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GOSTO
U
na sera di fine settembre,
seduto davanti all’uscio di
casa, vidi passare un anziano signore che portava una
brocca sotto braccio. S’indirizzava verso la fontana non so come,
ma quella brocca in terra cotta,
risvegliò in me vecchi e diletti
ricordi, quasi intristita la mia
mente, si portò ritroso nel tempo
riportandomi alla mia prima infanzia.
In settembre, i vecchi e saggi
contadini del mio paese, mettevano fuori della porta le botti, aspettando le prime piogge. Aspettavano quell’acqua, che doveva stringere le doghe ai cerchi, e in sardo
si diceva (ponnere in linna sos
carradellos). Così quello era il segnale, che forse tanti ragazzini
come me aspettavano, la vendemmia era alle porte (s’innenna). Ottobre era un mese stupendo per un
bimbo di cinque anni come me,
pieno di gioia.
Libero da qualsiasi pensiero
ostile, partecipavo alle varie vendemmie che si svolgevano nel
mio paese, invitato dai molteplici parenti ed amici della mia famiglia. La vendemmia, si svolgeva con un’allegria inaudita e anche la natura pareva condividere
questa gioia, regalando stupende
giornate di sole. Ricordo, in particolare quando si vendemmiava
la vigna che era stata del nonno,
ed ora era di mio padrino (sa inza
de sas albinzos).
La vendemmia era vicina e si
avvertiva nell’aria non so spiegare come ma da circa dieci giorni
prima iniziavo a chiedere alla
mia mamma quando sarebbe stato il fatidico giorno.
S’invitavano parenti ed amici,
stando attenti a non tralasciare
alcuno, in fondo anche i grandi
aspettavano l’appuntamento annuale con gran fervore. La notte
precedente mi era quasi impossi-
I
Cultura
2005
l critico d’arte Vittorio Sgarbi è
un profondo conoscitore della
pittura e degli artisti sardi delle
varie epoche. (“C’è tutta un’arte
sarda del Novecento bellissima, a
dimostrare – ha scritto – che l’isolamento geografico non corrisponde affatto a provincialismo, semmai a provincia, specificità locale,
voluta diversità dal centro del sistema”.
Sgarbi – ci segnala Nerio Spiga ha il merito di aver riscoperto due
anni fa un grande pittore che durante gli anni trascorsi dalla sua
morte (1942) era quasi sconosciuto
sia dagli intenditori che dal pubblico quasi sconosciuto, Brancaleone
Cugusi da Romana, considerato ora
un pittore di levatura nazionale e
internazionale. Dopo la riesumazione della sua grande personalità
artistica da parte del critico a Brancaleone Cugusi sono state dedicate
due importanti mostre, la prima a
Cagliari e la seconda a Sassari.
Da poco Sgarbi ha scoperto
un’altra ‘perla’ della pittura sarda Antonio Debidda. Per il critico
d’arte “Debidda ricorda alcuni
importanti artisti italiani degli
anni Trenta e Quaranta, Ottone
Rosai, Mario Mafai, Felice Casorati soprattutto”. Le opere di Debidda “evocano una intensa e severa spiritualità. sono nature morte di
dimensione ultrareale dove c’è più
di quanto la realtà ci consente di
vedere. Al rito della semplicità veritiera, si sostituisce quello della
varietà simbolica”.
Le opere di Debidda sono state
esposte al Museo d’arte contemporanea Masedu di Sassari in una
mostra intitolata “Omissis”.
Debidda,
sessantacinquenne,
vive e lavora a Sassari da trentanni.
La vendemmia
ricordi di un ragazzino
bile dormire elettrizzato da quel
fatto, che l’indomanni era vendemmia (sa innenna). Si iniziava
di buon’ora, gli adulti ed i ragazzini andavano prima delle donne
e dei bambini. Il sole era alto nel
cielo, ed il calore dei suoi raggi
aveva asciugato le viti con i suoi
frutti dalla rugiada del mattino,
ora uomini iniziavano il taglio,
affidandosi a dio con un segno di
croce (si sinnaiana). Mia madre,
ricordo mi prendeva in braccio,
lungo la mulatiera che portava
alla vigna (de sas albinzos). Ogni
tanto sostava per riposare ed assieme alle altre madri, cantava (a
duru duru). Mi sembra ancora di
sentirle quelle giovani voci cariche di speranza. Le vedevi cariche di mille fardelli, cestini, te-
glie che nascondevano prelibatezze, e vettovaglie d’ogni genere ed in più noi, ma tanta allegria
ed ingenuità nei loro sguardi, che
son rimasti vivi e scolpiti nella
mia memoria. Si continuava a
camminare e si capiva che era vicina la destinazione dall’odore
stupendo che tralasciava nell’aria il pesto di lardo, pesto no
degli uomini, preparava scaldando un machete sul fuoco e battendo sul lardo, assieme all’aglio
ed al prezzemolo serviva per dare
un inconfondibile sapore al piatto tipico del nostro paese: il pane
bollitto (pane oddidu) quando la
carovana giungeva finalmente
alla vigna, gli uomini sospendevano per un attimo la vendemmia
e venivano giù a dar man forte
alle donne, così creando la scusa
dell’ennesima bicchierata.
Le donne, s’indaffaravano per
cucinare e gli uomini ritornavano
alla vendemmia, (sa innenna).
A noi bambini, sicuramente per
instradarci, ci riempivano d’uva
(sa pischeduzza), cesto molto piccolo fatto di canne intessute con
fili di roverella. Il compito a noi
assegnato, anche se in scala minore, era quello che avevano anche i
grandi, portare l’uva alla casetta
(pinnetta), compito che svolgevamo molto orgogliosamente.
L’ora di pranzo, rimaneva sicuramente la più bella. In genere
si preparava due tavoli, uno per i
bambini ed uno per gli adulti. Nel
paiolo, bolliva l’acqua assieme al
pesto del lardo, e la carne di pecora. Venuti a cottura, si serviva
la pietanza in vassoi di sughero
chiamati (taulazinos). Ognuno di
noi, con forchette di canna tagliate per l’occasione, si poteva servire. La mancanza di un proprio
piatto, ti faceva sentire ancora di
più l’affetto per quei cuginetti e
zii. Ancora una volta, si marcava
con un timbro indelebile, quello
status di famiglia matriarcale.
Pescata la carne dal paiolo, s’immergeva nel brodo il pane tipico
del mio paese, (su zicchi). (Le
donne, preparavano questo pane
in casa cucinandolo nei forni a
legna). Venuto a cottura si ripescava dal brodo e servito a tavola, incipriato di buon pecorino.
Quanto era saporito!
In mostra a Sassari
le opere di Antonio Debidda
il pittore scoperto da Sgarbi
Gallurese di nascita, sin da piccolo
fino alla giovinezza e poi anche
durante gli anni della maturità racconta Nerio Spiga - ha vissuto in
vari centri dell’isola, prima per i
frequenti trasferimenti per motivi di
servizio cui è legato il lavoro del
padre, poi le sue varie residenze per
motivi di studio o, infine, della sua
professione di docente di scuola
media: da Martis a Pattada, da Calangianus a Abbasanta, da Oristano
dove compie parte degli studi tec-
nici a Perfugas. E poi Sedini e Aggius, Ardara e Ozieri, Codrongianus ed Erula, Chiaramonti, Tula,
Laerru, Nughedu Santa Vittoria,
Sorso, Sennori e Alghero. Traendo
da ciascun luogo, da quella gente,
da tradizioni e usanze, dalle parlate
e dalle varianti lessicali e vocali, ma
soprattutto dal carattere di quegli
abitanti, l’intera essenza e lo spirito e la fisionomia dell’autentica anima sarda.
Da giovane studente a Orista-
no è affascinato dalla potente
pittura di Carlo Contini e da
quella più moderna e plastica di
Antonio Corriga. Si trasferisce a
Roma negli anni Sessanta e studia all’Istituto d’arte con Felice
Ludovisi e con quell’Alberto Ziveri ch’era appartenuto alla famosa ‘scuola romana’.
Debidda – ha scritto Sgarbi - affida alla dialettica fra forma e colore una visione di sintesi dei paesaggi della sua Gallura, mobilissimi, quasi liquidi, nel tentativo di
trovare la formula di un equilibrio di natura tanto stupefacente in
una simile varietà d’aspetti”. Ritrattista e paesaggista, raffinato acquerellista, padrone delle varie
tecniche pittoriche, dal disegno
alla tempera, dall’olio all’affresco, Debidda, già titolare di cattedra di Disegno e Storia dell’Arte al liceo statale “G. Spano”
di Sassari, scrittore, poeta, scrive
penetranti analisi di critica d’arte.
Nella mostra “Omissis” l’artista
ha proposto cinquantacinque opere
imponenti come dimensione – diverse di esse superavano i due
metri e mezzo per due metri – e
come tematica che scorreva sul
filo del sociale. “L’arte è anche
dolore”, ha detto l’artista sardo
Buffe e presenti nei miei ricordi sono le facce degli uomini,
rosse dal vino e dal caldo quanta
allegria nei loro visi. La giornata
giungeva al termine, ma nessuno
osava dichiararla tale, se non per
il tramonto che ormai era giunto.
Il padrone di casa ringraziava
tutti, consegnando ai partecipanti una piccola parte della vendemmia (sa palte), anche ai più
piccini. In genere si regalava uva
da tavola, che ognuno a casa sua,
legava con della raffia per essere
appesa all’aria, nell’attesa del
Natale (Pasca nadale) quando in
genere si consumava. I grandi, si
davano appuntamento al prossimo anno: “ad annos mezzus”, “sì
deus cherede”si rispondeva quasi esorcizzando quell’augurio.
Tutto improvvisamente mutò nel
cuore degli uomini: iniziarono a
comprare l’uva dalle grosse
aziende perché conveniente piuttosto che zappare le loro vigne.
Nel cuore della gente comparve il
demone del denaro e tutto si sfaldò incluse le famiglie. Ora non
c’è più tradizione, né sentimento
vien riposto su azione alcuna. Il
tutto all’insegna del gran progresso, nulla è rimasto all’uomo
e per l’uomo, non vi son più vigne nel mio paese da vendemmiare. Vorrei rivedere, quei volti ingenui di madri, che allegre
cantano speranza ai figli.
Vorrei rivedere, quei visi allegri di gioia e vino, dei nostri padri. Nulla è rimasto del nostro
patrimonio fatto di tremila anni
di cultura contadina, tutto bruciato in trent’anni. A me è rimasto
solo il ricordo e un gran vuoto
dentro di me, non so cosa potrò
trasmettere ai miei bambini. Racconterò i miei ricordi, e penseranno, in cuor loro d’avere un
buon padre che racconta delle
belle fiabe per farli star buoni.
Salvatore Sanna
durante la conferenza stampa di
presentazione della mostra. “Non è
forse dolore, lacerante dolore – ha
aggiunto – se un pittore, chi vi
parla o un qualsiasi altro pittore,
oltre alla terza torre come urlo di
dolore di tutta l’umanità contro gli
orrori della guerra e delle guerre di
oggi e di sempre, dipinge sulla
tela una borsa di pelle aperta dalla
quale sono usciti sparpagliati qua e
là su un marciapiede di una città
che può essere Cagliari o Sassari,
Roma o Milano, oppure Bologna, e
accanto ad essa dei mazzetti di fiori che non appassiranno mai perché resteranno per sempre bagnati
dalla commozione e dalla pietà
della coscienza civile, morale,
umana e sentimentale dei cittadini italiani, oltre che dalla solidarietà presente e futura della storia e
del tempo in nome del sacrificio
magari di D’antona, di Marco Biagi, di Bachelet e di tanti altri?”.
“L’arte però – ha proseguito l’artista sardo – è soprattutto bellezza e
amore, poesia e passione, invenzione scenica di racconto e narrazione, evocazione e memorie, ricordi, sentimenti e affetti non obbligatoriamente soltanto autobiografici dell’autore, ma anche vostri, di ciascuno e di tutti”.
La mostra – segnala Nerio Spiga
- ha fatto registrare un clamoroso
successo di pubblico. Oltre diecimila sono stati i visitatori venuti anche
da luoghi di Sardegna lontani da
Sassari che hanno lasciato testimonianza delle emozioni provate.
Per Vittorio Sgarbi “in tutte le
opere di Debidda, qualunque sia il
soggetto, si sente il silenzio e la
musica, si afferma il senso di religiosità e umanità, che caratterizzano la Sardegna e le sue genti”.