte più recente dell’E., l’unica nella quale s’incontrano dei
sistemi di catene a pieghe (Cordigliera Betica, Pirenei, Alpi, Appennino, Carpazî, Balcani, ecc.). Essa è
separata dalle montagne medie da una successione di solchi, che costituisce una specie di corridoio naturale di
grande importanza anche dal punto di vista delle comunicazioni. Le catene mediterranee sono state originate
da corrugamenti avvenuti nel Terziario medio, che con poderose spinte hanno ripiegato, contro i pilastri
montuosi dell’Europa centrale, i sedimenti di un’ampia area marina, dando origine a imponenti archi
montuosi. Più tardi una serie di distensioni ha interrotto la continuità delle catene, determinando la
formazione di conche e di bacini interni. Iniziato il processo di spianamento, sono sopravvenuti nuovi
sollevamenti, che hanno ringiovanito sia il rilievo (con forme d’alta montagna), sia l’idrografia. Inglobati in
seno ai ripiegamenti terziarî sono restati dei lembi di terre preesistenti più antiche, come il massiccio
tracomacedone e la Meseta spagnola. Tipici bacini di distensione sono l’Andalusia, il bacino dell’Ebro, il
Tirreno, l’Egeo, il bacino pannonico, ai margini dei quali si riscontrano spesso manifestazioni vulcaniche. ƒLe
coste europee (38.000 km) presentano grande varietà di aspetti. Nel determinarne la morfologia e il carattere
attuale ha avuto notevole importanza una sommersione recente, che ha causato l’invasione del mare in lembi
più o meno estesi della piattaforma continentale. Nelle regioni settentrionali e di NO, che subirono l’influenza
della glaciazione, si hanno coste a fiordi e a skiär, i primi formanti insenature in coste alte e ripide (Norvegia e
Scozia), i secondi dove si affacciano al mare tavolati e pianure (Finlandia e Svezia) con aspetti particolari
dovuti alle recenti oscillazioni positive del mare; a queste ultime è legato anche il tipo di coste a rías (Irlanda,
Bretagna, Spagna di NO), dovuto alla sommersione dell’estremità di alcune valli fluviali, in zone non soggette
a glaciazioni. Nel Mediterraneo sono più frequenti le coste a festoni, caratterizzate da capi o promontorî
sporgenti, tra i quali s’interpongono pianure più o meno estese. I valloni della Dalmazia sono invece bassure
(valli longitudinali o sinclinali, modificate dal carsismo) invase dal mare. Caratteristiche del Mar Nero sono le
acquitrinose coste a liman.
Aspetti bioclimatici. – Le latitudini estreme d’E., escludendone le isole artiche, sono a 35 e a 71 N, e perciò
essa è pressoché totalmente compresa nella zona astronomica temperata dell’emisfero settentrionale; oltre alle
suddette isole, solo un’esigua parte della Fennoscandia rientra nella calotta polare artica. Tuttavia, il fattore
latitudine non manca certo di esercitare influenza climatica, evidente soprattutto nella parte più meridionale
d’E. che è interessata, durante la stagione estiva, da una massa d’aria di provenienza sahariana che risente di
quel serbatoio di calore che è il Mare Mediterraneo: è appunto l’E. a clima mediterraneo, con caratteri
subtropicali più che propriamente temperati, con estati calde e decisamente asciutte e inverni miti e
moderatamente piovosi. Peraltro, gli elementi spiccatamente mediterranei non sono presenti nell’intera E.
meridionale, ma solo nelle aree più esposte al grande mare interno, quali tutte le isole, la Spagna meridionale e
orientale, la Provenza, la parte peninsulare dell’Italia, la Dalmazia, la Grecia. Nel resto dell’E. il fattore più
notevole di diversificazione climatica è dato dalla maggiore o minore influenza dell’Oceano Atlantico:
influenza che arriva quasi dappertutto a causa dell’accentuata articolazione delle terre in numerose isole e
penisole e della scarsità di rilievi orientati in senso N-S e quindi in grado di ostacolarne la penetrazione; la
quale tuttavia, com’è ovvio, va attenuandosi man mano che si procede verso est. Così, è possibile distinguere
un clima oceanico (atlantico) e un clima semicontinentale. Il primo interessa l’angolo nord-occidentale e il bordo
settentrionale della Penisola Iberica, gran parte della Francia, il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania
settentrionale tra Reno ed Elba, la Danimarca, le Isole Britanniche, l’Islanda meridionale, un’esigua fascia
occidentale della Scandinavia. Tutta quest’area risente in qualche modo dell’azione termoregolatrice
dell’oceano e del riscaldamento dovuto alla Corrente del Golfo, per cui l’escursione termica annua non è mai
rilevante, variando tra gli 8 • 9 C dell’Islanda e i 16 • 17 C del Bassopiano Germanico, e le temperature
medie di gennaio si mantengono per lo più sopra 0 C; e risente altresì delle perturbazioni atlantiche, che
apportano precipitazioni piuttosto copiose (in qualche caso abbondantissime, come in certe località scozzesi,
dove si superano i 4000 mm annui) e presenti un po’ in tutte le stagioni. Invece, nell’E. più interna, dove
l’influenza oceanica diminuisce fin quasi ad annullarsi, l’estate diviene progressivamente più calda e l’inverno
più freddo; mentre le piogge tendono a diminuire e a concentrarsi nella stagione estiva, poiché durante
l’inverno l’ingresso delle perturbazioni atlantiche è ostacolato dalla lunga persistenza di masse anticicloniche.
Queste condizioni si accentuano progressivamente verso E, fino a far luogo a un clima nettamente
continentale. Solo l’estremo lembo settentrionale della Finlandia e buona parte dell’Islanda, oltre alle isole
artiche, hanno un vero clima glaciale. ƒL’antichità del popolamento e della pratica agricola, l’addensamento
demografico, l’urbanizzazione hanno profondamente trasformato il manto vegetale. Anche là dove non vi sono
coltivazioni, la vegetazione ha ormai composizione e aspetto notevolmente diversi da quelli originarî, con la
sola – e parziale – eccezione della tundra, la prateria della zona a clima glaciale formata essenzialmente da
muschi e licheni, anch’essa peraltro impoverita e parzialmente modificata dall’uso che ne fanno da sempre gli
allevatori lapponi per il pascolo delle renne. Immediatamente a S della tundra, in Svezia e soprattutto in
Finlandia, si conserva in gran parte la foresta di conifere, simile a quella che assume assai più vaste
proporzioni in Russia e in Siberia; tuttavia, se la sua composizione è pressappoco quella originaria, la sua
fisionomia è ormai quella di un bioma trasformato da una razionale ma intensa utilizzazione. Più a S ancora,
nell’E. mediana, la foresta di caducifoglie dei climi temperati, una volta dominante, si mantiene solo
eccezionalmente, in limitate aree sfuggite all’agricoltura o all’urbanizzazione intensa. Sempre nell’E. mediana
non esiste quasi più la steppa, che un tempo occupava alcuni spazî marcatamente continentali, come la Pianura
Pannonica. Le coste dell’Atlantico, del Mare del Nord e del Baltico, dove la costituzione del suolo e i forti
venti non hanno mai consentito l’insediamento della vegetazione arborea, sono coperte da brughiere. Nell’E.
meridionale l’antica macchia mediterranea, bioma subtropicale formato da alberi e da arbusti sempreverdi
succeduto a un’ancor più antica e più rigogliosa «foresta» mediterranea, occupa ormai solo un’esigua frazione
di quello che era il suo habitat, limitandosi ad alcune zone, più tipicamente subtropicali e meno soggette ad
antropizzazione massiccia. Già da molto tempo, del resto, le specie mediterranee sono state insidiate da specie
caducifoglie di ambiente temperato, un po’ per naturale competizione e in gran parte per sostituzione a opera
dell’uomo. ƒL’umanizzazione dello spazio, la caccia, la trasformazione della vegetazione originaria hanno da
tempo drasticamente ridotto la fauna europea, che appartiene alle sottoregioni europea e mediterranea della
regione zoogeografica paleartica. Parecchi mammiferi si sono estinti negli ultimi secoli, altri sopravvivono solo
perché allevati (renna) o protetti all’interno di riserve (bisonte in Polonia, stambecco nelle Alpi). Gli
artiodattili sono rappresentati pure dall’alce (regioni settentrionali, ormai raro), dal cervo, dal capriolo, dal
daino, dal camoscio (montagne centro-meridionali), dal muflone (Sardegna, Corsica), dal cinghiale, oggetto di
caccia intensa, ma anche di operazioni di ripopolamento. Tra i carnivori fissipedi l’orso bianco è frequente
sulle coste artiche, quello bruno sopravvive in alcune montagne centro-meridionali, i felini sono rappresentati
dal gatto selvatico e da rari esemplari di lince, i canidi dalla volpe (ubiquitaria), dal lupo e dallo sciacallo (solo
nei Balcani); invece i mustelidi (martora, ermellino, tasso, ecc.), favoriti dalla piccola taglia, sono ancora
numerosi. Per lo stesso motivo e per la loro prolificità abbondano i roditori, alcuni in zone artiche (lemming) o
di montagna (marmotta), altri in aree subtropicali (istrice), altri pressoché ubiquitarî (lepre, scoiattolo, topi),
nonché gli insettivori (riccio, talpa). Frequenti sono i pipistrelli. I cetacei vanno diminuendo sia nei mari
freddi (balenottere) sia in quelli caldi (capodogli, delfini); e così pure i carnivori pinnipedi (varie specie nei
mari settentrionali, una sola, quasi estinta, nel Mediterraneo). Una colonia di bertucce, per alcuni autoctone,
per altri importate, popola la rocca di Gibilterra. L’avifauna comprende molti migratori che in autunno
muovono dalle regioni settentrionali verso il Mediterraneo e l’Africa; tra le specie stanziali i rapaci (aquile,
avvoltoi, falchi) sono ancora frequenti nell’ambiente mediterraneo, i galliformi (pernice, gallo cedrone) in
quello alpino. Dei rettili sono presenti, specie a S, testuggini, lucertole e ofidî (anche velenosi).
Idrografia. – La modesta estensione dell’E. e la presenza di rilievi relativamente vicini al mare impediscono la
formazione di grandi sistemi fluviali, fuorché nei vasti bassopiani della sezione orientale. Lo spartiacque
principale, che corre sui rilievi interni della Spagna, sui Pirenei e sulle montagne medio-europee (e solo in
piccola parte sulle Alpi), divide l’E. in due versanti: quello mediterraneo (che comprende anche le acque che
defluiscono nel Mar Nero) e quello atlantico (che include pure i fiumi tributarî del Mare del Nord e del
Baltico), il secondo più ampio del primo e più ricco di acque. Appartengono a esso, infatti, i fiumi di buona
parte della Penisola Iberica e tutti quelli del Bassopiano Franco-germanico-polacco, tra i quali alcuni notevoli
per lunghezza (Tago, Loira, Elba, Vistola), per ampiezza del bacino (Reno, Elba, Vistola), per portata (Reno,
Vistola); tutti importanti per le attività umane, come dimostrano l’intenso traffico che si svolge in alcuni di
essi, i numerosi insediamenti urbani nati lungo le loro rive, i grandi porti sorti in prossimità delle loro foci (per
lo più a estuario). Emerge il Reno, indubbiamente il più notevole fiume europeo per l’importanza assunta
come via di comunicazione e come principale asse di sviluppo. Invece i fiumi mediterranei terminano con foci
a delta e sono in genere più poveri, tranne il Rodano e il Po, ai quali l’apporto delle acque di fusione nivale e
glaciale delle Alpi assicura portate cospicue. Un caso del tutto particolare è quello del Danubio, il poderoso
fiume che percorre l’E. mediana in senso prevalentemente O-E e si getta nel Mar Nero, formando il sistema
idrografico europeo di maggiori dimensioni, superato tuttavia dal Reno per importanza antropico-economica.
Per la maggior parte i fiumi europei sono alimentati esclusivamente o prevalentemente dalle piogge: ciò spiega
la diversità dei loro regimi, che dipendono dai regimi pluviometrici, per cui i fiumi delle regioni a clima
mediterraneo hanno piene invernali e accentuate magre estive, quelli dell’E. a clima atlantico sono
caratterizzati da regime più costante, quelli dell’E. semicontinentale hanno piene primaverili. Per alcuni fiumi,
però, soprattutto quelli che traggono origine dalle Alpi, i regimi diventano complessi in quanto l’alimentazione
è anche nivale e l’acqua di fusione delle nevi tende ad accentuare le piene primaverili. ƒQuanto ai laghi, le aree
più ricche sono quelle già interessate dal glacialismo pleistocenico: la circumbaltica e l’alpina. La Finlandia ha
circa il 10% del territorio occupato da laghi, e poco meno la Svezia (che ospita il maggiore lago europeo, il
Vänern).
ANTROPOLOGIA E GEOGRAFIA UMANA
Paletnologia e antropologia. – La paletnologia dell’E. appare notevolmente complessa, anche alla luce della
frammentarietà dei ritrovamenti e delle ripetute modificazioni climatiche (stadî glaciali e interglaciali) e
ambientali. Le prime testimonianze della presenza dell’Uomo (forse Homo erectus), limitate all’E. meridionale,
risalgono al Pleistocene inferiore (1,6• 0,7 milioni di anni fa); sebbene siano parecchi i siti in grotta e all’aperto
e le industrie ritrovate, sempre primitive e talora impoverite rispetto a quelle dell’Olduvaiano, costituite da
choppers, chopping-tools, poliedri, schegge a ritocchi minuti e da rari e assai grezzi bifacciali (Chilhac,
Roussillon, Vallonnet, Soleilhac in Francia; Sandalja in Iugoslavia; Isernia in Italia), nessun resto umano è
finora conosciuto. È solo nell’Acheuleano antico (700.000• 400.000 anni fa) che i ritrovamenti divengono più
frequenti anche nell’E. settentrionale, in corrispondenza agli stadî interglaciali, e le industrie più varie,
testimoniando la presenza di gruppi culturali ben individualizzati, un’organizzazione sociale più evoluta,
l’abilità nella caccia e l’acquisizione della nozione di simmetria: accanto alle industrie arcaiche compaiono i
primi strumenti a simmetria bilaterale e bifacciale. Tra i resti più antichi in E., riferiti a Homo erectus, si citano
l’«uomo di Heidelberg» (650.000 anni fa) e i ritrovamenti di Tautavel, in Francia, e di Azych, nell’Azerbaigian.
Circa 350.000 anni fa il fuoco diviene un elemento integrato nell’universo umano (Terra Amata, presso
Nizza). Nell’Acheuleano superiore (300.000• 100.000 anni fa), all’inizio del Riss, si diffonde la tecnica di
distacco levalloisiana nella lavorazione della pietra: accanto alle culture acheuleane si sviluppano facies
regionali (Clactoniano, Tayaziano, Premusteriano). Gli abitati si evolvono e compaiono le prime strutture
interne. I resti umani di questo periodo sono caratterizzati da notevole polimorfismo. Tra 100.000 e 35.000
anni fa i Neandertaliani, portatori della cultura musteriana (Charentiano, Musteriano tipico, denticolato e di
tradizione acheuleana), conquistano le zone temperate e fredde. L’economia resta basata sulla caccia e sulla
raccolta, ma i generi di vita documentano una maggior sedentarietà. Durante l’ultimo interstadio wurmiano si
passa dal Paleolitico medio al superiore e compaiono i primi umani morfologicamente e culturalmente
moderni d’E. (H. sapiens sapiens). In quest’epoca, suddivisa in complessi diversi (Castelperroniano,
Uluzziano, Aurignaziano, Solutreano, Maddaleniano, ecc.), caratterizzati da enormi innovazioni tecnologiche,
sociali, culturali e artistiche, e ancor più nel successivo Neolitico, si nota un marcato rinnovamento razziale,
sia per effetto di migrazioni sia per l’inizio dell’evoluzione locale di razze e sottorazze, con formazione di
aggregati umani tuttora esistenti. Le razze attuali d’E. appartengono quasi tutte agli Europoidi (secondo R.
Biasutti), comprendenti ceppi di Preeuropidi, Europidi e Lappidi; ne segue una certa uniformità morfologica.
Le razze degli Europidi sono: la mediterranea (penisola iberica e italica, Grecia e in genere tutte le zone
bagnate dal Mediterraneo); la nordica (Isole Britanniche, gran parte della Scandinavia, Paesi Bassi, Belgio,
Francia settentr., ecc.); alpina (parte della Francia e della Germania, paesi alpini, parte della Romania); baltica
(massima parte dell’E. orient.); adriatica (parte dei paesi balcanici). Ai Lappidi appartiene la razza lappone
(estremo nord); ai Preeuropidi quella uralica (E. più orient.).
Distribuzione e insediamento della popolazione. – Secondo stime del 1990, l’E. conta circa 500 milioni di ab.; la
densità, poco più di 100 ab. per km2, è pressappoco uguale a quella dell’Asia (Siberia esclusa) e nettamente
superiore a quella delle altre parti del mondo. Mancano dati attendibili sulla popolazione europea prima del
sec. 17 . Le stime dei demografi storici indicano per l’inizio dell’era volgare 30• 35 milioni di unità. Diminuita
in età tardo-romana e nell’alto Medioevo, fin quasi a dimezzarsi nel 7 sec., in seguito la popolazione tornò a
crescere lentamente, superando di nuovo i 30 milioni di unità intorno al 1000 e i 60 nella prima metà del
Trecento, per poi calare ancora a causa di ricorrenti pestilenze. Dal sec. 15 l’aumento riprese, prima lento,
poi veloce, vertiginoso da metà Settecento a metà Novecento: i circa 100 milioni di Europei dell’inizio del sec.
18 erano divenuti 300 milioni nel 1900. Dunque, alla popolazione d’E., che aveva impiegato 1700 anni per
triplicarsi, sono bastati due secoli per triplicarsi una seconda volta. Il rapido aumento dal sec. 18 in poi è in
chiaro rapporto con la rivoluzione industriale e i conseguenti miglioramenti sociali, com’è provato dal fatto che
tra il 1750 e il 1850, quando l’industrializzazione era decollata in Inghilterra e interessava poco gli altri paesi,
la popolazione inglese è cresciuta molto più delle altre. A tale aumento ha in seguito contribuito il calo di
mortalità dovuto al progresso degli studî immunologici e all’uso di antibiotici. Il notevolissimo incremento
dell’età contemporanea sarebbe stato ancor maggiore senza l’intensa emigrazione, soprattutto verso le
Americhe, di decine di milioni di Europei. Manifestatasi già subito dopo la scoperta dell’America, essa
divenne molto cospicua nel sec. 19 , favorita dal malcontento politico seguito alla Restaurazione, da crisi
agricole, dall’apertura delle frontiere degli stati neoindipendenti dell’America Latina. Nei cento anni intercorsi
tra il Congresso di Vienna e la seconda guerra mondiale l’E. ha perduto poco meno di una cinquantina di
milioni di unità. All’emigrazione hanno contribuito, in misura diversa, tutti gli stati europei, con prevalenza
dapprima delle Isole Britanniche, poi dei paesi germanici, poi dell’Italia. In un paese europeo l’intensissima
emigrazione ha portato non solo un freno all’incremento, ma addirittura una sensibile diminuzione assoluta: è
l’Irlanda, che a seguito della carestia del 1845 ha visto dimezzarsi la sua popolazione, una popolazione che ha
ripreso ad aumentare solo nel Novecento e che tuttora è appena il 60% di quella di centocinquant’anni fa.
Dopo il primo quindicennio del 20 secolo l’emigrazione ha svolto un ruolo meno rilevante: gli espatrî dai varî
stati, pressoché nulli durante le due guerre mondiali, sono stati poco numerosi anche nel periodo interbellico,
a causa di politiche restrittive adottate sia dai paesi d’immigrazione che da alcuni dei paesi di partenza;
successivamente al secondo conflitto gli espatrî sono ripresi numerosi, ma i flussi si sono esauriti
essenzialmente all’interno dell’E., senza conseguenze sostanziali sulla popolazione europea totale. Questi flussi
intraeuropei sono stati alimentati soprattutto dall’E. meridionale (paesi iberici, Iugoslavia, Grecia, Italia, la
quale ultima, però, dopo aver avuto una parte di primo piano negli anni Cinquanta e Sessanta, non può più,
ormai, definirsi un paese d’emigrazione) e, soprattutto verso la fine degli anni Ottanta, dalla Polonia, e hanno
avuto come meta principale la Rep. Fed. di Germania, la Svizzera, la Francia e anche il Regno Unito e il
Belgio. Altri trasferimenti intraeuropei rilevanti sono avvenuti dopo la seconda guerra mondiale, in
conseguenza dei mutamenti della carta politica e hanno interessato soprattutto la Germania occid., che ha
dovuto accogliere poco meno di 10 milioni – tra espulsi e volontarî – di Tedeschi profughi dalle repubbliche
popolari dell’E. orientale, cui molti altri, specialmente dalla Rep. Dem. Tedesca, se ne sono aggiunti
clandestinamente negli anni successivi. Raggiunta, o quasi, la soglia del mezzo miliardo, la popolazione
europea non rivela più tendenza all’incremento. Il tasso di natalità è sceso ormai in quasi tutti gli stati a livelli
molto bassi, compresi tra il 10‰e il 13‰; conservano tassi un po’ più elevati solo alcuni paesi meno
industrializzati dell’E. orientale (Polonia, Romania) e balcanica, le isole di Islanda e Irlanda, nonché l’Albania,
che, con un valore molto elevato (26‰), è completamente estranea al comportamento europeo. Il valore più
basso in assoluto è, a partire dagli ultimi anni Ottanta, quello dell’Italia. I tassi di mortalità europei, fino agli
anni Settanta i più bassi del mondo, tendono ora ad aumentare, a causa del processo d’invecchiamento della
popolazione. Compresi per lo più tra il 9‰e il 12‰, salgono a valori più elevati in Germania e in Ungheria e
scendono a cifre molto basse in Spagna, in Islanda e, soprattutto, in Albania (meno del 6‰). Alcuni paesi
hanno raggiunto la «crescita zero», cioè la parità tra nascite e morti; in Danimarca e in Germania la mortalità
supera la natalità. La mortalità infantile è scesa a livelli molto bassi nella maggior parte dell’E., in particolare
nei paesi nordici (6‰); supera il 20‰in alcuni paesi balcanici e assume il valore più alto (prossimo al 30‰) in
Albania, confermando la diversità di questo paese. La stasi demografica seguita a secoli di rapido incremento
ha trasformato alcuni paesi europei occidentali – anche alcuni di quelli che, come l’Italia, furono a suo tempo
aree di emigrazione – in mete di flussi provenienti soprattutto dai bordi orientali e meridionali del
Mediterraneo (Turchia, Maghreb), ma anche dall’Africa a S del Sahara e dall’Asia di sud-est, e, più
recentemente, dall’E. orientale; i flussi di provenienza extraeuropea, ormai consistenti in Germania, in Francia
e anche in Italia, pongono nuovi problemi di organizzazione alle società europee, avviate a divenire
multietniche. ƒLa distribuzione della popolazione in E. non presenta gli squilibrî che caratterizzano le altre
parti del mondo, ma non può dirsi omogenea. La densità media, circa 100 ab. per km2, nasconde situazioni
profondamente diverse, come quelle del Belgio, dei Paesi Bassi, della Renania settentrionale, coperti da un
fittissimo velo umano, e quelle delle montagne islandesi e della tundra lappone, pressoché disabitate. I paesi
nordici, che occupano circa 1/4 dell’E. ospitandone appena il 3,5% della popolazione, hanno densità bassissime
(l’Islanda addirittura 2 ab. per km2!); ma restano al di sotto della media pure gli stati baltici, quelli balcanici
(tranne l’Albania), Austria, Spagna, Irlanda. Tra gli altri, la Germania e il Regno Unito superano i 200 ab. per
km2, il Belgio e i Paesi Bassi addirittura i 300. Nel complesso, s’individua un’ampia fascia di densità
particolarmente elevata, che abbraccia l’Inghilterra centrale e meridionale e, al di qua della Manica, la Francia
di nord-est, il Belgio, i Paesi Bassi e gran parte della Germania. Man mano che ci si allontana da questa fascia,
che rappresenta il «centro» demografico ed economico dell’E., la densità diminuisce, più rapidamente verso N,
in modo più sfumato nelle altre direzioni. Nel corso del tempo la situazione non è stata sempre la stessa.
Nell’età classica le zone più fittamente abitate erano quelle mediterranee, dove la Grecia vedeva nascere i
germi della civiltà europea e dove Roma aveva creato per la prima volta un solido organismo politico unitario.
Allora, probabilmente, l’E. propriamente mediterranea (Penisola Iberica, Francia meridionale, Italia,
Dalmazia, Grecia) ospitava oltre il 60% della popolazione europea, fatto non più verificatosi in seguito; oggi
non ne accoglie più del 20%. Il declino demografico mediterraneo andò di pari passo con lo spostamento del
baricentro politico, economico e culturale europeo verso N e verso O, già avviato nell’alto Medioevo con Carlo
Magno, proseguito nel basso Medioevo con la formazione delle grandi monarchie nazionali, accentuato
all’inizio dell’Età moderna con le grandi scoperte geografiche e il ruolo acquisito dall’Atlantico, reso più netto
e definitivo con la rivoluzione industriale. ƒUno dei caratteri salienti della popolazione europea è quello di
essere in gran parte una popolazione urbana. Il fatto urbano interessò fin dall’antichità le aree mediterranee,
come dimostra lo sviluppo della civiltà greca, fondata su città-stato, e anche di quelle etrusca e punica, nonché
la cura posta dai Romani nell’ingrandimento della loro capitale e nella fondazione di tante altre città.
Successivamente, con lo spostamento del baricentro europeo verso N e verso l’Atlantico, anche l’E. centrale e
occidentale fu conquistata dalla civiltà urbana. Ma è soprattutto con la rivoluzione industriale che le città si
accrescono sensibilmente per superficie e popolazione, e mostrano la tendenza a espandersi in varie direzioni e
spesso a saldarsi con centri vicini, formando agglomerazioni urbane e conurbazioni. Sebbene non ci si possa
affidare del tutto alle cifre della popolazione urbana (a causa dei criterî molto difformi usati per calcolarla), è
significativo che la media europea si aggiri intorno al 75%, di fronte a una media mondiale del 45%. Il valore
medio è largamente superato da una decina di stati dell’E. settentrionale e occidentale, con un massimo di oltre
il 90% nel Regno Unito; al contrario, in due paesi dell’E. meridionale, il Portogallo e l’Albania, si scende a
valori che si aggirano intorno al 30%. Si contano circa 450 agglomerati urbani con oltre 100.000 ab.; di essi, 60
superano il mezzo milione e 29 il milione di abitanti. Le agglomerazioni maggiori sono quelle di Parigi e di
Londra, dove vivono, rispettivamente, poco meno di 9 e quasi 7 milioni di persone. Talvolta nella città
principale, che in questi casi coincide sempre con la capitale, si concentra un’altissima percentuale della
popolazione: l’esempio più vistoso è quello dell’agglomerazione di Atene, dove risiede il 35% dei Greci; ma
anche Dublino, Reykjavik, Budapest, Vienna accolgono notevolissime frazioni della popolazione dei rispettivi
stati. L’urbanizzazione intensa e la conseguente deruralizzazione di vaste aree ha portato anche in Europa alla
formazione di assetti megalopolitani, del tipo di quello ben noto degli Stati Uniti nord-orientali, sia pure in
dimensione più ridotta: assetti di tal genere, con caratteri urbani anche negli spazî vuoti tra un’agglomerazione
e un’altra, si riscontrano in Inghilterra, nella vasta regione urbana che va dalla Fiandra francese al bacino della
Ruhr e, in misura più modesta, nella Pianura Padana.
Aspetti culturali. – La lunga storia di invasioni, conquiste, sovrapposizioni di popoli diversi ha reso
estremamente complesso e diversificato il quadro etno-linguistico dell’E., dove si parlano diverse decine di
lingue, una trentina delle quali usate ciascuna da oltre un milione di individui, una decina da oltre 10 milioni e
quattro (tedesco, quella che conta di gran lunga il maggior numero di parlanti, francese, inglese e italiano) da
più di 50 milioni. Il 93% degli abitanti dell’Europa appartiene al gruppo linguistico indoeuropeo, nell’ambito
del quale predominano le famiglie germanica e neolatina, seguite da quella slava e da famiglie minori (celtica,
albanese, greca). Le lingue germaniche si estendono piuttosto compattamente nell’E. centro-settentrionale;
quelle neolatine occupano una vasta area continua che comprende la regione francese, la Penisola Iberica e
l’Italia e un’ampia isola linguistica nell’E. orientale (Romania); quelle slave si ripartiscono tradizionalmente in
tre gruppi – orientale, occidentale e meridionale – il primo dei quali interessa quasi esclusivamente l’area
russa, mentre gli altri due, separati tra loro, occupano rispettivamente una vasta area dell’E. orientale
(Cecoslovacchia, Polonia) e parecchi paesi balcanici (Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, ecc.). La famiglia
celtica è ormai confinata in spazî residuali all’estremità occidentale d’E. (Irlanda, Scozia, Galles, Bretagna).
Tra gli idiomi non indoeuropei i più diffusi sono quelli del gruppo ugrofinnico, cui appartengono l’ungherese
e il finlandese. Spazî minori sono occupati dall’euskera (la lingua dei Baschi di Spagna e Francia), dal maltese
(che si rifà alle lingue semitiche), dal turco (ancora presente in alcune parti della Bulgaria), dal lappone. ƒ
L’appartenenza alle confessioni cristiane è, unitamente alla prevalenza dei linguaggi indoeuropei, uno dei più
tipici e significativi caratteri culturali dei popoli dell’E., indipendentemente dall’effettiva pratica religiosa,
oggi assai meno diffusa che in passato, sia per le vessazioni subite nei paesi socialisti, sia per la laicizzazione
che ha accompagnato lo sviluppo della civiltà urbano-industriale. Prevale nettamente la Chiesa cattolica
romana, seguita da poco meno del 50% degli Europei; seguono le varie chiese riformate e quelle cristianoortodosse. In prima approssimazione si osserva una certa corrispondenza tra idiomi neolatini e cattolicesimo,
idiomi germanici e chiese riformate, idiomi slavi e religione cristiano-ortodossa; così come si osserva una
maggiore diffusione del cattolicesimo nell’E. centro-meridionale, delle chiese riformate in quella centrosettentrionale e di quelle ortodosse nell’E. orientale; ma si tratta di corrispondenze piuttosto grossolane.
Alcuni stati sono quasi totalmente cattolici (Austria, Belgio, Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Polonia,
Irlanda); altri prevalentemente cattolici (Ungheria, Cecoslovacchia); altri pressoché interamente riformati
(paesi nordici); altri quasi esclusivamente ortodossi (Grecia, Bulgaria). Non seguono confessioni appartenenti
al cristianesimo larghi strati della popolazione della Bosnia e dell’Erzegovina, nonché la maggioranza degli
Albanesi, cioè popolazioni che abitano plaghe della Penisola Balcanica dove si è conservata più a lungo
l’influenza della dominazione turca e dove è tuttora praticato l’Islamismo. La religione musulmana,
comunque, vede aumentare rapidamente il numero dei suoi seguaci in E. a causa dell’ingente immigrazione
proveniente dai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo. Sebbene drasticamente ridotte a seguito
delle persecuzioni naziste e dei massicci trasferimenti in Israele e negli Stati Uniti, vanno ricordate le diverse
comunità ebraiche, notevoli soprattutto nei maggiori centri urbani dell’E. occidentale. ƒI confini politici degli
stati europei non coincidono sempre con i confini etnici; e pertanto spesso tagliano gruppi omogenei dal punto
di vista linguistico o religioso e inglobano minoranze a volte consistenti e in più casi in netto contrasto con
l’etnia maggioritaria per difendere la propria identità.
GEOGRAFIA ECONOMICA
Condizioni generali. – Grazie alle favorevoli condizioni fisiche (ampie pianure, fiumi navigabili, prevalenza di
climi non ostili all’insediamento umano e all’agricoltura, ricchezza di alcune risorse minerarie) e soprattutto
antropiche (alto livello culturale, propensione all’innovazione tecnologica, capacità di accumulo e
d’investimento di capitale), l’E. ha raggiunto dall’inizio dell’Età moderna, e ha consolidato a partire dalla
rivoluzione industriale, un elevato grado di sviluppo tecnico ed economico che le ha consentito una posizione
di preminenza, e addirittura di egemonia, rispetto alle altre parti del mondo; posizione mantenutasi
incontrastata fino a poche decine di anni or sono, allorché la straordinaria crescita degli Stati Uniti e le
conseguenze delle due guerre mondiali hanno prodotto un radicale ridimensionamento del ruolo europeo e
uno sconvolgimento degli antichi equilibrî. Due superpotenze politiche entrambe extraeuropee, gli Stati Uniti
stessi e l’Unione Sovietica, e un paese, pure extraeuropeo, avviato a divenire una superpotenza economica, il
Giappone, hanno drasticamente ridotto gli spazî occupati dall’Europa. Dei maggiori paesi europei, la
Germania e l’Italia uscivano quasi annientate dal secondo conflitto mondiale, mentre Gran Bretagna e
Francia, pur non trovandosi dalla parte degli sconfitti, non erano certo state risparmiate dagli eventi bellici e
non poterono evitare che le sorti dell’E. fossero decise al di fuori della loro ingerenza e che tutta l’E. orientale
entrasse a far parte di un mondo sostanzialmente separato, sotto il controllo dell’Unione Sovietica; né
poterono evitare, di lì a poco, la perdita dei territorî coloniali, alcuni dei quali avevano a lungo costituito
preziose riserve di materie prime o mercati di sbocco per le produzioni industriali europee. A ciò si
aggiungano i contemporanei notevoli mutamenti nelle tecniche di produzione e nell’uso delle fonti
energetiche, tra le quali il carbone – che tanta parte aveva avuto nell’industrializzazione europea e di cui l’E.
possedeva ancora discrete riserve – diveniva sempre meno competitivo rispetto agli idrocarburi. Ciò
nonostante, l’E. riusciva a risollevarsi e a riconquistare un suo ruolo, risultando però condizionata dalla
divisione in due blocchi contrapposti, comunemente indicati – con approssimativo riferimento alla posizione
geografica – come E. occidentale ed E. orientale. La prima, che ha scelto la via dell’economia di mercato, si è
potuta giovare dell’antica tradizione industriale di alcuni dei suoi componenti e, soprattutto, dell’aiuto
finanziario degli S.U.A. interessati a rafforzarla in funzione antisovietica (aiuto fornito in particolare
nell’immediato dopoguerra attraverso il cosiddetto Piano Marshall). Determinanti sono state poi le tendenze
aggregative tra stati. Esse si sono manifestate dapprima con l’Organizzazione europea per la cooperazione
economica (OECE), sorta per la gestione degli aiuti americani e poi trasformatasi in un’istituzione non solo
europea (l’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, OCSE), e con il Consiglio d’Europa,
organizzazione con funzioni di coordinamento politico, economico e culturale; successivamente, a partire dagli
anni Cinquanta, con quei processi d’integrazione economica da cui sono derivate le comunità europee: la
Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom)
e soprattutto la Comunità economica europea (CEE). La CEE, nata nel 1957 con sei membri (Italia, Francia,
Rep. Federale di Germania, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi), si è poi allargata ad altri stati: nel 1973 vi sono
confluiti Regno Unito, Irlanda e Danimarca; nel 1981 è stata la volta della Grecia; nel 1986 si sono aggiunti
Spagna e Portogallo. Altri paesi ancora, alcuni non propriamente europei, hanno manifestato la volontà di
entrare a farne parte. Altri paesi dell’E. occidentale hanno dato vita a un’altra comunità, l’Associazione
europea di libero scambio (EFTA), che si è però andata svuotando del suo significato originario man mano che
alcuni dei suoi membri sono confluiti nella CEE. Diversa e più lenta è stata l’evoluzione degli stati dell’E.
orientale, che peraltro partivano da condizioni più arcaiche, in gran parte preindustriali. Qui è stata imboccata,
sotto l’influenza sovietica, una strada diversa, quella dell’economia socialista, rigidamente pianificata e
caratterizzata dalla statalizzazione dei mezzi di produzione; ne sono derivate crescita della produzione agricola
e dell’industria pesante, piena occupazione e drastica riduzione delle disparità sociali, mentre è risultato assai
modesto l’aumento del reddito pro capite e non si è verificata espansione dei consumi. Anche l’E. orientale è
stata interessata da un processo d’integrazione economica, con la creazione del Consiglio di mutua assistenza
economica (COMECON), che ha legato strettamente all’Unione Sovietica sei paesi: la Rep. Democratica
Tedesca, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria; la Iugoslavia ne era membro
associato, mentre l’Albania restava a farne parte solo nominalmente. Gli eventi dei quali è stata teatro l’E.
orientale negli anni 1989 e 1990, i cui prodromi già si avvertivano a partire dal 1985, hanno rivelato la volontà
di cambiamenti radicali e preludono a una transizione verso forme di economia di mercato e al superamento
della rigida divisione in blocchi che ha segnato oltre un quarantennio di storia europea. ƒQuanto l’E. nel suo
complesso conti nell’economia mondiale risulta evidente dal fatto che essa assorbe poco meno della metà del
commercio internazionale e contribuisce per circa il 30% al prodotto interno lordo di tutti i paesi del mondo;
cifre che risultano particolarmente significative se si ricorda che l’E. forma poco più del 3% delle superfici
emerse e accoglie solo il 10% della popolazione del globo. Insomma, le dimensioni economiche dell’E. sono
nettamente superiori alle sue dimensioni areali e demografiche. Lo sono soprattutto per la presenza di
un’agricoltura meccanizzata, che fa largo uso di fertilizzanti, antiparassitarî e pratiche irrigue e che ottiene alte
rese unitarie, e per quella di un’industria con elevato valore aggiunto e di un commercio attivissimo sia sul
piano intraeuropeo, sia su quello del resto del mondo (anche per gli accordi esistenti tra i paesi CEE e molti
stati extraeuropei già colonie francesi o britanniche). D’altra parte, in questo quadro complessivamente felice
non mancano le ombre: rappresentate soprattutto dagli squilibrî territoriali, non solo tra E. occidentale e
orientale, ma pure nell’ambito dell’E. occidentale, tra le economie mature dei paesi centro-settentrionali e
quelle ancora deboli di alcune aree mediterranee; e rappresentate altresì dai rilevanti problemi del
deterioramento ambientale, sia in termini di inquinamento industriale e urbano, sia di cattiva gestione del
territorio.
Attività primarie. – Le caratteristiche morfologiche e climatiche hanno permesso, nel corso dei secoli, di
conquistare all’agricoltura quasi tutta l’E., attraverso dissodamenti, bonifiche idrauliche (particolarmente
imponenti nei Paesi Bassi, notevoli pure in Italia) ed estensione dell’irrigazione; così che non più del 20% della
superficie totale europea sfugge a un’utilizzazione agricola o forestale. Da qualche tempo le aree coltivate non
si ampliano più, ma anzi hanno preso a contrarsi; tuttavia, la produzione non è affatto diminuita (al contrario,
si è più che raddoppiata dalla metà del 20 secolo a oggi), perché si è verificato dappertutto il passaggio
dall’agricoltura di sussistenza a quella di mercato e sono stati compiuti enormi progressi nell’uso di macchine
agricole, di fertilizzanti, di pratiche irrigue, con conseguente forte aumento delle colture intensive e
specializzate e delle rese unitarie. La contrazione della superficie coltivata è da porsi in relazione con la forte
diminuzione della popolazione attiva in agricoltura, manifestatasi in alcuni paesi europei a partire dalla
rivoluzione industriale ed estesasi all’intera E. negli ultimi decennî: alla fine della seconda guerra mondiale la
popolazione agricola ammontava a circa la metà di quella attiva totale, mentre oggi si aggira sull’11-12%, con
valori bassissimi in alcuni stati occidentali (Belgio, Regno Unito, 2%), sensibilmente più elevati in Romania
(28%) e nei paesi balcanici, tra i quali, ancora una volta, spicca per la sua diversità l’Albania (51%). Ingente, se
si tien conto dell’esiguità del territorio, è la produzione agraria europea: 1/4 del grano mondiale, circa il 40%
dell’orzo, della segale e delle patate, oltre il 50% dello zucchero di barbabietola, i 3/4 del vino. Tuttavia, nella
maggior parte dei casi, essa non è sufficiente a coprire il fabbisogno interno di derrate alimentari e di materie
prime di provenienza agricola, delle quali l’E. resta grande importatrice: un fabbisogno che è molto elevato in
ragione della consistenza demografica della popolazione europea, del suo elevato tenore di vita e dei
conseguenti consumi, nonché del grande sviluppo delle industrie. ƒNell’E. si possono riconoscere tre ampie
fasce agricole che si succedono da N a S e che traggono la loro individualità da fatti d’ordine fisico,
principalmente climatico. La prima, più settentrionale, comprende la Scozia, l’Islanda e la massima parte della
Fennoscandia. Poche colture vi sono praticabili a causa della rigidità del clima e della povertà del suolo (orzo,
segale, patate), mentre notevoli possibilità sono offerte all’utilizzazione forestale (Svezia, Finlandia) e, in
alcune parti, allo sfruttamento di pascoli per allevamento ovino (Scozia). La seconda fascia abbraccia tutta l’E.
mediana (massima parte delle Isole Britanniche, Bassopiano Franco-germanico-polacco, medie montagne
dell’E. centrale, pianure danubiane e padana) ed è certamente quella dell’agricoltura più ricca e moderna,
favorita dalla presenza di ampî spazî pianeggianti, dalla disponibilità d’acqua, dall’appartenenza ai paesi
europei tecnologicamente più avanzati. Sono comprese in questa fascia le più estese colture di grano, di patate,
di barbabietola da zucchero, spesso opportunamente alternate a prati artificiali, per cui molto notevole è pure
l’allevamento, soprattutto di bovini, di suini e di animali da cortile; non mancano aree a colture specializzate
(ortaggi, fiori, in qualche caso vite). La fascia più meridionale comprende le penisole mediterranee ed è assai
meno favorita perché montuosa e siccitosa; tuttavia il clima mediterraneo rende possibili, o più redditizie,
alcune colture che mancano, o scarseggiano, nel resto d’E., come quelle della vite e, soprattutto, dell’olivo e
degli agrumi; colture che caratterizzano le aree migliori, mentre le altre sono lasciate alla cerealicoltura
estensiva e all’allevamento, in gran parte ovino, che utilizza pascoli naturali. ƒLa pesca, pur essendo
un’attività nel complesso marginale, ha un’antica tradizione e conserva importanza in alcuni paesi occidentali
che la esercitano nell’Atlantico e nel Mare del Nord (Norvegia, Danimarca, Islanda, per la quale ultima è di
fondamentale importanza). Molto modesto è invece il contributo del Mediterraneo.
Energia e industrie. – La rivoluzione industriale è stata avviata nell’E. del Settecento per una serie di
circostanze tra le quali la presenza di alcune risorse minerarie, in particolare il carbone, abbondante nella
lunga serie di rilievi paleozoici che si estende nell’E. mediana, dalla Scozia alla Slesia, attraverso l’Inghilterra,
la Francia settentrionale, il Belgio, la Germania. Sebbene l’importanza del carbone sia stata drasticamente
ridotta dalla concorrenza degli idrocarburi e la sua ripresa a seguito del rincaro del petrolio (anni Settanta) sia
stata nel complesso modesta, tuttavia la produzione europea è ancora considerevole (in particolare da parte di
Polonia, Regno Unito e Germania) e ascende a circa il 15% del totale mondiale; ancora più notevole è il
contributo europeo alla produzione mondiale di lignite (quasi il 70%, proveniente soprattutto dalla Germania e
dalla Cecoslovacchia). Invece l’E. risulta gravemente deficitaria di petrolio, di cui è grande importatrice: gli
unici paesi che ne dispongono sono il Regno Unito e la Norvegia, i quali sfruttano i giacimenti sottomarini del
Mare del Nord, e, in più limitata misura, la Romania; migliore è la situazione per quanto riguarda il metano,
estratto in considerevoli quantità nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna. Il contributo fornito dall’energia
idroelettrica difficilmente potrà essere aumentato ed è rilevante solo in pochissimi paesi (Norvegia, Svizzera);
quello di altre fonti di energia (geotermica, solare, eolica), limitatissimo. Pertanto, quello energetico è uno dei
problemi più pressanti di molti paesi europei, e alcuni di essi (in particolare la Francia) hanno scelto di
risolverlo attraverso la massiccia costruzione di centrali nucleari. ƒOltre che del carbone, l’E. si è potuta
giovare, per la sua prima industrializzazione, della presenza di minerali di ferro, in un primo tempo di quelli
esistenti in aree prossime ai giacimenti carboniferi (Francia, Lussemburgo), in seguito soprattutto di quelli
svedesi, molto più ricchi di contenuto metallico. Tra gli altri minerali metallici vanno ricordati la bauxite (nei
paesi balcanici) e i minerali di mercurio (in Spagna); tra quelli non metallici, i sali potassici (in Germania). ƒ
La localizzazione delle industrie europee è stata a lungo condizionata dai giacimenti di carbone, una materia
prima pesante, il cui trasporto non è conveniente; e pertanto la prima lunga fase dell’industrializzazione si è
svolta essenzialmente nell’E. paleozoica, prendendo le mosse dall’Inghilterra ed espandendosi gradualmente al
di qua della Manica, in Francia, in Belgio, in Germania. In seguito l’uso dell’energia elettrica ha diffuso
l’industria altrove, per esempio nell’Italia settentrionale. Più tardi ancora, quando le fabbriche europee hanno
cominciato a trattare materie prime d’importazione, e soprattutto quando, a metà del 20 secolo, il carbone è
stato in gran parte sostituito dal petrolio, l’industria è arrivata un po’ dappertutto, privilegiando spesso le zone
costiere, dove nuove grandi agglomerazioni industriali si sono venute organizzando attorno ai più attivi porti.
Oggi la diffusione dell’industria investe pressoché tutti i paesi europei, ma è possibile individuare ancora il
vecchio asse carbonifero, dalla Gran Bretagna alla Polonia, intersecato da un altro grande asse più recente
orientato in senso N-S, che si estende dalla Scandinavia al Mediterraneo e che segue in parte le valli del Reno
e del Rodano (i due assi s’incrociano in Germania occidentale, nel bacino della Ruhr, la più tipica e più
consolidata tra le regioni industriali europee); altri assi, più o meno completi, si protendono in altre direzioni,
spesso lungo i litorali. ƒIn E. sono rappresentati tutti i rami dell’industria. La siderurgia è stata a lungo
considerata il motore propulsore dello sviluppo industriale e svolge tuttora un ruolo di primo piano; però negli
stati a economia più matura e di più antica industrializzazione tende a diminuire e a essere sostituita, mentre
negli altri continua a crescere: tre paesi occidentali (Germania, Italia, Francia) occupano tuttora i primi posti
nella classifica dei produttori europei di acciaio, ma subito dopo vengono due stati dell’E. orientale (Polonia e
Cecoslovacchia), mentre il Regno Unito ha ormai una produzione decisamente inferiore. Alla siderurgia si
accompagnano spesso altre industrie metallurgiche, nonché le industrie meccaniche: tra queste è venuta
emergendo nettamente quella degli autoveicoli che ha le sue massime concentrazioni in Germania e in Francia,
seguite da Italia, Regno Unito e Spagna. Le industrie tessili, favorite dalla lunga esperienza artigianale
precedente, si avvantaggiarono rapidamente dell’applicazione dei telai meccanici e della macchina a vapore e
diedero ben presto origine ai distretti industriali delle Isole Britanniche (Manchester, cotone; Leeds, lana;
Belfast, lino) e via via ad altri nell’Europa continentale (Fiandra francese e belga, Lionese, Sassonia, Polonia,
Svizzera, Italia settentrionale, Toscana). Tali industrie, che trattano fibre vegetali o animali, hanno conosciuto
negli ultimi decennî un periodo di crisi per la concorrenza delle fibre artificiali. Rapido sviluppo, specialmente
dopo la seconda guerra mondiale, hanno avuto le industrie chimiche e farmaceutiche e le industrie petrolifere
e petrolchimiche, organizzate come società multinazionali, sorte specialmente nei porti d’importazione del
petrolio greggio, da cui vengono rapidamente riesportati i loro prodotti. Sono infine da ricordare le industrie
alimentari, tra le quali spiccano quelle lattiero-casearie danesi, quelle olandesi dei grassi vegetali, quelle della
birra in molti paesi dell’E. centrale. ƒLo sviluppo delle grandi agglomerazioni industriali ha segnato una lunga
fase della storia europea, dalla fine del Settecento ai giorni nostri. Attualmente, come del resto anche in paesi
avanzati di altre parti del mondo, si è entrati in una fase diversa: l’industrializzazione ha ceduto il passo alla
terziarizzazione; la popolazione occupata nel settore industriale non cresce più, e in molti paesi tende a
diminuire, mentre aumenta quella occupata nelle attività di servizio; le industrie non dilagano più come in
passato, e non tendono più alla concentrazione, ma anzi, talvolta, al decentramento, sia a causa di saturazione
degli spazî, sia sotto la pressione di esigenze ecologiche sempre più urgenti e sempre più rappresentate.
Settore terziario. – La forte diminuzione della popolazione agricola e quella (più recente, ma in qualche paese
già sensibile) della popolazione addetta alle industrie ha fatto notevolmente aumentare gli occupati nel settore
terziario, come avviene in tutte le economie industriali mature. La crescita dell’occupazione terziaria, che è
andata di pari passo con l’urbanizzazione, è stata notevolmente diversa nelle varie parti d’E., minore nell’E.
orientale rispetto a quella occidentale e, nell’ambito dell’E. occidentale, più elevata negli stati centrosettentrionali, specialmente in quelli che si affacciano sul Mare del Nord. Alla fine degli anni Ottanta il
terziario assorbiva in media un po’ più del 50% degli occupati totali, con punte massime del 65% (Paesi Bassi).
Se gli addetti al terziario commerciale sono sempre stati numerosi per la tradizionale vivacità delle attività
mercantili europee, sono invece cresciuti enormemente in tempi recenti gli addetti alle varie attività di
servizio, dai trasporti al credito, al turismo, al terziario avanzato, ai servizî sociali, cresciuti in particolare nei
paesi a economia capitalista, ma anche – almeno per quanto riguarda i servizî sociali e, in parte, il turismo – in
quelli a economia pianificata.
Circolazione. – Le caratteristiche morfologiche dell’E. sono nel complesso favorevoli alle comunicazioni; più
nell’E. centro-settentrionale e meno in quella centro-meridionale, dove peraltro le catene montuose – in
particolare la più imponente, quella alpina – non sono mai state barriere insuperabili e tanto meno lo sono
oggi, grazie ai numerosi trafori stradali e ferroviarî che le attraversano. La rete ferroviaria si estende per
260.000 km (corrispondenti al 20% dello sviluppo totale delle ferrovie nel mondo), con notevole densità media
rispetto alla superficie (5 km ogni 100 km2). La densità risulta particolarmente alta in un’ampia area dell’E.
occidentale che comprende la Francia orientale, i paesi del Benelux, la Germania occidentale e che, sia pure
con una rarefazione in corrispondenza delle Alpi, si estende fino all’Italia centro-settentrionale. Le maglie
sono particolarmente fitte in corrispondenza del Belgio. Negli ultimi decennî il ruolo della ferrovia, che
permane comunque rilevante, è stato ridimensionato dall’eccezionale sviluppo del trasporto su gomma, che si
avvale di un’ottima rete stradale e in parte (soprattutto Germania occidentale e Italia) autostradale, anch’essa
assai più fitta nei paesi più industrializzati dell’E. occidentale, che si sviluppa per 5 milioni di chilometri e
sulla quale circolano poco meno di 190 milioni di autoveicoli. La rete ferroviaria e quella stradale sono
strettamente collegate tra loro e integrate, dove possibile, con le vie di comunicazione fluviali che,
praticamente inesistenti nelle regioni mediterranee e in Scandinavia, rappresentano nel resto d’E. le grandi
direttrici del traffico mercantile dai porti marittimi verso l’interno. Tra queste arterie fluviali emergono
nettamente quelle che fanno capo al Reno e agli altri grandi fiumi del Bassopiano Franco-germanico, nonché il
Danubio. L’intenso scambio di merci tra l’E. e le altre parti del globo ha accresciuto considerevolmente
l’importanza dei numerosi porti, tra i quali spiccano, per volume del movimento marittimo e commerciale,
quelli situati sulle coste della Manica e del Mare del Nord (Londra e, nell’E. continentale, i grandi scali che si
succedono da Le Havre ad Amburgo, tra cui Rotterdam, al primo posto nel mondo), favoriti dal trovarsi sugli
estuarî di fiumi largamente navigabili e dall’essere sbocco di vasti retroterra industriali. Meno brillante è la
situazione dei porti mediterranei, tra i quali solo Marsiglia può competere con i grandi scali citati. Sempre più
rilevante, per l’aumentata mobilità delle persone e soprattutto per la crescita del movimento turistico, è la
funzione dei trasporti aerei, che con numerosissime linee collegano gli stati europei tra loro e con il resto del
mondo; molti aeroporti europei (Londra, Parigi, Francoforte, Roma) sono centri di smistamento di linee
intercontinentali. Molto fitta è la rete di trasporti per conduttura (oleodotti, gasdotti). ƒL’elevato livello di
vita della maggior parte degli europei, l’accresciuta disponibilità di tempo libero tipica della società attuale, la
facilità e velocità degli spostamenti sono i presupposti di una domanda turistica incredibilmente sostenuta e
sempre crescente; domanda che per la massima parte viene soddisfatta nell’ambito dell’E. stessa, la quale conta
attrattive di prim’ordine, offerte sia dall’ambiente naturale (soprattutto i litorali mediterranei, tanto ambiti dai
turisti dell’E. centrale e settentrionale, ma anche le numerose stazioni montane e termali), sia dalla ricchezza
del patrimonio storico e artistico di molti paesi. Si creano così ingenti correnti turistiche tra i diversi stati
europei, nonché altre, assai minori ma non certo irrilevanti, che portano in E. turisti d’oltreoceano, in
particolare dagli Stati Uniti e dal Giappone. Secondo stime degli ultimi anni Ottanta, le correnti del turismo
internazionale in E. si concretano in oltre 3000 milioni di presenze all’anno, cui occorre aggiungere una cifra
elevatissima di persone che si spostano nell’ambito del proprio paese, cifra presumibilmente vicina ai 2
miliardi. Gli stati che accolgono il maggior numero di turisti sono l’Italia, la Spagna e la Francia, ma ne vanno
emergendo altri, tra cui qualche paese dell’E. orientale. Per alcuni di questi stati il turismo è una voce
fondamentale del reddito prodotto, più importante delle attività produttrici di beni materiali.
STORIA
Le origini. – Lo spazio che generalmente noi indichiamo come E., ossia lo spazio fra gli Urali e l’Atlantico,
cominciò ad essere abitato in epoca remota: più o meno da un milione di anni, secondo quanto gli studî
preistorici hanno potuto stabilire. Ciò rende rispettabile l’antichità della storia dell’evoluzione degli Ominidi
in E., ma la lascia ancora lontana da quella ben maggiore stabilita per alcune regioni dell’Africa e dell’Asia.
Significa, inoltre, che il primo popolamento europeo possa essere stato dovuto a immigrazioni dall’Africa e
dall’Asia, piuttosto che ad apparizioni locali di tipi umani primigenî, anche se l’evoluzione locale dei tipi
umani che vi si sono insediati e delle loro varietà e differenziazioni appare intensa. Poco si conosce della
struttura etnica e dei caratteri antropologici di queste popolazioni, per quanto numerose siano le tracce che
esse hanno lasciato della loro esistenza. Possiamo solo dire che tutte le fasi in cui gli studî preistorici
tradizionalmente distinguono il lunghissimo periodo della storia umana anteriore all’invenzione della scrittura,
sono attestate in Europa. Si può, inoltre, pensare che già in epoca remota sia emerso un carattere distintivo
anche in seguito della demografia europea, e cioè la maggiore consistenza della crescita dovuta alle popolazioni
locali rispetto a quella dovuta all’afflusso di nuovi venuti dall’esterno. È suggestivo ritenere che si tratti di un
carattere da connettere con l’estrema articolazione della geografia europea, ricca di aree chiuse, chiaramente
favorevoli al radicamento e al consolidamento etnico e culturale degli abitatori più antichi. Lo stesso carattere
può, inoltre, apparire alla base della vocazione storica dell’E., tanto grande inventrice di civiltà originali
quanto grande elaboratrice degli elementi di civiltà altrui via via ricevuti nel tempo, ma sempre in funzione
decisamente attiva, mai passivamente ripiegata su sé stessa o nella ripetizione di modelli e influenze esterne.
Infine, già la preistoria mostra in E. una straordinaria molteplicità di tipi umani e di culture. Protoantropi e
paleantropi, brachicefali e dolicocefali, «razze» alpine e «razze» mediterranee e altri più o meno diversi gruppi e
sottogruppi umani vi appaiono in tante articolazioni, variazioni, coesistenze e incroci da risolvere interamente
fin dall’inizio l’unità geografica nella molteplicità delle sue componenti civili. Per questo in E. più che in ogni
altra parte del mondo l’antropologia culturale, non l’antropologia fisica, costituisce la trama di fondo delle
vicende umane che vi si sono svolte. In altri termini, l’E. sembra annunciarsi fin dalla preistoria come uno
spazio storico, in cui l’iniziativa umana conta di più del condizionamento ambientale. Questa iniziativa è stata
così diffusa fin dai tempi preistorici da aver lasciato ben pochi luoghi del continente, di cui la presenza e
l’attività dell’uomo non abbiano alterato la fisionomia naturale. Già se si segue la distribuzione degli
insediamenti umani nelle varie fasi dell’età della Pietra, si può osservare che essi coprono, volta a volta, l’intera
superficie europea, anche se con intensità e continuità maggiori in alcune regioni rispetto ad altre. D’altra
parte, la stessa apparizione dell’Homo sapiens in E. coincide con una fase di grande trasformazione
dell’ambiente naturale. In effetti, l’evoluzione umana in E. si rivela oltremodo lenta nelle sue fasi iniziali. Se il
vero e proprio Homo sapiens sembra essere apparso in E. non prima di 100.000 anni fa, l’avvio ad uno sviluppo
più rapido avvenne solo intorno ai 75.000 anni fa. Tra 100.000 e 35.000 anni fa il paesaggio umano europeo
appare dominato dall’uomo di Neandertal, che fu probabilmente il tipo umano preistorico più originale
formatosi in Europa. Poi, mentre l’uomo di Neandertal va sparendo, appaiono diffondersi in tutto il
continente le forme più moderne di Homo sapiens sapiens. L’evoluzione dell’E. appare legata all’area
dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente, dove fu più rapida. È, forse, questa la prima manifestazione
cospicua di quella gravitazione mediterranea, che sarebbe rimasta poi a lungo caratteristica anch’essa della
storia europea. La diffusione del nuovo tipo umano divenne generale in E. a partire da 35 o 40.000 anni a. C. e
si può giudicare completa intorno al 10.000 a. C. L’E. di allora aveva in parte una fisionomia ambientale non
diversa da quella della Siberia in età storica, con una fauna ricca, in seguito largamente scomparsa, essenziale
ai fini delle risorse alimentari e dell’approvvigionamento di materie prime (pelli, ossa, ecc.) per l’uomo; e la
più antica civiltà della Pietra (Paleolitico) toccò le sue massime espressioni. Successivamente all’estinzione
dell’uomo di Neandertal, si affermarono tecniche più raffinate di lavorazione della pietra, ed aumentò l’uso di
altre materie prime (osso, corno, legno) e di altri utensili per la caccia, per la raccolta e la conservazione del
cibo, per la confezione di indumenti, per l’allestimento di rifugi. Non a caso fra 30.000 e 25.000 anni fa si
hanno le prime testimonianze di arte figurativa, che toccano nelle grotte di Lascaux e di Altamira i loro vertici.
Si possono cominciare a distinguere meglio alcune grandi aree culturali: atlantica e centroccidentale (in cui
fiorisce la cultura maddaleniana), mediterranea (culture gravettiane e romanelliane), orientale (culture
pavloviane), tedesco-settentrionale (cultura amburghiana). Verso la fine del 9 millennio (8300 - 8000 a. C.), si
afferma un profondo mutamento. L’E., superata l’ultima età glaciale, si avvia gradualmente ad assimilare le
forme che, sia pure con forti variazioni, la hanno contraddistinta anche in seguito. Clima, vegetazione,
idrografia e fauna cominciano ad essere quelle dell’E. storica. L’economia di caccia e l’attrezzatura materiale
delle popolazioni paleolitiche si dovettero adattare alle necessità imposte dal nuovo ambiente; si svilupparono
così la pesca e la raccolta di molluschi e di vegetali. Questa fase (Mesolitico) fu a sua volta superata da quella
più recente (Neolitico) quando, nel corso del 7 millennio a. C., insieme a ulteriori progressi nell’uso e nella
lavorazione della pietra, si affermò il passaggio all’agricoltura e al connesso allevamento di bestiame. Le
conseguenze economiche, sociali e culturali furono rivoluzionarie. La Grecia orientale ne offre le prime
testimonianze, e ciò accredita l’ipotesi di un’importazione dal Vicino Oriente, dove l’agricoltura era già
apparsa uno o due millennî prima: simile è da ritenere l’itinerario di diffusione della metallurgia, prima con il
rame, poi con il bronzo. Affiorava così un dato storico di lunghissima durata. Nelle fasi più mature del
Paleolitico, dopo aver verosimilmente importato dal Mediterraneo e dal Vicino Oriente contributi
fondamentali, l’E. aveva mostrato grande capacità di innovazioni autonome. L’arte delle grotte ne è una
grande prova, così come lo è la produzione di vasellame, utensili e oggetti di notevole fattura. Con l’avvento
della rivoluzione neolitica e con il passaggio all’agricoltura, il Vicino Oriente si afferma come uno spazio di
grandissima innovazione; l’E. appare al confronto come un’area arretrata e dipendente. Il moto del progresso
civile e culturale procederà per alcuni millennî da est a ovest, e anche in dipendenza di ciò la periferia
mediterranea del continente sarà la sua zona di più intensi scambî e maggiori sviluppi culturali. Dalla Grecia,
attraverso il Mediterraneo e, via terra, dai Balcani lungo il corso del Danubio, tecniche ed economie neolitiche
si diffusero sempre più largamente in tutta l’area europea a ovest della linea tra la foce del Danubio e quella
della Vistola. Tre grandi aree ceramiche si configurano tra il 6 e il 5 millennio a. C.: quella balcanica di una
ceramica a motivi geometrici e floreali, quella centro-europea della ceramica a decorazione lineare e quella
mediterranea a ceramica impressa. Solo nel 4 millennio il Neolitico si estese in misura consistente all’E.
occidentale, dove si sviluppò contemporaneamente la civiltà megalitica. Pietre di grandissima dimensione e
non rifinite, i megaliti, disposti in maniera assai varia, sembrano prodotti dello sforzo di una organizzazione
sociale evoluta, probabilmente a base religiosa. A Stonehenge, in Inghilterra, se ne ha il documento più
impressionante, databile intorno al 2000 a. C. Alla loro diffusione fin sul Baltico e, nel Mediterraneo, fino alla
Corsica e alla Sardegna si accompagnò una nuova geografia storica. Nel 3 millennio a. C. si scorgono due
grandi zone: quella orientale, estesa alla fascia dei bassopiani germanico e sarmatico, distinta dalla cosiddetta
ceramica cordonata, e quella occidentale, dall’Italia tirrenica all’Inghilterra, distinta dalla cosiddetta cultura
del vaso (o bicchiere) campaniforme, che si diffonde largamente a partire dalla penisola iberica e penetra
profondamente nella zona orientale. Alle popolazioni della prima zona sembrano potersi attribuire tratti più
marcatamente agricoli e guerrieri (compare presso di esse l’ascia da combattimento); a quelle della seconda
tratti in prevalenza manifatturieri (sembra notevole la loro attività metallurgica) e mercantili: divisione
anch’essa precorritrice di futuri sviluppi europei. La larga, benché non totale, coincidenza fra l’area megalitica
e quella della ceramica campaniforme conferma probabilmente un altro dato storico interessante: l’apertura
mediterranea della zona europea più dinamica. All’inizio del 2 millennio a. C. i monumenti megalitici si
diradano fino a cessare del tutto. Gli eventi decisivi per il futuro dell’E. che allora maturarono ebbero il loro
epicentro nella parte meridionale del bassopiano sarmatico. Qui, a cavaliere del margine meridionale dell’area
della ceramica cordonata, si era già avuta nel 4 e nel 3 millennio a. C. una serie di movimenti e di incroci di
popoli e culture, in cui possiamo ravvisare le prime manifestazioni dei popoli di lingua indoeuropea. Con la
loro diffusione probabilmente è connessa la penetrazione delle culture dell’ascia da combattimento fino al
Reno. Il cavallo, l’uso di carri con ruote, un particolare tipo di sepoltura (tombe a fossa) contraddistinguono
questi popoli. Dalla seconda metà del 3 millennio a. C. si può parlare di una loro progressiva diffusione e
differenziazione in tutto il continente, che si protrarrà poi a lungo nel tempo. Si trattò di un processo di
diffusione etnica o di semplice propagazione linguistica e culturale? La tendenza degli studî è andata
preferendo la seconda soluzione alla prima, ipotizzando una indoeuropeizzazione delle precedenti popolazioni
continentali sulla base di contatti e scambî culturali o di acculturazioni di popoli sottomessi da parte di piccoli
gruppi di dominatori. Il peso del fattore etnico non appare, tuttavia, eccessivamente riducibile. Un tratto
comune della precedente preistoria europea è la grande frequenza territoriale degli insediamenti appartenenti
alle diverse culture susseguitesi nel tempo. Ciò postula un’estrema piccolezza delle comunità in questione e
una limitata consistenza demografica della colonizzazione del territorio. Ben diversa appare la presa sul
territorio delle popolazioni di epoca posteriore e di lingua indoeuropea: effetto in parte, certamente, di
progressi tecnici e culturali, ma tale da postulare anche un nuovo e cospicuo apporto demografico. È stata,
inoltre, osservata la forte somiglianza di fisionomie umane che si riscontra spesso tra tipi dell’E. e dell’India,
ossia dell’altra grande area di diffusione indoeuropea, per la quale si pongono eguali problemi di ricostruzione
e interpretazione storica. Infine, anche gli studî sui gruppi sanguigni fanno pensare al popolamento storico
dell’E. per ondate migratorie provenienti da est e da sud-est, a cui hanno resistito avanzi delle popolazioni
precedenti viventi in aree isolate o di più difficile accesso: schema non molto diverso da quello accennato per il
popolamento preistorico più antico, ma che in epoca meno antica non può non far pensare alla diffusione
indoeuropea.
L’età antica. – Fra la metà del 3 e la metà del 1 millennio a. C. la diffusione indoeuropea si concreta in tre
grandi episodî: uno continentale (Celti) e due mediterranei (Elleni e Italici). Questi ultimi si svilupparono
nell’urto con culture già evolute e raffinate. Nell’area dell’Egeo per circa un millennio (2350-1400 a. C.) era
fiorita a Creta una civiltà a cui si deve l’importazione di elementi fondamentali dei progressi realizzati nel
Vicino Oriente (metallurgia del rame, commerci, scrittura), e in particolare della forma cittadina
dell’insediamento umano. Verso il 1400 a. C. popoli indoeuropei, dotati di armi di bronzo, diedero il colpo
finale alla «civiltà dei palazzi» di Creta, già squassata da numerosi terremoti, ma ne assimilarono gli elementi, a
partire dall’urbanizzazione, e diedero luogo a quella civiltà micenea (il nome deriva dalla città di Micene, che
ne fu uno dei massimi centri) che si può considerare la prima fase della storia greca. Successivamente (intorno
al 1000 a. C.) una seconda ondata di popoli indoeuropei, dotati di armi di ferro, invasero il mondo miceneo.
Da un lungo periodo di oscuro travaglio (il «medioevo greco») viene fuori già nell’8 sec. a. C. il mondo
ellenico nella sua fisionomia classica. In Italia gli indoeuropei arrivano, tra la prima metà del 2 millennio a.C.
e gli inizî del 1 millennio, in tre grandi ondate (gruppi latino, umbro-sabellico, adriatico), sovrapponendosi
alle popolazioni preesistenti. Tra queste ultime particolare rilievo hanno nella prima metà del 1 millennio gli
Etruschi. I Celti si trovarono, invece, ad espandersi nella vasta area dell’E. Centrale, occupata negli ultimi
secoli del 2 millennio a. C. dalla cultura dei «campi di urne». Così designata da una nuova forma di sepoltura,
questa cultura è caratterizzata da un forte progresso della metallurgia del bronzo, per cui l’E. sembra acquisire
un primato tecnico anche rispetto alle più avanzate civiltà medio-orientali. Non è chiaro in quale misura la
nuova cultura assorba quelle precedenti della ceramica cordonata e del vaso campaniforme o nasca da esse. È
chiaro, però, che in questa zona è da vedere il nucleo di diffusione iniziale di alcuni importanti gruppi
indoeuropei, fra i quali gli stessi Celti, che tra l’8 e il 5 sec. a. C. appaiono già protagonisti della cosiddetta
cultura di Hallstatt, espressione della prima età del Ferro. Anche il ferro era stato introdotto in E. dal Vicino
Oriente, dove sembra che gli Ittiti lo usassero già nel 15 sec. a. C. Mezzo millennio dopo esso era in uso in
Grecia, di dove, attraverso i Balcani e la colonizzazione greca in Italia, si diffuse a ovest e a nord. Sono
percorsi che interessano un sistema di traffici a grande distanza ormai adulto, che lega fra loro le varie aree
europee con rotte via via più consolidate e lungo le quali non penetra in E. solo la civiltà del Ferro, ma si
diffonde anche la scrittura alfabetica: altra invenzione importata dal Vicino Oriente, con l’alfabeto fenicio, a
cui ben presto si affiancò quello greco e da cui derivarono quello etrusco e quello latino. La vicenda degli
Elleni, degli Italici e dei Celti occupò l’intero 1 millennio a. C. e confluì nella formazione della civiltà ellenica
e dell’impero di Roma. Ne derivò al mondo mediterraneo e alla storia generale dell’umanità un contributo
fondamentale, che, per quanto riguarda l’E., costituì la base del suo posteriore sviluppo civile. Letteratura e
arte, filosofia e scienze, diritto e politica, tecniche attinenti a molti settori della vita civile (a cominciare da
strade, ponti ed edilizia), credenze e comportamenti profondamente stratificati e attivi benché latenti hanno,
infatti, trasmesso da quel mondo all’E. moderna un patrimonio, che certo non contiene tutta la posteriore
storia europea, ma senza il quale questa storia sarebbe inintelleggibile. In questo senso l’E. moderna è figlia
della civiltà ellenico-romana, alla quale risale anche una ricorrente formulazione di idee e intuizioni che in
qualche modo prefigurano la coscienza europea della propria specificità. Gli Achei in guerra con Troia per una
questione di onore, gli Elleni che oppongono la propria libertà al dispotismo asiatico dell’impero persiano,
Alessandro Magno che guida le forze riunite della grecità alla conquista dell’impero persiano da cui a sua volta
era stato unificato l’Oriente, Roma che combatte contro la immanitas e la fides punica, Augusto che guida le
armi dell’Occidente contro la minaccia orientale della regina d’Egitto sono momenti tipici di questa
autopercezione. In generale, l’E. significa libertà civile, dignità dell’uomo, luce della ragione, religiosità a
misura dell’uomo; l’Oriente rappresenta il suddito che si prosterna dinanzi al sovrano-dio, misticismo,
oscurità delle forze che si agitano nel profondo dell’esperienza umana, perfidia dell’astuzia. Non era un
bilancio generoso del rispettivo ruolo storico. Dal deprecato Oriente gli stessi Elleni avevano dedotto elementi
e premesse decisivi del loro sviluppo civile. Come non è immaginabile la storia europea posteriore senza quella
della civiltà mediterranea della Grecia e di Roma antica, così non è immaginabile la storia di questa civiltà
senza i suoi debiti e i suoi intrecci con le civiltà del Vicino Oriente: da Sumer e Babilonia all’Egitto dei
Faraoni, dagli Assiri ai Persiani, dagli Ittiti ai Fenici, per non parlare del ruolo tutto particolare degli Ebrei e
dell’ebraismo. Il «miracolo» attribuito agli Elleni di aver inventato dal nulla le arti e la civiltà è un mito antico e
moderno, la cui sostanza storica è che presso gli Elleni derivazioni orientali e proprie spinte creative si
composero all’insegna della fondazione geniale di un nuovo mondo di esperienze e di valori. Allo stesso modo
sarebbe incongruo leggere la civiltà ellenico-romana come un tutto indifferenziato. Anche all’interno di essa si
agitarono tensioni e contrapposizioni di esperienze e di valori: da Antigone, che rivendica l’inderogabilità della
legge umana e morale anche rispetto alle leggi del legittimo ordine civile, ai tirannicidi, che oppongono le
ragioni del regime di libertà a quelle del regime tirannico; dai sofisti, che sostengono il diritto della critica e
dell’individualità, a Socrate, che subordina questo diritto al dovere etico-politico, in una serie innumerevole di
contrapposizioni sofferte e creative. E anche questa pluralità di atteggiamenti e di idee avrebbe fatto parte
della coscienza europea moderna e la avrebbe caratterizzata in modo determinante.
Il nucleo civile dell’esperienza ellenica e romana fu la città che, anch’essa anticipata nella vicenda dell’Oriente
antico, ebbe in Grecia e nell’Impero Romano una espressione da potersi definire, in ogni senso, veramente
«classica». Proprio Roma nella sua fase imperiale dalla fine del 1 sec. a. C. ne segnò, tuttavia, il superamento,
dando luogo a uno stato «universale», destinato egualmente a rimanere nell’eredità civile europea come un
ideale superiore di ordine etico-politico. Si raffigura spesso la storia dell’impero come una omologazione del
mondo politico cittadino ellenico e romano ai valori e alla prassi della civiltà politica dell’Oriente, col passaggio
dal principatus del sovrano al suo dominatus, dal principe-magistrato al principe-padrone. In realtà, non è così.
Già la conquista dell’impero persiano da parte di Alessandro Magno fra il 333 e il 323 a. C. non aveva
corrisposto a un tale schema. Ancora meno vi corrispose la vicenda dell’impero romano da Cesare e Augusto a
Diocleziano e a Giustiniano. È vero, invece, che le vicende delle città elleniche e di Roma avevano fornito il
modello di una gamma amplissima di esperienze istituzionali e sociali, tanto da fornire quasi un sintetico
manuale di scienza politica e di scienza storica, e come tali sarebbero state considerate dal pensiero europeo
moderno. Ed è vero pure che la storia romano-imperiale fornisce un analogo manuale che completa e sviluppa,
per così dire, quello delle vicende cittadine, e anch’esso sarebbe stato considerato allo stesso modo.
L’età medievale. – L’Impero Romano crollò sotto il suo stesso peso: non vi è, forse, formula storiografica che
possa riassumere meglio l’intreccio estremamente complesso dei motivi della sua storia fra il 1 e il 6 sec. d.
C. Nel frattempo si era affermato in esso il cristianesimo, la maggiore rivoluzione religiosa e morale, culturale
e civile dell’esperienza mediterranea ed europea; i popoli germanici ne avevano conquistato la parte
occidentale, stabilendovi una serie di regni, nei quali sono da leggere i primi incunaboli degli stati e dei popoli
dell’E. moderna; l’impero si era ristretto alla sua parte orientale, trovando in Costantinopoli il suo nuovo
centro, la nuova Roma. La cristianizzazione dell’impero e dei popoli germanici diede vita ad uno dei massimi
problemi della storia successiva: quello del rapporto fra Stato e Chiesa, come rapporto fra valori e idee diversi,
non solo fra istituzioni e poteri. La soluzione prevalsa a Costantinopoli (la Chiesa inquadrata nello Stato) fu
diversa da quella prevalsa nell’E. romano-germanica con la Chiesa cattolica: una Chiesa libera, custode
dell’autonomia morale e civile; ma anche una Chiesa fattore di civiltà, organizzatrice di energie e di bisogni,
costruttrice di grandi solidarietà e promotrice di grandi rinnovamenti. Fu questa la Chiesa in cui, specialmente
dopo la conclusione dell’ultimo sforzo di riunificazione imperiale del mondo mediterraneo con Giustiniano
(527-565), l’E. romana e germanica trovò il suo punto di riferimento nel crollo anche materiale della civiltà
antica. In quei secoli declino demografico, profonda involuzione economica, eclissi delle città, rovina di tutte
le infrastrutture civili (strade, edifici, servizî), estrema attenuazione dei traffici e rarefazione della moneta,
dispersione del patrimonio culturale con la distruzione della maggior parte della letteratura e dell’arte antica,
abbassamento generale del grado di istruzione e di cultura, diedero il senso di un invecchiamento e di un
imbarbarimento del mondo. Specialmente nel 7 sec. questo processo divenne generale e profondo. A renderlo
più impressionante e acuto concorse l’affacciarsi nel mondo mediterraneo di un nuovo elemento storico,
l’Islam, che si distese rapidamente dalla Siria alla Spagna, conquistando la Sicilia, minacciando per
lunghissimo tempo l’E. cattolica non meno che il superstite impero romano di Costantinopoli, limitandone i
rapporti reciproci. Costantinopoli reagì, tuttavia, con energia e riuscì a configurare nei Balcani e in Anatolia
uno spazio di civiltà che, oltre a svolgere un grande ruolo nella cristiniazzazione e nell’incivilimento dei popoli
slavi diventati l’elemento etnico caratterizzante dell’E. Orientale e balcanica, contestò a lungo con successo
l’affermazione dell’Islam nel Mediterraneo, tornò ad essere presente in alcune regioni dell’Italia meridionale,
conobbe ripetute stagioni di fioritura culturale. Non era più, in effetti, un impero «romano», anche se
continuava a definirsi così: il nome storiografico di «bizantino» (dal nome precedente di Costantinopoli,
Bisanzio) ne dice meglio l’originalità. Islam e Bisanzio formarono, comunque, le punte avanzate del mondo
medievale, del mondo cioè che funse da ponte tra l’antica civiltà mediterranea e l’E. moderna. Lo spazio
europeo rimase a lungo, al confronto, uno spazio arretrato, sottosviluppato, dipendente. Riorganizzarvi la vita
civile fu impresa lunga e difficile. La Chiesa ne fu certamente, come si è detto, un punto essenziale di
riferimento: a Roma, dove con papa Gregorio I (590-604) si consolidò il primato pontificio e si determinò la
sua vocazione-missione cattolica; ovunque coi suoi vescovi, che coagularono e preservarono quel che restava
del mondo cittadino; coi suoi monaci, ai quali Benedetto da Norcia (480-547) diede una regola nuova di vita
religiosa e di presenza e attività sociale. Si rivelarono, invece, caduchi gli stati romano-germanici sorti fra il 5
e il 6 secolo, tranne quello dei Franchi, nel cui ambito si cominciò ad affermare una tendenza alla
riorganizzazione della vita civile fondata sulla delega di poteri e funzioni pubbliche, nonché immunità
territoriali e privilegi ai capi periferici di gruppi etnici e sociali in cambio del servizio da prestare al re in
guerra e in pace: prima delineazione di quello che sarebbe stato il sistema feudale, con la sua sostituzione di
vincoli e obblighi personali alla dipendenza istituzionale generale dall’autorità sovrana. I Franchi furono anche
i primi Germani a convertirsi, con Clodoveo (466-511), al cattolicesimo, e i rapporti dei loro sovrani con Roma
costituirono via via un ulteriore elemento di riferimento e di caratterizzazione della tradizione europea ora
nascente. I successori di Clodoveo (i re merovingi e «fannulloni») furono via via sostituiti nel potere dai loro
«maggiordomi», che con Pipino di Heristal (m. 714), con Carlo Martello (m. 741) e con Pipino il Breve (m.
768) alla fine ne usurparono il trono. L’opera della nuova dinastia fu grandiosa. Carlo Martello fermò a
Poitiers nel 732 i Musulmani, che avevano passato i Pirenei, la struttura prefeudale del potere fu consolidata, il
regno franco occupò l’intero spazio dell’antica Gallia romana dal Mediterraneo al Reno. E a questi sovrani si
rivolsero i papi di Roma per esserne protetti contro i Longobardi, la cui invasione in Italia nel 568 aveva
prodotto, con la divisione politica del paese tra Nord e Sud, un costante motivo di frizione con la Chiesa, che
andava contemporaneamente imponendo una sua sovranità temporale sulle terre che avrebbero formato lo
Stato pontificio. Il figlio di Pipino il Breve, Carlo (768-814), sviluppò appieno i motivi del successo franco.
Chiamato anch’egli da Roma, sottomise il regno longobardo e ne cinse la corona (774); egualmente fece con
l’altro popolo germanico dei Bavari (788); con una serie di campagne protrattesi per un trentennio (dal 772
all’804), sottomise i Sassoni, stanziati fra il Reno e l’Elba; allontanò la minaccia del popolo mongolico degli
Avari nella valle del Danubio con un’altra serie di campagne dal 791 all’805; varcò i Pirenei e, nonostante un
grave rovescio subito a Roncisvalle (778), assunse il controllo della Catalogna e della Navarra. A quel punto il
suo dominio si estendeva dall’Ebro all’Elba, dal Mare del Nord all’Adriatico, dal Danubio al Tevere. Non era
ingiustificato che si pensasse a un riconoscimento anche istituzionale di una tale potenza che, tranne i regni
anglo-sassoni in Inghilterra e i principati longobardi superstiti nell’Italia del Sud, comprendeva ormai l’intera
E. romano-germanica. Lo si ebbe nella notte di Natale dell’800, quando il papa Leone III incoronò Carlo in
Roma come imperatore romano. Fu iniziativa della corte franca, presso la quale si era formato un notevole
gruppo di intellettuali, o della Chiesa di Roma, che intendeva così recidere ogni residuo legame con
Costantinopoli e procurarsi un protettore e difensore, che però ne fosse anche il braccio temporale?. La
questione ha minore importanza dell’effetto, che fu di dar vita a una realtà politica intorno alla quale avrebbe
gravitato la storia europea e dalla quale si sarebbe venuta svolgendo la successiva espansione di quello che si
può riconoscere come momento di definitiva individuazione dell’E. quale si è poi storicamente affermata.
Particolarmente da sottolineare è la conquista del territorio germanico oltre il Reno, al quale, come al
Danubio, Roma si era fermata. Con Germani e Slavi il quadro dell’E. moderna era completato. Ma
l’europeizzazione (per così dire) degli Slavi, sui quali l’influenza maggiore sarebbe stata quella di Bisanzio e
della Chiesa ortodossa, avrebbe avuto tempi e modi assai differenti. Carlo (che per tante imprese fu chiamato
Carlomagno) condusse una sagace politica di governo del suo impero, di cui nell’812 impose il riconoscimento
a Costantinopoli. Il sistema feudale si precisò con la divisione del territorio in contee e marche periodicamente
ispezionate da missi dominici, con una legislazione imperiale formulata in numerosi «capitolari», con assemblee
annuali dei dignitarî e dei signori oltre che dell’alto clero. Si ebbe anche una certa rifioritura economica e, per
qualche tempo, una vivacità culturale che ha fatto parlare di «rinascimento carolino». Naturalmente, avevano
grande rilievo i rapporti con la Chiesa. Nella tradizione europea la prassi carolina fu assunta a modello di un
accordo e di una convergenza che, nella misura in cui vi furono, vanno riconosciuti come effetto più delle
circostanze che di un programma definito. La grande costruzione di Carlomagno non si rivelò, tuttavia,
duratura. Gli elementi interni ed esterni di crisi da lui affrontati continuarono ad operare. Se ne aggiunsero,
anzi, di nuovi, fra cui, all’interno, l’espansione generalizzata del sistema feudale e un sistema di successione al
trono per cui lo stato, considerato patrimonio della famiglia reale, poteva venire diviso fra più eredi del
sovrano defunto. Ciò portò nell’843 ad una tripartizione tra un regno dei Franchi occidentali (che sarebbe
stato la diretta matrice della Francia moderna), un regno dei Franchi orientali (che avrebbe segnato l’ambito
iniziale del mondo germanico moderno) e una Lotaringia (o regno di Lotario, che oltre a comprendere l’Italia
dalle Alpi al Tevere, anticipava la tendenza ad una realtà intermedia e autonoma fra Francia e Germania e
lasciò, comunque, il suo nome alla Lorena). Nell’887, deposto l’ultimo diretto discendente di Carlomagno, la
divisione si accentuò. Francia, Italia e Germania seguiranno ormai percorsi paralleli. Ma Italia e Germania
verranno di nuovo unite sotto la corona imperiale ad opera di Ottone I dopo la metà del secolo X, formando
quello che nella storia europea sarebbe rimasto ancora per molti secoli il Sacro Romano Impero (benché
questo termine non appaia prima della metà del 13 sec.). Nello stesso tempo Vichinghi e Normanni, Slavi,
Ungari, Saraceni, Bizantini avrebbero premuto ulteriormente sulle terre che Carlomagno aveva riunito sotto il
suo scettro e su quelle vicine. Si è potuto parlare, quindi, per il 10 sec. di una «E. assediata». Non c’è dubbio
che il nome E. avesse preso intanto a circolare con un significato nuovo. Tra il sec. 8 e il 10 si parla non solo
di E., bensì anche di europeenses, europei. Ma il sentimento di un’unità morale e civile delle genti europee è
ancora lontano da una vera maturità. Per ora ciò che più lo sorregge o ne fa le veci è il legame con la Chiesa di
Roma. Esso non è espresso del tutto ed esclusivamente né dall’Impero di Carlomagno, né da quello italogermanico di Ottone I, mentre certamente contribuiscono a definirlo ancor di più le rotture della Chiesa
romana con Costantinopoli, prima (nel sec. 7 ) per la questione del culto delle immagini, poi (nel sec. 11 ) con
la separazione fra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Lo spessore di questi sviluppi è, anzi, tale che essi non
soffrono molto né dell’eclisse imperiale dopo l’887, né della crisi che porta il papato a ridursi nel sec. 10 a
oggetto di violente lotte tra le famiglie più potenti di Roma, né del dilagante particolarismo (essenzialmente
feudale) che contemporaneamente disarticola, dopo l’Impero, anche le formazioni politiche sorte sul suo
tronco e quelle dei territorî contermini. L’«età di ferro» tra la fine del sec. 9 e gli inizî del sec. 11 ,
caratterizzata da questi elementi di lacerazione e di precarietà, si chiude dopo il Mille con una «nascita dell’E.»
più duratura e con un’E. via via più consapevole e più sicura di sé. La Chiesa si riprese con una grande azione
di riforma, che la portò non solo a connotarsi come organismo spirituale autonomo da ogni condizionamento
profano, ma anche a porsi come potere universale nella vita politica e civile dei paesi cattolici. La «lotta delle
investiture» fu la sanzione di questo duplice processo. Da Gregorio VII a Innocenzo III e a Bonifacio VIII
prende forma una gerarchia ecclesiastica che fa capo a Roma, una monarchia pontificia sulla Chiesa, che è
l’emblema di una reductio ad unum perseguita parimente nei rapporti fra potere spirituale e potere temporale
sia dentro che fuori dei confini dell’Impero, con il quale soprattutto e innanzitutto il confronto tra i due poteri
viene condotto. Non è una iniziativa puramente curiale e teocratica. La Chiesa rivela in questi secoli
fervidissimi una straordinaria forza e capacità nel riflettere, organizzare, assorbire, modellare, modificare le
istanze che con uno slancio inesauribile provengono dal seno stesso della società europea. Essa combatte gli
imperatori germanici da Enrico IV a Federico II, che ne contestano il primato e la rivendicazione di
superiorità dello spirituale sul temporale, e, insieme, i movimenti religiosi che si allontanano dal modulo
romano o si contrappongono a esso in un’ansia ricorrente di perfezione morale e di ascesa spirituale; sostiene la
lotta delle forze autonomistiche e delle popolazioni contro i sovrani con i quali essa è in rotta e l’azione dei
sovrani che la riconoscono e nei quali essa si riconosce per affermare il proprio potere; è promotrice delle
crociate con cui l’Occidente rompe l’assedio dell’E. e marcia contro gli infedeli oltre i confini della «piccola E.»
di Carlomagno nel Mediterraneo, in Spagna, nel Vicino Oriente, ad est e a nord; come pure si serve delle
crociate per combattere dissidenti, avversarî politici, poteri temporali, popoli da sottomettere e paesi da
conquistare nell’ambito stesso della cristianità; è protagonista di una grandiosa stagione artistica e intellettuale;
fa rinascere con la Scolastica la grande filosofia, che copre l’E. di una «candida veste di chiese» e di
innumerevoli opere d’arte religiose e civili, nel linguaggio prima del romanico e poi del gotico, di eguale
dimensione europea; tiene a battesimo la nascita delle letterature europee e la rinascita, col diritto canonico, di
un grande pensiero giuridico; è riconosciuta come autorità morale e culturale nelle università, la nuova
istituzione in cui si prepareranno il pensiero e la scienza dell’E. moderna; contrasta, da un lato, con
l’inquisizione ciò che viene da essa dichiarato al di fuori della sua norma, dall’altro stimola potentemente la
vita economica con l’amministrazione e la valorizzazione delle sue proprietà e con i movimenti finanziarî
richiesti dalla sua nuova struttura e dal suo ruolo; entra con i nuovi ordini religiosi del sec. 13 , soprattutto con
i francescani e i domenicani, nelle città nascenti o rinascenti, numerosissime nell’E. che cresce moralmente e
materialmente; impone e depone sovrani e legittima titoli e poteri; riafferma l’inviolabilità delle coscienze e
dello spirito rispetto a ogni pressione o violenza di forza o di potere, pur pretendendo per sé un magistero
senza dialettica e senza alternativa. L’altra grande istituzione dell’E. cattolica, l’Impero, non sembra
presentare un bilancio corrispondente. A parte la sua riduzione all’ambito italo-germanico, esso appare
continuamente eroso dall’insorgere di forze autonomistiche, particolaristiche, locali, che si affermano come
nuovi centri di vita politica e sociale. Questo fermento contraddistingue, anzi, la vicenda del potere imperiale
ben più che quella non meno travagliata delle monarchie feudali europee dentro e fuori dei suoi confini, così
come assai più forte e radicale è nei suoi confronti la contestazione che Roma muove al potere temporale. Per
fronteggiare una dinamica così complessa e dirompente gli imperatori si appoggiano allo stesso clero, oltre che
a una parte dei loro vassalli contro quelli che sul momento appaiono i più renitenti. La sacralità della loro
figura nella tradizione carolingia non impedisce che essi finiscano con l’apparire i capi di un partito più che dei
sovrani. Nel sec. 13 nella contrapposizione tra guelfi e ghibellini ciò venne ad estrinsecarsi in una molteplice
ostilità: dei fautori della Chiesa contro quelli dell’Impero, dei sostenitori dei diritti particolari e delle
autonomie contro quelli dell’autorità imperiale, dei seguaci delle famiglie più legate volta per volta ad una
delle due cause contro quelli delle famiglie rivali. Ma guelfismo e ghibellinismo, e in Italia assai prima e più
che in Germania, si risolsero largamente in etichette sotto le quali erano fatti passare gli interessi immediati e
specifici delle forze in campo, senza giovare neppur essi alla costituzione di forti centri politici egemonici, se
non unitarî. Meno che mai gli imperatori riuscirono a stabilire un principio dinastico ereditario se non per
breve tempo. Sassonia nel sec. 10 , Franconia nei secc. 11 e 12 , Hohenstaufen nei secoli 12 e 13 fallirono
egualmente nell’impresa, in questo contrastati sempre più spesso dal papato. Decisivo fu lo scontro tra Roma e
Federico II (1214-50). Alla fine, dopo un interregno (1254-73) e un lungo periodo di nuove oscillazioni e lotte
dinastiche, la successione si sarebbe consolidata dal 1437 nella casa d’Asburgo. Ma l’Impero era ormai solo
una confederazione dai vincoli molto deboli, presieduta da un sovrano per il quale non meno che per tutti gli
altri gli interessi dinastici venivano prima di quelli della istituzione. Con tutto ciò, l’esperienza imperiale non
può essere considerata unicamente nei suoi aspetti caduchi o alla stregua del fatto che la Chiesa manifestò una
ben diversa capacità di durata e di proiezione storica. L’Impero rappresentò una istanza alta del pensiero e del
sentimento dell’E. che, enucleatasi rispetto all’Oriente, usciva dall’«assedio» e si disponeva alla sua grande
fioritura medievale e moderna. Rispetto alla Chiesa esso prefigurò in qualche modo, e sia pure
retrospettivamente assai più che nell’attualità, l’idea dello stato laico e dell’autonomia dei valori civili e politici
rispetto a quelli religiosi. Fu, inoltre, in rapporto a esso che si definì la personalità storica un po’ di tutti i paesi
europei, anche al di là dell’ambito italo-germanico. Il principio che i re nei loro regni (e ogni potere sovrano)
non potessero riconoscere un’istanza sovrana superiore era, anzi, un complemento e uno sviluppo delle
rivendicazioni imperiali e laiche di autonomia rispetto alla Chiesa. Il concetto moderno di sovranità avrebbe
trovato qui le sue scaturigini, rafforzate da una ripresa dei principî del diritto romano, a cui proprio l’Impero
diede impulso, specie sotto alcuni sovrani e in determinati momenti. Infine, e più specificamente, Italia e
Germania trovarono nell’Impero la matrice della loro specifica, rispettiva fisionomia storica, contrassegnata da
un pluralismo statale e politico che avrebbe ricevuto una risoluzione unitaria solo dopo molti secoli.
Rispetto sia alla Chiesa che all’Impero gli stati a base etnica o regionale, i principati ecclesiastici e feudali, le
monarchie di più o meno antica ascendenza, le città che riuscirono ad affermare una loro corposa autonomia o
addirittura indipendenza, le formazioni politiche più o meno durature a cui diedero vita combinazioni
dinastiche o vicende politiche e militari, le leghe o confederazioni di città o di signori, i poteri che si
affermarono tradizionalmente in ambiti più o meno larghi e notevoli furono, in effetti, in E. le realtà del
futuro. La varietà delle forme non deve far perdere di vista la linearità di alcuni tipi fondamentali. In Francia,
in Inghilterra, nella Penisola Iberica, nei principati tedeschi all’interno dell’Impero, la monarchia feudale
venne evolvendo verso un progressivo ristabilimento della centralità del potere regio. Lo stesso modello
feudale seguirono sostanzialmente, ma tra molte variazioni, le monarchie nuove che si affermarono in Polonia,
in Russia, nello spazio danubiano, nel Mezzogiorno d’Italia, nelle terre di Danimarca, Scozia, Scandinavia. In
Italia centro-settentrionale l’affermazione dei comuni nei secc. 11 e 12 diede vita a una serie di città-stato,
che rinnovarono per molti aspetti l’esperienza di quelle elleniche e che però, tranne qualche eccezione di
grande rilievo (Venezia, Genova), dissolsero ulteriormente il quadro imperiale trasformandosi prima in
signorie e poi in principati a base tendenzialmente regionale. Fuori d’Italia le autonomie cittadine non
giunsero a un grado pari di sviluppo politico, ma specialmente in Germania, in un quadro imperiale rimasto
comunque alquanto più consistente che in Italia, le città libere furono un elemento importante del panorama e
della tradizione politica tedesca e la loro lega (la Hansa) andò oltre il piano commerciale sul quale era sorta. Lo
stesso Stato della Chiesa – che dagli albori, sotto papa Gregorio I, al sec. 14 aveva subito lunghe traversie, ma
si era alfine meglio consolidato e definito – fornì, con la curia romana e con l’amministrazione centrale della
Chiesa, un suo modello originale di stato, che non fu senza influenze nell’esperienza politica europea. Lo stato
cantonale e confederale degli Svizzeri, enucleatosi dall’Impero alla fine del sec. 13 , fu, a sua volta, un altro
esempio della tendenza alla formazione di molteplici modelli statali. Si trattava di un’E. che, pur subendo
ancora invasioni barbariche, come quella mongola (che nel sec. 13 si era spinta fino all’E. centrale,
sottomettendo le popolazioni russe), aveva conosciuto dal sec. 11 in poi uno sviluppo economico, innanzitutto
agrario, e demografico intensissimo. Agli inizî del sec. 14 l’economia europea presentava settori e aspetti
giunti a grande maturità intorno a due aree, l’Italia comunale e le Fiandre, che ne costituivano le punte
avanzate. Si formarono grandi risorse finanziarie e alla disponibilità dei capitali si congiunse l’inizio
dell’impiego di tecniche bancarie e contabili moderne, che resero possibili una gestione del denaro fortemente
produttiva, una ripresa della circolazione monetaria come mezzo dominante di pagamento, la formazione di un
mercato europeo, l’ulteriore espansione commerciale ben al di là dei limiti carolingici della «piccola E.».
Riconquistata la Sicilia nel sec. 11 e via via gran parte della Spagna musulmana, nonché forti delle posizioni
acquisite nei secc. 11 e 12 anche con le crociate nel mondo musulmano (e con la quarta crociata del 1202-04
nel mondo bizantino), gli Europei (soprattutto gli Italiani) assunsero la leadership dei traffici mediterranei e
rovesciarono il rapporto precedente di inferiorità verso l’Oriente. Venezia e Genova si costituirono veri imperi
mercantili e coloniali, ma anche altre città mediterranee, in particolare Barcellona, ascesero a grande potenza
commerciale e finanziaria.
Agli inizî del sec. 14 la geografia politica europea era già nettamente delineata in molti dei tratti che dovevano
rimanere caratteristici anche in seguito. La solidità del nuovo edificio continentale fu collaudata dalla
gravissima crisi economica e demografica sopravvenuta alla metà del secolo, di cui la «peste nera» segnò un
momento drammatico. Da essa l’E. uscì stremata nelle sue forze, ristrutturata nell’economia e nella geografia,
meno popolosa, ma non corse alcun rischio di dissoluzione del suo quadro civile. Dopo una ulteriore fase di
stagnazione, dalla fine del sec. 15 le forze vitali avrebbero ripreso il sopravvento e avrebbero aperto un’altra
lunghissima fase di espansione economica e demografica che si sarebbe protratta fino alla prima metà del sec.
17 , consolidando e sviluppando il quadro tecnico, produttivo, mercantile, finanziario che costituiva la grande
eredità europea uscita indenne dalla crisi del sec. 14 . Non furono, però, soltanto la crisi e la stagnazione
economica a caratterizzare i secc. 14 e 15 . Fu allora anche ridisegnata per molti aspetti la carta politica
europea. Una lunga serie di conflitti oppose dal 1337 al 1453 (guerra dei Cento anni) le monarchie francese e
inglese, sciogliendo i due paesi dai confusi vincoli feudali che avevano legato la seconda alla prima. In Italia,
falliti gli sforzi egemonici dei suoi varî stati, si affermò tra quelli maggiori (Milano, Firenze, Venezia, Roma,
Napoli) una «politica dell’equilibrio», che anticipò i criterî dei rapporti di potenza poi prevalsi nell’E. moderna.
In Germania alcune dinastie consolidarono le loro signorie territoriali nell’ambito dell’Impero (Baviera,
Austria, Sassonia, Brandeburgo fra le maggiori) e la floridezza e potenza delle città della Hansa giunsero al
loro apogeo. Ma l’espansione del germanesimo verso est, che era proseguita ininterrotta dal sec. 11 in poi e
aveva germanizzato le popolazioni slave fin oltre l’Oder e insediato forti nuclei tedeschi in tutta l’E. centroorientale, venne fermata agli inizî del sec. 15 dalla unione della Polonia e della Lituania sotto gli stessi
sovrani. Non ebbe, invece, successo il tentativo dei duchi di Borgogna di imporsi come grande potenza tra
Francia e Germania nel vecchio spazio lotaringico. Analogo fallimento toccò al più volte ripetuto tentativo di
formare un grande stato nello spazio danubiano, e le spesso ricorrenti riunioni delle corone di Boemia,
Ungheria e Polonia si sciolsero altrettanto spesso. Ma un’esigenza di tal genere fu messa in maggiore evidenza
dalla conquista turca dei Balcani, che nel 1453 culminò con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei sultani
ottomani. Lo slancio turco sarebbe poi proseguito ulteriormente, portando nel 1526 alla conquista
dell’Ungheria, una cui piccola parte e la congiunta corona di Boemia passarono allora agli Asburgo. Solo il
fallimento dell’assedio posto a Vienna nel 1532 fermò la marcia ottomana lungo il Danubio. L’eredità di
Costantinopoli come centro della Chiesa ortodossa fu, invece, raccolta dal nuovo stato russo che, formatosi
intorno a Mosca, tra la fine del sec. 15 e gli inizî del 16 estingueva la sudditanza verso i Mongoli, fermava
l’espansione lituano-polacca verso est, iniziava la lunga azione per imporre ai signori feudali (i boiari) e ai loro
principati la supremazia del sovrano moscovita, che nel 1547 prese il titolo di zar (caesar, imperatore), a
ulteriore testimonianza del rapporto con la Bisanzio cristiana e imperiale, diventata ora Istanbul. All’altro capo
d’Europa, nella Penisola Iberica, si concludeva nel 1492 con la presa di Granada la riconquista cristiana del
paese. Tre forti nuclei statali erano emersi nel paese. A ovest il Portogallo, che nel corso del sec. 15 sviluppò
una grande politica marinara e coloniale, spingendosi sulla costa africana fin oltre il Golfo di Guinea e
raggiungendo nel 1488 il Capo di Buona Speranza. A est l’Aragona, che si avvaleva delle grandi energie di
Barcellona, aveva formato un impero mediterraneo, che dalle Baleari si estese fino alla Sardegna, alla Sicilia e
Napoli (quest’ultima poi lasciata a un ramo bastardo della dinastia). Al centro la Castiglia, che formò dal Golfo
di Biscaglia allo Stretto di Gibilterra una solida potenza militare ed economica.
L’età moderna. – Furono i paesi iberici le basi per le grandi scoperte geografiche inaugurate da Colombo nel
1492, mentre Vasco de Gama giungeva nel 1498 nella vera India. Le scoperte erano anche una espressione del
nuovo spirito europeo. Nei secc. 14 e 15 si era avuta, fra le altre, anche una profonda crisi ecclesiasticoreligiosa. Le pretese teocratiche di Roma provocarono coi sovrani urti meno felici nei loro esiti di quelli ormai
tradizionali con l’Impero. Bonifacio VIII fu umiliato da Filippo IV il Bello re di Francia nell’episodio famoso
dello «schiaffo di Anagni». Poi il papato si trasferì da Roma ad Avignone e vi rimase dal 1309 al 1377,
proseguendo l’opera di centralizzazione ecclesiastica, ma con grave danno del suo prestigio. Col ritorno a
Roma si aprì un’epoca di grandi lacerazioni: si contrapposero due e perfino tre papi e obbedienze cattoliche. Il
Concilio di Costanza (1414-18) e quello di Basilea (1431-49) sembrarono mettere a rischio la monarchia papale
nella Chiesa. Infine, Roma riprese il controllo della situazione, ma il mondo cattolico non era, tuttavia, più lo
stesso. La profonda unità che lo spirito religioso aveva conferito alla vita spirituale e morale dei secoli
precedenti era tramontata, insieme con la fede e l’ansia degli «ultimi tempi». Ora era possibile distinguere una
religione popolare da quella delle élites; ma attese messianiche e sete di una vita spirituale pura e intensa
permanevano (come si vide con le eresie di Wycliff e di Hus) e contrastavano fortemente con una
mondanizzazione progressiva del papato, che si espresse fra l’altro nel nepotismo pontificio con la costituzione
di principati per i familiari dei papi, nell’accentuata venalizzazione delle cariche ecclesiastiche e
dell’amministrazione dei sacramenti, negli opportunistici cedimenti alle pretese dei sovrani di controllare in
qualche modo la Chiesa dei rispettivi paesi, nella politica condotta dallo Stato Pontificio in Italia, e in
particolare nell’apertura del papato alla nuova cultura del tempo. Una vera e propria rivoluzione culturale si
era avuta, infatti, col passaggio dalla cultura della Scolastica a quella dell’Umanesimo e del Rinascimento.
Questa, senza negare il quadro generale della professione di fede cristiana, vi introduceva forti elementi di
laicità, naturalismo, immanentismo e, sotto il manto di una forte esaltazione dei modelli greci e romani,
costruiva in realtà alcune premesse fondamentali dello spirito moderno, a cominciare dalla lotta contro il
principio di autorità e dall’affermazione di valori come quello dell’eccellenza e dignità dell’uomo o quello della
bellezza. Contemporaneo fu pure il diffondersi di uno spirito scientifico, di cui nel sec. 15 furono effetto la
critica e la filologia moderne, nonché alcune grandi invenzioni come la polvere da sparo e, soprattutto, la
stampa. Così un’Europa rinvigorita nelle sue risorse e nelle sue strutture poté lanciarsi agli inizî del sec. 16
sulle vie del mondo e impegnarsi in una serie di lotte interne che ne avrebbero profondamente trasformato la
fisionomia politica e religiosa. Le «guerre d’Italia» furono il crogiolo in cui si formò il nuovo sistema politico
europeo. Nate dalle pretese dei re d’Aragona e di Francia sul trono di Napoli, esse determinarono un lungo
succedersi di conflitti, da cui uscì minorata la condizione dell’Italia, dove Milano e Napoli si aggiunsero ai
dominî dei sovrani spagnoli, Genova fu tratta nella loro orbita, Venezia dovette ridimensionare le sue
prospettive, lo Stato Pontificio si salvò per il peso morale del papato, la Toscana formò un Granducato che,
come gli altri stati minori della penisola, subiva l’egemonia e il controllo spagnolo. Nel corso delle guerre
italiane si dissolse l’equivoco per cui inizialmente era apparso che la Francia fosse la potenza destinata
all’egemonia sull’Occidente. Una straordinaria serie di matrimonî e di successioni mise nelle mani di Carlo
d’Asburgo (1500-58) i Paesi Bassi e i superstiti dominî borgognoni dal 1506, Aragona e Castiglia dal 1516, i
paesi austriaci e il titolo imperiale dal 1519. Non a caso quelli spagnoli furono considerati fra questi dominî i
più importanti. Nella prima metà del secolo nascevano in America l’impero portoghese in Brasile e quello
della Spagna, ben più ricco ed esteso, dal Messico alla Terra del Fuoco, che assicurava ai sovrani di Castiglia
enormi risorse finanziarie. La marcia trionfale verso una nuova «monarchia universale» fu, però, decisivamente
ostacolata a Carlo V dalla secessione religiosa iniziata da Lutero, che contrappose i protestanti o riformatori ai
cattolici e a Roma. La questione religiosa divenne politica. Gran parte dei principi germanici sostenne,
insieme con la causa di Lutero, quella della propria autonomia rispetto all’Impero e fu perciò appoggiata dalla
Francia. Alla fine si dovette riconoscere il passaggio al protestantesimo della maggior parte della Germania. La
posizione di Carlo V era insidiata, nello stesso tempo, anche dai Turchi, che dilagavano nel Mediterraneo e nel
1532 giungevano ad assediare Vienna, anch’essi in alleanza coi Francesi. Abdicando nel 1556, Carlo V
riconosceva l’impossibilità di un Impero «universale»: al figlio Filippo lasciò i Paesi Bassi, l’Italia e i reami
spagnoli coi dominî americani; al fratello Ferdinando, dal quale iniziava così una nuova linea asburgica a
Vienna, i paesi austriaci e il titolo imperiale. Ma anche così la Spagna di Filippo II, che stabilì a Madrid la sua
capitale, rappresentava sicuramente il più potente paese d’E., con un impero (di cui facevano parte varî punti
della costa nordafricana, nonché le Canarie e le Filippine, così denominate in onore del re) senza precedenti
nella storia per il suo carattere mondiale. Il determinarsi della preponderanza spagnola non poteva, tuttavia,
offuscare l’importanza epocale della Riforma protestante che, contemporaneamente, e con Calvino oltre che
con Lutero, si era diffusa non solo in Germania, ma in Scandinavia, in Inghilterra, in Francia, nei Paesi Bassi,
in Svizzera, in molte parti dell’E. Centrale e Orientale, affacciandosi anche in Spagna e in Italia. La Riforma
segnò, in effetti, l’avvento di una nuova intuizione religiosa che confliggeva profondamente con quella
cattolica. L’esperienza religiosa soggettiva del fedele affermava il principio della libertà di coscienza e poneva
il problema della tolleranza al di là dell’accordo che ad Augusta nel 1555 stabilì la professione religiosa dei
sovrani come decisiva per il culto da riconoscere nei rispettivi paesi. Il cattolicesimo rispose con la
Controriforma (o Riforma cattolica), che riorganizzò profondamente la Chiesa, migliorò di molto la
preparazione culturale e religiosa del clero, promosse la repressione attraverso un ufficio romano
dell’Inquisizione e l’indice dei libri proibiti, pose fine al nepotismo pontificio limitandolo agli ufficî e alle
cariche curiali ed ecclesiastiche, sollecitò il potere temporale ad una difesa rigorosa dell’ortodossia cattolica,
cercò di eliminare gli aspetti mondani e profani che dal mondo protestante facevano guardare a Roma come ad
una nuova Babilonia e alimentavano una forte corrente di antiromanesimo. Nuovi ordini religiosi sostennero
questa complessa azione e in primo luogo la Compagnia di Gesù, che influì profondamente sulla formazione
delle classi dirigenti nei paesi cattolici, raccolse ed epurò ai suoi fini la tradizione umanistica, penetrò nelle
corti e nei governi coi suoi consiglieri e confessori. Non era una nuova religiosità come quella protestante, ma
una religiosità rinnovata, che si estrinsecò in un evidente fervore di pietà, di cultura, di arte. L’opposizione tra
cattolici e protestanti dominò la scena politica europea per oltre un secolo dopo la sistemazione di Augusta. La
Spagna di Filippo II svolse sotto questo profilo una grande azione politica, fermando l’avanzata turca nel
Mediterraneo a Lepanto nel 1571 (fu decisivo l’apporto veneziano), rivendicando e ottenendo nel 1580 per i
suoi titoli dinastici la corona portoghese coi suoi dominî, reprimendo il moto protestante nei Paesi Bassi dove
esso si trasformò nella rivolta delle province settentrionali, sostenendo i cattolici francesi nella guerra civile coi
protestanti e tentando di piegare l’Inghilterra con la spedizione della Invencible Armada nel 1588. Il grande
disegno fallì, così come quello del padre Carlo V. In Francia quasi quarant’anni di guerre di religione,
punteggiati da episodî feroci, come la strage dei protestanti della «notte di San Bartolomeo» del 1572, finirono
con l’assunzione al trono di Enrico IV: protestante, egli si convertì al cattolicesimo («Parigi val bene una
messa») e concluse la pace con Filippo II, ma riconobbe libertà di culto ai suoi ex correligionarî con l’editto di
Nantes. L’Invencible Armada naufragò sulle coste inglesi: il successore Filippo III concluse la pace con
l’Inghilterra nel 1603 e una tregua con i ribelli olandesi nel 1609. Sotto Enrico IV la Francia tornò a una
politica di grande potenza, che, interrotta da una nuova crisi dopo il suo assassinio nel 1610, riprese a ben più
lunga scadenza sotto il figlio Luigi XIII e il suo ministro Richelieu, mentre Inghilterra e Olanda si
trasformavano in grandi potenze navali, commerciali e coloniali. Una nuova fase fu avviata nel 1618 con la
guerra dei Trent’anni, che ebbe a suo teatro soprattutto la Germania, questa volta per iniziativa degli Asburgo
di Vienna. La Spagna, sotto il governo dell’Olivares, li appoggiò e con un nuovo e maggiore sforzo egemonico
apparve prossima al successo. Nel 1635 intervenne nel conflitto la Francia. In pochi anni la potenza politica e
militare di Madrid fu messa in ginocchio. Stremati dallo sforzo imperiale, la Catalogna, il Portogallo, Napoli,
Palermo si ribellarono. Nel 1648 le paci di Vestfalia sancirono l’impossibilità di riprendere il controllo della
Germania, dove l’autorità imperiale subì un’ulteriore riduzione nei confronti degli stati territoriali. Nel 1659
fu conclusa, con la pace dei Pirenei e alcune importanti cessioni territoriali, la guerra con la Francia. Poi fu la
volta del riconoscimento dell’indipendenza olandese e portoghese.
La Spagna rimaneva un grande impero, con un ruolo di primo piano nella politica internazionale. Essa visse
nei secc. 16 e 17 il siglo de oro della sua civiltà, dando un contributo altissimo alla storia dell’arte e della
cultura europea. Ma non era più in grado di prendere l’iniziativa di una grande azione politica, avendo, anzi,
ora bisogno di appoggi e di alleanze per mantenere la sua posizione. Nell’E. del tempo, esausta per il lungo
sforzo bellico, la nuova profonda crisi economica e demografica che la colpì a partire dal 1620 in poi e una
serie di agitazioni sociali e politiche hanno fatto parlare gli storici di una crisi generale del Seicento. In
Inghilterra la dinastia degli Stuart, salita al trono nel 1603, entrò in urto, anche per i suoi sforzi assolutistici,
con l’opinione protestante (anglicana e calvinista) dominante nel paese. Ne nacque una lunga guerra civile, che
si concluse nel 1649 con la decapitazione del re Carlo I e la proclamazione della repubblica sotto il governo di
Oliver Cromwell. Poi nel 1660 furono restaurati gli Stuart, ma, riproducendosi il loro antagonismo col paese,
nel 1688 una nuova incruenta rivoluzione li allontanò definitivamente e ristabilì la monarchia su basi
protestanti e non assolutistiche. In Francia, dove nel 1643 Luigi XIV era succeduto, a due anni, al padre e il
Mazzarino a Richelieu, oltre a una lunga serie di rivolte contadine, fra le maggiori delle molte verificatesi in
tutta E. nel secolo, si ebbero fra il 1648 e il 1652 le due rivolte della Fronda (quella parlamentare e quella dei
principi), che si conclusero con la piena restaurazione del potere monarchico. Francia e Inghilterra fornirono
allora i modelli di regime intorno a cui avrebbe poi gravitato la vita politica europea. Non era ancora un pieno
liberalismo quello inglese, né era un completo assolutismo quello francese. Aveva, però, un’importanza
decisiva il carattere prevalentemente aperto e dinamico del modello inglese e quello unificatore e
razionalizzante del modello francese. La monarchia costituì allora l’istituzione più caratteristica del diritto
pubblico in Europa. I regimi repubblicani non mancarono. Essi ebbero nelle città (specialmente italiane)
esempî cospicui. Repubbliche rimasero Venezia, l’Olanda, la Svizzera, che furono tra il sec. 16 e il 18 , l’una
dopo l’altra, l’oggetto di un mito del vivere libero, del buon governo, della saggezza politica. Ma li si
considerava, in sostanza, come eccezioni alla norma. La monarchia di diritto divino, affermatasi in contrasto
con i poteri medievali «universali» della Chiesa e dell’Impero, appariva come un potere la cui legittimità poteva
essere presupposta come originaria, oltre che consolidata dalla tradizione. La legittimità assunse la forma della
trasmissione ereditaria del trono; e ciò può far capire perché molti conflitti europei assunsero l’aspetto di
guerre di successione e perché matrimonî e combinazioni dinastiche avessero un’importanza politica
preminente. Rare furono anche qui le eccezioni: stabilizzatasi di fatto l’ereditarietà dell’Impero negli Asburgo,
sarebbe rimasta solo la Polonia a praticare l’elezione del re, con effetti peraltro disastrosi sulla sua
sopravvivenza di stato indipendente, tanto che alla fine del sec. 18 portarono alla sua spartizione tra Austria,
Prussia e Russia.
Amministrazione, diplomazia, eserciti e sistemi di imposte permanenti caratterizzarono la struttura statale
dello stato moderno, così come una politica economica prevalentemente protezionistica e dirigistica, che
privilegiava l’accumulazione monetaria e lo sviluppo commerciale (donde la definizione di mercantilismo). I
problemi finanziarî furono, tuttavia, il vero tallone d’Achille delle monarchie. Il costo dello stato moderno era
di molto superiore a quello del vecchio ordinamento feudale, tanto meno complesso e largamente diffuso sul
territorio; ed era ulteriormente accresciuto dalle guerre e dalla politica dinastica. Le guerre erano, intanto,
frequentissime. Luigi XIV, che prese di persona il governo in Francia alla morte di Mazzarino nel 1661, poté
di nuovo avviare, nell’eclisse della potenza spagnola, una fase di grande politica di espansione. Guerra di
devoluzione (1667-68), guerra d’Olanda (1672-78), guerra della Lega d’Augusta (1688-97), bombardamento di
Genova (1684), «riunioni» alla Francia di Strasburgo e di varie zone d’Alsazia e Lorena (1681), espansione
coloniale in America (Canada e Luisiana), in India e in Africa ne segnarono le varie tappe ed aspetti. La
reazione delle potenze europee fu lenta, ma sempre più determinata, con un’applicazione sempre più esplicita
e consapevole della politica di equilibrio, per cui a ogni spinta espansionistica rispondeva una coalizione che vi
si opponeva e a ogni guadagno territoriale di una potenza dovevano corrispondere guadagni altrui che
bilanciassero il rapporto di forze generale. Così l’ingrandimento francese (con Strasburgo, la Franca Contea,
varie piazzeforti fiamminghe, ecc.) fu compensato da quelli di Inghilterra e Austria, che emergevano ora come
potenze decisive per l’equilibrio (l’una sul mare e fuori d’E., l’altra sul continente), mentre Spagna e Olanda
erano costrette a consumare le loro energie per far fronte all’offensiva del Re Sole, come in Francia venne
definito Luigi XIV per lo splendore a cui portava la potenza della monarchia e l’economia, le lettere e le arti
del paese. L’Olanda fu allora superata dall’Inghilterra, che aveva più volte vinto, ma conservò i suoi
possedimenti nelle Indie orientali e in alcune parti d’Africa e d’America. Anche la civiltà olandese conobbe
allora il suo massimo splendore, quasi facendo da ponte tra il «secolo d’oro» in Spagna e il «secolo di Luigi
XIV» in Francia. Il sopravvento inglese nei commerci, nella navigazione mercantile e nella marina militare
avrebbe poi avuto il suo collaudo nelle tre consecutive guerre di successione: la spagnola (1701-14), la polacca
(1733-38) e l’austriaca (1740-48), dalle quali, mentre furono confermati i tratti caratteristici del sistema
dell’equilibrio, la geografia politica europea venne fortemente mutata. La corona spagnola, estintosi il ramo
asburgico disceso da Carlo V, toccò a un ramo cadetto dei Borboni di Francia, ma perse i suoi dominî d’Italia e
dei Paesi Bassi. Questi ultimi, più Milano, toccarono all’Austria. Napoli e la Sicilia andarono a un ramo
cadetto della nuova dinastia borbonica di Spagna. L’Inghilterra acquistò, con il possesso di Gibilterra, il
controllo dell’ingresso nel Mediterraneo. La Francia si assicurò la Lorena e migliorò i suoi confini verso il
Reno. I duchi di Savoia divennero re di Sardegna, i marchesi di Brandeburgo re di Prussia, i duchi di Baviera
e di Sassonia ottennero anch’essi il titolo regio. Fu l’apogeo della politica dell’equilibrio, con un
ridimensionamento delle superpotenze, Spagna e Francia, che avevano dominato da Carlo V a Luigi XIV, e
l’ascesa di nuove grandi potenze. L’Inghilterra aveva ormai conseguito posizioni coloniali di prim’ordine ed
era indiscutibilmente la prima potenza navale. L’Austria aveva non solo conseguito gli ingrandimenti dovuti
alla sua partecipazione alla spartizione dell’eredità degli Asburgo di Spagna, bensì anche acquistato una
posizione di primo piano nell’area danubiana. Gli Ottomani avevano manifestato ancora una forte capacità
espansiva, assediando Vienna nel 1683, centocinquant’anni dopo l’assedio del 1532. Fra queste date, anche
dopo Lepanto, essi avevano ancora esercitato la loro spinta sia nel Mediterraneo che nei Balcani, sottraendo,
fra l’altro, a Venezia l’isola di Creta con una lunga guerra venticinquennale (1644-69). Il fallimento
dell’assedio di Vienna segnò invece l’inizio di un progressivo declino della loro potenza. Alla metà del sec. 18
l’Austria aveva liberato totalmente l’Ungheria dalla soggezione che subiva dal 1526, giungendo fino in
Croazia; e, a sua volta, la Russia aveva portato avanti una marcia sul Mar Nero e sul Caucaso, che riduceva
ulteriormente e gravemente lo spazio ottomano: una marcia che, proseguita con grande costanza, concorse già
prima della fine del secolo a fare della Turchia l’«uomo malato» dell’equilibrio europeo (quale sarebbe rimasta
per tutto il sec. 19 ) e che affacciò l’eventualità di una presenza russa a Costantinopoli con ripercussioni
gravissime sull’equilibrio mediterraneo e continentale, cui soprattutto Inghilterra e Austria erano
estremamente sensibili. La Russia si affermò infatti nel corso del secolo, insieme alla Prussia, come nuova
grande potenza. Già nella seconda metà del sec. 17 si era assistito al declino di Svezia e Polonia, che dalla fine
del sec. 16 dominavano rispettivamente lo spazio baltico e quello europeo-orientale ed erano stati alleati
tradizionali della Francia nella sua lotta antiasburgica. La Russia ne trasse i maggiori guadagni, specialmente
da quando sotto Pietro I (1689-1725) prese a sviluppare una grande politica di occidentalizzazione del paese e
dello stato, di cui il trasferimento della capitale da Mosca a San Pietroburgo, da lui fondata sul Baltico,
divenne il simbolo. A sua volta, la Prussia si era sviluppata come grande potenza militare e sotto Federico II
(1740-86), oltre a rafforzarsi decisivamente su questo piano, aveva sottratto all’Austria l’importante regione
della Slesia e si era posta, con ciò stesso, quale temibile antagonista degli Asburgo nell’ambito germanico e
imperiale. Proprio per fermare la sua marcia si combatté la guerra dei Sette anni (1756-63), che, con un
clamoroso rovesciamento delle alleanze, associò l’Austria alla Francia e alla Russia. Appoggiata
dall’Inghilterra, costante nella sua politica di equilibrio, la Prussia superò tuttavia indenne la tempesta, mentre
la Francia fece tutte le spese di un conflitto che, da più di un punto di vista, può essere considerato la «prima
guerra mondiale» combattuta da potenze europee, avendo interessato parimenti i dominî coloniali francesi e
inglesi dall’America all’India. Fu allora liquidato il primo impero extra-europeo della Francia che, dai tempi
di Luigi XIV, si era via via cospicuamente ingrandito. Canada e India divennero allora zona di espansione
inglese; la Francia salvò la Luisiana e qualche emporio indiano. L’Inghilterra, che già si era assicurata
posizioni di privilegio nel commercio tra la Spagna e l’America Latina, si espanse su tutta la costa americana
dalla Florida allo Stretto di Hudson.
Il primato dell’E. nel mondo appariva saldamente stabilito ed essa premeva ormai anche sulla Cina e sul
Giappone. La coscienza della modernità la permeava tanto che già nel sec. 17 in Francia la querelle des anciens
et des modernes rovesciava l’esemplarità attribuita agli antichi dalla cultura umanistico-rinascimentale. Per i
decennî a cavallo tra i secc. 17 e 18 si è potuto parlare di una «crisi della coscienza europea». Certo è che si
delineò allora una netta separazione tra valori religiosi, valori morali e valori civili ed etico-politici, con una
forte accentuazione dello spirito laico e moderno della cultura europea, nella quale lo sviluppo delle scienze e
delle tecniche, anche nei suoi effetti sull’economia e sulla vita quotidiana, cominciava ad apparire prodigioso e
segnava un netto distacco tra l’E. e il resto del mondo. Nel sec. 18 l’Illuminismo convogliò tutto ciò in un
grande movimento di cultura nel segno del razionalismo e della laicità, formulando nuovi ideali etici, politici,
sociali in una temperie in cui le convinzioni e la prospettiva intellettuale si sposavano ad una vera tensione
morale e spirituale. L’E. si trasformava anche materialmente, non solo per effetto dello sviluppo scientifico e
tecnico, bensì anche per una crescita economica e demografica che avrebbe trovato sbocco dalla fine del 18
sec. nella rivoluzione industriale, col passaggio cioè dalle manifatture tradizionali alla produzione mediante
macchine azionate da una nuova energia, quella del vapore, di cui scoperte e invenzioni consentirono un
sempre maggiore sfruttamento. L’Inghilterra, che fu la prima (e restò a lungo l’unica o massima) protagonista
di questa rivoluzione, ne emerse come maggiore potenza economica e finanziaria, banca e opificio del mondo.
Inoltre, si determinava così una nuova e ancor più cospicua ragione di primato europeo, che si sommava alle
precedenti e che non era puramente tecnico-scientifica, poiché comportava un orizzonte di mentalità e di
valori non meno rilevante. Della nuova cultura fu espressione il riformismo, che permeò l’azione dei governi e
portò a molti provvedimenti innovatori nella legislazione e nell’amministrazione, toccando l’organizzazione
burocratica, i diritti feudali, gli ordinamenti corporativi, il commercio e le manifatture, i regolamenti sanitarî
e, in particolare, i beni, i privilegi e le immunità ecclesiastiche. Episodio culminante fu, su questo piano, la
soppressione della Compagnia di Gesù, simbolo della presenza e della pressione ecclesiastica nella società. La
decise Clemente XIV nel 1773 dopo che negli anni precedenti varî governi avevano già deciso così per i
rispettivi paesi. Né era meno significativo che alle disavventure dei gesuiti corrispondessero le fortune della
Massoneria, società segreta di ispirazione prettamente illuministica, che penetrò largamente anche nei circoli
di corte e di governo.
La rivolta delle colonie americane contro l’Inghilterra fu vissuta anch’essa all’insegna dello spirito
illuministico, come si vide nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nella costituzione adottate a base del
nuovo paese, gli Stati Uniti d’America, che nacque dalla rivolta. Da questa trasse, inoltre, origine una nuova
guerra settennale (1776-83), che portò Francia e Spagna a fianco dei ribelli americani in una sorta di rivincita
della guerra dei Sette anni. Ancora una volta, il successo pieno fu dei ribelli e ben poco toccò alla Francia, il
cui maggiore incremento in questo periodo fu l’acquisto della Corsica nel 1768. Gli anni che seguirono
cominciavano a registrare un profondo mutamento delle condizioni dello spirito europeo. Iniziava una
revisione dello spirito illuministico, che faceva appello ad altri valori oltre la natura dell’uomo e la ragione e
trovava meno soddisfacente il riformismo come metodo del rinnovamento. Ma la fase a cui così sembrava ci si
avviasse fu repentinamente interrotta dallo scatenarsi della rivoluzione in Francia.
L’età contemporanea. – La Rivoluzione passò via via dall’assolutismo monarchico ad una monarchia
costituzionale e liberale (1789-92), poi a una repubblica democratica – dapprima con Robespierre e i giacobini
e una politica di rigore e di Terrore (1792-94), poi con la reazione di Termidoro a questo estremismo (179495) e una direzione moderata e oscillante tra spinte restauratrici e spinte estremistiche sotto il governo del
Direttorio (1795-99) – e, infine dopo un quinquennio di potere (1799-1804) sotto il nome di consolato,
all’impero di Napoleone Bonaparte (1804-14) e alla sua appendice dei «cento giorni» (1815). Lo
sconvolgimento nella vita europea fu profondo. Cadde il regime delle divisioni e dei privilegi di classe, fu
soppresso il sistema feudale, fu impiantato il moderno stato di diritto, venne elaborata una legislazione
moderna e la si raccolse in un codice, si affermarono le grandi linee del liberalismo e della democrazia, la
nazione si affiancò allo Stato e ne divenne protagonista, governo e amministrazioni furono razionalizzati e
modernizzati nelle loro strutture, gli eserciti di mestiere vennero sostituiti da quelli di leva, la borghesia
divenne il centro di gravitazione e di integrazione sociale, fu adottato il principio del merito e della
competenza in luogo di quello della nascita, con l’ordinamento politico e i rapporti con la Chiesa venne
laicizzata anche l’istruzione. Su queste linee non vi fu soluzione sostanziale di continuità tra la fase
napoleonica e quella precedente della Rivoluzione, anche se il carattere personale del potere di Napoleone (che
lo portò alla serie continua delle guerre nelle quali, pur dopo tante vittorie, finì col soccombere) provocò
un’involuzione autoritaria delle spinte rivoluzionarie alla libertà e alla democrazia, in cui si può riconoscere
per alcuni aspetti la prima esperienza dittatoriale dell’E. moderna. Certo, non si trattò di svolgimenti lineari e
del tutto coerenti. Numerose furono le sopravvivenze dell’«antico regime». La Chiesa dimostrò un controllo e
un radicamento sociale che indussero Napoleone a riconoscerne il ruolo pubblico e a stipulare con essa nel
1801 un concordato, che è anch’esso un prototipo di numerosi e analoghi concordati posteriori. Le spinte
liberali e liberistiche prevalsero alla fine largamente su quelle democratiche e interventistiche. Ma l’edificio
rapidamente costruito dalla rivoluzione dimostrò nei suoi tratti essenziali un’incrollabile solidità; e la prova
migliore ne fu data dal fatto che anche le potenze nemiche della Francia e di Napoleone si uniformarono via
via ai principî del nuovo regime e, caduto Napoleone, non pensarono di ristabilire quello antico: fu invece
ristabilita, ma solo parzialmente, dal Congresso di Vienna (1815) – sotto la spinta della Santa Alleanza di
Austria, Prussia e Russia, rivolta ad assicurare la conservazione dei risultati della lotta antinapoleonica – la
vecchia geografia politica. Anche le guerre di Napoleone lasciarono tracce profonde, alimentando una rapida
maturazione del sentimento nazionale o in opposizione al dominio francese che egli imponeva o secondando
una nuova identità negli stati satelliti e amici.
Chiuso il periodo rivoluzionario e napoleonico, tre grandi questioni si posero, nella vita europea: la questione
della libertà, la questione nazionale e la questione sociale. Ripetuti sussulti insurrezionali fra il 1815 e il 1848
agitarono la Penisola Iberica, l’Italia, la Francia, i Paesi Bassi, la Germania, la stessa Gran Bretagna, i paesi
austriaci. In Francia nel 1830 si passò a un regime liberale più aperto sotto il ramo borbonico cadetto di Luigi
Filippo d’Orléans, che sancì il ruolo della borghesia come classe illuminata e dominante. In Gran Bretagna le
lotte sociali non toccarono né la struttura liberale del regime, né le posizioni dell’aristocrazia tradizionale e
della nuova borghesia, ma produssero riforme elettorali e sociali che assicurarono al regime del paese una
maggiore stabilità e si accompagnarono ad una intesa franco-britannica oggettivamente in opposizione alla
Santa Alleanza. Il Belgio potè nel 1830 staccarsi dai Paesi Bassi e costituirsi in regno indipendente a regime
liberale. Non così la Polonia ribellatasi allo zar nel 1831, mentre in Italia due ondate insurrezionali nel 1820-21
e nel 1830-31 non modificarono né l’assetto, né il regime politico del paese. In Spagna la costituzione
guadagnata con la rivoluzione del 1820 fu sottoposta alle vicende di un’altalena tra forze liberali e reazionarie
che avrebbe dominato la vita nazionale per oltre un secolo. La Grecia, con una lunga rivolta iniziata nel 1821 e
con l’appoggio di Francia e Gran Bretagna, acquistò nel 1830 l’indipendenza dall’impero ottomano e lo stesso,
in forma più attenuata e con l’appoggio della Russia, avvenne per i Romeni. In effetti furono economia e
cultura a produrre ancora una volta i mutamenti più profondi. Dalla Gran Bretagna la rivoluzione industriale
si propagò nell’E. continentale investendo via via Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio. Si configurò così
nell’E. Occidentale un contrasto sociale nuovo, tra proletariato e capitalismo industriale. Nello stesso tempo la
scena culturale europea era occupata dalla diffusione del romanticismo. Il 1848 segnò un punto di svolta
decisivo nel processo di trasformazione politica e sociale che in forma latente o esplicita agitava l’Europa. Poi
la grande ondata rivoluzionaria si attenuò. In Francia, dove la caduta di Luigi Filippo aveva portato alla
ribalta tendenze socialisteggianti ormai mature, il superstite bonapartismo, sotto un nipote di Napoleone, e
con l’appoggio dell’opinione clericale, restaurò nel 1852 l’Impero. Nei paesi austriaci e in Prussia la fedeltà
degli eserciti ai sovrani salvò l’assolutismo regio. I movimenti nazionali furono repressi dalle armate austriache
in Italia e in Ungheria, dove Vienna fu aiutata dal decisivo intervento delle armi russe. Il 1848 non passò,
tuttavia, invano. Il problema nazionale assunse, nonostante tutto, un peso ancora maggiore che nel periodo
precedente, mentre i contrasti di potenza indebolivano la capacità di reazione dei paesi più conservatori. Di
questi contrasti fu una manifestazione la guerra russo-turca del 1853, in cui Francia e Gran Bretagna
intervennero a favore di Costantinopoli, bloccando le mire espansionistiche, appoggiate ad un’equivoca
slavofilia, dello zar. Fu la radice dell’isolamento dell’Austria, che non ricambiò l’appoggio ricevuto dalla
Russia in Ungheria nel 1848. Essa si trovò perciò in difficile posizione contro l’alleanza franco-piemontese,
che nel 1859 le strappò la Lombardia e portò alla rapida annessione delle regioni dell’Italia centrale al regno
sabaudo: capolavoro di Cavour, alla guida del governo di Torino dal 1852, che attrasse nell’orbita liberale i
moderati preoccupati delle spinte democratiche prevalenti nel movimento nazionale promosso ed
egemonizzato da Mazzini, ma raccolse da quest’ultimo l’istanza unitaria e, a seguito dell’impresa dei Mille
guidata da Garibaldi nel 1860, poté nel 1861 inglobare anche il Mezzogiorno nel nuovo Regno d’Italia, pur se
ne restavano ancora fuori Roma e Venezia. Isolata l’Austria rimase, inoltre, in Germania, dove la Prussia,
sotto il governo di Bismarck, prima la coinvolse in una guerra contro la Danimarca per il recupero dello
Schleswig e del Holstein (1864) e poi, in alleanza con l’Italia, le mosse guerra, la batté, la costrinse a cedere
Venezia e il Veneto all’Italia, la espulse dalla Confederazione germanica e articolò questa in due sole unità
federali, del Nord e del Sud (1866). In Austria si dovette allora mutare la forma dello stato procedendo a una
sorta di federazione con l’Ungheria, che acquistò grande peso nella politica di Vienna. Napoleone III, rimasto
inattivo in quest’ultima occasione, sentì allora il pericolo di un’egemonia germanica. Egli aveva guadagnato
alla Francia nel 1859 Nizza e Savoia, ma si era poi alienato le simpatie degli Italiani, mantenendo un suo
protettorato sulla sovranità pontificia in Roma, a cui lo spingeva anche la permanente necessità dell’appoggio
dei cattolici al suo regime. Bismarck sfruttò la situazione e nel 1870 lo fece cadere nella provocazione di una
guerra disastrosa, per cui dovette lasciare la Francia. Qui fu ora proclamata la repubblica e, mentre insorgeva
una nuova e più grave rivolta sociale con la Comune di Parigi, fu proseguita la resistenza al vincitore, fino alla
conclusione nel 1871 della pace, che costò la perdita dell’Alsazia e della Lorena e il pagamento di un’ingente
indennità di guerra. A Versailles, dove fu firmata la pace, gli stati tedeschi restaurarono l’impero sotto la
sovranità del re di Prussia e con un regime blandamente costituzionale. Il Regno d’Italia approfittò delle
circostanze per insediarsi già nel 1870 a Roma, ponendo fine così al potere temporale dei papi. Poiché la Gran
Bretagna non era attivamente intervenuta né in Italia, né, ancor meno, in Francia, la Russia ritenne giunto il
momento per regolare i conti con la Turchia, che tra il 1875 e il 1878 fu praticamente espulsa da quasi tutta la
Penisola Balcanica. Questa volta, però, fu proprio la Gran Bretagna a reagire. Bismarck funse da mediatore.
Un congresso delle grandi potenze, a cui fu ammessa anche l’Italia, riunito a Berlino nel 1878 sancì
l’indipendenza per la Serbia, la Romania e la Bulgaria, ma lasciò insoddisfatta la Russia e consentì all’Austria-
Ungheria di prendere sotto la sua amministrazione la Bosnia e l’Erzegovina, poi formalmente annesse nel
1908.
Era nata una nuova Europa. Le trasformazioni economiche e sociali prodotte dalla rivoluzione industriale
(estesasi alla fine del secolo nei paesi scandinavi, in Svizzera, in Italia, in Russia, in molte parti dell’AustriaUngheria e della Penisola Iberica, benché in varia misura e intensità) furono accompagnate da invenzioni e
scoperte che nel giro di poco più di mezzo secolo mutarono in maniera radicale modi e livelli di vita e
mentalità e comportamenti. Ferrovie e navigazione a vapore, fotografia e cinema, luce ed energia elettrica,
automobile e aeroplano, telefono e radio si affermarono ovunque, tra il 1850 e il 1920, provocando una
rivoluzione socio-culturale ancora più forte di quella economica e sociale. L’E. fu allora di gran lunga più di
quanto fosse mai stata il centro mondiale egemone. In base ad accordi definiti a Berlino, i varî paesi europei
estesero i loro imperi coloniali o ne fondarono di nuovi. L’intera Africa (tranne l’Etiopia, che si difese
vittoriosamente contro l’Italia nel 1896, e la Liberia) fu spartita fra loro; la Cina fu ridotta in uno stato di
semidipendenza; i paesi latinoamericani trovarono una ragione di prosperità solo rendendo le loro economie
strettamente complementari a quella europea. Il progresso materiale fu accompagnato da un lungo periodo di
pace, alla quale finì col giovare il formarsi di una alleanza franco-russa (1890) in opposizione alla Triplice
italo-austro-germanica (1882). Enorme fu pure l’incremento demografico. Ancor più sensibile fu, a sua volta,
il mutamento culturale, con l’avvento di tendenze materialistiche e positivistiche in appariscente sintonia con i
trionfi inauditi della tecnica e della scienza. Fu dovuta anche a questa filosofia la certezza che l’E.
rappresentasse la punta avanzata e, insieme, l’antesignana di un passaggio obbligato per tutta l’umanità.
L’imperialismo si congiunse alla sottolineatura del «fardello dell’uomo bianco» nel conquistare per sé e quindi
nel propagare la civiltà: altro concetto che, con quelli di storia e di progresso, di ragione e di umanità,
contraddistingueva il pensiero del tempo. L’intervento collettivo delle grandi potenze in Cina per la rivolta dei
boxer nel 1900 espresse appieno la radicata e diffusa convinzione della centralità europea nella storia del
mondo. Politicamente l’epoca portò, oltre quello di una lunga pace, il segno di un’ampia confluenza di
liberalismo e democrazia, di una prima affermazione di partiti socialisti e di un graduale riconoscimento di
istanze da essi sostenute. Nello stesso tempo anche le Chiese, e soprattutto quella cattolica, cominciarono a
portare una maggiore attenzione alle idee e alle questioni che si ponevano nella vita politica e sociale del tempo
con così grande rilievo e urgenza. Nel 1864 era stata fondata a Londra una Associazione internazionale dei
lavoratori, dove Marx riuscì a far prevalere le sue idee contro altre ispirazioni, quali quelle di Mazzini.
Esauritosi rapidamente lo slancio di questa iniziativa, ne fu avviata una seconda nel 1889. I partiti socialisti si
affermarono fortemente nei parlamenti di Gran Bretagna, Germania, Austria-Ungheria, Francia, Italia.
Parallela fu la diffusione di grandi movimenti sindacali e di organizzazioni cooperativistiche e assistenziali. Nel
1891 l’enciclica di papa Leone XIII Rerum novarum precisò, a sua volta, il campo e i criterî direttivi
dell’impegno sociale, oltre che politico, dei cattolici. Furono, tuttavia, le forze democratiche e liberali a
dominare il campo, consentendo allora una serie di riforme politiche (culminanti in generale nel suffragio
universale), amministrative (a livello di garanzie giudiziarie e nell’ambito dei governi municipali), sociali
(edilizia popolare, assicurazioni e previdenza, diritto di associazione sindacale e di sciopero), culturali
(istruzione obbligatoria, potenziamento delle università). La spinta comune fu a una generale
democratizzazione della vita politica e sociale e a una prima affermazione della piccola borghesia connessa
all’emergere della nuova società industriale come giuntura fondamentale di questa società. Anche in paesi
come Germania e Austria-Ungheria il parlamento acquistò maggior peso. In Russia l’autocrazia zarista andò
anch’essa verso una riforma politica con concessioni che culminarono nella convocazione della Duma. Sotto la
luce splendente dell’egemonia mondiale e del progresso in atto si celavano, tuttavia, e a tratti apparivano,
problemi e crepe di non lieve peso. Nella vita economica crisi periodiche e profonde (1873, 1893, 1907)
ricordavano che l’ormai maturo capitalismo e la sua logica del mercato erano ben lontani dall’assicurare le
prospettive di uno sviluppo tranquillo e fatale. Né l’economia industriale si rivelava in grado di assicurare
lavoro e redditi sufficienti alla crescente popolazione e a quella che veniva disoccupata dal progresso tecnico.
Nella seconda metà del sec. 19 da tutto il continente (meno qualche paese come la Francia, che aveva
raggiunto condizioni di sostanziale stabilità demografica già dai primi anni post-napoleonici) partì verso il
Nuovo Mondo un’emigrazione torrenziale. Il mito dell’America come paese della fortuna si affermò in tutta
l’Europa. Le strutture politiche e le politiche sociali non riuscivano ad assorbire e risolvere per intero il
dissenso e l’emarginazione di grandi masse. La diffusione del socialismo come ideologia della lotta di classe
corrispondeva a uno stato di esasperazione presente pressoché ovunque. Ne fu anche espressione una tendenza
anarchica che mise particolarmente piede in alcuni paesi (Russia, Italia, Spagna) e diede luogo a una serie di
assassinî di sovrani o capi di governo o di stato (Austria, Russia, Italia, Spagna, Francia), inconcludenti
politicamente, ma molto impressionanti. All’interno dei varî paesi sussistevano sacche di depressione
territoriale (come il Mezzogiorno in Italia) e settoriale (come, in generale, le campagne) che accrescevano le
ragioni di conflitto e imponevano alle classi di governo un controllo della disciplina sociale destinato a
provocare crisi dagli sviluppi non sempre prevedibili. In Italia ciò portò nel 1898 a uno scontro fra governo e
opposizioni, da cui il regime liberale uscì rafforzato e le forze conservatrici e reazionarie battute, ma con lo
strascico di una conflittualità sociale endemica, che avrebbe avuto un altro episodio significativo con la
«settimana rossa» del 1914. In Spagna all’instabilità del regime liberale si accompagnò una forte
sedimentazione di tendenze rivoluzionarie, di cui si sarebbero visti i frutti col tempo. In Russia si ebbe
addirittura (1905) una rivoluzione, repressa nel sangue, ma anch’essa foriera di futuri scuotimenti.
Non meno significative le tendenze della vita culturale; ma non tanto da tutto ciò quanto, piuttosto, dai
contrasti fra le grandi potenze venne fuori la miscela esplosiva su cui si infransero l’ordine e la pace di quel
mondo. Nonostante tutto, e sia pure attraverso difficoltà e contraddizioni, liberalismo e democrazia
mostravano una complessiva capacità di assicurare alla lunga un quadro di risoluzione dei grandi problemi
morali e materiali, sociali ed economici dell’epoca. Le gare di potenza vennero, invece, mostrando di non
potere e non saper seguire che una logica di tempi assai stretti inconciliabile coi tempi lunghi degli sviluppi
sociali. E ciò mentre anche su questo piano l’emergere degli Stati Uniti e del Giappone come grandi potenze
economiche e militari (i primi batterono la Spagna nel 1898 e il secondo la Russia nel 1905) mostrava che
l’egemonia mondiale dell’E. non era più incontrastata. Alla fine le tensioni tra le potenze europee portarono
nel 1914 alla guerra tra Germania, Austria e Turchia, da un lato, e Francia, Russia e Gran Bretagna, dall’altro.
L’Italia, lasciando la Triplice Alleanza, si schierò contro l’Austria nel 1915 e la Germania nel 1916. Il
Giappone fu pur esso contro la Germania. Gli Stati Uniti entrarono in guerra nel 1917. La Serbia (per
regolare i conti con la quale l’Austria, con l’approvazione di Berlino, aveva iniziato le ostilità), la Bulgaria, la
Romania, il Portogallo entrarono anch’essi nel conflitto, che da europeo (per il suo estendersi alle colonie dei
paesi belligeranti) era subito diventato mondiale e si concluse soltanto nel novembre 1918. Dal punto di vista
militare la guerra contraddisse, peraltro, tutte le previsioni. Non ebbe corso l’azione rapidamente risolutiva
concepita dalla Germania nel 1914 contro la Francia, violando la neutralità belga per ripetere con maggiore
sicurezza la vittoria del 1871; né ebbe maggiore successo il «rullo compressore» della fanteria russa, in cui si
confidava ricordando le guerre napoleoniche. Si venne così a una guerra di logoramento, in cui contarono le
risorse generali dei paesi belligeranti, di gran lunga meno abbondanti per la Germania che per i suoi nemici.
La sconfitta tedesca divenne perciò, specialmente dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, un evento fatale,
che la grande prova militare del paese poté ritardare, non evitare. Sia nel campo dei vincitori che in quello dei
vinti la guerra creò, comunque, enormi problemi. Nel corso stesso della guerra questi elementi procurarono il
crollo del regime zarista in Russia nel marzo 1917 e nel successivo novembre l’avvento al potere della frazione
maggioritaria (bolscevica) ed estremistica dei socialisti russi, di cui era a capo Lenin. Questi portò subito il
paese fuori dalla guerra, cedendo alle richieste, per quanto esose, dei Tedeschi vincitori, e diede l’avvio a un
regime comunista. I trattati di pace non facilitarono una stabilizzazione del continente. Quello imposto alla
Germania a Versailles costò ad essa la perdita di oltre un quinto del proprio territorio (Alsazia e Lorena alla
Francia; Slesia e Pomerania in gran parte alla Polonia), la divisione di questo territorio in due parti, un’enorme
cifra a riparazione dei danni di guerra arrecati ai nemici, lo smantellamento dell’industria bellica, un regime di
tutela per la Saar, la smilitarizzazione della Renania e un disarmo praticamente completo. Dalle ceneri del
dominio asburgico uscirono tre Stati: Austria, Cecoslovacchia e Ungheria, mentre Slovenia, Croazia e BosniaErzegovina andarono a ingrandire la Serbia e a formare con essa il Regno serbo-croato-sloveno o Iugoslavia, il
Trentino e la Venezia Giulia passavano all’Italia e la Transilvania alla Romania. Con terre già di sovranità
austriaca, tedesca e russa si formò una grande Polonia, restituendo l’indipendenza a quel popolo a un secolo e
mezzo dalla sua prima spartizione. I paesi baltici, anch’essi sottratti alla Russia, formarono le repubbliche di
Estonia, Lettonia e Lituania e indipendente divenne pure la Finlandia. La Romania si ingrandì con territorî
già russi, oltre che con la Transilvania e la già bulgara Dobrugia, mentre la Turchia europea era ridotta ad una
piccola regione intorno a Costantinopoli, poiché era diventata indipendente anche l’Albania, e la nuova
Iugoslavia si annetteva gran parte della Macedonia, contesa a lungo con Grecia e Bulgaria, e il piccolo
principato del Montenegro. Queste sistemazioni si sarebbero rivelate relativamente durature, nonostante varie
e profonde modificazioni posteriori. Netta era la riduzione di importanza della Russia, precipitata, oltre tutto,
in una guerra civile fra «bianchi» e «rossi», che si sarebbe placata solo nel 1922, quando nacque l’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Non riuscirono, però, i tentativi di esportare immediatamente la
rivoluzione al di là dei confini. In Polonia i Russi furono battuti nel 1921, e già era caduto il regime comunista
instaurato in Ungheria. Si pensò allora ad un «cordone sanitario», che isolasse politicamente, il nuovo stato
sovietico e impedisse la trasmissione del fermento rivoluzionario negli altri paesi europei. In ogni caso, la
posizione internazionale del nuovo stato non fu più quella del vecchio impero. L’URSS attinse ora la sua
maggiore importanza internazionale al ruolo di centro mondiale del movimento comunista, organizzato nel
1919 in una Terza Internazionale in contrapposizione alla seconda, che, dopo essere andata in crisi con la
guerra, cercava di riaffermare le posizioni del socialismo democratico. Anche indipendentemente dalle
sollecitazioni di Mosca e della Terza Internazionale, un’ondata «rossa» attraversò, tuttavia, egualmente l’E. nei
primi anni del dopoguerra. La Germania vinta ne fu un grande epicentro. Ad assicurare il superamento della
fase di maggiore tensione fu un governo socialdemocratico. La repubblica, la cui capitale fu posta a Weimar,
ebbe una vita instabile e difficile. Già nel 1923 una nuova forza politica, il partito nazionalsocialista fondato da
Adolf Hitler, si faceva interprete delle spinte nazionalistiche e revanscistiche, tentando a Monaco un colpo di
stato miseramente fallito.
Sopravvennero anche in E. i «ruggenti anni Venti», che, come negli Stati Uniti, segnarono una grande fase di
espansione dell’economia. Poi, sopravvenuta la crisi economica mondiale nel 1929, in tutto il continente i
regimi liberaldemocratici subirono nuove e più gravi scosse. In Germania inflazione e disoccupazione, oltre
che nazionalismo e revanscismo, agli inizî del 1933 portarono al potere Hitler, che ancor più rapidamente di
Mussolini, da lui considerato suo maestro, instaurò nel paese un regime totalitario a partito unico.
Contemporaneamente in Unione Sovietica il comunismo dava luogo a una forma parallela, benché opposta, di
totalitarismo, che ebbe nella leadership ben presto conseguita da Stalin dopo la morte di Lenin la sua massima
espressione. Sia in Germania che in Unione Sovietica i nuovi regimi conseguirono grandi risultati economici e
sociali. Al loro fondo (come, d’altronde, del fascismo italiano) si leggeva un volontarismo che opponeva alla
realtà e alle leggi delle strutture materiali la forza di volontà e la creatività di uno slancio etico-politico di
natura del tutto particolare. Le differenze fra i tre modelli totalitarî erano, tuttavia, profonde. Né in Germania,
né in Italia risultava sconvolta la generale struttura borghese della società; e, anzi, i regimi vigenti suonavano
come una riaffermazione e una assicurazione degli interessi della borghesia rispetto alla «ondata rossa» seguita
alla guerra. Nell’Unione Sovietica, invece, lo sconvolgimento sociale era stato totale, ma non ne era seguito il
regime di eguaglianza socialista, bensì il dominio di una forza politica, il Partito comunista dell’Unione
Sovietica (PCUS), sulla società e sullo stato ed esso si traduceva, di fatto, nel dominio dei ceti e dei gruppi che
o nel partito o come suoi emissarî e fiduciarî guidavano la trasformazione economica e assicuravano la stabilità
e le fortune del regime. In forza di queste differenze si potevano riconoscere nel nazismo e nel fascismo i tratti
di un processo sociale assente in URSS, ossia l’affermazione dei ceti piccoloborghesi, che ora imponevano in
pieno la loro presenza nella società. Il modello totalitario nelle sue varie espressioni convergeva, invece, in una
serie di altre caratteristiche, che ne facevano un’esperienza fondamentale del mondo contemporaneo. Si
trattava, infatti, di regimi che esprimevano ormai appieno la natura di massa della società contemporanea. Le
tecniche del consenso congeniali a questa società erano fondate, innanzitutto, su un uso intensivo dei mezzi di
comunicazione di massa assicurati dal progresso industriale (radio, cinema, stampa, ecc.) e su uno
sfruttamento parimenti intensivo di canali privilegiati della comunicazione sociale (dalla scuola a sedi
istituzionali e non istituzionali) e di forme collettive di riconoscimento e di persuasione (divise, distintivi,
cerimonie, adunate, ecc.). L’identificazione sostanziale tra capo, stato e partito andava ben oltre (facendone
tutt’altra cosa) gli stessi sistemi di costruzione delle convinzioni e del consenso, che nei paesi industrializzati
indubbiamente servivano, nello stesso tempo, alla affermazione e commercializzazione dei nuovi prodotti
dell’industria e di cui la politica in quei paesi aveva cominciato a servirsi. Delle tecniche più avanzate si serviva
egualmente l’azione repressiva dei regimi totalitarî, che rendeva la loro dimensione poliziesca (a parte la
legislazione soppressiva dei diritti politici e civili e i sistemi violenti, dalla tortura all’assassinio e alle
«spedizioni punitive», adottati in via ordinaria) particolarmente efficace. Le risposte del mondo
liberaldemocratico alle sfide di un tale avversario furono largamente incerte. Anche in Francia e in Gran
Bretagna furono molto diffuse le simpatie per Hitler e, soprattutto, per Mussolini, in quanto garanti della
repressione che aveva fermato le forze «sovversive», i «rossi», e garantito l’ordine sociale vigente reprimendo
l’indisciplina sociale e l’instabilità politica a cui apparivano troppo esposti i regimi di libertà. A sua volta,
l’intellettualità europea (e, tra essa, in particolare quella ebraica) sentì fortemente il fascino della rivoluzione di
cui l’URSS era protagonista, vide in Stalin un nuovo e più alto e conseguente Robespierre e si disaffezionò
largamente (anche per la sfiducia determinata dai cedimenti dei regimi e delle opinioni liberali e democratici)
ai valori della libertà in quanto fondati su costituzioni e regimi parlamentari. Superati gli anni della prosperità,
il decennio 1930-40 vide affermarsi in tutta l’E. dal Baltico all’Egeo (con la sola eccezione della
Cecoslovacchia) e nella Penisola Iberica una serie di regimi dominati dai ceti agrarî e dalla più o meno
pronunciata fisionomia fascista e tradizionalistica. L’evidenza di un più generale trionfo delle destre spinse, da
un lato, i comunisti della Terza Internazionale a mutare atteggiamento, invocando ora l’unità antifascista e
cessando di considerare liberaldemocratici e socialisti democratici come partecipi della spinta reazionaria e
totalitaria che si denunziava nel fascismo. Dall’altro lato, essa spinse il socialismo europeo, che pure non aveva
avuto esitazioni a respingere nella sua grande maggioranza la tentazione rivoluzionaria e le soluzioni, a loro
volta totalitarie, del comunismo, approfondendo la propria vocazione democratica, a considerare l’opportunità
di una unità delle forze democratiche e di sinistra per fermare l’espansione fascista e per assicurare un
movimento di promozione di consistenti riforme politiche e sociali. Fu l’epoca dei «fronti popolari», come
quello che nel 1936 giunse al potere in Francia e quello che contemporaneamente si affermò in Spagna. In
Spagna, però, la vittoria frontista portò alla reazione che, guidata dai militari al comando del generale
Francisco Franco, diede luogo ad una lunga guerra civile (1936-39).
Ma in realtà, la scena politica europea era sempre più dominata dalle questioni dei rapporti internazionali,
nelle quali risaltò subito l’insufficienza della Società delle Nazioni, fondata nel 1920 per assicurare una
soluzione pacifica di eventuali contrasti. Alla fine degli anni Venti si era, anzi, delineata la possibilità di
un’intesa franco-germanica (promotori Briand e Stresemann), intorno alla quale sembrò possibile costruire un
nuovo ordine europeo. Ma il panorama, insicuro benché ancora stabile, mutò dopo l’avvento al potere di
Hitler, un nuovo avvio della politica di Mussolini e l’inizio della guerra civile in Spagna. Hitler, disconoscendo
una clausola essenziale del trattato di pace, iniziò il riarmo del paese. Mussolini giudicò maturo il momento
per una grande iniziativa internazionale del suo regime, che negli anni precedenti aveva condotto una politica
di stabilizzazione economica, di grandi opere pubbliche e di provvedimenti sociali, da cui era derivato un più
forte consenso dell’opinione pubblica. Nell’ottobre 1935 egli dichiarò, perciò, la guerra all’Etiopia. Nel
maggio 1936 l’Etiopia era vinta, sottomessa e ridotta a colonia italiana col rango di Impero. La Germania, che
non aveva partecipato alle sanzioni decise contro l’Italia dalla Società delle Nazioni, approfittò della situazione
per rimilitarizzare la Renania. La reazione britannica e francese fu praticamente nulla. Ora anche la politica
tedesca assunse un ritmo più rapido. Già nel 1934 Hitler aveva esercitato una forte pressione sull’Austria, in
vista di un suo Anschluss o riunione al grande Reich tedesco. Allora Mussolini aveva reagito, fermandolo. Ma
poi fu col sostegno italiano che Hitler poté non solo realizzare l’annessione dell’Austria, ma anche quella delle
regioni della Cecoslovacchia abitate da tedeschi (i Sudeti), privando così quest’ultima di elementi essenziali
per la sua sicurezza. In seguito, Berlino fece di parte della Cecoslovacchia un suo protettorato (Boemia e
Moravia). Gran Bretagna e Francia si rassegnarono a Monaco (1938) a una mediazione di Mussolini, cui si
fece grande merito di avere evitato la guerra, che appariva nella logica dei fatti. Da Londra e da Parigi si
sperava che l’espansionismo hitleriano si sarebbe fermato. In realtà, Monaco ne fu un grande incoraggiamento
e il significato negativo di quell’accordo fu ulteriormente sottolineato dalla sottoscrizione di un’alleanza
difensiva e offensiva tra Italia e Germania (Patto di Acciaio, 1939). In Spagna, dove intanto i comunisti
avevano acquisito un’influenza determinante, vincevano i nazionalisti di Franco e instauravano un nuovo
regime parafascista. Anche per bilanciare l’espansionismo tedesco Mussolini occupò allora l’Albania,
attribuendone la corona ai sovrani d’Italia. Era evidente quanto si fosse vicino ad un limite insuperabile di
rottura. I tentativi di riavvicinamento italo-britannico e italo-francese fatti dopo la guerra d’Etiopia non si
rivelavano duraturi, mentre Hitler avanzava ora altre rivendicazioni per ottenere dalla Polonia Danzica e il
collegamento territoriale tra le due parti della Germania, separate dal «corridoio polacco» stabilito nel trattato
di Versailles. Mutato atteggiamento, Francia e Gran Bretagna si orientarono allora anch’esse a
un’intensificazione del loro armamento e diedero la loro garanzia di sostegno alla Polonia. Si giocò, quindi,
una serrata partita diplomatica. Deciso alla guerra, Hitler cercò e trovò, battendo sul tempo Londra e Parigi,
che avevano preso la stessa iniziativa, un accordo con Mosca, che con la prospettiva di reciproci vantaggi
territoriali dissolveva per lui il rischio di una guerra su due fronti e per Mosca il timore di essere giocata dalle
potenze occidentali come luogo su cui scaricare la pressione espansiva della Germania. Al Führer ciò
consentiva di iniziare il 1 sett. 1939 l’azione che doveva andare ben oltre le precedenti sue rivendicazioni ed
eliminare la Polonia come stato indipendente. Londra e Parigi onorarono allora la loro garanzia. Mussolini,
sorpreso dall’accelerazione da lui non prevista dell’azione di Hitler, proclamò un’equivoca neutralità italiana,
definita come «non belligeranza» e solo nel 1940 si schierò con Hitler, che aveva intanto piegato sia la Polonia
che la Francia. La Gran Bretagna, rimasta sola, resistette. Hitler si volse allora (giugno 1941) contro l’URSS
per eliminare l’ultima potenza militare sul continente. Non vi riuscì. Nel dicembre il Giappone attaccò gli
Stati Uniti. La guerra divenne ancor più «mondiale» di quella del 1914, e si concluse nel 1945 con la totale
sconfitta di Germania, Italia e Giappone. L’Italia perse le sue colonie e la Venezia Giulia. La Germania,
amputata di tutte le sue regioni orientali, ridotta alla metà di quel che era nel 1914, fu occupata per due terzi
da Americani, Britannici e Francesi e per un terzo dai Sovietici, mentre Berlino fu divisa egualmente e costituì
una enclave autonoma nella zona sovietica. La frontiera dell’URSS slittò fortemente verso ovest, e quella della
Polonia si spostò nello stesso senso. Per il resto rimasero in vigore le frontiere prebelliche.
Dopo di allora alcuni processi appaiono dominanti nella storia europea. In primo luogo, se la guerra aveva
messo in evidenza l’ormai indiscutibile primato degli Stati Uniti, aveva pure qualificato l’Unione Sovietica
come di gran lunga maggiore potenza del Vecchio Continente. Rapidamente apparve chiaro come non solo la
Francia, ma neppure la Gran Bretagna vincitrice del conflitto fosse in grado di sostenere il peso extraeuropeo
del suo impero e della sua posizione prebellica. L’Unione Sovietica risultava l’unica potenza europea con
effettiva proiezione mondiale. E ciò anche perché, in ancora maggior misura di prima della guerra, aveva luogo
una fortissima espansione internazionale del movimento comunista; Mosca poté così dare vita nel 1947 a una
nuova Internazionale, il Cominform. L’elemento ideologico e quello costituito dal grado di potenza globale
raggiunto dall’Unione Sovietica la fecero allora considerare in Occidente come un’«altra E.», estranea ed ostile
alla più autentica tradizione europea. Si diffuse nella maggior parte dell’opinione occidentale la convinzione
che la vera E. s’identificasse con la «piccola E.», che ricalcava, con lieve eccesso, lo spazio dell’E. carolingia. In
secondo luogo, in questa piccola E. ancor più rapidamente venivano risanate le ferite della guerra e si iniziava
un’espansione economica, che ne avrebbe fatto di nuovo un’area il cui sviluppo era superato o pareggiato solo
da quello degli Stati Uniti e del Giappone. Vi contribuì in maniera decisiva il cosiddetto «piano Marshall»,
offerta di aiuto e di impegno per la ripresa economica e il risanamento finanziario di tutti i paesi europei già
belligeranti, che gli Stati Uniti avanzarono nel 1948. L’Unione Sovietica respinse l’offerta, e costrinse a
respingerla anche paesi come la Cecoslovacchia, ricadenti nella sua sfera di influenza. Ma alla fine degli anni
Cinquanta era già evidente una netta differenza del ritmo di sviluppo rispettivo dell’Occidente e dell’Oriente
europeo, che, quindi, consolidava la contrapposizione delle due Europe. Al fattore di potenza e a quello
economico se ne aggiungeva, nel determinare lo stesso effetto, un terzo, legato alla rottura delle alleanze di
guerra, che erano state cementate ben più dal bisogno di contrastare l’espansione e le ideologie dei paesi vinti
che da effettiva solidarietà politica e ideale fra democrazie occidentali e comunismo sovietico. L’E. fu a lungo
il teatro più rappresentativo e rischioso della «guerra fredda» così iniziata. Tra il marzo 1948 e il maggio 1949
si ebbe lo sviluppo cruciale del blocco della parte occidentale di Berlino da parte dei Sovietici. Solo con un
gigantesco ponte aereo gli Stati Uniti e le potenze occidentali occupanti l’ex capitale germanica riuscirono a
superare la grave crisi politica nata da un sostanziale assedio. Nello stesso tempo nei paesi orientali ricadenti
nell’area di influenza sovietica (Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Iugoslavia, Bulgaria, Albania)
venne imposto, conculcando ogni aspirazione e manifestazione di libertà, un regime comunista. Si formò così
il campo delle cosiddette «democrazie popolari», eufemismo che non celava la netta divisione europea tra
regimi totalitarî e regimi liberaldemocratici rispettivamente a Est e a Ovest. In Grecia solo una lunga guerra
civile, fino al 1949, evitava uno svolgimento analogo. In opposizione alla forte pressione sovietica e comunista,
si ebbe prima una Unione europea occidentale (Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) e
poi, nell’aprile 1949, il Patto Atlantico (NATO) con l’adesione dei paesi dell’Unione e di Stati Uniti, Canada,
Italia, Portogallo, Norvegia, Danimarca e Islanda. Nello stesso tempo in Germania la zona di occupazione
occidentale e quella orientale si organizzavano in due stati, l’uno federale e democratico con capitale Bonn,
l’altro comunista con capitale Berlino Est. La Germania Federale aderì nel 1954 al Patto Atlantico, al quale
rispose allora il Patto di Varsavia fra l’URSS e i paesi comunisti dell’E. orientale. Fra questi non era più dal
1948 la Iugoslavia, che aveva rotto i suoi rapporti con Mosca, rifiutando la «satellizzazione» imposta di fatto
dall’Unione Sovietica nella sua sfera d’influenza. Nel 1952 erano entrati nell’alleanza atlantica anche Grecia e
Turchia. La divisione della Germania divenne, a tutti gli effetti, il principale fattore di contrasto fra le due
alleanze, contrasto consolidato dall’erezione di un muro fra Berlino Est e Berlino Ovest nel 1961. In quarto
luogo, la diminuzione di potenza europea induceva le classi dirigenti occidentali a un profondo ripensamento
della posizione internazionale dei rispettivi paesi, che si concretò in una serie di iniziative comunitarie che
prospettavano la «piccola E.» come una sempre più concreta area unitaria, capace anche di costituire un nuovo
soggetto storico. Il declino europeo era rapidamente confermato dal processo di decolonizzazione dei grandi
imperi delle antiche maggiori potenze. Iniziata con l’indipendenza riconosciuta dalla Gran Bretagna all’India
(e, in sostanza, anche ai suoi vecchi dominions), già nel 1947, e poi via via alle altre colonie britanniche, la
decolonizzazione ebbe aspetti più drammatici per la Francia in Indocina e in Algeria, per i Paesi Bassi, o per il
Belgio. Alla fine degli anni Sessanta solo piccoli resti dei vecchi imperi mantenevano lo status di colonie
europee. Ultime, a seguito di lunghe guerriglie, a ricevere l’indipendenza erano, negli anni Settanta, le colonie
portoghesi. D’altra parte, dopo il 1945, la Gran Bretagna si lasciava rapidamente sostituire dagli Stati Uniti
nei suoi impegni nelle sue antiche aree coloniali. Proprio dalla Gran Bretagna partiva nello stesso tempo
l’appello a una nuova collaborazione, che si concretò nella istituzione di un Consiglio d’Europa (5 maggio
1949), inteso come organismo di collaborazione politica fra i paesi membri. Non fu, però, la collaborazione
politica, bensì quella economica a far registrare i maggiori successi, con varie iniziative culminate prima in una
Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, tra Francia, Italia, Germania Federale, Paesi Bassi,
Belgio e Lussemburgo) nel 1951, poi in una Comunità economica europea (CEE) o Mercato comune e in una
Comunità europea per l’energia atomica (Euratom, fra gli stessi paesi) nel 1957, a cui si affiancò nel 1959 una
Associazione europea di libero scambio (EFTA), promossa dalla Gran Bretagna (con Svezia, Norvegia,
Danimarca, Svizzera, Austria e Portogallo) anche in concorrenza col Mercato comune. Un grave insuccesso
toccò, invece, nel 1954 al tentativo di una Comunità europea di difesa (CED, tra gli stessi paesi della CECA),
confermando la difficoltà di un’integrazione politica, alla quale si opponevano in pari misura le correnti del
nazionalismo ancora forti specialmente in Francia, i varî partiti comunisti e la riluttanza britannica a
rinunciare alla propria tradizione di mani libere nei confronti del continente, oltre che al perseguimento di un
rapporto speciale con gli Stati Uniti. Tuttavia, negli anni Settanta gran parte dei paesi dell’EFTA entravano
nel Mercato comune e la «piccola E.» a sei della CEE diventava in ultimo l’E. dei Dodici (con in più Gran
Bretagna, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo), con iniziative importanti come un nuovo Sistema
monetario europeo (SME) nel 1978, la messa a punto di una politica energetica comune nel 1979 e la fissazione
al 1 genn. 1993 di una fase di più stretta integrazione nella circolazione dei beni e delle persone. D’altro
canto, superate le varie resistenze, anche l’integrazione politica riprese slancio, con l’elezione di un parlamento
europeo, parallelo alla CEE, a suffragio universale a partire dal 1979 e con la frequente assunzione di posizioni
comuni sui grandi problemi internazionali. Ma la sfasatura tra economia e politica rimaneva e non permetteva
ancora di parlare davvero di unione europea.
A questi processi ad Occidente, Mosca opponeva nel 1949 la formazione di un Consiglio di mutua assistenza
economica (COMECON), che però non riuscì ad assumere un peso analogo a quello delle comunità europee
occidentali. Nell’area comunista si registravano, anzi, fermenti che andavano politicamente in senso opposto,
anche per effetto delle vicende interne dell’URSS. Qui la dittatura di Stalin toccava l’apice dopo la guerra,
culminando in quello che fu definito un culto della personalità. Alla sua morte, nel 1953, sembrò aprirsi una
fase di disgelo sia nelle relazioni fra Est e Ovest che all’interno. Nel 1956 essa assunse l’aspetto di una
destalinizzazione ad opera di Chruèãëv. Non si toccò, però, in nulla la sostanza totalitaria del regime, che,
caduto Chruèãëv, sembrò messa in ulteriore e nuova evidenza sotto Breûnev, segretario del PCUS dal 1964 e
poi presidente e maresciallo dell’URSS. Nei paesi satelliti la morte di Stalin, il disgelo e la destalinizzazione
provocarono una serie di agitazioni e rivolte (a Berlino nel 1953, in Polonia e Ungheria nel 1956, in
Cecoslovacchia nel 1968, in Polonia nel 1970 e 1976), tutte represse con la forza o con l’intervento armato
sovietico. Nella politica internazionale fasi di distensione si alternarono con fasi di aspro contrasto e di vera e
propria crisi (in particolare, per l’impianto di missili sovietici a Cuba nel 1962), benché le prime tendessero a
prevalere. Con Breûnev la politica di potenza e di espansione ideologica sovietica toccò, comunque, il
massimo. L’URSS si dotò di armamenti competitivi rispetto a quelli americani e occidentali, appoggiò i
movimenti antioccidentali in ogni parte del mondo (specialmente in Indocina e nei paesi arabi) e giunse nel
1979 a invadere l’Afghànistàn. Solo alla morte di Breûnev nel 1982 si sarebbe aperto un processo davvero
diverso.
Anche il campo occidentale subì varî travagli. La leadership americana trovò una varia resistenza nelle forze
della sinistra e del nazionalismo europei. Nel 1956 l’intervento armato franco-britannico contro la
nazionalizzazione egiziana del Canale di Suez fu osteggiato duramente e fermato dagli Stati Uniti, sancendo
clamorosamente il rispettivo ben diverso grado di potenza. In Francia si ebbe una crisi del regime
parlamentare, che portò al potere nel 1958, con una nuova costituzione presidenzialista, de Gaulle, al quale si
dovette, oltre il fallimento della CED, una politica di autonomia rispetto al Patto Atlantico e all’URSS.
Inoltre, si manifestò, nella seconda metà degli anni Sessanta, un notevole mutamento del clima politico e
culturale. Anche nel mondo cattolico si ebbe un rivolgimento profondo col papato di Giovanni XXIII (19581963) e col concilio Vaticano II da lui indetto. Nel 1968 esplose la «contestazione», una rivolta ideologica ai
valori «occidentali» quali erano stati fino allora intesi, che sembrò mettere a repentaglio la stessa presidenza di
de Gaulle in Francia. Sul tronco di essa si innestarono movimenti extraparlamentari di estrema sinistra e negli
anni Settanta anche gruppi terroristici, particolarmente forti in Germania e in Italia (dove nel 1978 fu
assassinato Aldo Moro). Negli stessi anni Settanta agitò i paesi europei occidentali una grave crisi economica,
innescata anche da una nuova politica dei prezzi da parte dei paesi produttori di petrolio, e da grandi agitazioni
sindacali, lotte sociali, dissensi clamorosi. Le spinte di sinistra, forti dopo il 1945, ma riassorbite nella
dialettica democratica durante gli anni Sessanta e Settanta, toccarono allora il massimo, così come il processo
di revisione e di critica del ruolo dell’E. nella storia del mondo moderno, esplicitato da forti simpatie e
solidarietà per i movimenti antioccidentali e anticolonialisti, per i paesi (come la Cina) che sembravano
prospettare nuovi modelli di civiltà, per cause particolari come quella del Vietnam o dei Palestinesi. In Grecia
il regime democratico era sovvertito (1967) da una dittatura militare. Nello stesso tempo il solido edificio dello
stato nazionale veniva messo in discussione da agitazioni regionali, che davano o ridavano attualità politica a
esigenze che apparivano sopite (specialmente nei Paesi Baschi in Spagna e tra Fiamminghi e Valloni in
Belgio), mentre si ponevano con forza imprevista anche tensioni internazionali, come quelle per l’Ulster tra
Irlanda e Gran Bretagna e per Cipro tra Grecia e Turchia. Nella Repubblica Federale di Germania tendenze
naturali e aspirazioni alla riunificazione nazionale si fondevano nella Ostpolitik, la nuova politica verso l’Est,
che impegnava la socialdemocrazia tedesca e il suo leader Willy Brandt in un’azione di distensione
internazionale e di cooperazione e di penetrazione economica tedesca, che sollevava più di una preoccupazione
nei paesi occidentali. E ciò anche perché nello sviluppo economico dell’E. postbellica la Germania Occidentale
si configurava da sola come un gigante economico in grado di rivestire ruoli politici non meno protagonistici di
quello rivendicato alla Francia da de Gaulle. In Italia la vicenda politica del paese, in cui era presente il più
forte partito comunista dell’Occidente, appariva fossilizzata da una mancanza di alternativa al governo dei
democratici cristiani e dei partiti centristi che dal 1947, integrati nel 1964 dai socialisti, erano al potere.
Cadevano, infine, gli ultimi regimi illiberali: in Portogallo nel 1974, ma dando luogo ad un periodo di
agitazioni, che dopo alcuni anni lasciò una solida base alla democrazia; in Spagna dopo la morte di Franco nel
1975, con passaggi graduali che durarono anch’essi alcuni anni; in Grecia nel 1974, con maggiore tranquillità,
ma soffrendo molto della questione di Cipro, che portò ad una crisi nei rapporti con la NATO.
Con gli anni Ottanta sopravvenne, poi, una serie di svolte destinate a mutare rapidamente le tendenze che
sembravano essersi duraturamente affermate dalla fine degli anni Sessanta. A Ovest si affermava una ripresa
liberal-democratica di vasto respiro, che influenzò profondamente (e in parallelo con quanto accadeva negli
Stati Uniti) l’indirizzo di governo dei maggiori paesi (Gran Bretagna, Francia, Repubblica Federale di
Germania, Italia). La crisi economica era completamente superata. Annullate le difficoltà petrolifere, lo
sviluppo economico riprendeva in proporzioni insperate e coinvolgeva paesi come la Spagna che ne erano
rimasti fino ad allora al margine. Il terrorismo andò declinando, mentre i grandi mutamenti della vita sociale
dovuti al progresso tecnico ed economico facevano sorgere esigenze nuove, di cui un tipico esempio furono i
movimenti ecologisti, diventati allora forze politiche da cui non si poteva più prescindere. Nel mondo
cattolico, pur tra molte oscillazioni, si consolidavano le riforme del concilio Vaticano II, concluso da papa
Paolo VI (1963-78). L’elezione a papa del polacco Giovanni Paolo II (il primo papa non italiano dopo 455
anni) diede nuovo slancio alle rivendicazioni cattoliche nell’E. Orientale e all’azione ecumenica e pastorale
della Chiesa. Fu, però, soprattutto a Est che le cose mutarono a fondo. Con Michail Gorbaãëv si apriva in
Unione Sovietica un’effettiva revisione del sistema, che manifestò una crisi profonda sia nelle sue strutture
materiali che nei suoi stessi fondamenti ideologici ed etico-politici. In breve tempo si ebbe una sostanziale
rinuncia alla competizione diplomatico-militare e tecnico-economica con gli Stati Uniti; fu liquidata l’impresa
in Afghànistàn; fu iniziato un disarmo parziale unilaterale. Ben più importante fu che si accettassero le spinte
riformatrici nei paesi satelliti, a cominciare dalla Polonia, dove l’elezione di un papa polacco rinvigorì la
tradizionale congiunzione fra causa nazionale e sentimento religioso e si formò un movimento politicosindacale (Solidarnoôâ), presto rivelatosi la forza di gran lunga maggiore del paese. Nel giro di pochissimi anni
queste spinte raggiunsero una consistenza tale da provocare fra il 1989 e il 1990 la caduta di tutti i regimi
comunisti nelle cosiddette democrazie popolari, l’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione della
Germania. Solo in Bulgaria, Romania e Albania, mutato nome e programma, il partito comunista pur
contestato poté mantenere il potere. Anche il Patto di Varsavia finiva con l’essere sciolto. Rivendicazioni
nazionali e democratiche si avevano nella stessa URSS, certamente accelerate dalla politica di riforma
inaugurata da Gorbaãëv con l’enunciazione di un programma di perestrojka (ristrutturazione) e di glasnostÙ
(trasparenza) del regime. I tre stati baltici annessi nel 1940, i paesi del Caucaso (Georgia, Azerbaigian,
Armenia, questi ultimi scossi da forti rivalità etniche), la Moldavia reclamarono in pratica l’indipendenza.
Intanto riprendeva più liberamente la sua vita la Chiesa ortodossa. Si profilava un potenziale problema per il
peso demografico crescente dell’elemento musulmano dominante nei paesi dell’Asia Centrale sovietica. Nella
stessa Russia propriamente detta sorgeva un movimento autonomista e nazionalista in esplicita
contrapposizione alla dirigenza sovietica; e fermenti analoghi, benché meno forti, si manifestavano in Ucraina.
Alla fine, anche la mediazione di Gorbaãëv nel portare avanti la sua azione innovatrice mostrava i suoi limiti.
Nell’estate 1991 un colpo di stato tentato da forze a lui vicine, ma più legate al vecchio regime, fallì
miseramente e lo coinvolse fino a provocarne la caduta. Clamoroso fu allora il cedimento della stessa URSS,
rinnegata da tutti i suoi componenti e mal sostituita dalla formale costituzione di una Comunità di Stati
Indipendenti. In realtà, la Russia riprendeva la sua antica personalità storica, liberalizzando sempre più le
strutture e i suoi ordinamenti e riallacciandosi alle sue tradizioni nazionali e religiose. Lo stesso, con le
variazioni imposte dalla rispettiva storia, accadeva in tutti i paesi già membri dell’URSS e ora anche
formalmente indipendenti, benché sempre più agitati da contrasti etnici; contrasti che contemporaneamente
agitavano un altro paese già comunista, la Iugoslavia, e ne provocavano la dissoluzione in varî stati
indipendenti (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia e Montenegro).
All’inizio degli anni Novanta si delineava perciò la prospettiva di una considerevole ricomposizione più
unitaria e omogenea del mondo europeo, analoga a quella prevalsa nel sec. 19 e interrotta dal 1914, sotto il
segno delle idee liberaldemocratiche, socialdemocratiche e democristiane. Tornavano in auge sia i principî
dell’economia di mercato che i valori della società industriale avanzata e «affluente», mentre dal Terzo Mondo
e dall’E. Orientale si rovesciava sulla prospera E. Occidentale, in declino demografico, una grandiosa ondata
immigratoria. Nei decennî precedenti erano ricorsi spesso i timori di una vera e propria finis Europae e i
paralleli con altri momenti ed esperienze storiche: in particolare, con la fine dell’impero romano e della civiltà
«classica». Ma ad una riflessione minimamente più approfondita risultava chiara la profonda novità della nuova
e inedita fase della sua storia che l’E. andava vivendo. La leadership tecnica e scientifica e la forza centripeta e
formativa della cultura non erano più un suo monopolio. Su questo piano l’E. si trovava a un livello medio tra
la sua ridotta forza politica e militare e la sua cresciuta e crescente forza economica e culturale. Ma soprattutto
apparivano vitali e attive molte delle idee-forza e dei valori che ne avevano sorretto lo sviluppo millenario.
Discussi in E., le idee-forza e i valori della nazione, del progresso, della libertà, della democrazia erano stati
affermati e rivendicati al di fuori di essa e costituivano largamente i principî in nome dei quali ci si era ribellati
e ci si ribellava ad essa e alla sua tradizione. Non era, quindi, lo spettro di un «nuovo medioevo» a dominarne
l’orizzonte quanto, piuttosto, il profilo di un travaglio faticoso e profondo in vista di una trasformazione che
ora più che mai, e sia pure in un quadro mondiale così mutato, riguardava insieme l’E. e il resto del mondo.
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