Capitolo Primo Diritto e ordinamento giuridico Sommario: 1. Diritto e società. - 2. Il concetto di diritto. - 3. L’ordinamento giuridico. - 4. La norma giuridica. - 5. Il diritto costituzionale. 1. Diritto e società I gruppi sociali organizzati sono composti da una pluralità di persone che fanno capo ad un sistema di regole che ne disciplinano la vita di relazione (normazione). Tali regole devono essere prodotte da un potere sovrano e istituzionalizzato che assicuri l’effettiva realizzazione degli scopi comuni (organizzazione) e che abbia capacità di coazione (attraverso l’irrogazione di sanzioni in caso di trasgressione) e che sia riconosciuto quale autorità sovraordinata, finalizzata al perseguimento dell’interesse generale (effettività). Se esistono tutti questi presupposti siamo di fronte alle «norme giuridiche» e ad un ordinamento giuridico che disciplina la vita di relazione di un gruppo sociale stabile (altrimenti detto comunità) su un determinato territorio. Si noti come fenomeno sociale e fenomeno giuridico siano reciprocamente collegati: come quest’ultimo si afferma solo laddove sorge una aggregazione umana, così lo sviluppo della società, per non cadere nell’anarchia, deve rispettare una serie di regole che disciplinino i rapporti fra i soggetti che la compongono (secondo l’antico brocardo ubi societas ibi ius). 2. Il concetto di diritto A) Significato e interpretazione Il concetto di diritto, nella sua accezione più elementare, rappresenta un «complesso di regole di condotta che disciplinano i rapporti tra i membri di una collettività, in un dato momento storico» (CARETTI-DE SIERVO). Nel linguaggio giuridico il termine «diritto» può essere utilizzato in almeno due diversi significati: 1. in senso soggettivo, indica una pretesa del soggetto all’applicazione e al rispetto delle norme giuridiche; 2. in senso oggettivo, designa un insieme di norme giuridiche (che costituiscono l’ordinamento giuridico). 8 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato Il «diritto» nasce contestualmente al consolidarsi delle prime stabili aggregazioni umane. La necessità di una organizzazione comune, preordinata al perseguimento di finalità di sopravvivenza e di sviluppo, impone di disciplinare i rapporti fra i consociati. Parallelamente, si è sviluppato un articolato complesso di regole giuridiche, che si è evoluto in sistema di norme, il cui scopo è quello di assicurare la pacifica convivenza nell’ambito della comunità. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario garantire non solo la certezza del diritto, ma anche la certezza della sua osservanza, attraverso l’imposizione di comportamenti intersoggettivi caratterizzati dall’obbligatorietà. B) Fondamento e funzioni Il fondamento del diritto risiede nella «convinzione collettiva» della sua necessaria osservanza, essendo indispensabile per la sopravvivenza ed il funzionamento della società. Quanto alle funzioni che il diritto esplica, è possibile individuare tre grandi settori di intervento (AMATO-BARBERA): 1. la repressione dei comportamenti socialmente pericolosi; 2. l’allocazione di beni e servizi; 3. l’istituzione e l’organizzazione dei pubblici poteri. Queste funzioni sono rispettivamente riconducibili a tre grandi branche del diritto: il diritto penale, il diritto civile e il diritto costituzionale. 3. L’ordinamento giuridico L’ordinamento giuridico, come detto, costituisce un insieme di norme dirette a disciplinare una collettività organizzata di persone; in particolare, si compone di norme vincolanti dotate cioè di sanzioni che si applicano in caso di una loro eventuale violazione. Il concetto di ordinamento giuridico è stato variamente interpretato a seconda che si metta al centro dell’analisi: a) la norma intesa come l’elemento fondante l’organizzazione sociale (cd. normativismo): secondo tale teoria, che vede Kelsen quale suo esponente principale, l’ordinamento giuridico è un insieme di norme giuridiche ciascuna delle quali è legittimata da altre norme superiori. L’ordinamento giuridico, infatti, è concepito secondo una struttura piramidale che trova il suo vertice in una norma fondamentale astratta (Grundnorm) da cui derivano tutte le altre norme; b) l’istituzione quale fonte produttrice del diritto (cd. istituzionalismo): tale dottrina, che ha avuto Santi Romano come massimo rappresentante, considera le norme giuridiche il risultato dell’organizzazione sociale. L’ordinamento giuridico, quindi, si identifica con in corpo sociale inteso come «istituzione»; c) la decisione quale origine dell’ordinamento (cd. decisionismo): il presupposto di tale concezione, rappresentata da Schmitt, è costituito dal momento della Capitolo Primo: Diritto e ordinamento giuridico 9 «decisione» su cui si fonda la «sovranità» del potere politico e giuridico. Diritto e potere riguardano esclusivamente la persona che possiedono «l’autorità» di decidere le regole della convivenza non solo in situazione di normalità ma soprattutto nello «stato di eccezione» (guerre, rivolte etc.). 4. La norma giuridica A) Caratteri La norma giuridica costituisce una regola precostituita che disciplina in astratto la condotta dei consociati. Le norme giuridiche presentano i seguenti caratteri peculiari: — generalità: poiché si rivolgono alla generalità degli individui, o ad un gruppo più o meno ampio di essi (ad es. particolari categorie sociali: leggi riguardanti i combattenti, i pensionati etc.); — astrattezza: in quanto prendono in considerazione dei casi astratti (fattispecie astratte), a cui dovranno poi ricondursi singoli i casi concreti che gli apparati amministrativi e giudiziari devono affrontare; — novità: poiché pongono «prescrizioni o determinazioni prima inesistenti o, se queste erano già vigenti, le ripropongono mutandone la fonte», ovvero disciplinando in modo diverso la situazione o il comportamento (MAZZIOTTI); — esteriorità: poiché oggetto della disciplina normativa è l’azione che il soggetto manifesta all’esterno, a nulla rilevando i motivi, psichici o morali, che spingono l’individuo ad agire; — coercibilità (o imperatività): in quanto la loro osservanza da parte dei destinatari è assicurata dalla previsione di una sanzione che l’ordinamento prevede nella ipotesi di violazione; — positività: perché sono poste in essere in un determinato momento e per un determinato gruppo sociale dagli organi e dai soggetti a ciò legittimati. La «positività» va intesa anche come «effettiva vigenza» di una norma in un dato momento e contesto; — intersubbiettività: poiché creano una rete di relazioni che interessano tutti i soggetti che fanno parte di un determinato ordinamento. B) Elementi essenziali Dalla definizione della norma giuridica, intesa come regola di comportamento obbligatoria per tutti i consociati, si evincono gli elementi essenziali che contribuiscono a differenziarla da tutte le altre norme: a) il precetto, ovvero il comando con cui si impone un determinato comportamento, che può essere positivo (es. paga il tuo debito) o negativo (es. non rubare); b) la sanzione, ovvero la reazione dell’ordinamento all’inosservanza del precetto da parte del destinatario. 10 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato C) Classificazione Delle norme giuridiche si possono operare varie classificazioni: a) in base al contenuto, si distinguono in: — proibitive, se contengono un divieto (non rubare); — precettive, se contengono un comando (paga il debito); — permissive, se concedono delle facoltà di cui il singolo può fare uso o meno (facoltà di ricorrere in appello avverso la sentenza di primo grado); b) in base alla derogabilità (cioè alla possibilità, per i destinatari, di non seguirle), si distinguono in: — dispositive, se regolano un rapporto, ma possono essere liberamente modificate dalle parti (ad esempio il comma 2 dell’art. 1282 c.c. sancisce: «Salvo patto contrario, i crediti per i fitti e pigioni non producono interessi se non dalla costituzione in mora»); — suppletive, se regolano un rapporto solo in mancanza di una espressa volontà delle parti (ad esempio l’art. 1063 c.c. che sancisce: «L’estensione e l’esercizio delle servitù sono regolati dal titolo e, in mancanza, dalle disposizioni seguenti...»); — cogenti (o imperative, o assolute, o di ordine pubblico), se non possono essere disapplicate (derogate) neppure mediante l’accordo degli interessati; c) in base alla sanzione, si distinguono in: — perfette, se munite di sanzione; — imperfette, se prive di sanzione. Qual è la differenza fra norme giuridiche e norme sociali? Le norme giuridiche si distinguono dalla generalità delle altre regole di comportamento (norme sociali) per le seguenti peculiarità: — individuano gli interessi e le finalità che il gruppo sociale considera prioritari; — stabiliscono le modalità attraverso le quali tali interessi devono essere perseguiti e i limiti che devono essere rispettati; — dispongono precise sanzioni nel caso di inosservanza dei precetti da esse stesse dettati. 5. Il diritto costituzionale Il diritto costituzionale costituisce quella branca del diritto che studia i principi e le norme fondamentali della vita dello Stato, dei cittadini e di tutti gli altri soggetti della comunità. In particolare ha per oggetto le norme dettate dalla Costituzione, il documento fondamentale che raccoglie le più importanti norme che il gruppo sociale organizzato si è dato, attraverso un patto tra cittadini e istituzioni. Il diritto costituzionale italiano riguarda le norme che disciplinano: a) le fonti del diritto, cioè tutti gli atti o fatti dai quali traggono origine le norme giuridiche; Capitolo Primo: Diritto e ordinamento giuridico 11 b) i diritti e i doveri dei cittadini, ossia quei diritti basilari al cui rispetto sono tenute tutte le norme giuridiche; c) l’organizzazione costituzionale dello Stato, cioè le relazioni che intercorrono fra tutti gli elementi che compongono lo Stato (popolo, territorio e governo) e quelle che fanno capo agli organi costituzionali (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Corte costituzionale, Regioni); d) le garanzie costituzionali, ossia quegli strumenti e quelle autorità che vigilano sull’osservanza del del patto fondamentale che è alla base della nuova società italiana. Glossario Certezza del diritto: principio in base al quale il cittadino può conoscere preventivamente la valutazione giuridica di una condotta e, quindi, le eventuali conseguenze sanzionatorie. Tale condizione è realizzabile solo in presenza di norme giuridiche generali e astratte, chiare e intelligibili, pubbliche e non retroattive, prive di lacune e antinomie. Ordinamento statale: modello principe dell’organizzazione giuridica, la maggiore fra tutte e l’unica portatrice di interessi generali. Le altre comunità presenti sul territorio, invece, perseguono obiettivi particolari, come ad esempio un’associazione sportiva, o territorialmente limitati, come nel caso delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Lo Stato, pertanto, rappresenta l’ambito in cui la molteplicità trova l’unità e i configgenti interessi di diverse organizzazioni trovano sintesi e armonia, contemperandosi ed eventualmente limitandosi per lasciare spazio all’interesse generale. Capitolo Secondo Lo Stato Sommario: 1. Ordinamento politico e Stato. - 2. Gli elementi costitutivi dello Stato. - 3. Il popolo e la cittadinanza. - 4. Il territorio. - 5. La sovranità o potere supremo. - 6. Sovranità e globalizzazione. 1. Ordinamento politico e Stato A) Definizione e natura giuridica Lo Stato rappresenta la forma di organizzazione del potere politico cui spetta l’uso legittimo della forza, su una comunità di persone all’interno di un determinato territorio. Lo Stato, pertanto, si configura come istituzione: — politica: perché diretta a fini determinati secondo scelte politiche relative ad un determinato momento storico; — giuridica: perché trova il suo fondamento nel diritto, tramite il quale s’impone su tutti i soggetti appartenenti alla comunità; — originaria: in quanto non riceve da altri se non da se stesso il proprio ordinamento; — sovrana: in quanto non riconosce, nell’ambito del proprio territorio, alcuna autorità superiore; — indipendente: perché non soggetta ad altri poteri; — effettiva: cioè idonea ad imporre in concreto a tutti i soggetti stanziati nel suo territorio il proprio ordinamento. Il termine «Stato» non sempre è adoperato nella medesima accezione potendo indicare: — lo Stato-comunità, che indica l’insieme dei soggetti, espressione diretta degli organismi sociali che operano all’interno della comunità, a cui l’ordinamento riconosce un’ampia autonomia; — lo Stato-apparato, che indica il complesso degli organi costituzionali dello Stato, che ne reggono il potere supremo (BARILE, SANDULLI); parte della dottrina (Lavagna) preferisce parlare in questo caso di Stato-Governo; — lo Stato-amministrazione, che indica il complesso degli organi amministrativi ed esecutivi dello Stato, che ne perseguono concretamente i fini. B) Funzioni dello Stato L’ordinamento statale, al fine di soddisfare le necessità e gli interessi della collettività, svolge direttamente, attraverso i propri organi, o indirettamente, attraverso altri soggetti pubblici, previsti dalla Costituzione, una o più funzioni. Capitolo Secondo: Lo Stato 13 Tali funzioni, indistinte e accentrate nella figura del Monarca nella forma di Stato assoluto, successivamente, con l’affermarsi dello Stato di diritto, sono state suddivise in potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale, secondo la nota teoria della tripartizione del filosofo francese Montesquieu. La Costituzione italiana, in particolare, rimanda alla funzione: — legislativa, esercitata sia dalle due Camere (art. 70 Cost.) e, su delega, dal Governo (con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti (art. 76 Cost.) che dalle Regioni; — di indirizzo politico, che spetta al Governo (art. 95 Cost.) e che definisce i fini dell’azione statale e le direttive politiche cui si ispira l’azione dei pubblici poteri; — giurisdizionale, esercitata da magistrati istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102 Cost.), attraverso cui si traduce la volontà della legge, in un provvedimento finale destinato ad assumere l’autorità di «cosa giudicata». 2. Gli elementi costitutivi dello Stato Lo Stato si compone di tre elementi essenziali: 1. un elemento personale (popolo); 2. un elemento spaziale (territorio); 3. un elemento organizzativo (sovranità o potere supremo). Tali elementi devono necessariamente coesistere, non potendosi considerare Stato un popolo (BARBERA-FUSARO): — privo di territorio (si pensi alle popolazioni nomadi); — stanziato su un territorio ma privo di un’autorità di governo (si pensi alla condizione dei Curdi che vivono in un territorio sottoposto a differenti sovranità (Turchia, Iran, Iraq, Siria); — stanziato su un territorio la cui sovranità è rivendicata da più soggetti (l’esempio più recente è quello della Bosnia-Erzegovina); — stanziato su un territorio e con un’autorità di governo che però non esercita concretamente alcun potere di comando interno od esterno, dal momento che il monopolio della forza è attribuito ad un soggetto terzo (è il caso degli ex protettorati o colonie). 3. Il popolo e la cittadinanza A) Concetto Il termine popolo indica la comunità di individui (titolare assoluta del potere sovrano) ai quali l’ordinamento giuridico statale attribuisce lo status di cittadino (Martines). La cittadinanza, conseguentemente, è la condizione cui la Costituzione riconnette una serie di diritti e doveri (BIN-PITRUZZELLA). Si ha apolidia quando un 14 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato soggetto ha perso la cittadinanza e non può acquistarne altre. È bipolide, invece, chi ha la cittadinanza di due Stati. Il riconoscimento della cittadinanza ha segnato il passaggio da uno stato di soggezione degli individui al potere pubblico (sudditanza), a uno status di libertà che implica, in condizioni di uguaglianza, a tutti i cittadini il diritto di partecipare alla vita sociale, politica ed economica del proprio Paese. B) Popolazione e nazione In un determinato territorio possono risiedere, oltre ai cittadini, anche stranieri o soggetti privi di cittadinanza (apolidi), che formano la popolazione di uno Stato (diversamente dal popolo, inteso quale insieme dei cittadini stabilmente residenti nel territorio dello Stato). Al giorno d’oggi esiste negli Stati dell’Europa occidentale una tendenza plurirazziale derivante dalla forte immigrazione da altri paesi, per cui è caduta l’identità Popolo-Nazione che nell’età moderna e contemporanea è stata l’idea guida per la nascita e il consolidamento degli Stati. Ciò significa che non tutti i cittadini di uno Stato debbono per forza appartenere alla stessa Nazione, come dimostra l’esistenza di Stati plurinazionali (si pensi alla Svizzera o al preesistente Impero asburgico). L’ideale di «Stato nazionale», che identifica la collettività etnico-sociale caratterizzata dalla comunanza di lingua, razza, costumi e religione, nel corso del XIX secolo ha contribuito alla nascita dello Stato italiano (Regno d’Italia), riunendo tutti gli individui presenti nella penisola che erano, precedentemente, sudditi di diversi Stati (Impero asburgico, Granducato di Toscana, Stato Pontificio, Regno delle due Sicilie, Regno di Sardegna ed altri minori). L’idea di Nazione, dunque, ha costituito il nucleo ideologico di aggregazione del nuovo Stato. C) Differenza tra patria e nazione Il concetto di patria (richiamato nella nostra Costituzione all’art. 52) identifica il bene supremo, comune ed indivisibile (art. 5 Cost.), nonché il patrimonio spirituale primario di tutti i cittadini. L’idea di «patria», come l’idea di «nazione», esprime comunanza di valori a prescindere dai particolarismi locali, ma si differenzia dalla nazione in quanto: — impone un limite positivo, che si sostanzia nell’impegno della sua difesa ad oltranza, fino al sacrificio personale, da parte dei cittadini (la nostra Costituzione parla di «sacro dovere»); — è necessariamente legata all’idea di «Stato», coincidendo con il territorio, le istituzioni e i principi costituzionali dello Stato, che il cittadino è chiamato a difendere. Lo stesso non può dirsi per la nazione, come dimostrano sia l’esistenza di numerosi Stati plurinazionali, sia la frammentazione di una stessa nazione in una pluralità d Stati (si pensi agli individui di lingua tedesca in Europa centrale o ai curdi in Medio Oriente); — adotta un simbolo formale, la bandiera, che accomuna i cittadini e che è espressamente menzionata e tutelata dalla Costituzione (art. 12) e dalle leggi penali. Essa sintetizza Capitolo Secondo: Lo Stato 15 l’estensione simbolica, ma effettiva, del concetto di patria. Le tre bande verticali uguali, infine, simboleggiano i concetti di fratellanza, uguaglianza e libertà che rappresentano il fondamento degli Stati democratici. D) Acquisto della cittadinanza italiana La L. 5 febbraio 1992, n. 91 stabilisce che è cittadino: 1) per nascita (art. 1) — il figlio di padre o di madre cittadini; — chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono; — il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga trovato il possesso di altra cittadinanza; 2) per estensione — il figlio riconosciuto o dichiarato giudizialmente durante la minore età. Se il figlio riconosciuto o dichiarato è maggiorenne conserva il proprio stato di cittadinanza, ma può dichiarare, entro un anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale, ovvero dalla dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, di eleggere la cittadinanza determinata dalla filiazione. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai figli per i quali la paternità o maternità non può essere dichiarata, purché sia stato riconosciuto giudizialmente il loro diritto al mantenimento o agli alimenti (art. 2); — il minore straniero adottato da cittadino italiano (art. 3); — il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. I termini sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi (art. 5 così come sostituito dalla L. 15 luglio 2009, n. 94); 3) per beneficio di legge (art. 4) — lo straniero o l’apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita: a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana; b) se assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero, e dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana; c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana; — lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data. 16 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato 4) per naturalizzazione (art. 9): — con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno: a) lo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera c); b) lo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; c) lo straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; d) il cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; e) l’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; f) lo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica; — con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli affari esteri: a) lo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all’Italia; b) lo straniero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato. E) Perdita e riacquisto della cittadinanza italiana La cittadinanza italiana si perde: 1) per assunzione di un impiego o prestazione di servizio militare presso uno Stato estero, nel caso in cui vi sia persistenza nell’impiego o nel servizio nonostante l’intimazione del Governo italiano di interrompere il rapporto; 2) per assunzione di carica o di impiego pubblico, prestazione di servizio militare, o acquisto volontario della cittadinanza presso uno Stato estero, in quel momento in stato di guerra con l’Italia. È previsto, altresì, che il cittadino, il quale acquisti una cittadinanza straniera, conservi quella italiana, ma possa ad essa rinunciare qualora stabilisca la propria residenza all’estero. La cittadinanza italiana si può riacquistare: 1) per prestazione del servizio militare o assunzione di un impiego pubblico alle dipendenze dello Stato italiano (anche all’estero) e previa dichiarazione di volerla riacquistare; 2) per rinuncia da parte di un ex cittadino all’impiego o servizio militare presso uno Stato estero con trasferimento, per almeno due anni, della propria residenza in Italia; 3) per dichiarazione di riacquisto con stabilimento, entro un anno, della residenza nella Repubblica, ovvero dopo un anno dalla data in cui l’ex cittadino ha stabilito la propria residenza nel territorio italiano, salvo espressa rinuncia. Inoltre, il diritto alla cittadinanza italiana è riconosciuto ai soggetti che siano stati cittadini italiani (e ai loro figli e discendenti in linea retta di lingua e cultura italiana), già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano successivamente ceduti alla Repubblica Jugoslava in forza del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 ovvero in forza del Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 (art. 17bis inserito dalla L. 8 marzo 2006, n. 124). Capitolo Secondo: Lo Stato 17 F) La cittadinanza europea Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, riconosceva ai cittadini degli Stati membri, oltre la cittadinanza nazionale, anche quella europea. Con la riforma dei trattati operata dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, la cittadinanza europea viene ribadita in modo più netto, «è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro» (art. 9 Trattato sull’Unione Europea). La cittadinanza europea si affianca e non sostituisce la cittadinanza nazionale. Il secondo comma dell’art. 20 TFUE (Trattato sul funzionamento dell’UE) precisa che i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dai trattati. Vengono, così, precisati alcuni dei diritti che spettano al cittadino europeo: — il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (cfr. art. 21 TFUE); — il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (cfr. art. 22 TFUE); — il diritto alla tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (cfr. art. 23 TFUE); — il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua (cfr. art. 24 TFUE). 4. Il territorio Il territorio è la sede su cui è stabilmente organizzata la comunità statale e rappresenta l’ambito spaziale entro il quale lo Stato esercita la propria sovranità in modo effettivo ed indipendente. La precisa delimitazione del territorio, pertanto, è condizione essenziale per garantire allo Stato l’esercizio della sovranità e per assicurare l’indipendenza reciproca degli Stati (BIN-PITRUZZELLA). Il territorio comprende: a) la terraferma, delimitata da confini naturali (fiumi, montagne) o artificiali (stabiliti da trattati internazionali); b) il mare territoriale, comprensivo della fascia di mare costiero entro cui lo Stato esercita la sovranità e che si estende per un massimo di 12 miglia dalla costa; c) lo spazio aereo sovrastante la terraferma e il mare territoriale (con esclusione dello spazio extra-atmosferico) e il sottosuolo, nei limiti della loro effettiva utilizzabilità; 18 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato d) la piattaforma continentale, vale a dire i fondi marini e il loro sottosuolo al di là del mare territoriale, per tutta l’estensione del prolungamento naturale del territorio terrestre dello Stato fino al limite esterno del margine continentale, o fino a 200 miglia marine dalle linee-base a partire dalle quali è misurata l’ampiezza del mare territoriale (art. 76, Convenzione Montego Bay); e) il territorio fluttuante, vale a dire le navi e gli aerei mercantili in viaggio in alto mare e sul cielo soprastante e le navi e gli aerei militari ovunque si trovino. Un’eccezione alla territorialità del diritto è rappresentata dal principio della immunità delle sedi diplomatiche, in base al quale, in attuazione della norma consuetudinaria internazionale espressa dal brocardo «ne impediatur legatio», le sedi delle rappresentanze diplomatiche sono sottratte alla sovranità dello Stato territoriale ed assoggettate invece allo Stato della missione. Con riferimento al caso in esame si parla alternativamente di «ultraterritorialità» o di «extraterritorialità», a seconda che si consideri l’estensione della sovranità dello Stato di appartenenza o i limiti cui è soggetta la sovranità dello Stato ospite. 5. La sovranità o potere supremo A) Nozione La sovranità consiste nel potere supremo dello Stato all’interno del proprio territorio (sovranità interna) e nell’indipendenza dello Stato rispetto a qualsiasi altro Stato (sovranità esterna). Il concetto di sovranità va interpretato nella duplice prospettiva: — esterna (cd. internazionale), che riguarda i rapporti dello Stato con gli altri Stati o con le organizzazioni internazionali e si sostanzia nell’effettiva e concreta autonomia che ciascuno Stato, in virtù della sua originarietà, possiede e manifesta; — interna, che attiene ai rapporti dello Stato italiano con i sudditi (cittadini, apolidi e stranieri che risiedono o dimorano sul suo territorio); si manifesta nel potere d’imperio e si connota nella supremazia nei confronti di ogni altro soggetto, ente o organizzazione presente sul territorio statale. B) Limiti La sovranità, al giorno d’oggi, incontra limiti: — di fatto, dovuti al generale processo di globalizzazione in atto, che determina una sostanziale perdita di controllo di potere da parte dello Stato a favore della governance mondiale che guida processi sempre più legati ad una dimensione transnazionale, quali l’economia, le comunicazioni, lo sfruttamento e la circolazione di risorse e capitali etc.; — giuridici, dovuti all’appartenenza dello Stato all’ordinamento internazionale e a istituzioni sovranazionali (es. Unione europea), le cui norme (Trattati, Convenzio- Capitolo Secondo: Lo Stato 19 ni etc.) varcano sempre più i confini nazionali e mirano a coinvolgere direttamente i popoli e gli individui (Barbera-Fusaro). La crescita di limiti e condizionamenti imposti alla sovranità in epoca contemporanea ha indotto gli studiosi a parlare di «fuga di sovranità» o di «abdicazione» della suprema potestà di governo in importanti settori dei singoli Paesi. C) La legittimazione del potere e volontà popolare Il potere supremo, come detto, consente allo Stato di imporre la propria volontà anche attraverso l’uso della forza. Può accadere che tale potere sia finanche capace di indirizzare le scelte dell’individuo anche laddove si abbiano idee differenti. In questo caso si parla di «potere sociale» per indicare la capacità di influenzare il comportamento degli individui da parte di chi detiene il potere (cd. «autorità sociale»). Tradizionalmente, coesistono differenti tipi di potere: 1. potere politico, che permette all’autorità sociale di imporre la propria volontà anche attraverso l’uso della forza; 2. potere economico, che consente all’autorità sociale di detenere il monopolio di determinati beni primari per spingere la collettività, o anche i singoli, ad assumere un determinato comportamento; 3. potere ideologico, che fonda la sua forza su beni immateriali, come le dottrine filosofiche e religiose, per indurre i singoli a determinati comportamenti attraverso la propaganda. Tale potere nell’era moderna viene esercitato attraverso mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, radio etc.); 4. il potere mediatico che rappresenta il veicolo fondamentale per l’affermazione dei poteri più forti. Affinché la gestione del potere da parte dell’autorità sociale venga accettata dalla collettività, occorre una giustificazione teorica e una conseguente condivisione ideologica da parte della maggioranza: è questa la cd. legittimazione del potere. Storicamente, la fonte di tale legittimazione è stata ricondotta alla volontà divina (potere teocratico) o all’appartenenza alla famiglia regnante (potere dinastico). Oggi, invece, il potere è attribuito imprescindibilmente alla volontà popolare, così come sancito dall’art. 1 della nostra Costituzione. 6. Sovranità e globalizzazione A) Effetti della globalizzazione Lo Stato, per conservare la propria indipendenza e garantire la ricchezza della collettività, è investito dalla Costituzione (art. 41-54) ad intervenire nella determinazione della politica economica nazionale nei settori di base. In tal modo, lo Stato assume lo status di imprenditore pubblico con il fine primario del mantenimento o crescita dell’occupazione prima che del profitto. 20 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato Oggi, pur rimanendo a carico dello Stato i costi pubblici e quelli tipici dello Stato sociale, quasi tutto il mercato nazionale è però caduto in mano a imprenditori privati che indirettamente finanziano le casse statali versando all’erario i loro tributi. Le «privatizzazioni», che hanno coinvolto le imprese strategiche di grandi dimensioni, ha inciso notevolmente sul tessuto economico e politico nazionale contribuendo a determinare un fenomeno nuovo e incontrollabile da parte dei singoli ordinamenti: la globalizzazione, che incide soprattutto nelle relazioni economiche, creando un mercato mondiale in cui gli operatori economici travalicano i confini nazionali alla ricerca di vantaggi competitivi che permettano di abbattere i costi di produzione allocando le loro imprese nei siti più convenienti (es. dove la manodopera è più bassa, dove sono previste agevolazioni fiscali) al fine massimizzare i profitti delle aziende multinazionali impoverendo così milioni di persone soprattutto nelle aree e nei Paesi in via di sviluppo (STIGLIZ). La globalizzazione costituisce, dunque, il risultato della combinazione di diversi fattori, primo fra tutti gli interessi delle multinazionali rivolte esclusivamente al profitto e non alla giustizia sociale. In particolare, i fattori determinanti della globalizzazione sono: — la rivoluzione tecnologica che, in assenza di barriere doganali, ha generato un miglioramento esponenziale della capacità di trasferire beni, servizi ed informazioni da una parte all’altra della superficie terrestre (si pensi al telelavoro), rendendo fruibili spazi e risorse prima ritenuti economicamente non utilizzabili, perché allocati lontano dalle aree produttive; — la finanziarizzazione dell’economia, che superando la dimensione territoriale, l’ha trasformata in una arena virtuale in cui è possibile a costo zero scambiare risorse spesso intangibili per via informatica e telematica; — l’informazione, con il conseguente sviluppo delle attività di ricerca di mercato, marketing, comunicazione d’impresa che ha reso meno «vischiosi» i mercati. Questi fattori hanno prodotto effetti profondi sul rapporto Stato-sovranità-territorio, giacché la stretta integrazione dei mercati finanziari, la specializzazione produttiva internazionale e l’interdipendenza tra i diversi sistemi economici, fanno sentire a tutta la popolazione mondiale i loro effetti devastanti (es. la crisi dell’economia di un grande Paese come gli Stati Uniti, può trascinare con sé l’economia mondiale). Ciò significa che qualsiasi manovra economica adottata dai governi nazionali può essere vanificata dall’andamento congiunturale (di economie o di singoli settori economici) del mondo globalizzato le cui sorti sono nelle mani della «governance» mondiale che sfugge al controllo degli Stati e delle organizzazioni internazionali. In parallelo alla «globalizzazione» si è dunque ampliata la sfera della governance mondiale che si contrappone al concetto statico e verticale della «governabilità» di ciascun paese (basata sulla stabilità politica e l’abilità programmatica dei singoli governi) ponendosi come una nuova forma di intervento economico, dinamico, orizzontale e interattivo. Capitolo Secondo: Lo Stato 21 B) I nuovi protagonisti dell’economia mondiale: le multinazionali La globalizzazione e la governance mondiale hanno dato forza a nuovi protagonisti che, senza tener conto delle politiche dei singoli Stati, grazie alla ricchezza da essi accumulata, sono in grado di finanziare e indirizzare le politiche nazionali e internazionali. Si tratta delle società multinazionali, imprese per lo più a capitale privato, capaci di generare ricchezze superiori al PIL, (Prodotto interno lordo) di interi Paesi e di operare ovunque e nei più disparati settori. Esse, al contrario delle industrie «dirette» o «partecipate» dal singolo Stato, «non socializzano» i loro profitti, ma accumulano notevoli ricchezze che li rendono sempre più protagoniste dell’economia e della politica mondiale. È sorta, così, di una competizione a livello mondiale solo «economica» che non ha alcun risvolto sociale e che assume toni sempre più drammatici, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che sono costretti ad offrire agli investitori stranieri grandi vantaggi in termini di riduzione del costo del lavoro. Si afferma, così, una nuova formazioni di dipendenza economica indotta da soggetti non più nazionali, come in passato, ma transnazionali (cd. neoclassicismo economico), che genera gravi «ricadute» politiche e sociali sulle comunità locali e porta a nuove e pericolose forme di autocrazia a livello mondiale. C) Conclusioni Attualmente gli Stati non sono più in grado di esercitare la piena sovranità sul territorio, limitati dalla governance mondiale nella determinazione dei propri indirizzi politici ed economici, oltre ad essere vincolati alle strategie di soggetti economici operanti in uno spazio privo di confini nazionali. Il pericolo grave della crescita di alcune forme organizzative (come l’Unione europea), nate per motivi strettamente economici, è che tali enti sovranazionali, pur con le intenzioni di trasformarsi gradatamente da «economici» in «politici», finiscano per non curare le irrinunciabili «politiche sociali» a tutela dei cittadini degli Stati membri, a tutto vantaggio di «superiori» e intoccabili poteri economici che ad esse fanno capo. Glossario Autorità diplomatiche e consolari: le prime sono autorità attraverso le quali lo Stato intrattiene le relazioni internazionali con gli altri Stati, la Santa Sede e le organizzazioni internazionali; le seconde svolgono, nella propria sede in terra straniera, i compiti che altri organi della pubblica amministrazione esercitano in Italia. In particolare forniscono ai propri connazionali che si trovano in uno Stato straniero la tutela in caso di violazione dei loro diritti o in caso di limitazione o privazione della libertà personale. Convenzione di Montego Bay: Convenzione delle Nazioni Unite firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e ratificata con L. 2-12-1994, n. 689. Regolamenta tutti gli aspetti del diritto marino e mira a delineare un codice universale per lo sfruttamento del mare e delle sue risorse economiche. Capitolo Settimo Le fonti del diritto Sommario: 1. Concetto e classificazioni. - 2. Il problema delle antinomie e i criteri per la loro risoluzione. - 3. L’interpretazione delle fonti. - 4. Il sistema delle fonti del diritto italiano. - 5. La Costituzione. - 6. Le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali. - 7. Le fonti dell’Unione europea. - 8. Le fonti internazionali. - 9. Le leggi ordinarie. - 10. Qualità e semplificazione normativa. - 11. Gli atti aventi forza di legge. - 12. I decreti legislativi o delegati. - 13. I testi unici e codici. - 14. I decreti-legge. - 15. Il referendum. - 16. I regolamenti degli organi costituzionali: Parlamento e Corte costituzionale. - 17. I regolamenti amministrativi. - 18. Le fonti regionali. - 19. Le fonti locali. - 20. La consuetudine. 1. Concetto e classificazioni Fonti del diritto sono tutti gli atti o i fatti dai quali traggono origine le norme giuridiche. Caratteristica fondamentale degli ordinamenti giuridici moderni è la pluralità delle fonti ove si consideri la molteplicità dei centri di produzione. Nell’ambito delle fonti del diritto è possibile distinguere: a) le fonti di produzione, che rappresentano lo strumento tecnico predisposto o riconosciuto dall’ordinamento che serve a creare le norme giuridiche. Le fonti di produzioni si suddividono in: 1. fonti fatto, ovvero fonti non scritte determinate da fatti sociali o naturali considerati idonei a produrre diritto (fonti non scritte); 2. fonti atto, ossia atti normativi posti in essere da organi o enti nell’esercizio di poteri ad essi attribuiti dall’ordinamento (fonti scritte); b) le fonti sulla produzione, che costituiscono le norme che determinano gli organi e le procedure di formazione del diritto; c) le fonti di cognizione, che sono gli strumenti attraverso cui è possibile conoscere le fonti di produzione. Fra le fonti di cognizione è opportuno distinguere forme di pubblicazione: 1. necessarie (legali o privilegiate), che precedono e condizionano l’entrata in vigore di una fonte di un diritto (ad es. la Gazzetta Ufficiale); 2. non necessarie (notiziali), che non incidono sull’entrata in vigore e svolgono una mera funzione pubblicitaria o di conoscenza (ad es. le raccolte ufficiali di usi curate dalle Camere di Commercio. In questa categoria rientra la ripubblicazione, che costituisce una forma di pubblicazione di un provvedi- Capitolo Settimo: Le fonti del diritto 47 mento già oggetto di pubblicazione necessaria (ad es. i testi unici meramente compilativi). 2. Il problema delle antinomie e i criteri per la loro risoluzione A) Generalità Con il termine «antinomie» si indicano i contrasti che vengono a sorgere quando due o più norme disciplinano una medesima fattispecie in modo differente. La natura dell’ordinamento giuridico e l’esigenza di certezza del diritto impongono che eventuali antinomie siano risolte attraverso l’applicazione di una serie di criteri che consentano di individuare l’unica norma da applicare al caso concreto. B) Il criterio cronologico Quando due norme confliggenti sono poste da fonti dello stesso tipo (ad esempio, due leggi o due regolamenti), il criterio applicato per eliminare le antinomie è quello cronologico, in base al quale non si applica (perché si ritiene abrogata) la norma precedente, ma quella successiva (lex posterior derogat legi priori). Il criterio cronologico non trova, tuttavia, applicazione quando la norma precedente abbia carattere speciale o eccezionale, a meno che, interpretando la legge generale e la volontà ad essa sottesa, l’interprete non ritenga che essa non tolleri alcuna disciplina diversa, sia essa precedente o successiva. Si definisce abrogazione quel fenomeno giuridico in base al quale una norma o una disposizione viene revocata per porre fine alla sua vigenza, nonché circoscrivere nel tempo la sua efficacia e la sua applicabilità. In base all’articolo 15 disp. prel. c.c., che regola l’applicazione del criterio cronologico, l’abrogazione può essere: — espressa, quando è lo stesso legislatore a disporlo («è abrogata la disposizione X»); — tacita, quando la disciplina successiva è incompatibile con la precedente oppure regola in modo diverso l’intera materia, per cui non è possibile la contemporanea vigenza di entrambe; — innominata, quando il legislatore prevede l’abrogazione, ma non specifica quali norme ne siano oggetto («sono abrogate tutte le norme incompatibili con la presente legge»). C) Il criterio gerarchico Quando le norme confliggenti provengono da fonti diverse (ad esempio dalla Costituzione e da leggi ordinarie), la risoluzione delle antinomie segue il criterio gerarchico. Pertanto, quando le norme successive, poste da fonti di rango inferiore, sono in contrasto con norme provenienti da fonti di rango superiore, devono essere sog- 48 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato gette ad annullamento (come prevede l’art. 136 Cost. per le leggi o gli atti ad essa equiparati che siano incostituzionali) o a disapplicazione (alla quale è tenuto il giudice ordinario nel caso di regolamenti illegittimi). Quando, invece, sono le norme di rango superiore a seguire quelle di fonti inferiori, la prevalente dottrina e la stessa giurisprudenza tendono a risolvere il conflitto in termini di abrogazione. Qualche perplessità pone, invece, l’ipotesi di leggi anteriori alla Costituzione repubblicana: secondo la soluzione più condivisa e accolta anche dalla Corte costituzionale, queste ultime possono essere abrogate laddove sussistano i presupposti oppure annullate laddove incostituzionali. D) Il criterio della specialità Quando la stessa materia è disciplinata da due norme, una generale e una speciale, si segue il criterio della specialità, in base al quale la norma dettata per un caso particolare prevale su quella avente carattere generico (lex specialis derogat generali). È da sottolineare che con l’applicazione di questo criterio entrambe le norme in conflitto conservano la loro validità ed efficacia differentemente dall’applicazione del criterio cronologico e di quello gerarchico nei quali si assiste all’eliminazione di una delle due norme in contrasto (con l’abrogazione o con l’invalidità). E) Il criterio della competenza In un ordinamento a Costituzione flessibile, come quello prerepubblicano, l’unico criterio applicabile per risolvere le antinomie era quello gerarchico: anche se lo Statuto Albertino o una legge qualsiasi avesse riservato ad una determinata fonte una certa materia, una legge successiva avrebbe sempre potuto violare tale riserva senza provocare, per questo, alcuna reazione. In un sistema in cui, invece, vige una Costituzione rigida, qualora essa introduca una riserva di competenza a favore di una determinata fonte, la legge o gli atti ad essa equiparati che la violassero sarebbero dichiarati incostituzionali e annullati. Al criterio gerarchico, quindi, si affianca, nell’ordinamento repubblicano, il criterio della competenza che può assumere due diverse forme: — tra due fonti può sussistere una separazione di competenze, fondata sulla diversità della materia e/o dell’ambito territoriale di applicazione. Un esempio si rinviene nei rapporti fra leggi ordinarie e regolamenti parlamentari: la Costituzione riserva a questi ultimi la disciplina dell’organizzazione interna delle Camere e del procedimento di formazione delle stesse leggi; — in altri casi la Costituzione mostra di preferire, per la disciplina di una particolare materia, una fonte piuttosto che un’altra, senza impedire a quest’ultima, Capitolo Settimo: Le fonti del diritto 49 però, di regolarla fino a quando la fonte preferita non abbia provveduto ad introdurre la sua disciplina (criterio della preferenza). 3. L’interpretazione delle fonti A) Natura dell’attività interpretativa Per interpretazione delle fonti si intende quell’attività finalizzata a individuare le norme ricavabili da una disposizione determinandone il loro significato linguistico. Dal punto di vista del soggetto l’interpretazione può essere: a) giudiziale, compiuta dai giudici, organi incaricati dallo Stato dell’applicazione del diritto. Il risultato in questo caso è una norma giuridica che serve da fondamento per una decisione che ha valore giuridico; b) autentica, operata dal legislatore che interviene per fissare il significato delle disposizioni normative contenute in leggi precedenti, vincolando così gli interpreti del diritto a non dare altre interpretazioni di quella norma e ad applicarla, con quel significato, retroattivamente. Secondo parte della dottrina (BIN - PITRUZZELLA) in questo caso non dovrebbe parlarsi di interpretazione in quanto non si tratta di un’attribuzione di senso, ma di vera e propria legislazione; c) dottrinale, prodotta dai cd. «esperti» che studiano il diritto. Il tratto distintivo, in questo caso, è che l’interpretazione, per quanto autorevole, non costituisce la forma risolutiva di una controversia; d) burocratica, compiuta ad opera del Ministro che vincola, in via burocratica, tutti gli uffici del Ministero e tutti i soggetti esterni che vengono a contatto con tali uffici (ferma restando la possibilità di impugnarne l’esattezza davanti ai giudici); e) dei consociati, compiuta dall’individuo al fine di decidere se adeguare o meno la propria condotta a quanto prescritto dalle norme giuridiche. Se si considerano i criteri con cui l’attività interpretativa è svolta, è possibile distinguere fra una interpretazione: — letterale, attraverso cui si attribuisce alle disposizioni il significato proprio delle parole, così come risulta dall’uso comune e dalle connessioni sintattiche fra le stesse (si veda in proposito l’art. 12 comma 1 delle Diposizioni sulla legge in generale); — sistematica, mediante la quale si inserisce la disposizione da interpretare in connessione con le altre disposizioni e in relazione ai principi fondamentali dell’ordinamento; — adeguatrice, che adatta il significato di una disposizione affinché non contrasti con il significato di altre norme di rango superiore (ad esempio una legge viene interpretata in modo che non contrasti con la Costituzione); — restrittiva, che riduce l’ambito applicativo di una norma; — estensiva, che estende il significato della disposizione oltre il dato letterale; — evolutiva, quando la disposizione da interpretare viene adattata al contesto storico, sociale e culturale in cui deve essere di volta in volta applicata; — storica, quando la disposizione da interpretare viene letta alla luce della volontà del legislatore che l’ha formulata, così come previsto dal citato art. 12, comma 1, delle Diposizioni sulla legge in generale. 50 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato B) L’interpretazione analogica Ogniqualvolta un caso concreto non possa essere risolto applicando una norma preesistente nell’ordinamento giuridico, si configura una lacuna del diritto. Quando ciò accade, il secondo comma dell’art. 12 disp. prel. c.c. dispone che il giudiceinterprete non può rinunciare alla decisione, ma è obbligato a tener conto delle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe e, se il caso rimane ancora dubbio, decida secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Il procedimento di integrazione si articola, quindi, in due momenti: — innanzitutto il giudice può avvalersi del ragionamento analogico (cd. analogia legis), vale a dire può applicare alla fattispecie in oggetto la disciplina prevista per altra fattispecie, laddove ritenga di poter accomunare entrambe sotto la stessa ratio (o principio); — qualora il ragionamento analogico non sia sufficiente a risolvere il caso concreto, il giudice non può affidarsi a criteri esterni al diritto positivo (diritto naturale, coscienza individuale del giudice etc.), ma deve ricorrere ai principi generali dell’ordinamento giuridico, sanciti dalla Costituzione o ricavabili da norme di legge (analogia iuris). Tale procedimento analogico non può essere applicato alle norme penali e a quelle eccezionali (art. 14 disp. prel. c.c.): nel primo caso ad escluderlo è il principio di legalità penale, sancito dall’art. 25 Cost., in base al quale nessuno può essere punito per un fatto che non era considerato reato nel momento in cui è stato compiuto; nel secondo è il carattere derogatorio delle leggi eccezionali ad escluderlo. 4. Il sistema delle fonti del diritto italiano A) Generalità La caratteristica fondamentale degli ordinamenti giuridici contemporanei è la pluralità di fonti del diritto, tenuto conto della molteplicità dei relativi centri di produzione. Si parla, in particolare, di ricomposizione multilivello del sistema delle fonti, avendo riguardo al progressivo emergere di livelli sovranazionali (Unione europea) e subnazionali (autonomie territoriali) dell’attività di normazione. Procedere, quindi, a una identificazione delle fonti del diritto negli ordinamenti contemporanei appare un’operazione ampia e complessa. Il riconoscimento delle fonti dell’ordinamento giuridico italiano deve prendere le mosse dagli artt. 1 e ss. delle «Disposizioni sulla legge in generale» (cd. preleggi) che introducono il codice civile del 1942 (R.D. 16 marzo 1942, n. 262) e che collocano tra le fonti le leggi, i regolamenti e gli usi. Tale elenco deve essere completato con le fonti previste dalla Costituzione italiana (leggi costituzionali, leggi regionali etc.) o che pur non da questa previste devono trovare in essa la loro legittimazione (bandi militari), e dal diritto dell’Unione europea e della Comunità internazionale. Capitolo Settimo: Le fonti del diritto 51 B) Fonti multivello Caratteristica fondamentale degli ordinamenti giuridici moderni è la pluralità delle fonti e il diverso livello delle stesse ove si consideri la molteplicità dei centri nazionali, sovranazionali e internazionali, di produzione delle norme. Si parla — proprio alla luce dell’ingresso automatico di norme emanate dall’Unione europea senza la mediazione del legislatore nazionale — di fonti multilivello, che confondono non poco il vigore e l’applicazione delle norme nei singoli Stati. Ciò anche per l’attuale costituzionalismo «asimmetrico» derivante dalla ripartizione anomala, parziale e in via di sviluppo della governance tra ordinamenti nazionali e internazionali; tale ripartizione crea una dimensione nuova della separazione di poteri, non più secondo la tripartizione montesquiesana delle fuzioni pubbliche in legislazione, amministrazione e giurisdizione, ma in forza della dislocazione, a diversi livelli, delle competenze e modalità di intervento (SCUDIERO). 5. La Costituzione La Costituzione è la legge fondamentale di un paese, l’atto che delinea le sue caratteristiche essenziali, descrive i valori e i principi che ne sono alla base, stabilisce l’organizzazione politica su cui si regge. La Costituzione può essere: — scritta, se si presenta come un documento redatto in forma solenne da un organismo appositamente convocato; — non scritta, se non esiste un testo di riferimento, ma il funzionamento delle istituzioni si fonda su una serie di consuetudini e su testi che affrontano solamente alcuni aspetti; — ottriata, se viene unilateralmente concessa dal sovrano, come è accaduto per la nostra previgente Costituzione, lo Statuto Albertino; — votata, se viene adottata da un organo democraticamente eletto o viene comunque approvata dal corpo elettorale (ad esempio attraverso un plebiscito, come accadde per la Costituzione della Repubblica francese); — flessibile, quando può essere modificata dagli ordinari strumenti legislativi senza richiedere un procedimento particolare; — rigida, quando è assolutamente immodificabile oppure è modificabile solo attraverso un procedimento aggravato rispetto a quello ordinario, se non altro in quanto richiede una maggioranza più ampia. Si definisce rigida in senso debole quella Costituzione che non prevede alcun controllo sulla conformità ad essa delle leggi ordinarie; rigide in senso forte sono, invece, quelle Costituzioni che tale controllo prevedono, o autorizzando ogni giudice a disapplicare le leggi incostituzionali, oppure istituendo un organo apposito che annulli le leggi con esse contrastanti; — breve o corta, quando contiene soltanto le norme sull’organizzazione fondamentale dello Stato e alcuni diritti di libertà; — lunga, quando riconosce, accanto alle libertà civili, i diritti politici ed economici ed enuncia i valori e principi cui deve ispirarsi l’azione dei pubblici poteri. 52 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato 6. Le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali L’articolo 138 della Costituzione disciplina il procedimento di formazione di un peculiare tipo di leggi, denominate appunto leggi di revisione costituzionale e leggi costituzionali (cfr. Parte V, cap. 1). Per leggi di revisione devono intendersi quelle leggi che incidono sul testo costituzionale, modificando, sostituendo o abrogando le disposizioni in esso contenute. Per altre leggi costituzionali, invece, si intendono: — tutte quelle leggi che sono espressamente definite come tali dalla Costituzione (ad esempio negli articoli 132 e 137); — tutte quelle leggi che si limitano soltanto a derogare una norma costituzionale, senza modificarla in via definitiva (ad esempio la legge costituzionale 6 agosto 1993, n. 1); — ogni altra legge che il Parlamento voglia approvare col procedimento aggravato previsto dall’articolo 138. La differenza, apparentemente netta, risulta, in realtà, assai più sfumata, solo se si considera che la stessa Costituzione qualifica come costituzionali leggi che assolvono anche una funzione di revisione: le leggi che dispongono la fusione o la creazione di nuove Regioni (qualificate come leggi costituzionali) ad esempio, modificano anche l’articolo 131 del testo costituzionale, che contiene l’elenco delle Regioni italiane. Del resto, entrambi i tipi di leggi vengono approvate con lo stesso procedimento e sono ufficialmente denominate, nelle Raccolte degli atti normativi, col nome di leggi costituzionali, qualunque sia il loro contenuto. 7. Le fonti dell’Unione europea A) Gli atti giuridici dell’Unione Con l’adesione dell’Italia all’Unione europea la categoria delle fonti primarie include ora anche gli atti adottati dalle istituzioni di tale organizzazione sovranazionale. Infatti, l’art. 288 TFUE stabilisce che le istituzioni europee sono abilitate ad emanare regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri, chiarendo altresì come solo le prime tre tipologie di atti abbiano carattere vincolante. In particolare: — il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri; — la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi; — la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati. Le decisioni sono atti aventi portata concreta, che possono indirizzarsi ad Capitolo Settimo: Le fonti del diritto 53 uno Stato membro o ad altro soggetto (persona fisica o giuridica), vincolanti per il destinatario; acquistano efficacia con la semplice notifica ai destinatari; — le raccomandazioni e i pareri, sforniti di efficacia precettiva e vincolante. B) I rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto interno Il rapporto tra il diritto dell’Unione europea e il diritto degli Stati membri, ha suscitato ampie discussioni e prese di posizioni contrastanti in dottrina e giurisprudenza. I rapporti tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento dell’Unione europea sono stati impostati inizialmente in base al principio della separazione degli ordinamenti giuridici. Tuttavia è stata la stessa dinamica dell’integrazione europea che ha reso anacronistica questa impostazione. Con il procedere dell’integrazione, infatti, diveniva evidente che l’ordinamento nazionale non poteva essere considerato totalmente distinto da quello dell’Unione; il potere delle istituzioni dell’Unione di emanare disposizioni vincolanti per gli Stati membri in determinati settori (le cd. norme self-executing, vale a dire i regolamenti), nonché le sentenze della Corte di giustizia che attribuivano una efficacia diretta anche a molte disposizioni contenute nei trattati istitutivi, imponevano un ripensamento del rapporto intercorrente tra ordinamento nazionale e ordinamento dell’Unione. La tesi attualmente prevalente in dottrina è quella del rapporto di integrazione tra i due ordinamenti, esplicitamente affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale con la formula degli «ordinamenti coordinati e comunicanti»: nelle materie indicate dai trattati, le norme dell’Unione hanno efficacia immediata e le eventuali norme di legge nazionali contrastanti non vanno applicate. C) L’esecuzione degli obblighi europei Per lungo tempo l’ordinamento italiano ha proceduto ad adeguarsi alle direttive europee con singoli provvedimenti ad hoc. Il primo tentativo per la razionalizzazione delle procedure di adeguamento è stato compiuto con la L. 14 aprile 1987, n. 183 (cd. legge Fabbri) che tentava di snellire le procedure fino ad allora adottate, favorendo il più possibile il recepimento di direttive in via regolamentare o amministrativa. Proseguendo su questa linea, il legislatore ha poi approvato la L. 9 marzo 1989, n. 86, (cd. legge la Pergola) contenente norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e, in particolare, lo strumento per rendere più snello ed efficace il recepimento delle direttive comunitarie: la cd. legge comunitaria. La legge La Pergola è stata abrogata dalla legge 4 febbraio 2005, n. 11 (cd. legge Buttiglione), la quale ha conservato lo strumento della legge comunitaria per garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (fase discendente), e disciplinato il processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti dell’Unione europea (fase ascendente). Da ultimo, con L. 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea), è 54 Parte Prima: Lineamenti di dottrina dello Stato stata abrogata la L. 11/2005 e la legge comunitaria da questa prevista e introdotti all’art. 29 due distinti provvedimenti legislativi: — la legge di delegazione europea, da presentare al Parlamento entro il 28 febbraio di ogni anno, riguardante solo deleghe legislative e autorizzazioni all’attuazione in via regolamentare; — la legge europea, strumento solo eventuale, non essendo indicata un termine specifico per la sua presentazione al Parlamento, che riguarda le disposizioni modificative o abrogative di norme interne oggetto di procedure di infrazione o di sentenze della Corte di giustizia, quelle necessarie per dare attuazione agli atti dell’Unione europea e ai Trattati internazionali conclusi dall’Unione e quelle emanate nell’ambito del potere sostitutivo. In tal modo si consente al Governo italiano di predisporre in tempi brevi e certi delle deleghe legislative necessarie per assicurare il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento dell’Unione europea. 8. Le fonti internazionali Le fonti di produzione del nostro ordinamento derivano dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Internazionale, sebbene siano necessarie in questo caso specifiche procedure interne di adattamento. A) Tipologia Le fonti dell’ordinamento giuridico internazionale si distinguono in: 1) norme consuetudinarie, ivi compresi i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili che costituiscono una particolare categoria e che si indirizzano, generalmente, a tutti i membri della Comunità internazionale. Ad esse l’ordinamento nazionale si conforma attraverso il rinvio operato dall’art. 10 Cost.; 2) norme convenzionali, o norme poste in essere da trattati internazionali. Sono fonti vincolanti solo per i soggetti che hanno concorso alla loro formazione. Le norme convenzionali possono essere distinte in formali e materiali, a seconda che istituiscano ulteriori fonti di produzione di norme o regolino direttamente i rapporti fra gli Stati contraenti. Ad esse l’ordinamento italiano si conforma attraverso un procedimento ordinario o un procedimento speciale (vedi infra); 3) atti vincolanti delle organizzazioni internazionali, previsti da regole formali contenute in accordi istitutivi, che hanno efficacia solo per gli Stati che hanno aderito all’accordo. I più importanti di tali atti sono quelli emanati dalle istituzioni dell’Unione europea (vedi par. 7). Capitolo Settimo: Le fonti del diritto 55 B) Procedure di adattamento Le fonti dell’ordinamento internazionale vengono introdotte in quello nazionale (cd. adattamento del diritto interno al diritto internazionale) attraverso le seguenti procedure: — procedimento speciale (o mediante rinvio), che opera un adattamento automatico alle norme internazionali generalmente riconosciute, ossia le consuetudini. Ai sensi dell’art. 10 Cost., tali norme esplicano piena efficacia all’interno dell’ordinamento giuridico statale sulla base del semplice rinvio al diritto internazionale consuetudinario, senza necessità di alcun recepimento formale da parte del legislatore. Riguardo al grado delle norme interne riproducenti le consuetudini internazionali, esse, trovando il loro fondamento nell’art. 10 Cost., prevalgono sulle leggi ordinarie e sugli atti ad esse equiparate. Dunque, queste ultime, se in difformità con le prime, vengono considerate incostituzionali. Le consuetudini internazionali anteriori al 1° gennaio 1948 (data in cui entrò in vigore la nuova Carta costituzionale) sono state salvate dalla Corte costituzionale in base al principio di specialità, tenuto conto che il Costituente certamente le conosceva, ma non le ha escluse dalla sfera di applicabilità dell’art. 10. Le consuetudini sorte successivamente, invece, sono tenute a rispettare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (sent. n. 48 del 1979); — procedimento speciale, che attua l’adattamento ai trattati internazionali mediante l’ordine di esecuzione. Con tale atto è automaticamente recepito il testo del trattato, che viene immediatamente applicato. L’ordine di esecuzione («Piena ed intera esecuzione è data al trattato…», segue il testo dello stesso) è di solito dato con legge ordinaria, ma può essere contenuto anche in una legge costituzionale o in un atto amministrativo. Le norme pattizie in tal modo recepite acquistano il rango dell’atto in cui l’ordine di esecuzione è contenuto; — procedimento ordinario, mediante il quale le norme internazionali (consuetudinarie o pattizie) vengono riformulate in norme interne, che ne riproducono o specificano il contenuto. Di solito si ricorre a questo procedimento per dare attuazione alle norme non self-executing, vale a dire non suscettibili di produrre direttamente obblighi e diritti, e che necessitano di un’ulteriore attività normativa integrativa per essere applicate negli ordinamenti interni. 9. Le leggi ordinarie A) Nozione Per leggi ordinarie si intendono gli atti deliberati dal Parlamento secondo il procedimento disciplinato, nelle sue linee essenziali, dagli articoli 70 e ss. della Costituzione e, più ampiamente, dai regolamenti parlamentari. Capitolo Primo I diritti dell’uomo Sommario: 1. Diritti e libertà. - 2. Le generazioni di diritti. - 3. La tutela costituzionale dei diritti dell’uomo. - 4. La tutela internazionale dei diritti dell’uomo. 1. Diritti e libertà La trattazione del tema sui diritti e le libertà deve prevedere, quale punto di partenza, la definizione di situazione giuridica soggettiva, che costituisce l’attribuzione, la modifica o l’estinzione di poteri, obblighi o diritti in capo ad un soggetto. La tipica differenziazione tra le situazioni giuridiche attive è quella tra: — libertà, ossia una posizione che si sostanzia in una pretesa verso altri soggetti di non interferire nelle scelte del singolo; si sottolinea in tal modo l’aspetto negativo, di non costrizione; — diritto, ossia una pretesa che si sostanzia in una richiesta ad un altro soggetto di attivarsi affinché la propria situazione giuridica di vantaggio possa essere pienamente soddisfatta; si sottolinea in tal modo la valenza positiva (di fare) della norma. Dalla definizione sopra data risulta evidente che si parla delle libertà prevalentemente in senso negativo (libertà negative), mentre ai diritti è generalmente associato una portata positiva (diritti positivi). Le libertà negative offrono al titolare la garanzia che nessun altro soggetto, compreso lo Stato, possa intromettersi nella vita della persona alla quale esse sono assicurate; il titolare delle libertà, pertanto, nel particolare spazio a lui assegnato, può agire come meglio crede. Tali libertà assicurano all’individuo una sfera di autonomia che lo Stato non può sopprimere, ma solo delimitare e circoscrivere quanto alle modalità di esercizio. Ad esempio lo Stato deve garantire la libertà personale di ogni individuo e non può procedere ad arresti se non in determinati casi e seguendo specifiche procedure (atto motivato dell’autorità giudiziaria e soltanto per quelle condotte illecite previste dalla legge). I diritti positivi, invece, non si limitano a riconoscere particolari situazioni giuridiche, ma impongono al potere pubblico di attivarsi per creare quelle strutture necessarie al pieno soddisfacimento del diritto garantito; ad esempio per la concreta realizzazione del diritto alla salute è indispensabile la creazione delle strutture sanitarie e di assistenza in grado di erogare i necessari servizi per la tutela della salute umana. 2. Le generazioni di diritti In dottrina, spesso, si suole distinguere i diritti e le libertà in «generazioni», facendo riferimento al periodo storico in cui si sono affermati e ai documenti che li hanno sanciti e tutelati. 78 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini Si parla, pertanto, di: — diritti e libertà di prima generazione, che ricomprendono soprattutto libertà a carattere individuale, generalmente suddivisi in libertà civili (tutelano la persona nella sua libertà di agire) e libertà politiche (consentono la partecipazione al governo e agli uffici pubblici del proprio Paese). Si tratta, in primo luogo, del diritto alla vita e all’integrità fisica, nonché di tutti quei diritti legati alla libertà di pensiero, di religione, di espressione, di stampa, di associazione, il diritto alla partecipazione politica, all’elettorato attivo e passivo; — diritti e libertà di seconda generazione, nella quale sono generalmente ricompresi diritti economici, sociali e culturali, come ad esempio il diritto ad un lavoro equamente retribuito e tutelato, al riposo e allo svago, alla casa, ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere personale e della propria famiglia, all’istruzione e alla partecipazione alla vita culturale della propria comunità. Questi diritti si affermano nel momento in cui si assiste al passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale; — diritti e libertà di terza generazione, anche noti come diritti di solidarietà perché non hanno come destinatario un singolo individuo ma interi gruppi sociali (o popoli): ecco quindi che si parla di diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla pace, allo sviluppo, all’equilibrio ecologico, al controllo delle risorse nazionali, alla difesa dell’ambiente. Ad essi si devono aggiungere quelli destinati alla tutela di determinate categorie di persone (come i minori e le donne) particolarmente esposte a pericoli di violazione dei propri diritti e, quindi, meritevoli di una più efficace tutela interna e internazionale; — diritti e libertà di quarta generazione. Si tratta di diritti ancora in fase di assestamento relativi al campo delle manipolazioni genetiche e della bioetica, delle nuove tecnologie della comunicazione, del mondo degli animali. La Costituzione repubblicana (come tutte quelle degli odierni ordinamenti democratici) dedica numerose disposizioni alla tutela delle libertà individuali e ai diritti dell’uomo, e precisamente: — nei principi fondamentali (artt. 1-12), nella loro portata più ampia e generale; — nella parte prima (artt. 13-54), ove ne ribadisce il contenuto in relazione agli specifici rapporti che interessano la società: rapporti civili (artt. 13-28), etico-sociali (artt. 29-34), economici (artt. 35-47), politici (artt. 48-54). 3. Le tutele costituzionali dei diritti dell’uomo Le moderne Costituzioni non solo prevedono un ampio e generalizzato riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali, ma hanno creato dei meccanismi di tutela che impediscono un loro ridimensionamento o limitazione. Tali strumenti sono: — la rigidità delle Costituzioni, per effetto della quale è previsto un procedimento «aggravato» per la loro stessa revisione, al fine di evitare modifiche o cancellazioni dei principi fondamentali senza una ampia base di consensi (art. 138 Cost.); Capitolo Primo: I diritti dell’uomo 79 — la riserva di legge e di giurisdizione: la prima per riservare alla sola legge, con esclusione di tutte le altre fonti, la relativa disciplina; la seconda per riservare al giudice la decisione delle controversie sull’applicazione di tali principi. In tal modo si sottraggono o si limitano le possibilità di indebiti interventi sull’esercizio dei diritti tutelati; — l’obbligo della pubblica amministrazione di organizzarsi in base ai principi di buon andamento, legalità e imparzialità (art. 97 Cost.), per cui ogniqualvolta tali diritti si concretizzino nella pretesa al ricevimento di prestazioni da parte della pubblica amministrazione, l’erogazione del servizio deve avvenire immediatamente, senza discriminazioni e nel rispetto della legge; — il riconoscimento (a tutti) del diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.) rivolgendosi ad un corpo di giudici indipendenti e imparziali, soggetti solo alla legge (artt. 101 e 104 Cost.); — la possibilità di chiedere alla Corte costituzionale il sindacato di legittimità costituzionale delle leggi, assicurando così la preminenza della Costituzione (e dei valori in essa riconosciuti) sulle fonti di rango inferiore, compresa la legge. 4. La tutela internazionale dei diritti dell’uomo A) Introduzione I diritti dell’uomo, in virtù del loro carattere fondamentale, ricevono un’ampia tutela anche a livello internazionale attraverso l’approvazione in quasi tutti i Paesi (compresa l’Italia), già all’indomani della seconda guerra mondiale, di numerosi atti e convenzioni. B) La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo L’ONU ha svolto un ruolo particolarmente attivo in questo campo, adottando già nel 1948 il testo base in materia di tutela dei diritti umani: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Si tratta di una Dichiarazione di principi approvata il 10 dicembre 1948, che riconosce a tutti gli uomini una serie di diritti fondamentali (libertà, dignità, uguaglianza senza distinzioni di razza, sesso, religione, opinione politica, lingua etc.). La Dichiarazione è priva di valore vincolante essendo una semplice raccomandazione e non prevede alcun meccanismo che garantisca la sua applicazione automatica; essa rappresenta, tuttavia, il principale documento di riferimento per tutti gli accordi successivi. Particolarmente importante risulta anche l’istituzione della Corte penale internazionale, competente a giudicare i crimini internazionali più gravi, come i crimini di guerra, il genocidio, i crimini contro l’umanità e l’aggressione. 80 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini C) La Convenzione europea dei diritti dell’uomo Il testo più importante adottato nell’ambito del Consiglio d’Europa è la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); firmata a Roma il 4 novembre 1950, è entrata in vigore il 3 settembre 1953 (l’Italia l’ha ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848) ed è stata poi completata da diversi protocolli aggiuntivi. Inoltre, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è stata prevista l’adesione dell’Unione europea alla CEDU (Dichiarazione n. 2, nuovo art. 6 TUE). In tale documento sono elencati i diritti fondamentali che ogni Stato si impegna ad assicurare a «tutte le persone sottoposte alla sua giurisdizione»: il diritto alla vita (art. 2), divieto della tortura (art. 3), diritto alla libertà e alla sicurezza della persona (art. 5), alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9) etc. È stato altresì istituito un efficace sistema di tutela internazionale dei diritti garantiti, attraverso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo per la tutela delle violazioni commesse dagli Stati membri. La Corte, che può essere adita sia da un altro Stato membro che da una persona fisica o da una associazione, può condannare lo Stato ad un adeguato indennizzo (ad esempio l’Italia è stata più volte condannata per l’estrema lentezza dei processi civili, che viola il principio ad un equo processo garantito dall’art. 6 della Convenzione). D) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea Nonostante i passi avanti compiuti nel corso degli anni dalle istituzioni dell’Unione europea, la tutela dei diritti umani a livello europeo è ancora oggetto di interventi legislativi per la realizzazione di un documento vincolante per gli Stati membri. Il progetto di codificazione dei diritti fondamentali si è sostanziato nella decisione di elaborare una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si compone di sei sezioni: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, diritti relativi alla cittadinanza, giustizia, raccogliendo in tal modo l’intera gamma di diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini dell’Unione. Le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, nonché agli Stati membri nell’attuazione del diritto comunitario. A seguito dell’approvazione da parte del Parlamento europeo e della Commissione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è stata ufficialmente proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Essa, però, non si integrava nei trattati istitutivi ma costituiva un documento separato privo di efficacia vincolante. L’auspicio da più parti espresso di conferire valore normativo ai principi contenuti nella Carta ha trovato una prima risposta nel progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (firmato a Roma il 23 ottobre 2004), la cui struttura prevedeva l’inclusione della Carta stessa nel testo del Trattato e la sua conseguente vigenza quale Capitolo Primo: I diritti dell’uomo 81 disciplina internazionale vincolante gli Stati membri dell’Unione. Dopo il fallimento della Costituzione europea, il progetto ha ritrovato slancio con la firma, il 13 dicembre 2007, del Trattato di Lisbona, per espressa previsione del quale i principi contenuti nella Carta vengono ad assumere un’efficacia vincolante. Infatti, attraverso il Trattato di Lisbona, l’Unione ha espressamente riconosciuto (Dichiarazione n. 1, nuovo art. 6 TUE) il valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Glossario Consiglio d’Europa: Organizzazione internazionale istituita nel 1949 per proteggere e promuovere il patrimonio comune di ideali e lo sviluppo economico e sociale dei paesi europei. Ciascuno degli Stati membri del Consiglio (attualmente sono 47) si impegna ad «accettare il principio della preminenza del diritto e quello in virtù del quale ogni persona, posta sotto la sua giurisdizione, deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». La struttura del Consiglio comprende tre organi istituzionali: il Comitato dei Ministri, formato dai Ministri degli Affari Esteri degli Stati membri, che è l’organo dotato di maggiori poteri; l’Assemblea consultiva organo parlamentare (formato dai rappresentanti dei Parlamenti degli Stati membri) che esprime voti e raccomandazioni al Comitato dei Ministri; il Segretariato, con a capo un Segretario Generale. Tra gli accordi siglati nell’ambito del Consiglio una particolare rilevanza assumono la Carta sociale europea e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Genocidio: Secondo la definizione contenuta nella Convenzione del 9 dicembre 1948, e ripresa dall’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale, per genocidio deve intendersi qualunque atto posto in essere con il preciso obiettivo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, razziale, nazionale o religioso. Costituiscono atti di genocidio: — l’uccisione dei membri del gruppo; — le gravi lesioni fisiche o mentali inflitte ai membri del gruppo; — la sottoposizione a condizioni di vita che comportano l’eliminazione totale o parziale del gruppo; — l’imposizione di misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo; — il trasferimento forzato dei bambini da un gruppo all’altro. Il crimine di genocidio è contemplato anche dal Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale dello Stato, che all’articolo 19 lo pone tra i crimini internazionali con tutte le conseguenze che ciò comporta. Capitolo Secondo I principi fondamentali Sommario: 1. Introduzione. ‑ 2. Il principio democratico (art. 1 Cost.). ‑ 3. I diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.). ‑ 4. I diritti della personalità (art. 2 Cost.). ‑ 5. Il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). - 6. Il principio lavorista (art. 4 Cost.). - 7. Il principio autonomista (art. 5 Cost.). - 8. La tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.). - 9. Il principio di laicità (artt. 7-8 Cost.). - 10. Il principio culturale e ambientalista (art. 9 Cost.). - 11. La condizione giuridica dello straniero (art. 10 Cost.). - 12. L’adattamento al diritto internazionale (art. 10 Cost.). - 13. Il ripudio della guerra e l’adesione all’Unione europea (art. 11 Cost.). - 14. Il tricolore italiano come bandiera della Repubblica (art. 12 Cost.). 1. Introduzione La Costituzione si apre con un gruppo di 12 articoli in cui sono enunciati i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico della Repubblica italiana. La loro collocazione all’inizio del testo non è casuale, rappresentando tali principi il fondamento su cui poggiano tutte le altre norme dell’ordinamento. Essi, infatti, non disciplinano specifiche materie, ma esprimono un complesso di idee (cd. tavola dei valori) che devono guidare (criteri guida) il legislatore e gli altri poteri dello Stato nel corretto esercizio della funzione legislativa, esecutiva e giurisdizionale. Attraverso questi principi, l’Assemblea costituente ha tracciato la «tavola» sui quali si doveva fondare la Repubblica, basata sulla democrazia, delineando anche le modalità di partecipazione dei cittadini alla vita politica, economica e sociale del Paese, e affermando il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, del principio di uguaglianza e del diritto al lavoro come mezzo per affermare la propria personalità. In questo modo il Costituente ripudia definitivamente la precedente forma di Stato autoritario per dar spazio ad un nuovo rapporto tra pubblici poteri e cittadini, anche attraverso la formazione e il riconoscimento delle autonomie territoriali (Comuni, Regioni, Città metropolitane etc.) e il rifiuto della guerra come mezzo di offesa agli altri popoli. 2. Il principio democratico (art. 1 Cost.) A) Introduzione La disposizione di apertura della Costituzione italiana (art. 1) sancisce il riconoscimento e l’acquisizione del risultato della consultazione popolare tenutasi il 2 giugno del 1946 (referendum istituzionale), con cui gli italiani avevano cancellato la forma di Stato monarchica e scelto quella repubblicana. Capitolo Secondo: I principi fondamentali 83 La Repubblica italiana non trova il suo fondamento sul potere dinastico (Savoia), ma si regge sul consenso dei governati, ciascuno dei quali ha il diritto di prendere parte, in condizioni di parità, alla vita politica del Paese. Ciò presuppone il riconoscimento di un’ampia autonomia personale, necessaria alla formazione di un libero convincimento intorno ai modi di soddisfare il bene comune, e il raggiungimento del consenso collettivo intorno ai valori fondanti dell’ordinamento repubblicano. Primario principio affermato dal Costituente è il riconoscimento del valore del lavoro, inteso come strumento di sviluppo della personalità umana nonché come mezzo per il progresso materiale e spirituale della società (v. §6). B) La sovranità popolare L’art. 1 della Costituzione italiana stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, non allo Stato o alla Nazione: sono i cittadini i reali detentori del potere di indirizzo politico, anche se l’esercizio della sovranità si svolge prevalentemente secondo modalità e con l’ausilio di soggetti diversi da essi (democrazia indiretta). In ogni caso, poiché la sovranità appartiene sempre e comunque a tutto il popolo (democrazia rappresentativa) la maggioranza che governa ha il dovere di non impedire che la minoranza possa far sentire la sua voce, esprimere le sue idee al corpo elettorale ed eventualmente essere in grado di conquistare il consenso di quest’ultimo per divenire «maggioranza» a sua volta, secondo il principio dell’alternanza delle forze politiche al potere proprio dei regimi democratici. 3. I diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) A) Nozione L’art. 2 Cost. stabilisce, nella prima parte, che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». I diritti inviolabili sono le posizioni giuridiche della persona considerate essenziali, in quanto innate nella natura umana e caratterizzanti la forma dello Stato democratico e tutelati a prescindere dal dettato costituzionale. Eventuali modifiche limitative costituirebbero non già una «revisione», ma un «sovvertimento» dell’assetto costituzionale. I diritti sono qualificati come «inviolabili» quando: — non possono essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto costituiscono fondamento della forma di Stato repubblicana, sociale e di diritto attualmente vigente in Italia (Corte cost. n. 366 del 1991); — sono indisponibili, intrasmissibili e irrinunciabili da parte dei loro titolari; — sono imprescrittibili: anche se non esercitati, non cadono mai in prescrizione. 84 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini Questi diritti sono riconosciuti all’uomo: — sia come singolo: tali sono ad esempio il diritto al nome, all’onore (diritti della personalità), alla libera manifestazione del proprio pensiero; — sia come membro di formazioni sociali: come, ad esempio, il diritto di associazione e di riunione e tutti i diritti relativi all’attività svolte dalle associazioni (culturali, sportive, politiche etc.). L’art. 2 estende diritti e libertà fondamentali alle formazioni sociali, i cd. «corpi intermedi», cioè famiglia, partiti politici, sindacati, società etc., che costituiscono il trait d’union tra le istituzioni e il cittadino, rendendo possibile ed effettivo lo sviluppo della persona umana e la sua partecipazione alla vita sociale, politica ed economica del Paese (art. 3 Cost.). B) Funzione dell’art. 2 Cost. In passato si è discusso se la norma dell’art. 2 Cost. dovesse considerarsi come norma di chiusura, cioè riassuntiva di tutti i diritti e le libertà fondamentali tutelati espressamente dalla Costituzione, ovvero come disposizione di apertura che attribuisce rilevanza giuridica anche ad altre libertà e valori personali non espressamente tutelati dalla Carta fondamentale ma che, fatti propri dalla coscienza sociale, vengano progressivamente riconosciuti dalla giurisprudenza e dal legislatore ordinario. Preferibile è da ritenersi la seconda tesi (BARBERA) secondo cui la norma dell’art. 2, riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo, ha la funzione di tutelare e garantire tutti quei diritti naturali e quei valori di libertà anche non ancora tradotti in specifiche norme costituzionali, ma che emergono distintamente nell’evoluzione del costume sociale (es. diritto alla riservatezza, diritto all’obiezione di coscienza, all’identità personale etc.). Tutti questi «nuovi diritti», grazie al disposto dell’art. 2, entrano a far parte del nostro ordinamento acquistando rilevanza costituzionale. Tale interpretazione è in sintonia con lo spirito garantistico della Costituzione che tutela globalmente e in qualsiasi forma i valori della persona umana. Secondo alcuni autori, però, accettando la lettura dell’art. 2 Cost. quale «catalogo aperto dei diritti» ed allargando l’insieme dei diritti fondamentali, non si fa altro che restringerne l’ambito di effettivo godimento, in quanto ognuno di essi sarà successivamente costretto a bilanciarsi con un maggior numero di diritti ed interessi potenzialmente confliggenti (BIN-PITRUZZELLA). La Costituzione in materia di applicazione di diritti inviolabili distingue tra cittadini e stranieri? Nella Costituzione, quando si parla di diritti inviolabili, viene usata generalmente l’espressione «tutti …» riferendosi, cioè, indistintamente a tutti gli individui. Talvolta, il Costituente, però, usa il termine «i cittadini …» (es.: art. 16 libertà di circolazione; art. 17 libertà di riunione; art. 18 libertà di associazione; art. 48 diritto di voto) per restringere ai soli cittadini l’applicazione di alcuni diritti fondamentali ritenuti «più delicati». Capitolo Secondo: I principi fondamentali 85 Con l’evoluzione dei tempi, la giurisprudenza ha mitigato, con numerose sentenze tale gap e le decisioni che hanno equiparato ai cittadini gli stranieri sono ormai sempre più numerose ed inoppugnabili. La giurisprudenza costituzionale, però, non ha mai in assoluto equiparato la condizione degli stranieri a quella dei cittadini, pur riconoscendo ai primi sempre la tutela di un nucleo irriducibile di diritti fondamentali (sent. 252/2001). 4. I diritti della personalità (art. 2 Cost.) A) Generalità Il riconoscimento dei diritti inviolabili è strettamente connesso con il concetto di «personalità», che pur essendo previsto nell’art. 2 della Costituzione viene ribadito dall’art. 3, comma 2, Cost. laddove si afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Tali riconoscimenti sono rinvenibili in molte altre disposizioni della Costituzione, tra le quali assume posizione prioritaria l’art. 13 che sancisce il diritto alla libertà personale. I diritti della personalità costituiscono l’insieme delle situazioni giuridiche soggettive strettamente collegate al concetto di «persona», tutelate dalla Costituzione o dalle leggi civili e penali, che assicurano all’individuo la propria identità, il proprio decoro, la propria immagine, il rispetto di cui gode presso gli altri (AMATO, BARBERA). Si tratta di diritti assoluti connessi a prerogative essenziali della persona e che, per questo motivo, si acquistano al momento della nascita e fanno capo a tutti (cittadini, stranieri e apolidi). Sono caratterizzati dalla necessarietà, in quanto non possono mai mancare, dalla indisponibilità, non essendo trasmissibili e non sono modificabili (in senso restrittivo) da leggi costituzionali. B) Classificazione Tra i diritti della personalità si possono annoverare: — il diritto alla vita ed all’integrità fisica riconosciuto, anche se in via indiretta, dall’art. 27 della Costituzione che, vietando la pena di morte, attribuisce alla vita umana il carattere di intangibilità ponendola al di sopra della potestà punitiva dello Stato (vedi cap. 3, par. 13, lett. H). Sotto il profilo sostanziale tale diritto riceve tutela sia dalla legislazione civile sia da quella penale. Per quanto riguarda in particolare i limiti alla possibilità di poter disporre liberamente del proprio corpo, l’art. 5 c.c. stabilisce che «sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica o quando siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume»; — il diritto all’integrità morale che consiste nel complesso delle prerogative che costituiscono la personalità di un individuo: il decoro, l’onore, il prestigio, e la reputazione della persona. 86 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini Per la tutela di questo diritto il legislatore ha previsto specifiche norme penali incriminatrici quali l’ingiuria e la diffamazione, e, sul piano civilistico, l’obbligo del risarcimento dei danni, compresi quelli morali (art. 2059 c.c., art. 185 c.p.); — il diritto all’immagine, che è tutelato dall’art. 10 c.c., il quale riconosce all’individuo la possibilità di impedire che altri facciano abuso della sua immagine. Infatti, l’utilizzazione o la pubblicazione dell’immagine altrui, senza che il soggetto interesssato vi abbia consentito, è vietata quando non risulti giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto, da scopi scientifici, culturali, dal collegamento a fatti di interesse pubblico o da esigenze di giustizia o di polizia (L. 22 aprile 1941, n. 633) ed, inoltre, quando venga pregiudicato il decoro o la reputazione della persona. A questo diritto la più recente dottrina ha affiancato il cd. diritto all’identità personale che tutela il soggetto contro ogni distorta rappresentazione, da parte di terzi, della propria personalità, immagine o pensiero; — il diritto al nome, che è tutelato dall’art. 22 Cost., oltre che da alcune norme del codice civile. Poiché il nome rappresenta il principale mezzo di identificazione della persona, gli artt. 6-10 c.c. provvedono a garantire l’esclusività dell’uso del proprio nome, nonché dello pseudonimo (il cd. nome d’arte) nei casi in cui acquisti la stessa importanza del nome (cfr. anche cap. 3, par. 13, lett. B); — il diritto alla riservatezza, ossia il diritto alla intimità della vita privata, che deve essere salvaguardata dall’altrui curiosità. La tutela di tale diritto, che pure non è previsto da una specifica norma costituzionale, viene ricavata per derivazione da quel complesso di norme che garantiscono le singole manifestazioni in cui si specifica il diritto in questione: l’inviolabilità del domicilio, la libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione, la pari dignità sociale dei cittadini etc. Il diritto alla riservatezza spesso può venire in contrasto con il diritto di manifestazione del pensiero nello specifico aspetto del diritto di cronaca. Tale diritto deve essere esercitato senza che ne vengano travalicati i limiti che consistono nella verità dell’informazione, nella sua rilevanza sociale e in una forma espositiva che non si concreti in un linguaggio di per sé offensivo. Come viene disciplinato il trattamento dei dati personali? Sul piano normativo, il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) disciplina il trattamento dei dati personali, vale a dire qualunque operazione o complesso di operazioni, svolti con o senza l’ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco (cioè la conservazione di dati personali con sospensione di ogni altra operazione), la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione dei dati. La disciplina si estende ai trattamenti di dati personali da chiunque effettuati nel territorio dello Stato, fatta eccezione per quelli a fini esclusivamente personali e per alcuni trattamenti operati in ambito pubblico, come quelli concernenti finalità di difesa, sicurezza, giustizia (a cui si applicano, comunque, alcune disposizioni della legge). In determinate ipotesi specificamente individuate dal legislatore (art. 37), per poter effettuare un trattamento, la persona fisica o giuridica, pubblica o privata cui competono le decisioni in ordine alle finalità e modalità dello stesso (denominata titolare del trattamento) deve darne notificazione al Garante per la protezione dei dati personali e richiedere il consenso espresso e documentato per iscritto dell’interessato, che deve essere informato (al momento della raccolta dei dati o successivamente) delle finalità e delle modalità del trattamento. Capitolo Secondo: I principi fondamentali 87 5. Il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) A) Introduzione Secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, manifesto ideologico della Rivoluzione francese, «tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune». Nel corso degli anni il principio di uguaglianza si è evoluto in conseguenza delle rivendicazioni e delle conquiste popolari e del progressivo ampliamento dei compiti assunti dai pubblici poteri, fino a divenire, nell’ambito dello Stato sociale, l’elemento qualificante di un ordinamento realmente democratico. La nostra Costituzione, frutto della lotta alla tirannide fascista, non poteva non accogliere e tutelare tale principio. Il primo comma dell’art. 3 Cost., infatti, stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali. Così disponendo, la norma in esame pone il principio di uguaglianza formale, che costituisce la regola fondamentale dello Stato di diritto. Il secondo comma dell’art. 3 Cost., invece, assegnando allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, getta le basi per l’affermazione del principio di uguaglianza sostanziale, al fine di ridurre gli effetti di una misura discriminatoria che connota una fase dell’evoluzione dello Stato di diritto in Stato sociale. Anche se l’art. 3 si riferisce ai soli cittadini è ormai pacifico che destinatari della disposizione devono considerarsi anche: — gli stranieri e gli apolidi (come la stessa Corte costituzionale ha confermato nella sentenza n. 54 del 1979); — le persone giuridiche e gli altri enti sforniti di personalità giuridica. B) Il principio di uguaglianza formale Il principio di uguaglianza formale ha trovato il suo primo riconoscimento nelle Costituzioni ottocentesche, sull’abbrivio dell’esempio della Rivoluzione francese (1789). Tale principio comporta due fondamentali conseguenze: — tutti sono uguali davanti alla legge e hanno pari capacità giuridica. Questo principio è riassunto dalla nota formula presente nelle aule di tribunale: «La legge è uguale per tutti»; — il riconoscimento della pari dignità sociale, senza alcuna distinzione legata al titolo nobiliare o di studio, al grado, all’appartenenza di classe o alla posizione e al ruolo rivestito. Anche tutti i pubblici poteri sono soggetti al diritto e alla 88 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini legge. Si pensi all’art. 101 Cost., che impone la soggezione dei giudici alla legge, e all’art. 97 Cost., che prescrive l’imparzialità della pubblica amministrazione obbligando i funzionari pubblici al rispetto delle leggi. Dal riconoscimento della pari dignità sociale ne deriva per lo Stato (e per i cittadini) il divieto di ogni forma di discriminazione, come ben esemplifica il comma 1 dell’art. 3 Cost., che individua alcuni specifici criteri che non possono essere motivo di discriminazione, in quanto intimamente legati all’identità stessa dell’individuo: il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali. Nel caso, dunque, che il legislatore approvasse leggi discriminatorie sulla base di questi elementi, la Corte costituzionale provvederebbe ad annullarle. C) Il principio di ragionevolezza delle leggi È un corollario del principio di uguaglianza, elaborato dalla Corte costituzionale sulla scia di analogo principio elaborato dalla giurisprudenza anglosassone. Il principio di ragionevolezza esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congrue rispetto al fine perseguito dal legislatore: così è ragionevole una legge a favore della maternità in quanto, anche se crea un privilegio a favore della donna, lo fa unicamente in relazione all’insostituibile ruolo naturale di madre che solo la donna può assumere. Si ha, invece, violazione della «ragionevolezza» solo quando un trattamento discriminatorio sia in contraddizione con il pubblico interesse. Il principio in esame costituisce dunque «un limite al potere discrezionale del legislatore» (BARBERA), che impedisce che esso ne faccia esercizio arbitrario. D) L’aspirazione all’uguaglianza sostanziale Il fatto che tutti gli individui siano uguali davanti alla legge, che tutti godano di pari dignità sociale e che il legislatore non possa adottare misure discriminatorie non prescrive, però, che i cittadini siano posti su un piano di assoluta parità. Sono ammesse nel nostro sistema, infatti, differenze dovute a condizioni socio-economiche: si pensi ad esempio ai master a pagamento presso le università e le scuole più prestigiose, che garantiscono sbocchi occupazionali importanti, ma a cui difficilmente possono accedere individui privi di un’adeguata capacità economica. Il principio di uguaglianza formale resterebbe, così, una mera enunciazione teorica se non fosse integrato dall’impegno dello Stato sociale a combattere le esasperate condizioni di diseguaglianza economica. Il nostro ordinamento, nel costruire lo Stato sociale, ha parzialmente accolto questo principio: il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, come detto, affida alla Repubblica il compito di intervenire per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, affinché tutti i cittadini siano posti inizialmente su un Capitolo Secondo: I principi fondamentali 89 piano di accettabile parità e godano allo stesso modo di determinate utilità sociali (quali l’istruzione, la salute, il lavoro), per dare pieno sviluppo alla propria persona e così, di partecipare alla gestione del paese. 6. Il principio lavorista (art. 4 Cost.) A) Introduzione La Costituzione italiana, affermando che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1), sancisce il principio lavorista: il lavoro costituisce il valore centrale dell’ordinamento e il criterio guida della politica nazionale, che deve essere indirizzata verso la massima occupazione. La Carta costituzionale pur riaffermando i principi stabiliti dall’ideologia liberale (Stato di diritto), considera il diritto al lavoro (art. 4, comma 1, Cost.) come mezzo necessario per l’affermazione della personalità dell’individuo (MORTATI) e nello stesso tempo come strumento di progresso materiale e sociale (art. 4, comma 2, Cost.). In quest’ottica, il lavoro rappresenta il primo diritto sociale, in quanto costituisce idealmente la fonte privilegiata di sostentamento dell’individuo e rappresenta uno strumento imprescindibile per affermare la sua autonomia e indipendenza per consentirgli l’esercizio di ogni altro diritto costituzionalmente garantito. B) Il lavoro come diritto Il diritto al lavoro, sancito dal comma 1 dell’art. 4 Cost. (La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto), non rappresenta una norma precettiva, ma programmatica e, quindi, «in nessun caso» attiva un diritto soggettivo perfetto azionabile dal singolo in giudizio, bensì indica un indirizzo fondamentale per il legislatore ordinario, al fine di promuovere le condizioni che rendano effettivo tale diritto. Tale disposizione ha notevole valore ideologico promozionale dello «Stato sociale» e segna il ruolo interventista dello Stato nell’economia per operare una perequazione di situazioni non equilibrate e promuovere lo sviluppo di una effettiva giustizia sociale. Pertanto il diritto al lavoro si configura come: — diritto di libertà: ogni cittadino deve essere libero di scegliere quale attività lavorativa svolgere; — diritto civico: ogni cittadino ha il diritto di pretendere dallo Stato che si attivi per promuovere le condizioni che lo rendano effettivo. 90 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini C) Il lavoro come dovere di solidarietà sociale Dalla lettura dell’art. 4, comma 2, Cost. (Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società) emerge la volontà del Costituente di considerare il lavoro non solo come un diritto, ma anche un dovere di solidarietà che ciascun cittadino è tenuto ad adempiere per contribuire al progresso dell’intera collettività. Secondo autorevole dottrina (CRISAFULLI), che tale dovere abbia un contenuto meramente programmatico, lo si ricava dal fatto che non è prevista alcuna sanzione per la sua mancata osservanza il cui obbligo — comunque — inciderebbe sulla sfera della libertà del singolo. 7. Il principio autonomista (art. 5 Cost.) Contrapponendosi all’ordinamento fascista, in cui le istanze pluralistiche ed autonomistiche manifestatesi dopo l’Unità erano state cancellate, per non attentare alla fragile unità raggiunta, la Costituzione italiana sancisce il principio del pluralismo territoriale, il riconoscimento, cioè, dell’esistenza di centri di potere autonomi, diversi dallo Stato più vicini ai cittadini, dotati di differenti gradi di autonomia. Nell’art. 5 della Costituzione viene affermato, in subordine all’intangibile principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, sia il principio del decentramento dei poteri che quello della promozione e del riconoscimento delle autonomie locali (Regioni, Province, Comuni etc.). Dall’esame della norma si ricavano tre punti fondamentali: 1. l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, inteso come limite invalicabile al riconoscimento da parte dello Stato persona e alla promozione delle autonomie locali; 2. l’attuazione da parte dello Stato del più ampio decentramento amministrativo nella erogazione dei servizi che attua in prima persona; 3. l’adeguamento della legislazione dello Stato alle esigenze dell’autonomia e del decentramento, attraverso il riconoscimento e la creazione di enti territoriali espressione dello Stato comunità. «Decentramento» e «autonomia», pur non essendo sinonimi, sono, tuttavia, collegati perché rispondenti ad esigenze in parte coincidenti: lo sviluppo delle autonomie territoriali, infatti, garantisce anche un significativo decentramento di funzioni, mentre l’attuazione di un più ampio decentramento amministrativo consente di avvicinare ai propri destinatari i servizi e le funzioni che dipendono dallo Stato: i cittadini e gli utenti finali dislocati sul territorio nazionale. Nonostante il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali, lo Stato, in ossequio al principio di unità-indivisibilità, resta comunque l’Ente sovrano per eccellenza. Infatti, non bisogna dimenticare che la riforma del Titolo V del 2001 ha lasciato immutato il disposto di cui all’art. 5, che enuncia i principi posti a salvaguardia dell’unità della Repubblica. Capitolo Secondo: I principi fondamentali 91 8. La tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.) Il contenuto normativo dell’art. 6 Cost., che sancisce la tutela delle minoranze linguistiche da parte della Repubblica, costituisce la principale espressione del nuovo indirizzo politico adottato in relazione alle minoranze dopo la caduta del regime fascista e la costituzione di uno Stato democratico che si qualificava non solo in senso liberale, ma anche e soprattutto in senso pluralistico e sociale (PIZZORUSSO). L’art. 6 della Costituzione oltre a vietare, alla stregua dell’art. 3, ogni discriminazione, vale a dire un trattamento peggiorativo fondato sulla diversità di lingua, offre anche una tutela positiva, al fine di conservare il patrimonio linguistico e culturale delle minoranze in ossequio ai principi di pluralismo e tolleranza. Dal punto di vista della tutela legislativa, fino all’emanazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche non esisteva nell’ordinamento giuridico italiano una legge-quadro nazionale sui principi e criteri direttivi uniformi per la tutela delle minoranze, tale da assicurare standards minimi di tutela. Uno status giuridico privilegiato veniva riconosciuto soltanto alle minoranze nazionali (francofona in Valle d’Aosta, germanofona in Trentino, slovena in Friuli-Venezia Giulia) cui una legislazione di rango costituzionale (gli Statuti delle Regioni speciali) e la relativa normativa di attuazione riservava forme particolari di tutela. Attraverso la legge 482/99, invece, sono stati assicurati interventi a tutela del patrimonio culturale e linguistico di tutte le minoranze storiche (albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo) a livello di scuole, università, amministrazioni pubbliche, favorendone la conoscenza, l’uso, la conservazione. 9. Il principio di laicità (artt. 7-8 Cost.) A) Introduzione Lo Stato italiano è una Repubblica democratica laica sebbene manchi nella sua Carta costituzionale una specifica ed espressa previsione del principio di laicità come pure avviene in altri Stati (si pensi all’art. 1 della Costituzione francese). Il concetto di laicità può essere inteso (HAARSCHER): — in senso ampio, quando un regime giuridico rispetta la libertà di coscienza, il che implica che lo Stato non appartiene a una parte della popolazione, ma a tutti, senza che vi possano essere discriminazioni basate sugli orientamenti personali; — in senso stretto, laddove oltre l’affermazione della libertà religiosa, si rimanda a una separazione delle confessioni religiose dallo Stato. 92 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini Da quanto detto, risulta chiaro che l’Italia è uno Stato laico, nel senso che, come affermato dalla giurisprudenza (sent. Cass. pen. 439/2000), le leggi ordinarie, i regolamenti e tutta l’attività della Pubblica Amministrazione devono conformarsi al principio della laicità. Tale principio, pur non formalmente espresso, può comprendersi in via interpretativa dall’analisi di diversi articoli della Costituzione (cfr. artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20) e dall’orientamento che la giurisprudenza, soprattutto quella costituzionale, ha espresso in differenti occasioni. Da tale analisi traspare il fenomeno definito da più parti della dottrina (CERIOLI, CAMASSA) «laicità all’italiana» che non significa indifferenza nei confronti della religione, ma garantire e assicurare eguale tutela del sentimento religioso, indipendentemente dalla confessione che lo esprime. B) I rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica L’art. 7 della Costituzione dispone che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». La Costituzione riconosce, quindi, l’originarietà dell’ordinamento della Chiesa cattolica, attribuendo ad essa i caratteri dell’indipendenza e della sovranità, tipici degli ordinamenti statali. I rapporti fra questi ordinamenti sono regolati da veri e propri accordi, i Patti Lateranensi. I Patti Lateranensi rappresentavano, all’epoca della loro stipula (11 febbraio 1929), la risoluzione di tutti i motivi d’attrito tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, sorti a seguito della presa di Roma nel 1870 e comunemente noti come «questione romana». L’annessione di Roma all’Italia e la conseguente scomparsa dello Stato della Chiesa (almeno nelle forme e nei confini fino a quel momento vigenti) aveva posto, infatti, il problema dell’indipendenza del Papa e della Santa Sede, ovvero del nuovo «status giuridico» della Chiesa. I Patti Lateranensi possono essere modificati con legge ordinaria, purché le modificazioni siano concordate fra le parti. Qualora manchi l’accordo, lo Stato può procedere egualmente alle modifiche, ricorrendo, però, al procedimento di revisione costituzionale ex art. 138 Cost. Ad essere costituzionalizzato, quindi, non è il contenuto dei Patti, bensì il principio pattizio. Diversamente, poiché l’art. 7 consente la modifica dei Patti con l’ordinario procedimento legislativo, si assisterebbe al fenomeno di norme costituzionali per le quali sono previste forme di revisione diverse da quelle disciplinate dall’art. 138 Cost. In ogni caso, le norme dei Patti Lateranensi possono resistere all’abrogazione di norme di legge ordinarie e, si ritiene, derogare a norme di rango costituzionale, trattandosi di norme pattizie a carattere speciale (lex posterior generalis non derogat priori speciali). L’unico limite è rappresentato dai principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato (Corte cost. n. 175 dell’11-12-1973). Dopo un intenso lavoro diplomatico e circa otto anni di trattative, il 18 febbraio 1984 è stato stipulato, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, un nuovo accordo con cui sono state apportate modificazioni al Concordato Lateranense. Capitolo Secondo: I principi fondamentali 93 Rispetto a quello del 1929, il Concordato attuale presenta alcuni aspetti che indubbiamente possono considerarsi rivoluzionari se riferiti alla legislazione ecclesiastica precedentemente vigente. Innanzitutto è stato abrogato (art. 1) il principio della «religione di Stato» (o del confessionismo statale) a conferma della «neutralità» dello Stato in materia religiosa. Altre importanti innovazioni sono state apportate alla disciplina del matrimonio che il Concordato del 1929 riconosceva quale sacramento sancendone il carattere indissolubile. Il nuovo accordo, intervenuto dopo l’approvazione, nel 1970, della legge sul divorzio (L. 1-121970, n. 898), si limita a riconoscere effetti civili al matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico. Le sentenze di nullità del matrimonio dei tribunali ecclesiastici non sono più indispensabili ai fini della cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico trascritto, potendo i coniugi avvalersi dell’art. 2 della legge sul divorzio. Inoltre, è stato superato il principio che considerava l’insegnamento della religione cattolica come «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica», imponendolo come obbligatorio (salvo dispensa). Il Concordato del 1984 continua ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica come materia ordinaria nelle scuole pubbliche (non universitarie) di ogni ordine e grado, ma garantisce agli studenti il diritto di scegliere se avvalersi o meno di detto insegnamento. C) I rapporti tra lo Stato e le altre confessioni religiose La disciplina dei culti acattolici è contenuta nell’art. 8 della Costituzione, che stabilisce, in particolare, ai commi 2 e 3: «Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». Secondo la previsione dell’art. 8, comma 2, Cost. le confessioni acattoliche godono di una posizione di autonomia ed indipendenza che si sostanzia nell’autodeterminazione e nell’autorganizzazione, sia pure con il limite del rispetto «dell’ordinamento giuridico italiano», pena la loro illiceità. Tale autonomia ed indipendenza attiene, dunque, alla sfera interna dell’attività dei culti acattolici, in quanto l’attività esterna e in particolare i rapporti con lo Stato sono oggetto di intese («principio pattizio»). La scelta di utilizzare «strumenti di regolazione dei reciproci rapporti tra Stato e confessioni religiose» diversi da quelli adoperati con la Chiesa cattolica, ha comportato una situazione di tutela privilegiata della confessione cattolica rispetto alle altre. La natura discriminatoria di tale situazione è stata causata dal ritardo con cui lo Stato, da un lato, ha proceduto a stipulare le intese con le confessioni acattoliche, riconoscendo loro dignità e tutela, dall’altro ha provveduto a rivedere i Patti Lateranensi, eliminando la definizione della religione cattolica come religione di Stato (CARETTI-DE SIERVO). Tali problemi in buona parte permangono per le confessioni religiose con le quali lo Stato non ha concluso le intese e che sono ancora disciplinate dalla L. 1159/1929 e dal R.D. 289/1930. 94 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini 10.Il principio culturale e ambientalista (art. 9 Cost.) L’art. 9 della Costituzione stabilisce che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Tale disposizione costituzionale, che delinea i tratti della cd. «Costituzione culturale» coinvolgendo pubblici poteri e privati, enuncia due principi fondamentali: — la promozione e lo sviluppo di cultura e ricerca: la Repubblica in tutte le sue articolazioni si impegna ad incentivare il progresso culturale, scientifico e tecnico del paese, in competizione con i Paesi più progrediti, evitando in ogni caso di imporre modelli, modalità e obiettivi e salvaguardando la libertà dell’arte e della scienza; — la tutela del paesaggio e dei beni culturali ed ambientali: a tal fine i compiti di tutela da parte dello Stato hanno una portata più ampia rispetto a una concezione essenzialmente difensiva dei beni paesaggistici, culturali e ambientali. In particolare, per quanto riguarda il paesaggio, la tutela consiste nella «regolazione cosciente degli interventi», nella «direzione della costruzione del paesaggio, nella scelta fra i diversi interessi e le diverse possibilità di uso e di destinazione» (PREDIERI). In merito ai beni culturali, consiste sia nella preservazione dell’integrità fisica del bene, ma anche nella valorizzazione della funzione del bene intesa come massima «fruibilità» (ROLLA). Infine, con riferimento all’ambiente, la tutela non si sostanzia solo nel riconoscimento del valore «naturalistico» del bene, ma prevede anche la promozione degli aspetti culturali ed educativi che non sempre sono compresi pur rivestendo un’importanza primaria per la vita della comunità. In realtà dell’articolo va privilegiata una lettura unitaria, nel senso che «sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile» (CIAMPI). Migliorare il livello culturale dei consociati impone, infatti, non solo di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico-artistico, ma anche di valorizzarli in termini di memoria culturale da alimentare garantendone la fruibilità. D’altra parte, l’intervento dei pubblici poteri non può intaccare la libertà di chi fa cultura e ricerca, non potendo cioè imporre una propria prospettiva di sviluppo culturale, celando in questo modo l’affermazione di una cultura di regime. 11.La condizione giuridica dello straniero (art. 10 Cost.) A) La disciplina dell’immigrazione: fondamenti costituzionali Nell’ordinamento giuridico italiano la condizione giuridica dello straniero è prevista dalla Costituzione ed è disciplinata dalla legislazione ordinaria. Capitolo Secondo: I principi fondamentali 95 Per quanto riguarda il dettato costituzionale, l’art. 10, comma 2, delega la legislazione ordinaria per la regolazione della condizione giuridica dello straniero in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Il successivo comma 3 dell’art. 10 stabilisce che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Il comma 4, infine, vieta l’estradizione per motivi politici, ovvero la consegna da parte dello Stato italiano a un altro Stato di un individuo condannato o accusato di crimini commessi per opporsi a regimi illiberali o per affermare un diritto di libertà il cui esercizio nel suo Paese è negato. Per quanto riguarda la legislazione ordinaria, la disciplina principale è dettata dal D.Lgs. 25-7-1998, n. 286 che istituisce il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. In particolare, l’art. 1 del Testo Unico sull’immigrazione definisce stranieri i «cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e gli apolidi». Dunque, secondo il dettato dell’art. 1, bisogna distinguere fra cittadini appartenenti all’Unione europea e cittadini non appartenenti all’Unione europea. B) I cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea La realizzazione del mercato comune europeo ha implicato l’eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli agli scambi di merci, alla circolazione di persone, servizi e capitali. La libera circolazione delle persone, in particolare, persegue l’obiettivo di facilitare ai cittadini comunitari l’esercizio di attività lavorative di qualsiasi natura nell’intero territorio comunitario. Con la riforma dei Trattati avvenuta ad opera del Trattato di Lisbona, vige il paragrafo 1 dell’articolo 21 TFUE in base al quale «ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi»: in tal modo, viene esteso tale diritto a tutti i cittadini dell’Unione europea, a prescindere quindi dal fatto di svolgere o meno un’attività lavorativa in un altro Stato membro. C) I cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea La disciplina relativa alla condizione dei cittadini non appartenenti all’Unione europea è contenuta nel D.Lgs. 25-7-1998, n. 286, il cd. Testo Unico sull’immigrazione. In particolare, l’art. 4, commi 1 e 2, consente l’ingresso nel territorio dello Stato allo straniero in possesso di: — passaporto valido o documento equipollente; 96 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini — visto d’ingresso rilasciato dalle autorità diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine o di stabile residenza dello straniero. Contestualmente alla presentazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno, deve essere presentato un Accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno (D.P.R. 14-9-2011, n. 179). La stipulazione dell’Accordo di integrazione rappresenta condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno e la perdita integrale dei crediti determina l’espulsione dal territorio dello Stato (nuovo art. 4bis del D.Lgs. 286/1998, introdotto dalla L. 94/2009). La richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno, in base a quanto previsto dal comma 2ter dell’art. 5, D.Lgs. 286/1998, è sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro. Lo straniero che sia in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito sufficiente per sé e per i suoi familiari e di un alloggio idoneo, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, per sé e per i familiari (art. 9, comma 1, D.Lgs. 286/1998). Il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, con l’emanazione della L. 94/2009 (art. 9, comma 2bis del D.Lgs. 286/1998), è ora subordinato al superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana le cui modalità di svolgimento sono determinate con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca (D.M. 4-6-2010). Da ultimo, il D.Lgs. 28-6-2012, n. 108, recante attuazione della direttiva 2009/50/CE sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di Paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati, ha inserito l’art. 27 quater che prevede il nuovo permesso di soggiorno «Carta blu Ue» concesso ai lavoratori stranieri altamente qualificati ossia coloro che siano in possesso: — del titolo di istruzione superiore rilasciato da autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale e della relativa qualifica professionale superiore; — dei requisiti previsti per l’esercizio delle professioni regolamentate (D.Lgs. 6-11-2007, n. 206). Tale normativa stabilisce che tale tipologia di lavoratori possano entrare in Italia in ogni momento dell’anno, indipendentemente da quanto previsto dal decreto flussi. Lo straniero titolare di Carta blu UE può chiedere al Questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo se dimostra: — di aver soggiornato, legalmente ed ininterrottamente, per cinque anni nel territorio dell’Unione in quanto titolari di Carta blu UE; — di essere in possesso, da almeno due anni, di un permesso Carta blu UE. Capitolo Secondo: I principi fondamentali 97 D) I diritti degli stranieri Nei confronti dello straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio italiano, quindi anche se entrato clandestinamente, deve essere garantito il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana previsti da norme interne o da consuetudini e convenzioni internazionali (art. 2, comma 1, D.Lgs. 286/1998). La Corte costituzionale, in proposito, fin dalla sentenza 252/2001, ha chiarito come esistano garanzie costituzionali che valgono per «tutti», cittadini e stranieri, non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. In virtù di tale principio, la Corte ha confermato tale orientamento ritenendo indispensabile un bilanciamento tra l’osservanza del provvedimento dell’autorità, in materia di controllo dell’immigrazione illegale, e l’insopprimibile tutela della persona umana. La Corte ha riconosciuto, ad esempio, come diritti fondamentali il diritto alla vita (permane il divieto di estradizione verso Stati in cui vige la pena di morte), il diritto a professare la propria religione, il diritto alla difesa (sent. 222/2004), il diritto alla famiglia (sent. 245/2011). Lo straniero regolarmente soggiornante, invece, gode anche dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il Testo Unico non dispongano diversamente, fermo restando l’applicazione della clausola di reciprocità (art. 2, comma 2). Inoltre, lo straniero regolare può prendere parte alla vita pubblica locale (art. 2, comma 4) e gode della parità di trattamento relativamente alla tutela giurisdizionale, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi, pur nei limiti e nei modi previsti dalla legge (art. 2, comma 5). E) Le modifiche introdotte dalla L. 94/2009 La condizione giuridica dello straniero ha subito una grave e significativa modifica con l’emanazione della L. 94/2009 (cd. nuovo Pacchetto sicurezza) che prevede un inasprimento della lotta contro l’immigrazione irregolare. In particolare, il nuovo art. 10bis del D.Lgs. 25-7-1998, n. 286, stabilisce che lo straniero che illegalmente entra o si trattiene nel territorio dello Stato, è punito con un’ammenda che varia da 5.000 a 10.000 euro. Per contrastare efficacemente l’immigrazione clandestina, la L. 94/2009 non punisce solo chi entra irregolarmente nel territorio italiano ma anche chi favorisce tale illecito. In particolare, l’art. 12 del D.Lgs. 286/1998, come modif. dalla L. 94/2009, al comma 1, punisce con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona chiunque promuova, diriga, organizzi, finanzi o effettui il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compia altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente. 98 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini 12.L’adattamento al diritto internazionale (art. 10 Cost.) A) L’art. 10 della Costituzione L’art. 10 Cost., comma 1, prevede: «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute». Non è agevole stabilire quali norme il Costituente abbia voluto ricondurre a tale categoria: indubbiamente, in esse rientrano le consuetudini internazionali (ivi comprese quelle locali e particolari). Secondo GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES sono riconducibili alla definizione di cui all’art. 10 le sole norme consuetudinarie; dello stesso parere è CONFORTI che, però, annovera tra le norme consuetudinarie anche i princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. L’obbligo di conformarsi agli obblighi derivanti dal diritto internazionale vige per: — il Parlamento, che non potrà approvare leggi contrarie alle norme internazionali e dovrà emendare o abrogare quelle eventualmente contrastanti; — la Pubblica Amministrazione, in particolare il Governo nell’adozione di decreti legge e decreti legislativi; — la Magistratura, che dovrà applicare le prescrizioni del diritto internazionale ratificate dallo Stato italiano ed assicurarne il rispetto. B) Rango delle norme consuetudinarie Per definire il rango delle norme internazionali recepite nell’ordinamento italiano mediante le diverse procedure di adattamento, occorre procedere ad alcune precisazioni. Le consuetudini hanno rango costituzionale poiché il loro recepimento si ha per espressa previsione costituzionale. Non desta problemi il loro rapporto con le leggi ordinarie, che risultano essere gerarchicamente inferiori e pertanto, qualora confliggenti, sono da dichiarare costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 10 Cost. Appare, invece, più ostico da risolvere il contrasto con norme interne di rango costituzionale, su cui è intervenuta la Corte costituzionale (sent. 18-6-1979, n. 48). La Corte, in particolare, ha affermato che «per quanto attiene alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che venissero in esistenza dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’art. 10, non potrà in alcun modo consentire la violazione dei princìpi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale…». Capitolo Secondo: I principi fondamentali 99 13.Il ripudio della guerra e l’adesione all’Unione europea (art. 11 Cost.) A) Il dettato costituzionale L’art. 11 della Costituzione enuncia i principi che orientano la posizione dell’Italia nel consesso internazionale, con riferimento alla sua relazione con la guerra e alle limitazioni della sovranità nazionale ritenute necessarie al fine di consentire l’ammissione della Repubblica italiana all’ONU. Le limitazioni cui si fa riferimento sono da intendersi come relative ad operazioni di carattere militare in un contesto in cui l’Italia, da poco uscita dalla seconda guerra mondiale, rinunciava all’uso della forza bellica e desiderava inserirsi in meccanismi di risoluzione delle controversie che l’ONU aveva predisposto, accettandone i condizionamenti. Nonostante fosse questa la ratio dell’art. 11 Cost., si ritenne che il riferimento alle «limitazioni di sovranità» si potesse intendere in un’accezione così ampia da consentire anche l’adesione dell’Italia alle Comunità europee. Tali limitazioni concernono non solo l’attività normativa dello Stato, ma anche quella amministrativa e giurisdizionale sicché in conseguenza della stipulazione dei trattati comunitari, i cittadini sono sottoposti, oltre che alle autorità nazionali, a un sistema di pubblici poteri estraneo e indipendente rispetto ad esse. B) I cd. controlimiti La norma costituzionale del citato articolo 11, naturalmente, fa riferimento a specifiche «limitazioni» di sovranità e non ad una sua totale cessione. I limiti alla tollerabilità delle incidenze europee sul sistema costituzionale si possono individuare nella stessa idea di limitazione, la quale non può comportare la compromissione dei valori fondamentali del nostro ordinamento. Da qui l’elaborazione della dottrina dei «controlimiti» da parte della Corte costituzionale. Secondo la Corte costituzionale il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana e dei principi fondamentali costituisce il presupposto dell’inquadramento del fenomeno comunitario nell’ambito dell’articolo 11 Cost., ma anche un limite invalicabile al recepimento di qualunque disposizione comunitaria. 14.Il tricolore italiano come bandiera della Repubblica (art. 12 Cost.) La bandiera costituisce il vessillo scelto dal Costituente, caratterizzato da tre fasce verticali di uguali dimensioni e ispirato al modello francese del 1790 ove le tre bande uguali (utilizzate successivamente da tutte le democrazie europee con differenti colorazioni) rappresentano i tre cardini (libertà, uguaglianza, fraternità) che costituiscono la matrice ideologica e libertaria comune degli Stati democratici. 100 Parte Seconda: I diritti e i doveri dei cittadini La collocazione della disposizione sulla bandiera nazionale, all’interno dei principi fondamentali, appare particolarmente significativa; infatti in tal modo si è voluto attribuire alla norma un forte grado di rigidità tale da sottrarla alla «revisione ordinaria» e a un eventuale attacco di un «ideologia contraria e antidemocratica». Pertanto, come sottolineato dalla Corte costituzionale, la bandiera, nell’ottica democratica, rappresenta «simbolicamente un certo Paese, l’identità di un determinato Stato e se mai, anche l’ideologia che la maggioranza del popolo di quest’ultimo accetta e propone al confronto democratico» (sent. 189/1987). Glossario Ambiente: è l’insieme dei fattori fisici, chimici, biologici e sociali che esercitano una influenza apprezzabile sulla salute ed il benessere degli individui e delle collettività e che necessitano, pertanto, di idonee misure di salvaguardia. La Costituzione italiana non contiene un’esplicita definizione di (—) né alcuna disposizione a tutela dell’(—). Quest’ultima è, in ogni caso, desumibile dagli artt. 9 (tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione), 32 (tutela della salute), 41 (divieto di iniziativa economica privata in contrasto con l’utilità sociale) e 44 (razionale sfruttamento del suolo). È da ricordare, inoltre, che l’art. 117 riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la tutela dell’(—), dell’ecosistema e dei beni culturali (art. 117, co. 2, lett. s)). Con l’approvazione del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e successive modifiche, si è messo ordine in materia ambientale, raccogliendo, in un unico corpus normativo, oltre ai principi generali in tema di tutela ambientale, le procedure di valutazione ambientale (VIA, VAS e AIA), le norme sulla tutela delle acque dall’inquinamento dell’aria, sulla gestione dei rifiuti e sul danno ambientale. L’obiettivo primario di questo provvedimento è, appunto, la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Guerra: forma di uso della forza con la quale uno Stato (cd. belligerante) ricorre alla violenza su persone, territorio e beni appartenenti ad un altro Stato (cd. nemico). È una situazione prevista dal diritto internazionale tanto che si applica il cd. diritto bellico, e gli Stati estranei beneficiano del cd. status di neutralità. La (—), come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è bandita dalla Carta delle Nazioni Unite, che ha affidato il compito del mantenimento della pace al sistema di sicurezza collettiva. L’unica eccezione è costituita dal diritto naturale di autotutela, sia individuale che collettiva, riconosciuto agli Stati (art. 51 Carta O.N.U.). Capitolo Primo Il Parlamento Sommario: Sezione Prima: Composizione e struttura: 1. Nozione. - 2. Struttura del Parlamento. - 3. I lavori parlamentari. - 4. Lo svolgimento dei lavori. - 5. Le Camere riunite in seduta comune. - 6. Scioglimento e proroghe delle Camere. - 7. Prerogative delle Camere. - 8. Gli organi interni delle Camere. - 9. Lo status di membro del Parlamento. 10. Prerogative dei parlamentari. - 11. Cessazione dalla carica di parlamentare. - Sezione Seconda: Attribuzioni e funzioni: 12. Le funzioni delle Camere. - 13. Il procedimento legislativo per le leggi ordinarie (art. 70 Cost.). - 14. La fase preparatoria. - 15. La fase costitutiva. - 16. La fase di integrazione dell’efficacia. - 17. La legge delega e la conversione dei decreti-legge. - 18. La deliberazione dello stato di guerra (art. 78 Cost.). - 19. La concessione dell’amnistia e dell’indulto (art. 79 Cost.). - 20. Leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali (art. 80 Cost.). - 21. La legge di approvazione del bilancio dello Stato (art. 81 Cost.). - 22. Gli atti di indirizzo politico e gli atti ispettivi. - 23. Parlamento italiano e Unione europea. Sezione Prima Composizione e struttura 1. Nozione Il Parlamento, nel sistema costituzionale italiano, è un organo: a) costituzionale, in quanto rientra nell’organizzazione costituzionale dello Stato e partecipa all’esercizio della sovranità, attraverso la titolarità della funzione legislativa; b) complesso, essendo costituito da due organi posti su un piano di piena parità giuridica (le Camere); c) collegiale, essendo formato da più componenti o membri che non agiscono individualmente, ma come collegio; d) rappresentativo, giacché rappresenta la volontà politica del popolo; e) con funzioni: — legislative, spettandogli il potere di esprimere la volontà politica del Paese, trasfondendola in norme giuridiche aventi valore di legge; — di controllo politico, esercitato sul Governo (e sugli organi da esso dipendenti), che per poter svolgere le sue funzioni deve godere della fiducia delle Camere; — giurisdizionali, nei casi di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione. 158 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica 2. Struttura del Parlamento La Costituzione italiana prevede un bicameralismo perfetto o pieno (art. 55 Cost.), e integralmente rappresentativo (LAVAGNA). Il Parlamento è infatti composto da due Camere: il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati. Ambedue sono elette a suffragio universale e diretto, hanno la medesima durata (5 anni) e sono dotate degli stessi poteri. Esse sono poste, quindi, su un piano di completa parità: ciò si evince dall’art. 70 Cost. («la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere») e dall’art. 94 Cost. («il Governo deve avere la fiducia delle due Camere»). Nell’ordinamento italiano, nonostante il bicameralismo perfetto, le due Camere si distinguono per: a) un diverso elettorato attivo: sono in grado di eleggere i loro rappresentanti alla Camera dei deputati tutti coloro che hanno compiuto la maggiore età (attualmente 18 anni); al Senato, invece, sono elettori solo coloro che hanno compiuto i 25 anni; b) un diverso elettorato passivo: possono essere eletti deputati tutti coloro che hanno compiuto i 25 anni, mentre possono essere eletti membri del Senato solo coloro che hanno compiuto i 40 anni; c) il numero dei componenti: i deputati sono 630, i senatori 315 (a cui vanno aggiunti quelli non elettivi); d) la presenza di membri non elettivi al Senato: in tale Assemblea esistono due categorie (assai ridotte numericamente) di membri non elettivi: i senatori a vita di nomina presidenziale (sono scelti tra «cittadini che abbiano illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», art. 59, comma 2, Cost.) e quelli a vita di diritto in quanto hanno rivestito la carica di Presidente della Repubblica. Prospettive di riforma La revisione costituzionale prevista dal disegno di legge costituzionale S. 1429, presentato in Senato l’8 aprile 2014 e da questo approvato in prima lettura l’8 agosto 2014, prevede quale punto cardine la trasformazione del bicameralismo perfetto dell’attuale sistema parlamentare italiano in un bicameralismo imperfetto. In particolare, il Parlamento sarebbe composto da: — una Camera dei deputati, i cui membri rappresentano la Nazione; — un Senato della Repubblica, i cui membri rappresentano le istituzioni territoriali. Il nuovo Senato dovrebbe essere composto da 95 senatori, in luogo degli attuali 315, e da 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica. In particolare, i 95 senatori verrebbero eletti: — dai Consigli regionali tra i propri componenti mediante sistema proporzionale. A ciascuna Regione i seggi sono assegnati in proporzione alla popolazione e, in ogni caso, nella misura minima di 2 per ciascuna; — dai Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano tra i propri componenti mediante sistema proporzionale nella misura di 2 per ciascuno; — tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori nella misura di uno per ciascuno. Capitolo Primo: Il Parlamento 159 La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali nei quali sono stati eletti, per cui si verificheranno continui turn-over in considerazione dei mutevoli cambi di colore politico all’interno delle differenti autonomie territoriali. Si eviterebbe così quella stagnazione che fa scadere la vivacità del dibattito per gli effetti di un «tranquillo» modus vivendi dei poteri che per lungo tempo coesistono e si consolidano, favorendo al contrario eventuali nuove istanze dei «neo-eletti» o «nominati». Differenti sarebbero a questo punto le funzioni esercitate da ciascuno dei due rami del Parlamento. La Camera sarebbe titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed eserciterebbe la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del Governo. Il Senato, invece, al di là della partecipazione alla funzione legislativa con la Camera secondo le modalità stabilite dalla Costituzione: — si occuperebbe del raccordo fra lo Stato, l’Unione europea e gli altri enti costitutivi della Repubblica (Regioni, Città metropolitane, Comuni etc.); — parteciperebbe alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea, valutandone altresì l’impatto; — verificherebbe l’attuazione delle leggi dello Stato e valuterebbe l’impatto delle politiche pubbliche sul territorio; — esprimerebbe pareri sulle nomine governative. La novità introdotta dal testo approvato dall’Assemblea l’8 agosto 2014 rispetto al disegno di legge originario del Governo è costituita dall’introduzione all’art. 55, comma 2, dell’esplicito richiamo alle cd. quote rosa, ossia la garanzia che nella rappresentanza parlamentare venga garantito un equilibrio paritario fra donne e uomini. Inoltre, sono specificate, rispetto al testo approvato dalla Commissione il 6 maggio 2014, le materie nelle quali il Senato concorre paritariamente con la Camera, ossia famiglia e matrimonio (art. 29) e trattamenti sanitari obbligatori e diritti del malato (art. 32, comma 2). Da quanto detto emerge come alla Camera spettano le decisioni fondamentali, su tutte la funzione legislativa, al fine di garantire uno snellimento dell’iter legislativo che attualmente si dipana in continue «navette» tra le due Assemblee. In tal modo si cerca di arginare anche il Governo che, per aggirare l’estrema lentezza del procedimento legislativo ordinario, ricorre troppo spesso all’adozione di atti aventi forza di legge (decreti-legge e decreti legislativi) accompagnata dalla richiesta in modo pressoché costante della questione di fiducia, determinando così la trasformazione della legge «ordinaria» in uno strumento «eccezionale». 3. I lavori parlamentari A) Convocazione La Costituzione prevede i seguenti tipi di convocazione: — iniziale: le Camere neo-elette si devono riunire entro 20 giorni dalle elezioni, nel giorno fissato dal Presidente della Repubblica nello stesso decreto di convocazione dei comizi elettorali (artt. 61 e 87, comma 3, Cost.); 160 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica — su mozione di aggiornamento: è decisa dalle stesse Camere, con atti detti «mozioni di aggiornamento dei lavori», con cui si sospendono temporaneamente i lavori; — di diritto: le Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre (art. 62 Cost.); — straordinaria: ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti (art. 62 Cost.). Quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l’altra (art. 62, comma 3). B) Votazioni Affinché le deliberazioni del Parlamento siano valide è necessario che alla votazione prenda parte la maggioranza dei componenti. A seconda delle decisioni, l’approvazione può richiedere la: — maggioranza semplice, metà più uno dei votanti esclusi gli astenuti (generalmente richiesta per il voto alla Camera dei deputati); — maggioranza dei presenti, metà più uno dei votanti compresi gli astenuti (generalmente richiesta per il voto al Senato); — maggioranza assoluta, metà più uno dei componenti dell’assemblea; — maggioranza qualificata, superiore alla metà più uno dei componenti. Di regola la votazione avviene a scrutinio palese (appello nominale, alzata di mano, divisione nell’aula), ricorrendosi allo scrutinio segreto solo per i provvedimenti che incidono su diritti fondamentali, qualora ne venga fatta richiesta. C) Periodi di lavoro L’arco di tempo entro il quale le Camere svolgono la loro attività è articolato in: — legislatura, il periodo di durata effettiva del mandato parlamentare (5 anni) per ciascuna Camera, salvo scioglimento anticipato (art. 88 Cost.), o proroga in caso di guerra (art. 60 Cost.). Ogni legislatura si articola in sessioni; — sessione, il periodo continuativo di lavoro delle Camere compreso fra una convocazione e l’aggiornamento dei lavori. Ciascuna sessione consta di più sedute; — sedute, le singole riunioni delle Camere. 4. Lo svolgimento dei lavori A) Pubblicità delle sedute Le sedute sono pubbliche, anche se ciascuna Camera e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta (art. 64 Cost.). Capitolo Primo: Il Parlamento 161 La possibilità di imporre la segretezza delle sedute consente al Parlamento di affermare la propria autonomia anche nei confronti della pubblica opinione. Grazie ad essa, infatti, il Parlamento può sottrarsi alle pressioni di forze esterne e di poteri forti costituiti in seno alla società civile. La pubblicità delle sedute è sancita per consentire il controllo dei lavori parlamentari da parte del popolo e per dar conto di essi all’opinione pubblica. Si realizza consentendo l’accesso al pubblico nelle tribune appositamente istituite nelle singole Camere (previa autorizzazione), e pubblicando i resoconti parlamentari. Questi possono essere sommari (cioè per riassunto, pubblicati subito dopo la seduta) o stenografici (cioè integrali, pubblicati a distanza di tempo). Il regolamento della Camera (art. 63) consente al suo Presidente di disporre anche la pubblicità dei lavori nella forma televisiva diretta, mentre il pubblico e la stampa possono seguire l’attività delle Giunte e delle Commissioni in separati locali attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso. B) Ordine del giorno e calendario dei lavori Onde evitare decisioni a sorpresa è stabilito, sia nel regolamento del Senato (art. 56), sia in quello della Camera (art. 27), che non si può discutere né decidere su materie che non siano preventivamente iscritte all’ordine del giorno, a meno che ciò non sia deciso dalla Camera stessa a maggioranza qualificata (due terzi dei presenti al Senato e tre quarti dei votanti alla Camera). Il Parlamento opera, quindi, in base al metodo della programmazione dei lavori: il programma contiene l’elenco degli argomenti da esaminare con l’indicazione delle priorità e del periodo nel quale se ne prevede l’iscrizione all’ordine del giorno e viene predisposto sulla base delle indicazioni del Governo e dei Gruppi parlamentari per un periodo generalmente di due mesi. Il calendario specifica il programma e indica quali materie saranno trattate nelle diverse sedute. In ogni caso la programmazione e il calendario devono riservare una parte del tempo e degli argomenti da trattare alle proposte dei gruppi dissenzienti e di opposizione. C) Deliberazioni Le deliberazioni di ciascuna Camera (e del Parlamento in seduta comune, che, come già detto, adotta lo stesso regolamento della Camera dei deputati) non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale (art. 64 Cost.). Questa è la regola generale, stabilita per evitare che piccoli gruppi di parlamentari, approfittando di temporanee defezioni, possano prendere decisioni senza costituire l’effettiva maggioranza. Per evitare, tuttavia, che siano invalidabili eventuali deliberazioni adottate per motivi contingenti e temporanei con un quorum inferiore, che rispecchia però l’equilibrio fra i gruppi, vige sempre la regola della «presunzione del numero legale». Si presume cioè che in aula sia presente sempre il numero minimo di parlamentari (cioè il 50% + 1 dei componenti 162 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica l’Assemblea) anche se in qualsiasi momento i presenti possono chiedere la verifica del numero legale al Presidente dell’Assemblea e questi è obbligato ad eseguirla. Se viene accertata la mancanza del quorum richiesto, la seduta viene subito sciolta e rinviata. D) Ammissione dei membri del Governo I membri del Governo, anche se non ricoprono la carica di parlamentare, hanno il diritto, e se richiesti, l’obbligo, di assistere alle sedute delle Camere (art. 64, ult. comma Cost.). La norma, incidentalmente, sancisce la compatibilità delle cariche di membro del Governo e del Parlamento (a differenza di quanto avviene in altri Stati, ad esempio in Francia), ma consente anche che un ministro non sia membro del Parlamento. E) Esame delle petizioni Tutti i cittadini possono indirizzare alle Camere delle petizioni, per sollecitare l’adozione di provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità. Secondo l’art. 109 del regolamento della Camera le petizioni pervenute alla Camera sono esaminate dalle commissioni competenti. L’esame in commissione può concludersi con una risoluzione diretta ad interessare il Governo alle necessità esposte nella petizione ovvero con una decisione di abbinamento con un eventuale progetto di legge all’ordine del giorno. F) Votazioni La disciplina posta dalle rispettive normative regolamentari prevede che le votazioni nelle due Assemblee siano di regola effettuate a scrutinio palese, tranne per i casi in cui sia espressamente previsto il voto a scrutinio segreto: al di fuori di queste ultime ipotesi, dunque, la regola del voto segreto è stata abrogata. Tale abolizione, che mira ad eliminare i «franchi tiratori» (ovvero membri dei gruppi che sostengono il Governo, ma che, approfittando della segretezza del voto, votano contro le proposte dell’Esecutivo), consente una maggiore chiarezza e trasparenza nei rapporti tra Governo e maggioranza e tra parlamentari e partiti. Il ricorso allo scrutinio segreto è, tuttavia, ancora previsto sia per la Camera che per il Senato, quando ne venga fatta richiesta, per le votazioni che incidono: — sui principi e sui diritti di libertà di cui agli artt. 6, da 13 a 22 e da 24 a 27 della Costituzione (libertà di domicilio, libertà di riunione etc.) (regola valevole sia per la Camera sia per il Senato); — sui diritti della famiglia di cui agli artt 29, 30 e 31 della Costituzione (tutela dei figli e della maternità) (sia per la Camera sia per il Senato); — sui diritti della persona di cui all’art. 32 della Costituzione (diritto alla salute) (regola valevole sia per la Camera sia per il Senato); — sulle modifiche relative al regolamento di ciascuna Camera (regola valevole sia per la Camera sia per il Senato); Capitolo Primo: Il Parlamento 163 — sulle leggi ordinarie relative agli organi costituzionali dello Stato e agli organi delle Regioni (regola prevista solo per la Camera); — sulle leggi elettorali (regola che vale solo per la Camera); — sulla istituzione di commissioni di inchiesta (regola che vale solo per la Camera). Va ricordato che nei procedimenti in Commissione il ricorso allo scrutinio segreto è consentito solo per le votazioni riguardanti persone. Il ricorso allo scrutinio segreto è, comunque, espressamente escluso per le votazioni concernenti: la legge finanziaria, le leggi di bilancio e le deliberazioni che abbiano comunque conseguenze finanziarie. Nello scrutinio segreto i voti sono espressi deponendo nelle urne una pallina bianca o una pallina nera, oppure mediante procedimenti elettronici. Nello scrutinio palese i voti sono espressi per appello nominale, alzata di mano, divisione nell’aula o tramite precedimenti elettronici. G) Polizia delle udienze Il compito di mantenere l’ordine durante lo svolgimento delle sedute spetta al Presidente dell’Assemblea, coadiuvato dai Questori. Egli dispone del potere disciplinare e può infliggere le seguenti sanzioni: — richiamo all’ordine del parlamentare che pronunci parole sconvenienti o turbi la libertà delle sedute; — esclusione dall’aula, per il resto della seduta, del parlamentare recidivo in tali infrazioni; — censura, con interdizione a partecipare ai lavori da 2 a 15 giorni, per i parlamentari che facciano ricorso alla violenza, creino disordine in aula etc. Se scoppia un tumulto, il Presidente sospende la discussione; se esso continua, la seduta è sospesa o sciolta. H) Ostruzionismo (filibustering) L’ostruzionismo si manifesta in una serie di atteggiamenti, attività e comportamenti che, pur essendo astrattamente compatibili con lo svolgimento dell’attività parlamentare, non danno luogo, se non eccezionalmente, a modifiche dei contenuti delle deliberazioni dell’Assemblea. Soprattutto in passato questa attività era posta in essere dai Gruppi di minoranza, nel tentativo di impedire, intralciare o ritardare lo svolgimento dei lavori parlamentari e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, affinché le pressioni esercitate sull’Assemblea ne determinassero un mutamento di convinzioni. 164 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica In cosa consiste la pratica del maxiemendamento? Nel caso in cui l’ostruzionismo si oggettivi nella presentazione di spropositati emendamenti per ciascun articolo (che talvolta hanno in passato addirittura superato il migliaio) è invalsa la prassi della maggioranza di presentare un solo, grande emendamento detto, appunto, maxi-emendamento, spesso blindato dalla contemporanea presentazione delle fiducia. Siffatto emendamento, anche se accelera i tempi, può nuocere alla qualità e ai contenuti della legge a spese della chiarezza e comprensibilità del testo legislativo (DE VERGOTTINI). 5. Le Camere riunite in seduta comune La Costituzione del 1948, innovando rispetto allo Statuto Albertino, attribuisce al Parlamento una natura unitaria, al punto tale da conferirgli rilevanti funzioni da svolgere in seduta comune. Le ipotesi in cui ciò avviene sono tassativamente indicate dalla Costituzione: a) l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83); b) il giuramento del Presidente della Repubblica (art. 91); c) la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica per alto tradimento o per attentato alla Costituzione (art. 90); d) l’elezione di un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104); e) l’elezione di un terzo dei giudici costituzionali (art. 135); f) la compilazione dell’elenco di cittadini tra cui devono essere sorteggiati i giudici aggregati chiamati ad intervenire nei giudizi di accusa contro il Presidente della Repubblica, innanzi alla Corte costituzionale (art. 135). Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal Presidente della Camera (art. 63, comma 2, Cost.) ed utilizza il regolamento e le strutture della Camera dei deputati. Il Parlamento in seduta comune è stato considerato sia organo autonomo sia modo particolare di riunione delle Camere, che conserverebbero, così, la loro identità. In realtà, una volta entrati a far parte del Parlamento in seduta comune, deputati e senatori non possono più essere distinti fra loro quanto alla Camera di ­appartenenza; almeno in un’occasione, poi, il Parlamento in seduta comune si apre anche ad elementi estranei: all’elezione del Presidente della Repubblica partecipano, infatti, anche i delegati regionali. 6. Scioglimento e proroghe delle Camere A) Scioglimento Le Camere possono essere sciolte, singolarmente o congiuntamente, dal Presidente della Repubblica (art. 88 Cost.). Come rileva VIRGA, tre sono, secondo la prassi costituzionale dei paesi a regime parlamentare, le ipotesi più comuni di scioglimento delle Camere: 1) quando esse non appaiono (per qualsiasi causa) più rappresentative delle forze politiche esistenti nel paese; Capitolo Primo: Il Parlamento 165 2) quando sia impossibile formare una maggioranza politica stabile nel Parlamento; 3) quando si determini un insanabile contrasto politico tra le due Assemblee. Le Camere, però, non possono in ogni caso essere sciolte durante il cd. semestre bianco, cioè nei sei mesi antecedenti alla scadenza del mandato presidenziale, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura (art. 1, L. cost. 4 novembre 1991, n. 1). Tale divieto ha lo scopo di evitare che il Presidente della Repubblica possa ricorrere allo scioglimento delle Camere per prorogare artatamente la durata della sua carica, in quanto con le Camere sciolte non sarebbe teoricamente possibile eleggere un nuovo Presidente. B) Prorogatio (art. 61 Cost.) L’art. 61 della Costituzione stabilisce che «finché non siano riunite le nuove Camere, sono prorogati i poteri delle precedenti». La prorogatio garantisce una continuità temporanea dei poteri delle Camere al fine di evitare interruzioni nello svolgimento dell’attività legislativa in attesa dell’insediamento del nuovo Parlamento. In base a quanto stabilito dall’art. 61, comma 1, Cost. la prorogatio non dovrebbe superare i 90 giorni. C) Proroga (art. 60 Cost.) La proroga è un atto volontario del Parlamento che, per far fronte a una circostanza eccezionale, decide mediante una legge di rinviare le elezioni e prorogare i propri poteri. L’art. 60 Cost. prevede la guerra quale unica ipotesi di proroga che, inoltre, deve essere disposta con legge, non approvata con procedimento abbreviato, o in Commissione, in sede deliberante o redigente. La ratio di tali rigidi vincoli risiede nel principio che le Camere devono essere sempre espressione della volontà popolare. Qual è la differenza tra prorogatio e proroga? La prorogatio si verifica ope legis, secondo il disposto costituzionale, e comporta la proroga dei poteri delle Camere, per il solo periodo relativo alla durata delle elezioni. L’istituto mira, cioè, ad evitare che si creino pericolosi vuoti o interruzioni nello svolgimento dell’attività legislativa, facendo venir meno l’organo ad essa deputato, senza che lo stesso sia stato preventivamente sostituito. La proroga, invece, è atto volontario del Parlamento, disposto con legge. Essa costituisce una vera e propria proroga del mandato, per far fronte ad una sola circostanza eccezionale (la guerra) che, con il richiamo generale alle armi e la mobilitazione di gran parte dei cittadini, potrebbe far venir meno la presenza alle urne di una consistente parte dell’elettorato. 166 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica Prospettive di riforma La revisione della Parte Seconda della Costituzione, incentrata sul superamento del bicameralismo perfetto attraverso la creazione di un Senato rappresentante le autonomie territoriali, la cui composizione è variamente determinata, prevede la modifica degli articoli 60 e 61 Cost. In particolare, verrebbe indicata unicamente la durata del mandato dei membri della Camera dei deputati che rimarrebbe di 5 anni. Inoltre, la riforma del sistema parlamentare italiano, prevedendo una distinzione netta fra le due Assemblee quanto a struttura e funzioni, con il Senato eletto nell’ambito delle istituzioni territoriali, dedica l’art. 61 della Costituzione, che disciplina l’istituto della prorogatio, esclusivamente alla Camera dei deputati. 7. Prerogative delle Camere Le Camere, per esercitare pienamente le loro funzioni sovrane, godono delle seguenti prerogative: — autonomia regolamentare, potendo «adottare il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti» (art. 64, comma 1, Cost.). Il regolamento disciplina l’organizzazione interna di ciascuna Camera e detta le regole per il suo funzionamento; — autonomia finanziaria, deliberando il proprio bilancio e il proprio consuntivo: le spese gravano su un fondo speciale, che è somministrato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e gestito direttamente da ciascuna Camera; — autonomia amministrativa, provvedendo all’organizzazione dei propri uffici amministrativi interni e all’assunzione dei propri dipendenti. Contro gli atti amministrativi delle Camere non è ammesso ricorso agli organi di giustizia amministrativa (T.A.R. e Consiglio di Stato) al fine di tutelare l’indipendenza del Parlamento e la sua autonomia. È solo possibile il ricorso all’Ufficio di Presidenza della Camera, senza possibilità di appello ad organi sovraordinati, come risulta sia dal regolamento della Camera che dal regolamento del Senato (cd. giurisdizione domestica o autodichia); — inviolabilità degli edifici delle Camere, essendo vietato per consuetudine agli ufficiali ed agenti della forza pubblica l’accesso negli edifici delle Camere (cd. immunità della sede). Le funzioni di polizia, all’interno degli edifici, sono svolte dal personale di ciascuna Camera: questori, commessi e guardie di servizio, che sono esclusivamente agli ordini del Presidente di ciascuna Camera; — verifica dei poteri, giudicando, ex art. 66 Cost., «dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle (eventuali) cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità». Si tratta della cd. «verifica dei poteri», che consiste nell’attività che ciascuna Camera è tenuta a svolgere per controllare la corretta situazione di appartenenza ad essa dei suoi membri, la validità dei titoli di ammissione degli stessi e la regolarità delle elezioni. Questa attività è di competenza della Giunta delle elezioni alla Camera e della Giunta delle elezioni e delle immunità al Senato; — tutela penale delle Camere, essendo puniti come reati il tentativo di impedire alle Camere l’esercizio delle loro funzioni (art. 289 cod. pen.) e il vilipendio delle Camere (art. 290 c.p.). Capitolo Primo: Il Parlamento 167 8. Gli organi interni delle Camere La Camera dei Deputati ed il Senato si compongono di vari organi interni che possono classificarsi in: strumentali, operativi e rappresentativi. A) Gli organi strumentali Gli organi strumentali, gli uffici istituiti per assicurare l’organizzazione e il funzionamento interno delle Camere, sono: 1) l’Ufficio di presidenza (che al Senato assume la denominazione di Consiglio di Presidenza), composto da: — Presidente: è l’organo che presiede ciascuna Camera. Ha il potere di convocazione straordinaria della Camera (art. 62 Cost.) e il diritto ad essere consultato dal Presidente della Repubblica prima che questi sciolga il Parlamento (art. 88 Cost.). Inoltre dirige le sedute ed i dibattiti, esercita i poteri disciplinari e di polizia, programma i lavori parlamentari e predispone il relativo calendario, qualora non sia stata raggiunta la maggioranza prescritta in seno alla Conferenza dei capi-gruppo, organo tenuto ad approvare il calendario dei lavori; — vicepresidenti: fanno le veci del Presidente coadiuvandolo nello svolgimento dei suoi compiti; — segretari: svolgono attività di compilazione e lettura dei processi verbali delle adunanze, accertano l’esistenza del numero legale, procedono agli appelli; — questori: sovraintendono al cerimoniale ed ai servizi interni e svolgono attività di polizia; 2) Giunte permanenti per il regolamento, organi collegiali, incaricati di promuovere ed elaborare aggiornamenti e modifiche dei regolamenti parlamentari e di fornire pareri sulle procedure e sull’interpretazione degli stessi; 3) Giunta per le elezioni (al Senato assume la denomizazine di Giunta delle elezioni e delle immunità), che esamina in primo grado le controversie in materia elettorale, per sottoporle eventualmente all’attenzione del plenum della Camera cui appartengono; 4) Conferenze dei capi-gruppo, organismi collegiali (uno per ciascuna Camera) presieduti dal Presidente dell’assemblea e costituiti da tutti i Presidenti dei gruppi parlamentari. A tali Conferenze i regolamenti parlamentari attribuiscono tre poteri: deliberazione del programma di attività (di norma per non più di due mesi); deliberazione del calendario dei lavori; organizzazione della discussione in aula. B) Gli organi operativi Gli organi operativi, gli uffici che esercitano le funzioni proprie del Parlamento, sono: 1) Commissioni parlamentari, organi necessari costituiti per rispecchiare i rapporti tra le forze politiche, possono: — esaminare preventivamente i disegni di legge, per farne relazione all’assemblea che deve approvarli (cd. Commissioni in sede referente); 168 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica — nei casi previsti dai regolamenti, anche procedere all’approvazione dei progetti di legge, in luogo dell’assemblea plenaria (cd. Commissioni in sede deliberante). Possono essere: a) speciali (o straordinarie), se costituite occasionalmente da ciascuna Camera, per risolvere particolari questioni (ad es. le Commissioni di inchiesta); b) permanenti, se costituite permanentemente in seno a ciascuna Camera, il cui regolamento ne determina la competenza per materia; 2) Giunte parlamentari, anch’esse formate in proporzione alle forze politiche presenti in Parlamento con funzioni consultive ed extralegislative; 3) Gruppi parlamentari, associazioni di deputati o di senatori politicamente affini, volte a promuovere una più incisiva ed efficace azione nell’ambito delle istituzioni parlamentari. I senatori e i deputati devono dichiarare entro due giorni dalla 1a seduta dopo l’elezione (se deputati) o entro tre giorni (se senatori) a quale gruppo intendono iscriversi; infatti l’elezione di un parlamentare nella lista di un partito non comporta l’automatica iscrizione nel relativo gruppo parlamentare. Per costituire un gruppo parlamentare occorrono un minimo di 10 senatori o di 20 deputati. C) Gli organi rappresentativi Gli organi rappresentativi, invece, rappresentano le Camere, singolarmente o nel loro insieme, a cerimonie ufficiali (ma di solito ad esse presenziano i Presidente delle Camere) o presso autorità straniere (ad esempio Parlamenti stranieri): in tali casi si parla di deputazioni o rappresentanze parlamentari. 9. Lo status di membro del Parlamento In base all’art. 67 Cost. «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Tale norma ha inteso affermare due principi: — principio della rappresentanza nazionale, sancito per svincolare i singoli deputati e senatori dai collegi elettorali locali che li hanno eletti. Essi, infatti, non rappresentano le circoscrizioni locali da cui sono stati eletti, ma la nazione, come precedentemente affermava, più esplicitamente, lo Statuto Albertino; — divieto di mandato imperativo. L’art. 67 Cost. fa divieto al parlamentare di accettare incarichi o istruzioni per lo svolgimento delle sue funzioni da parte di chiunque e ne sancisce l’indipendenza dai gruppi politici, economici e sociali. Secondo parte della dottrina (VIRGA), da tale norma deriva: a) il divieto per il parlamentare di obbligarsi, mediante negozi giuridici, a svolgere il suo mandato a favore di una certa politica o di un certo gruppo di interessi; Capitolo Primo: Il Parlamento 169 b) il divieto di accettare qualsiasi ricompensa o retribuzione in danaro o in natura, come corrispettivo per lo svolgimento del suo mandato o di impegnarsi a seguire determinate istruzioni. Se il parlamentare così facesse si renderebbe colpevole di corruzione; c) la conseguente invalidità di tutti i negozi stipulati dal parlamentare relativamente all’esercizio delle sue funzioni. Prospettive di riforma Nella riforma in discussione in Parlamento l’omissione dell’espressione nell’art. 67 Cost. «ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione» trova il suo fondamento nel diverso grado di rappresentatività dei membri: — della Camera, che rappresenta la «Nazione» nella sua interezza, ed è composta dai rappresentanti dello Stato-persona; — del Senato, che al contrario rappresenta le istituzioni territoriali (Regioni, Città metropolitane, Comuni), a tutela delle guarentigie dello Stato-comunità. 10.Prerogative dei parlamentari Le prerogative, istituti che, in deroga al diritto comune, perseguono il fine di tutelare la regolarità e indipendenza del mandato, e che, quindi, non possono essere oggetto di rinuncia da parte del parlamentare, sono: a) l’immunità penale: secondo l’articolo 68, commi 2 e 3, della Costituzione (modificato dalla legge costituzionale n. 3/1993), senza autorizzazione della Camera di appartenenza, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i parlamentari ad intercettazioni di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza; b) l’insindacabilità: i parlamentari «non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni» (art. 68, comma 1, Cost.). L’articolo 3 della L. 140/2003 ha precisato che la tutela prevista dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione si applica non solo per l’attività svolta nelle sedi parlamentari, ma anche «per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento»; c) l’indennità: è prevista dall’art. 69 Cost.: «I membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita per legge». La logica che ha ispirato il Costituente è stata quella di assicurare a tutti i parlamentari, a prescindere dalle personali condizioni economiche, la possibilità di svolgere il loro mandato senza condizionamenti di tipo economico. Si è voluto così garantire a tutti i cittadini la possibilità 170 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica di rappresentare la nazione con serenità e senza rinunce, rimuovendo un potenziale ostacolo di ordine economico alla partecipazione effettiva all’organizzazione politica del Paese. Nell’attuale grave crisi economica si è manifestata la necessità di un ridimensionamento dei «costi della politica», partendo da un iniziale e modesto taglio delle spese della cd. «casta dei parlamentari» che, al momento attuale costituisce una fra le più numerose e meglio pagate al mondo. Prospettive di riforma Nella riforma all’esame del Parlamento, mentre sono riconosciute inalterate le prerogative (insindacabilità, immunità penale etc.) per i membri della Camera, viene omesso per gli appartenenti al Senato, i quali «perdono» tale pacchetto di guarentigie, probabilmente perché la loro presenza è considerata di minor rilievo rispetto a quella indefettibile dei rappresentanti della “Nazione”. Inoltre, anche ai fini della spending review, la carica di membro del Senato delle autonomie diviene totalmente «onoraria», fatti salvi i rimborsi spesa che probabilmente ricadranno sulle istituzioni di appartenenza. La circostanza che il maggior costo del Senato non ricada più direttamente sul bilancio dello Stato deve essere visto non tanto come una misura populista (diminuire i non più sopportabili alti costi della politica), quanto un’affermazione del principio – che fatica ad affermarsi in Italia – della non duplicabilità degli emolumenti di chi riceve già uno stipendio ben alto. 11.Cessazione dalla carica di parlamentare La carica di parlamentare può cessare per le seguenti cause: 1. fine della legislatura o scioglimento anticipato delle Camere; 2. dimissioni volontarie: queste hanno efficacia solo dal momento in cui siano accettate dalla Camera; 3. decadenza, che viene pronunciata dalla Camera se: — sia intervenuta una incompatibilità che comporta la decadenza automatica; — sia venuto meno uno dei requisiti di eleggibilità; — si sia verificata una incompatibilità, e il parlamentare abbia optato per l’altra carica incompatibile con il mandato parlamentare; — durante la campagna elettorale il candidato eletto abbia superato il limite massimo di spesa consentito per un ammontare pari o superiore al doppio; 4. annullamento dell’elezione, per accertate irregolarità elettorali; 5. morte. Capitolo Primo: Il Parlamento 171 Sezione Seconda Attribuzioni e funzioni 12.Le funzioni delle Camere Le funzioni esercitate dalle Camere possono essere distinte in: a) legislativa, esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.) e nel cui ambito rientrano gli atti: — formalmente legislativi, perché posti in essere secondo il procedimento formale previsto per le leggi ordinarie; — materialmente legislativi, perché contenenti norme giuridiche che innovano l’ordinamento giuridico preesistente; b) di indirizzo e controllo politico, attraverso la quale si determinano i fini della politica nazionale, si scelgono i mezzi per conseguirli e si esercita un controllo sull’attività del Governo. Rientrano in tale funzione: — le leggi di approvazione e di autorizzazione; — le attività ispettive, che possono essere attuate sia in Assemblea che in Commissione; — le attività conoscitive, alcune delle quali costituiscono il presupposto per l’espletamento di attività ispettive, altre conservano una loro autonomia, garantendo uno stretto rapporto fra Parlamento e società civile; — gli atti di direzione politica, tra i quali rientrano mozioni, risoluzioni, ordini del giorno; — procedure particolari, fra cui l’esame dei decreti registrati con riserva dalla Corte dei conti; c) elettorali (LAVAGNA) nelle quali rientrano le attività di elezione: — del Presidente della Repubblica; — di 5 giudici della Corte costituzionale; — di 8 componenti del Consiglio superiore della Magistratura; — di 4 componenti del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa; — dei 4 componenti del garante per la protezione dei dati personali. In tale funzione rientra la scelta dei cittadini fra cui vanno sorteggiati i giudici aggregati della Corte costituzionale; d) materialmente giurisdizionali (BISCARETTI DI RUFFIA) o di accusa (LAVAGNA) nelle quali rientrano le attività dirette a porre in stato d’accusa il Presidente della Repubblica e a rinviarlo a giudizio dinanzi alla Corte costituzionale; e) strumentali (LAVAGNA) fra cui rientrano: — le attività di autoorganizzazione; — le attività relative alla determinazione della posizione giuridica dei singoli parlamentari; — le attività normative, procedurali e amministrative interne. 172 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica 13.Il procedimento legislativo per le leggi ordinarie (art. 70 Cost.) Ogni procedimento diretto alla emanazione di un atto (legislativo o amministrativo) può distinguersi in tre fasi essenziali: 1. fase preparatoria, che comprende la fase di iniziativa e la fase istruttoria (o preparatoria in senso stretto); 2. fase costitutiva (o deliberativa); 3. fase di integrazione dell’efficacia, che comprende sia la fase di controllo che la fase di comunicazione. Prospettive di riforma Il disegno di legge costituzionale S. 1429, approvato dal Senato in prima lettura l’8 agosto 2014, stravolge il dettato costituzionale modificando interamente l’art. 70 Cost. che appare notevolmente incrementato quanto al suo dettato. Il principio generale è che la potestà legislativa ordinaria appartiene principalmente alla Camera dei deputati. Viene comunque messa in evidenza la competenza del Senato: — cui deve essere immediatamente trasmesso il testo di legge approvato dalla Camera; — entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo; — entro 30 gg. può deliberare proposte di modificazione del testo, sulla quale la Camera si pronuncia in via definitiva; Il mancato esame o l’infruttuosa scadenza del termine conferisce al disegno di legge l’obbligo di promulgazione. L’art. 70, quindi, conferisce alla legge approvata dalla Camera un valore non definitivo in quanto privo fino a quando, in maniera esplicita o tacita, il Senato non manifesti la propria volontà. La potestà legislativa, dunque, della Camera non è assoluta ma trova un limite nell’intervento del Senato delle autonomie. Una particolare disciplina viene riservata ai disegni di legge strettamente connessi alle materie che si relazionano più da vicino alle competenze degli enti territoriali (ad es.: art. 114, comma 3; art. 118, comma 4, art. 120, comma 2; art. 132, comma 2) per i quali la Camera può non conformarsi alle modifiche proposte dal Senato pronunciandosi nel voto finale a maggioranza assoluta. L’art. 70, nella nuova formulazione, specifica come la funzione legislativa sia esercitata collettivamente dalle due Camere per: a) le leggi di revisione costituzionale; b) le leggi costituzionali; c) le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di: — tutela delle minoranze linguistiche; — referendum popolare; d) le leggi di attuazione dell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost.; e) le leggi di cui all’art. 122, comma 1, Cost.; f) negli altri casi previsti dalla Costituzione. Capitolo Primo: Il Parlamento 173 14.La fase preparatoria A) L’iniziativa legislativa L’iniziativa legislativa si esercita con la presentazione di un progetto di legge ad una delle due Camere. Tale presentazione obbliga la Camera ad adottare una qualsiasi deliberazione sul disegno di legge. Hanno il potere di iniziativa legislativa: — il Governo (art. 71 Cost.). Tale iniziativa si esercita mediante presentazione di disegni di legge (redatti in articoli), deliberati dal Consiglio dei Ministri e autorizzati dal Presidente della Repubblica (con decreto controfirmato); — i Parlamentari (art. 71 Cost.). Ciascun membro del Parlamento, da solo o unitamente ad altri parlamentari (o ciascun gruppo parlamentare), può presentare una «proposta di legge» alla Camera cui appartiene; — il corpo elettorale (art. 71 Cost.). La Costituzione repubblicana ha introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano l’iniziativa legislativa popolare. Il popolo esercita l’iniziativa legislativa mediante presentazione di una «proposta di legge» proveniente da almeno 50.000 elettori (iscritti nelle liste per l’elezione alla Camera dei deputati); — il CNEL (art. 99 Cost.). Ha iniziativa legislativa in materia di economia e di lavoro. Inoltre il Governo può richiedere il suo parere, nell’esercizio dell’iniziativa governativa. Si noti che ne è prevista l’abolizione da parte della riforma costituzionale; — i Consigli regionali (art. 121 Cost.). Si tratta di una competenza che non trova nel testo costituzionale nessuna limitazione riguardo alle materie che possono essere oggetto di iniziativa legislativa regionale; — i Consigli comunali (art. 133 Cost.). Il loro potere di iniziativa è limitato alle proposte di legge per il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province. B) L’istruttoria La fase istruttoria (o preparatoria in senso stretto) abbraccia tutte le attività dirette a consentire all’organo deliberante l’esame e l’approfondimento del progetto. Essa trova giustificazione nella convenienza di far precedere la discussione e la votazione sul progetto da una deliberazione preliminare in cui si palesino gli orientamenti di gruppi ristretti di membri di ciascuna Camera: le Commissioni (in sede referente). Compito delle Commissioni legislative permanenti in sede referente è pertanto quello di esaminare e riferire sui progetti di legge (affidati a ciascuna Commissione in base alla sua competenza per materia) con una relazione all’Assemblea. La relazione è obbligatoria per la Commissione (che deve presentarla), ma non vincolante per l’Assemblea, che può tenerne conto o meno, a sua discrezione (LAVAGNA). Per alcuni disegni di legge concernenti determinate materie sono obbligatori i pareri di Commissioni-filtro come la Commissione per gli affari costituzionali. 174 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica 15.La fase costitutiva La fase costitutiva, in cui si giunge all’approvazione del progetto di legge da parte di ciascuna Camera, può svolgersi secondo i seguenti procedimenti: 1. ordinario, obbligatorio per i progetti di legge in materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi (art. 72, comma 4, Cost.). È facoltativo per tutti gli altri progetti di legge. Si attua attraverso le seguenti fasi: a) esame preparatorio da parte della Commissione competente; b) discussione in aula delle relazioni preparate dalle Commissioni; c) discussione e votazione degli articoli, salva la possibilità di apportare emendamenti; d) votazione finale: ultimata l’approvazione dei singoli articoli, si sottopone la legge nel suo complesso al voto finale. In quali casi è obbligatorio il procedimento ordinario? Tale procedimento è sempre obbligatorio (cd. riserva di assemblea, ex art. 72, co. 4, Cost.) per i progetti di legge: — in materia costituzionale ed elettorale; — di delegazione legislativa; — di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali; — di approvazione di bilanci e consuntivi. A queste vanno aggiunte altre ipotesi disciplinate dai regolamenti della Camera e del Senato. Esse sono: — i disegni di legge di conversione di decreti legge; — la legge comunitaria; — le leggi rinviate dal Presidente della Repubblica per un riesame del Parlamento. Il procedimento ordinario è facoltativo per tutti gli altri progetti di legge. Per i disegni di legge dichiarati urgenti può essere adottato un procedimento abbreviato, nel cui ambito tutti i termini previsti dai regolamenti parlamentari per il compimento dei vari atti sono ridotti alla metà; 2. decentrato, potendo prevedere i regolamenti parlamentari, ex art. 72, comma 3, Cost., i casi in cui l’approvazione dei disegni di legge può essere deferita alle Commissioni anche permanenti. Le quattro fasi del procedimento ordinario sono compiute tutte dalla Commissione permanente competente per materia, la quale, proprio perché ha anche il potere di approvare la legge, agisce in sede deliberante. In tale procedimento la Commissione legislativa competente procede: — all’esame preliminare del progetto; — alla sua discussione, che non avviene quindi in assemblea; Capitolo Primo: Il Parlamento 175 — alla votazione dei singoli articoli; — alla votazione finale e quindi all’approvazione della legge. In ogni caso il procedimento decentrato non è ammesso per le leggi previste dall’art. 72, comma 4, Cost., per le quali è obbligatorio il procedimento ordinario; 3. misto, introdotto dai regolamenti parlamentari e che si atteggia come intermedio fra quello ordinario e quello decentrato, perché comporta una collaborazione tra l’Assemblea e le Commissioni. Si noti che il procedimento seguito da una Camera per l’approvazione non vincola l’altra. Per cui può accadere che presso una Camera si segua il procedimento decentrato (o quello misto), e presso l’altra il procedimento ordinario per l’approvazione della stessa legge. Che cos’è il fenomeno della «navetta»? La legge è un atto complesso, dal momento che, per perfezionarsi, necessita dell’approvazione di entrambe le Camere nello stesso testo. Nei rapporti tra le due Camere può dunque accadere: — che il progetto di legge sia respinto immediatamente dalla prima Camera a cui è presentato: in tal caso esso non viene trasmesso all’altra Camera; — che il progetto già approvato da una Camera sia respinto dall’altra: la legge anche in tal caso non perfeziona il suo iter; — che il progetto approvato da una Camera sia approvato dall’altra con emendamenti: in tale caso deve essere ripresentato alla prima Camera per l’approvazione degli emendamenti fino a che le Camere non approvino un testo uniforme. Per evitare il protrarsi eccessivo di questi scambi (cd. navetta) del progetto da una Camera all’altra, è stabilito per consolidata prassi parlamentare che, quando il progetto ritorna modificato al ramo che già lo ha approvato, il riesame deve essere limitato agli articoli emendati. Un iter accelerato è previsto per l’approvazione di un progetto che, già approvato da una Camera, sia decaduto per fine della legislatura, qualora esso sia ripresentato entro i primi sei mesi della nuova legislatura (cd. «repêchage»). Un progetto respinto da una delle Camere può essere ripresentato, con identico contenuto, solo dopo che siano trascorsi sei mesi dal rigetto. Il divieto, però, impedisce la ripresentazione del progetto solo dinanzi alla Camera che l’ha respinto, non all’altra. 16.La fase di integrazione dell’efficacia Una volta approvata dalle Camere, la legge è perfetta, ma non ancora efficace. Per divenire efficace (ed obbligatoria per i suoi destinatari) deve superare la fase di integrazione dell’efficacia che si articola nei seguenti passaggi: — la promulgazione. Il Presidente della Repubblica, entro un mese dall’approvazione della legge, deve promulgarla. Con la promulgazione, che è atto di controllo della legittimità costituzionale della legge, questa diviene esecutoria. Diviene invece obbligatoria per tutti i cittadini solo con la pubblicazione; — il visto del Guardasigilli. Il Guardasigilli, cioè il Ministro della Giustizia, deve accertare che l’atto non presenti irregolarità formali: egli compie tale accertamento apponendo il proprio visto all’atto. Si tratta quindi di un controllo sulla 176 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica «forma» dell’atto. Se rileva una irregolarità formale, sospende il visto e ne fa relazione alla Camera, non oltre cinque giorni da quello in cui ha ricevuto la legge promulgata; — la pubblicazione. È l’atto con cui la legge viene portata ufficialmente a conoscenza dei suoi destinatari. Costituisce un atto di comunicazione e deve intervenire «subito dopo la promulgazione» (art. 73 Cost), e cioè entro il termine strettamente necessario per la stampa del testo di legge; — l’entrata in vigore. La legge entra in vigore dopo il periodo della «vacatio» che normalmente è di 15 giorni dalla sua pubblicazione, ma possono essere stabiliti termini più brevi nella stessa legge. Dal momento dell’entrata in vigore, la legge si presume conosciuta da tutti i destinatari, e non è possibile invocarne l’ignoranza per giustificare la sua inosservanza. 17.La legge delega e la conversione dei decreti-legge Per il principio di separazione dei poteri, il Governo non è titolare della potestà legislativa. Tuttavia, l’Esecutivo può esercitare tale potestà attraverso una delega preventiva o un’approvazione successiva da parte del Parlamento, titolare del potere legislativo. In particolare, ex art. 76 Cost., l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non entro specifici limiti (vedi Parte I, cap. 7, par. 12). Al Parlamento, inoltre, spetta convertire in legge ordinaria i decreti-legge (cfr. Parte I, cap. 7, par. 14) emanati dal Governo (art. 77 Cost.). 18.La deliberazione dello stato di guerra (art. 78 Cost.) In base a quanto disposto dall’art. 78 Cost. alle Camere spetta deliberare lo stato di guerra. In particolare, la deliberazione dello stato di guerra da parte delle Camere costituisce un atto politico, per il quale non è necessaria una legge formale. La deliberazione ha efficacia immediata per l’ordinamento interno, in quanto determina l’entrata in vigore della legislazione eccezionale prevista per il tempo di guerra. Le Camere, inoltre, conferiscono al Governo i poteri necessari per far fronte alle esigenze belliche (cfr. cap. 3, par. 16). La nostra Costituzione, al contrario di molte altre Carte, nulla prevede relativamente al verificarsi di emergenze interne o internazionali diverse dalla guerra. Relativamente alle situazioni di emergenza interna (di volta in volta configurabili come guerra civile, stato d’assedio etc.), la dottrina individua due diverse soluzioni: — l’estensione in via analogica della disciplina contenuta nell’art. 78 Cost., considerata come norma che autorizza il Governo ad agire, previa investitura parlamentare, a tutela della salus publica (FRESA, MODUGNO, NOCILLA); Capitolo Primo: Il Parlamento 177 — l’utilizzo dello strumento del decreto-legge, eventualmente anche in deroga a norme di rango costituzionale (ESPOSITO). 19.La concessione dell’amnistia e dell’indulto (art. 79 Cost.) L’amnistia è un provvedimento di clemenza a carattere generale, cioè destinato a una pluralità di persone, che comporta l’estinzione di tutti i reati di un certo tipo e per i quali lo Stato rinuncia all’applicazione delle pene previste. Con l’indulto, anch’esso provvedimento di clemenza a carattere generale, viene condonata in tutto o in parte la pena inflitta per un reato o viene trasformata (commutata, in termini giuridici) in un’altra di minore entità. Per distinguere tra i due tipi di provvedimenti bisogna tener presente che l’amnistia cancella il reato mentre l’indulto cancella solo la pena, ma restano in piedi tutte le conseguenze del reato (recidiva etc.). L’art. 79 della Costituzione richiede una maggioranza molto elevata (i due terzi di ciascuna Camera) per l’approvazione della legge di concessione di amnistia e di indulto. Il Costituente ha infatti stabilito che la concessione di amnistia e indulto coinvolgesse anche una parte consistente dell’opposizione, al fine di non concedere la possibilità di «manovre propagandistiche elettorali» che avvantaggiassero la sola maggioranza di governo. Il terzo comma dell’articolo vieta di applicare l’amnistia e l’indulto ai reati commessi dopo la presentazione del disegno di legge. Lo scopo è di evitare una situazione paradossale, poiché chiunque potrebbe commettere uno dei reati per i quali è in discussione la legge di amnistia o indulto, con la sicurezza di non dover successivamente scontare la pena edittale prevista. 20.Leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali (art. 80 Cost.) Come previsto in altre carte costituzionali, anche la Costituzione italiana stabilisce che il Parlamento prenda parte alla formazione dei trattati internazionali. Sono stati così individuati cinque particolari categorie di trattati per i quali la ratifica del Presidente della Repubblica, prevista ex. art. 87, sia autorizzata dal Parlamento al fine di consentire a quest’ultimo un controllo sulla politica estera esercitata dal Governo. In particolare sono soggetti a tale autorizzazione i trattati: — di natura politica (di alleanza, di non aggressione, di garanzia, di protezione, di neutralità etc.); — di regolamento giudiziario: cioè relativi ai modi di risoluzione delle controversie internazionali; 178 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica — che importano variazioni del territorio italiano; — che importano oneri alle finanze; — che implicano modificazioni di leggi. Da tale disposizione emerge, quale conseguenza, che i trattati internazionali che non rientrano in una di queste cinque categorie non necessitano di tale autorizzazione e, pertanto, possono concludersi in forma semplificata mediante sottoscrizione di un rappresentante del Governo (BARTOLE-BIN). 21.La legge di approvazione del bilancio dello Stato (art. 81 Cost.) A) Natura, contenuto e modalità attuative In base al primo comma dell’art. 81 Cost., le Camere approvano i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Si tratta di una legge a iniziativa riservata al Governo, attraverso la quale il Parlamento partecipa in via diretta e immediata alla predisposizione dei mezzi finanziari necessari a sostenere l’azione pubblica. È, dunque, una legge di indirizzo politico (Martines). Il bilancio è un documento contabile contenente l’indicazione delle entrate e delle spese dello Stato, relative a un periodo di tempo determinato, detto anno finanziario (coincidente con l’anno solare). In questo spazio di tempo si realizza un ciclo completo di gestione finanziaria, cui si dà il nome di esercizio finanziario. A norma della legge 196/2009 (la nuova legge di contabilità e finanza pubblica che ha abrogato la legge 468/1978), lo Stato deve approvare un bilancio preventivo annuale ed un bilancio pluriennale (con riferimento ad un periodo di tre anni). B) La DEF (Documento di economia e finanza) Il DPEF è stato sostituito con la decisione di finanza pubblica (DFP), dalla legge 196/2009 e questa, a sua volta, è stata sostituita con il documento di economia e finanza (DEF) in seguito alla modifica operata alla nuova legge di contabilità dalla legge 7-4-2011, n. 39. L’introduzione del DEF si è resa necessaria per coordinare la programmazione economicofinanziaria al semestre europeo, ovvero la nuova procedura di sorveglianza multilaterale dei bilanci nazionali adottata in ambito dell’Unione europea. Il DEF, che deve essere presentato dal Governo alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno, si compone di tre sezioni: — nella prima reca lo schema del Programma di stabilità, in cui sono illustrate, tra l’altro, le previsioni di finanza pubblica di lungo periodo e le azioni che si vogliono intraprendere per garantire la loro sostenibilità; Capitolo Primo: Il Parlamento 179 — nella seconda sezione sono rappresentati una serie di dati e informazioni relativi agli andamenti macroeconomici; — nella terza sezione vi è lo schema del Programma nazionale di riforma, il documento strategico che, coerentemente con il Programma di stabilità, definisce gli interventi da adottare per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di crescita, produttività e sostenibilità previste dalla cd. strategia Europea 2020. Infine, il DEF deve essere aggiornato con una Nota, che viene presentata dal Governo alle Camere, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, entro il 20 settembre di ogni anno. Se il Parlamento non riesce a discutere e approvare i bilanci entro il 31 dicembre, può concedere una autorizzazione al Governo per l’esercizio provvisorio del bilancio (previsto, ma non ancora approvato). Anche tale autorizzazione deve essere concessa con legge e per periodi non superiori complessivamente a 4 mesi (art. 81, comma 2, Cost.). C) Procedimento: la legge di stabilità L’art. 81, comma 3, Cost. prevede che la legge di approvazione del bilancio non possa stabilire nuovi tributi e nuove spese: essa costituisce, quindi, un caso di legge meramente formale. Per questo motivo, già la legge 468/1978 introdusse un nuovo strumento, la legge finanziaria, con lo scopo di modificare le entrate e le spese indicate nel bilancio a legislazione vigente per adeguarle agli obiettivi di politica del bilancio che si intende perseguire. La legge finanziaria dal 1° gennaio 2010 è stata sostituita dalla legge di stabilità ad opera della L. 196/2009. D) La modifica dell’art. 81 Cost.: l’introduzione del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale La crisi economica che ha travolto l’economia mondiale ha portato a un ripensamento dei meccanismi di governo della finanza pubblica. Così, al fine di offrire maggiori garanzie al sistema dei bilanci pubblici e del debito di ciascuno Stato soprattutto nell’ambito dei mercati finanziari, l’Unione europea ha imposto l’inserimento nelle Carte costituzionali degli Stati membri del vincolo del pareggio di bilancio. L’Italia, quindi, al pari di altri Stati quali la Germania, la Grecia e la Spagna, ha provveduto a tale indicazione procedendo alla modifica dell’art. 81 della Costituzione mediante L. cost. 20-4-2012, n. 1, sebbene venga specificato nell’art. 6 che le nuove disposizioni costituzionali troveranno applicazione a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014. L’accelerazione della riforma costituzionale deriva dalla firma da parte dell’Italia, il 2 marzo 2012, insieme ad altri 24 Paesi membri dell’UE, del «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria», conosciuto meglio come «fiscal compact» (o patto di bilancio), che contiene una serie di «regole d’oro» vincolanti per gli Stati firmatari. 180 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica Più specificamente, in base al nuovo articolo 81, comma 1, lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle diverse fasi, avverse o favorevoli, del ciclo economico. Si prevede tuttavia un’eventuale deroga alla regola generale del pareggio, stabilendo che possa consentirsi il ricorso all’indebitamento «solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Tali eventi eccezionali possono consistere in gravi recessioni economiche, crisi finanziarie, gravi calamità naturali. La L. cost. 1/2012 conferma, poi, le disposizioni già presenti nel vigente articolo 81 concernenti il principio della copertura finanziaria delle leggi — in base al quale ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri finanziari deve provvedere ai mezzi per farvi fronte — e quelle che stabiliscono la competenza delle Camere ad approvare ogni anno con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo e prevedono l’autorizzazione con legge, per periodi non superiori a quattro mesi, all’esercizio provvisorio del bilancio, nel caso in cui questo non risulti approvato entro la fine dell’esercizio finanziario. Di rilievo la disposizione contenuta nel comma 6 del nuovo articolo 81, secondo cui: «Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princıpi definiti con legge costituzionale». A dare attuazione al principio del pareggio di bilancio, su delega dello stesso art. 81 comma 6 e dell’art. 5 della L. cost. 1/2012, ha provveduto la L. 24 dicembre 2012, n. 243. Per ciò che concerne specificamente l’equilibrio del bilancio dello Stato l’art. 14 di detta legge stabilisce che esso corrisponde ad un valore del saldo netto da finanziare o da impiegare (è risultato differenziale tra le entrate tributarie, extratributarie, da alienazione e ammortamento di beni patrimoniali e da riscossione di crediti e le spese correnti e in conto capitale) coerente con gli obiettivi programmatici stabiliti dai documenti di programmazione finanziaria e di bilancio. 22.Gli atti di indirizzo politico e gli atti ispettivi Una volta ottenuta la fiducia, il Governo attua il suo programma sotto la direzione e il controllo del Parlamento. Nell’ambito degli atti di indirizzo politico rientrano: — la mozione, che mira a promuovere una deliberazione della Camera e consiste nella richiesta, fatta dai singoli membri del Parlamento alla Camera cui appartengono, di procedere alla discussione e votazione su un determinato oggetto su cui una precedente interpellanza li avesse lasciati insoddisfatti. Può, inoltre, essere posta, indipendentemente da precedenti interpellanze, qualora la promuovano almeno dieci deputati o un presidente di gruppo oppure otto senatori; Capitolo Primo: Il Parlamento 181 — la risoluzione, che rappresenta l’atto di indirizzo politico per antonomasia. Può chiudere un dibattito provocato da una mozione oppure da una comunicazione del Governo e può essere votata in aula o in commissione; — l’ordine del giorno di istruzione al Governo, che si inserisce in un procedimento legislativo, impegnando il Governo a dare un certo significato alle norme che vengono approvate oppure ad adottare un certo provvedimento connesso al testo di legge in discussione. Nell’ambito degli atti ispettivi rientrano: — l’interrogazione, che consiste nella domanda rivolta per iscritto da un parlamentare al Governo o ad un Ministro circa la conoscenza di una determinata situazione e quali misure esso intenda ­adottare (art. 128 Reg. Cam. e art. 145 Reg. Sen.). Di regola il Governo risponde oralmente in aula o in commissione e l’interrogante può replicare brevemente per dichiararsi soddisfatto o meno. Sono previste anche interrogazioni a risposta immediata, in cui il dialogo è esteso ad altri parlamentari oltre all’interrogante, e interrogazioni a risposta scritta, in cui la risposta viene comunicata per iscritto senza possibilità di replica; — l’interpellanza, che consiste nella domanda rivolta per iscritto da un parlamentare al Governo o ad un Ministro circa i motivi o gli intendimenti della condotta politica tenuta rispetto ad una data questione (art. 136 Reg. Cam. e art. 154 Reg. Sen.). L’interpellanza è discussa in aula, alla presenza del rappresentante del Governo: ove l’interpellante non si ritenga soddisfatto delle spiegazioni fornite può trasformare l’interpellanza in mozione; — l’inchiesta parlamentare, che rappresenta un’indagine disposta da ciascuna Camera al fine di acquisire elementi necessari di conoscenza in ordine ad una materia di pubblico interesse. Sebbene il potere d’inchiesta sia attribuito alle Camere separatamente, le commissioni possono essere anche bicamerali. Per procedere alle inchieste, ciascuna Camera provvede alla nomina di una commissione formata con criteri proporzionalistici, che rispecchi, cioè, la composizione delle forze politiche presenti in essa. Terminati i lavori, la commissione presenta all’Assemblea plenaria una relazione che viene discussa e votata. Le Commissioni, nello svolgimento delle inchieste, procedono con gli stessi poteri e i limiti dell’autorità giudiziaria; — l’esame dei decreti registrati con riserva dalla Corte dei conti. Tutti i decreti governativi e ministeriali, di natura amministrativa, sono soggetti al visto e alla registrazione (tipiche forme di controllo di legittimità) da parte della Corte dei Conti. Qualora quest’ultima ritenga un decreto illegittimo, ne rifiuta la registrazione e lo rimanda al Governo il quale, però, può chiedere, con deliberazione motivata del Consiglio dei Ministri, la registrazione con riserva del decreto stesso (art. 25 R.D. 1214/1934 come modificato dalla L. 340/2000). In tale ipotesi la Corte informa contemporaneamente il Parlamento, al fine di consentirgli l’opportuno controllo politico sull’operato del Governo; — le commissioni bicamerali di vigilanza. Secondo parte della dottrina, tali commissioni rappresenterebbero, più che un controllo, quasi una forma di assunzione di funzioni amministrative da parte di organi parlamentari (PIZZORUSSO); esse però possono essere ricondotte alla funzione di controllo per il fatto che svolgono una vera e propria attività ispettiva dall’interno sull’esercizio di attività amministrative. 182 Parte Terza: L’ordinamento della Repubblica 23.Parlamento italiano e Unione europea L’approvazione e l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha assegnato ai Parlamenti degli Stati membri un ruolo significativo per quanto riguarda l’attività dell’Unione europea. In particolare, l’art. 12 del Trattato sull’Unione europea dispone le ipotesi in cui i parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione: — venendo informati dalle istituzioni dell’Unione e ricevendo i progetti di atti legislativi dell’Unione in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea; — vigilando sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo le procedure previste dal protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità; — partecipando, nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ai meccanismi di valutazione ai fini dell’attuazione delle politiche dell’Unione in tale settore, in conformità dell’art. 70 TFUE, ed essendo associati al controllo politico di Europol e alla valutazione delle attività di Eurojust, in conformità degli articoli 88 e 85 TFUE; — partecipando alle procedure di revisione dei trattati in conformità dell’art. 48 TUE; — venendo informati delle domande di adesione all’Unione in conformità dell’art. 49 TUE; — partecipando alla cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali e con il Parlamento europeo in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea. In virtù di quanto previsto da tale norma è stata adottata una normativa specifica per rendere effettiva la partecipazione del Parlamento italiano alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea. Pertanto, la L. 24 dicembre 2012, n. 234 fissa all’art. 3 i principi generali specificando come il Parlamento: — partecipi al processo decisionale dell’Unione europea; — intervenga nella fase di formazione delle normative e delle politiche europee, in coordinamento con il Governo. In tal senso, prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, il Governo illustra alle Camere la posizione che intende assumere, tenendo conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati. Il Governo, inoltre, informa e consulta periodicamente il Parlamento, nell’ambito delle procedure individuate dalla legge di cui all’art. 81, sesto comma, della Costituzione, come sostituito ai sensi della L. cost. 20 aprile 2012, n. 1, e con le modalità previste dai rispettivi Regolamenti, in merito al coordinamento delle politiche economiche e di bilancio e al funzionamento dei meccanismi di stabilizzazione finanziaria. Capitolo Primo: Il Parlamento 183 Glossario Flagranza (di reato): stato di chi viene colto nell’atto di commettere un reato, è inseguito subito dopo la commissione di un reato (dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altri), oppure è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (cd. quasi-flagranza). La flagranza di reato costituisce uno dei presupposti per eseguire validamente l’arresto. Intercettazione: mezzo di ricerca della prova attraverso il quale si prende cognizione (all’insaputa di almeno uno degli interessati) di comunicazioni telefoniche o di conversazioni tra persone presenti (cd. intercettazione ambientale). Perquisizione personale o domiciliare: mezzo di ricerca della prova consistente in investigazioni sul corpo o presso l’abitazione di una persona allo scopo di verificare la presenza di determinati oggetti o documenti. Vilipendio: manifestazione di disprezzo attraverso parole, scritti, gesti o atti. Capitolo Primo Le Regioni Sommario: 1. Le scelte dei costituenti. - 2. La creazione dell’ordinamento regionale. - 3. La riforma costituzionale del 2001. - 4. Il nuovo progetto di riforma costituzionale e il sistema delle Autonomie regionali e locali. 1. Le scelte dei costituenti L’assetto regionale italiano, prima di assumere l’aspetto attuale delineatosi dopo la modifica del Titolo V parte seconda della Costituzione, ha subito una lunga e travagliata evoluzione. Nel XIX secolo l’Italia era suddivisa in vari Stati di diversa importanza e grandezza: l’idea prevalente fra i pensatori dell’epoca, che sostenevano l’unità d’Italia, era quella di uno Stato federale, cioè di uno Stato articolato in vari Stati minori (GIOBERTI, FERRARI, CATTANEO). Al momento dell’unificazione (1861) prevalse, però, una tendenza accentratrice, determinata anche dall’esigenza di creare una coscienza nazionale che nelle masse mancava: sorse quindi uno Stato unitario fortemente accentrato. Durante il periodo fascista la tendenza accentratrice, diretta a legare tutti gli organi di amministrazione locale ad un rigido schema di governo centrale, si accentuò, come ovvia conseguenza del regime politico totalitario. Soltanto con la caduta del fascismo il tema delle autonomie, anche territoriali, ha assunto un ruolo centrale nel dibattito politico. La Costituzione, accogliendo la concezione regionalista, ha realizzato una soluzione intermedia tra le due forme di governo estreme dello Stato federale (caratterizzato dall’unione di più Stati membri titolari di sovranità) e dello Stato accentrato (che non riconosce, altre forme di autonomia). Il territorio nazionale fu così diviso in Regioni attualmente pari a 20 (art. 131 Cost.) di cui cinque a statuto speciale e quindici a statuto ordinario. 2. La creazione dell’ordinamento regionale Le prime quattro Regioni ad autonomia speciale, previste dalla Costituzione, furono istitui­te già nel 1948: gli Statuti delle Regioni Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, infatti, furono approvati con le leggi costituzionali n. 2, 3, 4, 5 del 26 febbraio 1948. La Regione Friuli-Venezia Giulia fu istituita solo successivamente, nel 1963 (con L. cost. n. 1 del 31 gennaio 1963), quando si definì la situazione politica al confine con la Jugoslavia. 242 Parte Quarta: Regioni e governo locale Le Regioni ad autonomia ordinaria, invece, sono state attuate assai in ritardo: solo nel 1970 è stata approvata la legge n. 281 che conteneva i provvedimenti finanziari per la loro attuazione e la delega al Governo (art. 17) per l’emanazione di norme per il passaggio delle funzioni (e di parte del personale) statali alle Regioni, nei limiti della loro competenza. Nel 1972 sono stati, invece, emanati i decreti governativi delegati (n. 1-11) che trasferivano alle Regioni ordinarie le funzioni nelle materie loro attribuite dalla Costituzione. Successivamente, con la legge n. 382 del 1975, il Governo è stato delegato ad emanare, per le Regioni a Statuto ordinario, i decreti per completare il trasferimento delle funzioni amministrative, con la conseguente riduzione dell’organico e delle attribuzioni delle amministrazioni statali. Il D.Lgs. 616/1977, in attuazione della delega, ha effettuato il trasferimento delle funzioni per settori organici di materie e non attraverso ritagli di materie chirurgicamente operati, come i precedenti decreti di trasferimento. 3. La riforma costituzionale del 2001 Il titolo V della parte seconda della Costituzione, dedicato alle autonomie territoriali (Regioni, Province, Comuni) è stato profondamente modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3. Gli aspetti salienti della riforma sono i seguenti: — l’art. 114 Cost., che, nella sua formulazione originaria, prevedeva la ripartizione della Repubblica in Regioni, Province e Comuni, vede ribaltata l’elencazione degli enti territoriali, evidenziando la profonda radice territoriale del Comune, l’ente locale più vicino ai cittadini. Dopo i Comuni, risalendo, sono elencate le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato; — l’autonomia goduta dagli enti elencati nel nuovo art. 114 è piena, nel senso che trova un limite invalicabile nei principi fissati dalla Costituzione; — viene costituzionalizzato lo status di capitale d’Italia della città di Roma; — non solo le Regioni speciali godono di «forme e condizioni particolari di autonomia», ma anche le Regioni a Statuto ordinario possono beneficiarne, su iniziativa della Regione interessata e con legge dello Stato; — la suddivisione della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni è definita dall’art. 117 Cost. secondo un’impostazione completamente diversa; — viene riconosciuta alle Regioni la conduzione di una politica estera sia pur nel rispetto di alcuni vincoli; — l’attribuzione delle funzioni amministrative di pertinenza statale agli enti locali avviene in ossequio al principio di sussidiarietà, al quale si affiancano il principio di differenziazione e di adeguatezza che ne costituiscono dei corollari; — il federalismo fiscale viene costituzionalizzato con il nuovo testo dell’art. 119; — è prevista una forma di intervento sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e degli enti locali a fronte di gravi inadempienze; — sono abrogati gli articoli 115, 124, 125, comma 1, 128, 129 e 130 Cost. Capitolo Primo: Le Regioni 243 Quali sono i contenuti della legge La Loggia? Il primo passo normativo compiuto al fine di conformare il sistema legislativo vigente alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione (L. cost. 3/2001) è dato dalla L. 5-6-2003, n. 131 (c.d. legge La Loggia) recante «disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. cost. 3/2001». Si riportano di seguito, in sintesi, i lineamenti della riforma: — l’art. 1 (che attua l’art. 117, commi 1 e 3 Cost.) con il quale vengono fissati i limiti da rispettare in materia di legislazione regionale; — l’art. 4 (che attua gli artt. 114, comma 2, e 117, comma 6 Cost.) con il quale viene ribadita la potestà normativa di Comuni, Province, Città metropolitane, nonché Unioni di Comuni e Comunità montane ed isolane, esplicantesi in potestà statutaria e regolamentare; — l’art. 5 (che attua l’art. 117, comma 5 Cost.) con il quale si disciplina la partecipazione delle Regioni a livello europeo; — l’art. 6 (che attua l’art. 117, commi 5 e 9 Cost.) relativo all’attività internazionale delle Regioni; — l’art. 7 (che attua l’art. 118 Cost.) che riconferma e specifica, in tema di suddivisione delle funzioni amministrative, i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione; — l’art. 8 (che attua l’art. 120 Cost.) che detta le procedure con le quali può darsi luogo al potere sostitutivo del Governo nei confronti degli organi degli enti locali al verificarsi di una delle tre ipotesi individuate dallo stesso art. 120 Cost.; — l’art. 9 (che attua gli artt. 123, comma 2, e 127 Cost.) che in tema di ricorso alla Corte costituzionale per illegittimità di Statuti regionali e di leggi o atti aventi forza di legge dello Stato, attribuisce un potere propositivo rispettivamente alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali ed al Consiglio delle autonomie locali; — l’art. 10 con il quale si riconosce al Prefetto preposto all’Ufficio territoriale del Governo (ora Prefetture-Uffici territoriali del Governo ex D.Lgs. 21-1-2004, n. 29) presso il Capoluogo della Regione il ruolo di «rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie». 4. Il nuovo progetto di riforma costituzionale e il sistema delle Autonomie regionali e locali Nel progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi (di cui già si è dato conto nelle altre parti del volume) rientra anche la revisione del Titolo V, parte II della Costituzione. Per ciò che concerne più specificamente le autonomie regionali e locali è da sottolineare che due sono i pilastri fondanti della riforma costituzionale in itinere, ovvero: l’art. 5 e l’art. 1 della Costituzione. Sul punto, infatti, è stato evidenziato che la nuova riforma, poggiando sul concetto fondamentale che l’autonomia degli enti diversi dallo Stato è fonte di arricchimento di tutto il sistema istituzionale, rappresenta una declinazione in chiave nuova del pluralismo istituzionale e del principio autonomistico diretto ad incrementare complessivamente il tasso di democraticità del nostro ordinamento. È valorizzando, le Autonomie regionali e locali, attraverso un loro coinvolgimento più diretto nel sistema decisionale di livello nazionale (Camera di rappresentanza delle Istituzioni territoriali) che si «rafforza», infatti, quella parte del potere pubblico (rappresentato da Regioni ed enti locali) più vicino ai cittadini, e se ne esalta al contempo il grado di democraticità. In tale più moderna prospettiva, si dovrebbe ottenere il risultato di migliorare anche la 244 Parte Quarta: Regioni e governo locale capacità delle Istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali riconosciuti ai cittadini, secondo il principio della sussidiarietà verticale. Più specificamente, in coerenza con gli articoli 1 e 5 della Costituzione (principio autonomista e principio democratico) il disegno di legge costituzionale si propone, dunque, di ricercare un nuovo equilibrio tra l’unità e l’indivisibilità della Repubblica e l’esigenza di salvaguardare e promuovere «ulteriormente» ed in chiave più moderna le autonomie regionali e locali. Altro punto importante della riforma in esame è, infatti, una nuova ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni (art. 117 Cost.) tesa a trovare un maggiore e più coerente equilibrio degli interessi nazionali, regionali e locali e a superare l’eccessiva frammentazione di competenze tra i diversi livelli di governo (Stato e Regioni), spesso terreno fertile di ricorsi alla Corte costituzionale. Conseguentemente alla redistribuzione delle competenze legislative in favore di un modello che può essere definito di «regionalismo cooperativo» si dovrà procedere ad una ridefinizione degli ambiti della potestà regolamentare come ora individuati dal dettato costituzionale. Nella stessa direzione si pone la modifica prevista all’articolo 118 della Costituzione relativo alle funzioni amministrative. Nel ridisciplinare l’assetto costituzionale dei diversi livelli di governo della Repubblica, il disegno di legge conferma l’eliminazione del riferimento alla Provincia nei diversi articoli della Costituzione (artt. 114-133) che attualmente disciplinano questo ente territoriale. Glossario Adeguatezza (principio di): corollario del principio di sussidiarietà, in virtù del quale l’amministrazione cui vengono conferiti compiti e funzioni deve essere organizzata in maniera idonea a garantirne l’esercizio. Differenziazione (principio di): corollario del principio di sussidiarietà secondo cui nell’allocazione delle funzioni si devono tenere in opportuno conto le diverse caratteristiche (strutturali, organizzative, demografiche, associative) degli enti riceventi. Sussidiarietà (principio di): è il principio in virtù del quale la generalità delle competenze e delle funzioni deve essere attribuita alle autorità territorialmente più vicine ai cittadini interessati e affidata ai poteri pubblici soltanto quando individui e formazioni sociali non sono in grado di assolvere ai propri compiti sociali. La ripartizione di compiti e funzioni può avvenire tra livelli di governo differenti (sussidiarietà verticale) e fra le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati (sussidiarietà orizzontale).