Estratto

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Premessa
Se pur serbassimo il silenzio
E non pronunciassimo una parola
Le nostre vesti e i nostri corpi
Ti diranno la vita che abbiamo condotto
Shakespeare, Coriolano, V, 3
Dice il poeta che le vesti raccontano la nostra storia: più difficile per
noi raccontare la storia delle vesti.
La cultura occidentale e il suo spettacolo sembrano aver minimizzato, nel terzo millennio, il problema formale del vestito, nella dissoluzione della norma e nell’accoglienza indiscriminata o senza censure
(apparenti) delle scelte individuali. Quando però la nostra formazione
intellettuale si confronta con altre culture e con esperienze spirituali
che ritengono di dover attribuire all’abito un significato profondo, sia
esso religioso, sia politico, sia probativo, ecco che le nostre certezze
sulla futilità del tema che investe le “forme dell’abbigliamento” vanno
in frantumi.
I messaggi e i comportamenti delle minoranze vengono colti dai
mass media appunto attraverso l’abito, in modo basilare: se non fosse
ancora chiaro, alludo a tutti quegli elementi dell’abbigliamento, come
il velo islamico, la kefiah, le mises paramilitari, gli abiti arancione, le
tute bianche, che sono portatori di segnali ideologici forti e dirompenti nella società del terzo millennio.
Nel comporre una storia del costume teatrale (che è un abito con
funzioni e logiche peculiari) bisogna ammettere alcuni presupposti,
per esempio che esista un oggetto riconoscibile o identificabile come
costume teatrale. Ancora occorre che il concetto ovvero il significato
così come il significante dei termini abbinati costume teatrale non siano rimasti fermi ma siano variati nel corso del tempo.
Dopo aver risposto alle sopraesposte premesse andrà indicato
l’ambito di pertinenza degli studi o meglio il campo nel quale condurre le indagini storiografiche e iconografiche. Come discipline immediatamente contigue appaiono la Storia dello spettacolo e la Storia
delle arti visive, entrambe percorribili in quelle branche che vengono
(o meglio venivano considerate) minori. Nelle arti visive, infatti, sono
dette maggiori la pittura, la scultura e l’architettura, mentre nello
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spettacolo sono considerate discipline maieutiche la drammaturgia e
la regia.
Per l’ambito del costume, tra le arti visive è fondamentale tanto lo
studio della storia del tessuto quanto la storia dell’artigianato che insieme stanno alla base dell’evoluzione dell’abbigliamento. Oggi si preferisce, anche per il peso economico e per il valore culturale riconosciuti, definire questo settore come storia della moda. La moda trascina nella disamina altre discipline di cui è permeata e sulle quali
rimanda influssi, che sono le scienze della comunicazione. La comunicazione pertiene alla moda così come allo spettacolo cosicché, in una
sorta di circolo vizioso o virtuoso (secondo i casi), comunicazione,
moda e spettacolo rimandano ciascuno agli altri due termini.
Infatti, al settore allargato della comunicazione pertengono le
scienze dello spettacolo se conveniamo che il fine dello spettacolo sia
il comunicare e che – in una sorta di anello di Moebius – la comunicazione anche non verbale sia un mezzo di espressione per lo spettacolo. La moda troverebbe nella società spunti e significati per poi restituirli sotto forma di elementi iconografici.
La storiografia dopo aver approfondito la lettura dei testi, la psicologia dei personaggi, la fenomenologia degli spazi, codificati e no,
tenta, tramite la drammaturgia e la storia dell’attore, infine di restituire il non recuperabile: la recitazione. Le tecniche attoriche del passato sono interpretate attraverso le pratiche recenti. Le teorie novecentesche del corpo hanno dilatato, o se si preferisce riconosciuto ed
esaltato, le possibilità espressive dell’attore. Applicando quest’ampia
gamma di possibilità si è cercato di rileggere le cronache degli spettacoli – del passato prossimo o lontano – per ricostruire le differenze
interpretative.
Nell’ambito di un riposizionamento dei concetti relativi allo spettacolo, l’osservazione critica degli spazi – cioè lo studio dello spazio
scenico che contiene tutti gli elementi di una rappresentazione – viene preferita a una storia della scenografia poiché quest’ultima sottintende essenzialmente una descrizione dei soli quadri scenici. Analogamente sembra opportuno allontanare la storia del costume dalla vecchia scenografia che prendeva in considerazione la costumistica, seppure come dettaglio, e vedere, dopo uno sguardo storico/cronologico
e metodologico/sincronico, se e quanto la storia del costume non
debba essere considerata una forma di conoscenza delle tecniche attoriche.
Sul corpo dell’attore in movimento, nel corso dei secoli, sono passati ornamenti di forma e spessore variabili: alcuni finalizzati ad accrescere ed ampliare la forma del corpo nello spazio, come per esem12
PREMESSA
pio nell’abito a panier settecentesco e pure nel costume con stecche
di Schlemmer (prima metà del Novecento); altri ornamenti, al contrario, si impegnano a svelare la forma essenziale e pura del corpo,
come il kiton greco, il nudo novecentesco, o la calzamaglia che riproduce lo scheletro corporeo. Entrambe le chiavi stilistiche risultano
efficaci a studiare la storia dell’attore e la presenza scenica del corpo
performante.
Di quelli che abbiamo volutamente definito ornamenti, ma possiamo più banalmente chiamare costumi, spesso, mancano o sono in misura insufficiente i documenti.
Mentre in alcune discipline filologiche ci si pone il problema di
come utilizzare la strumentazione elettronica ora disponibile, per catalogare, conservare e diffondere il patrimonio dei beni artistici e culturali, nei settori dello spettacolo, della musica, della prosa e del cinema, stiamo ancora definendo la tipologia dei documenti pertinenti
alla storia dello spettacolo, soprattutto di quelli provenienti dalle fasi
produttive. Nella fase transitoria durante la quale si pongono limiti e
distinguo tra le testimonianze provenienti da quella che è universalmente definita cultura materiale dello spettacolo, i documenti del presente e del passato vanno scomparendo.
Le ragioni di tale perdita sono molteplici: dalla trascuratezza (sottovalutazione del valore e del significato del costume) alla sopravalutazione dell’evidenza (il costume è sotto gli occhi di tutti e quindi
non occorre parlarne) fino all’involontario occultamento del documento o della testimonianza. Per esempio quando non c’è apparente
differenza con l’abito quotidiano, viene demandato alla funzione il
compito di distinguere un vestito civile da un costume teatrale.
In qualche situazione abbiamo anche dissimulazioni deliberate. Si
nasconde il costume là dove l’attore non vuole essere identificato con
la sua professione ma desidera essere divulgato o conosciuto nei suoi
abiti civili. Questo atteggiamento appartiene alla lunga fase nella quale l’attore si sforza di farsi accettare dalla società: a partire dalle comiche letterate del tardo Cinquecento fino alle attrici del Novecento
che preferiscono il vestito d’alta moda (stigma di alta posizione sociale) a quello disegnato dal costumista. Esistono poi i documenti infedeli: se le incisioni tramandate non possono essere considerate puntuali testimonianze teatrali, ma modelli di un genere di teatro, anche
le foto ritoccate in studio (o più facilmente oggi, al computer) con
finalità promozionali più che testimoniali di un costume non aiutano
lo storiografo del costume ad ampliare correttamente la disciplina.
La storia del costume corre parallela, come un fiume sotterraneo,
a quella dello spettacolo: c’è sempre ma è riconosciuta solo per alcu13
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ni tratti: infatti, nell’ultimo cinquantennio il costume si presenta così
indefinibile – nella dissoluzione della forma codificata – che secondo
alcuni critici, ma anche taluni giovani praticanti, non avrebbe valore,
come se l’aspetto dell’attore in scena non fosse strettamente vincolato
all’apparenza e perfino alla mancanza di un costume.
L’interesse per l’abbigliamento di “altri”, che possono essere altri
eserciti, altri ordini religiosi e altri popoli, accompagna l’incremento
del numero e l’ampiezza delle esplorazioni geografiche versi nuovi
lontani Paesi. Il trattato De gli abiti antichi et moderni di diverse parti
del mondo (comparso a Venezia nel 1590) venne ristampato alla metà
dell’Ottocento quando accanto alla curiosità si afferma il concetto di
evoluzione storica unitamente alla consapevolezza di un passato differente e soprattutto discontinuo rispetto al presente. Il primo trattato
sistematico è quello che Albert Racinet pubblica a fascicoli su un periodico, alla fine dell’Ottocento: Le Costume Historique. Alla fine ne
risulterà un’opera in sei volumi. In Italia, per esempio, un periodico
specializzato come “Il teatro illustrato” annunciava la pubblicazione
di tavole che con i «Costumi dell’antico Egitto contenevano i più differenti costumi di quei tempi, cominciando dal contadino, salendo
fino al re», in seguito a «L’importanza che va giorno per giorno acquistando l’allestimento scenico di un’opera, la verità storica di un’opera, la verità storica dei costumi presentati al pubblico» (numero di
febbraio, inizio della stagione teatrale, 1882).
La storia del costume per lo spettacolo, quindi, è partecipe di
questa consapevolezza, a partire dall’Ottocento. Nei secoli precedenti
e fino agli anni della rivoluzione francese, come vedremo, l’abito in
scena condivide la contemporaneità dello spettatore e dell’attore, riservando al personaggio una connotazione geografica e storica allusiva e metaforica.
Un periodo – rispetto alla storia complessiva del teatro e del suo
costume – relativamente breve è quello che vede il costume legato
alla realtà storica, se già agli inizi del XX secolo i movimenti di avanguardia dichiarano di preferire costumi di volta in volta astratti, geometrici o informali secondo le differenti teorie artistiche.
Nella seconda metà del secolo prosegue tale tendenza nel reclamare costumi metonimici o traslati nelle forme, in connessione a
quella perdita della norma che caratterizza l’intero ambito dello spettacolo. Da ultimo le contaminazioni tra i generi teatrali, gli scambi
interetnici e interculturali hanno coinvolto il costume e quasi travolto
il suo aspetto.
Resta fermo un punto: non è possibile sottrarre alla vista dello
spettatore il costume; anche il nudo è un costume e forse il più appa14
PREMESSA
riscente. Perciò la conoscenza del costume è altrettanto basilare per
gli studi sullo spettacolo quanto quella del performer, sebbene molto
meno praticata.
Cesare Molinari e Vittoria Ottolenghi in Leggere il teatro (Firenze 1985) hanno tentato una definizione semiotica del costume, il
quale può rapportarsi da un lato «agli usi vestimentari di una cultura
determinata (storicamente, ma, al limite anche fantasticamente) dall’altro il costume non è rapportabile ad alcuna cultura. Nel primo
caso possiamo» (p. 90) riferirci alle definizioni stabilite dal linguista
Jakobson distinguendo «tra costume metonimico e costume metaforico: sarà metonimico quel costume [...] in cui il riferimento alla cultura data (ma anche al ruolo sociale, alla classe, ecc.) viene affidato
soltanto ad un singolo elemento» va precisato «perché la metonimia
sia leggibile occorre che l’elemento qualificante emerga con sufficiente evidenza su un contesto unitario» (p. 91). Quindi portano l’esempio del berretto militare che sta per l’intera divisa, anche su un
abito neutro.
Il costume metaforico è di più difficile definizione in quanto il
vestito è già di per sé metaforico di un contesto sociale o culturale
ecc.; tuttavia quando un costume non è strettamente connesso all’ambiente nel quale il dramma si colloca, cronologicamente o geograficamente, ma viene messo in relazione con altra epoca o situazione, si
può parlare di costume metaforico. Ancora da Leggere il teatro: «Luchino Visconti realizzò una messa in scena dell’Oreste Alfieriano nella
quale il riferimento ambientale non era dato dai tempi eroici del mito
greco, ma dalla cultura settecentesca nella quale si era formato l’autore del testo, intese cioè rappresentare il gusto e lo stile rococò, e lo
fece vestendo i suoi attori in costumi vaporosi e leziosi» (p. 92).
Alla fine, l’anacronismo del costume risulta il più forte strumento
per affermare che un certo tema spettacolare riveste un valore assoluto, fuori dal tempo e quindi eternamente attuale. L’espressione più
significativa e la funzione principale del costume non sono quindi
quelle di far riconoscere un personaggio al suo apparire in scena, ma
quelle di portare di fronte al pubblico significati universali. Il costume è l’estrinsecazione di forme corporee sensuali, secondo codici figurativi primordiali o inediti, in una sorta di rapporto amoroso nel
quale l’attore seduce e conquista l’anima dello spettatore.
Lo studio delle testimonianze del passato è comunque necessario,
sia che si debba analizzare un costume realistico che uno metonimico
o metaforico: infatti, nel passato il “tradimento” perpetrato ai danni
della storicità non è consapevole, anzi spesso incontreremo definizioni di “costume all’antica” che lasciano stupefatti.
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La prima e unica pubblicazione italiana sulla Storia del costume
teatrale in Europa, edita da Maria Luisa Angiolillo nel 1989, ha il merito di aver tracciato un percorso completo dalle origini alla fine del
Novecento, benché sia priva delle indicazioni utili a trovare le fonti
originali, edite e inedite. Al contrario sono ricchi di rimandi scientifici gli approfonditi saggi sul costume teatrale che Renzo Guardenti ha
pubblicato nella collettiva Storia del teatro moderno e contemporaneo,
diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino. Per avere il quadro complessivo occorre che gli interessati al tema specifico consultino tutti i tre volumi, nei quali per necessità editoriali l’excursus storico è stato diviso; frequentemente si farà ricorso a notizie e teorie
esposte nelle due pubblicazioni, al momento fondamentali per lo studio del costume.
È doveroso citare, prima di affrontare il tragitto storico, il più importante strumento italiano per lo studio diretto delle fonti documentarie. Si tratta della collezione di abiti antichi, collocata presso la Galleria del Costume, aperta nel 1983 presso Palazzo Pitti a Firenze. In
tale sede vengono custoditi e messi in mostra in serie cronologiche o
tematiche, a rotazione – dal momento che le sale non sono sufficienti
a esibire tutto il patrimonio documentario – alcuni dei seimila pezzi
originali tra accessori, calzature e soprattutto abiti, religiosi, civili, militari, costumi di teatro e cinema. La Galleria del Costume, fondata
da Kirsten Aschgreen, è stata destinataria di diverse donazioni, quali
quella di donna Florio, quella del sarto-costumista di teatro e cinema
Umberto Tirelli e, tra le ultime, quella dello stilista Gianfranco Ferrè
nel 2000.
Esistono ulteriori centri di eccellenza per la conservazione di testimonianze teatrali che comprendono un numero minore, ma altrettanto interessante di costumi. Presso la Fondazione Cini di Venezia,
per esempio, si trovano alcuni abiti di Eleonora Duse, insieme a significativi reperti cartacei relativi alla grande attrice e al suo entourage.
Venezia conserva nel palazzo appartenuto a Mariano Fortuny
molto materiale documentario sull’attività dell’artista che spaziava
dalla scenografia alla costumistica, dalla fotografia al design per l’arredamento. Queste collezioni, note ai ricercatori, pur nella loro qualità
museale vincolate ad ambiti delle arti minori (moda, tappezzeria, fotografia ecc.) da pochi anni vengono considerate, anche alla luce della
Storia del costume. Gli immancabili problemi economici limitano la
costituzione di ulteriori collezioni provenienti da fondazioni liriche,
da teatri stabili pubblici o privati della cosiddetta prosa, benché queste siano indispensabili a ricostruire la cultura materiale dello spettacolo.
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PREMESSA
Lo studio dell’abito dello spettacolo e della festa poi ci può perfino
aiutare a scoprire le affinità e i collegamenti anche meno noti con culture lontane. La conoscenza, infatti, facilita l’accettazione di modi,
aspetti e usanze insolite ed estranee alla nostra tradizione, non dimenticando che l’attore stesso, per secoli, è rimasto estraneo al corpo sociale, un diverso con abitudini e “vistosità”, fuori dalla norma corrente.
Quando ci si propone di fare un excursus temporale ampio si rischia di lasciare scoperte alcune zone; quindi anche questo manuale
non può essere indenne da tale difetto, pertanto l’autrice dichiara di
esserne consapevole a priori. Si chiede perciò ai futuri studiosi e soprattutto ai giovani, ai quali queste pagine sono destinate, di entrare
nel novero dei cultori del costume teatrale, per farlo uscire dai recessi
nei quali è ancora custodito. Molte zone d’ombra teoriche e documentarie limitano lo sviluppo delle conoscenze sulla storia del costume: archivi e magazzini teatrali aspettano di essere aperti e resi pubblici da ricercatori appassionati che prestino al costume e ai suoi artefici l’attenzione intellettuale che l’autrice di questa analisi degli Oggetti per esibirsi nello spettacolo e in società crede meritino.
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