ESPERIENZE Sono le persone, le loro idee e i loro progetti, che ogni giorno, nella scuola e nella società, danno significato e valore all’apprendimento. Conoscere come lavorano, quali sono le passioni e le ragioni che orientano il loro agire è la via per trovare nuovi stimoli e nuove direzioni. RIFLESSIONI Apprendimento è cambiamento. E perché il cambiamento possa assumere senso e significati positivi è necessario che coinvolga e contamini i saperi, che trovi equilibrio fra tradizione e innovazione, che metta al centro i temi della cittadinanza e dell’etica. RICERCHE Il lavoro dell’editore è azione quotidiana. Questo vuol dire anche sperimentare, indagare, collaborare con enti e istituzioni, in Italia e nel mondo. Condividere i risultati delle nostre ricerche è un modo per essere in sintonia e in dialogo con chi opera nel campo dell’apprendimento. MAGAZINE Imparare è qualcosa che va di pari passo con la mancanza di paura. Marco Paolini > SAPERI > FORMAZIONE > AGGIORNAMENTO > COMPETENZE > CITTADINANZA iS magazine è uno strumento di dialogo, servizio, condivisione. Due numeri l’anno, in edizione cartacea e in versione digitale, scaricabili su computer, tablet e smartphone. NEWSLETTER > INTERCULTURALITÀ > IDENTITÀ > COLLABORAZIONE iS espresso è un appuntamento mensile di informazione e di intervento: attualità, approfondimenti, resoconti delle ricerche e delle attività in corso. > DIALOGO > RICERCA > PROGETTAZIONE > VALUTAZIONE > INNOVAZIONE > TECNOLOGIE > LINGUAGGI SITO WEB is.pearson.it è l’indirizzo web dove trovare tutti i materiali del progetto iS, le espansioni multimediali e gli approfondimenti. editoriale U n lettore che decidesse di attraversare questo terzo numero di iS affidandosi innanzitutto alle immagini, ai titoli e agli occhielli, potrebbe porsi una domanda: sono la stessa scuola quella immortalata in Foto di classe, lo straordinario reportage di Julian Germain - così familiare a tutti noi, indiscutibile e quasi senza tempo - e quella di Mirandola, che reagisce al terremoto inventandosi una nuova didattica in nuovi spazi; o quella di Radio Rinascita, Radioimmaginaria, Radio Kreattiva, che accanto a banchi e lavagne offre console, cuffie, sintetizzatori; o quella di BergamoScienza, che scommette su studenti e insegnanti capaci di parlare di scienza al territorio. È ancora una classe quella “capovolta”, la flipped classroom in cui l’apprendimento incomincia a casa e la vera “lezione” è un’esperienza di laboratorio, di creatività e di immaginazione? Sì, è la stessa scuola. Perché ciò che accomuna tutte queste dimensioni è l’esperienza - unica, irripetibile, e per chi la sa amare anche magica – della scommessa della formazione. Nel presentare iS, ci eravamo presi l’impegno di andare al di là dei luoghi comuni e delle deprecazioni, pur spesso giuste, che marcano il discorso pubblico sulla scuola. È quello che abbiamo cercato di fare anche in questo numero, raccontando la ricchezza delle molte “scuole” che ci circondano e la condizione giovanile con uno sguardo che vuole essere plurale e aperto. Si dice talora che un elemento contraddistingue l’attuale generazione di giovani: il fatto di avere dinanzi a sé un futuro peggiore di quello dei loro padri. È così? Giovani senza futuro o giovani “in cerca di futuro”, come suggerisce il titolo del nostro Dossier? Tutti lamentiamo, e giustamente, la scarsità degli investimenti pubblici nella scuola e nella formazione. Ma anche qui, la ricerca internazionale The Learning Curve condotta da Pearson ci dice con molta nettezza una cosa importante e troppo spesso sottovalutata: che il vero fattore decisivo e critico, nel determinare il rendimento di un sistema scolastico, è il supporto della società civile alla scuola, e in particolare la considerazione e il rispetto sociali di cui godono i docenti. Dunque, non si tratta solo di inserire poste in un bilancio, ma di consapevolezza culturale e di progettualità civile. L’editore Imparare è un verbo ricco di significati. Imparare vuol dire migliorarsi, crescere, vivere senza barriere. Non solo a scuola ma ovunque, e a qualunque età. > SAPERI > FORMAZIONE > AGGIORNAMENTO > COMPETENZE > CITTADINANZA > INTERCULTURALITÀ > IDENTITÀ > COLLABORAZIONE > DIALOGO > RICERCA > PROGETTAZIONE > VALUTAZIONE > INNOVAZIONE > TECNOLOGIE > LINGUAGGI Una generazione in cerca di futuro: formazione e valori per affrontare la crisi nel Dossier Il nostro sogno? Un mondo dove la scuola sia di nuovo considerata maestra, perché i buoni insegnanti aiutano a crescere. Un mondo dove anche chi è adulto possa continuare a imparare per realizzare i propri desideri. Noi di Pearson ci crediamo. A questo lavoriamo. direzione Massimo Esposti Rivista aperiodica distribuita gratuitamente nelle scuole, pubblicata da Pearson Italia S.p.A. comitato editoriale Marika De Acetis Luciano Greco Elena Grossi Marina Loffi Randolin Paolo Magliocco Valentina Murelli Si autorizza la riproduzione dell’opera purché parziale e a uso non commerciale. grafica Antonella Regina iS è un marchio di proprietà di Pearson Italia S.p.A. Corso Trapani 16 -10139 Torino ricerca iconografica Cecilia Lazzeri RI651800102L Stampato per conto della Casa Editrice presso Arti Grafiche DIAL, Mondovì (CN), Italia correzione bozze Federico Manicone immagine di copertina © Rene Mansi/Getty Images L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali non volute omissioni in merito a riproduzioni grafiche e fotografiche inserite in questo numero. Tutti i diritti riservati © 2013 Pearson Italia S.p.A. www.pearson.it [email protected] sommario Portfolio Intervista Shirin Ebadi La mia vita tra violenza e giustizia Il premio Nobel per la Pace che ha posto al centro della propria vita la lotta per i diritti civili e la democrazia di Farian Sabahi Julian Germain Foto con classe L’arte dei ritratti per scoprire il mondo attraverso le scuole e gli occhi degli studenti di ogni Paese di Valentina Murelli Esperienze: la scuola si confronta Dialogo La conoscenza ai tempi di Internet Il filosofo Maurizio Ferraris incontra Juan Carlos De Martin, ingegnere di Marika De Acetis Il sapere antisismico Il caso di Mirandola: reinventare la scuola dopo il terremoto e trasformare l’emergenza in un’opportunità di Valentina Murelli L’unione fa la scienza Quando gli studenti diventano divulgatori: il caso del festival della scienza di Bergamo di Eleonora Viganò sommario Esperienze: la scuola si racconta Streaming, podcast e fantasia Le web radio: piccole emittenti scolastiche che raccontano il mondo con le parole dei ragazzi di Davide Coero Borga La scuola senza confini La scuola materna Diana di Reggio Emilia, un caso italiano di successo studiato in tutto il mondo di Donato Ramani La generazione in cerca del futuro Otto riflessioni su problemi e opportunità che la crisi economica ha posto sul tavolo dei giovani ECONOMIA > I giovani, centri di gravità di Luigi Campiglio FILOSOFIA > Senza vera formazione non c’è nemmeno futuro di Carlo Sini DEMOGRAFIA > Il peso del domani di Alessandro Rosina DEMOGRAFIA > Né sui libri né al lavoro. Ritratto dei NEET, categoria sospesa di Silvia Paris ECONOMIA > Tra precarietà e risposte fuori dal coro di Andrea Fumagalli ECONOMIA > Tre miti giovanili da sfatare, intervista a Stefano Zamagni di Paolo Magliocco ANTROPOLOGIA > Immaginare il futuro per costruirlo di Sara Zambotti PSICOLOGIA > Alla ricerca di un nuovo umanesimo di Gustavo Pietropolli Charmet DOSSIER Benchmark L’importanza del confronto Le ricerche mensili del programma PISA: uno studente straniero affronta gli stessi problemi in tutto il mondo? di Stefano Glenzer sommario Esperienze: oltre la scuola Eppur si muove I semi della legalità Formazione e cultura: così i ragazzi lavorano con l’associazione Libera per contrastare la mafia di Simona Regina Il successo nelle mani Studiare e lavorare nell’eccellenza italiana: le iniziative di Altagamma di Marina Loffi Randolin Sperimentare la pace attraverso il teatro Il Teatro Arcobaleno, un progetto interculturale per dimostrare che la pace in Palestina è possibile di Silvia Paris La didattica “capovolta” Focus Tech iS continua: - online, sul sito is.pearson.it - con la newsletter iS espresso: scopri sul sito come iscriverti - nei social network: twitter.com/iS_Pearson www.facebook.com/iSPearson www.youtube.com/user/iSPearsonVideo Multimediale e nuove modalità didattiche: studiare a casa, esercitarsi a scuola di Fabio Serenelli sommario Cittadinanza Uguali ma diverse Quando la cittadinanza diventa una questione di genere di Franca Bimbi Laboratorio Pearson Metti la scuola al centro del mondo Il progetto The Learning Curve di Pearson confronta per la prima volta i sistemi educativi di oltre 50 Paesi nel mondo di Riccardo Oldani A che punto è l’Italia I punti di forza e le debolezze del sistema formativo italiano che emergono dal confronto internazionale del progetto The Learning Curve di Riccardo Oldani La formula della buona istruzione I fattori chiave della formazione in un mondo in cui il baricentro si sta spostando verso l’Oriente di Donato Ramani PORTFOLIO IL CARCERE CHE CUSTODISCE L’ANTICO SAPERE Opera, Milano Foto: Matteo Bazzi/Ansa Seghetti, lime, pialle, sgorbie, scalpelli, morsetti, righe e squadre, legni; e poi più di settecento ore di formazione a fianco di maestri liutai di Cremona, dove il violino è nato oltre quattro secoli fa su impulso di famiglie di artigiani che si chiamavano Stradivari, Amati, Guarneri del Gesù. Novelli Mastro Geppetto – come dice uno di loro - sono a oggi otto detenuti del grande Reclusorio di Opera, presso Milano, che dal 2010 animano il Laboratorio di Liuteria della prigione, gestito dalla Cooperativa sociale Opera in Fiore. Altri dieci hanno avviato l’anno scorso un analogo itinerario. Davvero è una scommessa vinta quella della casa di pena lombarda: mettere in piedi un’attività di altissimo livello nonostante la concorrenza sul mercato di strumenti fabbricati serialmente in Cina; proporre l’apprendimento di un mestiere raffinato e di un impegno duro. Gli esiti sono andati al di là dell’immaginabile; i carcerati ci hanno messo l’anima e ne sono stati ricompensati, per la passione che ne è nata, perché l’iniziativa si sostiene economicamente, perché i violini usciti dalle loro mani hanno risuonato in concerto, anche tra le mura del penitenziario. PORTFOLIO « VAMOS A VER EL BIBLIOBURROS!» La Gloria, Colombia Guarda il video del Biblioburros http://link.pearson. it/2E0E3CE5 Foto: Scott Dalton/ The New York Times/Contrasto Luis Soriano, insegnante alle scuole elementari, ha due validi e insoliti assistenti: Alfa e Beto. Si tratta di due muli che lo aiutano a portare i libri nell’entroterra colombiano durante i fine settimana, per raggiungere quei bambini che non possono andare a scuola. Padre di tre figli, Soriano ha raccolto migliaia di libri che conserva in casa in alte pile. Di volta in volta, sceglie quelli più appropriati da portare in giro: favole per i bambini più piccoli e romanzi per gli adulti, che distribuisce e legge ad alta voce nei sabati e nelle domeniche che passa con la gente della provincia Magdalena, insegnando anche a leggere e scrivere. Non si accontenta di quello che trova: scrive a scrittori e poeti più famosi chiedendo loro di inviargli le ultime opere. Con il suo Biblioburros, letteralmente “libreria a dorso di muli”, raggiunge da oltre dieci anni i paesi delle zone di montagna, isolate e devastate dalla guerriglia. Per lui i libri sono anche un modo per creare una connessione tra la sua gente e il resto del mondo. PORTFOLIO I VIDEOGIOCHI PER IMPARARE A USARE IL PC Atene, Grecia Foto: Francesco Anselmi/ Contrasto Si possono trasformare i tanto vituperati videogiochi in uno strumento per far apprendere qualcosa a bambini e ragazzi? La strada più battuta è quella di proporre videogiochi educativi. Stavros Messinis ne sta tentando un’altra: usare le battaglie tra mostri e alieni come stimolo per indurre i giovani a imparare a programmare, a capire e utilizzare la lingua dei computer anziché usarli passivamente. Nella Grecia così duramente colpita dalla crisi, Messinis e altri soci hanno aperto CoLab, che è anche uno spazio di lavoro condiviso, dove ciascuno può sviluppare un proprio progetto. Una delle iniziative di CoLab è stata la realizzazione di workshop e corsi per bambini, possibilmente accompagnati da genitori (come si vede in questa foto; Messinis è in basso a destra): nel giro di una mattina i ragazzini passano dal saper scrivere i comandi per muovere un animaletto sullo schermo alla creazione di un vero e proprio videogioco personale, inventato da loro. Il linguaggio di programazione, estremamente semplice, si chiama Scratch ed è stato messo a punto al MIT, il Massachusetts Institute of Technology, uno dei santuari dell’innovazione tecnologica. INTERVISTA intervista Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi è cresciuta nell’Iran dello scià, poi in quello degli ayatollah, infine ha scelto l’esilio. Non ha mai smesso di lottare per il rispetto della giustizia e dei diritti umani, ma anche di amare il suo Paese. «La famiglia è ciò che più ha contato nella mia formazione» L a famiglia, la religione, la scuola, la cultura, ma anche la politica e l’amore per la propria patria. Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi racconta in questa intervista a Farian Sabahi, grande esperta del mondo islamico, l’avventura della sua formazione e della sua vita, chiusa, come dice il titolo della sua autobiografia,”tra rivoluzione e speranza”. Ebadi è cresciuta tra l’Iran dello scià e quello della rivoluzione khomeinista, lontana da entrambi questi modelli e tuttavia profondamente radicata nel proprio Paese, al quale non smette mai di pensare e per il quale continua a lottare anche ora dall’esilio volontario che ha scelto dopo l’elezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. Nel 2003 il Comitato per il Nobel l’ha scelta “per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia”. È stata la prima donna iraniana e la prima musulmana a ricevere il Nobel per la Pace. Magistrato, costretta a lasciare il proprio incarico dopo la rivoluzione degli ayatollah, giurista, avvocato, scrittrice, Ebadi è pacifista e battagliera e guarda alla realtà con sguardo lucido e disincantato, ancorata sempre al principio della legalità e della difesa dei diritti. Un dato colpisce nel suo “La fede e il senso del dovere percorso esistenziale: la capacità di usare le circostanze, spesso avfanno parte della mia cultura” verse, per una costante, progressiva presa di coscienza personale. In altri termini, farsene modificare senza esserne piegati, apprendere dentro la loro concretezza ad approfondire e mantenere vive le ragioni di una responsabilità assunta: a partire dal contesto familiare, all’università, alla carriera da magistrato, all’obbligato mutamento di rotta (e di mestiere). • Nella pagina precedente, Shirin Ebadi autografa un suo libro durante uno dei suoi impegni pubblici per la difesa dei diritti umani. Foto: Saul Loeb/AFP/Getty Images In questa pagina, le manifestazioni del 1979 che portarono alla caduta dello scià e all'ascesa dell'ayatollah Khomeini. Foto: Gamma-Keystone Leggendo l’incipit della sua autobiografia, in cui racconta le reazioni della nonna e del resto della famiglia in occasione del colpo di Stato organizzato dalla Cia contro il premier Mossadeq, che nel 1951 aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, sembra che la politica non abbia avuto un ruolo, se non marginale, nella sua infanzia e adolescenza. A conti fatti, quanto conta la politica nella sua formazione? Mio padre era uno dei sostenitori di Mossadeq e con il golpe del 28 mordad (19 agosto 1953, ndr) perse il lavoro. Venne così meno il reddito principale della famiglia, e sentimmo tutto il peso di quell’evento politico. Al tempo dello scià avere punti di vista diversi poteva avere conseguenze disastrose: le autorità non ti permettevano di continuare gli studi e trovare lavoro, ti creavano tantissime difficoltà e, proprio per questo, mio padre non aveva piacere che i suoi figli fossero in qualche misura coinvolti in politica. intervista Da bambina, la sua vita era condizionata dai problemi di salute della mamma. Lei scrive che fu la paura che lei morisse a risvegliare in lei la spiritualità. Ma sono tante altre le cose che lei ha imparato in famiglia, senza accorgersi di vivere in un ambiente speciale. Perché, col senno di poi, la sua famiglia è stata tanto importante per la sua formazione? Quando sei bambino non ti rendi conto che le famiglie sono diverse l’una dall’altra. Quando sono diventata grande, ho capito che mio padre era un intellettuale, aveva la mente aperta e cresceva noi figlie come il maschio, “Per i miei genitori l’obiettivo senza fare differenze di genere. Percepii un divario tra i miei genitori e quelli degli altri. Anche perché i miei genitori si amavano era ottenere per noi figli tantissimo e quel sentimento era diverso da quello che univa tante la formazione migliore” altre coppie. • L'incontro negli Stati Uniti tra Shirin Ebadi e il Dalai Lama Tenzin Gyatso, Premio Nobel per la Pace nel 1989. Foto: Taylor Hill/Getty Images La religione ha avuto un qualche ruolo, positivo o negativo, nella sua formazione? La fede è parte della cultura, ma la cultura della mia famiglia era fatta anche di senso del dovere. Così era mio padre, così sono io, così sono i miei fratelli. La religione e il senso del dovere fanno parte della mia cultura, dei principi appresi in famiglia. Lasciate che vi racconti un aneddoto: il primo anno di lavoro, appena diventata giudice, avrei voluto andare intervista La lunga strada dei diritti umani: la fotografia di Amnesty International del 2011 > Nel 2011 la libertà di espressione ha subito restrizioni in almeno 91 Paesi. Ciò nonostante ci sono state molte manifestazioni e Internet è stato utilizzato per chiedere democrazia, libertà e giustizia. Molti governi hanno risposto con la violenza: in almeno 101 Paesi si è fatto ricorso a torture e maltrattamenti. > Secondo l’Onu almeno 55 gruppi armati e forze governative arruolano bambini come soldati o ausiliari. > In 21 dei 198 Paesi del mondo sono state eseguite condanne a morte. Meno di un terzo rispetto a 10 anni fa. > Almeno 18.750 persone erano nei bracci della morte alla fine del 2011. Esecuzioni pubbliche hanno avuto luogo in Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita e Somalia. > In Asia la libertà di espressione ha subito restrizioni; poeti, giornalisti, blogger e oppositori sono stati ridotti al silenzio, l’uso di Internet è stato sottoposto a forti controlli. > In Egitto, Libia e Tunisia, migliaia di prigionieri politici sono stati rilasciati e la libertà di espressione è stata ampliata. Tuttavia, sono proseguite le violazioni che avevano luogo sotto i precedenti regimi, come la tortura e l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti e le restrizioni alla libertà di parola. > I difensori dei diritti umani in America Latina e nei Caraibi hanno subito minacce, intimidazioni e attacchi mortali. > In Medio Oriente e Africa del Nord la radicata discriminazione contro donne, minoranze e migranti resta diffusa. Sono aumentate le esecuzioni capitali, in particolare in Iraq, Arabia Saudita, Iran e Yemen. in vacanza con la famiglia nel mese di agosto. Ma il mio superiore non era d’accordo e mi chiese di prendere le ferie a settembre, perché avevo appena preso servizio. Ero molto arrabbiata, tornata a casa raccontai quanto successo. Mio padre difese il mio superiore, dicendo che per anni lui non aveva preso ferie e, se il mio lavoro era necessario, dovevo restare al mio posto. Che mestiere esercitava suo padre? Mio padre era un consulente giuridico, a capo dell’ufficio che registrava le aziende. Lei è una donna particolare. Che cosa ha contato di più nella sua formazione? Il fattore che ha pesato maggiormente nella mia formazione è stata la famiglia. Sono nata e cresciuta in una famiglia musulmana praticante. Ma i miei genitori, che erano degli intellettuali, decisero di iscriverci in una scuola zoroastriana, perché a quel tempo era l’istituto migliore. Per i miei genitori, musulmani, l’obiettivo era ottenere per i figli la formazione migliore, anche se la scuola dove andavamo apparteneva a una minoranza religiosa. Questo era così importante nella mia vita che mi sono sempre battuta per le minoranze religiose e oggi difendo la minoranza bahai, che nella Repubblica islamica non difende nessuno perché prendere le loro parti comporta un costo non indifferente. intervista Più in generale, quali sono le cose importanti nella formazione di una persona, a tutti i livelli, maschio o femmina che sia? A parte la famiglia, quali ingredienti sono importanti per la crescita di un bambino? Ho un nipote di nove mesi, si chiama Radin e vive a Boston. Credo che l’ingrediente più importante per la sua formazione sia l’amore, perché se i bambini crescono con l’amore sono loro stessi a trovare la strada. Dopo tre, quattro anni vissuti all’estero, cambiando completamente ambiente, si è modificato il suo giudizio sulle cose che più hanno contato nella sua formazione? Non credo di essere cambiata, lavoro solo di più, perché nel mio Paese la situazione continua a peggiorare. Nel 1964 lo scià aveva espulso l’ayatollah Khomeini che aveva osato protestare contro una serie di misure prese dalla monarchia: quali sono le sue memorie di allora? Ricordo come la gente andò a manifestare per strada, tra loro c’erano alcuni sostenitori di Khomeini. Si sparava per strada, le vie erano piene di poliziotti. Le mie sono memorie confuse, risalgono all’adolescenza. L’unico ricordo nitido è di una mattina di scuola, alle superiori: la porta dell’istituto era chiusa, pensai di aver fatto tardi, anche se in genere il portone rimaneva sempre aperto, bussai e il bidello mi aprì subito dicendo che, a causa dei disordini, il preside temeva che ci potessero essere problemi anche per noi studenti. Il 1965, quando lei si iscrisse a legge e iniziò a frequentare l’università, fu un anno di svolta, perché cominciò a frequentare l’ambiente intellettuale dell’ateneo di Teheran. La situazione era tesa, ma per lei la politica interna era una materia nuova. Quali conseguenze ebbe quella tensione sui suoi studi? Quando mi iscrissi all’università dar contro allo scià era di moda ed era percepito in modo positivo, perché tutti gli intellettuali si vantavano di essere contro la monarchia. Contestare era un modo di esprimersi, ma aveva dei limiti, nel senso che in prima battuta i giovani e gli intellettuali contestavano le autorità e, solo in seconda battuta, cercavano di motivare questo loro atteggiamento. • L'Iran oggi: una manifestazione anti Usa davanti all'ex ambasciata statunitense nel novembre 2012. Foto: Atta Kenare/AFP/ Getty Images Com’erano i suoi compagni di corso, e in quale misura vi siete influenzati l’un l’altro? Di molti di loro ho un buon ricordo. Con i compagni delle elementari, delle medie, delle superiori e dell’università ho mantenuto i rapporti, continuando a frequentarci, nel corso degli anni. intervista Nel marzo del 1970, a poco più di vent’anni, lei intraprese la carriera di magistrato. Giovanissima, perché il sistema giuridico iraniano non stabiliva un’età minima per ricoprire quella posizione. L’anno dopo, nel 1971, lo scià organizzò a Persepolis celebrazioni grandiose per festeggiare i 2500 anni della monarchia, tessendo una continuità tra la dinastia Pahlavi e l’impero achemenide di Ciro il Grande. Tracciando un confronto con i programmi scolastici della Repubblica islamica, quanto hanno imparato a scuola le sue figlie dell’antico impero persiano? Purtroppo dopo la Rivoluzione islamica del 1979 le autorità hanno cercato di affermare che la storia dell’Iran inizia con la conversione all’Islam, nel VII secolo dell’era volgare, e hanno cercato di celare il passato preislamico. Quando quel passato viene nominato, lo si fa sottotono. In una limpida e gelida mattina della primavera 1975, un giovane ingegnere di nome Javad Tavassolian entrò nell’aula di tribunale che lei presiedeva e le si avvicinò con il pretesto di chiedere il suo parere su alcune questioni legali. Javad aveva trentatré anni, lei ventotto. Dopo tanti anni di matrimonio, come pensa di essere riuscita a conciliare il suo carattere forte e indipendente con le esigenze di compromesso di ogni unione? Nella vita famigliare mi sono sempre comportata come una moglie e una madre tradizionale: ho sempre cucinato, mi sono sempre occupata delle bambine, sia quando erano piccole sia nel loro percorso scolastico. In questo senso, sono stata una donna tradizionale. Anni fa, mentre preparavo loro dei panini, mio marito mi fece notare che ormai erano adulte e potevano farseli da sole, ma io insistei: per me era importante che le mie figlie sapessero di avere una madre, anche da grandi. La rivoluzione del 1979 e le tante aspettative, deluse. La Repubblica islamica vieta alle donne di ricoprire la carica di giudice: com’è riuscita a cambiare mestiere, e che cosa ha dovuto imparare per passare dalla magistratura alla professione di avvocato? Secondo le leggi in vigore in Iran, quando completi la Facoltà di Giurisprudenza puoi diventare sia avvocato sia giudice. Per diventare avvocato devi seguire un praticantato di diciotto mesi. Se invece sei stato giudice per cinque anni, non devi fare pratica ma puoi diventare subito avvocato. Nel mio caso, ero stata giudice per parecchio tempo, ma le autorità della Repubblica islamica non mi permisero di esercitare la professione di avvocato perché avevo osato criticare le nuove leggi entrate in vigore dopo la Rivoluzione. Ho dovuto aspettare sette anni prima di poter esercitare l’avvocatura! Qual è la violenza più grande che abbia dovuto subire? Più di tutte, a colpirmi è stata la violenza delle leggi approvate dalla Repubblica islamica dopo la Rivoluzione del 1979. Noi donne abbiamo combattuto per cacciare lo scià, ma pochi mesi dopo il cambio di regime abbiamo perso tutti i nostri diritti. Quando lessi per la prima volta queste leggi discriminatorie pensai di non aver capito; dopo una seconda lettura ipotizzai che ci fosse un errore; alla terza mi arrabbiai tantissimo e mi colse un’emicrania terribile. Da quel momento, ogni volta che mi irrito mi viene un fortissimo mal di testa. intervista Lei è stata premiata con il Nobel per il suo impegno “per i diritti umani, per la democrazia e soprattutto per le donne e i bambini”. Pensa che, a parte le dichiarazioni di principio, l’Occidente sia davvero sensibile a questi temi? Non ne sono sicura fino in fondo, ma credo che dobbiamo continuare a parlare di questi temi. Nei dieci anni trascorsi dal suo Nobel lei si è impegnata molto, anche nella campagna di Science for Peace del professor Veronesi e in tante altre iniziative. Quale risposta sente a questi temi? Qualcosa sta veramente cambiando? Sì, qualcosa sta cambiando, ma negli ultimi tempi si è parlato troppo del controverso programma nucleare iraniano, delle sanzioni e dell’embargo internazionale, dimenticando il rispetto dei diritti umani, troppo spesso violati. Lei è un ex magistrato e una donna di legge. Si può dire che il suo sia un impegno per l’affermazione della giustizia? E quale significato dà a questa parola? Non si può spiegare che cosa è la giustizia, bisogna sentirla. I giuristi sostengono che quando una persona reclama giustizia, la deve ottenere. Dovremmo porci un’altra domanda: che cosa è un tuo diritto? Come viene formulato? Molto dipende da chi reclama i diritti, perché qualcuno chiede poco, e qualcuno chiede troppo. La giustizia si può insegnare? Si possono insegnare i percorsi per giungere alla giustizia. La giustizia ha un valore molto alto. Arrivare alla giustizia forse non è possibile, è un obiettivo irraggiungibile nel senso pieno del termine. Per esempio, se una persona uccide, intenzionalmente, un’altra persona, può essere condannata fino a quindici anni di carcere. Questa è giustizia? Secondo alcuni sì. Ma se questa persona ha figli, è giustizia mettere in carcere il padre tanto a lungo? Lei parla molto delle sue esperienze in patria e della situazione del suo Paese. Pensa di essere capita? L’Occidente ha gli strumenti per comprendere le vicende degli altri? Spero capiscano, davvero! Qualche volta, parlando con i mezzi di comunicazione occidentali, mi rendo conto che la rappresentazione delle donne iraniane ha ben poco a che vedere con la realtà: ci raffigurano come analfabete, pensano che parliamo arabo! Gli occidentali non sempre hanno un’immagine corretta dell’Iran. Dopo il 2009, e la durissima repressione nei confronti degli attivisti del movimento verde scaturito all’indomani dei brogli elettorali, ho cominciato a scrivere un libro. Sono le mie memorie, in cui racconto i miei dieci anni dopo il Nobel, soffermandomi sui cambiamenti dell’Iran in questi ultimi tempi. ••• > L’autobiografia scritta da Shirin Ebadi in occasione del conferimento del Premio Nobel (in inglese) www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/ laureates/2003/ebadi-autobio.html > Il sito di Human Rights Watch, osservatorio internazionale sulla situazione dei diritti umani www.hrw.org/ > Il sito di Amnesty International www.amnesty.org/ Il video del discorso di Shirin Ebadi per il conferimento del Premio Nobel (in inglese) http://link.pearson.it/B7076D5F INTERVISTA intervista Julian Germain ha girato tutto il mondo scattando ritratti dei ragazzi nelle loro aule, dal Minnesota al Qatar, dalla Russia al Bangladesh. «Ho scoperto che la scuola occupa pochissimo spazio nelle arti visive, nonostante la sua importanza» racconta. Ma questo viaggio alla scoperta del pianeta scuola gli ha svelato anche come la fotografia possa parlare del futuro, anziché immortalare il passato N egli anni Ottanta il fotografo inglese Julian Germain cominciò a lavorare a un progetto sul declino industriale del Galles del Sud, zona di miniere e acciaierie in dismissione, poi culminato nel suo primo libro, Steel Works. Mentre rifletteva sul destino di lavoratori e famiglie, cominciò a chiedersi quale sarebbe stato il futuro scolastico dei bambini, della cui educazione nessuno fino a quel momento si era preoccupato, visto che il lavoro era comunque assicurato. L’idea di un progetto sulla scuola nacque allora nella mente di Germain, per poi risvegliarsi nel 2004, il primo giorno di scuola della figlia. «Non mettevo piede in un’aula dal 1979 e solo in quel momento ho realizzato che da adulti tendiamo a dimenticare quello che abbiamo vissuto a scuola, che pure è il luogo dove per anni abbiamo passato la maggior parte del nostro tempo» racconta il fotografo. Che si è anche trovato a pensare quanto sia strano che, nonostante l’importanza della scuola nella vita di ciascuno e per la società, essa occupi pochissimo spazio nelle arti visive. Da queste considerazioni è nato un progetto che ha portato Germain a realizzare oltre 450 ritratti di classi (tutte di scuole pubbliche, da quelle d’infanzia alle superiori) in 20 Paesi del mondo. «Un viaggio un po’ casuale, sull’onda delle occasioni che si presentavano. Non scientifico, ma artistico» precisa. Il risultato di questo lavoro è ora raccolto in un libro intitolato Classroom Portraits, edito nel Regno Unito da Prestel: una serie di intriganti ritratti da osservare con attenzione, perdendosi nelle espressioni intense di ragazze e ragazzi e nella miriade di dettagli del loro ambiente. “Foto di classe”, già, ma forse sarebbe più corretto parlare di “foto con classe”. Perché nelle immagini scolastiche tradizionali ci sono gli studenti, ma manca il loro ambiente quotidiano: le fotografie sono scattate in genere in palestra oppure nell’atrio. «Io invece ho scelto di ritrarre tutta la classe e proprio in momenti di attività» afferma Germain. In pratica, il fotografo entrava in aula durante una lezione, spiegava il suo progetto e poi cominciava ad allestire il set, in modo che i ragazzi prendessero confidenza con la sua presenza. Nell’ultimo quarto d’ora, infine, aiutava gli studenti a sistemarsi in modo che ciascuno fosse ben visibile nell’inquadratura. «Alla fine, chiedevo loro di tenersi pronti per lo scatto e di guardare in camera» racconta. • Nella foto di apertura: ragazzi del secondo anno della scuola secondaria Omar Al Mokhtar Boy’s School, Sheraton, Sana'a, Yemen, fotografati il 7 maggio 2007. Foto: Julian Germain Il risultato - una lunga sequenza di occhi che scrutano l’osservatore, quasi mai timidi ma consapevoli e letteralmente spalancati sul futuro - intrappola. «La fotografia per natura congela il passato. In questo caso, però, le immagini non possono che parlare di futuro, quello che attende i bambini e gli adolescenti ritratti. Tra di loro, c’è sicuramente qualcuno che diventerà miliardario e qualcuno che finirà in prigione. Qualcuno purtroppo morirà, mentre altri intervista • In questa pagina: ragazzi della Waseda Prep (Cram) School, di Tokyo, Giappone, fotografati il 7 settembre 2009. Foto: Julian Germain Nella pagina successiva: bambini della Openbare Basisschool de Kruikplank, Drouwenermond, Drenthe, Olanda, fotografati il 19 giugno 2006. Foto: Julian Germain diventeranno medici, cuochi, fotografi o guidatori di risciò». A pensarci è quasi una vertigine. Altri aspetti balzano agli occhi sfogliando il libro. Il primo è l’assenza totale dei docenti. «Hanno troppa coscienza di sé: in un’immagine di questo tipo avrebbero attirato tutta l’attenzione» afferma il fotografo. «Eppure, in un certo senso non sono assenti, perché la macchina fotografica assume esattamente il loro punto di vista e così facendo ne esalta l’importanza. Del resto quello che più mi ha colpito in questo viaggio è proprio quanto sia fondamentale la figura dell’insegnante: in classe possono esserci LIM, computer e altre tecnologie, ma il suo ruolo rimane insostituibile». A sorprendere è anche la grande universalità delle immagini. Chiaro che ci sono differenze: molte classi sono miste, altre solo maschili o femminili, alcune sono super attrezzate, altre poverissime, poco più di un’area in terra battuta, in alcuni casi gli studenti indossano un’uniforme, in altri no. Ma a parte alcune rare eccezioni, nessuno dubiterebbe che quella ritratta non è altro che la scuola, con la sua struttura base e i suoi tratti caratteristici (l’insegnante, un gruppo di alunni della stessa età, una lavagna, libri e quaderni), oggi come era decine di anni fa e più indietro ancora. «Al punto», osserva Germain «che una reazione comune in chi osserva, me compreso, è ritrovarsi catapultato nel suo passato di studente, a ripensare la sua personale esperienza di scuola». ••• intervista Il libro Julian Germain, Classroom Portraits 2004-2012, Prestel Publishing, 2012. Prefazione di Leonid Illyushin, professore di Pedagogia all'Università statale di San Pietroburgo. Il volume ospita 87 ritratti di classi, scattati in Regno Unito, Argentina, Brasile, Perù, Cuba, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Ungheria, Russia, Bangladesh, Yemen, Bahrain, Qatar, Etiopia, Nigeria, Stati Uniti, Taiwan, Giappone. Alla serie di immagini seguono una ventina di pagine con i dati ricavati da alcuni questionari che Germain ha consegnato a bambini e ragazzi fotografati, contenenti sia domande scherzose o neutre (Che colore preferisci? Che cosa vuoi fare da grande?), sia domande più serie (Credi in Dio? Qual è il tuo eroe?). «Una provocazione sulla fotografia» spiega l'artista. «Perché se è vero che ritratti pieni di dettagli come quelli presentati nel libro possono raccontare molto della realtà, è altrettanto vero che non raccontano tutto: le risposte ai questionari forniscono molti livelli di informazione in più». ESPERIENZE: la scuola si confronta esperienze: la scuola si confronta S uccede che all’improvviso la scuola non c’è più. Che una scossa di terremoto, per esempio, la ferisce così profondamente da renderla inagibile. Chiusa, per un periodo più o meno lungo o per sempre, alle lezioni di matematica e italiano, alle ore di educazione fisica, ai consigli di classe, agli intervalli passati nei corridoi, alle fughe nei bagni. E allora bisogna decidere che cosa fare, come tenerla in vita nonostante tutto, come inventarsi giorno per giorno un nuovo modo di “fare scuola senza scuola”. Senza l’edificio, le mura, le aule. È quello che è successo all’Istituto di istruzione superiore Giuseppe Luosi di Mirandola, in provincia di Modena: quattro istituti (tecnico economico, professionale commerciale, liceo linguistico e liceo classico) e due sedi, entrambe fortemente danneggiate dai sismi che il 20 e il 29 maggio 2012 hanno colpito l’Emilia Romagna. Giusto il tempo di risollevare uno sguardo ancora annebbiato dalla polvere dei crolli, di tirare un enorme sospiro di sollievo quando si verifica che nessuno manca, ed è subito tempo di rimboccarsi le maniche, di chiudere l’anno e di cominciare a lavorare per la riapertura in autunno. Non da soli, ovviamente. Gli enti locali - Comune, Provincia e Regione - l’hanno detto subito: si deve ripartire dalle scuole, ci si deve rimettere in movimento sulle gambe dei ragazzi. E l’impegno non è stato solo formale, molti lavori sono già avviati. «Nel caso del Luosi, ci vorrà circa un anno per la ristrutturazione di uno degli edifici e poco più per la costruzione di una nuova struttura che sostituisca il convento della chiesa di San Francesco, in cui era ospitato il liceo classico, non più utilizzabile» spiega il dirigente scolastico Giorgio Siena. Intanto, • I ragazzi dell'Istituto Luosi che hanno realizzato gli incontri del ciclo "Sapere è antisismico". Nella pagina precedente: uno degli incontri al Palazzetto dello Sport. Foto: Istituto Luosi esperienze: la scuola si confronta La scuola chiama, il territorio risponde «Sorprendente!» Così Anna Benati, docente di economia aziendale dell'Istituto Luosi di Mirandola e coordinatrice delle attività di stage, definisce la risposta che le aziende del territorio hanno dato quando sono state interpellate sulla possibilità di ospitare studenti per un periodo di lavoro. «Chiunque si trovasse in condizioni minime per collaborare l'ha fatto con entusiasmo, magari accogliendo i ragazzi nei container che costituiscono le sedi temporanee delle attività. E anche questo per i nostri studenti è stato formativo: vedere che si continua a lavorare, sebbene in situazioni di disagio. Perché i container - ora che ci facciamo lezione dentro possiamo ben dirlo - sono decisamente piccoli e scomodi, però spesso rappresentano l'unico posto in cui si può riprendere il lavoro». Il bilancio degli stage post-sisma del Luosi è decisamente positivo: ben 90 aziende sono state coinvolte, ospitando in tutto più di 200 studenti. «Spesso si è trattato di partner storici della scuola, soprattutto aziende del distretto biomedicale di Mirandola, però abbiamo attivato anche molte nuove collaborazioni, in un bacino di riferimento più ampio del solito» spiega la docente. Per la prima volta, per esempio, i ragazzi hanno potuto frequentare gli uffici della Camera di commercio di Modena, della Procura della Repubblica, dell'ordine degli avvocati e della sede locale di Confindustria. «Nuove opportunità di conoscenza e formazione, che abbiamo tutta l'intenzione di portare avanti anche nei prossimi anni». • I danni provocati dalle scosse del 20 e 29 maggio 2012 agli Istituti superiori di Mirandola. Foto: Comune di Mirandola lo scorso novembre sono arrivati i moduli provvisori della Regione: i container prefabbricati che per un po’ saranno la nuova casa dei 1150 studenti e dei 90 tra insegnanti e tecnici del Luosi. E prima dell’arrivo dei container? Come se la sono cavata ragazzi e docenti fino ad allora, cioè per ben due mesi senza una struttura fisica di riferimento? Semplice: trasformando un grandissimo disagio in un’opportunità. «È stata l’occasione di fare tutto quello che non avremmo mai osato fare in situazioni normali» dice Siena, parafrasando Woody Allen. Potenziando percorsi e progetti già rodati, come gli stage lavorativi, e soprattutto sperimentando, con un mix di flessibilità e creatività - e l’insostituibile aiuto del territorio - nuove modalità didattiche. Il primo passo è stato una nuova organizzazione degli orari, per sfruttare al meglio gli spazi disponibili: le aule di una scuola media, gli spogliatoi del palazzetto dello sport, le sale di un ristorante. Così alcune classi hanno fatto lezione solo al pomeriggio, mentre per altre si è scelta una settimana corta, di tre giorni alternati, con orario verticale dalle 8 alle 17. Poi c’è stata un’accelerazione sull’introdu- esperienze: la scuola si confronta zione di nuove tecnologie. «Avevamo già pensato di cominciare a usare i tablet, un po’ per ridurre il peso dei libri, un po’ per sfruttare le opportunità di condivisione dei materiali offerte dalle piattaforme digitali» racconta Siena. «Le difficoltà logistiche ci hanno convinti a buttarci subito nel progetto, attivandolo in alcune classi». E ancora: una potente riorganizzazione delle esperienze extra-scolastiche, come gli stage lavorativi o quelli linguistici all’estero. Già da diversi anni il Luosi mette in atto, soprattutto per l’istituto tecnico e quello professionale, una politica di alternanza scuola-lavoro, che porta i ragazzi a frequentare uno stage di almeno un paio di settimane in un’azienda del territorio. Viste le circostanze, la scuola ha chiesto alle aziende di concentrare tutti gli stage a settembreottobre e di prolungarne la durata: molti studenti hanno lavorato fuori classe per quattro o cinque settimane. E oltre a contatti già solidi, se ne sono creati di nuovi. «Da un paio d’anni una classe del liceo classico segue un corso di introduzione all’archeologia, così abbiamo cercato di portarla a lavorare in uno scavo. E ci siamo riusciti» racconta Franco Verri, docente di storia e filosofia. Per due settimane, i ragazzi hanno frequentato il parco archeologico romano di Suasa, in provincia di Ancona, ospiti del Comune di San Lorenzo in Campo: hanno aiutato a pulire il sito e i reperti del museo, collaborato alla costruzione di un muretto di rispetto, lavorato al restauro di un mosaico, scoprendo la componente pratica del mestiere di archeologo. «Pensavamo già da un po’ a uno stage di questo tipo: sono state le condizioni create dal sisma a spingerci ad attivarlo» commenta Verri. Sembra tanto, ma non è ancora tutto. Anzi, forse manca il pezzo forte della proposta del Luosi: l’organizzazione di un ciclo di 15 conferenze dal titolo programmatico Sapere è antisismico, che per altrettante mattine ha impegnato gli studenti in un nuovo modo di fare lezione. Due gli obiettivi principali dell’iniziativa, come spiega Giorgio Siena: «Da un lato, abituare gli studenti a lezioni di tipo universitario e, dall’altro, metterli in contatto con figure importanti del territorio». I relatori delle conferenze (dedicate per lo più a temi di natura economica o filosofica) non erano casuali: spesso si trattava di imprenditori della zona o di docenti universitari che nel loro lavoro di ricerca si occupano del territorio emiliano. Così, per esempio, si è parlato del distretto biomedicale del modenese (il più importante d’Italia), di importazioni ed esportazioni nell’economia della provincia di Modena, delle specializzazioni dei distretti industriali nel mercato globale. • I prefabbricati che hanno accolto gli studenti dal novembre 2012. Foto: Istituto Luosi Un modo per far affacciare i ragazzi sul mondo reale e sulle prospettive del mercato del lavoro. Ma anche un modo per responsabilizzarli fortemente, perché tutto il ciclo è stato gestito proprio da un gruppo di studenti, come attività per uno stage sull’organizzazione di eventi, svolto in collaborazione con la Fondazione scuola di musica di Mirandola e la locale radio Pico. I ragazzi hanno preso contatto con i relatori, ne hanno studiato il curriculum, li hanno presentati alla platea e hanno curato le registrazioni audio delle conferenze e il blog del ciclo. «Un’esperienza importante, anche perché ci ha dato la possibilità di conoscere direttamente persone di altissimo profilo culturale e istituzionale, che altrimenti avremmo solo guardato da esperienze: la scuola si confronta lontano» afferma Luca Ostinelli, 4D dell’istituto tecnico, uno degli studenti coinvolti nei lavori. Per la scuola, invece, un atto di grande fiducia nei confronti dei ragazzi, messi di fronte per la prima volta a un impegno più grande (e meno scontato) del solito. In ogni caso, una testimonianza concreta di un forte legame tra la scuola e il suo territorio: un legame già presente, certo, ma che il terremoto ha contribuito a rafforzare, spingendo a cogliere anche nuove opportunità. Come quella offerta dalla prossima realizzazione del Campus biomedicale, donato dalla Fondazione Specchio dei tempi della Stampa, insieme al Comune di Torino: in pratica, uno spazio con aule tecniche e laboratori, che sarà fruibile da parte degli studenti del Luosi e di altre scuole, ma anche dagli operatori delle stesse aziende del distretto. In qualche modo un’eredità positiva del terremoto, e non è la sola. «Lo schianto del sisma ci ha costretti a trovare soluzioni che sembravano solo risposte d’emergenza e invece sono state uno stimolo per ripensare la didattica, i suoi tempi, i suoi spazi» commenta Giorgio Siena. «Il buon funzionamento delle classi con orario verticale, per esempio, ci ha fatto riflettere sul fatto che la scuola dovrebbe avere orari più flessibili, mentre il ciclo di conferenze ha spinto gli insegnanti a lavorare in un modo diverso, costruito attorno ai singoli interventi dei relatori». E ancora: i docenti si sono accorti che il semplice fatto di cambiare spazi ha reso gli studenti più partecipi. «Insegno da 30 anni e non avevo mai visto ragazzi così attenti come quelli che mi sono trovata di fronte negli spogliatoi del palazzetto dello sport, seduti sulle panche di fianco alle docce, con i libri sulle ginocchia» racconta Anna Benati, che al Luosi insegna economia aziendale. Certo c’è anche il fatto - un’altra eredità “buona” del sisma - che dopo i momenti tragici che hanno vissuto, i ragazzi si sono sentiti molto attaccati alla loro scuola. «Anche se spesso viviamo la scuola con noia o fastidio, per noi è stato importante sapere che c’era nelle nostre vite qualcosa che non cambiava, che rimaneva un punto di riferimento» spiega Luca Ostinelli. E lo stesso hanno pensato i genitori, che dal giugno scorso affollano le riunioni scolastiche come mai prima. Niente di sorprendente, dunque, nel fatto che proprio la scuola può rappresentare un luogo privilegiato per la discussione sul futuro di un territorio ferito. Al liceo classico, per esempio, si pensa a un progetto interdisciplinare per la realizzazione di una guida virtuale al patrimonio storico-artistico di Mirandola, con tanto di riflessioni sulle ipotesi di ricostruzione per i monumenti danneggiati. «Anche questa è una bella sfida: noi insegnanti siamo abituati a lavorare ciascuno per conto proprio, mentre dovremo imparare a collaborare e a coordinarci di più», commenta Franco Verri. Dopo quello che hanno passato, una sfida che non li spaventa affatto. ••• > Il sito dell’Istituto Luosi, con i progetti www.iisgluosi.com/ > Il blog del ciclo di conferenze curato dai ragazzi del Luosi www.sapereantisismico.blogspot.it ESPERIENZE: la scuola si confronta esperienze: la scuola si confronta B ergamoScienza è come un treno, una macchina che mette in moto un approccio diverso alla didattica» dice Giancarlo Cavagna, docente di matematica e fisica al liceo delle scienze umane e al liceo linguistico presso l’Istituto Statale di Istruzione Superiore (ISIS) Romero di Albino. Prendere quel treno significa coinvolgere la scuola in dinamiche differenti che le cambiano il volto, e che possono migliorare la percezione pubblica della scuola stessa, le competenze degli studenti e i metodi di insegnamento. Quest’anno sono state 20 le scuole, 53 i progetti tra mostre e laboratori, 115 gli insegnanti e oltre 1800 gli studenti coinvolti da BergamoScienza, festival di divul- esperienze: la scuola si confronta • In questo articolo, alcune immagini dei laboratori dell'ultima edizione di BergamoScienza organizzati dagli studenti delle scuole della provincia. Foto: BergamoScienza gazione scientifica contraddistinto proprio dal fatto di lavorare in sinergia con le scuole per creare exhibit, laboratori, mostre. Per due settimane, tutta la città di Bergamo e i comuni dei dintorni vengono coinvolti in un’atmosfera viva e piena di partecipazione, con gli studenti che si trasformano in vere guide scientifiche. Ecco, allora, che cosa accade quando un festival scientifico apre le porte ai contributi delle scuole del territorio e queste rispondono con entusiasmo. «Spesso a scuola si fa della matematica noiosissima» racconta Cavagna. «Con formule e schemi di calcolo dimenticati dopo poche settimane. Per questo ho pensato che fosse necessario un cambio di paradigma educativo e, grazie al bando di BergamoScienza, quattro anni fa ho deciso di cambiare approccio». Il professore ha iniziato a proporre in modo sistematico agli studenti di classe quarta esperimenti che partissero dallo studio di un fenomeno, non solo con l’obiettivo di partecipare al festival, ma anche per portare i ragazzi a capire la fisica attraverso il ragionamento e la discussione in classe. «Dopo aver capito la teoria abbiamo discusso sulla possibilità reale di presentare l’esperimento a BergamoScienza: ci chiedevamo se fosse troppo facile o difficile, quali concetti comunicare, quali esperienze: la scuola si confronta omettere pensando a chi avrebbe partecipato al festival». In questo modo gli alunni hanno sviluppato anche competenze pedagogiche e divulgative, fondamentali per chi frequenta il liceo delle scienze umane: quando diventeranno insegnanti alle scuole primarie, è probabile che ricordino l’esperimento che hanno contribuito a organizzare e questo modo diverso per affrontare il fenomeno scientifico. E magari lo riproporranno ancora ai propri studenti. Sapranno già come fare: a ogni visita durante le giornate del festival hanno dovuto gestire anche più di venti bambini vocianti e a volte distratti. Attrarre e rendere accattivante la materia è il primo obiettivo dichiarato dall’Associazione di formazione professionale del Patronato San Vincenzo (AFP), scuola professionale a diversi indirizzi, tra cui “Operatore per macchine utensili”. Durante la nostra visita a BergamoScienza siamo stati accolti nel loro stand da un giovane insegnante, Luigi Ferri, e da una schiera di studenti, tutti con la stessa maglietta, pronti a guidare le scuole nel percorso di costruzione di un motore Stirling. Il laboratorio è nato da un’idea discussa insieme, tra docenti e studenti, e proseguita con domande, dubbi, prove ed errori che hanno spinto i ragazzi a trovare soluzioni e a migliorare il prodotto finale. La didattica classica, insomma, è stata stravolta: non si chiede più allo studente di limitarsi a eseguire un compito senza porsi troppe domande, ma lo si coinvolge nell’intero processo che parte dai singoli elementi e arriva alla costruzione di un prodotto finito. «Ciò permette a studenti e docenti di sentirsi coinvolti, di fare ricerca per capire come realizzare i vari pezzi del motore nel modo migliore e assemblarli concretamente, mentre la didattica tradizionale prevede la costruzione di singoli parti di una macchina, con minore soddisfazione da parte di tutti» racconta Luigi Ferri. Il risultato è che i 25 ragazzi, per metà extracomunitari, spesso con scarsa autostima e poca voglia di studiare, si sono impegnati e hanno lavorato con passione. «Gli studenti diventano gli insegnanti dei laboratori e questo li porta a mettersi in gioco» conferma la professoressa Chiara Ruscitto, del liceo scientifico Amadi. «Vincono le loro timidezze e sono persino in grado di adattare l’esposizione alle persone che hanno di fronte, utilizzando un linguaggio rigoroso, ma coinvolgente e adeguato al pubblico». BergamoScienza permette quindi di fare emergere capacità o difetti che i ragazzi stessi non sanno di possedere: «Alcuni studenti più chiusi durante la lezione, al momento del festival acquistano sicurezza» commenta la professoressa. Anche il rapporto tra docenti e studenti si modifica, grazie all’atmosfera di collaborazione necessaria per progettare i laboratori. «Noi insegnanti chiediamo aiuto agli studenti per realizzare ogni esperienza, e non abbiamo la necessità di valutarli, perciò possiamo lasciargli la libertà di vivere i momenti di preparazione con passione» conclude Ruscitto. BergamoScienza è quindi una miccia per accendere idee, progetti e nuove forme didattiche, che molti docenti non avrebbero mai intrapreso senza il pretesto del festival, ma che sono ormai irreversibili. «Ha messo in moto un tipo esperienze: la scuola si confronta di attività che porterò avanti anche nel caso in cui la scuola non possa più partecipare a BergamoScienza» afferma sicuro Cavagna. Non solo: la macchina organizzativa permette alle scuole di aprirsi al territorio, offre logistica, pubblicità, e il contenitore adatto per sviluppare progetti che le singole scuole non potrebbero mai permettersi, soprattutto a livello sovracomunale. «In totale i visitatori del nostro laboratorio sono stati quasi 1200» ci racconta la professoressa Ruscitto. «Da soli non avremmo mai potuto raggiungere questi numeri e BergamoScienza ci permette di sfruttare una macchina organizzativa imponente». Il laboratorio degli operatori di macchine utensili dell’AFP è nato anche dalla necessità di far conoscere meglio la scuola agli studenti delle scuole medie, come ci spiega Giuseppe Comotti, docente dell’istituto con qualche anno di esperienza sulle spalle e lo sguardo di chi deve aver assistito ad anni migliori. «Le scuole come la nostra stanno attraversando una crisi di iscrizioni, molte sono costrette a chiudere, e gli studenti che vogliono indirizzarsi a una scuola di formazione professionale preferiscono l’indirizzo meccanico» conferma Ferri. «Per questo vogliamo far conoscere le applicazioni pratiche del nostro indirizzo, il livello di professionalità che i nostri studenti possono raggiungere e le competenze sviluppate nel corso degli studi. Con il festival abbiamo trovato un modo efficace per cogliere due obiettivi: coinvolgere studenti spesso svogliati e demotivati, e mostrare al pubblico cosa sappiamo fare». Un incentivo per gli studenti e una vetrina per la scuola, per pubblicizzarsi, mostrare il proprio lavoro, ma anche, in senso più ampio, far vedere ai genitori ciò che i figli fanno in concreto. «Per risolvere parte dei suoi problemi e aprirsi all’opinione pubblica, la scuola deve diventare un centro culturale attivo sul territorio» sintetizza Cavagna. «Il festival non è solo una vetrina, che ci permette di aumentare la nostra visibilità, ma anche una gratificazione per gli alunni che si impegnano e vedono riconosciuti i loro sforzi, spesso fatti a casa o durante le vacanze» commenta Emanuele Marchesi, docente alle scuole elementari di Albino, autore dell’unico progetto di una scuola primaria che ha partecipato al festival. Marchesi ha inserito robotica nel percorso curricolare delle classi quarte. Da questi laboratori, portati avanti anche da altri docenti, il preside ha avuto l’idea di proporsi a BergamoScienza. «Il nostro lavoro è stato accolto dalla macchina organizzatrice del festival con entusiasmo» ci spiega Marchesi «sia perché siamo l’unica scuola primaria sia perché permettiamo ai visitatori di osservare, ma anche di programmare i robot e quindi di acquisire in poco tempo i primi rudimenti di robotica». Anche il festival, come è ovvio, ha molto da guadagnare da questo scambio. Le scuole aiutano a diffondere la scienza nei comuni, nelle zone periferiche della provincia e a richiamare altre classi in visita. La partecipazione di giovani e bambini è da sempre parte della mission di BergamoScienza, ma «la macchina organizzativa non avrebbe il budget per organizzare questi percorsi e queste visite, e quindi attirerebbe meno pubblico e soprattutto meno scolaresche», ammette Sergio Pizzigalli, ex professore e responsabile della sezione scuole di BergamoScienza. Nell’ultima edizione sono state più di sedicimila le persone che hanno partecipato ad attività organizzate dalle scuole. «E ci siamo resi conto che i visita- esperienze: la scuola si confronta tori sono più inclini a rivolgere domande ai ragazzi che non a docenti più anziani, perché il coinvolgimento diretto del pubblico passa più facilmente attraverso un giovane studente» afferma Pizzigalli. Insomma studenti e scuole non solo sono l’obiettivo dell’attività di divulgazione del festival stesso, ma anche una risorsa e uno strumento utile per comunicare con un pubblico eterogeneo e ampio, formato da altre scuole, altri docenti, genitori o più semplicemente curiosi. Una buona simbiosi, insomma, anche se i problemi, in realtà, non mancano, a cominciare da quello dei fondi, raccolti con fatica dalle scuole oppure ottenuti grazie al contributo dato dall’Associazione BergamoScienza ai nove migliori progetti. C’è molto impegno in più richiesto al docente, che viene assorbito nell’organizzazione in modo totale: bisogna imparare a gestire tempi e spazi. «Utilizziamo spesso ore extra-scolastiche o decido di sacrificare qualche ora di matematica, ma ne vale la pena», racconta ancora Cavagna. «La maggior parte delle attività si svolge durante ore extra-curricolari, e questo richiede sacrificio sia da parte degli studenti sia da parte dei docenti» conferma Ruscitto. Proporre i laboratori, studiarli e discuterli significa avere gruppi di studenti che devono lavorare in modo autonomo, libero, con strumenti e attrezzature, abbandonando la tipica lezione frontale. Gestire una classe che diventa più flessibile ed elastica è un impegno importante per il docente. «C’è chi vuole sapere perché l’esperimento non funziona, chi vuole mostrarmi i risultati. Ci si deve assicurare che nessuno si distragga o giochi». Ci sono problemi logistici: la necessità di allungare alcune ore, il laboratorio prenotato da un’altra classe, l’esperimento che non riesce e il materiale da acquistare. «Abbiamo occupato aule, spostato sedie» racconta Cavagna. «Abbiamo ospitato 1240 bambini e ragazzi e, come se non bastasse, quattro studenti ogni giorno a turno devono assentarsi per quattro-cinque ore, per portare avanti il loro lavoro di guida». Anche se l’evento interessa un solo docente e una o poche classi, l’intero istituto deve essere coeso e disponibile. Tutti gli insegnanti sono chiamati a collaborare, evitando verifiche e interrogazioni per quelle due settimane calde, o programmando recuperi per chi è impegnato nei laboratori. E infine anche al docente serve libertà di movimento: se ha lezione deve poter lasciare la sua classe e visitare i laboratori, per evitare che gli studenti si sentano abbandonati. «Il periodo del festival poi si scontra con le esigenze scolastiche» spiega Pizzigalli. «Si tiene a ottobre, che è il periodo migliore per organizzare conferenze con professori e Premi Nobel, ma quello meno adatto per le scuole». Ragazzi e docenti devono lavorare durante il secondo quadrimestre dell’anno precedente. «Il primo mese di scuola poi è molto delicato, i laboratori devono essere allestiti e organizzati e i bambini devono prendere confidenza con la loro attività di guida» racconta Marchesi. «All’inizio hanno un po’ di timore nel mettersi in gioco come “insegnanti”, ma grazie a una fase di prova alla quale invitiamo i genitori e le altre classi della scuola, riescono a superare il blocco e a prendere confidenza». «E oggi» conclude Pizzigalli «gli studenti sono la vera interfaccia di BergamoScienza con il pubblico». ••• Guarda i video dei laboratori dell’ISIS Romero http://link.pearson. it/5E64C86A > Il sito di BergamoScienza www.bergamoscienza.it/default.aspx > Un video degli esperimenti di robotica della scuola primaria di Albino www.youtube.com/ watch?v=3MyrwRXHzo8 DIALOGO dialogo I ncontriamo Maurizio Ferraris e Juan Carlos De Martin, il primo filosofo teoretico da tempo impegnato a esplorare l’universo delle nuove tecnologie e il secondo ingegnere esperto di Internet e società, all’Università di Torino, in una sala con enormi scaffali pieni di libri. Libri che, ci fa notare Ferraris, ora potrebbero potenzialmente stare tutti nella tasca di una giacca, grazie a Internet e ai dispositivi portatili come gli smartphone. Una miniera di informazioni non sempre di facile reperimento o valutazione, sottolinea De Martin, soprattutto se non se ne conoscono le regole. Un ambito in cui imparare a muoversi, per destreggiarsi tra le enormi potenzialità e i rischi insiti nei nuovi media. In questo dialogo abbiamo cercato di capire con loro quanto l’avvento di Internet, dei dispositivi portatili, dei nuovi media cambi il nostro rapporto con la conoscenza e la formazione, partendo da quelli che sono per entrambi i principali ambiti di studio. DE MARTIN. Il primo grosso tema, che riguarda tutti i cittadini, è come confrontarsi con le informazioni disponibili online: imparare a capire dove trovare quello che si sta cercando e come valutarne l’attendibilità; è una versione ampliata di quanto in realtà facciamo già adesso con un libro. Solo perché il libro è un oggetto più antico non sembra difficile valutare chi è l’autore, chi è l’editore e quindi valutarne l’attendibilità. Questa capacità va in parte creata, in parte è già nota, anche per l’online. FERRARIS. C’è un evidente vantaggio: una volta, alla fine di un lungo viaggio, finite tutte le cose da leggere, uno non sapeva più cosa fare. Adesso, con i dispositivi portatili, questo problema non esiste più ed è un simbolo del fatto che ognuno di noi viaggia con un archivio gigantesco. Nel contempo, ci troviamo ad avere testi del Seicento non più ristampati e il fatto che non siano digitalizzati comporta un occultamento maggiore. Perché nel momento in cui è molto facile trovare certe cose, quelle che sono più difficili da cercare è come se cadessero nell’oblio. • In queste pagine, Gianna Fratta e Maurizio Zanolla durante l'incontro con la redazione di iS. Foto: Steve Mazzadri CONCENTRARSI NELL’ERA DIGITALE FERRARIS. Da un altro punto di vista, le persone di una certa età, come succede a me, sono cresciute in un ambiente non digitale. Quindi io sono ancora abituato a pratiche di lettura silenziosa e di concentrazione che ho l’impressione manchino a coloro che sono già nati dentro un ambiente digitale. Secondo me la formazione perfetta dovrebbe da una parte garantire agli studenti di saper gestire il flusso di informazioni che viene dal web - e su questo sono d’accordo con il professor De Martin: puoi, per esempio, trovare un libro di satanisti scritto nel 1723 e sono follie anche quelle, peggio che su Internet - dall’altra parte insegnare la capacità di concentrarsi su un testo continuo. Il punto fondamentale è che il supporto digitale come tale è multimediale, per cui la curiosità di passare da quello che dialogo immediatamente vedi a un’altra cosa è molto forte. Una volta quando leggeva un romanzo uno ogni tanto trovava qualcosa che non sapeva, come il nome di una località ignota, per esempio Smolensk, e non voleva tirar fuori un atlante, magari non ce l’aveva sotto mano, quindi restava con il dubbio. Adesso invece guardi subito su Google Maps e poi riprendi la lettura. In questo c’è un effetto di realtà aumentata. “Nel momento Però contemporaneamente ti arriva, magari, la email, ti arriva l’sms: tutto in cui è molto è convogliato lì. Quindi la concentrazione è sempre più a salti. Inoltre, sono facile trovare convinto che quando non hai la memoria visiva delle pagine è un po’ più certe cose, difficile ricordare. quelle che sono più difficili da cercare è come se cadessero nell’oblio” DE MARTIN. Sospetto ci sia anche una diversa filosofia educativa, soprattutto tra il mondo educativo americano e quello continentale europeo. Perché gli americani, sicuramente con John Dewey, ma probabilmente anche prima, pensano che l’apprendimento basato sul learning by doing, ossia sull’“imparo facendo”, sia molto forte. Sono abbastanza convinti (naMaurizio Ferraris turalmente non tutti, ma c’è una forte corrente ormai radicata da almeno un secolo) che lo studio tradizionale, cioè quello di concentrazione, della fatica su un libro, di imparare a concentrarsi, sia meno forte. Quindi, forse, anche quello che vediamo nei dibattiti sull’educazione in Italia è spesso, senza riconoscerlo, una discussione tra due filosofie educative differenti. FERRARIS. Oltretutto, una filosofia che diventa egemone, visto che poi tutti questi strumenti vengono percepiti un po’ ingenuamente come moderni, come se moderno volesse significare un valore in sé. dialogo “Come confrontarsi civilmente con un gruppo di altri coetanei per provare a raggiungere un determinato risultato è un obiettivo educativo importante” Juan Carlos De Martin Io le lezioni le faccio con il PowerPoint, che non è esattamente uno strumento multimediale, ma a me non è mai capitato come studente di sentire delle lezioni di questo genere e credo che siano meno noiose. Mi ricordo ancora i convegni in cui le persone arrivavano con dei fogli di carta e iniziavano a leggere. Noi non ci addormentavamo, essenzialmente perché eravamo addestrati, però un po’ l’abbiocco arrivava. Questo adesso non succede più. Contemporaneamente mi dico: beh, però si perde anche un po’ di quella capacità di precisione d’espressione che veniva attraverso il testo scritto. Ogni vantaggio, comporta uno svantaggio, ma non credo in realtà ci siano dei grossissimi svantaggi in questo. Però la perdita della concentrazione, della possibilità di concentrarsi, quella è una cosa negativa. Ed è una cosa che la scuola può insegnare, perché la società non la dà. La società civile è fatta per distrarre le persone, ed è giusto perché deve dare diverse sollecitazioni. Tutto legittimo, però la scuola deve insegnare uno stile quasi monastico, anche perché la vera selezione avverrà tra coloro che sono in grado di concentrarsi e coloro che non sono in grado di farlo. DE MARTIN. Sì, concordo. Devo dire che anche negli ambienti scolastici, universitari e bibliotecari, che non a caso hanno una connessione forte con la tradizione monastica, già ci sono dei segni positivi in tale senso, con lo sviluppo di spazi dedicati alla concentrazione. Di recente sono stato ad Harvard e lì la biblioteca ha accuratamente organizzato gli spazi in “studio dialogo da solo”, “studio in gruppo”, “consentito mangiare e bere”, “non consentito mangiare e bere”, “totale silenzio”. Proprio per creare degli spazi dove chi vuole concentrarsi in modo assoluto, non essere disturbato da nessuno strumento elettronico, o anche soltanto dall’odore dell’hamburger dello studente di fianco, può farlo. Quindi, è possibile, nonostante le pressioni molto forti che arrivano dall’esterno, creare delle contromisure che incoraggino la concentrazione. QUANDO È UTILE IL MULTIMEDIALE? DE MARTIN. La multimedialità io la interpreto come la possibilità di avere molti strumenti a disposizione per comprendere. Effettivamente ci sono determinate cose che possono essere trasmesse in maniera più efficace utilizzando un canale piuttosto che un altro, per esempio, dove un video di tre minuti ben fatto riesce a trasmettere meglio le informazioni che se queste fossero scritte sulla carta. Questo capita soprattutto per le attività pratiche, per esempio come fare una determinata cosa con il computer: YouTube è pieno di video di questo tipo, di cui l’equivalente scritto sarebbe lungo, noiosissimo e sarebbe più facile sbagliarsi. Analogamente, ci sono studenti che possiamo raggiungere più efficacemente utilizzando il disegno piuttosto che il video, i videogame, gli ebook ecc. A questo si affianca l’aspetto collaborativo, che, per determinate cose e fatto in maniera appropriata, non solo sviluppa una comprensione maggiore del tema ma, soprattutto, sviluppa la capacità di lavorare insieme ad altri che in molti ambienti lavorativi è importante. Quindi, effettivamente, come confrontarsi civilmente con un gruppo di altri coetanei per provare a raggiungere un determinato risultato è un obiettivo educativo importante. FERRARIS. Sì, anche io sono d’accordo. E non soltanto a scuola. Molta della comunicazione medica avviene attraverso dei video, per esempio per spiegare come si realizza un’operazione medica. E questo è un contributo essenziale al progresso della medicina. Dubito, Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris è nato a Torino nel 1956. È professore ordinario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, dove insegna Filosofia teoretica e dove si è laureato sotto la guida di Gianni Vattimo. Ha insegnato in importanti università internazionali, tra cui quelle di Parigi, Colorado Springs, Monterrey, Ginevra, Montpellier e Lipsia. Dirige la Rivista di estetica e co-dirige la rivista Critique, conduce il programma televisivo Zettel – Filosofia in movimento su Rai Tre e scrive regolarmente su la Repubblica. I suoi ambiti di studio principali sono l’ermeneutica, l’ontologia e l’estetica. Dirige il Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata (CTAO) e il Laboratorio di Ontologia (LABONT) da lui fondati nel 2001. Vincitore di numerosi premi filosofici, è autore di oltre mille articoli e di circa quaranta libri, tra cui Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (2009), Laterza, in cui espone la sua teoria del mondo sociale, la Documentalità, in cui la registrazione di atti scritti (i documenti) ha un ruolo fondamentale nella creazione di oggetti sociali e, quindi, nel modificare la realtà. dialogo Juan Carlos De Martin Juan Carlos De Martin è nato a Cordoba (Argentina) nel 1966 da genitori torinesi. È professore associato presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino dove insegna Rivoluzione digitale al primo anno di Ingegneria. Ha lavorato presso l’Università della California, il centro di ricerca di Texas Instruments a Dallas, il CNR di Torino e nel 1998 ha fondato insieme a Angelo Raffaele Meo il gruppo di ricerca Internet Media Group. Con Marco Ricolfi, giurista dell’Università di Torino, ha fondato nel 2003 il gruppo di lavoro Creative Commons Italia e nel 2006 il Centro Nexa su Internet e società. Fa parte del consiglio scientifico dell’Enciclopedia Treccani. Scrive regolarmente su La Stampa e Il Sole 24 Ore sui temi di cittadinanza digitale, neutralità della rete, diritto d’autore nell’era digitale. Inoltre, come racconta nel suo blog, ha «scavalcato quattro volte l’Appennino a piedi» e nel 2012 ha camminato in solitaria da Torino a Milano. Il suo blog personale: http://demartin.polito.it/ Il suo profilo su Twitter: http://twitter.com/demartin però, che possa funzionare per certi tipi di materiali: per esempio, non riesco a capire come si possono trasmettere dei rudimenti di logica attraverso un sistema multimediale. La sostanza è che non esiste un’unica ricetta. • In questo articolo, foto scattate durante l’incontro presso l’Università di Torino tra Juan Carlos De Martin, a sinistra, e Maurizio Ferraris, a destra. IL WEB, LE SUE REGOLE E I SUOI GALATEI DE MARTIN. Internet è come una serie di scaffali dove chiunque può appoggiare qualsiasi cosa senza alcun controllo. Non esiste un filtro in fase di pubblicazione, che non vuol dire che se quanto pubblicato è illegale non sarà perseguito. Nel caso, qualcuno farà causa e quel contenuto verrà tolto. In fase di acquisizione è proprio come entrare in un posto dove so che chiunque può aver appoggiato qualsiasi cosa. E quindi, ho l’onere di valutarlo sulla base di un certo numero di parametri: in che sito è ospitato, quali sono le sue regole e chi è il proprietario, ho delle informazioni sull’autore, quanto sono attendibili queste informazioni ecc. Questa in realtà dovrebbe essere una delle cose che si insegnano a scuola, a cominciare dalle elementari. Se poi passiamo agli strumenti che ci aiutano a trovare le informazioni, abbiamo il motore di ricerca, che è il controllore del cancello, cioè quello che ci fa arrivare a ciò che stiamo cercando e che ha delle sue logiche, che non sono totalmente oscure come qualcuno ama dire. Il principio fondamentale su cui si basa è quanto quel sito è popolare, ossia quanto è stato linkato da altri. Questo principio che è, per esempio, alla base del motore di ricerca Google è stato progressivamente sofisticato in maniera estremamente avanzata, ma sostanzialmente se un sito ha successo sarà più in alto nei risultati. Bisogna saperlo, bisogna sapere che quel sito è molto linkato perché, magari, è pieno di cose provocatorie. Questo dovrebbe entrare a far parte di quella specie di alfabetizzazione digitale necessaria sostanzialmente a tutti, perché ormai non sapere queste cose di base su Internet pregiudica in maniera abbastanza forte le capacità di una persona di agire nella nostra società, banalmente di badare ai propri interessi. dialogo FERRARIS. Non solo alfabetizzazione, ma anche, io credo, galatei digitali. Educare l’utente a una serie di conseguenze che le sue azioni hanno sul web, come mettere delle cose molto personali su social network. I social network hanno un singolare statuto, sono un po’ una cosa pubblica e un po’ una cosa privata, ma in realtà sono totalmente pubblici, perché una volta che una cosa è scritta su Internet in qualche modo diventa pubblica. È come se andassi in tv a reti unificati, anzi peggio, perché un programma a reti unificate è limitato nel tempo, invece qui può arrivare dappertutto, non c’è limite di tempo e di spazio. COME CAMBIA LA VISIONE DI SÉ CON I SOCIAL NETWORK FERRARIS. È difficile rispondere a una domanda su come cambia l’idea di sé con i social network: io non riesco a stare nella mente di questi ragazzi. Sicuramente è un’estensione dell’idea di Warhol che «un giorno ognuno di noi sarà famoso per 15 minuti». Altro che per 15 minuti: per l’eternità! Il dramma è che puoi essere anche malfamato per l’eternità e qualcuno dovrebbe avvisare gli interessati. DE MARTIN. Incomincia a esserci della ricerca su questo. Gli enti come la Pew Research e la MacArthur Foundation hanno cominciato a fornire statistiche periodiche sull’utilizzo da parte dei giovani e giovanissimi di questi strumenti. È emerso che negli ultimi anni, in realtà, i ragazzi sono diventati molto bravi a utilizzare gli strumenti di privacy, per esempio su Facebook. Hanno capito abbastanza in fretta che se mettono certe cose online i genitori o i maestri possono leggerle, perciò hanno imparato a creare delle comunità chiuse: certe cose le fanno vedere solo a chi vogliono e altre le lasciano pubbliche. Quindi, tra l’altro, stanno imparando a costruire un’immagine pubblica di sé, fanno vedere certe cose a certe persone per mandare un messaggio specifico. Inoltre, la loro vita viene anche più registrata, al punto che anche i bambini piccoli si mettono in posa. Essendo circondati da macchine di registrazione, si sono abituati a essere registrati e sarà interessante vedere fra qualche anno che effetto farà su di loro poter rivedersi con tanta abbondanza di materiale. COSA CI RISERVERÀ IL FUTURO FERRARIS. Credo che l’evoluzione andrà nel senso del benessere, dell’imparare ad avere dei momenti di connessione e dei momenti di non connessione, ad avere momenti in cui questa enorme e importantissima evoluzione tecnologica possa riconciliarsi con il passato, come del resto sempre avviene, per la tecnologia. DE MARTIN. Io concordo pienamente, aggiungo che un tema decisivo sarà quello del trattamento dei dati personali. Questi strumenti con tutti gli aspetti positivi che conosciamo perfettamente sono anche degli strumenti di sorveglianza assolutamente pervasivi e senza confronto, sul quale è giusto iniziare già da ora a impostare un dibattito. ••• Guarda on line i video del dialogo http://link.pearson. it/2963F8FC > Il centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino http://nexa.polito.it/ > Labont, il Laboratorio di Ontologia dell’Università di Torino http://labont.it/ > L’archivio RAI con le puntate di Zettel http://www.filosofia.rai.it/categorie/zettel/354/1/default.aspx ESPERIENZE: la scuola si racconta di Davide Coero Borga esperienze: la scuola si racconta Le scuole alle prese con il fenomeno delle web radio: piccole emittenti scolastiche che grazie a una tecnologia semplice sono capaci di mandare in onda un mondo "Ciao a tutti e benvenuti su Radio Rinascita! Ai microfoni per voi ci sono Carlotta e Matteo, pronti per passare questi sessanta minuti insieme e tenervi con le orecchie incollate alle casse del vostro computer. Siete pronti per il viaggio? Si comincia con un brano di Kellee Maize, la Google female rapper che ha fatto scuola di copyleft e… di classe. Buon ascolto…" N o, non è uno scherzo. È proprio questa l’aria che si respira tra i giovani deejay ai microfoni di Radio Rinascita. L’istituto sperimentale Rinascita-Livi è una scuola sempre in movimento che dal 1974 non ha smesso di guardare al futuro, ben conosciuta a Milano per la ricerca di nuove modalità di insegnamento, didattica di gruppo e offerte formative decisamente flessibili. Qui l’autonomia scolastica è diventata anche questo: inventarsi una web radio, costruire un’emittente libera (come le gloriose radio libere degli anni Settanta) su una pagina Facebook, mettere ai microfoni un nugolo di dodicenni coraggiosi, dare voce alla scuola. Fare radio all’interno delle scuole vuol dire anzitutto avvicinare ragazzi a quello che, nonostante la longevità, resta un moderno ed efficace strumento di comunicazione in grado di educare gli studenti alla comunicazione, al racconto, alla conversazione. In Francia, Olanda, Svizzera, Belgio e, in generale, nel centro Europa esiste una fitta rete di emittenti radiofoniche che trasmettono all’interno delle scuole, dalle elementari alle superori. Nel ruolo di conduttori, deejay, giornalisti, ospiti, ci sono gli studenti di quegli istituti. Nella loro esperienza sono aiutati da insegnati o adulti appassionati. In Rinascita sono partiti nel 2001 con un mixer, un paio di microfoni e due ore di lezione a settimana. Riunione di redazione, lezione laboratorio, registrazione. Per un servizio da e per la scuola: una comunità di 300 studenti, 300 famiglie, per un migliaio di ascoltatori. Ma il fenomeno web radio sta esplodendo. In Italia sembravano essersene accorte solo le università, dove il prurito radiofonico è diffuso da un decennio. Oggi approda anche alla scuola primaria e secondaria, come potente strumento didattico e di espressione per alunni e insegnanti. Sono sempre più le scuole che si adoperano per ospitare una sala di registrazione al loro interno. Un’operazione non banale, che richiede sforzi economici e innesca complicazioni burocratiche in cui l’istituzione scolastica rischia spesso di rimanere intrappolata. IL MICROFONO DIDATTICO Preparare e condurre una trasmissione radiofonica - in diretta o registrata - guida i ragazzi alla padronanza del linguaggio come strumento per esprimere se stessi e le proprie idee. Im- esperienze: la scuola si racconta Addio onda, si va online Si chiamano web radio e, come indica il loro nome, si tratta di emittenti radiofoniche che trasmettono in forma digitale il proprio palinsesto attraverso Internet, in streaming, con lo stesso tipo di tecnologia che supporta le dirette video. Sono accessibili a tutti e chi è dall’altra parte dello schermo può ascoltarle online senza bisogno di scaricare sul proprio computer alcun file. L’illusione della radio è perfetta e si amplifica in siti pieni di testi, immagini e tutta una serie di contenuti extra che l’ascoltatore può scaricare e ascoltare con tranquillità, su dispositivi elettronici portatili (in questo caso si parla di podcast): la radio che vuoi, quando vuoi e come vuoi. Goodbye comunicazione via etere, benvenuta comunicazione on demand. In un’epoca in cui l’offerta radiofonica è ampia e strutturata sui canali in FM, le web radio allargano la possibilità di partecipazione alle piccole realtà con programmi di nicchia, dedicati, che danno voce anche a comunità ristrette. Succede a scuole e università. Ma anche alle emittenti tradizionali che via web possono ampliare il proprio raggio di ascolto, replicando le trasmissioni andate in onda (o meglio, online) in diretta e lasciando i contenuti d’archivio a disposizione del pubblico. Si parla in questi casi di glocalizzazione, una crasi fra le parole globale e locale, che rende bene il senso del fenomeno in atto. Tenere il conto di tutte le realtà, grandi o piccole che siano, è complicato. Aprire e chiudere un sito è un’operazione veloce e lascia pochi dati a chi si occupa di statistica. Ma per farsi un’idea della portata del fenomeno basti dire che una decina di anni fa il Massachusetts Institute of Technology ha calcolato quasi 30.000 web radio in presidio della rete. esperienze: la scuola si racconta • In queste pagine e nella pagina precedente, i ragazzi di Radio Rinascita in azione. Foto: Radio Rinascita parare a produrre contenuti per la radio significa acquisire capacità di sintesi su testi e temi complessi, ordinare le idee nell’esposizione di un argomento, approfondire gli argomenti di attualità confrontando le fonti. Registrare, montare, gestire un’intervista, un giornale radio, un reportage all’interno e fuori dalla scuola costringe lo studente-deejay a imparare a parlare, raccontarsi, esprimersi, agganciando l’ascoltatore e dissimulando la lettura di un testo. Guarda on line i video sulle radio scolastiche http://link.pearson. it/9B47FA85 Ma la potenza dell’oggetto radio sta anche nel ricreare atmosfere fatte di musiche e rumori all’interno della trasmissione che si sta costruendo. Da un lato il ragazzo è solo davanti al microfono, impara ad ascoltarsi e accettare la propria voce, vince la timidezza e acquista fiducia in se stesso. Dall’altra la redazione è un team che lavora in network: calendarizza, incastra e gioca di squadra perché il prodotto finale sia ogni volta migliore. Trasformare le classi in una grande redazione radiofonica aiuta a costruire un palinsesto variegato. La web radio è un contenitore elastico che sfrutta tutta la modularità della rete. A tanti e diversi gruppi di lavoro corrispondono altrettanti prodotti editoriali. E ogni gruppo segue lo sviluppo di una determinata trasmissione che, com’è naturale, affronta un particolare argomento. I contributi, le rubriche, le interviste possono essere ascoltati singolarmente, montati all’interno di un blocco delle trasmissioni e dei radio giornali, o ancora a corredo di testi e immagini sul sito della scuola. I ragazzi scelgono piuttosto in autonomia i temi da inserire in programma, partendo dalla vita scolastica, le iniziative didattiche, l’attualità, la cronaca. Ogni gruppo sviscera una notizia, prepara un menabò da seguire durante la diretta, pensa alle musiche giuste che possano accompagnare il parlato, suddivide i compiti e i tempi di ciascuno studente e fa le prove, come sul palco di un teatro. Poi si va in onda. O si registra. Già, perché le nuove tecnologie permettono agli studenti anche di ascoltare e riascoltare il lavoro fatto prima di mandarlo in onda. Un vero e proprio backup per verificare cosa è andato e cosa no, aggiustare il tiro, correggere e discutere della lezione 2.0 con l’aiuto dei professori. ••• esperienze: la scuola si racconta Radio Rinascita: musica e non solo Foto: Radio Rinascita È animata da un gruppo di 12 studenti deejay di seconda e di terza media che lavorano due ore alla settimana sotto la guida di un docente e di un assistente tecnico audiovideo nel laboratorio di musica e di informatica dell’istituto sperimentale Rinascita-Livi, scuola secondaria di primo grado a orientamento musicale. I ragazzi alla console propongono i generi musicali più ascoltati del momento, approfondiscono le tematiche musicali e culturali, riservando ampio spazio per gli avvenimenti che vedono protagonista la scuola come Scienza Under 18, un progetto di educazione scientifica in piedi dal 1997. Ma non c’è solo questo: sport, pettegolezzi, interviste, annunci personali e anche barzellette. (www.agenziadeiragazzi.net/radio-rinascita.html) Radioimmaginaria: tutta in mano ai ragazzi È la radio bolognese dal forte sapore di radio libera. Scrivono gli studenti sul sito e sulla pagina Facebook: «Radioimmaginaria è l’unica radio fatta, diretta e condotta da noi che abbiamo da 11 a 17 anni. Dei contenuti nessun adulto si impiccia; facciamo e diciamo ciò che vogliamo. Andiamo in onda da qualunque posto: da una camera di una nostra amica, da un garage, da un parcheggio di una discoteca, dalla strada, dal pullman». Radioimmaginaria esiste dal 2010. Dal 2012 è associazione e trasmette via web (anche via social network). Alcune migliaia di ascoltatori in continua crescita. (www. radioimmaginaria.it/la_radio.html) Foto: Radioimmaginaria Radio Kreattiva: a scuola di antimafia Foto: Radio Kreattiva È una web radio antimafia. Partendo da Bari Vecchia con due casse, un computer e un microfono al quale si alternavano i primi speaker, Radio Kreattiva è diventata un'associazione culturale e una web radio libera e plurale, gestita interamente dagli studenti delle scuole baresi. Le trasmissioni parlano del fenomeno mafioso dal basso, declinandolo in tutte quelle forme che i giovani studenti sperimentano sulla propria pelle: ecomafia, comportamenti devianti, abusi. Ma Radio Kreattiva non è solo denuncia: lavora sul territorio permettendo a ogni scuola coinvolta nel progetto di creare proprie trasmissioni e rubriche autogestite o di realizzare dirette radiofoniche condivise, eventi pubblici a favore della diffusione della cultura della legalità e costruzione di percorsi comunicativi partecipati. (www.radiokreattiva.net/) ESPERIENZE: la scuola si racconta esperienze: la scuola si racconta Alla scuola materna Diana di Reggio Emilia lo spazio è stato reinventato per cambiare il modo di viverlo da parte degli alunni. Un modello che mette al centro il bambino, costruttore della propria conoscenza e portatore di grandi potenzialità di sviluppo che crescono grazie alla relazione con gli altri C ome fosse una piccola città, al suo centro è collocata una piazza, luogo di aggregazione e di scambio per eccellenza. Uno spazio immerso in una luce naturale vividissima, che entra dalle grandi vetrate in un magico gioco di trasparenze, aprendo il dentro a ciò che sta fuori, e collegando l’esterno con l’interno, in un processo in continuo sviluppo. Gli altri locali, le sezioni, la cucina, la zona pranzo, gli spazi di gioco, si sviluppano tutto intorno, senza soluzione di continuità. Addio ai confini e alle separazioni, dunque, così come a modelli educativi ormai invecchiati. Benvenuto invece all’incontro, che qui è sempre voluto, ricercato, incentivato. Gli ambienti della scuola Diana di Reggio Emilia, balzata agli onori delle cronache una ventina d’anni fa perché segnalata come modello educativo di eccellenza dal settimanale Newsweek, sono la rappresentazione spaziale di un approccio pedagogico che da tempo attira le curiosità del mondo. Fatto piuttosto insolito per una scuola pubblica, nata nel 1970, che riunisce bambini tra i 3 e i 6 anni divisi per età omogenea in tre diverse classi. Cosa c’è nella scuola Diana di così speciale, dunque? Situata nel centro storico della città e anche per questa ragione diventata un baricentro nella rete di servizi di Reggio Emilia, negli anni è stata descritta spesso come una sorta di laboratorio, in cui si sperimenta, in cui si fa ricerca. «Questo è vero, ci sono anche questi elementi. Ma è nella quotidianità, nel giorno per giorno, che alla scuola Diana, così come in tutte le altre realtà del territorio, questi concetti sono declinati. Perché è così che assumono davvero valore» spiega la dottoressa Simona Bonilauri, pedagogista e coordinatrice di alcune delle strutture della rete comunale di Reggio Emilia che ne conta 34, tra scuole e nidi d’infanzia. La ricetta è semplice ma niente affatto banale. Rompendo uno schema didattico di carattere prettamente istruttivo, il bambino, a scuola, diventa primo protagonista dell’apprendimento, costruttore e fautore della propria conoscenza. La ricerca, oltre che portatrice di innovazione, va intesa come un ingrediente fondamentale del processo pedagogico «perché è questa la modalità propria dei bambini per conoscere il mondo. Osservano, assorbono gli stimoli, li elaborano, fanno delle ipotesi, hanno delle opinioni. Ognuno con i propri strumenti: in questo senso il percorso di ciascun bambino è esperienze: la scuola si racconta Reggio Children e il sistema Reggio Emilia > Il suo nome completo suona così: Reggio Children s.r.l. – Centro Internazionale per la difesa e la promozione dei diritti e delle potenzialità dei bambini e delle bambine. Nata nel 1994 per iniziativa del pedagogista Loris Malaguzzi, è una società a capitale misto pubblico-privato che ispirandosi alle esperienze educative delle scuole e nidi d’infanzia di Reggio Emilia lavora per sperimentare e diffondere nel mondo un’educazione di qualità. Reggio Children s.r.l. è solo una delle realtà attive nate negli anni a Reggio Emilia, un sistema - di cui fanno parte anche la nuova Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi, nata nel 2011, e l’Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia - attivamente coinvolto in un network internazionale che conta oggi 32 Paesi. Di particolare importanza nel contesto reggiano anche il Centro Internazionale Loris Malaguzzi. Aperto nel 2006 e completato nel 2011, il Centro è descritto come «un luogo dedicato all’incontro di quanti, in Italia e nel mondo, intendono innovare educazione e cultura. Un luogo internazionale aperto al futuro, a tutte le età, alle differenti culture, alle idee, alle speranze e all’immaginazione». • Nella pagina precedente, lo spazio per mangiare della scuola Diana. Nella pagina di apertura, l'atelier della scuola Diana. Foto: Richard Kalvar/Magnum/Photos/Contrasto davvero valorizzato» spiega la pedagogista. La scuola? Si fa accogliente, si apre ai bimbi con occhio curioso e attento, in un processo in cui anche gli adulti si mettono in gioco. Compito complicato per chi è responsabile della loro crescita e della loro educazione perché pronto ad aprire degli inevitabili margini di incertezza. Ma estremamente stimolante. Ecco così che, per esempio, lo schema tradizionale - insegnante da una parte, allievi dall’altra - qui non ha mai trovato casa. “Relazione” e “interazione” sono i concetti che lo hanno spazzato via. «Interazione con gli insegnanti e il personale non docente, con i genitori che sono attivamente coinvolti, tra i bambini. A scuola si privilegia il lavoro in piccoli gruppi in cui si crea una comunicazione molto intensa tra i partecipanti che realizzano insieme, dialogano, si scontrano, si confrontano». Il tutto in un’atmosfera di grande armonia che nasce da una gestione non gerarchiz“Il bambino, a zata, favorita dall’organizzazione degli spazi, fatti apposta per scuola, diventa garantire una calibrata promiscuità. L’ambiente, infatti, è conprimo protagonista cepito e vissuto come un attore tra i più importanti, perché dell’apprendimento, pieno di opportunità e luoghi fatti apposta per sollecitare il costruttore e fautore gioco, la scoperta, la comunicazione, la curiosità e promuodella propria vere un intreccio di rapporti tra tutti i suoi abitanti, piccoli e conoscenza” grandi. Bambini che lavorano, dialogano liberamente con gli adulti, con il personale docente ma anche con le cuoche della cucina interna alla scuola («luogo importantissimo nell’economia dell’intero sistema» dice Bonilauri), che si muovono negli spazi aperti, sperimentano nell’atelier, altro posto dalle mille sorprese e dai mille stimoli. Guidato dalla atelierista, un docente opportunamente formato e a questo ruolo esclusivamente dedicato, l’atelier è il luogo in cui i bambini possono esprimersi secondo “i loro cento linguaggi”. E così, attraverso la pittura, la gra- esperienze: la scuola si racconta Lo spazio cambia anche il modo di apprendere > Forse non ci abbiamo mai riflettuto troppo, ma all’interno di ogni istituto scolastico esiste una relazione piuttosto forte tra organizzazione degli spazi e approccio pedagogico adottato. «In modo cosciente o meno l’architettura trasmette un modello didattico ben preciso. Basti pensare alla classe tradizionale, che è un’aula uditorio, in cui l’alunno è un elemento passivo. Il corridoio è un luogo spoglio, di passaggio. Tutti elementi che sottolineano uno schema educativo di tipo trasmissivo» spiega l’architetto Maria Grazia Mura, responsabile scientifica e autrice dei testi di Abitare la scuola, sito promosso dall’INDIRE che raccoglie e presenta una serie di realtà scolastiche, italiane e straniere, in cui il dialogo tra ambienti e pedagogia ha saputo dare frutti eccellenti. Gli esempi che Abitare la scuola mostra nelle sue pagine sono tanti, dentro e fuori i confini italiani e a tutti i livelli della formazione: dalla scuola d’infanzia Diana di Reggio Emilia alla primaria di Ponzano Veneto, in provincia di Treviso, alle scuole primarie e secondarie olandesi, finlandesi, tedesche. «Agire sugli spazi significa agire su tre possibili livelli» spiega la dottoressa Mura «quello architettonico e strutturale, quello degli arredi e quello dei materiali didattici e degli allestimenti, comprese le ICT». Per cambiare le cose, insomma, non è indispensabile costruire un edificio tutto nuovo. Su quali fattori gli spazi possono agire? Sull’apprendimento, prima di tutto, perché opportunamente organizzato l’ambiente può diventare uno strumento per favorire percorsi cognitivi diversi, da intraprendere da soli o in gruppi piccoli e grandi, creando contesti comunicativi ogni volta nuovi. Sull’accoglienza, perché realizzare ambienti piacevoli e armonici curando il paesaggio sensoriale, luminoso e cromatico, rende la scuola un luogo amabile e ospitale. Ma anche sulla sfera relazionale, affettiva e sociale. Perché una scuola in cui non sono gli ambienti a porre dei limiti e stabilire dei comportamenti fa leva sulla responsabilizzazione del singolo: «Si formano dei bambini autonomi e capaci di fare proprie, naturalmente, le regole della socialità» spiega l’architetto. • La scuola primaria di Montemignaio in provincia di Arezzo. Foto: Reggio Children fica, il lavoro con la creta e molte altre attività, i bambini conoscono il mondo attraverso l’azione, con un approccio multisensoriale che, nelle parole di Simona Bonilauri, «è un grande atto di democrazia. Una democrazia cognitiva perché i cento linguaggi offrono a ciascun bambino la possibilità di accedere alla conoscenza con le modalità che più gli sono congeniali, in base alla propria cultura, alle proprie competenze e predisposizioni, fuori dal dominio della parola». Ed ecco un’altra barriera che cade. Qui come in tutte le altre scuole d’infanzia di Reggio Emilia, dove l’atelier e le attività a esso legate sono portati avanti. Perché se la scuola Diana è certamente la realtà più famosa, il modello pedagogico che lì è applicato, quello che è stato definito il Reggio Emilia approach, è comune a tutti gli altri servizi educativi comunali. Anzi, il coordinamento pedagogico è uno dei punti di forza di questa organizzazione «che così fornisce ai genitori e ai bambini una garanzia di continuità e non contraddittorietà» spiega Bonilauri. A sostenere il tutto, inevitabilmente, c’è una città che ha investito moltissimo nei servizi educativi. Sono molte le delegazioni esperienze: la scuola si racconta • Altre due immagini della scuola Diana. Foto: Reggio Children Guarda il video dell’intervento di Vea Vecchi, atelierista del Centro Loris Malaguzzi http://link.pearson.it/ B06AA946 straniere che si recano a Reggio Emilia per studiare ciò che qui viene fatto da quando fu fondata, nel 1963, la prima scuola d’infanzia (l’avventura per i nidi cominciò invece nel 1971) e che da allora, sulle idee educative e le esperienze del pedagogista Loris Malaguzzi, non ha mai smesso di crescere. Creando un vero e proprio sistema che comprende anche i servizi comunali e le altre realtà che si sono sviluppate attorno all’esperienza reggiana, come la società Reggio Children, la Fondazione Reggio Children - Centro Loris Malaguzzi e il Centro Internazionale Loris Malaguzzi, nate per capitalizzare quanto fatto, per sperimentare, per promuovere modelli educativi di qualità, per favorire gli scambi nazionali e internazionali. Sono numerosi, infatti, i progetti portati avanti grazie al network che si è andato a creare e di cui l’Istituzione Nidi e Scuole Comunali di Reggio Emilia fa parte, per attività di formazione, ricerca, confronto con realtà europee ed extraeuropee. L’ennesima declinazione, potremmo dire, di quei concetti di permeabilità, di osmosi, di reciprocità, di scambio che rappresentano le caratteristiche distintive dell’esperienza reggiana. «Gli stessi che permettono di rispondere alla domanda che i genitori si pongono sempre davanti alle scelte da fare per i loro figli. Qual è l’educazione più utile e necessaria? Io credo che la risposta stia in una scuola capace di aprirsi e mettersi in ascolto» conclude Simona Bonilauri. «Solo così potrà aderire alla cultura dell’oggi e dare ai bambini la miglior formazione possibile». ••• > Il sito delle scuole e nidi d’infanzia di Reggio Emilia www.scuolenidi.re.it > Visita virtuale alla scuola Diana http://space.comune.re.it/girareggio/ita/geo/diana_ha.htm > Il sito di Reggio Children www.reggiochildren.it > Il sito della Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi http://reggiochildrenfoundation. org/?page_id=23 > Il sito del Centro Internazionale Loris Malaguzzi http://reggiochildrenfoundation.org/?page_id=1037 Che ogni tempo sia di crisi per chi lo sta vivendo è acquisizione fin ovvia, meno banale è che ci sono momenti, come quello odierno, in cui l’orizzonte sociale più difficile richiede una maggiore capacità di resistenza e che ci sono epoche della vita, come la giovinezza, nelle quali si possiede sì «una fragile speranza, ma non un’energia costante»; la tenacia è allora una più dura conquista. Sostenere questa claudicante speranza e questa energia, renderle più forti facendole crescere e dando loro delle ragioni e delle chiavi di comprensione è il compito delicato e irrinunciabile degli adulti. Lo si può fare in molti modi, e gli insegnanti, con le famiglie, sono in prima linea. Preparare un terreno fertile alle nuove generazioni e promuoverne il futuro passa attraverso una trasmissione dei saperi che non sia scialba attuazione di programmi; o attraverso una attenzione e una cura che non le identifichi prioritariamente come fonte di ansia o target da soddisfare. Si può contribuirvi - ed è il caso di questo dossier - mettendo le proprie competenze al loro servizio, per chiarire il contesto in cui ci troviamo, offrire spunti o pensieri con cui paragonare la loro personale esperienza, e respiro. Sì, respiro perché, come dicevano gli antichi Maestri di Israele, il mondo si regge sul respiro degli scolari. Il tema è cruciale, ci torneremo su a più riprese e con diverse angolazioni; ci piacerebbe intanto che questa iniziale sbozzatura fosse partecipata da quanti condividono la quotidianità dei ragazzi e, se così sarà, potrà trovare su iS una sede in cui darle un seguito. ••• ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA La situazione di crisi delle nuove generazioni può essere la porta verso un futuro in cui siano loro il motore del nuovo sviluppo, superando i paradossi di cui appaiono prigionieri di Luigi Campiglio Professore di Economia politica all’Università Cattolica di Milano I centri di gravità sociale sono i nuclei che consentono di comprendere e prevedere l’evoluzione delle epoche storiche, un po’ come accade per i pianeti, e il continuo gioco di attrazione fra la Terra e la Luna. Non è possibile comprendere la seconda metà del XX secolo senza riconoscere almeno due grandi centri di gravità: la generazione del baby-boom e le donne. La generazione del baby-boom, cioè i nati dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta, ha segnato e trasformato modi di vivere e consuetudini in tutto il mondo; le donne, la cosiddetta metà del cielo, in gran parte nascosta fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, con il riconoscimento del suffragio universale e la crescente domanda di parità con gli uomini, hanno trasformato il mondo nel giro di pochi decenni. La generazione del baby-boom e le donne sono state i due centri di gravità senza i quali non è possibile comprendere il secolo che sta a cavallo fra la metà del XX e il XXI secolo. La domanda oggi è quali possano essere i centri di gravità intorno a cui ruoterà la vita sociale ed economica del XXI secolo. Per il momento possiamo formulare solo alcune congetture. E il nuovo centro di gravità potrebbe essere legato proprio ai giovani, pur essendo la loro proporzione sulla futura popolazione mondiale destinata a diminuire. L’Italia, in questo senso, sta anticipando i problemi di un mondo che verrà e avrebbe perciò le potenzialità per diventare un laboratorio sociale. Le difficoltà economiche e sociali dei giovani nel nostro Paese non li pongono, apparentemente, al centro dei processi sociali, non ne fanno cioè un centro di gravità. L’Italia è un paese dal quale molti giovani emigrano, mentre altri giovani stranieri arrivano per colmare il loro vuoto. In realtà occorre guardare più a fondo. In primo luogo ciò che avviene per l’Italia non può avvenire per l’intera Europa e ancora meno per ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA il mondo intero, perché per molti fenomeni sociali ciò che è possibile a livello locale è impossibile a livello complessivo. In secondo luogo siamo di fronte a un apparente paradosso, perché quando vi è una risorsa scarsa e in diminuzione, di regola, il suo valore economico e sociale aumenta rapidamente, mentre nel caso dei giovani sembra verificarsi il contrario: il loro valore economico diminuisce, sia come reddito sia come prospettive. È un paradosso insostenibile. • Un giovane operaio specializzato di un'azienda metallurgica. Foto: Thierry Dosogne/ The Image Bank/Getty Images VERSO UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO Il fenomeno dei giovani italiani che emigrano e dei giovani stranieri che arrivano ci suggerisce la chiave interpretativa: il problema italiano è il suo modello di sviluppo, inadeguato per qualità e dimensione ad assorbire il potenziale di conoscenza e innovazione dell’attuale generazione di giovani. Questi sono i motivi per cui i giovani rappresentano il fondamentale centro di gravità economico e sociale, in Italia, in Europa e nel mondo. Tuttavia sono un centro di gravità ancora oscurato ed è invece urgente che possano venire in piena luce. Oggi al centro del dibattito c’è il tema di un nuovo modello di sviluppo e della sua natura. Lo impongono il processo di globalizzazione e la stabilizzazione della cre- ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA scita demografica. Le proiezioni demografiche evidenziano con chiarezza che lo sviluppo economico ha disinnescato la bomba demografica e che la popolazione mondiale tenderà a stabilizzarsi intorno ai 10 miliardi di abitanti, seppure con profondi squilibri fra regioni del mondo in declino e regioni ancora in crescita. L’Europa e la Cina sono le due grandi aree in cui il declino demografico sarà più accentuato. In Europa per ragioni economiche e culturali, in Cina come conseguenza della politica del figlio unico, adottata nel 1979 da Deng Xiao Ping, che è alla radice dell’eccezionale espansione della Cina, accelerata dal suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. In Cina ancora per circa 20 anni la percentuale di popolazione in età da lavoro e con un carico familiare ridotto, sia di bambini sia di anziani, sarà eccezionalmente elevata. Poi la situazione cambierà rapidamente e il posto della Cina verrà preso dall’India. Il declino europeo già oggi si accompagna a una crescente pressione migratoria e il rimescolamento di colori e culture che ha caratterizzato l’ultimo decennio continuerà a crescere, in Europa come negli Stati Uniti, dove la componente ispanica ha ormai un ruolo decisivo nel sostenere la crescita economica. In questo quadro di grande rimescolamento sociale a livello mondiale, di stabilizzazione demografica a livelli comunque elevati, con una crescente pressione di domanda sulle risorse mondiali di materie prime, i giovani come nucleo più vitale, ma anche più innovativo - se istruiti e creativi - rappresentano necessariamente il centro di gravità di un nuovo processo di sviluppo. Quei disastri della finanza mondiale Uno degli argomenti di cui più si è discusso durante questa crisi economica è l’influenza che ha avuto il sistema finanziario nel generare la valanga che ha poi travolto i sistemi economici di buona parte del mondo. L’importanza dell’economia finanziaria è cresciuta in modo esponenziale nell’ultimo decennio e il suo modo di contagiare le grandezze reali dell’economia è uno dei meccanismi meno chiari, tra tutte le oscurità che l’economia conserva. Marcello De Cecco è professore di Storia della finanza alla Scuola Superiore Normale di Pisa ed è un ottimo divulgatore. È capace di tracciare con grande ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA chiarezza non solo l’evoluzione della finanza e della sua importanza, ma anche il modo in cui gli strumenti finanziari arrivino a costituire una rete, un sistema che può apparire incestuoso e certamente pericoloso per cui, proprio come è capitato, la caduta di un pezzo rischia di trascinare con sé anche tutti gli altri, l’accorciarsi di un braccio della rete può sbilanciare tutto il sistema e avere effetti pesantissimi. Vale la pena leggere la sua lectio magistralis pronunciata nel 2008 che risulta chiarissima anche a chi dell’economia non conosce il funzionamento. (Leggi il testo online: http://link. pearson.it/75499BA9) ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA • Un gruppo di giovani cinesi a passeggio nelle vie di Pechino. Foto: Sipa Press/Olycom Se vogliamo disegnare un mondo nel quale le guerre siano l’eccezione e non più la regola è indispensabile che i conflitti per il dominio sulle risorse naturali, a partire dal cibo e dalle risorse naturali, trovino la soluzione nell’abbondanza, attraverso innovazioni e riduzione degli sprechi, per consentire una vita degna a 10 miliardi di persone. La gestione e valorizzazione dei “beni comuni” richiede istituzioni nuove e una rivitalizzazione di quelle esistenti. L’innovazione è il dominio di menti fresche e vitali che in futuro, come già è avvenuto nel passato, trovino modi nuovi per risparmiare risorse, eliminare gli sprechi e avviare un nuovo processo di sviluppo. Così come il XX secolo è stato plasmato dall’automobile e da tutte le infrastrutture a esse collegate, il XXI secolo può soddisfare il medesimo insopprimibile bisogno di libertà e movimento del genere umano, utilizzando nuove e sempre più efficienti fonti di energia alternative al petrolio. La transizione verso una stabilizzazione demografica significherà un periodo di qualche decennio di forti cambiamenti, flussi migratori di lavoratori e imprese, la riorganizzazione geopolitica delle grandi aree economiche, ma soprattutto un mondo nuovo rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli, dal decollo della rivoluzione industriale. ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA GermanIa 7 20 09 06 20 10 20 0 20 2008 0 20 7 0 20 7 2008 20 09 10 7 20 0 20 06 09 10 7 20 20 0 20 2008 20 50% 7 06 75% 0 20 20 100% FrancIa 09 06 20 2011 2005 06 20 20 10 2011 2005 2008 20 06 09 10 20 20 20 2011 2005 2008 2005 2005 09 10 0% 20 20 25% 2008 2011 50% 2011 2011 0% 2005 25% Germania 9,7% Francia 14,7% Spagna 21,1% Italia 22,7% ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA Grecia 23,2% PSICOLOGIA ECONOMIA SpaGna 75% 09 0 20 7 2008 20 09 06 20 06 10 20 7 0 20 7 0 20 7 2008 20 09 10 0 20 20 7 20 10 0 20 2008 20 7 20 50% 0 20 06 100% GrecIa 20 ItalIa 2005 06 06 20 09 2011 2005 06 20 20 10 2005 2008 20 12,5 2011 14,7 09 10 2011 7,0 20 20 10 0% 2008 20 09 2005 2005 20 20 25% 2008 2011 2011 50% 2011 0% 2005 25% 8,4 13,1 16,3 15,9 13,1 15,4 16,0 15,6 20,7 23,2 25,4 37,027,9 31,6 26,0 28,7 33,7 ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA • Un gruppo di writer al lavoro durante una performance a Pisa. Foto: Pietro Paolini/ TerraProject/Contrasto UNA SITUAZIONE NUOVA Il punto centrale è che il funzionamento dell’economia e della società in una situazione di stato stazionario rappresenta un fatto storicamente nuovo, ma questo è ciò a cui ci stiamo avvicinando a grandi passi, avendo alle spalle gli straordinari successi conseguiti nei due secoli passati. Pochi oggi saprebbero immaginare una vita quotidiana illuminata dalla luce delle candele, anziché dall’elettricità, dall’assenza di sistema di riscaldamento delle abitazioni o di servizi igienici per ogni famiglia, dalla possibilità di comunicare per telefono viaggiando in auto o sulla metropolitana: per i nostri padri questo mondo era una fantasia difficile da immaginare. Una transizione “felice” significa creare le condizioni per cui tutto ciò avvenga anche per l’attuale generazione, con il vincolo di una popolazione stazionaria e una nuova attenzione all’ambiente naturale e le risorse. Una di queste condizioni è una “rivoluzione culturale” che riporti l’umanità presente a valori del passato, a riscoprire il mondo non per motivi economici, ma per la curiosità umana o per la necessità di soddisfare un bisogno intenso, come ridurre la fatica. La stima sociale, l’empatia umana per le sofferenze degli altri, il piacere di scoprire relazioni nuove, nel passato ha spinto l’uomo – spesso in modo casuale - verso i passi più giganteschi nel progresso della conoscenza, di cui il riconoscimento economico era la conseguenza e non l’obiettivo centrale. I successi dell’economia capitalistica hanno rovesciato questo paradigma ponendo al centro l’impresa e il risultato economico, ma anche questo quadro sta cambiando. Oggi sono apprezzate le imprese che dimostrano una responsabilità sociale e il loro successo dipende in modo centrale da questo: la mancanza di rispetto per i lavoratori e l’ambiente è una macchia per i bilanci e toglie credibilità. La transizione non è quindi una pura distruzione del passato ma una metamorfosi di cui i giovani rappresentano il centro di gravità, lo spirito vitale che può evitare a Gregor Samsa uno spiacevole risveglio e garantire a noi una metamorfosi felice. ••• ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA FILOSOFIA di Carlo Sini Professore emerito di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA FILOSOFIA Il tempo si rivela sempre oscuro se viene indagato con preoccupazione esclusiva e con un eccesso di timori. Qualunque aspettativa su ciò che verrà è destinata a fare i conti con una realtà necessariamente diversa e dunque solo una solida preparazione può aiutare a fronteggiare ed elaborare le sconfitte L a percezione originaria del tempo ha natura ritmica. Può aiutarci a comprendere questo fatto originario l’espressione di Alfred North Whitehead: «Eccolo di nuovo». Per esempio, ecco di nuovo il sole, ecco di nuovo la luna ecc. L’espressione è profondamente ambigua, in quanto allude a due aspetti concorrenti e insieme opposti: dice che qualcosa è al tempo stesso (notate che mi viene spontaneo dire “al tempo stesso”) la medesima cosa e non la medesima. Ecco qualcosa di vecchio che insieme è nuovo. Già qui si giocano tutti gli enigmi tradizionali del tempo: che il passato è non essendo più; che il futuro è non essendo ancora; che il presente è il non essere assoluto, perché, non appena fosse, sarebbe passato e se non fosse ancora passato, sarebbe solo futuro. Infatti nel presente accade quella ambiguità che nominavamo poco fa: che c’è qualcosa di già stato che però è nel contempo una prima volta, qualcosa di nuovo che non è stato mai. Sfuggente e ambiguo non è dunque il futuro soltanto, ma tutto intero il tempo. Diciamo che qui accade infatti l’esperienza antropologica fondamentale. Qualcosa deve essere presupposto come costante per poter misurare, a partire da esso, il mutamento. Questo qualcosa può, per esempio, nascere nel sogno (una umanità primitiva sogna nella notte il sorgere della luce del sole e l’uscita dalla angoscia dei fantasmi notturni) e l’immagi“Nel nostro futuro ne di sogno può tradursi poi in un sta un passato più segno, per esempio un grido. Ecco articolato e ricco, che questa protesi esosomatica un passato che altre (il grido che risuona là fuori per umanità non hanno tutti, associato al ritorno del saputo di avere” sole osservato da tutti) costituisce il primo segno temporale, la prima traccia che può tradurre l’esperienza generica dell’“eccolo di nuovo” in ciò che Aristotele definiva “numero del movimento”: il tempo, appunto, esteriorizzato e tradotto in una successione di tacche numerabili (un giorno, due giorni, la settimana, il mese, l’anno). Va da sé che questa tempografia, mentre innesca la possibilità di annotare il passato, insieme genera l’attesa del futuro, con tutte le coloriture psicologiche possibili, a partire dalla certezza generica della morte e dalla incertezza inquietante del suo quando. È noto che la percezione del tempo non coincide con la sua misura oggettiva. Lungo è il tempo dell’attesa, lunghissimo il tempo del dolore, brevissimo quello della gioia e così via. Il futuro risente particolarmente, per la sua natura di attesa, delle modificazioni psicologiche. Da giovani si ha la sensazione di disporre di un tempo infinito; da vecchi il futuro sempre più si chiude, il suo orizzonte estremo si avvicina minaccioso. Non vi è più molto da aspettarsi, non ci sono modificazioni possibili, esperienze radicalmente nuove, tutto sembra già sperimentato e sembra ripetersi sempre uguale. Così il tempo futuro letteralmente si chiude, quasi svanisce e si vive alla giornata. Se invece incombono pericoli e minacce, il ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA FILOSOFIA futuro appare appunto minaccioso e oscuro, come se non vi fossero più altre possibilità. Del resto il tempo si rivela sempre oscuro se viene indagato con preoccupazione esclusiva e con un eccesso di timori circostanziati. Si vede allora quanto è vero che il futuro non è; non ne sappiamo niente, in realtà, e ogni previsione è assai più significativa di colui che cerca di prevedere che non delle cose che si vorrebbero previste. Una illusione ricorrente è quella di immaginare il tempo come una dimensione a sé, come una realtà assoluta e oggettiva, dimenticando che è l’esperienza umana a conferire al tempo questi caratteri di universalità oggettiva, attraverso i processi di “tempografia” che ho accennato sopra. In questo senso è l’esperienza del presente che costruisce, a partire da sé, sia il passato ricordato sia il futuro immaginato. Un uomo del paleolitico non ha lo stesso passato di un uomo del neolitico, un uomo appartenente a una cultura priva di scrit-tura alfabetica e che concepisce il tempo solo in relazione al movimento del cielo e al ritorno ciclico delle stagioni, non concepisce il passato come noi, che apparteniamo a un’umanità storica e scientifica, che abbiamo scritto nei libri il nostro passato e misurato matematicamente i tempi della natura. Nel nostro futuro sta pertanto un passato ben più articolato e ricco, ma soprattutto un passato che altre umanità non hanno saputo di avere o che, più propriamente, di fatto non avevano come oggetto della loro esperienza memorativa e temporale. Ne deriva che il senso del passato e del futuro appartiene alla nostra responsabilità largamente culturale e umana, poiché il passato e il futuro in un certo senso si costruiscono e si promuovono. ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA FILOSOFIA Il futuro dipende da una combinazione infinita e del tutto imprevedibile di elementi. Una formazione rivolta ai giovani, cioè ai protagonisti, in senso attivo e passivo, del futuro, credo che debba preoccuparsi anzitutto di tre cose: stabilire quali mete, quali scopi e valori siano preferibili e opportuni, per sé e per gli altri; poi quali siano gli strumenti più idonei alla loro maturazione e realizzazione; infine, di quali forze si possa disporre per sopportare l’inevitabile fallimento, totale o parziale, dei propri propositi e del futuro immaginato. Direi che è sopratutto questo terzo punto che mi interessa come educatore. Bisogna disporre di una salda e matura personalità per affrontare la vita che verrà; dobbiamo avere ben chiaro che il futuro che immaginiamo è sicuramente parziale, e perciò erroneo, ingiusto e insufficiente; che dovremo necessariamente confrontarci con le vite degli altri e con gli avvenimenti imprevisti della società e della natura. Solo chi è ben piantato su una formazione profonda, ricca proprio per ciò di senso e di conoscenza del passato, può affrontare con qualche successo le sfide del futuro, ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA FILOSOFIA elaborando positivamente le inevitabili sconfitte e resistendo alla dispersione e alla dissoluzione. Per questo dove non è formazione nel senso vero della parola, ma, per esempio, solo informazione, non ci sono personalità capaci di elaborare un futuro efficace, personalità che saranno quindi prive letteralmente di futuro. In altri termini: ciò che si deve essenzialmente insegnare per costruire il futuro è la conoscenza il più possibile ricca e partecipativa del passato. Esattamente il contrario della direzione che le nostre scuole in Occidente vanno prendendo da tempo. La quantità e qualità delle occasioni disponibili pro capite è, a mio avviso, il segno del livello democratico e progressivo di una società. Ho argomentato e illustrato questo principio nel mio libro Del viver bene. Ciò che oggi appare come il problema principale, ovvero il ridursi delle possibilità di trovare un lavoro, è solo un aspetto su"Ogni essere umano perficiale di un fenomeno assai più radicale e profondo. Lo deve disporre delle si potrebbe esprimere così: il lavoro industriale messo in atto dalla occasioni necessarie esperienza del capitalismo occidentale, tradotto in volano mondiale a diventare umano" dell’economia, ha inteso ridurre il valore futuro semplicemente a quantità di denaro disponibile. L’intera produzione della vita futura si è concentrata sulla nozione di merce e di scambio di merci, dove il denaro finisce appunto per essere la merce per antonomasia o addirittura l’unica merce vera e propria (infatti la produzione decide di rivolgersi quasi esclusivamente a prodotti riducibili in merci e cioè scambiabili con denaro: ciò che non produce denaro è considerato “fuori mercato”, come appunto si dice). Questa maniera di organizzare il presente in vista del futuro (nella sempre più diffusa indifferenza nei confronti del passato, compreso quel passato che è la natura nei suoi cicli annuali) ha indubbiamente prodotto nel tempo una considerevole quantità di ricchezza e un benessere generalizzato prima inconcepibili per alcune parti di umanità sul pianeta. A questi meriti oggi però si aggiungono devastazioni, ingiustizie e cecità fortemente negative e destabilizzanti. Ecco perché la nuova misura della effettiva ricchezza del genere umano, cioè degli abitanti attuali del pianeta, non si può e non si deve più misurare in termini di prodotto interno lordo o di riserve di denaro nelle banche: tutto ciò non sta evitando l’impoverimento progressivo di sempre maggiori masse di umanità e la devastazione sciagurata e mortuaria delle risorse naturali del pianeta. Ciò che è davvero importante è invece la diffusione equa e solidale delle possibilità future per l’intera popolazione. Ogni essere umano deve disporre delle occasioni necessarie a diventare, appunto, “umano”, cioè realizzato nelle sue esigenze più profonde, più originali e più vitali: è interesse di tutti che ciò accada. Queste esigenze non sono affatto misurate o definite dall’entità del “consumo” (quindi di nuovo da una mentalità che non sa vedere oltre il mercato mondiale delle merci e degli interessi del capitale finanziario). Direi che siano piuttosto misurate dalla quantità di vita che esse sono in grado di salvaguardare e di promuovere, perché agli umani è davvero affidato oggi il futuro del pianeta e di tutti i suoi abitanti, delle piante come degli animali che hanno in noi la loro salvezza e il loro destino. E noi con loro. ••• ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA di Alessandro Rosina Professore associato di Demografia all'Università Cattolica di Milano Il nostro Paese investe poco sui giovani, li sostiene in modo insufficiente attraverso il sistema di welfare e spende meno degli altri per la ricerca. Bisogna trovare il modo per far contare di più il futuro che essi rappresentano L’ inclinazione al mutamento della gioventù, più che a fattori biologici o allo spirito di avventura, deriva soprattutto dal non assumere come dato di fatto l’ordine vigente. Chi è giovane non ha interessi precostituiti, può dunque identificare la propria sensibilità con i nuovi problemi della collettività. Le giovani generazioni crescono assieme al mondo che cambia. Trovano nel loro cammino gli stessi ostacoli che trova il cambiamento. Ne sono quindi i migliori interpreti e alleati. Rappresentano quella parte della popolazione che può trovare soluzioni innovative alle nuove sfide. A differenza del passato, le giovani generazioni italiane stentano però oggi a prendere in mano il proprio destino e con esso quello del Paese. Se l’Italia risulta economicamente e socialmente immobile è anche perché i giovani non riescono a porsi al centro del cambiamento, sono diventati una forza debole e timida. Un ruolo, in questo impoverimento dell’energia giovane nella società italiana, l’ha avuto l’invecchiamento della popolazione. La cosiddetta “piramide demografica” è profondamente cambiata negli ultimi decenni. Complessivamente la fascia di età 15-34 subirà la sua fase di più accentuata contrazione tra il 1990 e il 2020, con un calo stimabile attorno ai 5 milioni. In termini relativi da un’incidenza pari al 31% sul totale della popolazione si scenderà a poco più del 20%. Quello che stiamo vivendo è un processo di progressivo “degiovanimento”, ovvero di riduzione strutturale del peso demografico dei giovani, a cui però si associa anche una contrazione generalizzata della presenza delle nuove generazioni nella società, nell’economia, nella politica. Mai i giovani sono stati così pochi e hanno contato così poco. In termini di spesa sociale siamo uno dei Paesi che meno investe nella voce “famiglia e figli” e nelle voci che riguardano direttamente i giovani (disoccupazione, casa, esclusione sociale): il dato Eurostat riferito al 2008 (il più recente disponibile con dati comparativi), indica per l’Italia un valore pari a ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA 1,9% sul PIL contro il 4,3% dell’EU-27. Secondo una ricerca OCSE del 2010, l’Italia è poi uno dei Paesi in cui il reddito dei figli è maggiormente correlato a quello dei padri. Un sistema che incentiva i figli a contare solo sull’aiuto dei genitori è il peggior welfare possibile. Accentua infatti l’assistenzialismo passivo e riproduce le disuguaglianze sociali. L’elevato numero dei NEET (Not in Employment, Education or Training, vedi anche l’articolo Né sui libri, né al lavoro), ovvero dei giovani che se ne stanno in inoperosa attesa senza studiare o lavorare, è possibile solo in un paese nel quale non esiste un welfare attivo e nel contempo si può prolungare sine die la fruizione passiva delle risorse private di padri e madri. Risorse che però la crisi sta intaccando pesantemente. Intervenire sul welfare è cruciale, ma sono altrettanto - forse ancor più - importanti azioni di promozione, ovvero di investimento sul capitale umano e sulla sua valorizzazione. Dati coerenti con i limiti del sistema paese nel promuovere le capacità delle nuove generazioni sono, in particolare, quelli del basso investimento in ricerca, sviluppo e innovazione. Per questa voce noi spendiamo un terzo in meno rispetto alla media europea. L’innovazione è elemento essenziale del circolo virtuoso che spinge al rialzo sviluppo economico e lavoro. Ed è soprattutto l’occupazione dei giovani a essere legata alle opportunità che si creano nei settori più dinamici e tecnologicamente avanzati. La combinazione tra riduzione quantitativa dei giovani e scarsa valorizzazione del loro capitale umano può quindi essere considerata uno dei principali fattori di depressione sociale ed economica del Paese. Ma molto ridotta è anche la presenza delle nuove generazioni nella politica e, più in generale, ai vertici delle professioni, nell’università, nella classe dirigente italiana. Scrive Carlo Carboni (Potere stravecchio, i giovani fuori, Reset, marzo-aprile 2010), uno dei maggiori esperti sul tema: “Le nostre élites appaiono non solo aver bloccato i boccaporti di un loro ricambio regolato, ma ostentare scarso vitalismo e dinamicità (ad eccezione di alcune componenti economiche imprenditoriali di ‘quarto capitalismo’). Insomma comanda la gerontocrazia”. Secondo i suoi dati, nel 1990 l’età media dell’élite era di 51 anni, nel 2005 di circa 62. Un aumento di 11 anni a fronte di una crescita della speranza di vita, nello stesso periodo, di circa 4 anni. Come afferma inoltre Massimo Livi Bacci (Giovani alla riscossa, il Mulino, 2008) la riduzione dello spazio verso le nuove generazioni rende la società meno dinamica, fa prevalere forze arroccate “sulla difesa delle posizioni e dei ruoli acquisiti (…) avverse al rischio e a coloro (i giovani) che sarebbero più propensi a correrECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA lo”, con conseguente ulteriore riduzione dello spazio e delle prerogative delle nuove generazioni e, quindi, anche delle possibilità di crescita e prosperità futura. Si sente sempre più spesso dire che le nuove generazioni sono “senza futuro”. Non è vero: il futuro prima o poi, implacabilmente, arriva. Quella in gioco è la qualità della vita che ci attende tra 10, 20, 40 anni. Dato che il futuro affonda le sue radici nel presente, le premesse del vivere meglio o peggio nel breve e medio periodo dipendono dalle scelte che facciamo ora. Chi non prepara bene il terreno oggi e non semina con cura non può pretendere di raccogliere buoni frutti domani. È un dato di fatto che da troppo tempo in Italia non si semini bene, non si investa come si dovrebbe sui giovani. La bassa mobilità sociale e la scarsa crescita economica del primo decennio del XXI secolo sono il coerente risultato di un Paese non in grado di predisporre e offrire adeguati strumenti di protezione, promozione e partecipazione per i giovani. Dare più peso al futuro significa dare più consistenza a quella componente della popolazione che al futuro è più interessata, ovvero chi vivrà maggiormente le conseguenze, positive o negative, delle scelte prese oggi. Questa componente è costituita dalle giovani generazioni, il cui peso però, come abbiamo detto, si è drasticamente ridotto nel tempo. Per compensare, almeno in parte, tale alleggerimento sono possibili varie soluzioni. La prima è quella di eliminare gli attuali vincoli anagrafici. Se si concorda con il principio che non devono essere i limiti di età a determinare le possibilità di poter o meno accedere a una data posizione o una data carica, ma solo i criteri del merito, delle capacità e della competenza, ne deriva che non hanno alcun senso, sono ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA anzi iniqui, i vincoli anagrafici attualmente presenti per accedere alla Camera (25 anni) e al Senato (40 anni). C’è, poi, chi non si è limitato ad abbassare elettorato passivo e attivo a 18 anni, ma ha fatto di più, come l’Austria, dove si è deciso di far scendere a 16 anni l’età minima per votare. Ancor più radicale è invece la proposta di legare il peso del voto all’aspettativa di vita residua. Dato che i giovani hanno mediamente una vita più lunga da vivere rispetto agli anziani, si ottiene di fatto un riequilibrio della forza delle varie generazioni nell’elettorato. Alla base non sta tanto l’idea che i giovani votino “meglio” (sul merito delle scelte non si entra), ma semplicemente l’idea che sono quelli destinati a vivere e subire maggiormente nel tempo le implicazioni delle scelte elettorali di oggi e delle decisioni politiche conseguenti. Il principio è che sia giusto che conti di più, ovvero sia chiamato a maggior responsabilizzazione, chi ha più da perdere o da guadagnare. La ponderazione del voto individuale in base all’aspettativa di vita può essere vista, quindi, come un modo per dare più fiducia alle nuove generazioni e incentivarci come società a fare pesare maggiormente le valutazioni sulle implicazioni future delle scelte del presente. ••• • Una giovane elettrice al seggio per le elezioni del Parlamento. > Non è un paese per giovani, di Alessandro Rosina, Elisabetta Ambrosi, Marsilio, 2009, 111 pag., 10 euro > Il posto dei giovani nella rivoluzione demografica, di Alessandro Rosina, in Polis 2/2009 Foto: Marco Becker/Marka ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA I ragazzi tra i 15 e il 29 anni a rischio di esclusione lavorativa, educativa e formativa sono in aumento. Ma quanti sono i giovani inoccupati, perché rimangono tagliati fuori e come coinvolgerli? C iclicamente l’attenzione pubblica torna a occuparsi dei giovani e della loro esclusione sempre più forte dalla partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. Il tema è serio e riguarda non solo il destino di milioni di cittadini, ma il futuro economico e sociale di un intero sistema. Infatti, come mostra il rapporto presentato il 23 ottobre 2012 da Eurofound - la Fondazione della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro - in seguito alla crisi è cresciuto in tutta Europa il tasso di NEET, acronimo inglese utilizzato per indicare i giovani che non lavorano, non studiano e non si formano a una professione (Not in Education, Employment and Training). Le differenze tra i Paesi europei sono notevoli: nel complesso, oggi si contano nell’Unione Europea circa 7,5 milioni di giovani NEET su 60 milioni di ragazzi tra i 15 e i 24 anni, un valore pari al 12,9%. Le nazioni più virtuose sono Paesi Bassi e Lussemburgo, mentre le più colpite dal fenomeno sono Bulgaria, Irlanda, Spagna e Italia. All’Italia il rapporto Eurofound dedica una scheda specifica. Un primo elemento di differenza riguarda la fascia di età sulla quale calcolare il tasso di NEET: a causa della maggiore durata degli studi universitari, per il nostro Paese è opportuno riferirsi alla popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni, anziché a quella, canonica, tra i 15 e i 24. Colpisce poi la forte differenza geografica tra diverse aree del Paese: nel 2010 il tasso di NEET nel Sud era pari a 26,7%, nel Centro-Nord al 14,9%. La natura endemica del fenomeno, che già prima della crisi ci vedeva in cima alle classifiche per numero di giovani inattivi, aumenta poi il rischio che l’uscita dallo status di NEET sia più difficile per i giovani italiani che per i coetanei di altri Paesi. Ma quali sono i profili di questi giovani e perché rimangono tagliati fuori? Dal rapporto sul tema realizzato nel 2011 da Italia Lavoro, emerge che i più colpiti dal fenomeno sono i ragazzi con basso livello d’istruzione e che hanno abbandonato precocemente gli studi: un gruppo più ampio in Italia rispetto alla media europea, a causa anche della ridotta mobilità sociale che caratterizza il nostro Paese. ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA DEMOGRAFIA Esclusi, scoraggiati, in cerca: ecco chi sono Il rapporto di Italia Lavoro 2011 ha raggruppato i NEET in quattro gruppi omogenei, in base alla loro occupabilità e al loro atteggiamento nei confronti del lavoro. NON DISPONIBILI A LAVORARE Giovani non intenzionati o impossibilitati a lavorare, per lo più a causa di fattori sociali, vincoli familiari, disabilità o malattia. Più della metà è tra i 25 e i 29 anni, tre quarti sono donne, e un quinto è straniero. Risiedono in maggioranza nel Centro-Nord e hanno un livello d’istruzione molto più basso rispetto alla media dei NEET. Quasi la metà del gruppo non è disponibile a lavorare perché in maternità, si prende cura dei figli o di altre persone non autosufficienti o per altri motivi familiari. SCARSAMENTE OCCUPABILI, NON IN CERCA DI LAVORO Ad alto rischio di esclusione sociale, uomini e donne in uguale misura, hanno i livelli di istruzione più bassi e sono i più scoraggiati. In netta maggioranza italiani (90%), vivono per lo più nel Mezzogiorno (80%). La principale causa di inattività è lo scoraggiamento. MEDIAMENTE OCCUPABILI, NON IN CERCA DI LAVORO Giovani inattivi ma disponibili a lavorare che hanno conseguito un titolo superiore alla terza media. C’è una percentuale di laureati molto più alta della media dei NEET. Quasi tutti italiani, tra i 20 e 29 anni, risiedono nel Mezzogiorno e sono in prevalenza donne. Più di un terzo si dichiara “in attesa d'iniziare un lavoro o non immediatamente disponibile”. Altri non cercano lavoro perché scoraggiati dallo scarto tra le loro competenze, spesso alte, e le opportunità di lavoro. MEDIAMENTE OCCUPABILI, IN CERCA DI LAVORO Quasi la metà è alla ricerca del primo lavoro, mentre il 34,8% è composto da ex occupati che hanno appena perso un lavoro e che si sono immediatamente attivati per cercarne un altro. Un terzo di loro è un disoccupato di lunga durata. Distribuiti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e dotati di un livello d’istruzione più alto rispetto alla media, i membri di questo gruppo sono aumentati più rapidamente degli altri a causa delle crisi. E infatti, per i giovani che provengono da famiglie con bassi livelli d’istruzione la possibilità di compiere il percorso di studi fino al raggiungimento di un titolo universitario è scarsissima: solo il 7,5% dei figli di genitori con al massimo la licenza media ha una laurea, mentre è il 58,6% dei figli di laureati a raggiungere lo stesso titolo. A complicare il quadro c’è poi l’alta diffusione del lavoro nero, che, se da un lato produce qualche possibilità di occupazione che agli occhi degli osservatori rimane sommersa, dall’altro contribuisce a scoraggiare ulteriormente i giovani italiani nella ricerca di lavoro. In questo quadro, su quali priorità concentrare gli sforzi? Le esperienze condotte con un certo successo in altri Paesi - come il Regno Unito - e l’analisi delle specificità italiane suggeriscono di intervenire sul contrasto all’abbandono scolastico, sul rafforzamento dell’apprendistato e sull’incentivo alle imprese per l’assunzione di giovani. Senza però un’azione più trasversale di investimento nell’istruzione e nella ricerca, di lotta al lavoro nero e di promozione delle pari opportunità, questi interventi rischiano di rimanere misure isolate e di non determinare quella ripresa che appare oggi sempre più urgente. ••• ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA Tra precarietà e risposte FUORI DAL CORO Foto: Daniele La Monaca/Olycom ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA In Italia i giovani sono ormai di fronte a una vera e propria trappola della precarietà, frutto delle politiche degli ultimi quindici anni. Di fronte a questa situazione la capacità di dare risposte originali e intelligenti non è però venuta meno, come dimostrano due esempi degli ultimi anni: San Precario e Serpica Naro S iamo da quattro anni in crisi economica, la peggiore crisi dagli inizi del Novecento, superiore, oramai, per intensità e durata alla grande crisi degli anni Trenta del secolo scorso. Gli effetti sul mercato del lavoro e in particolare sulla nuova generazione cominciano a farsi sentire. Il peana dei media cerca, inutilmente, di addolcire la pillola tra parole di conforto e di pietà, raccontando numerosi casi di giovani (e meno giovani) che cercano in qualche modo di districarsi e sopravvivere nella miseria quotidiana (non passa giorno che in qualche programma televisivo non venga riproposto il “racconto della sfiga”) e parole di reprimenda contro il supposto lassismo delle nuove generazioni poco disponibili al sacrificio e a rimboccarsi le maniche di fronte alle avversità (fannulloni, bamboccioni ecc.). • Immagini dalle sfilate della Mayday Parade, il Primo maggio dei lavoratori precari organizzato ogni anno a Milano. IL FENOMENO DEI GIOVANI NEET È un fenomeno sociale relativamente recente ed è un indicatore del deterioramento del mercato del lavoro negli ultimi due anni. In Europa, tra il 2008 e il 2011 la disoccupazione giovanile è aumentata di 7,8 milioni a livello globale, rispetto a un incremento complessivo del numero di disoccupati di 28,9 milioni (dati ILO). Inoltre, la nuova fase recessiva che si sta verificando all’indomani del biennio di recessione (2008-2009) rischia di produrre preoccupanti effetti di lungo periodo sulle dinamiche del mercato del lavoro giovanile. In primo luogo, molto probabilmente porta a ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani e a prolungare la permanenza nel periodo di istruzione anche di quelli meno inclini agli studi. In secondo luogo, le deboli condizioni economiche potrebbero rendere difficile il periodo di transizione dall’istruzioECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA ne al mercato del lavoro, con il rischio che un maggior numero di giovani rimanga intrappolato in più lunghi periodi di disoccupazione e in lavori precari e mal remunerati (trappola della precarietà). Infine, le riforme, che, in base a una logica di austerity e dettate dalla necessità di fare “cassa” (sicuramente non a favore di chi è maggiormente colpito dalla crisi), hanno interessato il sistema previdenziale in molti Paesi europei, hanno portato un aumento dell’età pensionabile, e, di conseguenza, hanno ristretto i già carenti spazi di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, riducendo il turnover generazionale. Le persone giovani sono, quindi, più vulnerabili in tempo di crisi. L’esistenza San Precario, proteggici tu Guarda il video di Andrea Fumagalli che racconta la nascita di San Precario http://link.pearson.it/ EB2D0E0A ECONOMIA San Precario è il patrono dei precari e delle precarie e rappresenta la loro intelligenza. San Precario è una mirabolante creazione precaria, un'espressione libera e indipendente da ogni partito e sindacato. L'idea del santo è sorta durante un’assemblea dei lavoratori precari a Trento il 18 gennaio 2004; poi è stata declinata dal collettivo di Milano Chainworkers insieme ai lavoratori del Comune di Milano, dell'Auchan, del Piccolo Teatro e da fratelli e sorelle sparsi per tutta Italia. San Precario è nato e apparso per la prima volta la domenica del 29 febbraio 2004 in un Ipercoop di Milano, ma la sua definitiva consacrazione è avvenuta durante l'Euromayday, la manifestazione del Primo maggio precario che da più di dieci anni porta in piazza i precari d'Europa. Lì il santo ha aperto un corteo festoso composto da centomila precarie e precari. Da allora è stato usato, moltiplicato e santificato da decine di gruppi di lavoratori, ha sbancato in rete, è sceso in piazza in tutta Italia, ha protetto i suoi fedeli e fatto tremare i loro sfruttatori. San Precario è l'icona pop della generazione precaria. Da alcuni è temuto, da molti venerato. Il suo santino è il più diffuso nei portafogli dei precari. San Precario è il protettore di chi lavora per un sottosalario, di chi soffre le conseguenze di un reddito intermittente ed è schiacciato da un futuro incerto che ci accomuna tutti: commessa e programmatore, operaio e ricercatrice. San Precario è irriverente, beffardo e offensivo, e poi è anche bisestile, visto che è nato il 29 febbraio. FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA Foto: Riccardo Schito/Olycom ECONOMIA di molte tipologie contrattuali atipiche e precarie, dove la possibilità di sviluppare processi di apprendimento sono assai scarse proprio per l’intermittenza lavorativa, rendono i giovani meno competitivi sul mercato del lavoro. Inoltre, l’inesperienza in termini di ricerca di lavoro e limitate risorse finanziarie costringono i giovani a dover contare sulla famiglia di origine (qualora disponibile) durante il periodo di ricerca di lavoro. Questi fattori di vulnerabilità caratterizzano la popolazione giovanile indipendentemente dalla fase del ciclo economico, sebbene lo svantaggio giovanile tenda ad acuirsi in periodi di recessione. Altresì, l’intensità dell’impatto della crisi sul mercato del lavoro giovanile varia in misura significativa con il contesto socio-economico e le risposte di politica economica dei diversi Paesi. All’interno dell’Unione europea, per esempio, ci sono Paesi come la Francia e l’Italia dove attualmente quasi un giovane su tre è disoccupato, oppure la Spagna dove più del 40% di loro è senza lavoro. Secondo i dati raccolti nel Rapporto sul mercato del lavoro 2010-11 del CNEL, in Italia il fenomeno dei NEET è «particolarmente diffuso tra i “giovani-adulti” ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA Serpica Naro: alta moda in forma precaria Serpica Naro si impone a livello mediatico internazionale durante la Settimana della Moda del febbraio 2005. Residente a Tokio, Serpica Naro è una giovane designer anglonipponica, che grazie a un profilo seducente e trasgressivo, non fatica a essere inclusa nel calendario della più ambita vetrina modaiola italiana. Laureata al Bunka Fashion College, conquista gli addetti ai lavori per la scelta di tessuti high tech, di avveniristiche tecniche di taglio che contemplano l’invenzione del mascheramento, e per l’uso spregiudicato di tessuti rifrangenti e fasciature nelle collezioni moda. Ma il vero potenziale di Serpica Naro è la sua vita di trasgressione vissuta a cavallo tra Londra e Tokyo, il legame viscerale con l’underground. Alla vigilia di febbraio, il suo nome non conosce confini: Giappone, Corea, Hong Kong. La Settimana della Moda comincia, i riflettori si accendono. E Serpica Naro, carnefice e vittima della sua indole irriverente, incarnazione dell’immaginario del lusso e della lussuria più sfrenata, non resiste e continua a far parlare di sé. Tenta prima di affittare uno dei più importanti centri sociali milanesi per la sua sfilata, pretendendo un ambiente suburbano adeguato alla sua collezione, e successivamente lancia negli ambienti omosessuali un appello di reclutamento di persone affette dal virus dell’HIV per fungere da mannequin. E Milano si scalda, perché centri sociali e movimenti gay annunciano un’agguerrita manifestazione per impedire a questa icona di un’industria del lusso disumana e arrogante, di sfilare impossessandosi dell’esistenza e dell’essenza umana per renderla mostra e spettacolo. Esplodono azioni di protesta contestualmente alle sfilate di Prada e di Laura Bagiotti. Ma Serpica Naro in realtà non esiste. Il nome dell'inesistente stilista è l'anagramma di San Precario, il falso protettore dei lavoratori precari inventato un anno prima dagli attivisti della crew Chainworkers. Guarda il video sulla collezione di Serpica Naro http://link.pearson. it/9C2A3E9C Esiste tuttavia la sua collezione di abiti, che viene presentata con tanto di approvazione della Camera della Moda. Sulle passerelle, otto applauditissimi modelli che rappresentano con sarcasmo alcuni aspetti della precarietà: abiti che nascondono la maternità per non essere licenziate, gonne anti-mano morta piene di trappole per topi, minigonne sexy per fare carriera più in fretta, abiti da sposa per donne senza cittadinanza italiana, tute da lavoro che nascondono il pigiama, per essere sempre pronti a lavorare notte e giorno; abiti double face per chi fa due lavori e quelli antistress per quando sei sfinito dalla fatica, le magliette con il numero dei giorni che mancano al licenziamento. ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA (25-30 anni), più che tra i “giovani-giovani” (15-24 anni)». I più giovani, infatti, sono prevalentemente impegnati ancora nel percorso scolastico, la cui durata è aumentata (non solo perché è stato innalzato l’obbligo scolastico, ma anche perché c’è una crescente propensione a una maggiore scolarità). È invece tra le fasce di età successive che si osserva il problema dell’inserimento nel mercato del “Le persone giovani lavoro, giacché la maggioranza di questi ha sono più vulnerabili concluso il proprio percorso di studi. Mentre i in tempo di crisi. giovani tra i 15 e i 24 hanno un’incidenza di L’esistenza di molte NEET di meno del 18%, i giovani-adulti (tra i 25 tipologie contrattuali e i 30 anni) hanno un tasso dieci punti peratipiche e precarie, centuali più elevato. La maggioranza dei NEET rendono i giovani sono inattivi, ma colpisce l’elevata percentuale meno competitivi sul di giovani disoccupati di lunga durata rispetto mercato del lavoro” a quelli di breve durata. La percentuale dei giovani NEET aumenta quindi con l’età: la causa non è semplicemente spiegabile dalla percentuale di disoccupati e degli inattivi scoraggiati o marginalmente attaccati al mercato del lavoro, che rappresentano una quota sostanzialmente costante del complesso dei giovani dopo i 20 anni. Ciò che è invece degno di nota è la quota di inattivi completamente uscita dal mercato del lavoro che aumenta al crescere dell’età. I giovani in questa condizione (circa 30.000 persone) rappresentano circa il 6% dei ventenni, ma tra i giovani-adulti il loro peso sale al 10% circa, e in valore assoluto il loro numero tra i trentenni è quasi il doppio di quanto osservato tra i più giovani. Il fenomeno della crescita con l’età dei giovani che si dichiarano ormai distaccati dal mercato del lavoro rappresenta – al pari degli scoraggiati – un’altra anomalia del mercato del lavoro in Italia. Viene pertanto spontaneo chiedersi se questo fenomeno non sia la conseguenza di lunghi periodi di mancanza di occasioni di lavoro che alla fine scoraggia in modo definitivo dal cercare e dal rendersi disponibile per qualsiasi tipo di attività lavorativa, o che può spingere a entrare nell’economia sommersa. Di fatto in Italia siamo in presenza di una vera e propria trappola della precarietà. Dopo anni di peana mediatici a favore della flessibilità contro una presunta rigidità del lavoro che penalizzava – secondo i media dominanti e servili – soprattutto le giovani generazioni, ci troviamo ora in una situazione in cui, in assenza di qualsiasi struttura di welfare diretto (a quando un reddito minimo garantito in Italia?), la flessibilità si è tragicamente trasformata in precarietà, ricatto, invisibilità, povertà crescente, subordinazione, fuga dei cervelli. Non c’è che dire, un ottimo risultato di 10-15 anni di politiche demagogiche del lavoro, condotte da governi di diverso segno e da sindacati compiacenti! A fronte di questa situazione, negli ultimi anni si sono però manifestati segnali opposti, segnali volti a evidenziare il sorgere di forme autonome di contrasto alla precarietà pur all’interno della precarietà stessa, come dimostrano le manifestazioni per il Primo maggio dei precari, la nascita di San Precario e della stilista Serpica Naro. ••• ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA TRE MITI giovanili da sfatare Intervista a Stefano Zamagni di Paolo Magliocco ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA Siamo di fronte a un passaggio epocale, che però oggi avviene con una velocità molto maggiore rispetto al passato, dice Stefano Zamagni, economista, docente universitario ed ex presidente dell'Agenzia per il terzo settore. Per adattarsi, le nuove generazioni devono cambiare il proprio rapporto con la tecnologia, con le proprie capacità e con la cultura utilitarista I l tema delle differenze tra generazioni non è tipico di questa fase di sviluppo, spiega il professor Zamagni, economista che da molto tempo guarda alle nuove forme di organizzazione dell’attività umana. La differenza è che oggi il fenomeno ha subito un’accelerazione ignota alle epoche precedenti: le transizioni del passato avvenivano a un ritmo talmente lento da consentire all’intera società e alle sue istituzioni di aggiustarsi al cambiamento, mentre oggi i mutamenti sono più rapidi della capacità di adattamento. «Io ritengo che la crisi economica che stiamo attraversando ha accentuato e ancor più accelerato il pro“I nostri giovani hanno cesso, ma la trasformazione ha cominciato a produrre i proprio effetti molte più capacità un quarto di secolo fa. In una prospettiva storica, è bene ricordare che dei giovani delle questi fenomeni si sono già realizzati, dal Medio Evo all’Evo Moderno generazioni passate, e dall’Evo Moderno a quello Contemporaneo. Oggi si tratta della transima hanno meno zione dalla società industriale a quella post industriale». possibilità di tradurre in azione le loro conoscenze e capacità, che restano quindi allo stato potenziale” PROFESSORE, CHE COSA COMPORTA QUESTA TRANSIZIONE? Per capire le sfide per il presente e il futuro che la generazione dei giovani si trova ad affrontare, bisogna guardare a tre miti che caratterizzano oggi la condizione giovanile. Il primo mito e la prima sfida riguardano la tecnologia. Il mito tecnologico fa credere che tutto ciò che è tecnicamente realizzabile, possa e debba essere davvero fatto. Sappiamo bene, invece, che gli strumenti che le conoscenze mettono a disposizione non necessariamente è bene che si traducano in atti concreti. Bisogna chiarire ai giovani che il fatto che siano nelle condizioni di avere accesso a una quantità di informazioni senza paragone nel passato, non significa automaticamente che le loro capacità cognitive e riflessive siano aumentate nella stessa proporzione. I ragazzi oggi sono bombardati da informazioni che non costituiscono conoscenza, che non si trasformano in conoscenza perché questo richiede una capacità di assimilazione che ha bisogno di tempi diversi. Questo spiega le frustrazioni e le nuove sindromi anche psicologiche che si stanno manifestando. Il secondo mito riguarda le capacità dei giovani e la sfida consiste nel passaggio dalla capacità alla capacitazione. Nella lingua inglese esistono due termini, capacity e capability, che in italiano possiamo tradurre come capacità e “capacitazione”. La capacitazione è la capacità che si traduce in azione. I ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA nostri giovani hanno molte più capacità dei giovani delle generazioni passate, ma hanno minore capacitazione. Hanno meno possibilità di tradurre in azione le loro conoscenze e capacità, che restano quindi allo stato potenziale. Bisognerebbe modificare l’impianto del sistema scolastico e universitario. Perché la nostra scuola, soprattutto quella italiana, dà capacità, ma non dà capacitazione. È una sfida che riguarda i giovani, ma che chiaramente coinvolge la classe dirigente e la classe politica. Il problema non è cambiare i programmi scolastici, bensì far fare esperienza lavorativa ai giovani sin dalla scuola superiore. QUAL È IL TERZO MITO? La terza sfida è quella che riguarda il mito dell’Homo economicus, ovvero dell’utilitarismo. La cultura individualista di oggi, che ha soppiantato la matrice culturale comunitarista che prevaleva in passato, ha prodotto indubbi risultati positivi, ma ha determinato anche una situazione in cui il giovane oggi è ossessionato dalla preoccupazione di non riuscire a raggiungere le proprie mete. Il messaggio dell’individualismo è che ognuno debba farcela con le proprie forze, ognuno è responsabile del proprio destino. Questo costituisce uno stimolo e un incentivo a migliorarsi, a impegnarsi di più, a responsabilizzarsi, ma rischia anche di aumentare la frustrazione e soprattutto il senso di impotenza. Se a un giovane viene detto che ha il proprio destino nelle mani, che deve puntare e contare sulle proprie forze, nel caso in cui non riesca a raggiungere i propri obiettivi c’è il rischio che vada incontro a una ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA autodistruzione della sua personalità. Il mito dell’individualismo, dell’uomo individualista, oggi è la minaccia più grave che incombe sui giovani. Dai risultati delle ricerche empiriche emerge che i giovani di oggi sono meno felici dei giovani del passato. E con riferimento alle diverse coorti di età, i giovani sono, a parità di tutte le altre condizioni (ceto, istruzione ecc.) meno felici dei meno giovani. L’indicatore sintetico di felicità è più basso tra i 18 e i 30 anni che non tra i 30 e i 60 anni. • In queste pagine: i murales A better world e Around the world realizzati dagli studenti del liceo artistico Boccioni di Milano nell'ambito del progetto di riqualificazione urbana EscoAdIsola. Foto: Nuova AcropoliProgetto EscoAdIsola www.escoadisola.it CHE COSA SI POTREBBE O SI DOVREBBE FARE PER MODIFICARE QUESTA SITUAZIONE? Queste tre sfide devono essere vinte e per farlo servono un’azione sia sociale sia politica. Ci vuole una riforma della scuola. Bisogna organizzare la nostra società in modo da facilitare l’adesione dei giovani a esperienze di tipo comunitario significativo durante gli anni della scuola, dell’università, e anche dopo l’università. Bisogna spiegare ai giovani che se non mettono in pratica il principio di reciprocità, per esempio attraverso forme di volontariato, il mito dell’individualismo li distruggerà. Hanno molti più beni materiali e molti meno beni relazionali. Hanno tanti contatti e poche relazioni: Internet, Facebook, hanno aumentato i contatti, ma non le relazioni. La terza implicazione riguarda la famiglia. La famiglia è l’istituzione che per prima e più di tutte sviluppa funzioni non solo di tipo educativo, ma anche relazionale. E bisogna affrontare il grande nodo dell’armonizzazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita familiare. Se spingiamo solo all’aumento della partecipazione anche delle donne al mercato del lavoro, che consente un aumento del PIL e dei redditi delle famiglie, e non prestiamo attenzione al fatto che la famiglia vive di relazioni particolari, e racchiude i primi rapporti tra generazioni, esaspereremo il problema. Dobbiamo cambiare il modo di produzione. Bisogna che si ricostituisca l’armonia tra le esigenze dell’impresa e quelle della vita familiare. ••• > Per un’economia a misura di persona, di Stefano Zamagni, 2012, Città Nuova, pag 96, 8,50 euro > Economia ed etica. La crisi e la sfida dell’economia civile, di Stefano Zamagni, 2009, La Scuola, pag 144, 9,30 euro ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ANTROPOLOGIA IMMAGINARE il FUTURO di Sara Zambotti Antropologa dell’Università Milano Bicocca per costruirlo ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ANTROPOLOGIA Bisogna aiutare i giovani a fare esercizio di esperienza immaginativa, perché è propedeutica a una costruzione consapevole del futuro proprio e dell’intera società. Ci vuole una vera e propria educazione, che deve passare anche attraverso la scuola R icordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli stessi errori: ne inventerai di nuovi» GrouchoMarx. «Il futuro influenza il presente quanto il passato» Friedrich Nietzsche. Mi sono affidata a due citazioni illustri nel tentativo di tracciare i confini di un concetto così liquido, evanescente e pervasivo come il futuro, che Sant’Agostino definiva «dimensione dell’anima». Intangibile per la sua stessa inesistenza nel presente, il futuro è tuttavia molto influente e generativo nel determinare le nostre scelte. Mi vengono in mente due immagini tratte dall’attualità. La profezia sulla fine del mondo prevista questa volta per il 21 dicembre 2012, è sintomo, come spiega il filosofo della scienza Telmo Pievani, di un bisogno umano di controllare l’indeterminatezza del futuro fissando in modo arbitrario una data per esorcizzare il pensiero di una fine vera. A pensarci, non “Dall’altra, lasciamo mai il futuro a se stesso, ma lo scandiamo con una la scuola può serie di contatori arbitrari (il calendario) e di riti di passagessere il luogo gio: l’educazione, il lavoro, il matrimonio ecc. A quest’ansia di dove i soggetti predizione e controllo, vorrei affiancare la fotografia di uno acquisiscono i dei tanti striscioni esposti nelle recenti manifestazioni stusaperi (le arti, dentesche: “Ci avete rubato il futuro”. I giovani sanno che il le scienze, loro futuro non dipenderà solo dalla loro azione individuale, la letteratura) ma in larga misura da una serie di opportunità e di diritti che interrogandosi devono essere costruiti socialmente dagli adulti. Le proposte su come queste di due autorevoli studiosi contemporanei, Arjun Appadurai conoscenze sono e Marc Augé, ci indicano due importanti dimensioni di una strumenti in possibile antropologia del futuro: da una parte, il rapporto tra mano loro di immaginario e futuro, che tra l’altro riecheggia osservazioni costruzione presenti nel numero 2 di questa rivista (vedi il dossier Immadel futuro” ginare, iS n. 2), dall’altra, la distinzione tra futuro e avvenire. • Nella pagina precedente, un murale del progetto EscoAdIsola a Milano, intitolato Finis terrae. Foto: EscoAdIsola IMMAGINARIO, FUTURO, AVVENIRE In Modernità in Polvere, uno tra i primi tentativi di adattare la teoria antropologica classica alla trasformazione del mondo globalizzato e mediatizzato del XXI secolo, Appadurai, antropologo statunitense di origini indiane, introduce la categoria dell’immaginario distinguendola da quella di fantasia. La dimensione fantastica ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ANTROPOLOGIA • La libertà è un futuro senza l'etichetta del prezzo, si legge su uno striscione apparso durante una manifestazione di studenti a Londra. Foto: Carl Court/AFP/Getty Images ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ANTROPOLOGIA indica infatti, secondo Appadurai, una fuga dalla realtà, una ricerca consolatoria strettamente soggettiva; l’immaginario prelude invece a una pratica sociale, a un’azione, e si nutre di orizzonti storici, collettivi e sociali. Lo sviluppo delle potenzialità dell’immaginario ha subito nell’epoca contemporanea una sostanziale crescita sotto la spinta della diffusione dei mass media a livello globale. In questo senso, l’antropologo considera come i modelli proposti dai media aprono delle possibilità di trasformazione concreta della propria vita attraverso, appunto, l’opera dell’immaginario. La circo“I giovani sanno lazione su scala globale di film, romanzi, serie televisiche il loro futuro ve e anche musiche permette di entrare in contatto con non dipenderà traiettorie di vita altre dalle nostre, che si dipanano in solo dalla contesti a volte più virtuosi dei nostri. Immedesimarsi loro azione nelle vite di questi personaggi può preludere a un’azione individuale ma concreta, ovvero alla messa in pratica di un progetto di in larga misura emigrazione temporanea o permanente. In questo senso da una serie di ogni trasformazione futura è la conseguenza di un imopportunità maginario che si sviluppa nel presente. e di diritti che Restando nel contesto dei flussi globali migratori, si ridevono essere cordi, per esempio, il ruolo esercitato dalle trasmissiocostruiti ni della televisione italiana durante l’immigrazione in socialmente Italia dall’Albania alla fine degli anni Novanta. Un’aldagli adulti” tra distinzione interessante in tema di futuro è quella proposta dall’antropologo francese Marc Augé, che, nel suo recente saggio Futuro, distingue tra futuro come dimensione individuale e avvenire come dimensione sociale. In questo caso il futuro rappresenta la traiettoria della vita soggettiva e, come tale, esso è unico e originale. L’avvenire, invece, è l’orizzonte collettivo ed è il risultato di una serie di legami sociali; in questo senso il richiamo degli studenti di cui si è accennato all’inizio fa riferimento alla costruzione dell’avvenire da parte degli adulti di oggi, costruzione da cui le giovani generazioni sono escluse da un punto di vista decisionale sebbene siano destinate a pagarne le conseguenze. IMPARARE A IMMAGINARE CHE COSA SUCCEDERÀ Combinando queste due prospettive antropologiche, possiamo renderci conto di come l’opera dell’immaginario nel presente è propedeutica a una costruzione consapevole del futuro (sul piano individuale) e dell’avvenire (sul piano collettivo). In questo senso, mi piacerebbe qui proporre l’idea di un’educazione al futuro, ovvero della promozione di percorsi nelle scuole o nelle organizzazioni lavorative in cui le persone siano invitate a fare esercizio immaginativo, a prefigurare alcuni scenari e scartarne altri, pensandosi così sempre di più determinanti nell’influenzare ciò che sta per accadere, per passare dal piano della reazione a quello dell’azione. Sul piano pedagogico, per esempio, quella che è la nostra impostazione scolastica ancora in larga misura improntata su un modello storicistico potrebbe essere nutrita maggiormente di uno sguardo rivolto al futuro, di un’interrogazione continua del passato ma nell’ottica di una presa di consapevolezza del disegno di futuro che si sta prefigurando. Inutile sottolineare come tutto il percorso educativo sia un interECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA ANTROPOLOGIA vento rivolto al futuro, gli alunni di oggi saranno i cittadini di domani. Eppure, la nostra società (e qui parlo della nostra, italiana) è caratterizzata da una distanza abissale tra il tempo della formazione e quello in cui i soggetti oggi in formazione diventeranno protagonisti del presente. A SCUOLA PER LEGARE PASSATO E FUTURO È un problema generazionale che non interessava i nostri padri e le nostre madri (di noi trenta-quarantenni) ma che interesserà i nostri fratelli minori e i nostri figli, ovvero un ritardo nell’entrata a pieno titolo nella vita sociale dovuto alla crisi e alla scarsa mobilità sociale che ci caratterizza. Quindi, da una parte, il futuro deve diventare una prospettiva vicina e prevedibile e la società deve disporre di modalità trasparenti e possibilità concrete di permettere agli individui di vedere appagate le proprie fatiche costruttive. Dall’altra, la scuola può essere il luogo dove i soggetti acquisiscono i saperi (le arti, le scienze, la letteratura) interrogandosi su come queste conoscenze sono strumenti in mano loro di costruzione del futuro. Favorire un pensiero applicativo, immaginare l’effetto di certe scoperte scientifiche sull’ambiente, cercare nella storia, nella geografia e nelle scienze sociali le tracce di un avvenire che si sta scrivendo, tutto questo è un modo per insegnare a sentirsi protagonisti del futuro e di creare legame con il presente. ••• > Futuro, di Marc Augé, Bollati Boringhieri, pag 138, 9 euro > Identità Catodiche, di Piero Vereni, Meltemi Editore, pag. 168, 17 euro. Sul rapporto tra i mass media e il processo di creazione delle identità ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA PSICOLOGIA ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA PSICOLOGIA Per i ragazzi non c’è niente di più credibile che sentirsi dire che il futuro è morto. Invece bisogna impegnarsi per capire come potergli presentare la crisi e quale possa essere il loro ruolo per risolverla. Perché solo loro potranno essere gli eroi che salveranno il pianeta Q uello che mi ha molto colpito nell’esercizio della mia professione è stata la constatazione che ciò che fa soffrire i ragazzi non è il cumulo dei traumi o delle inadeguatezze educative della loro infanzia o preadolescenza, ma è una complicata relazione con il futuro. Li fa soffrire di più il futuro del passato. È un fatto denso di conseguenze, per esempio professionalmente, perché un conto è cercare di restituire passati pensabili ed elaborabili sulla base dei quali si possa costruire un’immagine di sé o un progetto per il futuro, e un’altra è pensare di dover fare un’incursione nell’area della relazione delle persone con il proprio futuro e verificare quali inadeguatezze, sentimenti di esclusione, dolore l’adolescente provi. Da molti anni ormai con il mio gruppo lavoriamo nella prospettiva di restituire ai giovani futuri pensabili più che passati tollerabili. È stato passare dagli studi di archeologia agli studi di futurologia. • Nella pagina precedente un ragazzo ospite di una comunità per giovani a Napoli. Foto: Davide Monteleone/ Contrasto • Nella pagina successiva, una manifestazione di studenti contro le politiche per la scuola del Governo a Palermo. Foto: Giuseppe Gerbasi/ Contrasto Può sembrare un modo di dire, ma è una cosa molto concreta. I ragazzi nella fase dello sviluppo adolescenziale, ma anche in quella del giovane adulto, giustamente vengono definiti soggetti in età evolutiva, perché avvertono moltissimo come proprio compito privato e personale, oltre che come compito generazionale e di gruppo, quello di capire bene che cosa desiderano, che cosa vogliono. Cercano di evitare di farsi influenzare dalla sottocultura dei mass media e dai modelli, dai genitori, dalla Chiesa e dallo Stato per poter andare alla ricerca di sé e su questo costruire un poco alla volta un progetto di vita, uno stile, la propria identità. Il problema nasce quando i ragazzi avvertono di essere tagliati fuori, di non farcela, di essere in una situazione di scacco. Per esempio quando sentono di non essere ancora padroni della propria corporeità, di essere impediti dal proprio corpo, che non li sostiene nella loro marcia evolutiva, nella realizzazione dei loro compiti. O di essere in ritardo in una qualunque area della loro marcia evolutiva, se hanno l’impressione di essere ancora fermi nel processo di separazione dalla mamma e dal papà, di essere ancora molto figli e poco soggetti sociali, o sessuali. Allora nasce un dolore particolare: assistere in diretta alla morte del proprio futuro. Pensano che non riusciranno mai ad avere fascino, ad attrarre lo sguardo del ragazzo o del- ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA psicologia economia filosofia demografia antropologia psicologia PSICOLOGIA Quando la crisi appariva un’opportunità Vittorio Foa, intellettuale e antifascista, si chiedeva già anni fa quanto e come l’esperienza di una generazione potesse dare un contributo concreto e positivo alle generazioni successive. Cosciente di aver vissuto un’esperienza eccezionale, come quella dell’opposizione al fascismo e poi della guerra, Foa pubblicando molti anni dopo le sue lettere ai genitori scritte dal carcere si domanda: «Possono queste lettere dire qualcosa a una ragazza o a un ragazzo di vent’anni, l’età che più o meno avevo io quando ho cominciato a scriverle?» L’epoca della sua giovinezza era di grande e profonda crisi, percepita però come una grande opportunità di cambiamento per l’intera società. Che cosa resta di simili sentimenti oggi? Eppure, proprio il sentimento è la chiave, dice Foa nella prefazione che pubblichiamo sul sito (http://link.pearson. it/24EAB3F), attraverso la quale il contatto tra le generazioni avviene e le esperienze si trasmettono e restano vive. la ragazza che gli interessa, a inserirsi nel gruppo ecc. E non ci riusciranno adesso, proprio ora. Se hanno l’impressione che quando entrano in classe è entrato l’uomo invisibile, tutto il progetto futuro viene compromesso. Per l’età che hanno, per la percezione drammatica che hanno, ne deriva una depressione che non è da perdita dell’oggetto d’amore, ma da perdita del sé, che è ammutolito e pieno di vergogna. Questa situazione li fa molto, molto soffrire. È un dramma grande. E allora cancellano la rappresentazione di un tempo futuro in cui si realizzerà quello che desiderano, il loro talento, in cui riusciranno ad amare e a farsi amare. Eliminano la prospettiva della crescita del futuro e si insediano in un eterno presente. Diventano “presentificatori”. Rendono i giorni tutti uguali. I compiti, la scuola, rappresentano scadenze e impegno verso un futuro che non c’è. È una disperazione, un’assenza di speranza. A un certo punto il dolore per essere ridotti così li porta a compiere un gesto, a fare un’esperienza che gli ridia il futuro o quanto meno che gli faccia smettere di avere paura facendo paura agli altri. Quindi azioni di solito violente o trasgressive, che sono il sintomo e che attirano l’attenzione su di loro. La relazione con il futuro, la capacità di sperare, è fondamentale. Da 14 anni in poi il progetto futuro è superinvestito. Parlare del futuro ai ragazzi, agli adolescenti e anche ai giovani adulti, significa parlare della cosa per loro più importante e anche più segreta, più misteriosa, meno discussa, meno verbalizzata. I ragazzi possono sviluppare un falso sé e apparire spavaldi e tronfi mentre in realtà si sentono piccoli e spaventati. Adesso che una crisi cosiddetta economica, che in realtà è più una crisi etica e di sistema, getta ombre sul futuro, tutti quanti dovranno concorrere a sostenere i ragazzi nella ricaduta che può avere la crisi non sul loro futuro, ma sulla loro relazione con il futuro, quindi sulle loro fantasie e sulle rappresentazioni, le ansie e i meccanismi di difesa per annullare la paura. Rispetto alle situazioni di ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA PSICOLOGIA crisi del passato, oggi mancano le filosofie della speranza, il marxismo o il liberismo o l’attesa della rivelazione di un Dio, che presentavano un futuro come inevitabile e già visibile e che ora sono tutte morte. Senza queste filosofie della speranza il passo che porta a rifugiarsi nel presente è breve. Per ora a parlare di questo ai ragazzi è quasi esclusivamente la sottocultura dei mass media, le cassandre che avvisano che saranno la prima generazione nella storia dell’umanità che avrà una qualità di vita di gran lunga inferiore a quella dei loro papà e dei loro nonni. È proprio vero che questa crisi gli ruba il futuro, la possibilità di lavorare in relativa sicurezza, di avere una natura ancora a loro disposizione? Molti adulti ne sono davvero convinti, anche se nessuno ha le prove che questo sia vero. Oppure bisogna presentare loro le cose in modo diverso? Io penso di sì. Io credo che la scuola e la famiglia debbano scegliere come rappresentare ai ragazzi la crisi e quale possa essere il loro ruolo. Perché chi manomette il futuro dei giovani non compie un’azione educativa bensì un’azione per certi versi violentissima, perché semina disperazione su un tema che è proprio il più caro ai ragazzi. Non c’è niente di più credibile per i ragazzi che sentirsi dire che il “Siamo stati futuro è morto. Gli educatori devono portare verso il futuro, verso travolti dalla la conoscenza, la verità. nostra ignoranza Io ho prove certe che i ragazzi che non sperano più, che sono didi prevedere sperati, combinano guai. Fino a ora li abbiamo potuti aiutare nella il futuro. loro dimensione individuale, personale, dell’irripetibile storicità di E bisogna che ciascuno. Ma se fosse colpita un’intera generazione, che si convince glielo diciamo" che non c’è più futuro, sarebbe assai pericoloso. Non vedo nulla di più urgente che dire che dobbiamo immaginare qualcosa che vada oltre questa situazione e in cui la qualità della vita possa addirittura migliorare. Se c’è una crisi vuol dire che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema precedente. Siamo stati travolti dalla nostra ignoranza di prevedere il futuro. E bisogna che glielo diciamo. Gli adolescenti e i giovani adulti sono in una fase in cui cominciano a lasciarsi guidare nella vita dal sé sociale, dalla sensazione di essere un soggetto anche nella società degli adulti. È un processo difficile, in cui devono mettere insieme fantasie infantili, narcisismo della mamma e del papà, le aspettative del nonno e le loro, la scoperta del proprio talento. Se da fuori il messaggio che gli arriva è che non c’è nessuna aspettativa nei loro confronti, che non c’è nessun posto per loro, il rischio è grave. Per la scuola è obbligatorio il compito di elaborare il futuro, che non può essere un effetto indiretto dell’azione formativa. Ognuno deve mobilitarsi per aiutare e favorire una soluzione della crisi che sia di radicale cambiamento. Non c’è nessuna possibilità di rimettere le cose come erano. Per forza bisogna trovare un’alternativa. E quelli che troveranno questa alternativa sono i ragazzini pluri-ripetenti che si aggirano negli istituti tecnici e nei cosiddetti licei. Dobbiamo avvertirli che gli dobbiamo consegnare un compito strepitoso, eroico, narcisisticamente molto ma molto soddisfacente. Che non è vero che sono sfigati. Anzi. Noi non abbiamo avuto la possibilità di farlo, ma a loro la storia chiede di salvare il pianeta. O ce la fanno loro o non ce la farà nessuno. Loro sono i terrestri che salveranno la Madre Terra. ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA PSICOLOGIA Sul sistema economico e finanziario ci metteremo d’accordo, ma prima bisogna salvare la Terra. Può sembrare strano e non so come sia successo, ma oggi i ragazzini prima che italiani o europei o altro, si sentono terrestri. C’è un sentimento di responsabilità nei confronti del pianeta. Ma la scuola è in balia delle discipline, e le discipline sono per loro natura rivolte al passato, conoscono lo sviluppo della storia, della geografia, della letteratura italiana e così via. Sostengono che studiando bene il passato si diventa cittadini del futuro. I ragazzi ne dubitano. In una situazione così grave bisogna mettere da parte lo strapotere delle discipline e organizzare un’area in cui ci si interessa attivamente del futuro e quindi dei grandi temi, come i conflitti tra le religioni, la globalizzazione, la compatibilità. Ci vuole un’area multidisciplinare di studio del futuro e di quello che del futuro c’è già nel presente, con dei significanti che bisogna cogliere. Nessuna disciplina è competente nel parlare del futuro, un’area che studi il futuro è per forza di cose multidisciplinare. Bisogna attivare un nuovo umanesimo multidisciplinare. Se si riuscisse a fare questo, anche sperimentalmente, si riattiverebbe molto la motivazione dei ragazzi allo studio, che secondo me langue. L’impressione dei ragazzi è che la scuola sia vecchia e poco utile, perché non solo non li aiuta nel presente, ma non li aiuta a capire che cosa succede. Oggi il bisogno più importante dei ragazzi è capire che cosa sta succedendo e che cosa devono fare. Sono sicuro che non sanno che cosa sia la globalizzazione, non hanno una rappresentazione chiara, eppure loro sono globalizzati. E non era mai successo che gli adolescenti della Corea del Sud, del Giappone, del Canada e della Francia si assomigliassero: abbigliamento, colonna sonora, Internet, videogioco. E quindi anche gli ideali, il modo di gestire la corporeità, la sessualità, l’amicizia, il denaro, l’esplorazione, la notte. Sono molto, molto globalizzati. ••• ECONOMIA FILOSOFIA DEMOGRAFIA ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA EPPUR SI MUOVE eppur si muove Il lavoro dei giovani con l'associazione Libera, nata per diffondere la cultura della legalità e contrastare quella mafiosa. Gli incontri nelle scuole, i progetti educativi, il premio intitolato a Pio La Torre. E poi i campi estivi realizzati sui terreni strappati ai clan, veri laboratori di formazione civile È • In queste pagine alcune immagini dei giovani al lavoro durante i campi di volontariato estivi organizzati dall'associazione Libera. Foto: archivio Libera stato durante un incontro al liceo classico statale di Lecce Giuseppe Palmieri sulle stragi del 1992 che Mattia, 17 anni, ha conosciuto Libera. E da allora sogna di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e diventare magistrato antimafia. «Marisa Capone quel pomeriggio mi presentò con entusiasmo l'associazione di cui era referente locale: le azioni che svolgeva, come si contrastavano le mafie nella lotta sociale e soprattutto mi parlò di una manifestazione, che si doveva svolgere a breve: quella del 21 marzo». Ogni anno, infatti, il 21 marzo Libera celebra la Giornata della memoria e dell'impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie. «Il primo giorno di primavera diventa quindi il simbolo della speranza che si rinnova ed è anche occasione di incontro con i familiari delle vittime» aggiunge Giuseppe Parente, coordinatore del settore formazione di Libera. «Quest'anno ci ritroveremo a Firenze, sabato 16 marzo, per un grande corteo che sarà il frutto di un percorso che ci vede al fianco di studenti, insegnanti e dirigenti scolastici per riscrivere, eppur si muove giorno dopo giorno, il nostro impegno nella lotta contro le mafie e per l’affermazione della giustizia sociale». In occasione della manifestazione nazionale, Libera invita le scuole ad adottare una vittima di mafia, portando in piazza il suo nome e la sua storia. «Da sempre Libera propone alle scuole questo progetto. Lo slogan di quest'anno è Semi di giustizia, fiori di corresponsabilità: chiediamo agli studenti di scendere in piazza con dei fiori realizzati con le loro mani in ricordo di chi ha perso la vita nella lotta antimafia». Sul sito di Libera è disponibile un elenco di oltre 900 nomi di persone che hanno pagato con la vita l’impegno contro la prepotenza mafiosa, attraverso il quale è possibile individuare la vittima di mafia su cui iniziare il percorso didattico. • Laboratori di writing e graffiti di Sfreno, programma di attività per gli adolescenti e giovani adulti. Foto: archivio Mammut LA SCUOLA È IL PEGGIOR NEMICO Nata il 25 marzo 1995, Libera cerca di instillare nella società civile la voglia di impegnarsi per promuovere un cambiamento, nel nome della legalità e della giustizia, e costruire una società alternativa alle mafie, che si fondi sui valori della cittadinanza e del convivere civile. Nella convinzione che, se la cittadinanza è attiva e responsabile, si possono creare gli anticorpi alla cultura del privilegio e della corruzione, presupposto al dilagare dei fenomeni mafiosi. L’associazione presieduta da don Luigi Ciotti cerca infatti di permeare i più giovani di valori positivi, legalità e solidarietà prima di tutto, attraverso attività a scuola perché, come diceva il magistrato Antonino Caponnetto, «la mafia teme più la scuola della giustizia: l'istruzione toglie l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa». eppur si muove • Attività del laboratorio Forse un drago nascerà. E anche se può sembrare difficile parlare di mafia, corruzione, pizzo nelle scuole di ogni ordine e grado, Libera lo fa, in modo che la conoscenza dei fenomeni mafiosi e il ricordo delle vittime di mafia accompagnino la crescita di cittadini responsabili e liberi. E perché in fondo la scuola è il luogo ideale per l'affermazione dei diritti e l'esercizio della cittadinanza attiva, dove può nascere e maturare un pensiero critico, attraverso l’incontro tra generazioni diverse e la condivisione di esperienze. «Ogni anno presentiamo nelle scuole le nostre attività e analizziamo insieme agli studenti e agli insegnanti il fenomeno delle mafie e le risposte legislative promosse dallo Stato e dalla società civile, avvalendoci anche della testimonianza dei familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata» spiega Parente. «Nel corso del 2011 Libera ha svolto attività in 4210 scuole, coinvolgendo oltre 1.300.000 studenti». Incontri, dibattiti, workshop, spettacoli teatrali che mirano anche a far conoscere quello che secondo don Ciotti è «il primo testo antimafia»: la Costituzione. Nel pianificare gli interventi educativi, il confronto con i docenti è determinante: da un lato per conoscere il contesto scolastico in cui si interviene, dall’altro per costruire insieme una pedagogia antimafiosa e capire quali strategie educative mettere in atto per contrastare quella “cultura del malaffare” che mette in crisi i sistemi economici e culturali di tutto il Paese. «Per ragionare sui sistemi mafiosi bisogna ragionare infatti sui sistemi culturali che si contrappongono a una società fondata sui diritti e sul rispetto dell’altro. E rendersi conto che l'atteggiamento mafioso non riguarda solo chi cresce in contesti criminali, ma si insidia nella cultura dell’indifferenza di fronte alle ingiustizie e alle prevaricazioni di qualsiasi tipo». IL MALAFFARE DIETRO CASA TUA Per promuovere percorsi di educazione alla legalità, Libera supporta insegnanti ed educatori anche con materiale didattico e informativo, come il manuale Sapere per sapere essere (disponibile sul sito, l’ultima edizione viene distribuita in formato cartaceo su richiesta) che offre una cassetta degli attrezzi per lavorare in classe sui temi della cittadinanza responsabile e del contrasto civile alle mafie. Anche ricorrendo a metodi didattici alternativi alla lezione frontale, che diano spazio all’animazione sociale e alla partecipazione attiva degli studenti. Per esempio, dal progetto formativo Informati per informare, realizzato nelle scuole della provincia e dei municipi di Roma, è emerso che i ragazzi sono entusiasti di portare avanti lavori d’inchiesta sul malaffare a livello territoriale. Hanno insomma le carte in regola per diventare “portatori sani di informazione” e protagonisti del cambiamento, denunciando situazioni d’illegalità e di diritti negati. «Anche quest’anno, inoltre, con il Premio Pio La Torre incoraggiamo chi ha tra gli 11 e i 21 anni a ricordare l’impegno di quest’uomo politico che fino alla morte ha lottato contro la mafia, chiedendo loro di elaborare una proposta imprenditoriale per il riutilizzo sociale di aziende del proprio territorio confiscate alla criminalità. E, eppur si muove • Momenti di lavoro e incontro di SMIT, la Scuola Mammut di Italiano per Tutti. Foto: archivio Mammut insieme al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, invitiamo tutte le scuole a partecipare al concorso Regoliamoci, con l'obiettivo di far riflettere gli studenti sul tema del gioco e dello stare insieme secondo regole condivise». Lavorare sul tema delle regole e del rapporto tra diritti e doveri nella relazione con gli altri è il primo passo, in fondo, per riflettere, a scuola, sulla mafia. Fenomeno di cui i ragazzi hanno una consapevolezza abbastanza forte, seppur fatta di luci e ombre. «Sanno che agisce in maniera insidiosa in tutto il Paese e che non riguarda più solo le regioni del Sud. Tuttavia la maggioranza ritiene il fenomeno mafioso distante dalla propria quotidianità» sottolinea Ludovica Ioppolo, ricercatrice di Libera che ha curato uno studio sulle rappresentazioni del fenomeno mafioso tra gli studenti di scuole superiori in Toscana, Lazio e Liguria. «Inoltre, anche per effetto delle fiction televisive, c’è una forte mitizzazione dei protagonisti, sia dei mafiosi sia di chi si è battuto sul fronte antimafia». Nell’immaginario collettivo, in pratica, la lotta alla mafia non appartiene alle migliaia di persone che nell’anonimato hanno costruito e costruiscono la storia del movimento antimafia nel nostro Paese, ma si incarna in pochi eroi. eppur si muove UN'ESTATE CIVILE La prova della diffusione del fenomeno mafioso e contemporaneamente di come può nascere una nuova coscienza civile e dell’impegno dei giovani, soprattutto studenti, si incontra a Borgo Sabotino, piccolo paesino in provincia di Latina. Dal 2011, nel camping California Village confiscato per abusivismo edilizio, ospita il Villaggio della Legalità intitolato a Serafino Famà, avvocato catanese ucciso, con sei colpi di pistola, il 9 novembre del 1995. Il Villaggio, gestito da Libera, è uno dei tanti beni confiscati alla mafia che ogni anno ospitano i campi di volontariato E!State Liberi. Occasione, per tanti ragazzi e ragazze, di impegnarsi nel lavoro dei campi o in attività di riqualificazione delle strutture stesse, di aprire gli occhi contro le mafie e crescere. Appagati dall'idea di contribuire a ridare vita a territori maltrattati e sfruttati per interessi mafiosi. Tra luglio e agosto scorsi, oltre 100 volontari, provenienti da tutt’Italia, hanno lavorato nel villaggio di Borgo Salentino, a pochi chilometri dal litorale di Anzio e Nettuno e dal lungomare di Latina. «Abbiamo lavorato come macchine d'ingegno e la gioia e la soddisfazione per un progetto concluso ci hanno fatto sentire vivi. Vivi com'è vivo il ricordo di chi ha pagato con la vita il fatto di credere in una via d'uscita e nella fine dello scempio» racconta Isabella, che a luglio ha partecipato ai lavori di manutenzione del villaggio, più volte colpito da raid mafiosi e azioni vandaliche dopo essere stato assegnato all’associazione Libera dal Commissario Prefettizio del Comune di Latina. Isabella è orgogliosa di essersi sporcata le mani nel campo-lavoro a Borgo Sabotino. Ma il primo vero risultato di questo campo di antimafia culturale, secondo Françoise, «non è tanto il grigio dei muri che gradualmente lascia il posto a un arancio convinto come la nostra presenza qui, né gli incredibili progetti dei murales concepiti e da realizzare, quanto il rispetto per le proposte che ciascuno avanza per il cambiamento». «Noi rappresentiamo il futuro della nostra nazione» aggiunge Achraf. «Se fossimo soddisfatti della situazione avremmo dovuto rimanere a casa e non scommettere su noi stessi, partecipando a questo campo di volontariato. I nostri referenti hanno organizzato attività ludiche, intellettuali, creative e manuali, per farci remare nella stessa direzione con la maggior coordinazione possibile. E questa tattica è la stessa che si deve adottare per sconfiggere qualsiasi tipo di mafia. Il fatto che me ne sia reso conto sta a indicare che questo campo è più che utile per aprire gli occhi contro le mafie». Isabella, Françoise e Achraf sono tre dei seimila ragazzi che hanno scelto di vivere un'esperienza di volontariato e di formazione civile (il lavoro manuale si affianca infatti allo studio del fenomeno mafioso, anche attraverso il confronto con i familiari delle vittime di mafia e testimoni di giustizia) nei 32 campi gestiti da Libera, assumendo un impegno concreto, nella convinzione che il cambiamento ha bisogno di ognuno di noi. Ed è su questa convinzione che si basa l’azione di Libera nel contrastare la diffusione dell’illegalità e il dominio mafioso del territorio. Ed è così che Libera, come scrive Francesca, alla fine della sua esperienza nel Villaggio della Legalità, diventa «l'eco assordante di coscienze vive». ••• > Il sito di Libera www.libera.it EPPUR SI MUOVE eppur si muove Undici anni fa nasce a Sasa, piccolo villaggio in Israele, il Teatro Arcobaleno: laboratorio di creatività ed educazione alla convivenza civile aperto a giovani ebrei, musulmani e cristiani. Un invito per ragazzi di religioni ed etnie in conflitto a calare le maschere del pregiudizio e a dimostrare che la pace è possibile I • Gli allievi del Teatro Arcobaleno recitano nello spettacolo Beresheet, una storia danzata della convivenza civile in cui, come spiega il titolo, “in principio era la pace”. Foto: Beresheet LaShalom Foundation l teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere fra te e me». Guardando il modo di far teatro della Compagnia Arcobaleno, che da anni educa all’espressione decine di giovani, tornano in mente le parole asciutte con cui Jerzy Grotowski, maestro del teatro sperimentale, sintetizzava il fine della pratica teatrale. Le frontiere che separano i giovani attori di questa compagnia dai loro compagni di avventura sono reali e di difficile attraversamento. Frontiere politiche, religiose, culturali e linguistiche prima ancora che simboliche e psicologiche. Perché questa scuola di teatro situata nella Galilea settentrionale, uno dei territori di Israele a più alta differenziazione etnica e sociale, è aperta a giovani di diversa provenienza. Arabi ed ebrei. Musulmani, ortodossi, cristiani. Laici e credenti. METTERE IN CONTATTO LE DIFFERENZE L’idea di creare una zona franca di espressione artistica e convivenza pacifica in un territorio di confine devastato dai conflitti nasce dieci anni fa, su iniziativa di Angelica Edna Calò Livné. Educatrice e regista teatrale, nata a Roma, da famiglia ebraica, Angelica si trasferisce eppur si muove in Israele a vent’anni, dove comincia a insegnare teatro a giovani ebrei di realtà geografiche e sociali diverse: ragazzi delle città, giovani provenienti dalle comunità rurali dei kibbutz e dei moshav (una forma di cooperativa agricola), studenti disabili. Nel 2001, mossa dal desiderio di mettere in contatto e dialogo «più differenze possibili» decide, assieme al marito Yehuda, di richiamare arabi, cristiani e musulmani ed ebrei attorno a un progetto artistico e civile tutto da avviare. Fuori è da poco cominciata la Seconda Intifada: una nuova stagione di assedi e attentati che in quattro anni mieterà circa 5.000 vittime tra palestinesi e israeliani. Ricominciare a sperare, in un momento di violenza così acuto sembra impossibile. Eppure la guerra accende nei coniugi Calò Livné la voglia di testimoniare un possibile nuovo “inizio di pace” - in ebraico Beresheet LaShalom - attraverso la creazione di un gruppo di ragazzi che, condividendo l’entusiasmo per l’arte, possano superare gli antichi rancori tra i popoli a cui appartengono. GIÙ LE MASCHERE, SIAMO TUTTI UGUALI Da queste premesse matura Beresheet, il primo spettacolo allestito dalla compagnia, ancora oggi rappresentato, in cui i giovani attori narrano il passaggio da una pacifica convivenza originaria all’esplosione della violenza e infine alla conquista di una nuova, possibile riconciliazione. I movimenti del corpo a ritmo di musica e le coreografie raccontano il deflagrare della conflittualità tra i due gruppi, mentre l’atto del calar giù le maschere prelude alla riconquista di una nuova amicizia. La maschera costituisce un elemento scenico forte e polisemico, che rappresenta tanti tipi di ostacoli diversi: pregiudizio, stereotipo, rifiuto del sé Angelica Edna Calò Livné, donna di pace > Nata a Roma nel 1955, Angelica Edna Calò Livné si trasferisce in Israele a vent’anni, dove compie gli studi universitari e si dedica all’insegnamento del teatro fin quando nel 2001, assieme al marito Yehuda, dà vita alla Compagnia dell’Arcobaleno, di cui diventa direttrice didattica, e nel 2004 alla Fondazione Beresheet LaShalom. Obiettivo del progetto, che le varrà numerosi riconoscimenti internazionali è “educare alla pace attraverso le arti”. Successivamente promuove nuove iniziative di educazione alla pace, tra cui Per Disegnare un Sorriso sul Loro Volto, un progetto di attività interculturali destinato a bambini israeliani colpiti dagli attacchi terroristici e, assieme all’amica palestinese Samar Sahar, Bread for peace, iniziativa volta a unire donne musulmane, cristiane ed ebree mediante la lavorazione del pane. Nel 2006, con il marito Yehuda fonda la squadra di calcio interreligiosa United Colours of Galilee e nel 2008 avvia il Centro Ecologico per la pace, un luogo di vita comunitaria aperto a giovani di diverse culture in cui lavorare sul binomio pace-natura. Conduce laboratori di educazione alla socialità e all’espressione anche in Italia, Paese con cui ha mantenuto negli anni uno stretto legame. Moglie e mamma di quattro figli, ha fondato con il marito il primo agriturismo di Israele, nel kibbutz di Sasa, dove attualmente vive, insegna, fa teatro e scrive libri. eppur si muove reale. Intervistato sul significato di questo simbolo, Ilian Smam, giovane arabo di religione cristiana, confessa: «Questa maschera rappresenta una faccia piena di razzismo, odio, gelosia e orgoglio. Quando la tolgo sento che la vita è più facile». Nell’esperienza didattica e civile di Beresheet prende dunque corpo l’ispirazione di un teatro-laboratorio che, come suggeriva Grotowski, diventa occasione di «integrazione, rifiuto delle maschere, palesamento della vera essenza» e che realizza il superamento di tante frontiere. Quelle psicologiche tra diverse zone del proprio sé, quelle culturali e identitarie tra i giovani interpreti, quelle espressive tra attori e spettatori. Il risultato è una rappresentazione che, affidandosi al linguaggio universale del gesto e dell’espressione, supera le barriere e rende visibile la comune natura umana dei partecipanti. «Non c’è differenza tra me e un ragazzo arabo, solo perché io sono ebreo e lui è arabo. Per me questa è l’essenza del teatro», commenta un giovane interprete. Dal punto di vista tecnico, Beresheet non prevede la recitazione di un testo scritto, ma costituisce l’approdo di un lavoro integrato che conduce i ragazzi a trasfigurare simbolicamente le loro paure e aspirazioni attraverso la libertà creativa, ma vincolata del gesto. Grazie a un metodo che valorizza l’improvvisazione e il vissuto emotivo degli interpreti, la messa in scena diventa così un organismo vivo, che si trasforma a seconda della personalità e degli umori degli attori, delle reazioni del pubblico, e che continua a rinnovarsi anche a diversi anni di distanza dalla prima recita. PER TORNARE A SPERARE La scuola di teatro Arcobaleno nasce come un luogo di accompagnamento alla crescita di autoeducazione alla convivenza civile e alla speranza. Perché in una zona di guerra, il monito a «continuare a sperare» e a «non arrendersi alla violenza» non arriva dall’esterno, ma è una conquista quotidiana che ci si deve autoimporre, racconta Angelica Edna. eppur si muove Molti dei ragazzi che entrano in contatto con i coniugi Calò Livné si portano dietro ferite difficili da rimarginare. Ci sono musulmani che hanno vissuto il disastro della colonizzazione attraverso i racconti dei loro genitori, ebrei con famiglie distrutte dagli attentati. Hanno idee politiche divergenti, ma attraverso il teatro imparano a guardare avanti e a concentrarsi, più che sulle paure, sulle speranze. Ilian, per esempio, ricorda: «All’inizio è stato molto difficile per me. Ero molto razzista verso gli ebrei. Li odiavo molto, perché i miei nonni e i miei parenti sono stati cacciati via da un paese che si chiama Sohnata. Quando ho iniziato a fare teatro ho dovuto cambiare idea, perché se si rimane a rimpiangere il passato non si raggiunge la pace». Un altro esercizio a cui si dedicano i ragazzi dell’Arcobaleno è coltivare sogni, alcuni dei quali ambiziosi, come quello espresso da Chrine, una giovane musulmana: «Vorrei una pace come quella che c’è in Europa. Viaggiare tra i Paesi senza passaporto, senza nessun controllo, senza che ti chiedano chi sei, da dove vieni e dove vuoi andare». UN MODELLO PER L'ITALIA Negli anni, il repertorio della compagnia si è ampliato a nuovi spettacoli: Anne in the Sky, pièce ispirata alla vicenda di Anna Frank, Le avventure di Pinocchio e Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Le recite totali sono state più di 300 e hanno coinvolto un pubblico complessivo di circa 90.000 persone. E la Fondazione Beresheeet LaShalom, che fino a oggi ha accolto a Sasa più di 150 ragazzi, è uscita dai confini del Medioriente ed è approdata in Italia, Paese con il quale Angelica mantiene un rapporto di elezione. Perché di educazione alla convivenza civile ha bisogno anche l’Europa, oggi interpellata da una nuova sfida all’integrazione. In collaborazione con Wizo - Associazione Donne Ebree d’Italia, è nato così il ciclo di seminari itineranti Una cultura in tante culture, realizzato nelle scuole di diverse città italiane. Rivolto inizialmente ai docenti, questo progetto di educazione all’interculturalità si è poi allargato agli studenti. Anche in questo caso gli incontri condotti da Angelica Edna sono centrati sulla conoscenza reciproca, la riscoperta espressiva del corpo, l’apertura emozionale, l’improvvisazione. Il trasferimento, qui da noi, delle pratiche educative sviluppate in Israele - «il più grande laboratorio di culture del mondo», come lo definisce Angelica Edna - funziona, nei racconti dei ragazzi che partecipano ai laboratori. Ricorda Giovanni, del Liceo Casiraghi di Cinisello Balsamo: «Pian piano, un arto alla volta, ci siamo sciolti. Ho visto persone che conoscevo da anni come timidi cronici ballare e saltellare per la stanza e ragazzi sconosciuti svelare volti nascosti e inimmaginabili. Alla fine dell’incontro erano tutti rilassati e sorridenti, ci siamo salutati come vecchi conoscenti e un mio compagno di classe mi ha detto ridendo: "Oggi ci siamo fatti un bel po’ di nuovi amici!"». ••• Guarda il video della performance http://link.pearson.it/ C76D99D0 > Il teatro dell’Arcobaleno www.masksoff.org > La fondazione Berehseet LaShalom www.beresheetlashalom.org > Bread for peace www.breadforpeace.org > La squadra di calcio United Colours of Galilee http://www.unitedcoloursofgalilee.org/ > Una Voce ha chiamato e sono andata. Beresheet LaShalom: i primi 10 anni, di Edna Calò Livné, Proedi, 2011, pag. 80, 10 euro BENCHMARK di Stefano Glenzer benchmark Ogni mese il programma internazionale PISA pubblica focus dedicati a singoli temi della scuola e dell'apprendimento che danno la possibilità di paragonare la situazione dei diversi Paesi del mondo. Per scoprire, per esempio, che la situazione degli studenti stranieri non è sempre la stessa e che alcune difficoltà possono pesare più di altre U n bambino immigrato quando arriva a scuola si trova subito ad affrontare una lunga serie di problemi. Nella maggior parte dei casi la lingua che usa in aula è diversa da quella in cui si esprime a casa. Probabilmente frequenta una scuola con una alta concentrazione di bambini stranieri. Una scuola che magari è in condizioni economiche difficili. I suoi compagni forse usano altre lingue ancora, diverse sia dalla sua sia da quella usata durante le lezioni. Gli studenti immigrati o figli di immigrati si trovano così in una posizione di svantaggio, che rischia di compromettere il loro rendimento scolastico. Per farcela devono superare vere e proprie barriere: il loro stesso status di immigrati, l’ostacolo della lingua, una situazione economica spesso difficile, il fatto di frequentare coetanei con gli stessi problemi. Ma davvero è ovunque così? Giovani e giovanissimi immigrati si trovano certamente in situazioni simili nei diversi Paesi del mondo, perlomeno in quelli che devono affrontare una forte immigrazione dalle regioni più povere del pianeta. Ma quanto simili? E poi, quale tra i tanti svantaggi che uno studente straniero deve affrontare nella sua avventura scolastica pesa di più? Una risposta è difficile da dare e sarebbe estremamente utile, sia a chi si trova quotidianamente ad avere a che fare con questa realtà, a cominciare dai docenti, sia a chi può intervenire con scelte di politica scolastica. Proprio per trovare risposte come questa, l’OCSE nel 2000 ha istituito il PISA, il programma per la valutazione internazionale dell’allievo. Il suo compito principale è valutare ogni tre anni il livello delle competenze maturate dagli studenti di 15 anni del maggior numero possibile di Paesi e, di conseguenza, la qualità dei loro sistemi scolastici (vedi anche l’approfondimento sul primo numero del nostro magazine). Si tratta della sua funzione principale, che però è anche un punto di partenza: sfruttando i dati raccolti in ognuna di queste macrorilevazioni, e grazie ad altre indagini internazionali condotte su singoli temi, il PISA pubblica ogni mese sul suo sito un focus su un tema particolare. Sono approfondimenti di quattro pagine accompagnati da statistiche e grafici scritti in maniera semplice e diretta. Disponibili in inglese e francese, in alcuni casi si possono trovare anche le versioni in italiano, tedesco, cinese, spagnolo e portoghese. L'indagine sugli ostacoli all’ambientamento degli studenti stranieri è un esempio molto chiaro dell'utilità di questi confronti che per ciascun Paese sarebbero difficilissimi da realizzare e che sono in grado di mettere in evidenza differenze significative e, talvolta, anche di scoprire gli effetti di tali differenze. Tutti i Paesi hanno certamente problemi di inserimento da parte dei ragazzi stranieri. Ma probabilmente problemi diversi. La percentuale di immigrati che frequentano le scuole con la più alta concentrazione di stranieri, per esempio, non è affatto omogenea, neppure in Europa. In Lussemburgo e in Svizzera è molto inferiore alla media dei Paesi OCSE, addirittura sotto il 50%, mentre in Italia si supera la media, anche se Il blog di un'esperta per capire meglio i dati Ogni focus viene accompagnato da una riflessione nel blog di Marilyn Achiron, redattrice del consiglio direttivo per l’educazione del PISA. Americana, laureata a Yale in letteratura inglese, in passato Achiron ha lavorato anche per il settimanale Newsweek, per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e per la Croce Rossa Internazionale. I suoi post approfondiscono un tema particolare del focus del mese, oppure ne spiegano in maniera più discorsiva il contenuto, cercando di dare comunque una chiave di lettura personale. Nel commento al focus sugli studenti stranieri svantaggiati, per esempio, Achiron cita il caso positivo della provincia canadese dell’Alberta, nella quale le scuole con i risultati migliori sono quelle con il più alto numero di alunni immigrati. Un modello positivo da fare conoscere anche agli altri Paesi: «Spesso i buoni risultati derivano da politiche regionali o nazionali pensate apposta per provvedere e fare rendere al massimo classi eterogenee di studenti». benchmark I Papers, per chi vuole approfondire L’OCSE pubblica con cadenza mensile anche gli Education Working Papers. Si tratta di studi selezionati da più ampie ricerche della Divisione Educazione dell’OCSE, in genere lunghi tra le 20 e le 50 pagine. Come per i focus del PISA, anche questi documenti sono disponibili in inglese e francese, ma sono accompagnati da sommari presentati in altre lingue. I temi che toccano sono molti: dall’impatto delle ricerche del PISA sulle decisioni dei Paesi in termini di educazione, all’istruzione connessa all'abuso di alcol prendendo in esame il Regno Unito, fino alla differenza delle prospettive di carriera per studenti e studentesse. Si possono scaricare gratuitamente dal sito http://www.oecd-ilibrary.org/ nella sezione Papers. la situazione è migliore, per esempio, rispetto a Paesi come la Gran Bretagna. La prima barriera da superare è quella linguistica, in media più della metà degli studenti dei Paesi OCSE non parla in famiglia la stessa lingua che utilizza a scuola. Ma in Estonia questo è vero solo per un giovane su quattro, mentre in Italia la quota sale a oltre sei ragazzini su dieci, più o meno come in Francia, Austria e Olanda e, ancora una volta, meno che in Gran Bretagna. La famiglia può certamente influenzare i risultati scolastici, soprattutto tra gli studenti immigrati, ma il focus del PISA individua una forte correlazione tra il rendimento scolastico e il livello di istruzione delle madri. I ragazzi più svantaggiati sono quelli con madri che non abbiano raggiunto la scuola secondaria. Se poi in una scuola sono molti i ragazzi che condividono questo svantaggio culturale in famiglia, gli esiti peggiorano ancora. In questo parametro troviamo agli ultimi posti della classifica Olanda, Stati Uniti, Francia, Danimarca e Regno Unito, tutti sopra il 50% a fronte di una media OCSE del 36%. L'Italia in questo caso è invece ben al di sotto della media. Il tema delle difficoltà scolastiche per i giovani immigrati è solo uno dei tanti temi trasversali che il PISA presenta con l’obiettivo di aiutare a comprendere tutti gli aspetti del mondo dell’istruzione. Un'altra indagine recente ha tentato di scoprire quanto conti per i ragazzi la presenza dei genitori. E da questo focus emerge che i genitori che leggono spesso un libro con i figli quando sono piccoli è come se costruissero per loro una piccola rendita, che gli consentirà di avere risultati migliori nelle prove di lettura quando saranno più grandi. E anche, per esempio, che gli studenti con i quali i parenti discutono di politica o su temi d'attualità ogni settimana ottengono, in media, 28 punti in più alle prove del PISA rispetto a quelli che hanno padri e madri che si impegnano di meno nel rapporto con loro: il Paese che guida questa speciale classifica è l’Italia, la migliore con 42 punti, mentre i genitori di Macao sono i peggiori. Non stupisce invece il focus di luglio 2012, che si interrogava sull’effettiva utilità delle attività extracurriculari in materie scientifiche come escursioni, esercitazioni sul campo, competizioni tra istituti, fiere tecnologiche. Ebbene, non solo i ragazzi che frequentano scuole impegnate in queste iniziative hanno ottimi risultati in una o più materie scientifiche. Ma grazie all’allenamento extra scolastico sviluppano anche un migliore approccio a questa classe di discipline che possono sfruttare negli anni successivi. ••• > La pagina dei Focus sul sito del PISA http://www.oecd.org/pisa/pisainFocus/#d.en.199059 > L’approfondimento dedicato al PISA sul primo numero del nostro magazine http://is.pearson.it/ magazine/pisa-radiografia-dellistruzione-nel-mondo oltre la scuola L'artigianato di alta gamma L o scenario della vita individuale e sociale è intriso è una eccellenzadel nostro Paese, nel nostro Paese di cultura e di memoria figurativa. Ababituato a coabitare con il bello biamo la più alta concentrazione di in tutte le sue forme e a riprodurlo opere d’arte al mondo, viviamo immersi nell’arte e nella storia e, nononegli oggetti di uso quotidiano. stante fenomeni di degrado, dentro abituali percorsi di una qualsiasi Un ambito di studio e di lavoro gli giornata possiamo quasi ovunque che viene preso in considerazione fare diretta esperienza di testimonianze legate alle tante diverse traancora troppo pocoe che può dizioni estetiche che si sono succedute nel nostro territorio. Si tratta portare al successo, di un patrimonio inestimabile che ha plasmato il gusto e individuale e collettivo insensibilmente la qualità della vita e ha esercitato influssi ampi e duraturi su un artigianato di altissimo livello. Nelle botteghe e nelle industrie italiane sono nati modelli, stili e tendenze che dai contesti originari si sono irradiati fuori dai confini, ad altri luoghi e Paesi. A differenza dei visitatori stranieri però, la consapevolezza dell’eccezionale qualità ambientale dell’Italia è tra noi assai scarsa, come lo è la capacità di valorizzare una sapienza artigiana profondamente innervata nella cultura della nostra società. Questo segmento professionale soffre di una drammatica carenza di vocazioni, non attrae nuovi operatori, o lo fa in misura troppo ridotta, e il lavorarvi viene avvertito come una opzione al ribasso. Da centro che siamo, rischiamo di ritrovarci in breve tempo periferia, perché si sta interrompendo la trasmissione di talenti e competenze secolari. Far conoscere questo continente inesplorato è uno dei compiti che si è data la Fondazione Altagamma, che riunisce marchi di notorietà internazionale. Nel ventennale della sua costituzione questa associazione di imprenditori ha messo in cantiere una nutrita serie di iniziative che agiranno anche sul medio e lungo periodo. “Il gusto delle cose Con il Centro Sperimentale di Cinematografia è stato realizzato un filmato che la mano plasma” che, attraverso interviste a soci, maestri e giovani lavoratori rilancia una Le Corbusier convincente alternativa ai mestieri intellettuali; una mostra fotografica alla Triennale di Milano (Italian Contemporary Excellence, 2012) e il libro che ne è stato tratto restituiscono in un caleidoscopio di immagini le affascinanti sfaccettature di mondi tra loro diversissimi ma per molti versi contigui. Su un versante più istituzionale sono stati siglati due importanti protocolli di intesa. Il primo, stipulato il 16 febbraio 2012 con Italia Lavoro, l’agenzia tecnica del Ministero del Lavoro, definisce un accordo quadro per “la valorizzazione del lavoro manuale e per la diffusione dell’apprendistato presso le migliori realtà imprenditoriali del paese”. Il secondo, del 29 novembre 2012, vede protagonisti Fondazione Altagamma e Federsolidarietà-Confcooperative; in una logica di sistema si pone l’obiettivo di favorire sotto diversi punti di vista, anche formativi, le relazioni tra imprese profit e no profit, così coniugando l’eccellenza della qualità con il valore sociale. Ma un campo di intervento cruciale è senza dubbio la scuola, come sottolinea Francesco di Lauro, direttore del Centro Studi e Formazione Altagamma. Qui si oltre la scuola Che cos'è Altagamma • Le immagini di queste pagine sono tratte dal libro Italian Contemporary Excellence, e presentano prodotti e attività di formazione di alcune importanti aziende. A pag. 2, Etro; a pag. 3, Ducati; in questa pagina, Illy. Foto, nell'ordine: Lorenzo Pesce, Nicolò Degiorgis, Alex Majoli/Contrasto > Altagamma è stata costituita nel 1992 con l’obiettivo di promuovere l’industria italiana di eccellenza, favorendone lo sviluppo e rafforzandone la presenza a livello internazionale. Ne fanno parte più di settanta aziende attive su diversi fronti che coprono circa il 3% del PIL: design e arredo, meccanica, velocità, nautica, abbigliamento, gioielleria, accessori, alimentazione, ristorazione e ospitalità. Il Centro Studi e la Fondazione, oltre a svolgere sistematiche analisi e monitoraggi su tutti questi settori, si occupano di formazione. Altagamma ha creato con SDA Bocconi due master specialistici per il management (in Fashion, Experience & Design e in Food & Beverage) ma sostiene anche e divulga al proprio interno le iniziative sperimentali avviate da alcuni soci con istituti scolastici e partecipa con un certo numero di aziende al programma di stages Learning on the job. cittadinanza 220 200 180 160 140 2008 2009 2010 2011 2012 2008 2009 2010 2011 2012 60 55 50 45 40 Fatturato italiano Fatturato mondiale aprono varie possibilità di collaborazione a livello locale e nazionale perché formazione e lavoro sono due facce della stessa medaglia. La Fondazione ha costituito il Gruppo di Alto Livello sulla Formazione Professionale e Tecnica per l’eccellenza industriale italiana, proponendosi come interlocutore del Ministero dell’Istruzione per quanto riguarda l’adeguamento dei programmi scolastici. Oltre alla flessibilità dei percorsi formativi - perché i mestieri si trasformano - uno dei fattori determinanti nella tenuta dell’economia tedesca, sostengono in Altagamma, è la presenza degli Istituti di istruzione e formazione tecnica superiore (Fachhochschulen) che erogano titoli equiparabili alle nostre lauree triennali e sono vertiginosamente cresciuti negli ultimi dieci anni. Un secondo elemento importante è l’alternanza scuola-lavoro, che mette a contatto gli studenti con i ritmi e l’organizzazione dell’azienda (vedi anche iS magazine n. 2) e, aldilà del trasferimento di conoscenze esplicite, permette preziosi processi di apprendimento inconsapevole o, come dice di Lauro, fa imparare un linguaggio. Insomma, c’è molta carne al fuoco e soprattutto c’è la disponibilità, da parte di Altagamma, a impegnare seriamente le proprie energie e competenze, organizzando anche incontri con docenti, classi, famiglie. ••• Guarda il video della Fondazione Altagamma Il successo nelle mani http://link.pearson.it/57D28441 > Il sito della Fondazione Altagamma www.altagamma.it/ > Il comunicato della firma del protocollo d'intesa tra Italia Lavoro e Fondazione Altagamma http://www.altagamma.it/s.php?s=2424 FOCUS TECH di Fabio Serenelli focus tech E siste una ricetta per una scuola più coinvolgente per gli studenti e meno frustrante per gli insegnanti? Un modo di fare lezione che sia più efficace per il raggiungimento degli obiettivi didattici e più efficiente nella gestione del carico cognitivo e delle energie di tutti? Una proposta arriva dagli Stati Uniti, patria del movimento per una scuola attiva e oggi culla di una nuova corrente che coinvolge migliaia di insegnanti di ogni ordine e grado e che mette in discussione la sacralità della lezione tradizionale come pilastro della didattica contemporanea. È in atto una discussione che coinvolge sempre più docenti e che si sta allargando dagli Stati Uniti agli altri Paesi, compresa l'Italia. Ma è ancora in fase embrionale in termini di riflessione pedagogica, al punto che non esiste neppure un nome definitivo per il movimento stesso: flip-teaching (capovolgi l’insegnamento), flip-learning (capovolgi l’apprendimento) o più semplicemente flip your classroom!, ovvero “capovolgi la classe!”. TRA CHIMICA E MULTIMEDIALE Tutto è cominciato quando due insegnanti di chimica della scuola secondaria, Jonathan Bergmaan e Aaron Sams, si sono accorti che entrambi percepivano la propria attività come troppo meccanica e arida. Giorno dopo giorno, i cicli continui di lezione e test di verifica limitavano il tempo necessario per conoscere in profondità i propri studenti e capire i loro bisogni, in termini sia di apprendimento sia di relazioni. Nel 2007 hanno pensato di trovare questo tempo mancante spostando il momento dell’acquisizione dei saperi di base, cioè della lezione tradizionale, oltre l’aula e hanno scelto di responsabilizzare gli studenti proponendo come “compito a casa” l'utilizzo di materiali digitali in autoistruzione. In questo modo hanno liberato la loro didattica dall’incombenza delle lezioni, che hanno convertito in screencast, ovvero brevi video digitali composti da audio e sequenze di immagini. Il tempo in aula è diventato disponibile per laboratori in piccoli gruppi e per seguire direttamente i singoli studenti attraverso un tutoraggio uno-a-uno. I due chimici hanno poi condiviso sul web i video prodotti e hanno comnciato a raccontare la loro esperienza. I social network Che cosa fa l’insegnate di una flipped class > Appena arrivato in classe comunica il programma della giornata ed esplicita gli obiettivi da raggiungere > Verifica il livello di comprensione dei contenuti studiati in autonomia (pre-requisiti) > Adotta - se serve - un momento di istruzione frontale, per esempio per sintetizzare o riprendere elementi poco chiari > Sostiene gli studenti in attività collaborative e cooperative in qualità di esperto della materia e coordinatore dei gruppi > Guida la classe nella creazione di prodotti originali, anche digitali, che siano applicazione delle teorie > Individualizza il feedback e predisporre piani personali per attività di recupero o approfondimento > Promuove la dimostrazione pubblica della padronanza di fronte alla classe e incoraggia la diffusione online di ciò che i ragazzi producono focus tech CASA L’apprendimento inizia a casa. Lo studente vede (e rivede) in autonomia e al proprio ritmo i video. I materiali possono essere prodotti dal docente o selezionati da siti specializzati. SCUOLA Modello Flip Your Classroom Il docente esplicita gli obiettivi, crea gruppi in base al livello di padronanza. Usa didattiche mirate al problem-solving di gruppo, simulazioni, laboratori. Vantaggi del modello Flip Your Classroom > PER LO STUDENTE Assume il controllo del proprio apprendimento. Guadagna tempo: segue le lezioni dove vuole e quando vuole, quante volte vuole e al proprio ritmo. Nell’applicazione dei contenuti è sostenuto dal docente e dai compagni. Aumentano gli scambi con il docente e i compagni. > PER L'INSEGNANTE / TUTOR Aumenta il controllo della didattica. Guadagna tempo: registrando le videolezioni può riutilizzarle di anno in anno e in ogni classe. Evita la monotonia. Può verificare in tempo reale i progressi dei singoli. Conosce meglio i bisogni dei singoli studenti. hanno fatto il resto diffondendo a macchia d’olio il modello e dando il via al movimento flip your classroom. Bergmaan e Sams pongono in evidenza come “ribaltare la didattica” possa fornire un quadro operativo per allineare le conoscenze e le competenze degli studenti e migliorare la relazione educativa attraverso la tecnologia e un’attenta ottimizzazione del tempo. Potrebbe sembrare un approccio eccessivamente pragmatico. In realtà si basa sul consolidato modello pedagogico del Mastery Learning, l’apprendimento per la padronanza nato negli anni Settanta che, tra le altre cose, si scaglia contro l’idea che esistano studenti di serie A e di serie B, in grado o meno di raggiungere accettabili livelli di prestazione. Il Mastery Learning punta a far ottenere il massimo livello di padronanza al maggior numero di studenti (se possibile alla loro totalità), nel rispetto dei ritmi e degli stili di apprendimento dei soggetti. Il flipped learning in fondo ne rappresenta un’applicazione aggiornata ai tempi delle tecnologie digitali e dei social network. Il ribaltamento del tempo consiste semplicemente nello spostare a casa i momenti di istruzione che richiedono un'interattività limitata, attraverso lo studio in autonomia. In aula vengono invece valorizzati i compiti caratterizzati da una maggiore complessità e apertura problematica, che vanno affrontati attraverso il confronto critico con gli altri studenti e con il docente. COME CAMBIANO I RUOLI Da un punto di vista pratico, con il flipped learning il ciclo dell’apprendimento inizia a casa e non a scuola, dove lo studente utilizza brevi ed efficaci videolezioni (o altro materiale didattico appropriato) trovando da solo il ritmo di studio con il proprio computer, tablet, lettore mp3 o cellulare. La mattina seguente il ragazzo si presenta a scuola già “informato” focus tech sui contenuti di base, che saranno usati come elementi chiave per realizzare attività più stimolanti, di problem solving oppure produzioni originali “Con il flipped learning individuali o in piccoli gruppi. Per esempio i ragazzi potranno impegnarsi il ciclo dell’apprendimento nella creazione di poster, presentazioni digitali, filmati, composizioni arinizia a casa e non a tistiche o altro. Insomma, lo studente non svolge più i “compiti” a casa e scuola, dove lo studente in solitudine, invece, applica in modo attivo (in classe) i concetti appresi può trovare da solo il (a casa) e questo ne favorisce un “ancoraggio” più profondo, grazie al proprio ritmo di studio" supporto diretto del proprio insegnante e del gruppo classe. Una flippedclass si basa dunque sullo spostamento del momento di acquisizione dei contenuti didattici. Ma ribaltare la didattica in aula significa sconvolgere anche ruoli e status consolidati dal punto di vista fisico. • Nel metodo flipped classroom, il tempo in classe è utilizzato per esercitazioni e attività di gruppo. Foto: The Boston Globe/ Getty Images TUTTI DIVENTANO PIÙ ATTIVI In una flipped-class, l’insegnante non sta in cattedra, cambia la propria posizione e gira continuamente tra i banchi, monitorando le attività e regolando l’interazione tra gli studenti. Per i sostenitori della flipped-school, questo significa che assume il ruolo di regista della classe, più vicino alla figura del coach o del tutor che a quella del docente tradizionale. Un ruolo impegnativo, che in realtà prevede molte attività, tra le quali compare anche la classica spiegazione. Che però diventa parte di un lavoro fatto per lo più insieme ai ragazzi. Lo studente, da parte sua, è invece obbligato a essere attivo, perché in aula tutti si aspettano da lui che applichi e produca conoscenza, non che assorba informazioni. L’obiettivo è che l’aula diventi un luogo dove gli studenti siano incoraggiati a concentrarsi sulla sperimentazione diretta, ad apprendere criticamente e a collegare concetti potenzialmente astratti con l’esperienza concreta e quotidiana. focus tech Il prof più famoso ha cominciato per caso Il modello di blended learning, cioè di un mix bilanciato di istruzione in presenza e a distanza, ha iniziato a diffondersi anche grazie alla spinta propulsiva offerta dalla ormai celebre Khan Academy, un sito che offre gratuitamente una sterminata libreria di video didattici - dalle scienze sociali alla fisica quantistica - che possono essere usati per “capovolgere" l’insegnamento. Il fondatore di questa accademia digitale è Salman Khan, un plurilaureato del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che ha cominciato mettendo su Internet poche videolezioni di matematica per le sue nipotine e ha visto i suoi video diffondersi in modo virale tra gli studenti degli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Khan ha allora deciso di applicare su grande scala l’invito di Bloom, Block e Anderson - i teorici del Mastery Learning - a definire in modo esplicito gli obiettivi didattici per le proprie videolezioni e a dividere i contenuti in minicorsi o unità di insegnamento-apprendimento autonome. Ormai diventato un vero guru di YouTube, oggi ricopre anche il ruolo di involontario innovatore pedagogico, ma viene bersagliato da critiche taglienti che lo considerano responsabile della diffusione di uno stile di istruzione piatto, acritico e alienante. Ecco la sua risposta: «Più gli insegnanti ribaltano il loro metodo di insegnamento – con gli studenti che guardano le videolezioni a casa al proprio ritmo – più tempo verrà liberato a scuola per attività creative come il gioco, l’arte o il brainstorming collettivo». L’idea è che anche la percezione che gli studenti hanno del valore del tempo speso a scuola debba cambiare: le ore passate con il tutor e i compagni non si limitano più all’ascolto passivo, ma diventano lo stimolo per relazioni cooperative e competitive finalizzate a una progressione dell’autonomia e alla pubblica dimostrazione di padronanza delle materie. Anche la scuola nel suo complesso, attraverso l’adozione di questo modello potrebbe modificare la propria immagine, passando da luogo spesso vissuto come oppressivo perché caratterizzato da una didattica rigida e non centrata sulla persona, a uno spazio in cui il consumo degli stimoli informativi non sia mai superficiale e inconsapevole. ••• Guarda il racconto di Aaron Sams dell’idea della flipped classroom (in inglese) http://link.pearson. it/20D5B4D7 > Flip Your Classroom: Reach Every Student in Every Class Every Day, di Aaron Sams e Jonathan Bergmann, 19,95 dollari (disponibile su Amazon). Il racconto della prima esperienza statunitense > The Flipped Classroom: The Full Picture, di Jackie Gerstein (disponibile su Amazon in formato Kindle), 2,10 dollari > Le videolezioni di Salman Khan khanacademy.desk.com/ > La pagina di Facebook e il sito di discussione per l'Italia flipyourclassroom.it, flipyourclassroom.org CITTADINANZA di Franca Bimbi Professore ordinario di Sociologia presso l’Università di Padova cittadinanza Per le donne nulla è ancora scontato. I vecchi pregiudizi sono sempre in agguato. E l'uguaglianza dei diritti nel riconoscimento delle differenze resta ancora da attuare C • Eleanor Roosevelt presenta la Dichiarazione dei Diritti dell’Umanità (1948), che sancisce, tra i vari aspetti, che il sesso non può essere una discriminante per i diritti individuali, civili, politici economici, sociali, culturali. Foto: Federal Government Usa ittadinanza" non è una parola facile, è una parola che divide, come “famiglia”. Non si può entrare senza essere invitati. E se entriamo, possiamo finire in un sottoscala, possiamo esser costretti a non parlare la nostra lingua, a lasciare fuori tanta parte di noi, persino i nostri figli o i nostri genitori. Possiamo entrare, ma non fare realmente parte del luogo in cui entriamo. Possiamo restare per sempre outsider within: in parte straniere e, se non straniere, in parte estranee. Un limite o un privilegio? Credo che sia un privilegio, oggi, per le donne native italiane, pienamente cittadine e persino (almeno in una certa proporzione) “arrivate”, emancipate, liberate, poter condividere con le migranti e i migranti, questo sentimento di venire da lontano, sapere che non si è mai completamente “dentro”, che anche nei luoghi del potere si deve fare i conti con una storia recente di debolezza e di oggettiva inadeguatezza, a cui rinviano esclusioni esplicite o implicite. Aver presente il senso della relatività, la consapevolezza che cittadinanza può significare un progetto comune, ma anche conflitto per l’affermazione di sé come persona e dei diritti alla propria differenza, aiuta a immedesimarsi nelle condizioni di vita di tutti quelli che sono costantemente messi ai margini. Venire da lontano, in quanto a cittadinanza, significa per le donne venire dalla casa piuttosto che dalla città, dall’interno domestico piuttosto che dall’agorà, dal regno della cura esclusiva dei “propri” piuttosto che dal governo di tutti, anche degli estranei. L’espressione “il nostro mondo comune” può significare per donne e uomini la famiglia, ma per gli uomini può significare più facilmente e con maggiore legittimazione anche la professione, lo sport, gli amici, soprattutto il tempo per sé. Ciò da cui egli è chiamato a uscire coincide con ciò che lei è chiamata a custodire. “Custodire” significa vivere per mantenere in vita, ma non si tratta di una vita vissuta da essere morale se corrisponde a un obbligo ripetitivo di donare senza potersene chiedere le ragioni, senza poter dire “vado altrove”, come la Nora di Ibsen. Oggi questo tipo di considerazioni possono sembrare in via di radicale superamento per la femminilizzazione del vertice di molte professioni, anche di quelle votate alla guerra, o perché un po’ di giovani padri possono scegliere di godersi la cura dei figli. Si tende a sottolineare che le donne possono scegliere una professione o la vita familiare a tempo pieno, che le ragazze superano i ragazzi nella presenza ai gradi più alti dell’istruzione, che le donne cominciano a soffrire di molti mali da successo, di certi tipi di cancro o di depressione. Proprio queste analisi, se unilaterali, rimettono in gioco vecchi pregiudizi: poter scegliere cittadinanza di restare disoccupata non è propriamente una scelta, studiare di più non significa avere più denaro (in un mondo dove il denaro conta più dell’istruzione, alle donne resta quello che socialmente vale di meno), agli uomini di successo non è mai stato consigliato di lasciar perdere per evitare l’infarto. La cittadinanza formale è importante e, tuttavia, è la cittadinanza sostan“La cittadinanza formale ziale che misura la forza della propria voce nella società: diritti politici, certo, è importante e tuttavia ma anche diritti sociali e civili. Decidere assieme agli altri, far pesare quanto è la cittadinanza ogni altra persona la propria opinione e le proprie esigenze: dall’inizio della sostanziale che misura storia umana guadagnarsi la cittadinanza ha significato avere accesso alla la forza della propria città, nel senso di spazi sociali di vita ma anche di autorevolezza nella sfera voce nella società: diritti pubblica. Il processo di riconoscimento della donna come individuo morale politici, certo, ma anche sta alla radice della cittadinanza, se intesa come democrazia effettiva, in diritti sociali e civili" ogni tempo. Rivediamo l’accesso recente alla città, che sta negli articoli 1, 2 e 3 della Costituzione: una Carta dell’autodeterminazione della persona, che fonda l’uguaglianza nei diritti alla differenza, mentre afferma che l’uguaglianza non permette differenziazioni. I tre articoli disegnano un dispositivo complesso, che non è interpretabile come semplice affermazione di parità. Nel 1970 il diritto di famiglia o l’introduzione del divorzio affermano la parità, ma è la legge sull’interruzione di gravidanza a riconoscere la differenza. È la donna che può decidere un sì o un no a una gravidanza: questa volta la biologia è assunta nella sua dimensione morale e di esperienza. Nel 1996 con la legge sulla violenza sessuale si riconosce che la donna è violata come persona, e dunque lei sola può decidere se rivolgersi allo Stato per chiedere giustizia. Il principio dell’autodeterminazione così apparentemente semplice per il legislatore del 1996 (cos’altro è la violenza se non vulnus alla libertà di disporre di sé prima che ferita del corpo?) ha perduto nel tempo la sua centralità. Al posto dell’autodeterminazione femminile sta guadagnando spazio il diritto penale: in Italia, in Europa, come in India, anche le donne sono tentate dalla richiesta di maggiori pene per gli uomini violenti, fino alla cura coatta, alla castrazione o alla pena di morte. La parabola delle politiche antiviolenza italiane è significativa per riflettere sul declino della cittadinanza attiva delle donne, ma anche sui rischi della razializzazione del dibattito sulla violenza di genere. Infatti sono diminuite nel tempo le risorse per i servizi antiviolenza promossi dalle donne mentre la tipologizzazione dell’aggressore mette spesso in campo la “barbarie” culturale dello straniero, nascondendo sotto l’etichetta di “femminicidio” l’inspiegabile comportamento aberrante dell’omicida autoctono, la cui violenza diventa facilmente una patologia individuale. Il tema della cittadinanza delle donne, se non viene ridotto alle pari opportunità (che comunque sono necessarie), ci aiuta a riflettere su molte dimensioni di una possibile democrazia paritaria e del riconoscimento delle differenze, ma soprattutto sulle dinamiche infinite tra diritti e forme di giustizia. ••• > Donne, diritti, democrazia, a cura di G. Fiume, XL Edizioni, 2007, 18 euro, pag. 288 > Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Martha Nussbaum, Il Mulino, 2001, 25 euro, pag. 370 > Genere. Dagli Studi delle donne a un’epistemologia femminista tra dominio e libertà, Franca Bimbi, 2012, About Gender. International Journal of Gender Studies, vol. 1, n. 1, pp. 52-93 LABORATORIO PEARSON laboratorio Pearson Il progetto The Learning Curve realizzato da Pearson studia per la prima volta le relazioni tra i sistemi educativi dei Paesi, l'economia, la società e il benessere. E stila la classifica delle nazioni più virtuose. Per capire punti di forza e debolezza di ciascun Paese e offrire un aiuto concreto per migliorare M eglio funziona il sistema scolastico di un Paese, più elevati sono i suoi standard e i risultati in termini di prodotto interno lordo, capacità imprenditoriale, sicurezza sociale. Molti studi hanno dato conferma a questa affermazione soprattutto su scala locale. Del resto, che una buona scuola produca una società migliore è un dato di fatto così evidente da sembrare addirittura scontato. Ma nel momento in cui si vogliano indagare più nel dettaglio le modalità con cui un buon sistema di insegnamento produce dei cambiamenti quantificabili, a livello per esempio di maggior benessere diffuso o di riduzione della criminalità, le cose si complicano. La realtà in cui la scuola si inserisce è così variabile e sfaccettata, composta da tanto numerosi e imponderabili aspetti, che risulta particolarmente difficile misurare la sua efficacia, sia nell'ambito di un solo Paese sia in un confronto internazionale. Ad aprire la strada a una classificazione e valutazione oggettiva delle performance dei sistemi scolastici di 50 Paesi nel mondo è un grande progetto, denominato The Learning Curve (la curva dell'apprendimento), realizzato da Pearson in collaborazione con EIU (The Economist Intelligence Unit). Il risultato finale è una graduatoria dei sistemi scolastici di 50 Paesi, tra cui anche l'Italia, disponibile e consultabile liberamente online. Per produrlo, gli esperti di Pearson e di EIU hanno raccolto e analizzato a fondo un’enorme massa di dati, che riguardano sia la valutazione dei singoli sistemi scolastici sia economici e sociali. All'indagine statistica si sono aggiunte le interviste a 16 esperti in laboratorio Pearson scienze dell'educazione di tutto il mondo. Tutte le statistiche e i dati studiati sono stati a loro volta trasformati in classifiche, liberamente consultabili sul sito del progetto, per dar vita, come spiega Michael Barber, Chief Education Advisor di Pearson, «a un database vivente e aperto, da aggiornare mano a mano che vengono prodotti nuovi dati, che speriamo possa incoraggiare nuovi studi e, in ultima istanza, diventare uno strumento per meglio indirizzare la politica educativa». FINLANDIA E COREA AL TOP Dall'analisi è emerso un quadro complesso, accessibile a chiunque voglia approfondirlo e perfezionarlo, che è il primo serio tentativo di stabilire un sistema di confronto e valutazione dei più importanti sistemi educativi. Secondo i dati raccolti e confrontati dalla Learning Curve sono i sistemi scolastici di Finlandia e Corea del Sud a risultare i più efficienti del mondo, seguiti da Hong Kong, Giappone e Singapore. L'Italia è situata a metà della graduatoria, al ventiquattresimo posto, davanti a Francia e Norvegia, e non molto distante da Germania e Stati Uniti, che la precedono rispettivamente di 9 e 7 posizioni. Per definire questa classifica, gli esperti di Pearson e di EIU hanno realizzato un Indice Globale sulle Capacità Cognitive e il Raggiungimento del Livello d'Istruzione. Questo indice considera le capacità cognitive raggiunte dagli allievi, calcolate per mezzo di test internazionali come PISA (Programme for Internationals Students Assessment), TIMSS (Trends in International Mathematics and Science Studies) e PIRLS (Progress in International Reading Literacy Studies) e la confronta con il livello di alfabetizzazione di ogni singolo Paese, calcolato sul tasso di scolarità e di raggiungimento della laurea. L'IMPORTANZA DEGLI INSEGNANTI Secondo i responsabili del report sono due i segnali che emergono con maggior forza dall'indagine. Da un lato è evidente il fatto che, per il miglior funzionamento di un sistema scolastico, non bastano gli investimenti. I migliori risultati si raggiungono laddove l'istruzione è supportata dalla società civile, in termini di condivisione dei contenuti, dei comportamenti, di stimolo agli studenti e di creazione di aspettative e aspirazioni. D'altro canto emerge il ruolo centrale dell'insegnante. L'impatto di un docente bravo e laboratorio Pearson PAESE PUNTEGGIO-Z RANGO FINLANDIA 1.26 1 COREA DEL SUD 1.23 2 PAESE HONG KONG–CINA GIAPPONE SINGAPORE REGNO UNITO OLANDA NUOVA ZELANDA SVIZZERA PUNTEGGIO-Z 0.90 0.89 0.84 0.60 0.59 0.56 0.55 RANGO 3 4 5 6 7 8 9 CANADA 0.54 10 IRLANDA 0.53 11 PAESE PUNTEGGIO-Z RANGO DANIMARCA 0.50 12 AUSTRALIA 0.46 13 POLONIA 0.43 14 GERMANIA 0.41 15 BELGIO 0.35 16 STATI UNITI 0.35 17 UNGHERIA 0.33 18 SLOVACCHIA 0.32 19 RUSSIA 0.26 20 SVEZIA 0.24 21 REPUBBLICA CECA 0.20 22 AUSTRIA 0.15 23 ITALIA 0.14 24 FRANCIA 0.13 25 NORVEGIA 0.11 26 PORTOGALLO 0.01 27 SPAGNA -0.08 28 ISRAELE -0.15 29 BULGARIA -0.23 30 GRECIA -0.31 31 PAESE PUNTEGGIO-Z RANGO ROMANIA -0.60 32 CILE -0.66 33 PUNTEGGIO-Z RANGO TURCHIA -1.24 34 ARGENTINA -1.41 35 COLOMBIA -1.46 36 THAILANDIA -1.46 37 MESSICO -1.60 38 BRASILE -1.65 39 INDONESIA -2.03 40 PAESE motivato sui propri allievi non si riscontra soltanto in un migliore risultato educativo, con studenti in grado di percorrere una strada più lunga e più proficua nella scuola, ma anche in una serie di elementi sociali positivi, come livelli più bassi di gravidanze tra i teenager o una maggiore propensione a risparmiare in vista del pensionamento. The Learning Curve ha lo scopo dichiarato di aiutare i legislatori a individuare i punti chiave che decretano il successo di un sistema scolastico. È un progetto in evoluzione, nel senso che si propone anche come un invito ad altri specialisti e realtà per approfondire il metodo, migliorarlo e giungere a un sistema sempre più preciso di valutazione dei sistemi educativi e dei loro effetti, a breve e lungo termine, su tutti gli ambiti che decretano il benessere di un Paese. ••• Guarda il video di presentazione del progetto (in inglese) http://link.pearson. it/72245FB0 > Leggi l’articolo Viaggio al centro dell’istruzione sul sito iS http://is.pearson.it/espresso/viaggio-alcentro-dellistruzione/ > Consulta la rassegna stampa http://is.pearson.it/espresso/the-learning-curve-rassegna-stampa/ > Visita il sito The Learning Curve http://is.pearson.it/multimedia/video-the-learning-curve/ LABORATORIO PEARSON A che punto è L'ITALIA laboratorio Pearson I dati sul nostro Paese, elaborati dallo studio The Learnig Curve, rivelano una situazione con luci e ombre: siamo a metà della classifica, offriamo ottime possibilità di scelta e i ragazzi studiano fino a 16 anni, ma investiamo poco. E siamo ben lontani dall'eccellenza U n Paese in cui gli allievi trovano una vastissima scelta di percorsi di studio, tra le più ricche al mondo, e che ha raggiunto livelli di qualità paragonabili a quelli dei più importanti Stati occidentali. Ma anche dove si investe relativamente poco per l'istruzione rispetto al prodotto interno lordo. Seguiamo i nostri studenti molto a lungo, in media 16 anni a testa, garantendo loro tutte le opportunità per una formazione adeguata, ma non siamo capaci di sfruttare appieno i vantaggi di questo sistema, perché il benessere del Paese non corrisponde al livello scolastico. È questo il profilo dell'Italia che emerge dalla Learning Curve, dove ci troviamo esattamente a metà classifica, al ventiquattresimo posto su 50 in base all'Indice Globale sulle Capacità Cognitive e il Raggiungimento del Livello d'Istruzione. Siamo in buona compagnia. In posizioni e con indici molto vicini al laboratorio Pearson nostro si trovano altre nazioni come Francia, Germania, Spagna, Belgio, Norvegia, Svezia, Australia, Stati Uniti. Leggermente avanti si posizionano Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda, Svizzera, Belgio e Danimarca, oltre a Giappone, Hong Kong e Singapore. Ma solo i due Paesi che guidano la graduatoria, Finlandia e Corea del Nord, sembrano decisamente al di sopra di tutti gli altri. Va anche detto che vastissime aree del mondo non sono contemplate nella classifica, per mancanza di dati. Tra gli esclusi figurano la Cina (a parte il territorio di Hong Kong), l'India, tutta l'Africa, il Medio e il Vicino Oriente. CONFRONTO TRA SISTEMI Va poi sottolineato come Corea del Sud e Finlandia costituiscano due casi anomali rispetto agli altri. Nel primo il sistema scolastico riflette la rigidità e la severità della società civile, mentre la scuola finlandese spicca per un'impostazione straordinariamente elastica e libera. Uno dei 16 esperti intervistati dagli specialisti di Pearson e di EIU che hanno stilato il rapporto, Robert Schwartz, professore di Pratica della politica e dell'amministrazione dell'educazione all'Università di Harvard, negli Usa, sottolinea che «la Finlandia è un caso di studio laboratorio Pearson meraviglioso. I bambini iniziano a studiare tardi, il tempo trascorso a lezione è più breve che in altri Paesi, non hanno compiti, i loro insegnanti fanno poca presenza frontale. Secondo una stima, gli italiani vanno a scuola per 3 anni in più». I dati del PISA, raccolti con una cadenza di tre anni per verificare il livello di apprendimento di scolari di 15 anni di età, mostrano che sono ben pochi i finlandesi che prendono ripetizioni, e quelli che lo fanno di solito hanno risultati peggiori nei test, il che indica che si tratterebbe di operazioni di recupero. Infine, il sistema ha la fama di essere concentrato sull’aiutare i bambini a comprendere e ad applicare il sapere, e non solo a ripeterlo. L'Italia, in base all'indice della Learning Curve, si pone a un livello alto, corrispondente a quello di un Paese con un PIL elevato e con un diffuso livello di alfabetizzazione. L'iniziativa di Pearson, però, non si limita a fornire una classifica nuda e cruda. La ricchissima banca dati, elaborata dagli esperti della Economist Intelligence Unit, raccoglie anche una serie di parametri, una sessantina, che illustrano tre differenti aspetti: gli input nel sistema educativo, come la spesa pro capite per insegnanti e allievi; gli output, cioè i risultati forniti dai sistemi educativi; l'ambiente socio-economico dei vari Stati, valutato sulla base di indici internazionali, sui livelli di salute e di reddito, ma anche sul numero di omicidi. METÀ CLASSIFICA Misurati sulla preparazione degli allievi, i nostri risultati sono medi. L'indice PISA, i cui dati più recenti risalgono al 2009, e che misura capacità e conoscenze degli studenti di 15 anni, analizzati a campione, ci pone a un livello medio della graduatoria, con un valore di 485,93, laboratorio Pearson distante da quello massimo, ottenuto da Hong Kong, di 545,57. I nostri risultati sono paragonabili a quelli di Spagna e Francia, ma distanti da quelli tedeschi. L'indice TIMSS, invece, più orientato a valutare la preparazione sulle materie scientifiche e matematiche in due stadi dell'apprendimento (dopo il quarto e l'ottavo anno di scuola) ci vede in una posizione leggermente migliore. Osservando questa particolare classifica, su dati risalenti al 2007, notiamo come gli scolari italiani mostrino performance migliori in queste materie in età più giovane. Siamo anche al posto 26 su 50 nella classifica del livello di alfabetizzazione della popolazione oltre i 15 anni, con una percentuale del 98,93%: i leader sono gli ucraini e i sudcoreani, rispettivamente con il 99,71% e il 99,60%. Se i dati relativi a disoccupazione e livello di preparazione scolastica non sono particolarmente attendibili, perché le serie più complete risalgono al 2007 e sono precedenti alla crisi economica, più significativi sono i dati sulla capacità di innovazione dei singoli Paesi, che ci vedono, di nuovo, a metà della graduatoria, con performance distanti da Svizzera e Svezia, i leader in questo particolare contesto. È alta invece rispetto alla media la produttività dei lavoratori italiani, in termini di prodotto interno lordo. Anche questo dato è considerato una diretta conseguenza della preparazione scolastica. I PUNTI DI FORZA Se andiamo a cercare i punti di forza del sistema italiano, quello che balza all'occhio è l'elevata possibilità di scelta. A qualsiasi livello del percorso formativo si presentano, davanti all'allievo e alle famiglie italiani, molte più strade percorribili rispetto ad altri sistemi. Dopo Singapore, Nuova Zelanda e Thailandia siamo il Paese che offre più possibilità agli allievi. Gli laboratorio Pearson autori del rapporto mettono in evidenza che «secondo recenti ricerche, i Paesi che offrono un ventaglio più ampio di scelta hanno risultati educativi superiori. È plausibile quindi pensare che permettere ai genitori di scegliere le scuole migliori premi l’alta qualità, portando a un progresso generale». In realtà sono comunque molte le variabili: per esempio, la presenza di scuole gratuite e pubbliche in Stati dove l'educazione è per lo più in mano a istituti privati diventa un fatto positivo, così come, al contrario, l'esistenza di scuole private di alto livello in Paesi poveri che non sono in grado di investire molto sull'istruzione e quindi di dare una preparazione sufficiente alle proprie giovani generazioni. Più in generale, la possibilità di una scelta ampia presuppone anche una capacità di informarsi e di scegliere da parte dell'allievo e della propria famiglia. Di per sé, quindi, un ampio ventaglio di opzioni non è indice di successo. Un altro ambito in cui l'Italia mostra ottime performance è quello dell'aspettativa di vita scolastica o, in altre parole, gli anni di insegnamento impartiti in media a ogni scolaro in un Paese. Arriviamo a oltre 16 anni, più della Germania, per esempio, della Svizzera o del Giappone. Soltanto Nuova Zelanda, Australia e Irlanda fanno decisamente meglio. Siamo anche tra i Paesi che ammettono in una struttura scolastica i bambini in età più precoce: già a tre anni i nostri figli possono essere ammessi in una struttura “pre-primaria”, come viene definita nel report, Esaminando invece i compensi riconosciuti agli insegnanti in Italia, considerati tutti i gradi di istruzione, questi sono al di sopra degli stipendi medi nazionali. Ma, analizzando i dettagli, si nota come si investa di meno sugli insegnanti della scuola primaria. Inoltre non c'è molta variazione tra stipendi minimi e massimi. È bassa la percentuale di PIL destinata dall'Italia all'istruzione (4,52% nel 2009), pur in un Paese in cui è elevata l'età per la scuola dell'obbligo e in cui le scuole sono prevalentemente pubbliche. SCUOLA E BENESSERE Quale profilo tracciano dell'Italia questi dati? Sia gli investimenti fatti per la scuola sia i risultati prodotti ci garantiscono un elevato livello di benessere, ma potremmo fare meglio. Nella graduatoria dell'Indice di sviluppo umano (Human Development Index), che indica il livello macroeconomico degli Stati e la qualità della vita complessiva, siamo al posto 21 su 50. Ci troviamo, in questa classifica, dietro a Paesi come Corea del Sud, Israele, Spagna, ma siamo in una posizione migliore rispetto al Regno Unito. Siamo anche tra quelli con un basso numero di omicidi, 0,98 ogni 100.000 abitanti contro i 34,65 della Colombia o i 5 degli Stati Uniti. Abbiamo però una bassa percezione della corruzione, ai livelli del Ghana, del Brasile e della Cina e, come già accennato, stipendi medi bassi, intorno ai 26.400 dollari l'anno (circa 22.000 euro), contro gli oltre 61.000 di svizzeri e norvegesi. In altre parole, il profilo dell'Italia che emerge dal report The Learning Curve è contraddittorio e mette in evidenza luci e ombre, sia negli indicatori generali del livello di vita sia in quelli particolari riferiti agli investimenti sulla scuola e alla preparazione degli allievi. Valutare nel tempo come si modificherà il rapporto tra questi parametri consentirà a esperti e osservatori di capire meglio come l'educazione possa avere riflessi positivi e negativi su tutto il sistema paese. ••• Guarda il video di presentazione del progetto (in inglese) http://link.pearson. it/72245FB0 > Il sito di The Learning Curve http://thelearningcurve.pearson.com/ LABORATORIO PEARSON di Donato Ramani laboratorio Pearson Il baricentro del mondo si sta spostando dall’oceano Atlantico al Pacifico, dall’Occidente all’Oriente. Ma il successo dei Paesi dipenderà sempre di più dalla capacità del loro sistema educativo: ecco quali saranno i fattori chiave N ei corsi e ricorsi della storia non capita spesso di osservare una così rapida rivoluzione nelle simmetrie del mondo, oggi arrivato a un punto in cui la leadership mondiale, rimasta per tanto tempo saldamente in mano alle nazioni atlantiche, si sta velocemente spostando verso un altro oceano, il Pacifico, le cui potenze sono pronte a giocare carte decisive sul tavolo degli equilibri internazionali. E, secondo molti, a dominare il prossimo futuro. Tutto deciso, dunque? Tutto inevitabile? Non esattamente. Le sfide che si pongono a chi, da qui in avanti, avrà l’ardito compito di tenere le fila del pianeta sono tante e complicate. Per far fronte a queste sfide i cambiamenti da introdurre sono numerosi e inevitabili. Due elementi, indissolubilmente legati l’uno all’altro, in particolare, faranno davvero la differenza: l’innovazione e l’istruzione. È questa la tesi sostenuta da Sir Michael Barber, Katelyn Donnelly e Saad Rizvi nel corposo lavoro intitolato Oceans of innovation – the Atlantic, the Pacific, global leadership and the future of education. Nella ricerca, compiuta per l’inCiò che serve è un salto, glese IPPR, Institute for Public Policy Research, i tre autori, tutti masuna discontinuità, simi esperti nel campo dell’istruzione e consulenti della casa editrice una mossa decisiva Pearson, analizzando gli ultimi studi e intervistando gli opinion leader sulla strada del del settore, hanno messo sotto la lente di ingrandimento economia, progresso che rappresenti società e servizi all’istruzione d’Oriente e Occidente, dell’area atlantica un vero e risolutivo e di quella pacifica, evidenziandone pregi e difetti in una prospettiva scatto in avanti globale e tutta proiettata al futuro. Dati alla mano, il panorama, ci dicono, appare chiaro: i successi dell’Asia, le sue rombanti economie, i dati di crescita stupefacenti a fronte di un Occidente in evidenti difficoltà, lasciano pochi dubbi sulla direzione in cui tira il vento. E se è vero che «l’istruzione è il più importante investimento che si possa fare per prepararsi al futuro», come afferma il primo ministro della Repubblica di Singapore Lee Hsien Loong nell’introduzione del lavoro di ricerca, non c’è dubbio alcuno che anche su questo versante le realtà dell’area pacifica e dell’Asia in particolare giochino un ruolo di assoluta importanza. Lo dimostrano le altissime posizioni in classifica di Paesi come Cina, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Giappone, nel ranking mondiale sui sistemi educativi. Sulla base del test PISA, tanto per fare un esempio, uno studente coreano di 15 anni è 17 mesi avanti nello studio della matematica rispetto a un coetaneo statunitense; un giovane di Shanghai precede di due anni e mezzo un collega europeo. Otto posizioni tra le prime dieci, nel test PISA sono occupate da Paesi dell’area pacifica. laboratorio Pearson Eppure, ci dicono Barber, Donnelly e Rizvi, la partita è tutt’altro che chiusa. Anzi: «Le questioni da affrontare si fanno sempre più complicate e pressanti. Questi problemi non si risolveranno semplicemente incrementando attività già in corso. C’è invece bisogno di un’innovazione, molto più rapida, più profonda, più disturbante che nel passato, indispensabile non solo per sostenere l’economia ma anche per far fronte alle prove che si porranno da qui in avanti». Ciò che ha funzionato negli ultimi cinque decenni permettendo di raggiungere i formidabili traguardi di oggi non fornirà la chiave del successo nei prossimi 50 anni. Semplicemente perché la nuova società globale va troppo veloce, l’informazione è molto dispersa e democratica, i cambiamenti in atto troppo rapidi. Ciò che serve è un salto, una discontinuità, una mossa decisiva sulla strada del progresso che rappresenti un vero e risolutivo scatto in avanti. Per ottenerlo «occorre creare le condizioni perché l’innovazione e la creatività possano trovare spazio nella società» dicono Barber, Donnelly e Rizvi. Obbligatorio innanzitutto rivoluzionare quegli stessi capisaldi che, secondo gli osservatori, hanno portato i Paesi asiatici al successo. Tra gli altri: una élite deputata a decidere la rotta di un intero Paese, una società responsabile e rispettosa nei confronti dell’autorità e dello Stato, l’estrema organizzazione, una cultura familiare forte, una scarsa mobilità professionale, l’uniformità e l’omogeneità come valore, la collettività premiata sull’individualità. Per rispondere alle sfide del futuro c’è bisogno di costruire, invece, quella che gli autori definiscono una global generation, capace di scrollarsi di dosso questi abiti diventati improvvisamente troppo stretti. La generazione globale di cui parlano è fatta di individui formatisi in una specifica cultura ma aperti al mondo, indipendenti e in grado di adattarsi a incessanti mutamenti, di continuare ad apprendere, di assumere responsabilità e prendere decisioni, pronti a trasformare le cose con e per gli altri. Le vie di questo cambiamento, nel pensiero degli autori, seguono un percorso ellittico, che parte dalla società e vi ritorna attraversando un territorio in cui devono essere poste le autentiche fondamenta di questa trasformazione: la scuola. Non che, come già evidenziato, in Oriente i risultati già raggiunti in campo educativo non siano degni di nota. Merito, dico- laboratorio Pearson no gli analisti, di diversi fattori: il grande valore dato alla professione di insegnante, premiato da ottimi stipendi e da un prestigio sociale sconosciuti in Occidente; il coinvolgimento attivo delle famiglie nelle attività scolastiche, al di fuori di ogni divisione di classe o di censo; l’importanza data all’apprendimento, concepito di per se stesso come processo virtuoso; e, anche, la pianificazione a lungo termine delle politiche scolastiche, portate avanti con estrema puntualità e rigore. Se però i leader dell’area del Pacifico si fermassero qui mettendo un punto al processo di evoluzione «commetterebbero un grossissimo errore». Scrivono infatti Barber, Donnelly e Rizvi: «La grande sfida oggi è diventare leader dell’innovazione. Per farlo, occorre adattare il sistema scolastico, passando dal paradigma di grande successo del ventesimo secolo a un altro, molto diverso, proprio del secolo in cui viviamo». A tutti, il terzetto di autori offre come ricetta per la migliore istruzione possibile una formula dagli ingredienti potenti e suggestivi che suona così: Buona istruzione = Etica (Conoscenza+Pensiero+Leadership). Gli autori definiscono questa equazione «una piattaforma, non una camicia di forza, che lascia spazio a ogni Paese di creare un modello secondo le proprie esigenze». La Conoscenza è da acquisire ma anche da saper utilizzare al momento opportuno: «Vogliamo studenti che non solo conoscano il teorema di Pitagora. Ma che sappiano come e quando usarlo per risolvere dei problemi nel mondo reale». La combinazione di questi elementi, dicono gli autori, è ciò che permetterà alle nuove generazioni di liberare le qualità più innate, di essere innovativi e costruttivi all’interno della comunità, a livello locale come in quello globale. Una formula, questa, che dovrà essere applicata non solo per una ristretta rappresentanza di studenti, per un’elite di talenti come è stato finora soprattutto in Occidente, ma per l’intera comunità. Gli adulti dei prossimi decenni, infatti, come lavoratori, come studenti, come cittadini, dovranno tutti adattarsi a mutamenti rapidi nel Foto: Danita Delimont Stock/Marka laboratorio Pearson mercato del lavoro, essere competitivi, «pensare alla propria carriera come a una start-up, con un atteggiamento imprenditoriale» così nelle parole di Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn, e Ben Casnocha nel recente volume dal titolo The start-up of you di cui Oceans of innovation riporta alcuni passi salienti. La global generation dovrà essere anche giovane, fantasiosa, immaginativa, ingegnosa, costruttiva, talvolta irrispettosa delle regole, curiosa, iconoclasta, spesso coraggiosa, capace di sbagliare e rialzarsi. Saranno proprio queste le qualità che faranno la differenza nelle società del domani. La capacità di creare un terreno fertile per farle sbocciare e crescere sarà l’elemento chiave che permetterà a un Paese di correre più veloce di un altro, dal punto di vista economico, sociale, politico. Non a caso, a fior di metafora, l’invito di Barber, Donnelly e Rizvi nei confronti di istituzioni e insegnanti è quella di «togliere il soffitto» alla scuola e, in campo artistico, sportivo, accademico, dare ai ragazzi, a tutti i ragazzi, «l’opportunità di volare», liberando aspirazioni, energie e potenzialità. Che, assieme all’applicazione, al lavoro costante e un ottimo training, garantiscono gli autori, sono i veri ingredienti del successo. Una bella impresa per lo schema educativo occidentale, quello statunitense soprattutto, molto propenso a un’impostazione verticale, in cui sono pochissimi talenti a emergere e ad avere accesso all’istruzione migliore. Così come per quello orientale, più equo ma scolasticamente molto impegnativo, poco incline a valorizzare le individualità e le differenze, molto omogeneo, molto disciplinato e con un’organizzazione serrata. Un’impostazione che, ci suggerisce Oceans of innovation, riproduce al pantografo quella dell’intera società asiatica. È anche per questa ragione che i cambiamenti necessari e obbligatori perché le realtà del Pacifico possano raccogliere efficacemente lo scettro di leader mondiale devono partire dalla scuola, ponendo lì il seme di un mutamento difficilmente evitabile. Che è tecnologico e sociale, e mette insieme innovazione e crescita economica, creatività e libertà di espressione. Elementi questi con cui l’intera area pacifica, e la Cina in particolare, dovrà fare presto i conti per compiere l’evoluzione che saprà davvero ridefinire i connotati del pianeta che verrà. In tema d’innovazione, è vero, con l’Asia da una parte e il Nord America dall’altra, già oggi questa regione non teme paragoni. Seppur con significative differenze: se è vero infatti che la quantità di application per nuovi brevetti in Oriente è aumentata di oltre il 50% dal 1996 laboratorio Pearson Buona istruzione = E x (C + P + L) al 2009, è altrettanto vero che troppo spesso questa innovazione è di matrice incrementale e continuativa, non dirompente, esplosiva, sconvolgente, game–changing, come quella che a tutt’oggi arriva dagli Stati Uniti. «Designed in California. Assembled in China» si legge dietro a ogni iPhone, ci ricordano gli autori. Una frase che traccia piuttosto bene gli equilibri oggi presenti in un campo in cui da qui in avanti si svolgerà la partita del mondo. Le regole del gioco saranno le diverse realtà nazionali a doversele dare. I giocatori si stanno formando in questo momento nelle loro scuole. Quella che Barber, Donnelly e Rizvi chiamano “la rivoluzione educativa”, insomma, ha valenze di estrema importanza, molto al di là delle pareti di un istituto, dei confini di un Paese e di un’area geografica. Sebbene lontanissima ai nostri occhi, remota culturalmente, apparentemente assai distante dai nostri interessi primari, i mutamenti che quella parte del pianeta, l’Asia in primis, sarà capace di mettere in atto, a partire dalla nuova società di individui che nelle sue scuole si sta oggi formando, ci riguarda molto più da vicino di quanto saremmo pronti a pensare. Perché i problemi che le realtà affacciate sul Pacifico, nella geometria che dall’Oriente raggiunge l’Australia e finisce sulle coste del continente americano, saranno chiamate a risolvere, in un’ottica globale, sono e saranno anche i nostri. Lo ribadiscono i tre autori nelle battute finali del loro testo, così dichiarando: «Il futuro dell’area del Pacifico e la sua capacità di diventare un oceano di innovazione sarà modellata ogni giorno, da qui in avanti, nelle classi di Singapore e Shanghai, Hong Kong e Hanoi, Kuala Lumpur, Melbourne, San Francisco e Vancouver. Dal successo di questa impresa, dipende il futuro di tutti». ••• Guarda l’intervento di Sir Michael Barber (in inglese) http://link.pearson. it/5236F26 > Il sito dedicato alla ricerca, da cui è possibile scaricare l’intero rapporto http://www.pearson.com/oceans.html