Scarica il PDF di iS magazine n°3

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ESPERIENZE
Sono le persone, le loro idee e i loro
progetti, che ogni giorno, nella scuola
e nella società, danno significato
e valore all’apprendimento. Conoscere
come lavorano, quali sono le passioni
e le ragioni che orientano il loro agire
è la via per trovare nuovi stimoli
e nuove direzioni.
RIFLESSIONI
Apprendimento è cambiamento.
E perché il cambiamento possa
assumere senso e significati
positivi è necessario che coinvolga
e contamini i saperi, che trovi
equilibrio fra tradizione e
innovazione, che metta al centro
i temi della cittadinanza e dell’etica.
RICERCHE
Il lavoro dell’editore è azione
quotidiana. Questo vuol dire
anche sperimentare, indagare,
collaborare con enti e
istituzioni, in Italia
e nel mondo. Condividere
i risultati delle nostre
ricerche è un modo
per essere in sintonia
e in dialogo con chi opera
nel campo dell’apprendimento.
MAGAZINE
Imparare è qualcosa
che va di pari passo
con la mancanza di paura.
Marco Paolini
> SAPERI
> FORMAZIONE
> AGGIORNAMENTO
> COMPETENZE
> CITTADINANZA
iS magazine è uno strumento
di dialogo, servizio,
condivisione.
Due numeri l’anno, in edizione
cartacea e in versione digitale,
scaricabili su computer,
tablet e smartphone.
NEWSLETTER
> INTERCULTURALITÀ
> IDENTITÀ
> COLLABORAZIONE
iS espresso è un
appuntamento mensile
di informazione e di
intervento: attualità,
approfondimenti,
resoconti delle ricerche
e delle attività in corso.
> DIALOGO
> RICERCA
> PROGETTAZIONE
> VALUTAZIONE
> INNOVAZIONE
> TECNOLOGIE
> LINGUAGGI
SITO WEB
is.pearson.it è l’indirizzo web
dove trovare tutti i materiali
del progetto iS, le espansioni
multimediali e gli approfondimenti.
editoriale
U
n lettore che decidesse di attraversare questo terzo numero di iS
affidandosi innanzitutto alle immagini, ai titoli e agli occhielli, potrebbe
porsi una domanda: sono la stessa scuola quella immortalata in Foto
di classe, lo straordinario reportage di Julian Germain - così familiare
a tutti noi, indiscutibile e quasi senza tempo - e quella di Mirandola, che reagisce
al terremoto inventandosi una nuova didattica in nuovi spazi; o quella di Radio
Rinascita, Radioimmaginaria, Radio Kreattiva, che accanto a banchi e lavagne
offre console, cuffie, sintetizzatori; o quella di BergamoScienza, che scommette su
studenti e insegnanti capaci di parlare di scienza al territorio. È ancora una classe
quella “capovolta”, la flipped classroom in cui l’apprendimento incomincia a casa
e la vera “lezione” è un’esperienza di laboratorio, di creatività e di immaginazione?
Sì, è la stessa scuola. Perché ciò che accomuna tutte queste dimensioni è
l’esperienza - unica, irripetibile, e per chi la sa amare anche magica – della
scommessa della formazione. Nel presentare iS, ci eravamo presi l’impegno di
andare al di là dei luoghi comuni e delle deprecazioni, pur spesso giuste, che
marcano il discorso pubblico sulla scuola. È quello che abbiamo cercato di fare
anche in questo numero, raccontando la ricchezza delle molte “scuole” che ci
circondano e la condizione giovanile con uno sguardo che vuole essere plurale
e aperto. Si dice talora che un elemento contraddistingue l’attuale generazione di
giovani: il fatto di avere dinanzi a sé un futuro peggiore di quello dei loro padri.
È così? Giovani senza futuro o giovani “in cerca di futuro”, come suggerisce il
titolo del nostro Dossier?
Tutti lamentiamo, e giustamente, la scarsità degli investimenti pubblici nella scuola
e nella formazione. Ma anche qui, la ricerca internazionale The Learning Curve
condotta da Pearson ci dice con molta nettezza una cosa importante e troppo
spesso sottovalutata: che il vero fattore decisivo e critico, nel determinare il
rendimento di un sistema scolastico, è il supporto della società civile alla scuola, e
in particolare la considerazione e il rispetto sociali di cui godono i docenti. Dunque,
non si tratta solo di inserire poste in un bilancio, ma di consapevolezza culturale e
di progettualità civile.
L’editore
Imparare è un verbo ricco di significati.
Imparare vuol dire migliorarsi,
crescere, vivere senza barriere.
Non solo a scuola ma ovunque,
e a qualunque età.
> SAPERI
> FORMAZIONE
> AGGIORNAMENTO
> COMPETENZE
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> INNOVAZIONE
> TECNOLOGIE
> LINGUAGGI
Una generazione in cerca
di futuro: formazione e valori
per affrontare la crisi
nel Dossier
Il nostro sogno?
Un mondo dove la scuola
sia di nuovo considerata maestra,
perché i buoni insegnanti
aiutano a crescere.
Un mondo dove anche chi è adulto
possa continuare a imparare
per realizzare i propri desideri.
Noi di Pearson ci crediamo.
A questo lavoriamo.
direzione
Massimo Esposti
Rivista aperiodica distribuita gratuitamente
nelle scuole, pubblicata da Pearson Italia S.p.A.
comitato editoriale
Marika De Acetis
Luciano Greco
Elena Grossi
Marina Loffi Randolin
Paolo Magliocco
Valentina Murelli
Si autorizza la riproduzione dell’opera purché
parziale e a uso non commerciale.
grafica
Antonella Regina
iS è un marchio di proprietà di Pearson Italia S.p.A.
Corso Trapani 16 -10139 Torino
ricerca iconografica
Cecilia Lazzeri
RI651800102L
Stampato per conto della Casa Editrice presso
Arti Grafiche DIAL, Mondovì (CN), Italia
correzione bozze
Federico Manicone
immagine di copertina
© Rene Mansi/Getty Images
L’editore è a disposizione degli aventi diritto
per eventuali non volute omissioni in merito
a riproduzioni grafiche e fotografiche inserite
in questo numero.
Tutti i diritti riservati
© 2013 Pearson Italia S.p.A.
www.pearson.it
[email protected]
sommario
Portfolio
Intervista
Shirin Ebadi
La mia vita tra violenza
e giustizia
Il premio Nobel per la Pace che
ha posto al centro della propria
vita la lotta per i diritti civili
e la democrazia
di Farian Sabahi
Julian Germain
Foto con classe
L’arte dei ritratti per scoprire il mondo
attraverso le scuole e gli occhi
degli studenti di ogni Paese
di Valentina Murelli
Esperienze: la scuola si confronta
Dialogo
La conoscenza ai tempi di Internet
Il filosofo Maurizio Ferraris incontra
Juan Carlos De Martin, ingegnere
di Marika De Acetis
Il sapere antisismico
Il caso di Mirandola: reinventare la scuola dopo il
terremoto e trasformare l’emergenza
in un’opportunità
di Valentina Murelli
L’unione fa la scienza
Quando gli studenti diventano divulgatori:
il caso del festival della scienza di Bergamo
di Eleonora Viganò
sommario
Esperienze: la scuola si racconta
Streaming, podcast e fantasia
Le web radio: piccole emittenti scolastiche che raccontano il mondo con le parole dei
ragazzi di Davide Coero Borga
La scuola senza confini
La scuola materna Diana di Reggio Emilia, un caso italiano di successo studiato in
tutto il mondo di Donato Ramani
La generazione in cerca del futuro
Otto riflessioni su problemi e opportunità che la crisi economica
ha posto sul tavolo dei giovani
ECONOMIA
> I giovani, centri di gravità di Luigi Campiglio
FILOSOFIA
> Senza vera formazione non c’è nemmeno futuro di Carlo Sini
DEMOGRAFIA
> Il peso del domani di Alessandro Rosina
DEMOGRAFIA
> Né sui libri né al lavoro. Ritratto dei NEET, categoria sospesa di Silvia Paris
ECONOMIA
> Tra precarietà e risposte fuori dal coro di Andrea Fumagalli
ECONOMIA
> Tre miti giovanili da sfatare, intervista a Stefano Zamagni di Paolo Magliocco
ANTROPOLOGIA > Immaginare il futuro per costruirlo di Sara Zambotti
PSICOLOGIA
> Alla ricerca di un nuovo umanesimo di Gustavo Pietropolli Charmet
DOSSIER
Benchmark
L’importanza del confronto
Le ricerche mensili del
programma PISA: uno studente
straniero affronta gli stessi
problemi in tutto il mondo?
di Stefano Glenzer
sommario
Esperienze: oltre la scuola
Eppur si muove
I semi della legalità
Formazione e cultura: così i ragazzi lavorano
con l’associazione Libera per contrastare la mafia
di Simona Regina
Il successo nelle mani
Studiare e lavorare nell’eccellenza italiana:
le iniziative di Altagamma
di Marina Loffi Randolin
Sperimentare la pace attraverso il teatro
Il Teatro Arcobaleno, un progetto interculturale
per dimostrare che la pace in Palestina è possibile
di Silvia Paris
La didattica “capovolta”
Focus Tech
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Multimediale e nuove modalità didattiche:
studiare a casa, esercitarsi a scuola
di Fabio Serenelli
sommario
Cittadinanza
Uguali ma diverse
Quando la cittadinanza
diventa una questione
di genere
di Franca Bimbi
Laboratorio Pearson
Metti la scuola al centro del mondo
Il progetto The Learning Curve di Pearson confronta per la prima volta
i sistemi educativi di oltre 50 Paesi nel mondo
di Riccardo Oldani
A che punto è l’Italia
I punti di forza e le debolezze del sistema formativo italiano che emergono
dal confronto internazionale del progetto The Learning Curve
di Riccardo Oldani
La formula della buona istruzione
I fattori chiave della formazione in un mondo in cui il baricentro
si sta spostando verso l’Oriente
di Donato Ramani
PORTFOLIO
IL CARCERE CHE CUSTODISCE L’ANTICO SAPERE
Opera, Milano
Foto: Matteo Bazzi/Ansa
Seghetti, lime, pialle, sgorbie, scalpelli, morsetti, righe e squadre, legni; e poi più di
settecento ore di formazione a fianco di maestri liutai di Cremona, dove il violino
è nato oltre quattro secoli fa su impulso di famiglie di artigiani che si chiamavano
Stradivari, Amati, Guarneri del Gesù. Novelli Mastro Geppetto – come dice uno di
loro - sono a oggi otto detenuti del grande Reclusorio di Opera, presso Milano, che
dal 2010 animano il Laboratorio di Liuteria della prigione, gestito dalla Cooperativa
sociale Opera in Fiore. Altri dieci hanno avviato l’anno scorso un analogo itinerario.
Davvero è una scommessa vinta quella della casa di pena lombarda: mettere in
piedi un’attività di altissimo livello nonostante la concorrenza sul mercato di
strumenti fabbricati serialmente in Cina; proporre l’apprendimento di un mestiere
raffinato e di un impegno duro. Gli esiti sono andati al di là dell’immaginabile; i
carcerati ci hanno messo l’anima e ne sono stati ricompensati, per la passione che
ne è nata, perché l’iniziativa si sostiene economicamente, perché i violini usciti dalle
loro mani hanno risuonato in concerto, anche tra le mura del penitenziario.
PORTFOLIO
« VAMOS A VER EL BIBLIOBURROS!»
La Gloria, Colombia
Guarda il video del
Biblioburros
http://link.pearson.
it/2E0E3CE5
Foto: Scott Dalton/
The New York Times/Contrasto
Luis Soriano, insegnante alle scuole elementari, ha due validi e insoliti
assistenti: Alfa e Beto. Si tratta di due muli che lo aiutano a portare i libri
nell’entroterra colombiano durante i fine settimana, per raggiungere quei
bambini che non possono andare a scuola. Padre di tre figli, Soriano ha
raccolto migliaia di libri che conserva in casa in alte pile.
Di volta in volta, sceglie quelli più appropriati da portare in giro: favole
per i bambini più piccoli e romanzi per gli adulti, che distribuisce e legge
ad alta voce nei sabati e nelle domeniche che passa con la gente della provincia
Magdalena, insegnando anche a leggere e scrivere. Non si accontenta di quello
che trova: scrive a scrittori e poeti più famosi chiedendo loro di inviargli le
ultime opere. Con il suo Biblioburros, letteralmente “libreria a dorso di muli”,
raggiunge da oltre dieci anni i paesi delle zone di montagna, isolate e devastate
dalla guerriglia. Per lui i libri sono anche un modo per creare una connessione
tra la sua gente e il resto del mondo.
PORTFOLIO
I VIDEOGIOCHI PER IMPARARE A USARE IL PC
Atene, Grecia
Foto: Francesco Anselmi/
Contrasto
Si possono trasformare i tanto vituperati videogiochi in uno strumento per far
apprendere qualcosa a bambini e ragazzi? La strada più battuta è quella di proporre
videogiochi educativi. Stavros Messinis ne sta tentando un’altra: usare le battaglie
tra mostri e alieni come stimolo per indurre i giovani a imparare a programmare,
a capire e utilizzare la lingua dei computer anziché usarli passivamente. Nella Grecia
così duramente colpita dalla crisi, Messinis e altri soci hanno aperto CoLab, che
è anche uno spazio di lavoro condiviso, dove ciascuno può sviluppare un proprio
progetto. Una delle iniziative di CoLab è stata la realizzazione di workshop e corsi
per bambini, possibilmente accompagnati da genitori (come si vede in questa foto;
Messinis è in basso a destra): nel giro di una mattina i ragazzini passano dal saper
scrivere i comandi per muovere un animaletto sullo schermo alla creazione di un
vero e proprio videogioco personale, inventato da loro. Il linguaggio di programazione,
estremamente semplice, si chiama Scratch ed è stato messo a punto al MIT, il
Massachusetts Institute of Technology, uno dei santuari dell’innovazione tecnologica.
INTERVISTA
intervista
Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi
è cresciuta nell’Iran dello scià, poi in quello
degli ayatollah, infine ha scelto l’esilio.
Non ha mai smesso di lottare per il rispetto
della giustizia e dei diritti umani, ma anche
di amare il suo Paese.
«La famiglia è ciò che più ha contato nella
mia formazione»
L
a famiglia, la religione, la scuola, la cultura, ma anche la politica e l’amore per la
propria patria. Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi racconta in questa intervista a Farian Sabahi, grande esperta del mondo islamico, l’avventura della sua
formazione e della sua vita, chiusa, come dice il titolo della sua autobiografia,”tra
rivoluzione e speranza”. Ebadi è cresciuta tra l’Iran dello scià e quello della rivoluzione khomeinista, lontana da entrambi questi modelli e tuttavia profondamente radicata nel proprio Paese, al quale non smette mai di pensare e per il quale continua a lottare anche ora
dall’esilio volontario che ha scelto dopo l’elezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. Nel
2003 il Comitato per il Nobel l’ha scelta “per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a
favore della democrazia”. È stata la prima donna iraniana e la prima musulmana a ricevere
il Nobel per la Pace. Magistrato, costretta a lasciare il proprio incarico dopo la rivoluzione
degli ayatollah, giurista, avvocato, scrittrice, Ebadi è pacifista e battagliera e guarda alla
realtà con sguardo lucido e disincantato, ancorata sempre al principio della legalità e della difesa dei diritti. Un dato colpisce nel suo
“La fede e il senso del dovere
percorso esistenziale: la capacità di usare le circostanze, spesso avfanno parte della mia cultura”
verse, per una costante, progressiva presa di coscienza personale. In
altri termini, farsene modificare senza esserne piegati, apprendere
dentro la loro concretezza ad approfondire e mantenere vive le ragioni di una responsabilità assunta: a partire dal contesto familiare, all’università, alla carriera da magistrato,
all’obbligato mutamento di rotta (e di mestiere).
• Nella pagina
precedente,
Shirin Ebadi
autografa un suo
libro durante uno
dei suoi impegni
pubblici per la difesa
dei diritti umani.
Foto: Saul Loeb/AFP/Getty
Images
In questa pagina,
le manifestazioni del
1979 che portarono
alla caduta dello
scià e all'ascesa
dell'ayatollah
Khomeini.
Foto: Gamma-Keystone
Leggendo l’incipit della sua autobiografia, in cui racconta le reazioni della nonna
e del resto della famiglia in occasione del colpo di Stato organizzato dalla Cia
contro il premier Mossadeq, che nel 1951 aveva osato nazionalizzare il petrolio
iraniano, sembra che la politica non abbia avuto un ruolo, se non marginale, nella
sua infanzia e adolescenza. A conti fatti, quanto conta la politica nella sua formazione?
Mio padre era uno dei sostenitori di Mossadeq e con il golpe del 28 mordad (19 agosto
1953, ndr) perse il lavoro. Venne così meno il reddito principale della famiglia, e sentimmo
tutto il peso di quell’evento politico. Al tempo dello scià avere punti di vista diversi poteva
avere conseguenze disastrose: le autorità non ti permettevano di continuare gli studi e
trovare lavoro, ti creavano tantissime difficoltà e, proprio per questo, mio padre non aveva piacere che i suoi figli fossero in qualche misura coinvolti in politica.
intervista
Da bambina, la sua vita era condizionata dai problemi di salute della mamma. Lei
scrive che fu la paura che lei morisse a risvegliare in lei la spiritualità. Ma sono
tante altre le cose che lei ha imparato in famiglia, senza accorgersi di vivere in un
ambiente speciale. Perché, col senno di poi, la sua famiglia è stata tanto importante per la sua formazione?
Quando sei bambino non ti rendi conto che le famiglie sono diverse l’una dall’altra. Quando sono diventata grande, ho capito che mio padre era un intellettuale, aveva la mente aperta e cresceva noi figlie come il maschio,
“Per i miei genitori l’obiettivo
senza fare differenze di genere. Percepii un divario tra i miei genitori e quelli degli altri. Anche perché i miei genitori si amavano
era ottenere per noi figli
tantissimo e quel sentimento era diverso da quello che univa tante
la formazione migliore”
altre coppie.
• L'incontro negli Stati
Uniti tra Shirin Ebadi
e il Dalai Lama Tenzin
Gyatso, Premio Nobel
per la Pace nel 1989.
Foto: Taylor Hill/Getty Images
La religione ha avuto un qualche ruolo, positivo o negativo, nella sua formazione?
La fede è parte della cultura, ma la cultura della mia famiglia era fatta anche di senso del
dovere. Così era mio padre, così sono io, così sono i miei fratelli. La religione e il senso del
dovere fanno parte della mia cultura, dei principi appresi in famiglia. Lasciate che vi racconti un aneddoto: il primo anno di lavoro, appena diventata giudice, avrei voluto andare
intervista
La lunga strada dei diritti umani:
la fotografia di Amnesty International del 2011
> Nel 2011 la libertà di espressione ha subito restrizioni in almeno 91 Paesi. Ciò nonostante ci sono
state molte manifestazioni e Internet è stato utilizzato per chiedere democrazia, libertà e giustizia.
Molti governi hanno risposto con la violenza: in almeno 101 Paesi si è fatto ricorso a torture e
maltrattamenti.
> Secondo l’Onu almeno 55 gruppi armati e forze governative arruolano bambini come soldati o ausiliari.
> In 21 dei 198 Paesi del mondo sono state eseguite condanne a morte. Meno di un terzo rispetto
a 10 anni fa.
> Almeno 18.750 persone erano nei bracci della morte alla fine del 2011. Esecuzioni pubbliche hanno
avuto luogo in Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita e Somalia.
> In Asia la libertà di espressione ha subito restrizioni; poeti, giornalisti, blogger e oppositori sono
stati ridotti al silenzio, l’uso di Internet è stato sottoposto a forti controlli.
> In Egitto, Libia e Tunisia, migliaia di prigionieri politici sono stati rilasciati e la libertà di espressione
è stata ampliata. Tuttavia, sono proseguite le violazioni che avevano luogo sotto i precedenti regimi,
come la tortura e l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti e le restrizioni alla libertà di parola.
> I difensori dei diritti umani in America Latina e nei Caraibi hanno subito minacce, intimidazioni
e attacchi mortali.
> In Medio Oriente e Africa del Nord la radicata discriminazione contro donne, minoranze e migranti
resta diffusa. Sono aumentate le esecuzioni capitali, in particolare in Iraq, Arabia Saudita, Iran e Yemen.
in vacanza con la famiglia nel mese di agosto. Ma il mio superiore non era d’accordo e
mi chiese di prendere le ferie a settembre, perché avevo appena preso servizio. Ero molto
arrabbiata, tornata a casa raccontai quanto successo. Mio padre difese il mio superiore,
dicendo che per anni lui non aveva preso ferie e, se il mio lavoro era necessario, dovevo
restare al mio posto.
Che mestiere esercitava suo padre?
Mio padre era un consulente giuridico, a capo dell’ufficio che registrava le aziende.
Lei è una donna particolare. Che cosa ha contato di più nella sua formazione?
Il fattore che ha pesato maggiormente nella mia formazione è stata la famiglia. Sono
nata e cresciuta in una famiglia musulmana praticante. Ma i miei genitori, che erano
degli intellettuali, decisero di iscriverci in una scuola zoroastriana, perché a quel tempo
era l’istituto migliore. Per i miei genitori, musulmani, l’obiettivo era ottenere per i figli la
formazione migliore, anche se la scuola dove andavamo apparteneva a una minoranza
religiosa. Questo era così importante nella mia vita che mi sono sempre battuta per le
minoranze religiose e oggi difendo la minoranza bahai, che nella Repubblica islamica non
difende nessuno perché prendere le loro parti comporta un costo non indifferente.
intervista
Più in generale, quali sono le cose importanti nella formazione di una persona, a tutti i livelli, maschio o femmina che sia? A parte la famiglia, quali
ingredienti sono importanti per la crescita di un
bambino?
Ho un nipote di nove mesi, si chiama Radin e vive a
Boston. Credo che l’ingrediente più importante per
la sua formazione sia l’amore, perché se i bambini
crescono con l’amore sono loro stessi a trovare la
strada.
Dopo tre, quattro anni vissuti all’estero, cambiando completamente ambiente, si è modificato
il suo giudizio sulle cose che più hanno contato
nella sua formazione?
Non credo di essere cambiata, lavoro solo di più,
perché nel mio Paese la situazione continua a peggiorare.
Nel 1964 lo scià aveva espulso l’ayatollah Khomeini che aveva osato protestare contro una serie
di misure prese dalla monarchia: quali sono le sue
memorie di allora?
Ricordo come la gente andò a manifestare per strada, tra loro c’erano alcuni sostenitori di Khomeini. Si
sparava per strada, le vie erano piene di poliziotti. Le
mie sono memorie confuse, risalgono all’adolescenza. L’unico ricordo nitido è di una mattina di scuola,
alle superiori: la porta dell’istituto era chiusa, pensai
di aver fatto tardi, anche se in genere il portone rimaneva sempre aperto, bussai e il bidello mi aprì subito dicendo che, a causa dei disordini,
il preside temeva che ci potessero essere problemi anche per noi studenti.
Il 1965, quando lei si iscrisse a legge e iniziò a frequentare l’università, fu un
anno di svolta, perché cominciò a frequentare l’ambiente intellettuale dell’ateneo di Teheran. La situazione era tesa, ma per lei la politica interna era
una materia nuova. Quali conseguenze ebbe quella tensione sui suoi studi?
Quando mi iscrissi all’università dar contro allo scià era di moda ed era percepito in modo
positivo, perché tutti gli intellettuali si vantavano di essere contro la monarchia. Contestare era un modo di esprimersi, ma aveva dei limiti, nel senso che in prima battuta i
giovani e gli intellettuali contestavano le autorità e, solo in seconda battuta, cercavano di
motivare questo loro atteggiamento.
• L'Iran oggi: una
manifestazione
anti Usa davanti
all'ex ambasciata
statunitense nel
novembre 2012.
Foto: Atta Kenare/AFP/
Getty Images
Com’erano i suoi compagni di corso, e in quale misura vi siete influenzati l’un l’altro?
Di molti di loro ho un buon ricordo. Con i compagni delle elementari, delle medie, delle
superiori e dell’università ho mantenuto i rapporti, continuando a frequentarci, nel corso
degli anni.
intervista
Nel marzo del 1970, a poco più di vent’anni, lei intraprese la carriera di magistrato. Giovanissima, perché il sistema giuridico iraniano non stabiliva un’età
minima per ricoprire quella posizione. L’anno dopo, nel 1971, lo scià organizzò
a Persepolis celebrazioni grandiose per festeggiare i 2500 anni della monarchia, tessendo una continuità tra la dinastia Pahlavi e l’impero achemenide
di Ciro il Grande. Tracciando un confronto con i programmi scolastici della
Repubblica islamica, quanto hanno imparato a scuola le sue figlie dell’antico
impero persiano?
Purtroppo dopo la Rivoluzione islamica del 1979 le autorità hanno cercato di affermare
che la storia dell’Iran inizia con la conversione all’Islam, nel VII secolo dell’era volgare,
e hanno cercato di celare il passato preislamico. Quando quel passato viene nominato,
lo si fa sottotono.
In una limpida e gelida mattina della primavera 1975, un giovane ingegnere di
nome Javad Tavassolian entrò nell’aula di tribunale che lei presiedeva e le si avvicinò con il pretesto di chiedere il suo parere su alcune questioni legali. Javad
aveva trentatré anni, lei ventotto. Dopo tanti anni di matrimonio, come pensa di
essere riuscita a conciliare il suo carattere forte e indipendente con le esigenze di
compromesso di ogni unione?
Nella vita famigliare mi sono sempre comportata come una moglie e una madre tradizionale: ho sempre cucinato, mi sono sempre occupata delle bambine, sia quando erano
piccole sia nel loro percorso scolastico. In questo senso, sono stata una donna tradizionale. Anni fa, mentre preparavo loro dei panini, mio marito mi fece notare che ormai erano
adulte e potevano farseli da sole, ma io insistei: per me era importante che le mie figlie
sapessero di avere una madre, anche da grandi.
La rivoluzione del 1979 e le tante aspettative, deluse. La Repubblica islamica vieta
alle donne di ricoprire la carica di giudice: com’è riuscita a cambiare mestiere, e
che cosa ha dovuto imparare per passare dalla magistratura alla professione di
avvocato?
Secondo le leggi in vigore in Iran, quando completi la Facoltà di Giurisprudenza puoi diventare sia avvocato sia giudice. Per diventare avvocato devi seguire un praticantato di
diciotto mesi. Se invece sei stato giudice per cinque anni, non devi fare pratica ma puoi
diventare subito avvocato. Nel mio caso, ero stata giudice per parecchio tempo, ma le
autorità della Repubblica islamica non mi permisero di esercitare la professione di avvocato perché avevo osato criticare le nuove leggi entrate in vigore dopo la Rivoluzione. Ho
dovuto aspettare sette anni prima di poter esercitare l’avvocatura!
Qual è la violenza più grande che abbia dovuto subire?
Più di tutte, a colpirmi è stata la violenza delle leggi approvate dalla Repubblica islamica
dopo la Rivoluzione del 1979. Noi donne abbiamo combattuto per cacciare lo scià, ma
pochi mesi dopo il cambio di regime abbiamo perso tutti i nostri diritti.
Quando lessi per la prima volta queste leggi discriminatorie pensai di non aver capito;
dopo una seconda lettura ipotizzai che ci fosse un errore; alla terza mi arrabbiai tantissimo e mi colse un’emicrania terribile. Da quel momento, ogni volta che mi irrito mi viene
un fortissimo mal di testa.
intervista
Lei è stata premiata con il Nobel per il suo impegno “per i diritti umani, per la
democrazia e soprattutto per le donne e i bambini”. Pensa che, a parte le dichiarazioni di principio, l’Occidente sia davvero sensibile a questi temi?
Non ne sono sicura fino in fondo, ma credo che dobbiamo continuare a parlare di questi temi.
Nei dieci anni trascorsi dal suo Nobel lei si è impegnata molto, anche nella campagna di Science for Peace del professor Veronesi e in tante altre iniziative. Quale
risposta sente a questi temi? Qualcosa sta veramente cambiando?
Sì, qualcosa sta cambiando, ma negli ultimi tempi si è parlato troppo del controverso
programma nucleare iraniano, delle sanzioni e dell’embargo internazionale, dimenticando
il rispetto dei diritti umani, troppo spesso violati.
Lei è un ex magistrato e una donna di legge. Si può dire che il suo sia un impegno
per l’affermazione della giustizia? E quale significato dà a questa parola?
Non si può spiegare che cosa è la giustizia, bisogna sentirla. I giuristi sostengono che
quando una persona reclama giustizia, la deve ottenere. Dovremmo porci un’altra domanda: che cosa è un tuo diritto? Come viene formulato? Molto dipende da chi reclama
i diritti, perché qualcuno chiede poco, e qualcuno chiede troppo.
La giustizia si può insegnare?
Si possono insegnare i percorsi per giungere alla giustizia. La giustizia ha un valore molto
alto. Arrivare alla giustizia forse non è possibile, è un obiettivo irraggiungibile nel senso
pieno del termine. Per esempio, se una persona uccide, intenzionalmente, un’altra persona, può essere condannata fino a quindici anni di carcere. Questa è giustizia? Secondo
alcuni sì. Ma se questa persona ha figli, è giustizia mettere in carcere il padre tanto a
lungo?
Lei parla molto delle sue esperienze in patria e della situazione del suo Paese.
Pensa di essere capita? L’Occidente ha gli strumenti per comprendere le vicende
degli altri?
Spero capiscano, davvero! Qualche volta, parlando con i mezzi di comunicazione occidentali, mi rendo conto che la rappresentazione delle donne iraniane ha ben poco a che vedere
con la realtà: ci raffigurano come analfabete, pensano che parliamo arabo! Gli occidentali
non sempre hanno un’immagine corretta dell’Iran. Dopo il 2009, e la durissima repressione
nei confronti degli attivisti del movimento verde scaturito all’indomani dei brogli elettorali, ho cominciato a scrivere un libro. Sono le mie memorie, in cui racconto i miei dieci anni
dopo il Nobel, soffermandomi sui cambiamenti dell’Iran in questi ultimi tempi.
•••
> L’autobiografia scritta da Shirin Ebadi in occasione del conferimento
del Premio Nobel (in inglese) www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/
laureates/2003/ebadi-autobio.html
> Il sito di Human Rights Watch, osservatorio internazionale sulla situazione
dei diritti umani www.hrw.org/
> Il sito di Amnesty International www.amnesty.org/
Il video del discorso di Shirin
Ebadi per il conferimento del
Premio Nobel (in inglese)
http://link.pearson.it/B7076D5F
INTERVISTA
intervista
Julian Germain ha girato tutto il mondo scattando ritratti dei ragazzi
nelle loro aule, dal Minnesota al Qatar, dalla Russia al Bangladesh.
«Ho scoperto che la scuola occupa pochissimo spazio nelle arti visive,
nonostante la sua importanza» racconta. Ma questo viaggio alla scoperta
del pianeta scuola gli ha svelato anche come la fotografia possa parlare
del futuro, anziché immortalare il passato
N
egli anni Ottanta il fotografo inglese Julian Germain cominciò a lavorare a un
progetto sul declino industriale del Galles del Sud, zona di miniere e acciaierie in
dismissione, poi culminato nel suo primo libro, Steel Works. Mentre rifletteva sul
destino di lavoratori e famiglie, cominciò a chiedersi quale sarebbe stato il futuro
scolastico dei bambini, della cui educazione nessuno fino a quel momento si era preoccupato, visto che il lavoro era comunque assicurato. L’idea di un progetto sulla scuola nacque
allora nella mente di Germain, per poi risvegliarsi nel 2004, il primo giorno di scuola della
figlia. «Non mettevo piede in un’aula dal 1979 e solo in quel momento ho realizzato che da
adulti tendiamo a dimenticare quello che abbiamo vissuto a scuola, che pure è il luogo dove
per anni abbiamo passato la maggior parte del nostro tempo» racconta il fotografo. Che si è
anche trovato a pensare quanto sia strano che, nonostante l’importanza della scuola nella
vita di ciascuno e per la società, essa occupi pochissimo spazio nelle arti visive.
Da queste considerazioni è nato un progetto che ha portato Germain a realizzare oltre 450
ritratti di classi (tutte di scuole pubbliche, da quelle d’infanzia alle superiori) in 20 Paesi
del mondo. «Un viaggio un po’ casuale, sull’onda delle occasioni che si presentavano. Non
scientifico, ma artistico» precisa. Il risultato di questo lavoro è ora raccolto in un libro intitolato Classroom Portraits, edito nel Regno Unito da Prestel: una serie di intriganti ritratti da
osservare con attenzione, perdendosi nelle espressioni intense di ragazze e ragazzi e nella
miriade di dettagli del loro ambiente. “Foto di classe”, già, ma forse sarebbe più corretto parlare di “foto con classe”. Perché nelle immagini scolastiche tradizionali ci sono gli studenti,
ma manca il loro ambiente quotidiano: le fotografie sono scattate in genere in palestra oppure nell’atrio. «Io invece ho scelto di ritrarre tutta la classe e proprio in momenti di attività»
afferma Germain. In pratica, il fotografo entrava in aula durante una lezione, spiegava il suo
progetto e poi cominciava ad allestire il set, in modo che i ragazzi prendessero confidenza con la sua presenza. Nell’ultimo quarto d’ora, infine, aiutava gli studenti a sistemarsi in
modo che ciascuno fosse ben visibile nell’inquadratura. «Alla fine, chiedevo loro di tenersi
pronti per lo scatto e di guardare in camera» racconta.
• Nella foto di apertura:
ragazzi del secondo
anno della scuola
secondaria Omar Al
Mokhtar Boy’s School,
Sheraton, Sana'a,
Yemen, fotografati il 7
maggio 2007.
Foto: Julian Germain
Il risultato - una lunga sequenza di occhi che scrutano l’osservatore, quasi mai timidi ma
consapevoli e letteralmente spalancati sul futuro - intrappola. «La fotografia per natura
congela il passato. In questo caso, però, le immagini non possono che parlare di futuro, quello
che attende i bambini e gli adolescenti ritratti. Tra di loro, c’è sicuramente qualcuno che diventerà miliardario e qualcuno che finirà in prigione. Qualcuno purtroppo morirà, mentre altri
intervista
• In questa pagina:
ragazzi della Waseda
Prep (Cram) School,
di Tokyo, Giappone,
fotografati
il 7 settembre 2009.
Foto: Julian Germain
Nella pagina
successiva:
bambini della
Openbare Basisschool
de Kruikplank,
Drouwenermond,
Drenthe, Olanda,
fotografati
il 19 giugno 2006.
Foto: Julian Germain
diventeranno medici, cuochi, fotografi o guidatori di risciò». A pensarci è quasi una vertigine.
Altri aspetti balzano agli occhi sfogliando il libro. Il primo è l’assenza totale dei docenti.
«Hanno troppa coscienza di sé: in un’immagine di questo tipo avrebbero attirato tutta l’attenzione» afferma il fotografo. «Eppure, in un certo senso non sono assenti, perché la macchina
fotografica assume esattamente il loro punto di vista e così facendo ne esalta l’importanza.
Del resto quello che più mi ha colpito in questo viaggio è proprio quanto sia fondamentale la
figura dell’insegnante: in classe possono esserci LIM, computer e altre tecnologie, ma il suo
ruolo rimane insostituibile».
A sorprendere è anche la grande universalità delle immagini. Chiaro che ci sono differenze:
molte classi sono miste, altre solo maschili o femminili, alcune sono super attrezzate, altre
poverissime, poco più di un’area in terra battuta, in alcuni casi gli studenti indossano un’uniforme, in altri no. Ma a parte alcune rare eccezioni, nessuno dubiterebbe che quella ritratta
non è altro che la scuola, con la sua struttura base e i suoi tratti caratteristici (l’insegnante,
un gruppo di alunni della stessa età, una lavagna, libri e quaderni), oggi come era decine di
anni fa e più indietro ancora. «Al punto», osserva Germain «che una reazione comune in chi
osserva, me compreso, è ritrovarsi catapultato nel suo passato di studente, a ripensare la sua
personale esperienza di scuola».
•••
intervista
Il libro
Julian Germain, Classroom Portraits
2004-2012, Prestel Publishing, 2012.
Prefazione di Leonid Illyushin, professore
di Pedagogia all'Università statale di
San Pietroburgo. Il volume ospita 87
ritratti di classi, scattati in Regno Unito,
Argentina, Brasile, Perù, Cuba, Paesi
Bassi, Spagna, Germania, Ungheria,
Russia, Bangladesh, Yemen, Bahrain,
Qatar, Etiopia, Nigeria, Stati Uniti, Taiwan,
Giappone. Alla serie di immagini seguono
una ventina di pagine con i dati ricavati
da alcuni questionari che Germain
ha consegnato a bambini e ragazzi
fotografati, contenenti sia domande
scherzose o neutre (Che colore preferisci?
Che cosa vuoi fare da grande?),
sia domande più serie
(Credi in Dio? Qual è il tuo eroe?).
«Una provocazione sulla fotografia» spiega
l'artista. «Perché se è vero che ritratti
pieni di dettagli come quelli presentati nel
libro possono raccontare molto della realtà,
è altrettanto vero che non raccontano tutto:
le risposte ai questionari forniscono molti
livelli di informazione in più».
ESPERIENZE:
la scuola si confronta
esperienze: la scuola si confronta
S
uccede che all’improvviso la scuola non c’è più. Che una scossa di terremoto,
per esempio, la ferisce così profondamente da renderla inagibile. Chiusa, per
un periodo più o meno lungo o per sempre, alle lezioni di matematica e italiano, alle ore di educazione fisica, ai consigli di classe, agli intervalli passati nei
corridoi, alle fughe nei bagni. E allora bisogna decidere che cosa fare, come tenerla in
vita nonostante tutto, come inventarsi giorno per giorno un nuovo modo di “fare scuola senza scuola”. Senza l’edificio, le mura, le aule. È quello che è successo all’Istituto
di istruzione superiore Giuseppe Luosi di Mirandola, in provincia di Modena: quattro
istituti (tecnico economico, professionale commerciale, liceo linguistico e liceo classico) e due sedi, entrambe fortemente danneggiate dai sismi che il 20 e il 29 maggio
2012 hanno colpito l’Emilia Romagna. Giusto il tempo di risollevare uno sguardo ancora
annebbiato dalla polvere dei crolli, di tirare un enorme sospiro di sollievo quando si
verifica che nessuno manca, ed è subito tempo di rimboccarsi le maniche, di chiudere
l’anno e di cominciare a lavorare per la riapertura in autunno. Non da soli, ovviamente.
Gli enti locali - Comune, Provincia e Regione - l’hanno detto subito: si deve ripartire
dalle scuole, ci si deve rimettere in movimento sulle gambe dei ragazzi. E l’impegno non
è stato solo formale, molti lavori sono già avviati. «Nel caso del Luosi, ci vorrà circa un
anno per la ristrutturazione di uno degli edifici e poco più per la costruzione di una nuova
struttura che sostituisca il convento della chiesa di San Francesco, in cui era ospitato il
liceo classico, non più utilizzabile» spiega il dirigente scolastico Giorgio Siena. Intanto,
• I ragazzi dell'Istituto
Luosi che hanno
realizzato gli incontri
del ciclo "Sapere è
antisismico".
Nella pagina
precedente:
uno degli incontri
al Palazzetto
dello Sport.
Foto: Istituto Luosi
esperienze: la scuola si confronta
La scuola chiama, il territorio risponde
«Sorprendente!» Così Anna Benati, docente di economia aziendale dell'Istituto Luosi
di Mirandola e coordinatrice delle attività di stage, definisce la risposta che le aziende
del territorio hanno dato quando sono state interpellate sulla possibilità di ospitare
studenti per un periodo di lavoro.
«Chiunque si trovasse in condizioni minime per collaborare l'ha fatto con entusiasmo,
magari accogliendo i ragazzi nei container che costituiscono le sedi temporanee delle
attività. E anche questo per i nostri studenti è stato formativo: vedere che si continua
a lavorare, sebbene in situazioni di disagio. Perché i container - ora che ci facciamo
lezione dentro possiamo ben dirlo - sono decisamente piccoli e scomodi, però spesso
rappresentano l'unico posto in cui si può riprendere il lavoro».
Il bilancio degli stage post-sisma del Luosi è decisamente positivo: ben 90 aziende
sono state coinvolte, ospitando in tutto più di 200 studenti. «Spesso si è trattato di
partner storici della scuola, soprattutto aziende del distretto biomedicale di Mirandola,
però abbiamo attivato anche molte nuove collaborazioni, in un bacino di riferimento
più ampio del solito» spiega la docente. Per la prima volta, per esempio, i ragazzi
hanno potuto frequentare gli uffici della Camera di commercio di Modena, della
Procura della Repubblica, dell'ordine degli avvocati e della sede locale di Confindustria.
«Nuove opportunità di conoscenza e formazione, che abbiamo tutta l'intenzione di
portare avanti anche nei prossimi anni».
• I danni provocati
dalle scosse del 20 e
29 maggio 2012 agli
Istituti superiori di
Mirandola.
Foto: Comune di Mirandola
lo scorso novembre sono arrivati i moduli provvisori della
Regione: i container prefabbricati che per un po’ saranno
la nuova casa dei 1150 studenti e dei 90 tra insegnanti e
tecnici del Luosi. E prima dell’arrivo dei container? Come
se la sono cavata ragazzi e docenti fino ad allora, cioè
per ben due mesi senza una struttura fisica di riferimento?
Semplice: trasformando un grandissimo disagio in un’opportunità. «È stata l’occasione di fare tutto quello che non
avremmo mai osato fare in situazioni normali» dice Siena,
parafrasando Woody Allen. Potenziando percorsi e progetti
già rodati, come gli stage lavorativi, e soprattutto sperimentando, con un mix di flessibilità e creatività - e l’insostituibile aiuto del territorio - nuove modalità didattiche.
Il primo passo è stato una nuova organizzazione degli orari, per sfruttare al meglio gli spazi disponibili: le aule di
una scuola media, gli spogliatoi del palazzetto dello sport,
le sale di un ristorante. Così alcune classi hanno fatto lezione solo al pomeriggio, mentre per altre si è scelta una
settimana corta, di tre giorni alternati, con orario verticale
dalle 8 alle 17. Poi c’è stata un’accelerazione sull’introdu-
esperienze: la scuola si confronta
zione di nuove tecnologie. «Avevamo già pensato di cominciare a usare i tablet, un po’
per ridurre il peso dei libri, un po’ per sfruttare le opportunità di condivisione dei materiali offerte dalle piattaforme digitali» racconta Siena. «Le difficoltà logistiche ci hanno convinti a buttarci subito nel progetto, attivandolo in alcune classi». E ancora: una
potente riorganizzazione delle esperienze extra-scolastiche, come gli stage lavorativi
o quelli linguistici all’estero. Già da diversi anni il Luosi mette in atto, soprattutto per
l’istituto tecnico e quello professionale, una politica di alternanza scuola-lavoro, che
porta i ragazzi a frequentare uno stage di almeno un paio di settimane in un’azienda del territorio. Viste le circostanze, la scuola
ha chiesto alle aziende di concentrare tutti gli stage a settembreottobre e di prolungarne la durata: molti studenti hanno lavorato
fuori classe per quattro o cinque settimane. E oltre a contatti già
solidi, se ne sono creati di nuovi. «Da un paio d’anni una classe del
liceo classico segue un corso di introduzione all’archeologia, così
abbiamo cercato di portarla a lavorare in uno scavo. E ci siamo
riusciti» racconta Franco Verri, docente di storia e filosofia. Per
due settimane, i ragazzi hanno frequentato il parco archeologico
romano di Suasa, in provincia di Ancona, ospiti del Comune di
San Lorenzo in Campo: hanno aiutato a pulire il sito e i reperti
del museo, collaborato alla costruzione di un muretto di rispetto,
lavorato al restauro di un mosaico, scoprendo la componente pratica del mestiere di archeologo. «Pensavamo già da un po’ a uno
stage di questo tipo: sono state le condizioni create dal sisma a spingerci ad attivarlo»
commenta Verri.
Sembra tanto, ma non è ancora tutto. Anzi, forse manca il pezzo forte della proposta
del Luosi: l’organizzazione di un ciclo di 15 conferenze dal titolo programmatico Sapere
è antisismico, che per altrettante mattine ha impegnato gli studenti in un nuovo modo
di fare lezione. Due gli obiettivi principali dell’iniziativa, come spiega Giorgio Siena:
«Da un lato, abituare gli studenti a lezioni di tipo universitario e, dall’altro, metterli in
contatto con figure importanti del territorio». I relatori delle conferenze (dedicate per lo
più a temi di natura economica o filosofica) non erano casuali: spesso si trattava di imprenditori della zona o di docenti universitari che nel loro lavoro di ricerca si occupano
del territorio emiliano. Così, per esempio, si è parlato del distretto biomedicale del modenese (il più importante d’Italia), di importazioni ed esportazioni nell’economia della
provincia di Modena, delle specializzazioni dei distretti industriali nel mercato globale.
• I prefabbricati che
hanno accolto gli
studenti dal
novembre 2012.
Foto: Istituto Luosi
Un modo per far affacciare i ragazzi sul mondo reale e sulle prospettive del mercato del lavoro. Ma anche un modo per responsabilizzarli fortemente, perché tutto
il ciclo è stato gestito proprio da un gruppo di studenti, come attività per uno stage sull’organizzazione di eventi, svolto in collaborazione con la Fondazione scuola
di musica di Mirandola e la locale radio Pico. I ragazzi hanno preso contatto con
i relatori, ne hanno studiato il curriculum, li hanno presentati alla platea e hanno curato le registrazioni audio delle conferenze e il blog del ciclo. «Un’esperienza
importante, anche perché ci ha dato la possibilità di conoscere direttamente persone
di altissimo profilo culturale e istituzionale, che altrimenti avremmo solo guardato da
esperienze: la scuola si confronta
lontano» afferma Luca Ostinelli, 4D dell’istituto tecnico, uno degli studenti coinvolti
nei lavori. Per la scuola, invece, un atto di grande fiducia nei confronti dei ragazzi,
messi di fronte per la prima volta a un impegno più grande (e meno scontato) del
solito. In ogni caso, una testimonianza concreta di un forte legame tra la scuola e
il suo territorio: un legame già presente, certo, ma che il terremoto ha contribuito a
rafforzare, spingendo a cogliere anche nuove opportunità. Come quella offerta dalla
prossima realizzazione del Campus biomedicale, donato dalla Fondazione Specchio dei
tempi della Stampa, insieme al Comune di Torino: in pratica, uno spazio con aule tecniche e laboratori, che sarà fruibile da parte degli studenti del Luosi e di altre scuole,
ma anche dagli operatori delle stesse aziende del distretto. In qualche modo un’eredità
positiva del terremoto, e non è la sola. «Lo schianto del sisma ci ha costretti a trovare
soluzioni che sembravano solo risposte d’emergenza e invece sono state uno stimolo per
ripensare la didattica, i suoi tempi, i suoi spazi» commenta Giorgio Siena.
«Il buon funzionamento delle classi con orario verticale, per esempio, ci ha fatto riflettere
sul fatto che la scuola dovrebbe avere orari più flessibili, mentre il ciclo di conferenze ha
spinto gli insegnanti a lavorare in un modo diverso, costruito attorno ai singoli interventi
dei relatori». E ancora: i docenti si sono accorti che il semplice fatto di cambiare spazi
ha reso gli studenti più partecipi. «Insegno da 30 anni e non avevo mai visto ragazzi così
attenti come quelli che mi sono trovata di fronte negli spogliatoi del palazzetto dello
sport, seduti sulle panche di fianco alle docce, con i libri sulle ginocchia» racconta Anna
Benati, che al Luosi insegna economia aziendale.
Certo c’è anche il fatto - un’altra eredità “buona” del sisma - che dopo i momenti tragici
che hanno vissuto, i ragazzi si sono sentiti molto attaccati alla loro scuola. «Anche se
spesso viviamo la scuola con noia o fastidio, per noi è stato importante sapere che c’era
nelle nostre vite qualcosa che non cambiava, che rimaneva un punto di riferimento» spiega Luca Ostinelli. E lo stesso hanno pensato i genitori, che dal giugno scorso affollano
le riunioni scolastiche come mai prima. Niente di sorprendente, dunque, nel fatto che
proprio la scuola può rappresentare un luogo privilegiato per la discussione sul futuro
di un territorio ferito.
Al liceo classico, per esempio, si pensa a un progetto interdisciplinare per la realizzazione di una guida virtuale al patrimonio storico-artistico di Mirandola, con tanto di riflessioni sulle ipotesi di ricostruzione per i monumenti danneggiati. «Anche questa è una
bella sfida: noi insegnanti siamo abituati a lavorare ciascuno per conto proprio, mentre
dovremo imparare a collaborare e a coordinarci di più», commenta Franco Verri. Dopo
quello che hanno passato, una sfida che non li spaventa affatto.
•••
> Il sito dell’Istituto Luosi, con i progetti www.iisgluosi.com/
> Il blog del ciclo di conferenze curato dai ragazzi del Luosi www.sapereantisismico.blogspot.it
ESPERIENZE:
la scuola si confronta
esperienze: la scuola si confronta
B
ergamoScienza è come un treno, una macchina che mette in moto un approccio
diverso alla didattica» dice Giancarlo Cavagna, docente di matematica e fisica al
liceo delle scienze umane e al liceo linguistico presso l’Istituto Statale di Istruzione Superiore (ISIS) Romero di Albino. Prendere quel treno significa coinvolgere la scuola in dinamiche differenti che le cambiano il volto, e che possono migliorare
la percezione pubblica della scuola stessa, le competenze degli studenti e i metodi di
insegnamento. Quest’anno sono state 20 le scuole, 53 i progetti tra mostre e laboratori,
115 gli insegnanti e oltre 1800 gli studenti coinvolti da BergamoScienza, festival di divul-
esperienze: la scuola si confronta
• In questo articolo,
alcune immagini
dei laboratori
dell'ultima edizione
di BergamoScienza
organizzati dagli
studenti delle scuole
della provincia.
Foto: BergamoScienza
gazione scientifica contraddistinto proprio dal fatto di lavorare in sinergia con le scuole
per creare exhibit, laboratori, mostre. Per due settimane, tutta la città di Bergamo e i
comuni dei dintorni vengono coinvolti in un’atmosfera viva e piena di partecipazione, con
gli studenti che si trasformano in vere guide scientifiche. Ecco, allora, che cosa accade
quando un festival scientifico apre le porte ai contributi delle scuole del territorio e queste
rispondono con entusiasmo.
«Spesso a scuola si fa della matematica noiosissima» racconta Cavagna. «Con formule e
schemi di calcolo dimenticati dopo poche settimane. Per questo ho pensato che fosse necessario un cambio di paradigma educativo e, grazie al bando di BergamoScienza, quattro
anni fa ho deciso di cambiare approccio». Il professore ha iniziato a proporre in modo
sistematico agli studenti di classe quarta esperimenti che partissero dallo studio di un fenomeno, non solo con l’obiettivo di partecipare al festival, ma anche per portare i ragazzi
a capire la fisica attraverso il ragionamento e la discussione in classe. «Dopo aver capito
la teoria abbiamo discusso sulla possibilità reale di presentare l’esperimento a BergamoScienza: ci chiedevamo se fosse troppo facile o difficile, quali concetti comunicare, quali
esperienze: la scuola si confronta
omettere pensando a chi avrebbe partecipato al festival». In questo modo gli alunni hanno
sviluppato anche competenze pedagogiche e divulgative, fondamentali per chi frequenta
il liceo delle scienze umane: quando diventeranno insegnanti alle scuole primarie, è probabile che ricordino l’esperimento che hanno contribuito a organizzare e questo modo
diverso per affrontare il fenomeno scientifico. E magari lo riproporranno ancora ai propri
studenti. Sapranno già come fare: a ogni visita durante le giornate del festival hanno dovuto gestire anche più di venti bambini vocianti e a volte distratti.
Attrarre e rendere accattivante la materia è il primo
obiettivo dichiarato dall’Associazione di formazione professionale del Patronato San Vincenzo (AFP), scuola professionale a diversi indirizzi, tra cui “Operatore per macchine utensili”. Durante la nostra visita a BergamoScienza
siamo stati accolti nel loro stand da un giovane insegnante, Luigi Ferri, e da una schiera di studenti, tutti con la
stessa maglietta, pronti a guidare le scuole nel percorso
di costruzione di un motore Stirling.
Il laboratorio è nato da un’idea discussa insieme, tra docenti e studenti, e proseguita con domande, dubbi, prove
ed errori che hanno spinto i ragazzi a trovare soluzioni e
a migliorare il prodotto finale. La didattica classica, insomma, è stata stravolta: non si chiede più allo studente
di limitarsi a eseguire un compito senza porsi troppe domande, ma lo si coinvolge nell’intero processo che parte
dai singoli elementi e arriva alla costruzione di un prodotto finito. «Ciò permette a studenti e docenti di sentirsi
coinvolti, di fare ricerca per capire come realizzare i vari
pezzi del motore nel modo migliore e assemblarli concretamente, mentre la didattica tradizionale prevede la costruzione di singoli parti di una macchina, con minore soddisfazione
da parte di tutti» racconta Luigi Ferri. Il risultato è che i 25 ragazzi, per metà extracomunitari, spesso con scarsa autostima e poca voglia di studiare, si sono impegnati e hanno
lavorato con passione.
«Gli studenti diventano gli insegnanti dei laboratori e questo li porta a mettersi in gioco»
conferma la professoressa Chiara Ruscitto, del liceo scientifico Amadi. «Vincono le loro
timidezze e sono persino in grado di adattare l’esposizione alle persone che hanno di fronte, utilizzando un linguaggio rigoroso, ma coinvolgente e adeguato al pubblico». BergamoScienza permette quindi di fare emergere capacità o difetti che i ragazzi stessi non sanno
di possedere: «Alcuni studenti più chiusi durante la lezione, al momento del festival acquistano sicurezza» commenta la professoressa. Anche il rapporto tra docenti e studenti si
modifica, grazie all’atmosfera di collaborazione necessaria per progettare i laboratori. «Noi
insegnanti chiediamo aiuto agli studenti per realizzare ogni esperienza, e non abbiamo la
necessità di valutarli, perciò possiamo lasciargli la libertà di vivere i momenti di preparazione con passione» conclude Ruscitto. BergamoScienza è quindi una miccia per accendere
idee, progetti e nuove forme didattiche, che molti docenti non avrebbero mai intrapreso
senza il pretesto del festival, ma che sono ormai irreversibili. «Ha messo in moto un tipo
esperienze: la scuola si confronta
di attività che porterò avanti anche nel caso in cui la scuola non possa più partecipare a
BergamoScienza» afferma sicuro Cavagna. Non solo: la macchina organizzativa permette
alle scuole di aprirsi al territorio, offre logistica, pubblicità, e il contenitore adatto per
sviluppare progetti che le singole scuole non potrebbero mai permettersi, soprattutto a
livello sovracomunale. «In totale i visitatori del nostro laboratorio sono stati quasi 1200» ci
racconta la professoressa Ruscitto. «Da soli non avremmo mai
potuto raggiungere questi numeri e BergamoScienza ci permette
di sfruttare una macchina organizzativa imponente». Il laboratorio degli operatori di macchine utensili dell’AFP è nato anche
dalla necessità di far conoscere meglio la scuola agli studenti
delle scuole medie, come ci spiega Giuseppe Comotti, docente dell’istituto con qualche anno di esperienza sulle spalle e lo
sguardo di chi deve aver assistito ad anni migliori. «Le scuole
come la nostra stanno attraversando una crisi di iscrizioni, molte
sono costrette a chiudere, e gli studenti che vogliono indirizzarsi
a una scuola di formazione professionale preferiscono l’indirizzo
meccanico» conferma Ferri. «Per questo vogliamo far conoscere
le applicazioni pratiche del nostro indirizzo, il livello di professionalità che i nostri studenti possono raggiungere e le competenze
sviluppate nel corso degli studi. Con il festival abbiamo trovato
un modo efficace per cogliere due obiettivi: coinvolgere studenti
spesso svogliati e demotivati, e mostrare al pubblico cosa sappiamo fare».
Un incentivo per gli studenti e una vetrina per la scuola, per
pubblicizzarsi, mostrare il proprio lavoro, ma anche, in senso più
ampio, far vedere ai genitori ciò che i figli fanno in concreto. «Per risolvere parte dei suoi
problemi e aprirsi all’opinione pubblica, la scuola deve diventare un centro culturale attivo
sul territorio» sintetizza Cavagna. «Il festival non è solo una vetrina, che ci permette di aumentare la nostra visibilità, ma anche una gratificazione per gli alunni che si impegnano e
vedono riconosciuti i loro sforzi, spesso fatti a casa o durante le vacanze» commenta Emanuele Marchesi, docente alle scuole elementari di Albino, autore dell’unico progetto di una
scuola primaria che ha partecipato al festival. Marchesi ha inserito robotica nel percorso
curricolare delle classi quarte. Da questi laboratori, portati avanti anche da altri docenti,
il preside ha avuto l’idea di proporsi a BergamoScienza. «Il nostro lavoro è stato accolto
dalla macchina organizzatrice del festival con entusiasmo» ci spiega Marchesi «sia perché
siamo l’unica scuola primaria sia perché permettiamo ai visitatori di osservare, ma anche
di programmare i robot e quindi di acquisire in poco tempo i primi rudimenti di robotica».
Anche il festival, come è ovvio, ha molto da guadagnare da questo scambio. Le scuole
aiutano a diffondere la scienza nei comuni, nelle zone periferiche della provincia e a richiamare altre classi in visita. La partecipazione di giovani e bambini è da sempre parte
della mission di BergamoScienza, ma «la macchina organizzativa non avrebbe il budget per
organizzare questi percorsi e queste visite, e quindi attirerebbe meno pubblico e soprattutto
meno scolaresche», ammette Sergio Pizzigalli, ex professore e responsabile della sezione
scuole di BergamoScienza. Nell’ultima edizione sono state più di sedicimila le persone che
hanno partecipato ad attività organizzate dalle scuole. «E ci siamo resi conto che i visita-
esperienze: la scuola si confronta
tori sono più inclini a rivolgere domande ai ragazzi che non a docenti più anziani, perché il
coinvolgimento diretto del pubblico passa più facilmente attraverso un giovane studente»
afferma Pizzigalli. Insomma studenti e scuole non solo sono l’obiettivo dell’attività di divulgazione del festival stesso, ma anche una risorsa e uno strumento utile per comunicare
con un pubblico eterogeneo e ampio, formato da altre scuole, altri docenti, genitori o più
semplicemente curiosi. Una buona simbiosi, insomma, anche se i problemi, in realtà, non
mancano, a cominciare da quello dei fondi, raccolti con fatica dalle scuole oppure ottenuti
grazie al contributo dato dall’Associazione BergamoScienza ai nove migliori progetti. C’è
molto impegno in più richiesto al docente, che viene assorbito nell’organizzazione in modo
totale: bisogna imparare a gestire tempi e spazi. «Utilizziamo spesso ore extra-scolastiche
o decido di sacrificare qualche ora di matematica, ma ne vale la pena», racconta ancora
Cavagna. «La maggior parte delle attività si svolge durante ore extra-curricolari, e questo
richiede sacrificio sia da parte degli studenti sia da parte dei docenti» conferma Ruscitto.
Proporre i laboratori, studiarli e discuterli significa avere gruppi di studenti che devono
lavorare in modo autonomo, libero, con strumenti e attrezzature, abbandonando la tipica lezione frontale. Gestire una classe che diventa più flessibile ed elastica è un impegno importante per il docente. «C’è chi vuole sapere perché l’esperimento non funziona,
chi vuole mostrarmi i risultati. Ci si deve assicurare che nessuno si distragga o giochi».
Ci sono problemi logistici: la necessità di allungare alcune ore, il laboratorio prenotato
da un’altra classe, l’esperimento che non riesce e il materiale da acquistare. «Abbiamo
occupato aule, spostato sedie» racconta Cavagna. «Abbiamo ospitato 1240 bambini e ragazzi e, come se non bastasse, quattro studenti ogni giorno a turno devono assentarsi per
quattro-cinque ore, per portare avanti il loro lavoro di guida». Anche se l’evento interessa
un solo docente e una o poche classi, l’intero istituto deve essere coeso e disponibile.
Tutti gli insegnanti sono chiamati a collaborare, evitando verifiche e interrogazioni per
quelle due settimane calde, o programmando recuperi per chi è impegnato nei laboratori.
E infine anche al docente serve libertà di movimento: se ha lezione deve poter lasciare la
sua classe e visitare i laboratori, per evitare che gli studenti si sentano abbandonati. «Il
periodo del festival poi si scontra con le esigenze scolastiche» spiega Pizzigalli. «Si tiene a
ottobre, che è il periodo migliore per organizzare conferenze con professori e Premi Nobel,
ma quello meno adatto per le scuole». Ragazzi e docenti devono lavorare durante il secondo
quadrimestre dell’anno precedente. «Il primo mese di scuola poi è molto delicato, i laboratori devono essere allestiti e organizzati e i bambini devono prendere confidenza con la loro
attività di guida» racconta Marchesi. «All’inizio hanno un po’ di timore nel mettersi in gioco
come “insegnanti”, ma grazie a una fase di prova alla quale invitiamo i genitori e le altre
classi della scuola, riescono a superare il blocco e a prendere confidenza». «E oggi» conclude
Pizzigalli «gli studenti sono la vera interfaccia di BergamoScienza con il pubblico». •••
Guarda i video dei
laboratori dell’ISIS
Romero
http://link.pearson.
it/5E64C86A
> Il sito di BergamoScienza www.bergamoscienza.it/default.aspx
> Un video degli esperimenti di robotica della scuola primaria di Albino www.youtube.com/
watch?v=3MyrwRXHzo8
DIALOGO
dialogo
I
ncontriamo Maurizio Ferraris e Juan Carlos De Martin, il primo filosofo teoretico da tempo impegnato a esplorare l’universo delle nuove tecnologie e il secondo ingegnere esperto
di Internet e società, all’Università di Torino, in una sala con enormi scaffali pieni di libri.
Libri che, ci fa notare Ferraris, ora potrebbero potenzialmente stare tutti nella tasca di
una giacca, grazie a Internet e ai dispositivi portatili come gli smartphone. Una miniera di informazioni non sempre di facile reperimento o valutazione, sottolinea De Martin, soprattutto
se non se ne conoscono le regole. Un ambito in cui imparare a muoversi, per destreggiarsi tra
le enormi potenzialità e i rischi insiti nei nuovi media. In questo dialogo abbiamo cercato di
capire con loro quanto l’avvento di Internet, dei dispositivi portatili, dei nuovi media cambi il
nostro rapporto con la conoscenza e la formazione, partendo da quelli che sono per entrambi
i principali ambiti di studio.
DE MARTIN. Il primo grosso tema, che riguarda tutti i cittadini, è come confrontarsi con le informazioni disponibili online: imparare a capire dove trovare quello che
si sta cercando e come valutarne l’attendibilità; è una versione ampliata di quanto in realtà facciamo già adesso con un libro. Solo perché il libro è un oggetto più antico non sembra difficile valutare chi è l’autore, chi è l’editore e quindi valutarne l’attendibilità. Questa capacità va in parte creata, in parte è già nota, anche per l’online.
FERRARIS. C’è un evidente vantaggio: una volta, alla fine di un lungo viaggio, finite tutte
le cose da leggere, uno non sapeva più cosa fare. Adesso, con i dispositivi portatili, questo
problema non esiste più ed è un simbolo del fatto che ognuno di noi viaggia con un archivio
gigantesco. Nel contempo, ci troviamo ad avere testi del Seicento non più ristampati e il
fatto che non siano digitalizzati comporta un occultamento maggiore. Perché nel momento
in cui è molto facile trovare certe cose, quelle che sono più difficili da cercare è come se
cadessero nell’oblio.
• In queste pagine,
Gianna Fratta
e Maurizio Zanolla
durante l'incontro
con la redazione di iS.
Foto: Steve Mazzadri
CONCENTRARSI NELL’ERA DIGITALE
FERRARIS. Da un altro punto di vista, le persone di una certa età, come succede a me,
sono cresciute in un ambiente non digitale. Quindi io sono ancora abituato a pratiche di
lettura silenziosa e di concentrazione che ho l’impressione manchino a coloro che sono
già nati dentro un ambiente digitale. Secondo me la formazione perfetta dovrebbe da una
parte garantire agli studenti di saper gestire il flusso di informazioni che viene dal web - e
su questo sono d’accordo con il professor De Martin: puoi, per esempio, trovare un libro di
satanisti scritto nel 1723 e sono follie anche quelle, peggio che su Internet - dall’altra parte
insegnare la capacità di concentrarsi su un testo continuo. Il punto fondamentale è che
il supporto digitale come tale è multimediale, per cui la curiosità di passare da quello che
dialogo
immediatamente vedi a un’altra cosa è molto forte. Una volta quando leggeva un romanzo uno ogni tanto trovava qualcosa che non sapeva, come il nome di una località ignota,
per esempio Smolensk, e non voleva tirar fuori un atlante, magari non ce l’aveva sotto
mano, quindi restava con il dubbio. Adesso invece guardi subito su Google
Maps e poi riprendi la lettura. In questo c’è un effetto di realtà aumentata.
“Nel momento
Però contemporaneamente ti arriva, magari, la email, ti arriva l’sms: tutto
in cui è molto
è convogliato lì. Quindi la concentrazione è sempre più a salti. Inoltre, sono
facile trovare
convinto che quando non hai la memoria visiva delle pagine è un po’ più
certe cose,
difficile ricordare.
quelle che sono
più difficili
da cercare
è come se
cadessero
nell’oblio”
DE MARTIN. Sospetto ci sia anche una diversa filosofia educativa, soprattutto tra il mondo educativo americano e quello continentale europeo. Perché gli americani, sicuramente con John Dewey, ma probabilmente
anche prima, pensano che l’apprendimento basato sul learning by doing,
ossia sull’“imparo facendo”, sia molto forte. Sono abbastanza convinti (naMaurizio Ferraris
turalmente non tutti, ma c’è una forte corrente ormai radicata da almeno
un secolo) che lo studio tradizionale, cioè quello di concentrazione, della
fatica su un libro, di imparare a concentrarsi, sia meno forte. Quindi, forse, anche quello che
vediamo nei dibattiti sull’educazione in Italia è spesso, senza riconoscerlo, una discussione
tra due filosofie educative differenti.
FERRARIS. Oltretutto, una filosofia che diventa egemone, visto che poi tutti questi strumenti vengono percepiti un po’ ingenuamente come moderni, come se moderno volesse
significare un valore in sé.
dialogo
“Come
confrontarsi
civilmente con
un gruppo di
altri coetanei
per provare
a raggiungere
un determinato
risultato è
un obiettivo
educativo
importante”
Juan Carlos De Martin
Io le lezioni le faccio con il PowerPoint, che non è esattamente uno strumento multimediale, ma a me non è mai capitato come studente di sentire delle
lezioni di questo genere e credo che siano meno noiose. Mi ricordo ancora
i convegni in cui le persone arrivavano con dei fogli di carta e iniziavano a
leggere. Noi non ci addormentavamo, essenzialmente perché eravamo addestrati, però un po’ l’abbiocco arrivava. Questo adesso non succede più. Contemporaneamente mi dico: beh, però si perde anche un po’ di quella capacità
di precisione d’espressione che veniva attraverso il testo scritto. Ogni vantaggio, comporta uno svantaggio, ma non credo in realtà ci siano dei grossissimi
svantaggi in questo. Però la perdita della concentrazione, della possibilità di
concentrarsi, quella è una cosa negativa. Ed è una cosa che la scuola può
insegnare, perché la società non la dà. La società civile è fatta per distrarre le
persone, ed è giusto perché deve dare diverse sollecitazioni. Tutto legittimo,
però la scuola deve insegnare uno stile quasi monastico, anche perché la vera
selezione avverrà tra coloro che sono in grado di concentrarsi e coloro che
non sono in grado di farlo.
DE MARTIN. Sì, concordo. Devo dire che anche negli ambienti scolastici, universitari e bibliotecari, che non a caso hanno una connessione forte con la tradizione monastica, già ci sono
dei segni positivi in tale senso, con lo sviluppo di spazi dedicati alla concentrazione. Di recente sono stato ad Harvard e lì la biblioteca ha accuratamente organizzato gli spazi in “studio
dialogo
da solo”, “studio in gruppo”, “consentito mangiare e bere”, “non consentito mangiare e bere”,
“totale silenzio”. Proprio per creare degli spazi dove chi vuole concentrarsi in modo assoluto,
non essere disturbato da nessuno strumento elettronico, o anche soltanto dall’odore dell’hamburger dello studente di fianco, può farlo. Quindi, è possibile, nonostante le pressioni molto
forti che arrivano dall’esterno, creare delle contromisure che incoraggino la concentrazione.
QUANDO È UTILE IL MULTIMEDIALE?
DE MARTIN. La multimedialità io la interpreto come la possibilità di avere molti strumenti a disposizione per comprendere. Effettivamente ci sono determinate cose che possono essere trasmesse in maniera più efficace utilizzando un canale piuttosto che un
altro, per esempio, dove un video di tre minuti ben fatto riesce a trasmettere meglio le
informazioni che se queste fossero scritte sulla carta. Questo capita soprattutto per le
attività pratiche, per esempio come fare una determinata cosa con il computer: YouTube è pieno di video di questo tipo, di cui l’equivalente scritto sarebbe lungo, noiosissimo
e sarebbe più facile sbagliarsi. Analogamente, ci sono studenti che possiamo raggiungere
più efficacemente utilizzando il disegno piuttosto che il video, i videogame, gli ebook ecc.
A questo si affianca l’aspetto collaborativo, che, per determinate cose e fatto in maniera
appropriata, non solo sviluppa una comprensione maggiore del tema ma, soprattutto, sviluppa la capacità di lavorare insieme ad altri che in molti ambienti lavorativi è importante. Quindi, effettivamente, come confrontarsi civilmente con un gruppo di altri coetanei
per provare a raggiungere un determinato risultato è un obiettivo educativo importante.
FERRARIS. Sì, anche io sono d’accordo. E non soltanto a scuola. Molta della comunicazione medica avviene attraverso dei video, per esempio per spiegare come si realizza un’operazione medica. E questo è un contributo essenziale al progresso della medicina. Dubito,
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris è nato a Torino nel 1956. È professore ordinario presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, dove insegna Filosofia
teoretica e dove si è laureato sotto la guida di Gianni Vattimo.
Ha insegnato in importanti università internazionali, tra cui quelle di Parigi,
Colorado Springs, Monterrey, Ginevra, Montpellier e Lipsia. Dirige la Rivista di
estetica e co-dirige la rivista Critique, conduce il programma televisivo Zettel
– Filosofia in movimento su Rai Tre e scrive regolarmente su la Repubblica.
I suoi ambiti di studio principali sono l’ermeneutica, l’ontologia e l’estetica.
Dirige il Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata (CTAO) e il
Laboratorio di Ontologia (LABONT) da lui fondati nel 2001. Vincitore di numerosi
premi filosofici, è autore di oltre mille articoli e di circa quaranta libri, tra cui
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (2009), Laterza, in cui espone
la sua teoria del mondo sociale, la Documentalità, in cui la registrazione di atti
scritti (i documenti) ha un ruolo fondamentale nella creazione di oggetti sociali e,
quindi, nel modificare la realtà.
dialogo
Juan Carlos De Martin
Juan Carlos De Martin è nato a Cordoba (Argentina) nel 1966 da genitori torinesi.
È professore associato presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del
Politecnico di Torino dove insegna Rivoluzione digitale al primo anno di Ingegneria.
Ha lavorato presso l’Università della California, il centro di ricerca di Texas
Instruments a Dallas, il CNR di Torino e nel 1998 ha fondato insieme a Angelo
Raffaele Meo il gruppo di ricerca Internet Media Group. Con Marco Ricolfi, giurista
dell’Università di Torino, ha fondato nel 2003 il gruppo di lavoro Creative Commons
Italia e nel 2006 il Centro Nexa su Internet e società.
Fa parte del consiglio scientifico dell’Enciclopedia Treccani. Scrive regolarmente su La
Stampa e Il Sole 24 Ore sui temi di cittadinanza digitale, neutralità della rete, diritto
d’autore nell’era digitale. Inoltre, come racconta nel suo blog, ha «scavalcato quattro
volte l’Appennino a piedi» e nel 2012 ha camminato in solitaria da Torino a Milano.
Il suo blog personale: http://demartin.polito.it/
Il suo profilo su Twitter: http://twitter.com/demartin
però, che possa funzionare per certi tipi di materiali: per esempio, non riesco a capire come
si possono trasmettere dei rudimenti di logica attraverso un sistema multimediale. La sostanza è che non esiste un’unica ricetta.
• In questo articolo,
foto scattate durante
l’incontro presso
l’Università di Torino
tra Juan Carlos De
Martin, a sinistra,
e Maurizio Ferraris,
a destra.
IL WEB, LE SUE REGOLE E I SUOI GALATEI
DE MARTIN. Internet è come una serie di scaffali dove chiunque può appoggiare qualsiasi
cosa senza alcun controllo. Non esiste un filtro in fase di pubblicazione, che non vuol dire
che se quanto pubblicato è illegale non sarà perseguito. Nel caso, qualcuno farà causa e
quel contenuto verrà tolto. In fase di acquisizione è proprio come entrare in un posto dove
so che chiunque può aver appoggiato qualsiasi cosa. E quindi, ho l’onere di valutarlo sulla
base di un certo numero di parametri: in che sito è ospitato, quali sono le sue regole e chi è
il proprietario, ho delle informazioni sull’autore, quanto sono attendibili queste informazioni
ecc. Questa in realtà dovrebbe essere una delle cose che si insegnano a scuola, a cominciare
dalle elementari. Se poi passiamo agli strumenti che ci aiutano a trovare le informazioni,
abbiamo il motore di ricerca, che è il controllore del cancello, cioè quello che ci fa arrivare a
ciò che stiamo cercando e che ha delle sue logiche, che non sono totalmente oscure come
qualcuno ama dire. Il principio fondamentale su cui si basa è quanto quel sito è popolare, ossia quanto è stato linkato da altri. Questo principio che è, per esempio, alla base del motore
di ricerca Google è stato progressivamente sofisticato in maniera estremamente avanzata,
ma sostanzialmente se un sito ha successo sarà più in alto nei risultati. Bisogna saperlo,
bisogna sapere che quel sito è molto linkato perché, magari, è pieno di cose provocatorie.
Questo dovrebbe entrare a far parte di quella specie di alfabetizzazione digitale necessaria
sostanzialmente a tutti, perché ormai non sapere queste cose di base su Internet pregiudica
in maniera abbastanza forte le capacità di una persona di agire nella nostra società, banalmente di badare ai propri interessi.
dialogo
FERRARIS. Non solo alfabetizzazione, ma anche, io credo, galatei digitali. Educare l’utente
a una serie di conseguenze che le sue azioni hanno sul web, come mettere delle cose molto
personali su social network. I social network hanno un singolare statuto, sono un po’ una
cosa pubblica e un po’ una cosa privata, ma in realtà sono totalmente pubblici, perché una
volta che una cosa è scritta su Internet in qualche modo diventa pubblica. È come se andassi in tv a reti unificati, anzi peggio, perché un programma a reti unificate è limitato nel
tempo, invece qui può arrivare dappertutto, non c’è limite di tempo e di spazio.
COME CAMBIA LA VISIONE DI SÉ CON I SOCIAL NETWORK
FERRARIS. È difficile rispondere a una domanda su come cambia l’idea di sé con i social
network: io non riesco a stare nella mente di questi ragazzi. Sicuramente è un’estensione
dell’idea di Warhol che «un giorno ognuno di noi sarà famoso per 15 minuti». Altro che per
15 minuti: per l’eternità! Il dramma è che puoi essere anche malfamato per l’eternità e qualcuno dovrebbe avvisare gli interessati.
DE MARTIN. Incomincia a esserci della ricerca su questo. Gli enti come la Pew Research
e la MacArthur Foundation hanno cominciato a fornire statistiche periodiche sull’utilizzo da
parte dei giovani e giovanissimi di questi strumenti. È emerso che negli ultimi anni, in realtà, i ragazzi sono diventati molto bravi a utilizzare gli strumenti di privacy, per esempio su
Facebook. Hanno capito abbastanza in fretta che se mettono certe cose online i genitori o i
maestri possono leggerle, perciò hanno imparato a creare delle comunità chiuse: certe cose
le fanno vedere solo a chi vogliono e altre le lasciano pubbliche. Quindi, tra l’altro, stanno
imparando a costruire un’immagine pubblica di sé, fanno vedere certe cose a certe persone
per mandare un messaggio specifico. Inoltre, la loro vita viene anche più registrata, al punto
che anche i bambini piccoli si mettono in posa. Essendo circondati da macchine di registrazione, si sono abituati a essere registrati e sarà interessante vedere fra qualche anno che
effetto farà su di loro poter rivedersi con tanta abbondanza di materiale.
COSA CI RISERVERÀ IL FUTURO
FERRARIS. Credo che l’evoluzione andrà nel senso del benessere, dell’imparare ad avere
dei momenti di connessione e dei momenti di non connessione, ad avere momenti in cui
questa enorme e importantissima evoluzione tecnologica possa riconciliarsi con il passato,
come del resto sempre avviene, per la tecnologia.
DE MARTIN. Io concordo pienamente, aggiungo che un tema decisivo sarà quello del
trattamento dei dati personali. Questi strumenti con tutti gli aspetti positivi che conosciamo perfettamente sono anche degli strumenti di sorveglianza assolutamente pervasivi e senza confronto, sul quale è giusto iniziare già da ora a impostare un dibattito. •••
Guarda on line
i video del dialogo
http://link.pearson.
it/2963F8FC
> Il centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino http://nexa.polito.it/
> Labont, il Laboratorio di Ontologia dell’Università di Torino http://labont.it/
> L’archivio RAI con le puntate di Zettel http://www.filosofia.rai.it/categorie/zettel/354/1/default.aspx
ESPERIENZE:
la scuola si racconta
di Davide Coero Borga
esperienze: la scuola si racconta
Le scuole alle prese con il fenomeno delle web radio:
piccole emittenti scolastiche che grazie a una
tecnologia semplice sono capaci di mandare
in onda un mondo
"Ciao a tutti e benvenuti su Radio Rinascita! Ai microfoni per voi ci sono
Carlotta e Matteo, pronti per passare questi sessanta minuti insieme e tenervi con
le orecchie incollate alle casse del vostro computer. Siete pronti per il viaggio?
Si comincia con un brano di Kellee Maize, la Google female rapper che ha fatto
scuola di copyleft e… di classe. Buon ascolto…"
N
o, non è uno scherzo. È proprio questa l’aria che si respira tra i giovani deejay
ai microfoni di Radio Rinascita. L’istituto sperimentale Rinascita-Livi è una scuola sempre in movimento che dal 1974 non ha smesso di guardare al futuro, ben
conosciuta a Milano per la ricerca di nuove modalità di insegnamento, didattica
di gruppo e offerte formative decisamente flessibili. Qui l’autonomia scolastica è diventata
anche questo: inventarsi una web radio, costruire un’emittente libera (come le gloriose radio
libere degli anni Settanta) su una pagina Facebook, mettere ai microfoni un nugolo di dodicenni coraggiosi, dare voce alla scuola. Fare radio all’interno delle scuole vuol dire anzitutto
avvicinare ragazzi a quello che, nonostante la longevità, resta un moderno ed efficace strumento di comunicazione in grado di educare gli studenti alla comunicazione, al racconto, alla
conversazione. In Francia, Olanda, Svizzera, Belgio e, in generale, nel centro Europa esiste una
fitta rete di emittenti radiofoniche che trasmettono all’interno delle scuole, dalle elementari
alle superori. Nel ruolo di conduttori, deejay, giornalisti, ospiti, ci sono gli studenti di quegli
istituti. Nella loro esperienza sono aiutati da insegnati o adulti appassionati. In Rinascita sono
partiti nel 2001 con un mixer, un paio di microfoni e due ore di lezione a settimana. Riunione di
redazione, lezione laboratorio, registrazione. Per un servizio da e per la scuola: una comunità di
300 studenti, 300 famiglie, per un migliaio di ascoltatori. Ma il fenomeno web radio sta esplodendo. In Italia sembravano essersene accorte solo le università, dove il prurito radiofonico è
diffuso da un decennio. Oggi approda anche alla scuola primaria e secondaria, come potente
strumento didattico e di espressione per alunni e insegnanti. Sono sempre più le scuole che si
adoperano per ospitare una sala di registrazione al loro interno. Un’operazione non banale, che
richiede sforzi economici e innesca complicazioni burocratiche in cui l’istituzione scolastica
rischia spesso di rimanere intrappolata.
IL MICROFONO DIDATTICO
Preparare e condurre una trasmissione radiofonica - in diretta o registrata - guida i ragazzi
alla padronanza del linguaggio come strumento per esprimere se stessi e le proprie idee. Im-
esperienze: la scuola si racconta
Addio onda, si va online
Si chiamano web radio e, come indica il loro nome, si tratta di emittenti radiofoniche che
trasmettono in forma digitale il proprio palinsesto attraverso Internet, in streaming, con
lo stesso tipo di tecnologia che supporta le dirette video. Sono accessibili a tutti e chi è
dall’altra parte dello schermo può ascoltarle online senza bisogno di scaricare sul proprio
computer alcun file. L’illusione della radio è perfetta e si amplifica in siti pieni di testi,
immagini e tutta una serie di contenuti extra che l’ascoltatore può scaricare e ascoltare
con tranquillità, su dispositivi elettronici portatili (in questo caso si parla di podcast): la
radio che vuoi, quando vuoi e come vuoi. Goodbye comunicazione via etere, benvenuta
comunicazione on demand.
In un’epoca in cui l’offerta radiofonica è ampia e strutturata sui canali in FM, le web
radio allargano la possibilità di partecipazione alle piccole realtà con programmi
di nicchia, dedicati, che danno voce anche a comunità ristrette. Succede a scuole e
università. Ma anche alle emittenti tradizionali che via web possono ampliare il proprio
raggio di ascolto, replicando le trasmissioni andate in onda (o meglio, online) in diretta
e lasciando i contenuti d’archivio a disposizione del pubblico. Si parla in questi casi di
glocalizzazione, una crasi fra le parole globale e locale, che rende bene il senso del
fenomeno in atto. Tenere il conto di tutte le realtà, grandi o piccole che siano, è
complicato. Aprire e chiudere un sito è un’operazione veloce e lascia pochi dati a chi si
occupa di statistica. Ma per farsi un’idea della portata del fenomeno basti dire che una
decina di anni fa il Massachusetts Institute of Technology ha calcolato quasi 30.000
web radio in presidio della rete.
esperienze: la scuola si racconta
• In queste pagine
e nella pagina
precedente, i
ragazzi di Radio
Rinascita in azione.
Foto: Radio Rinascita
parare a produrre contenuti per la radio significa acquisire capacità di sintesi su testi e temi
complessi, ordinare le idee nell’esposizione di un argomento, approfondire gli argomenti di
attualità confrontando le fonti. Registrare, montare, gestire un’intervista, un giornale radio,
un reportage all’interno e fuori dalla scuola costringe lo studente-deejay a imparare a parlare, raccontarsi, esprimersi, agganciando l’ascoltatore e dissimulando la lettura di un testo.
Guarda on line
i video sulle radio
scolastiche
http://link.pearson.
it/9B47FA85
Ma la potenza dell’oggetto radio sta anche nel ricreare atmosfere fatte di musiche e rumori all’interno della trasmissione che si sta costruendo. Da un lato il ragazzo è solo davanti
al microfono, impara ad ascoltarsi e accettare la propria voce, vince la timidezza e acquista
fiducia in se stesso. Dall’altra la redazione è un team che lavora in network: calendarizza,
incastra e gioca di squadra perché il prodotto finale sia ogni volta migliore. Trasformare le
classi in una grande redazione radiofonica aiuta a costruire un palinsesto variegato. La web
radio è un contenitore elastico che sfrutta tutta la modularità della rete.
A tanti e diversi gruppi di lavoro corrispondono altrettanti prodotti editoriali. E ogni gruppo
segue lo sviluppo di una determinata trasmissione che, com’è naturale, affronta un particolare argomento. I contributi, le rubriche, le interviste possono essere ascoltati singolarmente, montati all’interno di un blocco delle trasmissioni e dei radio giornali, o ancora a corredo
di testi e immagini sul sito della scuola. I ragazzi scelgono piuttosto in autonomia i temi
da inserire in programma, partendo dalla vita scolastica, le iniziative didattiche, l’attualità,
la cronaca. Ogni gruppo sviscera una notizia, prepara un menabò da seguire durante la diretta, pensa alle musiche giuste che possano accompagnare il parlato, suddivide i compiti
e i tempi di ciascuno studente e fa le prove, come sul palco di un teatro. Poi si va in onda.
O si registra. Già, perché le nuove tecnologie permettono agli studenti anche di ascoltare e
riascoltare il lavoro fatto prima di mandarlo in onda. Un vero e proprio backup per verificare
cosa è andato e cosa no, aggiustare il tiro, correggere e discutere della lezione 2.0 con l’aiuto dei professori.
•••
esperienze: la scuola si racconta
Radio Rinascita: musica e non solo
Foto: Radio Rinascita
È animata da un gruppo di 12 studenti deejay di seconda e
di terza media che lavorano due ore alla settimana sotto la
guida di un docente e di un assistente tecnico audiovideo nel
laboratorio di musica e di informatica dell’istituto sperimentale
Rinascita-Livi, scuola secondaria di primo grado a orientamento
musicale. I ragazzi alla console propongono i generi musicali più
ascoltati del momento, approfondiscono le tematiche musicali
e culturali, riservando ampio spazio per gli avvenimenti che
vedono protagonista la scuola come Scienza Under 18, un progetto
di educazione scientifica in piedi dal 1997. Ma non c’è solo
questo: sport, pettegolezzi, interviste, annunci personali e anche
barzellette. (www.agenziadeiragazzi.net/radio-rinascita.html)
Radioimmaginaria: tutta in mano ai ragazzi
È la radio bolognese dal forte sapore di radio libera. Scrivono gli
studenti sul sito e sulla pagina Facebook: «Radioimmaginaria è
l’unica radio fatta, diretta e condotta da noi che abbiamo da 11 a 17
anni. Dei contenuti nessun adulto si impiccia; facciamo e diciamo
ciò che vogliamo. Andiamo in onda da qualunque posto: da una
camera di una nostra amica, da un garage, da un parcheggio di una
discoteca, dalla strada, dal pullman». Radioimmaginaria esiste dal
2010. Dal 2012 è associazione e trasmette via web (anche via social
network). Alcune migliaia di ascoltatori in continua crescita. (www.
radioimmaginaria.it/la_radio.html)
Foto: Radioimmaginaria
Radio Kreattiva: a scuola di antimafia
Foto: Radio Kreattiva
È una web radio antimafia. Partendo da Bari Vecchia con due
casse, un computer e un microfono al quale si alternavano i primi
speaker, Radio Kreattiva è diventata un'associazione culturale e
una web radio libera e plurale, gestita interamente dagli studenti
delle scuole baresi. Le trasmissioni parlano del fenomeno mafioso
dal basso, declinandolo in tutte quelle forme che i giovani studenti
sperimentano sulla propria pelle: ecomafia, comportamenti
devianti, abusi. Ma Radio Kreattiva non è solo denuncia: lavora
sul territorio permettendo a ogni scuola coinvolta nel progetto di
creare proprie trasmissioni e rubriche autogestite o di realizzare
dirette radiofoniche condivise, eventi pubblici a favore della
diffusione della cultura della legalità e costruzione di percorsi
comunicativi partecipati. (www.radiokreattiva.net/)
ESPERIENZE:
la scuola si racconta
esperienze: la scuola si racconta
Alla scuola materna Diana
di Reggio Emilia lo spazio
è stato reinventato per
cambiare il modo di viverlo
da parte degli alunni.
Un modello che mette
al centro il bambino, costruttore
della propria conoscenza
e portatore di grandi
potenzialità di sviluppo
che crescono grazie
alla relazione con gli altri
C
ome fosse una piccola città, al suo centro è
collocata una piazza, luogo di aggregazione e
di scambio per eccellenza. Uno spazio immerso in una luce naturale vividissima, che entra
dalle grandi vetrate in un magico gioco di trasparenze, aprendo il dentro a ciò che sta fuori, e collegando l’esterno con l’interno, in un processo in continuo
sviluppo. Gli altri locali, le sezioni, la cucina, la zona
pranzo, gli spazi di gioco, si sviluppano tutto intorno,
senza soluzione di continuità. Addio ai confini e alle
separazioni, dunque, così come a modelli educativi ormai invecchiati. Benvenuto invece all’incontro, che qui
è sempre voluto, ricercato, incentivato. Gli ambienti
della scuola Diana di Reggio Emilia, balzata agli onori
delle cronache una ventina d’anni fa perché segnalata
come modello educativo di eccellenza dal settimanale
Newsweek, sono la rappresentazione spaziale di un approccio pedagogico che da tempo attira le curiosità del
mondo. Fatto piuttosto insolito per una scuola pubblica, nata nel 1970, che riunisce bambini tra i 3 e i 6 anni
divisi per età omogenea in tre diverse classi. Cosa c’è
nella scuola Diana di così speciale, dunque? Situata nel
centro storico della città e anche per questa ragione
diventata un baricentro nella rete di servizi di Reggio
Emilia, negli anni è stata descritta spesso come una
sorta di laboratorio, in cui si sperimenta, in cui si fa
ricerca. «Questo è vero, ci sono anche questi elementi.
Ma è nella quotidianità, nel giorno per giorno, che alla
scuola Diana, così come in tutte le altre realtà del territorio, questi concetti sono declinati. Perché è così che
assumono davvero valore» spiega la dottoressa Simona
Bonilauri, pedagogista e coordinatrice di alcune delle
strutture della rete comunale di Reggio Emilia che ne
conta 34, tra scuole e nidi d’infanzia.
La ricetta è semplice ma niente affatto banale. Rompendo uno schema didattico di carattere prettamente
istruttivo, il bambino, a scuola, diventa primo protagonista dell’apprendimento, costruttore e fautore della
propria conoscenza. La ricerca, oltre che portatrice di
innovazione, va intesa come un ingrediente fondamentale del processo pedagogico «perché è questa la modalità propria dei bambini per conoscere il mondo. Osservano, assorbono gli stimoli, li elaborano, fanno delle
ipotesi, hanno delle opinioni. Ognuno con i propri strumenti: in questo senso il percorso di ciascun bambino è
esperienze: la scuola si racconta
Reggio Children e il sistema Reggio Emilia
> Il suo nome completo suona così: Reggio Children s.r.l. – Centro
Internazionale per la difesa e la promozione dei diritti e delle potenzialità
dei bambini e delle bambine. Nata nel 1994 per iniziativa del pedagogista
Loris Malaguzzi, è una società a capitale misto pubblico-privato che
ispirandosi alle esperienze educative delle scuole e nidi d’infanzia
di Reggio Emilia lavora per sperimentare e diffondere nel mondo
un’educazione di qualità. Reggio Children s.r.l. è solo una delle realtà
attive nate negli anni a Reggio Emilia, un sistema - di cui fanno parte
anche la nuova Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi,
nata nel 2011, e l’Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di
Reggio Emilia - attivamente coinvolto in un network internazionale che
conta oggi 32 Paesi. Di particolare importanza nel contesto reggiano
anche il Centro Internazionale Loris Malaguzzi. Aperto nel 2006 e
completato nel 2011, il Centro è descritto come «un luogo dedicato
all’incontro di quanti, in Italia e nel mondo, intendono innovare
educazione e cultura. Un luogo internazionale aperto al futuro, a tutte le
età, alle differenti culture, alle idee, alle speranze e all’immaginazione».
• Nella pagina
precedente, lo
spazio per mangiare
della scuola Diana.
Nella pagina di
apertura, l'atelier
della scuola Diana.
Foto: Richard Kalvar/Magnum/Photos/Contrasto
davvero valorizzato» spiega la pedagogista. La scuola? Si fa accogliente, si apre ai bimbi
con occhio curioso e attento, in un processo in cui anche gli adulti si mettono in gioco.
Compito complicato per chi è responsabile della loro crescita e della loro educazione perché pronto ad aprire degli inevitabili margini di incertezza. Ma estremamente stimolante.
Ecco così che, per esempio, lo schema tradizionale - insegnante da una parte, allievi dall’altra - qui non ha mai trovato casa. “Relazione” e “interazione” sono i concetti che lo hanno
spazzato via. «Interazione con gli insegnanti e il personale non docente, con i genitori che
sono attivamente coinvolti, tra i bambini. A scuola si privilegia il lavoro in piccoli gruppi in
cui si crea una comunicazione molto intensa tra i partecipanti che realizzano insieme, dialogano, si scontrano, si confrontano». Il tutto in un’atmosfera
di grande armonia che nasce da una gestione non gerarchiz“Il bambino, a
zata, favorita dall’organizzazione degli spazi, fatti apposta per
scuola, diventa
garantire una calibrata promiscuità. L’ambiente, infatti, è conprimo protagonista
cepito e vissuto come un attore tra i più importanti, perché
dell’apprendimento,
pieno di opportunità e luoghi fatti apposta per sollecitare il
costruttore e fautore
gioco, la scoperta, la comunicazione, la curiosità e promuodella propria
vere un intreccio di rapporti tra tutti i suoi abitanti, piccoli e
conoscenza”
grandi. Bambini che lavorano, dialogano liberamente con gli
adulti, con il personale docente ma anche con le cuoche della
cucina interna alla scuola («luogo importantissimo nell’economia dell’intero sistema» dice
Bonilauri), che si muovono negli spazi aperti, sperimentano nell’atelier, altro posto dalle
mille sorprese e dai mille stimoli. Guidato dalla atelierista, un docente opportunamente
formato e a questo ruolo esclusivamente dedicato, l’atelier è il luogo in cui i bambini
possono esprimersi secondo “i loro cento linguaggi”. E così, attraverso la pittura, la gra-
esperienze: la scuola si racconta
Lo spazio cambia anche il modo di apprendere
> Forse non ci abbiamo mai riflettuto troppo, ma all’interno di ogni istituto scolastico esiste
una relazione piuttosto forte tra organizzazione degli spazi e approccio pedagogico adottato.
«In modo cosciente o meno l’architettura trasmette un modello didattico ben preciso. Basti
pensare alla classe tradizionale, che è un’aula uditorio, in cui l’alunno è un elemento
passivo. Il corridoio è un luogo spoglio, di passaggio. Tutti elementi
che sottolineano uno schema educativo di tipo trasmissivo» spiega
l’architetto Maria Grazia Mura, responsabile scientifica e autrice dei
testi di Abitare la scuola, sito promosso dall’INDIRE che raccoglie e
presenta una serie di realtà scolastiche, italiane e straniere, in cui
il dialogo tra ambienti e pedagogia ha saputo dare frutti eccellenti.
Gli esempi che Abitare la scuola mostra nelle sue pagine sono tanti,
dentro e fuori i confini italiani e a tutti i livelli della formazione:
dalla scuola d’infanzia Diana di Reggio Emilia alla primaria di
Ponzano Veneto, in provincia di Treviso, alle scuole primarie e
secondarie olandesi, finlandesi, tedesche. «Agire sugli spazi significa
agire su tre possibili livelli» spiega la dottoressa Mura «quello architettonico e strutturale,
quello degli arredi e quello dei materiali didattici e degli allestimenti, comprese le ICT». Per
cambiare le cose, insomma, non è indispensabile costruire un edificio tutto nuovo. Su quali
fattori gli spazi possono agire? Sull’apprendimento, prima di tutto, perché opportunamente
organizzato l’ambiente può diventare uno strumento per favorire percorsi cognitivi diversi,
da intraprendere da soli o in gruppi piccoli e grandi, creando contesti comunicativi ogni
volta nuovi. Sull’accoglienza, perché realizzare ambienti piacevoli e armonici curando il
paesaggio sensoriale, luminoso e cromatico, rende la scuola un luogo amabile e ospitale.
Ma anche sulla sfera relazionale, affettiva e sociale. Perché una scuola in cui non sono gli
ambienti a porre dei limiti e stabilire dei comportamenti fa leva sulla responsabilizzazione
del singolo: «Si formano dei bambini autonomi e capaci di fare proprie, naturalmente, le
regole della socialità» spiega l’architetto.
• La scuola primaria
di Montemignaio in
provincia di Arezzo.
Foto: Reggio Children
fica, il lavoro con la creta e molte altre attività, i bambini conoscono il mondo attraverso
l’azione, con un approccio multisensoriale che, nelle parole di Simona Bonilauri, «è un
grande atto di democrazia. Una democrazia cognitiva perché i cento linguaggi offrono a
ciascun bambino la possibilità di accedere alla conoscenza con le modalità che più gli sono
congeniali, in base alla propria cultura, alle proprie competenze e predisposizioni, fuori dal
dominio della parola». Ed ecco un’altra barriera che cade. Qui come in tutte le altre scuole
d’infanzia di Reggio Emilia, dove l’atelier e le attività a esso legate sono portati avanti.
Perché se la scuola Diana è certamente la realtà più famosa, il modello pedagogico che lì
è applicato, quello che è stato definito il Reggio Emilia approach, è comune a tutti gli altri
servizi educativi comunali. Anzi, il coordinamento pedagogico è uno dei punti di forza di
questa organizzazione «che così fornisce ai genitori e ai bambini una garanzia di continuità e non contraddittorietà» spiega Bonilauri. A sostenere il tutto, inevitabilmente, c’è
una città che ha investito moltissimo nei servizi educativi. Sono molte le delegazioni
esperienze: la scuola si racconta
• Altre due immagini
della scuola Diana.
Foto: Reggio Children
Guarda il video
dell’intervento di
Vea Vecchi, atelierista
del Centro Loris
Malaguzzi
http://link.pearson.it/
B06AA946
straniere che si recano a Reggio Emilia per studiare ciò che qui viene fatto da quando
fu fondata, nel 1963, la prima scuola d’infanzia (l’avventura per i nidi cominciò invece
nel 1971) e che da allora, sulle idee educative e le esperienze del pedagogista Loris
Malaguzzi, non ha mai smesso di crescere.
Creando un vero e proprio sistema che comprende anche i servizi comunali e le altre
realtà che si sono sviluppate attorno all’esperienza reggiana, come la società Reggio
Children, la Fondazione Reggio Children - Centro Loris Malaguzzi e il Centro Internazionale Loris Malaguzzi, nate per capitalizzare quanto fatto, per sperimentare, per promuovere modelli educativi di qualità, per favorire gli scambi nazionali e internazionali.
Sono numerosi, infatti, i progetti portati avanti grazie al network che si è andato a
creare e di cui l’Istituzione Nidi e Scuole Comunali di Reggio Emilia fa parte, per attività di formazione, ricerca, confronto con realtà europee ed extraeuropee. L’ennesima
declinazione, potremmo dire, di quei concetti di permeabilità, di osmosi, di reciprocità, di scambio che rappresentano le caratteristiche distintive dell’esperienza reggiana.
«Gli stessi che permettono di rispondere alla domanda che i genitori si pongono sempre
davanti alle scelte da fare per i loro figli. Qual è l’educazione più utile e necessaria? Io
credo che la risposta stia in una scuola capace di aprirsi e mettersi in ascolto» conclude
Simona Bonilauri. «Solo così potrà aderire alla cultura dell’oggi e dare ai bambini la
miglior formazione possibile».
•••
> Il sito delle scuole e nidi d’infanzia di Reggio Emilia www.scuolenidi.re.it
> Visita virtuale alla scuola Diana http://space.comune.re.it/girareggio/ita/geo/diana_ha.htm
> Il sito di Reggio Children www.reggiochildren.it
> Il sito della Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi http://reggiochildrenfoundation.
org/?page_id=23
> Il sito del Centro Internazionale Loris Malaguzzi http://reggiochildrenfoundation.org/?page_id=1037
Che ogni tempo sia di crisi per chi lo sta vivendo è acquisizione fin ovvia, meno banale è che ci
sono momenti, come quello odierno, in cui l’orizzonte sociale più difficile richiede una maggiore
capacità di resistenza e che ci sono epoche della vita, come la giovinezza, nelle quali si possiede
sì «una fragile speranza, ma non un’energia costante»; la tenacia è allora una più dura conquista.
Sostenere questa claudicante speranza e questa energia, renderle più forti facendole crescere
e dando loro delle ragioni e delle chiavi di comprensione è il compito delicato e irrinunciabile
degli adulti. Lo si può fare in molti modi, e gli insegnanti, con le famiglie, sono in prima linea.
Preparare un terreno fertile alle nuove generazioni e promuoverne il futuro passa attraverso una
trasmissione dei saperi che non sia scialba attuazione di programmi; o attraverso una attenzione
e una cura che non le identifichi prioritariamente come fonte di ansia o target da soddisfare.
Si può contribuirvi - ed è il caso di questo dossier - mettendo le proprie competenze al loro
servizio, per chiarire il contesto in cui ci troviamo, offrire spunti o pensieri con cui paragonare
la loro personale esperienza, e respiro. Sì, respiro perché, come dicevano gli antichi Maestri di
Israele, il mondo si regge sul respiro degli scolari. Il tema è cruciale, ci torneremo su a più riprese
e con diverse angolazioni; ci piacerebbe intanto che questa iniziale sbozzatura fosse partecipata
da quanti condividono la quotidianità dei ragazzi e, se così sarà, potrà trovare su iS una sede
in cui darle un seguito.
•••
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
ECONOMIA
La situazione di crisi delle nuove generazioni può essere la
porta verso un futuro in cui siano loro il motore del nuovo
sviluppo, superando i paradossi di cui appaiono prigionieri
di Luigi Campiglio
Professore di
Economia politica
all’Università
Cattolica di Milano
I
centri di gravità sociale sono i nuclei che consentono di comprendere e prevedere l’evoluzione delle epoche storiche, un po’ come accade per i pianeti,
e il continuo gioco di attrazione fra la Terra e la Luna. Non è possibile comprendere la seconda metà del XX secolo senza riconoscere almeno due grandi centri di gravità: la generazione del baby-boom e le donne. La generazione del
baby-boom, cioè i nati dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta, ha segnato e trasformato modi di vivere e consuetudini in tutto il mondo; le
donne, la cosiddetta metà del cielo, in gran parte nascosta fino allo scoppio della
Seconda guerra mondiale, con il riconoscimento del suffragio universale e la crescente domanda di parità con gli uomini, hanno trasformato il mondo nel giro di
pochi decenni. La generazione del baby-boom e le donne sono state i due centri di
gravità senza i quali non è possibile comprendere il secolo che sta a cavallo fra
la metà del XX e il XXI secolo. La domanda oggi è quali possano essere i centri di gravità intorno a cui ruoterà la vita sociale ed economica del XXI secolo.
Per il momento possiamo formulare solo alcune congetture. E il nuovo centro di
gravità potrebbe essere legato proprio ai giovani, pur essendo la loro proporzione sulla futura popolazione mondiale destinata a diminuire. L’Italia, in questo
senso, sta anticipando i problemi di un mondo che verrà e avrebbe perciò le
potenzialità per diventare un laboratorio sociale. Le difficoltà economiche e
sociali dei giovani nel nostro Paese non li pongono, apparentemente, al centro
dei processi sociali, non ne fanno cioè un centro di gravità. L’Italia è un paese
dal quale molti giovani emigrano, mentre altri giovani stranieri arrivano per
colmare il loro vuoto. In realtà occorre guardare più a fondo. In primo luogo ciò
che avviene per l’Italia non può avvenire per l’intera Europa e ancora meno per
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
ECONOMIA
il mondo intero, perché per molti fenomeni sociali ciò che è possibile a livello
locale è impossibile a livello complessivo. In secondo luogo siamo di fronte a un
apparente paradosso, perché quando vi è una risorsa scarsa e in diminuzione,
di regola, il suo valore economico e sociale aumenta rapidamente, mentre nel
caso dei giovani sembra verificarsi il contrario: il loro valore economico diminuisce, sia come reddito sia come prospettive. È un paradosso insostenibile.
• Un giovane operaio
specializzato
di un'azienda
metallurgica.
Foto: Thierry Dosogne/
The Image Bank/Getty Images
VERSO UN NUOVO MODELLO
DI SVILUPPO
Il fenomeno dei giovani italiani che emigrano e dei giovani stranieri che arrivano ci suggerisce la chiave interpretativa: il problema italiano è il suo modello
di sviluppo, inadeguato per qualità e dimensione ad assorbire il potenziale di
conoscenza e innovazione dell’attuale generazione di giovani. Questi sono i motivi per cui i giovani rappresentano il fondamentale centro di gravità economico
e sociale, in Italia, in Europa e nel mondo. Tuttavia sono un centro di gravità
ancora oscurato ed è invece urgente che possano venire in piena luce. Oggi al
centro del dibattito c’è il tema di un nuovo modello di sviluppo e della sua natura. Lo impongono il processo di globalizzazione e la stabilizzazione della cre-
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
ECONOMIA
scita demografica. Le proiezioni demografiche evidenziano con chiarezza che lo
sviluppo economico ha disinnescato la bomba demografica e che la popolazione
mondiale tenderà a stabilizzarsi intorno ai 10 miliardi di abitanti, seppure con
profondi squilibri fra regioni del mondo in declino e regioni ancora in crescita.
L’Europa e la Cina sono le due grandi aree in cui il declino demografico sarà più
accentuato. In Europa per ragioni economiche e culturali, in Cina come conseguenza della politica del figlio unico, adottata nel 1979 da Deng Xiao Ping, che
è alla radice dell’eccezionale espansione della Cina, accelerata dal suo ingresso
nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. In Cina ancora per circa 20 anni la
percentuale di popolazione in età da lavoro e con un carico familiare ridotto, sia
di bambini sia di anziani, sarà eccezionalmente elevata. Poi la situazione cambierà rapidamente e il posto della Cina verrà preso dall’India. Il declino europeo
già oggi si accompagna a una crescente pressione migratoria e il rimescolamento
di colori e culture che ha caratterizzato l’ultimo decennio continuerà a crescere,
in Europa come negli Stati Uniti, dove la componente ispanica ha ormai un ruolo
decisivo nel sostenere la crescita economica. In questo quadro di grande rimescolamento sociale a livello mondiale, di stabilizzazione demografica a livelli
comunque elevati, con una crescente pressione di domanda sulle risorse mondiali
di materie prime, i giovani come nucleo più vitale, ma anche più innovativo - se
istruiti e creativi - rappresentano necessariamente il centro di gravità di un nuovo processo di sviluppo.
Quei disastri della finanza mondiale
Uno degli argomenti di cui più
si è discusso durante questa
crisi economica è l’influenza che
ha avuto il sistema finanziario
nel generare la valanga che ha
poi travolto i sistemi economici
di buona parte del mondo.
L’importanza dell’economia
finanziaria è cresciuta in modo
esponenziale nell’ultimo decennio
e il suo modo di contagiare le
grandezze reali dell’economia è
uno dei meccanismi meno chiari,
tra tutte le oscurità che l’economia
conserva. Marcello De Cecco è
professore di Storia della finanza
alla Scuola Superiore Normale di
Pisa ed è un ottimo divulgatore.
È capace di tracciare con grande
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
chiarezza non solo l’evoluzione della
finanza e della sua importanza, ma
anche il modo in cui gli strumenti
finanziari arrivino a costituire una
rete, un sistema che può apparire
incestuoso e certamente pericoloso
per cui, proprio come è capitato,
la caduta di un pezzo rischia di
trascinare con sé anche tutti gli
altri, l’accorciarsi di un braccio
della rete può sbilanciare tutto il
sistema e avere effetti pesantissimi.
Vale la pena leggere la sua lectio
magistralis pronunciata nel 2008
che risulta chiarissima anche a
chi dell’economia non conosce il
funzionamento.
(Leggi il testo online: http://link.
pearson.it/75499BA9)
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
ECONOMIA
• Un gruppo di giovani
cinesi a passeggio
nelle vie di Pechino.
Foto: Sipa Press/Olycom
Se vogliamo disegnare un mondo nel quale le guerre siano l’eccezione e non più
la regola è indispensabile che i conflitti per il dominio sulle risorse naturali, a
partire dal cibo e dalle risorse naturali, trovino la soluzione nell’abbondanza,
attraverso innovazioni e riduzione degli sprechi, per consentire una vita degna
a 10 miliardi di persone. La gestione e valorizzazione dei “beni comuni” richiede istituzioni nuove e una rivitalizzazione di quelle esistenti. L’innovazione è il
dominio di menti fresche e vitali che in futuro, come già è avvenuto nel passato,
trovino modi nuovi per risparmiare risorse, eliminare gli sprechi e avviare un
nuovo processo di sviluppo. Così come il XX secolo è stato plasmato dall’automobile e da tutte le infrastrutture a esse collegate, il XXI secolo può soddisfare
il medesimo insopprimibile bisogno di libertà e movimento del genere umano,
utilizzando nuove e sempre più efficienti fonti di energia alternative al petrolio. La
transizione verso una stabilizzazione demografica significherà un periodo di qualche decennio di forti cambiamenti, flussi migratori di lavoratori e imprese, la riorganizzazione geopolitica delle grandi aree economiche, ma soprattutto un mondo
nuovo rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli, dal decollo
della rivoluzione industriale.
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ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
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PSICOLOGIA
ECONOMIA
• Un gruppo di writer
al lavoro durante
una performance a
Pisa.
Foto: Pietro Paolini/
TerraProject/Contrasto
UNA SITUAZIONE NUOVA
Il punto centrale è che il funzionamento dell’economia e della società in una
situazione di stato stazionario rappresenta un fatto storicamente nuovo, ma
questo è ciò a cui ci stiamo avvicinando a grandi passi, avendo alle spalle gli
straordinari successi conseguiti nei due secoli passati. Pochi oggi saprebbero immaginare una vita quotidiana illuminata dalla luce delle candele, anziché
dall’elettricità, dall’assenza di sistema di riscaldamento delle abitazioni o di servizi
igienici per ogni famiglia, dalla possibilità di comunicare per telefono viaggiando
in auto o sulla metropolitana: per i nostri padri questo mondo era una fantasia
difficile da immaginare. Una transizione “felice” significa creare le condizioni per
cui tutto ciò avvenga anche per l’attuale generazione, con il vincolo di una popolazione stazionaria e una nuova attenzione all’ambiente naturale e le risorse.
Una di queste condizioni è una “rivoluzione culturale” che riporti l’umanità presente a valori del passato, a riscoprire il mondo non per motivi economici, ma
per la curiosità umana o
per la necessità di soddisfare un bisogno intenso,
come ridurre la fatica. La
stima sociale, l’empatia
umana per le sofferenze degli altri, il piacere
di scoprire relazioni nuove, nel passato ha spinto
l’uomo – spesso in modo
casuale - verso i passi più
giganteschi nel progresso
della conoscenza, di cui il
riconoscimento economico
era la conseguenza e non
l’obiettivo centrale. I successi dell’economia capitalistica hanno rovesciato
questo paradigma ponendo al centro l’impresa e il
risultato economico, ma
anche questo quadro sta
cambiando. Oggi sono
apprezzate le imprese
che dimostrano una responsabilità sociale e il
loro successo dipende in
modo centrale da questo: la mancanza di rispetto per i lavoratori e l’ambiente è una macchia per i bilanci e toglie credibilità. La transizione non è quindi
una pura distruzione del passato ma una metamorfosi di cui i giovani rappresentano il centro di gravità, lo spirito vitale che può evitare a Gregor Samsa
uno spiacevole risveglio e garantire a noi una metamorfosi felice.
•••
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
FILOSOFIA
di Carlo Sini
Professore emerito
di Filosofia teoretica
all’Università degli Studi
di Milano
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
FILOSOFIA
Il tempo si rivela
sempre oscuro se
viene indagato
con preoccupazione
esclusiva e con un
eccesso
di timori.
Qualunque
aspettativa su
ciò che verrà
è destinata a fare
i conti con una
realtà
necessariamente
diversa e dunque
solo una solida
preparazione
può aiutare a
fronteggiare
ed elaborare
le sconfitte
L
a percezione originaria del tempo ha natura ritmica. Può
aiutarci a comprendere questo fatto originario l’espressione di Alfred North Whitehead: «Eccolo di nuovo». Per
esempio, ecco di nuovo il sole, ecco di nuovo la luna ecc.
L’espressione è profondamente ambigua, in quanto allude a due
aspetti concorrenti e insieme opposti: dice che qualcosa è al tempo stesso (notate che mi viene spontaneo dire “al tempo stesso”)
la medesima cosa e non la medesima. Ecco qualcosa di vecchio
che insieme è nuovo. Già qui si giocano tutti gli enigmi tradizionali del tempo: che il passato è non essendo più; che il futuro
è non essendo ancora; che il presente è il non essere assoluto,
perché, non appena fosse, sarebbe passato e se non fosse ancora
passato, sarebbe solo futuro. Infatti nel presente accade quella
ambiguità che nominavamo poco fa: che c’è qualcosa di già stato che però è nel contempo una prima volta, qualcosa di nuovo
che non è stato mai. Sfuggente e ambiguo non è dunque il futuro
soltanto, ma tutto intero il tempo. Diciamo che qui accade infatti
l’esperienza antropologica fondamentale. Qualcosa deve essere
presupposto come costante per poter misurare, a partire da esso,
il mutamento. Questo qualcosa può, per esempio, nascere nel sogno (una umanità primitiva sogna nella notte il sorgere della luce
del sole e l’uscita
dalla angoscia dei
fantasmi
notturni) e l’immagi“Nel nostro futuro
ne di sogno può
tradursi poi in un
sta un passato più
segno, per esempio un grido. Ecco
articolato e ricco,
che questa protesi esosomatica
un passato che altre
(il grido che risuona là fuori per
umanità non hanno
tutti, associato al ritorno del
saputo di avere”
sole osservato
da tutti) costituisce il primo segno temporale, la
prima traccia che
può tradurre l’esperienza generica dell’“eccolo di nuovo” in ciò che Aristotele
definiva “numero del movimento”: il tempo, appunto, esteriorizzato e tradotto
in una successione di tacche numerabili (un giorno, due giorni, la settimana,
il mese, l’anno). Va da sé che questa tempografia, mentre innesca la possibilità
di annotare il passato, insieme genera l’attesa del futuro, con tutte le coloriture
psicologiche possibili, a partire dalla certezza generica della morte e dalla incertezza inquietante del suo quando.
È noto che la percezione del tempo non coincide con la sua misura oggettiva.
Lungo è il tempo dell’attesa, lunghissimo il tempo del dolore, brevissimo quello
della gioia e così via. Il futuro risente particolarmente, per la sua natura di attesa, delle modificazioni psicologiche. Da giovani si ha la sensazione di disporre di
un tempo infinito; da vecchi il futuro sempre più si chiude, il suo orizzonte estremo si avvicina minaccioso. Non vi è più molto da aspettarsi, non ci sono modificazioni possibili, esperienze radicalmente nuove, tutto sembra già sperimentato
e sembra ripetersi sempre uguale. Così il tempo futuro letteralmente si chiude,
quasi svanisce e si vive alla giornata. Se invece incombono pericoli e minacce, il
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
FILOSOFIA
futuro appare appunto minaccioso
e oscuro, come se non vi fossero
più altre possibilità. Del resto il
tempo si rivela sempre oscuro se
viene indagato con preoccupazione esclusiva e con un eccesso di
timori circostanziati. Si vede allora quanto è vero che il futuro non
è; non ne sappiamo niente, in realtà, e ogni previsione è assai più
significativa di colui che cerca di
prevedere che non delle cose che si
vorrebbero previste.
Una illusione ricorrente è quella
di immaginare il tempo come una
dimensione a sé, come una realtà assoluta e oggettiva, dimenticando che è l’esperienza umana a
conferire al tempo questi caratteri
di universalità oggettiva, attraverso i processi di “tempografia”
che ho accennato sopra. In questo
senso è l’esperienza del presente
che costruisce, a partire da sé, sia
il passato ricordato sia il futuro
immaginato. Un uomo del paleolitico non ha lo stesso passato di
un uomo del neolitico, un uomo
appartenente a una cultura priva
di scrit-tura alfabetica e che concepisce il tempo solo in relazione
al movimento del cielo e al ritorno
ciclico delle stagioni, non concepisce il passato come noi, che apparteniamo a un’umanità storica e
scientifica, che abbiamo scritto nei
libri il nostro passato e misurato
matematicamente i tempi della natura. Nel nostro futuro sta pertanto un passato ben più articolato e
ricco, ma soprattutto un passato che altre umanità non hanno saputo di avere o
che, più propriamente, di fatto non avevano come oggetto della loro esperienza
memorativa e temporale. Ne deriva che il senso del passato e del futuro appartiene alla nostra responsabilità largamente culturale e umana, poiché il passato e il
futuro in un certo senso si costruiscono e si promuovono.
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
FILOSOFIA
Il futuro dipende da una combinazione infinita e del tutto imprevedibile di elementi. Una formazione rivolta ai giovani, cioè ai protagonisti, in senso attivo e
passivo, del futuro, credo che debba preoccuparsi anzitutto di tre cose: stabilire
quali mete, quali scopi e valori siano preferibili e opportuni, per sé e per gli altri;
poi quali siano gli strumenti più idonei alla loro maturazione e realizzazione; infine, di quali forze si possa disporre per sopportare l’inevitabile fallimento, totale
o parziale, dei propri propositi e del futuro immaginato. Direi che è sopratutto
questo terzo punto che mi interessa come educatore. Bisogna disporre di una
salda e matura personalità per affrontare la vita che verrà; dobbiamo avere ben
chiaro che il futuro che immaginiamo è sicuramente parziale, e perciò erroneo,
ingiusto e insufficiente; che dovremo necessariamente confrontarci con le vite
degli altri e con gli avvenimenti imprevisti della società e della natura. Solo chi
è ben piantato su una formazione profonda, ricca proprio per ciò di senso e di
conoscenza del passato, può affrontare con qualche successo le sfide del futuro,
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
FILOSOFIA
elaborando positivamente le inevitabili sconfitte e resistendo alla dispersione e
alla dissoluzione. Per questo dove non è formazione nel senso vero della parola,
ma, per esempio, solo informazione, non ci sono personalità capaci di elaborare
un futuro efficace, personalità che saranno quindi prive letteralmente di futuro.
In altri termini: ciò che si deve essenzialmente insegnare per costruire il futuro
è la conoscenza il più possibile ricca e partecipativa del passato.
Esattamente il contrario della direzione che le nostre scuole in Occidente vanno
prendendo da tempo.
La quantità e qualità delle occasioni disponibili pro capite è, a mio avviso, il segno del livello democratico e progressivo di una società. Ho argomentato e illustrato questo principio nel mio libro Del viver bene. Ciò che
oggi appare come il problema principale, ovvero il ridursi delle possibilità di trovare un lavoro, è solo un aspetto su"Ogni essere umano
perficiale di un fenomeno assai più radicale e profondo. Lo
deve disporre delle
si potrebbe esprimere così: il lavoro industriale messo in atto dalla
occasioni necessarie
esperienza del capitalismo occidentale, tradotto in volano mondiale
a diventare umano"
dell’economia, ha inteso ridurre il valore futuro semplicemente a
quantità di denaro disponibile. L’intera produzione della vita futura
si è concentrata sulla nozione di merce e di scambio di merci, dove il denaro finisce appunto per essere la merce per antonomasia o addirittura l’unica merce vera e
propria (infatti la produzione decide di rivolgersi quasi esclusivamente a prodotti
riducibili in merci e cioè scambiabili con denaro: ciò che non produce denaro è
considerato “fuori mercato”, come appunto si dice). Questa maniera di organizzare
il presente in vista del futuro (nella sempre più diffusa indifferenza nei confronti
del passato, compreso quel passato che è la natura nei suoi cicli annuali) ha indubbiamente prodotto nel tempo una considerevole quantità di ricchezza e un benessere generalizzato prima inconcepibili per alcune parti di umanità sul pianeta.
A questi meriti oggi però si aggiungono devastazioni, ingiustizie e cecità fortemente negative e destabilizzanti. Ecco perché la nuova misura della effettiva ricchezza del genere umano, cioè degli abitanti attuali del pianeta, non si
può e non si deve più misurare in termini di prodotto interno lordo o di riserve di denaro nelle banche: tutto ciò non sta evitando l’impoverimento progressivo di sempre maggiori masse di umanità e la devastazione sciagurata e
mortuaria delle risorse naturali del pianeta. Ciò che è davvero importante è
invece la diffusione equa e solidale delle possibilità future per l’intera popolazione. Ogni essere umano deve disporre delle occasioni necessarie a diventare,
appunto, “umano”, cioè realizzato nelle sue esigenze più profonde, più originali
e più vitali: è interesse di tutti che ciò accada. Queste esigenze non sono affatto
misurate o definite dall’entità del “consumo” (quindi di nuovo da una mentalità che non sa vedere oltre il mercato mondiale delle merci e degli interessi del
capitale finanziario). Direi che siano piuttosto misurate dalla quantità di vita
che esse sono in grado di salvaguardare e di promuovere, perché agli umani è davvero affidato oggi il futuro del pianeta e di tutti i suoi abitanti, delle
piante come degli animali che hanno in noi la loro salvezza e il loro destino.
E noi con loro.
•••
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
DEMOGRAFIA
di Alessandro Rosina
Professore associato di Demografia
all'Università Cattolica di Milano
Il nostro Paese investe poco sui giovani, li sostiene in modo insufficiente
attraverso il sistema di welfare e spende meno degli altri per la ricerca.
Bisogna trovare il modo per far contare di più il futuro che essi rappresentano
L’
inclinazione al mutamento della gioventù, più che a fattori biologici
o allo spirito di avventura, deriva soprattutto dal non assumere come
dato di fatto l’ordine vigente. Chi è giovane non ha interessi precostituiti, può dunque identificare la propria sensibilità con i nuovi problemi
della collettività. Le giovani generazioni crescono assieme al mondo che cambia.
Trovano nel loro cammino gli stessi ostacoli che trova il cambiamento. Ne sono
quindi i migliori interpreti e alleati. Rappresentano quella parte della popolazione che può trovare soluzioni innovative alle nuove sfide. A differenza del
passato, le giovani generazioni italiane stentano però oggi a prendere in mano il
proprio destino e con esso quello del Paese. Se l’Italia risulta economicamente e
socialmente immobile è anche perché i giovani non riescono a porsi al centro del
cambiamento, sono diventati una forza debole e timida.
Un ruolo, in questo impoverimento dell’energia giovane nella società italiana,
l’ha avuto l’invecchiamento della popolazione. La cosiddetta “piramide demografica” è profondamente cambiata negli ultimi decenni. Complessivamente la fascia
di età 15-34 subirà la sua fase di più accentuata contrazione tra il 1990 e il 2020,
con un calo stimabile attorno ai 5 milioni. In termini relativi da un’incidenza
pari al 31% sul totale della popolazione si scenderà a poco più del 20%. Quello
che stiamo vivendo è un processo di progressivo “degiovanimento”, ovvero di
riduzione strutturale del peso demografico dei giovani, a cui però si associa anche una contrazione generalizzata della presenza delle nuove generazioni nella
società, nell’economia, nella politica. Mai i giovani sono stati così pochi e hanno
contato così poco. In termini di spesa sociale siamo uno dei Paesi che meno investe nella voce “famiglia e figli” e nelle voci che riguardano direttamente i giovani (disoccupazione, casa, esclusione sociale): il dato Eurostat riferito al 2008 (il
più recente disponibile con dati comparativi), indica per l’Italia un valore pari a
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1,9% sul PIL contro il 4,3% dell’EU-27. Secondo una ricerca OCSE del 2010, l’Italia è poi uno dei Paesi in cui il reddito dei figli è maggiormente correlato a quello
dei padri. Un sistema che incentiva i figli a contare solo sull’aiuto dei genitori è
il peggior welfare possibile. Accentua infatti l’assistenzialismo passivo e riproduce le disuguaglianze sociali. L’elevato numero dei NEET (Not in Employment,
Education or Training, vedi anche l’articolo Né sui libri, né al lavoro), ovvero dei
giovani che se ne stanno in inoperosa attesa senza studiare o lavorare, è possibile solo in un paese nel quale non esiste un welfare attivo e nel contempo si
può prolungare sine die la fruizione passiva delle risorse private di padri e madri. Risorse che però la crisi sta intaccando
pesantemente. Intervenire sul welfare è cruciale, ma sono altrettanto - forse ancor più
- importanti azioni di promozione, ovvero
di investimento sul capitale umano e sulla
sua valorizzazione. Dati coerenti con i limiti
del sistema paese nel promuovere le capacità
delle nuove generazioni sono, in particolare, quelli del basso investimento in ricerca,
sviluppo e innovazione. Per questa voce noi
spendiamo un terzo in meno rispetto alla
media europea. L’innovazione è elemento essenziale del circolo virtuoso che spinge al
rialzo sviluppo economico e lavoro. Ed è soprattutto l’occupazione dei giovani a essere
legata alle opportunità che si creano nei settori più dinamici e tecnologicamente avanzati. La combinazione tra riduzione quantitativa dei giovani e scarsa valorizzazione del
loro capitale umano può quindi essere considerata uno dei principali fattori di depressione sociale ed economica del Paese. Ma molto
ridotta è anche la presenza delle nuove generazioni nella politica e, più in generale, ai
vertici delle professioni, nell’università, nella classe dirigente italiana. Scrive Carlo Carboni (Potere stravecchio, i giovani
fuori, Reset, marzo-aprile 2010), uno dei maggiori esperti sul tema: “Le nostre
élites appaiono non solo aver bloccato i boccaporti di un loro ricambio regolato,
ma ostentare scarso vitalismo e dinamicità (ad eccezione di alcune componenti
economiche imprenditoriali di ‘quarto capitalismo’). Insomma comanda la gerontocrazia”. Secondo i suoi dati, nel 1990 l’età media dell’élite era di 51 anni, nel
2005 di circa 62. Un aumento di 11 anni a fronte di una crescita della speranza
di vita, nello stesso periodo, di circa 4 anni.
Come afferma inoltre Massimo Livi Bacci (Giovani alla riscossa, il Mulino, 2008)
la riduzione dello spazio verso le nuove generazioni rende la società meno dinamica, fa prevalere forze arroccate “sulla difesa delle posizioni e dei ruoli acquisiti
(…) avverse al rischio e a coloro (i giovani) che sarebbero più propensi a correrECONOMIA
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lo”, con conseguente ulteriore
riduzione dello spazio e delle
prerogative delle nuove generazioni e, quindi, anche delle
possibilità di crescita e prosperità futura.
Si sente sempre più spesso dire
che le nuove generazioni sono
“senza futuro”. Non è vero: il
futuro prima o poi, implacabilmente, arriva. Quella in gioco
è la qualità della vita che ci attende tra 10, 20, 40 anni. Dato
che il futuro affonda le sue radici nel presente, le premesse
del vivere meglio o peggio nel
breve e medio periodo dipendono dalle scelte che facciamo ora. Chi non prepara bene
il terreno oggi e non semina
con cura non può pretendere
di raccogliere buoni frutti domani.
È un dato di fatto che da troppo tempo in Italia non si semini bene, non si investa come si
dovrebbe sui giovani. La bassa mobilità sociale e la scarsa
crescita economica del primo
decennio del XXI secolo sono
il coerente risultato di un Paese non in grado di predisporre
e offrire adeguati strumenti di
protezione, promozione e partecipazione per i giovani.
Dare più peso al futuro significa dare più consistenza a quella componente della popolazione che al futuro è più
interessata, ovvero chi vivrà maggiormente le conseguenze, positive o negative,
delle scelte prese oggi. Questa componente è costituita dalle giovani generazioni,
il cui peso però, come abbiamo detto, si è drasticamente ridotto nel tempo. Per
compensare, almeno in parte, tale alleggerimento sono possibili varie soluzioni.
La prima è quella di eliminare gli attuali vincoli anagrafici. Se si concorda con il
principio che non devono essere i limiti di età a determinare le possibilità di poter
o meno accedere a una data posizione o una data carica, ma solo i criteri del merito, delle capacità e della competenza, ne deriva che non hanno alcun senso, sono
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anzi iniqui, i vincoli anagrafici attualmente presenti per accedere alla Camera
(25 anni) e al Senato (40 anni).
C’è, poi, chi non si è limitato ad abbassare elettorato passivo e attivo a 18 anni,
ma ha fatto di più, come l’Austria, dove si è deciso di far scendere a 16 anni
l’età minima per votare. Ancor più radicale è invece la proposta di legare il
peso del voto all’aspettativa di vita residua. Dato che i giovani hanno mediamente una vita più lunga da vivere rispetto agli anziani, si ottiene di fatto un
riequilibrio della forza delle varie generazioni nell’elettorato. Alla base non sta
tanto l’idea che i giovani votino “meglio” (sul merito delle scelte non si entra),
ma semplicemente l’idea che sono quelli destinati a vivere e subire maggiormente nel tempo le implicazioni delle scelte elettorali di oggi e delle decisioni
politiche conseguenti. Il principio è che sia giusto che conti di più, ovvero sia
chiamato a maggior responsabilizzazione, chi ha più da perdere o da guadagnare. La ponderazione del voto individuale in base all’aspettativa di vita può
essere vista, quindi, come un modo per dare più fiducia alle nuove generazioni
e incentivarci come società a fare pesare maggiormente le valutazioni sulle
implicazioni future delle scelte del presente.
•••
• Una giovane elettrice
al seggio per
le elezioni del
Parlamento.
> Non è un paese per giovani, di Alessandro Rosina, Elisabetta Ambrosi, Marsilio, 2009, 111 pag., 10 euro
> Il posto dei giovani nella rivoluzione demografica, di Alessandro Rosina, in Polis 2/2009
Foto: Marco Becker/Marka
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I ragazzi tra i 15 e il 29 anni a rischio di esclusione lavorativa,
educativa e formativa sono in aumento. Ma quanti sono i giovani
inoccupati, perché rimangono tagliati fuori e come coinvolgerli?
C
iclicamente l’attenzione pubblica torna a occuparsi dei giovani e della loro
esclusione sempre più forte dalla partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. Il tema è serio e riguarda non solo il destino di milioni di
cittadini, ma il futuro economico e sociale di un intero sistema. Infatti,
come mostra il rapporto presentato il 23 ottobre 2012 da Eurofound - la Fondazione
della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
- in seguito alla crisi è cresciuto in tutta Europa il tasso di NEET, acronimo inglese
utilizzato per indicare i giovani che non lavorano, non studiano e non si formano
a una professione (Not in Education, Employment and Training). Le differenze tra
i Paesi europei sono notevoli: nel complesso, oggi si contano nell’Unione Europea
circa 7,5 milioni di giovani NEET su 60 milioni di ragazzi tra i 15 e i 24 anni, un
valore pari al 12,9%. Le nazioni più virtuose sono Paesi Bassi e Lussemburgo, mentre le più colpite dal fenomeno sono Bulgaria, Irlanda, Spagna e Italia.
All’Italia il rapporto Eurofound dedica una scheda specifica. Un primo elemento di
differenza riguarda la fascia di età sulla quale calcolare il tasso di NEET: a causa
della maggiore durata degli studi universitari, per il nostro Paese è opportuno riferirsi alla popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni, anziché a quella, canonica, tra i 15 e i 24. Colpisce poi la forte differenza geografica tra diverse aree del Paese: nel 2010 il tasso di NEET nel Sud era pari a 26,7%, nel Centro-Nord al 14,9%.
La natura endemica del fenomeno, che già prima della crisi ci vedeva in cima alle
classifiche per numero di giovani inattivi, aumenta poi il rischio che l’uscita dallo
status di NEET sia più difficile per i giovani italiani che per i coetanei di altri Paesi.
Ma quali sono i profili di questi giovani e perché rimangono tagliati fuori? Dal
rapporto sul tema realizzato nel 2011 da Italia Lavoro, emerge che i più colpiti dal
fenomeno sono i ragazzi con basso livello d’istruzione e che hanno abbandonato
precocemente gli studi: un gruppo più ampio in Italia rispetto alla media europea, a causa anche della ridotta mobilità sociale che caratterizza il nostro Paese.
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Esclusi, scoraggiati, in cerca: ecco chi sono
Il rapporto di Italia Lavoro 2011 ha raggruppato i NEET in quattro gruppi omogenei, in base
alla loro occupabilità e al loro atteggiamento nei confronti del lavoro.
NON DISPONIBILI A LAVORARE
Giovani non intenzionati o impossibilitati a lavorare, per lo più a causa di fattori sociali,
vincoli familiari, disabilità o malattia. Più della metà è tra i 25 e i 29 anni, tre quarti sono
donne, e un quinto è straniero. Risiedono in maggioranza nel Centro-Nord e hanno un livello
d’istruzione molto più basso rispetto alla media dei NEET. Quasi la metà del gruppo non è
disponibile a lavorare perché in maternità, si prende cura dei figli o di altre persone non
autosufficienti o per altri motivi familiari.
SCARSAMENTE OCCUPABILI, NON IN CERCA DI LAVORO
Ad alto rischio di esclusione sociale, uomini e donne in uguale misura, hanno i livelli di
istruzione più bassi e sono i più scoraggiati. In netta maggioranza italiani (90%), vivono per
lo più nel Mezzogiorno (80%). La principale causa di inattività è lo scoraggiamento.
MEDIAMENTE OCCUPABILI, NON IN CERCA DI LAVORO
Giovani inattivi ma disponibili a lavorare che hanno conseguito un titolo superiore alla
terza media. C’è una percentuale di laureati molto più alta della media dei NEET. Quasi tutti
italiani, tra i 20 e 29 anni, risiedono nel Mezzogiorno e sono in prevalenza donne. Più di
un terzo si dichiara “in attesa d'iniziare un lavoro o non immediatamente disponibile”. Altri
non cercano lavoro perché scoraggiati dallo scarto tra le loro competenze, spesso alte, e le
opportunità di lavoro.
MEDIAMENTE OCCUPABILI, IN CERCA DI LAVORO
Quasi la metà è alla ricerca del primo lavoro, mentre il 34,8% è composto da ex occupati che
hanno appena perso un lavoro e che si sono immediatamente attivati per cercarne un altro.
Un terzo di loro è un disoccupato di lunga durata. Distribuiti in modo omogeneo su tutto il
territorio nazionale e dotati di un livello d’istruzione più alto rispetto alla media, i membri di
questo gruppo sono aumentati più rapidamente degli altri a causa delle crisi.
E infatti, per i giovani che provengono da famiglie con bassi livelli d’istruzione la
possibilità di compiere il percorso di studi fino al raggiungimento di un titolo universitario è scarsissima: solo il 7,5% dei figli di genitori con al massimo la licenza
media ha una laurea, mentre è il 58,6% dei figli di laureati a raggiungere lo stesso
titolo. A complicare il quadro c’è poi l’alta diffusione del lavoro nero, che, se da
un lato produce qualche possibilità di occupazione che agli occhi degli osservatori rimane sommersa, dall’altro contribuisce a scoraggiare ulteriormente i giovani
italiani nella ricerca di lavoro. In questo quadro, su quali priorità concentrare gli
sforzi? Le esperienze condotte con un certo successo in altri Paesi - come il Regno
Unito - e l’analisi delle specificità italiane suggeriscono di intervenire sul contrasto
all’abbandono scolastico, sul rafforzamento dell’apprendistato e sull’incentivo alle
imprese per l’assunzione di giovani. Senza però un’azione più trasversale di investimento nell’istruzione e nella ricerca, di lotta al lavoro nero e di promozione delle
pari opportunità, questi interventi rischiano di rimanere misure isolate e di non
determinare quella ripresa che appare oggi sempre più urgente.
•••
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Tra precarietà
e risposte FUORI
DAL CORO
Foto: Daniele La Monaca/Olycom
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In Italia i giovani sono ormai di fronte a una vera e propria
trappola della precarietà, frutto delle politiche degli ultimi
quindici anni. Di fronte a questa situazione la capacità
di dare risposte originali e intelligenti non è però venuta
meno, come dimostrano due esempi degli ultimi anni:
San Precario e Serpica Naro
S
iamo da quattro anni in crisi economica, la peggiore crisi dagli inizi del
Novecento, superiore, oramai, per intensità e durata alla grande crisi
degli anni Trenta del secolo scorso. Gli effetti sul mercato del lavoro e
in particolare sulla nuova generazione cominciano a farsi sentire. Il peana dei media cerca, inutilmente, di addolcire la pillola tra parole di conforto
e di pietà, raccontando numerosi casi di giovani (e meno giovani) che cercano
in qualche modo di districarsi e sopravvivere nella miseria quotidiana (non
passa giorno che in qualche programma televisivo non venga riproposto il
“racconto della sfiga”) e parole di reprimenda contro il supposto lassismo delle
nuove generazioni poco disponibili al sacrificio e a rimboccarsi
le maniche di fronte alle avversità (fannulloni, bamboccioni ecc.).
• Immagini dalle
sfilate della
Mayday Parade, il
Primo maggio dei
lavoratori precari
organizzato ogni
anno a Milano.
IL FENOMENO DEI GIOVANI NEET
È un fenomeno sociale relativamente recente ed è un indicatore
del deterioramento del mercato del
lavoro negli ultimi due anni. In
Europa, tra il 2008 e il 2011 la disoccupazione giovanile è aumentata di 7,8 milioni a livello globale,
rispetto a un incremento complessivo del numero di disoccupati di
28,9 milioni (dati ILO). Inoltre, la
nuova fase recessiva che si sta verificando all’indomani del biennio
di recessione (2008-2009) rischia di produrre preoccupanti effetti di lungo
periodo sulle dinamiche del mercato del lavoro giovanile.
In primo luogo, molto probabilmente porta a ritardare l’ingresso nel mercato
del lavoro dei giovani e a prolungare la permanenza nel periodo di istruzione
anche di quelli meno inclini agli studi. In secondo luogo, le deboli condizioni
economiche potrebbero rendere difficile il periodo di transizione dall’istruzioECONOMIA
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ne al mercato del lavoro, con il rischio che un maggior numero di giovani rimanga intrappolato in più lunghi periodi di disoccupazione e in lavori precari
e mal remunerati (trappola della precarietà). Infine, le riforme, che, in base
a una logica di austerity e dettate dalla necessità di fare “cassa” (sicuramente
non a favore di chi è maggiormente colpito dalla crisi), hanno interessato il
sistema previdenziale in molti Paesi europei, hanno portato un aumento dell’età pensionabile, e, di conseguenza, hanno ristretto i già carenti spazi di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, riducendo il turnover generazionale.
Le persone giovani sono, quindi, più vulnerabili in tempo di crisi. L’esistenza
San Precario, proteggici tu
Guarda il video
di Andrea Fumagalli
che racconta la nascita
di San Precario
http://link.pearson.it/
EB2D0E0A
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San Precario è il patrono dei precari e delle
precarie e rappresenta la loro intelligenza. San
Precario è una mirabolante creazione precaria,
un'espressione libera e indipendente da ogni
partito e sindacato.
L'idea del santo è sorta durante un’assemblea
dei lavoratori precari a Trento il 18 gennaio
2004; poi è stata declinata dal collettivo di
Milano Chainworkers insieme ai lavoratori del
Comune di Milano, dell'Auchan, del Piccolo
Teatro e da fratelli e sorelle sparsi per tutta
Italia. San Precario è nato e apparso per
la prima volta la domenica del 29 febbraio
2004 in un Ipercoop di Milano, ma la sua
definitiva consacrazione è avvenuta durante
l'Euromayday, la manifestazione del Primo
maggio precario che da più di dieci anni
porta in piazza i precari d'Europa.
Lì il santo ha aperto un corteo festoso
composto da centomila precarie e precari.
Da allora è stato usato, moltiplicato
e santificato da decine di gruppi di lavoratori,
ha sbancato in rete, è sceso in piazza in tutta
Italia, ha protetto i suoi fedeli e fatto tremare
i loro sfruttatori. San Precario è l'icona pop della generazione precaria.
Da alcuni è temuto, da molti venerato. Il suo santino è il più diffuso nei
portafogli dei precari. San Precario è il protettore di chi lavora per un
sottosalario, di chi soffre le conseguenze di un reddito intermittente ed
è schiacciato da un futuro incerto che ci accomuna tutti: commessa e
programmatore, operaio e ricercatrice. San Precario è irriverente, beffardo
e offensivo, e poi è anche bisestile, visto che è nato il 29 febbraio.
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Foto: Riccardo Schito/Olycom
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di molte tipologie contrattuali atipiche e precarie, dove la possibilità di sviluppare processi di apprendimento sono assai scarse proprio per l’intermittenza
lavorativa, rendono i giovani meno competitivi sul mercato del lavoro. Inoltre,
l’inesperienza in termini di ricerca di lavoro e limitate risorse finanziarie costringono i giovani a dover contare sulla famiglia di origine (qualora disponibile) durante il periodo di ricerca di lavoro. Questi fattori di vulnerabilità
caratterizzano la popolazione giovanile indipendentemente dalla fase del ciclo
economico, sebbene lo svantaggio giovanile tenda ad acuirsi in periodi di recessione.
Altresì, l’intensità dell’impatto della crisi sul mercato del lavoro giovanile varia
in misura significativa con il contesto socio-economico e le risposte di politica
economica dei diversi Paesi. All’interno dell’Unione europea, per esempio, ci
sono Paesi come la Francia e l’Italia dove attualmente quasi un giovane su tre
è disoccupato, oppure la Spagna dove più del 40% di loro è senza lavoro.
Secondo i dati raccolti nel Rapporto sul mercato del lavoro 2010-11 del CNEL,
in Italia il fenomeno dei NEET è «particolarmente diffuso tra i “giovani-adulti”
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Serpica Naro: alta moda in forma precaria
Serpica Naro si impone a livello mediatico internazionale durante la
Settimana della Moda del febbraio 2005. Residente a Tokio, Serpica Naro
è una giovane designer anglonipponica, che grazie a un profilo seducente
e trasgressivo, non fatica a essere inclusa nel calendario della più ambita
vetrina modaiola italiana. Laureata al Bunka Fashion College,
conquista gli addetti ai lavori per la scelta di tessuti high
tech, di avveniristiche tecniche di taglio che contemplano
l’invenzione del mascheramento, e per l’uso spregiudicato di
tessuti rifrangenti e fasciature nelle collezioni moda. Ma il
vero potenziale di Serpica Naro è la sua vita di trasgressione
vissuta a cavallo tra Londra e Tokyo, il legame viscerale con
l’underground. Alla vigilia di febbraio, il suo nome non conosce
confini: Giappone, Corea, Hong Kong.
La Settimana della Moda comincia, i riflettori si accendono.
E Serpica Naro, carnefice e vittima della sua indole
irriverente, incarnazione dell’immaginario del lusso e della
lussuria più sfrenata, non resiste e continua a far parlare
di sé. Tenta prima di affittare uno dei più importanti centri
sociali milanesi per la sua sfilata, pretendendo un ambiente
suburbano adeguato alla sua collezione, e successivamente
lancia negli ambienti omosessuali un appello di reclutamento
di persone affette dal virus dell’HIV per fungere da mannequin.
E Milano si scalda, perché centri sociali e movimenti gay
annunciano un’agguerrita manifestazione per impedire a
questa icona di un’industria del lusso disumana e arrogante,
di sfilare impossessandosi dell’esistenza e dell’essenza umana
per renderla mostra e spettacolo. Esplodono azioni di protesta
contestualmente alle sfilate di Prada e di Laura Bagiotti. Ma
Serpica Naro in realtà non esiste. Il nome dell'inesistente
stilista è l'anagramma di San Precario, il falso protettore dei
lavoratori precari inventato un anno prima dagli attivisti
della crew Chainworkers.
Guarda il video
sulla collezione di
Serpica Naro
http://link.pearson.
it/9C2A3E9C
Esiste tuttavia la sua collezione di abiti, che viene presentata
con tanto di approvazione della Camera della Moda. Sulle
passerelle, otto applauditissimi modelli che rappresentano con
sarcasmo alcuni aspetti della precarietà: abiti che nascondono la maternità
per non essere licenziate, gonne anti-mano morta piene di trappole per topi,
minigonne sexy per fare carriera più in fretta, abiti da sposa per donne
senza cittadinanza italiana, tute da lavoro che nascondono il pigiama, per
essere sempre pronti a lavorare notte e giorno; abiti double face per chi fa
due lavori e quelli antistress per quando sei sfinito dalla fatica, le magliette
con il numero dei giorni che mancano al licenziamento.
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(25-30 anni), più che tra i “giovani-giovani” (15-24 anni)». I più giovani, infatti, sono prevalentemente impegnati ancora nel percorso scolastico, la cui
durata è aumentata (non solo perché è stato innalzato l’obbligo scolastico,
ma anche perché c’è una crescente propensione a una maggiore scolarità). È
invece tra le fasce di età
successive che si osserva il problema dell’inserimento nel mercato del
“Le persone giovani
lavoro, giacché la maggioranza di questi ha
sono più vulnerabili
concluso il proprio percorso di studi. Mentre i
in tempo di crisi.
giovani tra i 15 e i 24
hanno un’incidenza di
L’esistenza di molte
NEET di meno del 18%,
i giovani-adulti (tra i 25
tipologie contrattuali
e i 30 anni) hanno un
tasso dieci punti peratipiche e precarie,
centuali più elevato. La
maggioranza dei NEET
rendono i giovani
sono inattivi, ma colpisce l’elevata percentuale
meno competitivi sul
di giovani disoccupati
di lunga durata rispetto
mercato del lavoro”
a quelli di breve durata. La percentuale dei
giovani NEET aumenta
quindi con l’età: la causa non è semplicemente
spiegabile dalla percentuale di disoccupati e degli inattivi scoraggiati o marginalmente attaccati al
mercato del lavoro, che rappresentano una quota sostanzialmente costante del
complesso dei giovani dopo i 20 anni. Ciò che è invece degno di nota è la quota
di inattivi completamente uscita dal mercato del lavoro che aumenta al crescere dell’età. I giovani in questa condizione (circa 30.000 persone) rappresentano
circa il 6% dei ventenni, ma tra i giovani-adulti il loro peso sale al 10% circa,
e in valore assoluto il loro numero tra i trentenni è quasi il doppio di quanto
osservato tra i più giovani. Il fenomeno della crescita con l’età dei giovani che
si dichiarano ormai distaccati dal mercato del lavoro rappresenta – al pari degli
scoraggiati – un’altra anomalia del mercato del lavoro in Italia. Viene pertanto spontaneo chiedersi se questo fenomeno non sia la conseguenza di lunghi
periodi di mancanza di occasioni di lavoro che alla fine scoraggia in modo definitivo dal cercare e dal rendersi disponibile per qualsiasi tipo di attività lavorativa, o che può spingere a entrare nell’economia sommersa. Di fatto in Italia
siamo in presenza di una vera e propria trappola della precarietà.
Dopo anni di peana mediatici a favore della flessibilità contro una presunta
rigidità del lavoro che penalizzava – secondo i media dominanti e servili –
soprattutto le giovani generazioni, ci troviamo ora in una situazione in cui, in
assenza di qualsiasi struttura di welfare diretto (a quando un reddito minimo
garantito in Italia?), la flessibilità si è tragicamente trasformata in precarietà,
ricatto, invisibilità, povertà crescente, subordinazione, fuga dei cervelli. Non
c’è che dire, un ottimo risultato di 10-15 anni di politiche demagogiche del
lavoro, condotte da governi di diverso segno e da sindacati compiacenti! A
fronte di questa situazione, negli ultimi anni si sono però manifestati segnali
opposti, segnali volti a evidenziare il sorgere di forme autonome di contrasto
alla precarietà pur all’interno della precarietà stessa, come dimostrano le manifestazioni per il Primo maggio dei precari, la nascita di San Precario e della
stilista Serpica Naro.
•••
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TRE MITI
giovanili
da sfatare
Intervista
a Stefano Zamagni
di Paolo Magliocco
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Siamo di fronte a un passaggio epocale, che però oggi avviene
con una velocità molto maggiore rispetto al passato,
dice Stefano Zamagni, economista, docente universitario
ed ex presidente dell'Agenzia per il terzo settore. Per adattarsi,
le nuove generazioni devono cambiare il proprio rapporto con
la tecnologia, con le proprie capacità e con la cultura utilitarista
I
l tema delle differenze tra generazioni non è tipico di questa fase di sviluppo,
spiega il professor Zamagni, economista che da molto tempo guarda alle nuove
forme di organizzazione dell’attività umana. La differenza è che oggi il fenomeno ha subito un’accelerazione ignota alle epoche precedenti: le transizioni
del passato avvenivano a un ritmo talmente lento da consentire all’intera società
e alle sue istituzioni di aggiustarsi al cambiamento, mentre oggi i mutamenti sono
più rapidi della capacità di adattamento. «Io ritengo che la crisi economica che stiamo attraversando ha accentuato e ancor più accelerato il pro“I nostri giovani hanno
cesso, ma la trasformazione ha cominciato a produrre i proprio effetti
molte più capacità
un quarto di secolo fa. In una prospettiva storica, è bene ricordare che
dei giovani delle
questi fenomeni si sono già realizzati, dal Medio Evo all’Evo Moderno
generazioni passate,
e dall’Evo Moderno a quello Contemporaneo. Oggi si tratta della transima hanno meno
zione dalla società industriale a quella post industriale».
possibilità di tradurre
in azione le loro
conoscenze e capacità,
che restano quindi
allo stato potenziale”
PROFESSORE, CHE COSA COMPORTA QUESTA TRANSIZIONE?
Per capire le sfide per il presente e il futuro che la generazione dei giovani si trova ad affrontare, bisogna guardare a tre miti che caratterizzano
oggi la condizione giovanile. Il primo mito e la prima sfida riguardano
la tecnologia. Il mito tecnologico fa credere che tutto ciò che è tecnicamente realizzabile, possa e debba essere davvero fatto. Sappiamo bene, invece,
che gli strumenti che le conoscenze mettono a disposizione non necessariamente è
bene che si traducano in atti concreti. Bisogna chiarire ai giovani che il fatto che
siano nelle condizioni di avere accesso a una quantità di informazioni senza paragone nel passato, non significa automaticamente che le loro capacità cognitive e
riflessive siano aumentate nella stessa proporzione. I ragazzi oggi sono bombardati
da informazioni che non costituiscono conoscenza, che non si trasformano in conoscenza perché questo richiede una capacità di assimilazione che ha bisogno di
tempi diversi. Questo spiega le frustrazioni e le nuove sindromi anche psicologiche
che si stanno manifestando. Il secondo mito riguarda le capacità dei giovani e la
sfida consiste nel passaggio dalla capacità alla capacitazione. Nella lingua inglese
esistono due termini, capacity e capability, che in italiano possiamo tradurre come
capacità e “capacitazione”. La capacitazione è la capacità che si traduce in azione. I
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nostri giovani hanno molte più capacità dei giovani delle generazioni passate, ma
hanno minore capacitazione. Hanno meno possibilità di tradurre in azione le loro
conoscenze e capacità, che restano quindi allo stato potenziale. Bisognerebbe modificare l’impianto del sistema scolastico e universitario. Perché la nostra scuola,
soprattutto quella italiana, dà capacità, ma non dà capacitazione. È una sfida che
riguarda i giovani, ma che chiaramente coinvolge la classe dirigente e la classe politica. Il problema non è cambiare i programmi scolastici, bensì far fare esperienza
lavorativa ai giovani sin dalla scuola superiore.
QUAL È IL TERZO MITO?
La terza sfida è quella che riguarda il mito dell’Homo economicus, ovvero dell’utilitarismo. La cultura individualista di oggi, che ha soppiantato la matrice culturale
comunitarista che prevaleva in passato, ha prodotto indubbi risultati positivi, ma
ha determinato anche una situazione in cui il giovane oggi è ossessionato dalla preoccupazione di non riuscire a raggiungere le proprie mete. Il messaggio dell’individualismo è che ognuno debba farcela con le proprie forze, ognuno è responsabile
del proprio destino. Questo costituisce uno stimolo e un incentivo a migliorarsi, a
impegnarsi di più, a responsabilizzarsi, ma rischia anche di aumentare la frustrazione e soprattutto il senso di impotenza. Se a un giovane viene detto che ha il proprio destino nelle mani, che deve puntare e contare sulle proprie forze, nel caso in
cui non riesca a raggiungere i propri obiettivi c’è il rischio che vada incontro a una
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autodistruzione della sua personalità. Il mito dell’individualismo, dell’uomo individualista, oggi è la minaccia più grave che incombe sui giovani. Dai risultati delle
ricerche empiriche emerge che i giovani di oggi sono meno felici dei giovani del
passato. E con riferimento alle diverse coorti di età, i giovani sono, a parità di tutte
le altre condizioni (ceto, istruzione ecc.) meno felici dei meno giovani. L’indicatore
sintetico di felicità è più basso tra i 18 e i 30 anni che non tra i 30 e i 60 anni.
• In queste pagine:
i murales A better
world e Around
the world realizzati
dagli studenti
del liceo artistico
Boccioni di
Milano nell'ambito
del progetto di
riqualificazione
urbana EscoAdIsola.
Foto: Nuova AcropoliProgetto EscoAdIsola
www.escoadisola.it
CHE COSA SI POTREBBE O SI DOVREBBE FARE PER MODIFICARE
QUESTA SITUAZIONE?
Queste tre sfide devono essere vinte e per farlo servono un’azione sia sociale sia
politica. Ci vuole una riforma della scuola. Bisogna organizzare la nostra società
in modo da facilitare l’adesione dei giovani a esperienze di tipo comunitario significativo durante gli anni
della scuola, dell’università,
e anche dopo l’università.
Bisogna spiegare ai giovani che se non mettono in
pratica il principio di reciprocità, per esempio attraverso forme di volontariato,
il mito dell’individualismo
li distruggerà. Hanno molti più beni materiali e molti
meno beni relazionali. Hanno tanti contatti e poche relazioni: Internet, Facebook,
hanno aumentato i contatti,
ma non le relazioni. La terza implicazione riguarda la
famiglia. La famiglia è l’istituzione che per prima e più di tutte sviluppa funzioni non solo di tipo educativo,
ma anche relazionale. E bisogna affrontare il grande nodo dell’armonizzazione dei
tempi di lavoro e dei tempi di vita familiare. Se spingiamo solo all’aumento della
partecipazione anche delle donne al mercato del lavoro, che consente un aumento
del PIL e dei redditi delle famiglie, e non prestiamo attenzione al fatto che la famiglia vive di relazioni particolari, e racchiude i primi rapporti tra generazioni, esaspereremo il problema. Dobbiamo cambiare il modo di produzione. Bisogna che si
ricostituisca l’armonia tra le esigenze dell’impresa e quelle della vita familiare. •••
> Per un’economia a misura di persona, di Stefano Zamagni, 2012, Città Nuova, pag 96, 8,50 euro
> Economia ed etica. La crisi e la sfida dell’economia civile, di Stefano Zamagni, 2009, La Scuola,
pag 144, 9,30 euro
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
ANTROPOLOGIA
IMMAGINARE
il FUTURO
di Sara Zambotti
Antropologa
dell’Università Milano Bicocca
per costruirlo
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ANTROPOLOGIA
Bisogna aiutare i giovani a fare esercizio di esperienza
immaginativa, perché è propedeutica a una costruzione
consapevole del futuro proprio e dell’intera società.
Ci vuole una vera e propria educazione, che deve
passare anche attraverso la scuola
R
icordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli stessi errori: ne
inventerai di nuovi» GrouchoMarx. «Il futuro influenza il presente quanto
il passato» Friedrich Nietzsche. Mi sono affidata a due citazioni illustri
nel tentativo di tracciare i confini di un concetto così liquido, evanescente e pervasivo come il futuro, che Sant’Agostino definiva «dimensione dell’anima».
Intangibile per la sua stessa inesistenza nel presente, il futuro è tuttavia molto influente e generativo nel determinare le nostre scelte.
Mi vengono in mente due immagini tratte dall’attualità. La profezia sulla fine del
mondo prevista questa volta per il 21 dicembre 2012, è sintomo, come spiega il
filosofo della scienza Telmo Pievani, di un bisogno umano di controllare l’indeterminatezza del futuro fissando in modo arbitrario una data
per esorcizzare il pensiero di una fine vera. A pensarci, non
“Dall’altra,
lasciamo mai il futuro a se stesso, ma lo scandiamo con una
la scuola può
serie di contatori arbitrari (il calendario) e di riti di passagessere il luogo
gio: l’educazione, il lavoro, il matrimonio ecc. A quest’ansia di
dove i soggetti
predizione e controllo, vorrei affiancare la fotografia di uno
acquisiscono i
dei tanti striscioni esposti nelle recenti manifestazioni stusaperi (le arti,
dentesche: “Ci avete rubato il futuro”. I giovani sanno che il
le scienze,
loro futuro non dipenderà solo dalla loro azione individuale,
la letteratura)
ma in larga misura da una serie di opportunità e di diritti che
interrogandosi
devono essere costruiti socialmente dagli adulti. Le proposte
su come queste
di due autorevoli studiosi contemporanei, Arjun Appadurai
conoscenze sono
e Marc Augé, ci indicano due importanti dimensioni di una
strumenti in
possibile antropologia del futuro: da una parte, il rapporto tra
mano loro di
immaginario e futuro, che tra l’altro riecheggia osservazioni
costruzione
presenti nel numero 2 di questa rivista (vedi il dossier Immadel futuro”
ginare, iS n. 2), dall’altra, la distinzione tra futuro e avvenire.
• Nella pagina
precedente, un
murale del progetto
EscoAdIsola a
Milano, intitolato
Finis terrae.
Foto: EscoAdIsola
IMMAGINARIO, FUTURO, AVVENIRE
In Modernità in Polvere, uno tra i primi tentativi di adattare la teoria antropologica
classica alla trasformazione del mondo globalizzato e mediatizzato del XXI secolo, Appadurai, antropologo statunitense di origini indiane, introduce la categoria
dell’immaginario distinguendola da quella di fantasia. La dimensione fantastica
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• La libertà è un futuro
senza l'etichetta del
prezzo, si legge su uno
striscione apparso durante
una manifestazione di
studenti a Londra.
Foto: Carl Court/AFP/Getty Images
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indica infatti, secondo Appadurai, una fuga dalla realtà, una ricerca consolatoria strettamente soggettiva; l’immaginario prelude invece a una pratica sociale,
a un’azione, e si nutre di orizzonti storici, collettivi e sociali. Lo sviluppo delle
potenzialità dell’immaginario ha subito nell’epoca contemporanea una sostanziale
crescita sotto la spinta della diffusione dei mass media a livello globale. In questo senso, l’antropologo considera come i modelli proposti dai media aprono delle
possibilità di trasformazione concreta della propria vita
attraverso, appunto, l’opera dell’immaginario. La circo“I giovani sanno
lazione su scala globale di film, romanzi, serie televisiche il loro futuro
ve e anche musiche permette di entrare in contatto con
non dipenderà
traiettorie di vita altre dalle nostre, che si dipanano in
solo dalla
contesti a volte più virtuosi dei nostri. Immedesimarsi
loro azione
nelle vite di questi personaggi può preludere a un’azione
individuale ma
concreta, ovvero alla messa in pratica di un progetto di
in larga misura
emigrazione temporanea o permanente. In questo senso
da una serie di
ogni trasformazione futura è la conseguenza di un imopportunità
maginario che si sviluppa nel presente.
e di diritti che
Restando nel contesto dei flussi globali migratori, si ridevono essere
cordi, per esempio, il ruolo esercitato dalle trasmissiocostruiti
ni della televisione italiana durante l’immigrazione in
socialmente
Italia dall’Albania alla fine degli anni Novanta. Un’aldagli adulti”
tra distinzione interessante in tema di futuro è quella
proposta dall’antropologo francese Marc Augé, che, nel
suo recente saggio Futuro, distingue tra futuro come dimensione individuale e avvenire come dimensione sociale. In questo caso il futuro
rappresenta la traiettoria della vita soggettiva e, come tale, esso è unico e originale.
L’avvenire, invece, è l’orizzonte collettivo ed è il risultato di una serie di legami
sociali; in questo senso il richiamo degli studenti di cui si è accennato all’inizio fa
riferimento alla costruzione dell’avvenire da parte degli adulti di oggi, costruzione
da cui le giovani generazioni sono escluse da un punto di vista decisionale sebbene
siano destinate a pagarne le conseguenze.
IMPARARE A IMMAGINARE CHE COSA SUCCEDERÀ
Combinando queste due prospettive antropologiche, possiamo renderci conto di
come l’opera dell’immaginario nel presente è propedeutica a una costruzione consapevole del futuro (sul piano individuale) e dell’avvenire (sul piano collettivo). In
questo senso, mi piacerebbe qui proporre l’idea di un’educazione al futuro, ovvero
della promozione di percorsi nelle scuole o nelle organizzazioni lavorative in cui le
persone siano invitate a fare esercizio immaginativo, a prefigurare alcuni scenari
e scartarne altri, pensandosi così sempre di più determinanti nell’influenzare ciò
che sta per accadere, per passare dal piano della reazione a quello dell’azione. Sul
piano pedagogico, per esempio, quella che è la nostra impostazione scolastica ancora in larga misura improntata su un modello storicistico potrebbe essere nutrita
maggiormente di uno sguardo rivolto al futuro, di un’interrogazione continua del
passato ma nell’ottica di una presa di consapevolezza del disegno di futuro che si
sta prefigurando. Inutile sottolineare come tutto il percorso educativo sia un interECONOMIA
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vento rivolto al futuro, gli alunni di oggi saranno i cittadini di domani. Eppure, la
nostra società (e qui parlo della nostra, italiana) è caratterizzata da una distanza
abissale tra il tempo della formazione e quello in cui i soggetti oggi in formazione
diventeranno protagonisti del presente.
A SCUOLA PER LEGARE PASSATO E FUTURO
È un problema generazionale che non interessava i nostri padri e le nostre madri
(di noi trenta-quarantenni) ma che interesserà i nostri fratelli minori e i nostri figli, ovvero un ritardo nell’entrata a pieno titolo nella vita sociale dovuto alla crisi
e alla scarsa mobilità sociale che ci caratterizza. Quindi, da una parte, il futuro
deve diventare una prospettiva vicina e prevedibile e la società deve disporre di
modalità trasparenti e possibilità concrete di permettere agli individui di vedere
appagate le proprie fatiche costruttive. Dall’altra, la scuola può essere il luogo dove
i soggetti acquisiscono i saperi (le arti, le scienze, la letteratura) interrogandosi su
come queste conoscenze sono strumenti in mano loro di costruzione del futuro.
Favorire un pensiero applicativo, immaginare l’effetto di certe scoperte scientifiche
sull’ambiente, cercare nella storia, nella geografia e nelle scienze sociali le tracce
di un avvenire che si sta scrivendo, tutto questo è un modo per insegnare a sentirsi
protagonisti del futuro e di creare legame con il presente.
•••
> Futuro, di Marc Augé, Bollati Boringhieri, pag 138, 9 euro
> Identità Catodiche, di Piero Vereni, Meltemi Editore, pag. 168, 17 euro. Sul rapporto tra i mass
media e il processo di creazione delle identità
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Per i ragazzi non c’è niente di più credibile che sentirsi
dire che il futuro è morto. Invece bisogna impegnarsi
per capire come potergli presentare la crisi e quale
possa essere il loro ruolo per risolverla. Perché solo
loro potranno essere gli eroi che salveranno il pianeta
Q
uello che mi ha molto colpito nell’esercizio della mia professione è stata la
constatazione che ciò che fa soffrire i ragazzi non è il cumulo dei traumi
o delle inadeguatezze educative della loro infanzia o preadolescenza, ma
è una complicata relazione con il futuro. Li fa soffrire
di più il futuro del passato. È un fatto denso di conseguenze, per esempio
professionalmente, perché un conto è cercare di restituire passati pensabili ed elaborabili sulla base dei quali si possa costruire un’immagine di sé o un progetto per
il futuro, e un’altra è pensare di dover fare un’incursione nell’area della relazione
delle persone con il proprio futuro e verificare quali inadeguatezze, sentimenti di
esclusione, dolore l’adolescente provi. Da molti anni ormai con il mio gruppo lavoriamo nella prospettiva di restituire ai giovani futuri pensabili più che passati
tollerabili. È stato passare dagli studi di archeologia agli studi di futurologia.
• Nella pagina
precedente un
ragazzo ospite
di una comunità
per giovani
a Napoli.
Foto: Davide Monteleone/
Contrasto
• Nella pagina
successiva, una
manifestazione
di studenti contro
le politiche per la
scuola del Governo
a Palermo.
Foto: Giuseppe Gerbasi/
Contrasto
Può sembrare un modo di dire, ma è una cosa molto concreta. I ragazzi nella fase
dello sviluppo adolescenziale, ma anche in quella del giovane adulto, giustamente vengono definiti soggetti in età evolutiva, perché avvertono moltissimo come
proprio compito privato e personale, oltre che come compito generazionale e di
gruppo, quello di capire bene che cosa desiderano, che cosa vogliono. Cercano di
evitare di farsi influenzare dalla sottocultura dei mass media e dai modelli, dai
genitori, dalla Chiesa e dallo Stato per poter andare alla ricerca di sé e su questo
costruire un poco alla volta un progetto di vita, uno stile, la propria identità. Il
problema nasce quando i ragazzi avvertono di essere tagliati fuori, di non farcela,
di essere in una situazione di scacco. Per esempio quando sentono di non essere
ancora padroni della propria corporeità, di essere impediti dal proprio corpo, che
non li sostiene nella loro marcia evolutiva, nella realizzazione dei loro compiti. O
di essere in ritardo in una qualunque area della loro marcia evolutiva, se hanno
l’impressione di essere ancora fermi nel processo di separazione dalla mamma e dal
papà, di essere ancora molto figli e poco soggetti sociali, o sessuali. Allora nasce
un dolore particolare: assistere in diretta alla morte del proprio futuro. Pensano
che non riusciranno mai ad avere fascino, ad attrarre lo sguardo del ragazzo o del-
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demografia
antropologia
psicologia
PSICOLOGIA
Quando la crisi appariva un’opportunità
Vittorio Foa, intellettuale e antifascista, si chiedeva già anni fa quanto
e come l’esperienza di una generazione potesse dare un contributo
concreto e positivo alle generazioni successive. Cosciente di aver vissuto
un’esperienza eccezionale, come quella dell’opposizione al fascismo
e poi della guerra, Foa pubblicando molti anni dopo le sue lettere ai
genitori scritte dal carcere si domanda: «Possono queste lettere dire
qualcosa a una ragazza o a un ragazzo di vent’anni, l’età che più o
meno avevo io quando ho cominciato a scriverle?» L’epoca della sua
giovinezza era di grande e profonda crisi, percepita però come una
grande opportunità di cambiamento per l’intera società. Che cosa resta
di simili sentimenti oggi? Eppure, proprio il sentimento è la chiave,
dice Foa nella prefazione che pubblichiamo sul sito (http://link.pearson.
it/24EAB3F), attraverso la quale il contatto tra le generazioni avviene e
le esperienze si trasmettono e restano vive.
la ragazza che gli interessa, a inserirsi nel gruppo ecc. E non ci riusciranno adesso,
proprio ora. Se hanno l’impressione che quando entrano in classe è entrato l’uomo
invisibile, tutto il progetto futuro viene compromesso. Per l’età che hanno, per la
percezione drammatica che hanno, ne deriva una depressione che non è da perdita
dell’oggetto d’amore, ma da perdita del sé, che è ammutolito e pieno di vergogna.
Questa situazione li fa molto, molto soffrire. È un dramma grande. E allora cancellano la rappresentazione di un tempo futuro in cui si realizzerà quello che desiderano, il loro talento, in cui riusciranno ad amare e a farsi amare. Eliminano la
prospettiva della crescita del futuro e si insediano in un eterno presente. Diventano
“presentificatori”. Rendono i giorni tutti uguali. I compiti, la scuola, rappresentano
scadenze e impegno verso un futuro che non c’è. È una disperazione, un’assenza
di speranza. A un certo punto il dolore per essere ridotti così li porta a compiere
un gesto, a fare un’esperienza che gli ridia il futuro o quanto meno che gli faccia
smettere di avere paura facendo paura agli altri. Quindi azioni di solito violente o
trasgressive, che sono il sintomo e che attirano l’attenzione su di loro.
La relazione con il futuro, la capacità di sperare, è fondamentale. Da 14 anni in poi
il progetto futuro è superinvestito. Parlare del futuro ai ragazzi, agli adolescenti e
anche ai giovani adulti, significa parlare della cosa per loro più importante e anche
più segreta, più misteriosa, meno discussa, meno verbalizzata. I ragazzi possono
sviluppare un falso sé e apparire spavaldi e tronfi mentre in realtà si sentono piccoli e spaventati. Adesso che una crisi cosiddetta economica, che in realtà è più una
crisi etica e di sistema, getta ombre sul futuro, tutti quanti dovranno concorrere
a sostenere i ragazzi nella ricaduta che può avere la crisi non sul loro futuro, ma
sulla loro relazione con il futuro, quindi sulle loro fantasie e sulle rappresentazioni,
le ansie e i meccanismi di difesa per annullare la paura. Rispetto alle situazioni di
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crisi del passato, oggi mancano le filosofie della speranza, il marxismo o il liberismo o l’attesa della rivelazione di un Dio, che presentavano un futuro come inevitabile e già visibile e che ora sono tutte morte. Senza queste filosofie della speranza
il passo che porta a rifugiarsi nel presente è breve. Per ora a parlare di questo ai
ragazzi è quasi esclusivamente la sottocultura dei mass media, le cassandre che
avvisano che saranno la prima generazione nella storia dell’umanità che avrà una
qualità di vita di gran lunga inferiore a quella dei loro papà e dei loro nonni.
È proprio vero che questa crisi gli ruba il futuro, la possibilità di lavorare in relativa sicurezza, di avere una natura ancora a loro disposizione? Molti adulti ne sono
davvero convinti, anche se nessuno ha le prove che questo sia vero.
Oppure bisogna presentare loro le cose in modo diverso? Io penso di sì. Io credo
che la scuola e la famiglia debbano scegliere come rappresentare ai ragazzi la crisi
e quale possa essere il loro ruolo. Perché chi manomette il futuro dei giovani non
compie un’azione educativa bensì un’azione per certi versi violentissima, perché
semina disperazione su un tema che è proprio il più caro ai ragazzi.
Non c’è niente di più credibile per i ragazzi che sentirsi dire che il
“Siamo stati
futuro è morto. Gli educatori devono portare verso il futuro, verso
travolti dalla
la conoscenza, la verità.
nostra ignoranza
Io ho prove certe che i ragazzi che non sperano più, che sono didi prevedere
sperati, combinano guai. Fino a ora li abbiamo potuti aiutare nella
il futuro.
loro dimensione individuale, personale, dell’irripetibile storicità di
E bisogna che
ciascuno. Ma se fosse colpita un’intera generazione, che si convince
glielo diciamo"
che non c’è più futuro, sarebbe assai pericoloso. Non vedo nulla di
più urgente che dire che dobbiamo immaginare qualcosa che vada
oltre questa situazione e in cui la qualità della vita possa addirittura
migliorare. Se c’è una crisi vuol dire che c’era qualcosa di profondamente sbagliato
nel sistema precedente. Siamo stati travolti dalla nostra ignoranza di prevedere il
futuro. E bisogna che glielo diciamo.
Gli adolescenti e i giovani adulti sono in una fase in cui cominciano a lasciarsi
guidare nella vita dal sé sociale, dalla sensazione di essere un soggetto anche nella
società degli adulti. È un processo difficile, in cui devono mettere insieme fantasie
infantili, narcisismo della mamma e del papà, le aspettative del nonno e le loro, la
scoperta del proprio talento. Se da fuori il messaggio che gli arriva è che non c’è
nessuna aspettativa nei loro confronti, che non c’è nessun posto per loro, il rischio
è grave.
Per la scuola è obbligatorio il compito di elaborare il futuro, che non può essere
un effetto indiretto dell’azione formativa. Ognuno deve mobilitarsi per aiutare e
favorire una soluzione della crisi che sia di radicale cambiamento. Non c’è nessuna
possibilità di rimettere le cose come erano. Per forza bisogna trovare un’alternativa. E quelli che troveranno questa alternativa sono i ragazzini pluri-ripetenti che
si aggirano negli istituti tecnici e nei cosiddetti licei. Dobbiamo avvertirli che gli
dobbiamo consegnare un compito strepitoso, eroico, narcisisticamente molto ma
molto soddisfacente. Che non è vero che sono sfigati. Anzi. Noi non abbiamo avuto
la possibilità di farlo, ma a loro la storia chiede di salvare il pianeta. O ce la fanno
loro o non ce la farà nessuno. Loro sono i terrestri che salveranno la Madre Terra.
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PSICOLOGIA
Sul sistema economico e finanziario ci metteremo d’accordo, ma prima bisogna
salvare la Terra. Può sembrare strano e non so come sia successo, ma oggi i ragazzini prima che italiani o europei o altro, si sentono terrestri.
C’è un sentimento di responsabilità nei confronti del pianeta. Ma la scuola è in
balia delle discipline, e le discipline sono per loro natura rivolte al passato, conoscono lo sviluppo della storia, della geografia, della letteratura italiana e così via.
Sostengono che studiando bene il passato si diventa cittadini del futuro. I ragazzi
ne dubitano. In una situazione così grave bisogna mettere da parte lo strapotere
delle discipline e organizzare un’area in cui ci si interessa attivamente del futuro e
quindi dei grandi temi, come i conflitti tra le religioni, la globalizzazione, la compatibilità. Ci vuole un’area multidisciplinare di studio del futuro e di quello che del
futuro c’è già nel presente, con dei significanti che bisogna cogliere. Nessuna disciplina è competente nel parlare del futuro, un’area che studi il futuro è per forza di
cose multidisciplinare. Bisogna attivare un nuovo umanesimo multidisciplinare. Se
si riuscisse a fare questo, anche sperimentalmente, si riattiverebbe molto la motivazione dei ragazzi allo studio, che secondo me langue. L’impressione dei ragazzi è
che la scuola sia vecchia e poco utile, perché non solo non li aiuta nel presente, ma
non li aiuta a capire che cosa succede. Oggi il bisogno più importante dei ragazzi è
capire che cosa sta succedendo e che cosa devono fare. Sono sicuro che non sanno
che cosa sia la globalizzazione, non hanno una rappresentazione chiara, eppure
loro sono globalizzati. E non era mai successo che gli adolescenti della Corea del
Sud, del Giappone, del Canada e della Francia si assomigliassero: abbigliamento,
colonna sonora, Internet, videogioco. E quindi anche gli ideali, il modo di gestire
la corporeità, la sessualità, l’amicizia, il denaro, l’esplorazione, la notte. Sono molto,
molto globalizzati.
•••
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PSICOLOGIA
EPPUR SI MUOVE
eppur si muove
Il lavoro dei giovani con l'associazione Libera, nata
per diffondere la cultura della legalità e contrastare
quella mafiosa. Gli incontri nelle scuole, i progetti
educativi, il premio intitolato a Pio La Torre. E poi i
campi estivi realizzati sui terreni strappati ai clan,
veri laboratori di formazione civile
È
• In queste
pagine alcune
immagini dei
giovani al lavoro
durante i campi
di volontariato
estivi organizzati
dall'associazione
Libera.
Foto: archivio Libera
stato durante un incontro al liceo classico statale di Lecce Giuseppe Palmieri sulle
stragi del 1992 che Mattia, 17 anni, ha conosciuto Libera. E da allora sogna di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e diventare magistrato antimafia. «Marisa Capone quel pomeriggio mi presentò con entusiasmo l'associazione di cui era referente
locale: le azioni che svolgeva, come si contrastavano le mafie nella lotta sociale e soprattutto
mi parlò di una manifestazione, che si doveva svolgere a breve: quella del 21 marzo».
Ogni anno, infatti, il 21 marzo Libera celebra la Giornata della memoria e dell'impegno per
ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie. «Il primo giorno di primavera diventa quindi il simbolo della speranza che si rinnova ed è anche occasione di incontro con i familiari
delle vittime» aggiunge Giuseppe Parente, coordinatore del settore formazione di Libera.
«Quest'anno ci ritroveremo a Firenze, sabato 16 marzo, per un grande corteo che sarà il frutto
di un percorso che ci vede al fianco di studenti, insegnanti e dirigenti scolastici per riscrivere,
eppur si muove
giorno dopo giorno, il nostro impegno nella lotta contro le mafie e per l’affermazione della
giustizia sociale». In occasione della manifestazione nazionale, Libera invita le scuole ad
adottare una vittima di mafia, portando in piazza il suo nome e la sua storia. «Da sempre
Libera propone alle scuole questo progetto. Lo slogan di quest'anno è Semi di giustizia, fiori
di corresponsabilità: chiediamo agli studenti di scendere in piazza con dei fiori realizzati
con le loro mani in ricordo di chi ha perso la vita nella lotta antimafia». Sul sito di Libera è
disponibile un elenco di oltre 900 nomi di persone che hanno pagato con la vita l’impegno contro la prepotenza mafiosa, attraverso il quale è possibile individuare la vittima di
mafia su cui iniziare il percorso didattico.
• Laboratori di writing
e graffiti di Sfreno,
programma di
attività per gli
adolescenti
e giovani adulti.
Foto: archivio Mammut
LA SCUOLA È IL PEGGIOR NEMICO
Nata il 25 marzo 1995, Libera cerca di instillare nella società civile la voglia di impegnarsi
per promuovere un cambiamento, nel nome della legalità e della giustizia, e costruire una
società alternativa alle mafie, che si fondi sui valori della cittadinanza e del convivere
civile. Nella convinzione che, se la cittadinanza è attiva e responsabile, si possono creare
gli anticorpi alla cultura del privilegio e della corruzione, presupposto al dilagare dei fenomeni mafiosi. L’associazione presieduta da don Luigi Ciotti cerca infatti di permeare i più
giovani di valori positivi, legalità e solidarietà prima di tutto, attraverso attività a scuola
perché, come diceva il magistrato Antonino Caponnetto, «la mafia teme più la scuola della
giustizia: l'istruzione toglie l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa».
eppur si muove
• Attività del
laboratorio Forse
un drago nascerà.
E anche se può sembrare difficile parlare di mafia, corruzione, pizzo nelle scuole di ogni ordine e grado, Libera lo fa, in modo che la conoscenza dei fenomeni mafiosi e il ricordo delle
vittime di mafia accompagnino la crescita di cittadini responsabili e liberi. E perché in fondo
la scuola è il luogo ideale per l'affermazione dei diritti e l'esercizio della cittadinanza attiva,
dove può nascere e maturare un pensiero critico, attraverso l’incontro tra generazioni diverse e la condivisione di esperienze. «Ogni anno presentiamo nelle scuole le
nostre attività e analizziamo insieme agli studenti e agli
insegnanti il fenomeno delle mafie e le risposte legislative
promosse dallo Stato e dalla società civile, avvalendoci
anche della testimonianza dei familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata» spiega Parente. «Nel
corso del 2011 Libera ha svolto attività in 4210 scuole,
coinvolgendo oltre 1.300.000 studenti». Incontri, dibattiti, workshop, spettacoli teatrali che mirano anche a far
conoscere quello che secondo don Ciotti è «il primo testo
antimafia»: la Costituzione. Nel pianificare gli interventi
educativi, il confronto con i docenti è determinante: da
un lato per conoscere il contesto scolastico in cui si interviene, dall’altro per costruire insieme una pedagogia antimafiosa e capire quali strategie
educative mettere in atto per contrastare quella “cultura del malaffare” che mette in crisi
i sistemi economici e culturali di tutto il Paese. «Per ragionare sui sistemi mafiosi bisogna
ragionare infatti sui sistemi culturali che si contrappongono a una società fondata sui diritti
e sul rispetto dell’altro. E rendersi conto che l'atteggiamento mafioso non riguarda solo chi cresce in contesti
criminali, ma si insidia nella cultura dell’indifferenza di
fronte alle ingiustizie e alle prevaricazioni di qualsiasi
tipo».
IL MALAFFARE DIETRO CASA TUA
Per promuovere percorsi di educazione alla legalità, Libera supporta insegnanti ed educatori anche con materiale didattico e informativo, come il manuale Sapere
per sapere essere (disponibile sul sito, l’ultima edizione
viene distribuita in formato cartaceo su richiesta) che
offre una cassetta degli attrezzi per lavorare in classe sui temi della cittadinanza responsabile e del contrasto civile alle mafie. Anche ricorrendo a metodi didattici alternativi alla
lezione frontale, che diano spazio all’animazione sociale e alla partecipazione attiva degli
studenti. Per esempio, dal progetto formativo Informati per informare, realizzato nelle scuole della provincia e dei municipi di Roma, è emerso che i ragazzi sono entusiasti di portare
avanti lavori d’inchiesta sul malaffare a livello territoriale. Hanno insomma le carte in regola
per diventare “portatori sani di informazione” e protagonisti del cambiamento, denunciando
situazioni d’illegalità e di diritti negati. «Anche quest’anno, inoltre, con il Premio Pio La Torre
incoraggiamo chi ha tra gli 11 e i 21 anni a ricordare l’impegno di quest’uomo politico che fino
alla morte ha lottato contro la mafia, chiedendo loro di elaborare una proposta imprenditoriale per il riutilizzo sociale di aziende del proprio territorio confiscate alla criminalità. E,
eppur si muove
• Momenti di lavoro
e incontro di SMIT,
la Scuola Mammut
di Italiano per Tutti.
Foto: archivio Mammut
insieme al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, invitiamo tutte le scuole a
partecipare al concorso Regoliamoci, con l'obiettivo di far riflettere gli studenti sul tema del
gioco e dello stare insieme secondo regole condivise». Lavorare sul tema delle regole e del
rapporto tra diritti e doveri nella relazione con gli altri è il primo passo, in fondo, per riflettere, a scuola, sulla mafia. Fenomeno di cui i ragazzi hanno una consapevolezza abbastanza
forte, seppur fatta di luci e ombre. «Sanno che agisce in maniera insidiosa in tutto il Paese e
che non riguarda più solo le regioni del Sud. Tuttavia la maggioranza ritiene il fenomeno mafioso distante dalla propria quotidianità» sottolinea Ludovica Ioppolo, ricercatrice di Libera
che ha curato uno studio sulle rappresentazioni del fenomeno mafioso tra gli studenti di
scuole superiori in Toscana, Lazio e Liguria. «Inoltre, anche per effetto delle fiction televisive, c’è una forte mitizzazione dei protagonisti, sia dei mafiosi sia di chi si è battuto sul fronte
antimafia». Nell’immaginario collettivo, in pratica, la lotta alla mafia non appartiene alle migliaia di persone che nell’anonimato hanno costruito e costruiscono la storia del movimento
antimafia nel nostro Paese, ma si incarna in pochi eroi.
eppur si muove
UN'ESTATE CIVILE
La prova della diffusione del fenomeno mafioso e contemporaneamente di come può
nascere una nuova coscienza civile e dell’impegno dei giovani, soprattutto studenti, si
incontra a Borgo Sabotino, piccolo paesino in provincia di Latina. Dal 2011, nel camping
California Village confiscato per abusivismo edilizio, ospita il Villaggio della Legalità intitolato a Serafino Famà, avvocato catanese ucciso, con sei colpi di pistola, il 9 novembre del 1995. Il Villaggio, gestito da Libera, è uno dei tanti beni confiscati alla mafia che
ogni anno ospitano i campi di volontariato E!State Liberi. Occasione, per tanti ragazzi e
ragazze, di impegnarsi nel lavoro dei campi o in attività di riqualificazione delle strutture stesse, di aprire gli occhi contro le mafie e crescere. Appagati dall'idea di contribuire
a ridare vita a territori maltrattati e sfruttati per interessi mafiosi.
Tra luglio e agosto scorsi, oltre 100 volontari, provenienti da tutt’Italia, hanno lavorato
nel villaggio di Borgo Salentino, a pochi chilometri dal litorale di Anzio e Nettuno e dal
lungomare di Latina. «Abbiamo lavorato come macchine d'ingegno e la gioia e la soddisfazione per un progetto concluso ci hanno fatto sentire vivi. Vivi com'è vivo il ricordo di
chi ha pagato con la vita il fatto di credere in una via d'uscita e nella fine dello scempio»
racconta Isabella, che a luglio ha partecipato ai lavori di manutenzione del villaggio, più
volte colpito da raid mafiosi e azioni vandaliche dopo essere stato assegnato all’associazione Libera dal Commissario Prefettizio del Comune di Latina. Isabella è orgogliosa
di essersi sporcata le mani nel campo-lavoro a Borgo Sabotino.
Ma il primo vero risultato di questo campo di antimafia culturale, secondo Françoise,
«non è tanto il grigio dei muri che gradualmente lascia il posto a un arancio convinto
come la nostra presenza qui, né gli incredibili progetti dei murales concepiti e da realizzare, quanto il rispetto per le proposte che ciascuno avanza per il cambiamento». «Noi
rappresentiamo il futuro della nostra nazione» aggiunge Achraf. «Se fossimo soddisfatti
della situazione avremmo dovuto rimanere a casa e non scommettere su noi stessi, partecipando a questo campo di volontariato. I nostri referenti hanno organizzato attività
ludiche, intellettuali, creative e manuali, per farci remare nella stessa direzione con la
maggior coordinazione possibile. E questa tattica è la stessa che si deve adottare per
sconfiggere qualsiasi tipo di mafia. Il fatto che me ne sia reso conto sta a indicare che
questo campo è più che utile per aprire gli occhi contro le mafie».
Isabella, Françoise e Achraf sono tre dei seimila ragazzi che hanno scelto di vivere un'esperienza di volontariato e di formazione civile (il lavoro manuale si affianca infatti allo
studio del fenomeno mafioso, anche attraverso il confronto con i familiari delle vittime
di mafia e testimoni di giustizia) nei 32 campi gestiti da Libera, assumendo un impegno
concreto, nella convinzione che il cambiamento ha bisogno di ognuno di noi. Ed è su
questa convinzione che si basa l’azione di Libera nel contrastare la diffusione dell’illegalità e il dominio mafioso del territorio. Ed è così che Libera, come scrive Francesca,
alla fine della sua esperienza nel Villaggio della Legalità, diventa «l'eco assordante di
coscienze vive».
•••
> Il sito di Libera www.libera.it
EPPUR SI MUOVE
eppur si muove
Undici anni fa nasce a Sasa, piccolo villaggio in Israele,
il Teatro Arcobaleno: laboratorio di creatività ed
educazione alla convivenza civile aperto a giovani ebrei,
musulmani e cristiani. Un invito per ragazzi di religioni
ed etnie in conflitto a calare le maschere del pregiudizio
e a dimostrare che la pace è possibile
I
• Gli allievi del Teatro
Arcobaleno recitano
nello spettacolo
Beresheet, una
storia danzata della
convivenza civile
in cui, come spiega
il titolo, “in principio
era la pace”.
Foto: Beresheet LaShalom
Foundation
l teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere fra te e me». Guardando il
modo di far teatro della Compagnia Arcobaleno, che da anni educa all’espressione decine di giovani, tornano in mente le parole asciutte con cui Jerzy Grotowski, maestro del
teatro sperimentale, sintetizzava il fine della pratica teatrale. Le frontiere che separano
i giovani attori di questa compagnia dai loro compagni di avventura sono reali e di difficile
attraversamento. Frontiere politiche, religiose, culturali e linguistiche prima ancora che simboliche e psicologiche. Perché questa scuola di teatro situata nella Galilea settentrionale,
uno dei territori di Israele a più alta differenziazione etnica e sociale, è aperta a giovani di
diversa provenienza. Arabi ed ebrei. Musulmani, ortodossi, cristiani. Laici e credenti.
METTERE IN CONTATTO LE DIFFERENZE
L’idea di creare una zona franca di espressione artistica e convivenza pacifica in un territorio di confine devastato dai conflitti nasce dieci anni fa, su iniziativa di Angelica Edna Calò
Livné. Educatrice e regista teatrale, nata a Roma, da famiglia ebraica, Angelica si trasferisce
eppur si muove
in Israele a vent’anni, dove comincia a insegnare teatro a giovani ebrei di realtà geografiche
e sociali diverse: ragazzi delle città, giovani provenienti dalle comunità rurali dei kibbutz e
dei moshav (una forma di cooperativa agricola), studenti disabili. Nel 2001, mossa dal desiderio di mettere in contatto e dialogo «più differenze possibili» decide, assieme al marito
Yehuda, di richiamare arabi, cristiani e musulmani ed ebrei attorno a un progetto artistico
e civile tutto da avviare. Fuori è da poco cominciata la Seconda Intifada: una nuova stagione di assedi e attentati che in quattro anni mieterà circa 5.000 vittime tra palestinesi e
israeliani. Ricominciare a sperare, in un momento di violenza così acuto sembra impossibile.
Eppure la guerra accende nei coniugi Calò Livné la voglia di testimoniare un possibile nuovo
“inizio di pace” - in ebraico Beresheet LaShalom - attraverso la creazione di un gruppo di
ragazzi che, condividendo l’entusiasmo per l’arte, possano superare gli antichi rancori tra i
popoli a cui appartengono.
GIÙ LE MASCHERE, SIAMO TUTTI UGUALI
Da queste premesse matura Beresheet, il primo spettacolo allestito dalla compagnia, ancora
oggi rappresentato, in cui i giovani attori narrano il passaggio da una pacifica convivenza
originaria all’esplosione della violenza e infine alla conquista di una nuova, possibile riconciliazione. I movimenti del corpo a ritmo di musica e le coreografie raccontano il deflagrare
della conflittualità tra i due gruppi, mentre l’atto del calar giù le maschere prelude alla riconquista di una nuova amicizia. La maschera costituisce un elemento scenico forte e polisemico, che rappresenta tanti tipi di ostacoli diversi: pregiudizio, stereotipo, rifiuto del sé
Angelica Edna Calò Livné, donna di pace
> Nata a Roma nel 1955, Angelica Edna Calò Livné si trasferisce in Israele a
vent’anni, dove compie gli studi universitari e si dedica all’insegnamento
del teatro fin quando nel 2001, assieme al marito Yehuda, dà vita alla
Compagnia dell’Arcobaleno, di cui diventa direttrice didattica, e nel 2004 alla
Fondazione Beresheet LaShalom. Obiettivo del progetto, che le varrà numerosi
riconoscimenti internazionali è “educare alla pace attraverso le arti”.
Successivamente promuove nuove iniziative di educazione alla pace,
tra cui Per Disegnare un Sorriso sul Loro Volto, un progetto di attività
interculturali destinato a bambini israeliani colpiti dagli attacchi
terroristici e, assieme all’amica palestinese Samar Sahar, Bread for peace,
iniziativa volta a unire donne musulmane, cristiane ed ebree mediante la
lavorazione del pane. Nel 2006, con il marito Yehuda fonda la squadra di
calcio interreligiosa United Colours of Galilee e nel 2008 avvia il Centro
Ecologico per la pace, un luogo di vita comunitaria aperto a giovani di
diverse culture in cui lavorare sul binomio pace-natura.
Conduce laboratori di educazione alla socialità e all’espressione anche in
Italia, Paese con cui ha mantenuto negli anni uno stretto legame. Moglie
e mamma di quattro figli, ha fondato con il marito il primo agriturismo
di Israele, nel kibbutz di Sasa, dove attualmente vive, insegna, fa teatro
e scrive libri.
eppur si muove
reale. Intervistato sul significato di questo simbolo, Ilian Smam, giovane arabo di religione
cristiana, confessa: «Questa maschera rappresenta una faccia piena di razzismo, odio, gelosia e orgoglio. Quando la tolgo sento che la vita è più facile». Nell’esperienza didattica e
civile di Beresheet prende dunque corpo l’ispirazione di un teatro-laboratorio che, come
suggeriva Grotowski, diventa occasione di «integrazione, rifiuto delle maschere, palesamento della vera essenza» e che realizza il superamento di tante frontiere. Quelle psicologiche tra diverse zone del proprio sé, quelle culturali e identitarie tra i giovani interpreti,
quelle espressive tra attori e spettatori. Il risultato è una rappresentazione che, affidandosi al linguaggio universale del gesto e dell’espressione, supera le barriere e rende visibile
la comune natura umana dei partecipanti. «Non c’è differenza tra me e un ragazzo arabo,
solo perché io sono ebreo e lui è arabo. Per me questa è l’essenza del teatro», commenta
un giovane interprete. Dal punto di vista tecnico, Beresheet non prevede la recitazione di
un testo scritto, ma costituisce l’approdo di un lavoro integrato che conduce i ragazzi a
trasfigurare simbolicamente le loro paure e aspirazioni attraverso la libertà creativa, ma
vincolata del gesto. Grazie a un metodo che valorizza l’improvvisazione e il vissuto emotivo degli interpreti, la messa in scena diventa così un organismo vivo, che si trasforma
a seconda della personalità e degli umori degli attori, delle reazioni del pubblico, e che
continua a rinnovarsi anche a diversi anni di distanza dalla prima recita.
PER TORNARE A SPERARE
La scuola di teatro Arcobaleno nasce come un luogo di accompagnamento alla crescita
di autoeducazione alla convivenza civile e alla speranza. Perché in una zona di guerra, il
monito a «continuare a sperare» e a «non arrendersi alla violenza» non arriva dall’esterno,
ma è una conquista quotidiana che ci si deve autoimporre, racconta Angelica Edna.
eppur si muove
Molti dei ragazzi che entrano in contatto con i coniugi Calò Livné si portano dietro ferite
difficili da rimarginare. Ci sono musulmani che hanno vissuto il disastro della colonizzazione attraverso i racconti dei loro genitori, ebrei con famiglie distrutte dagli attentati.
Hanno idee politiche divergenti, ma attraverso il teatro imparano a guardare avanti e a
concentrarsi, più che sulle paure, sulle speranze. Ilian, per esempio, ricorda: «All’inizio è
stato molto difficile per me. Ero molto razzista verso gli ebrei. Li odiavo molto, perché i miei
nonni e i miei parenti sono stati cacciati via da un paese che si chiama Sohnata. Quando ho
iniziato a fare teatro ho dovuto cambiare idea, perché se si rimane a rimpiangere il passato
non si raggiunge la pace». Un altro esercizio a cui si dedicano i ragazzi dell’Arcobaleno è
coltivare sogni, alcuni dei quali ambiziosi, come quello espresso da Chrine, una giovane
musulmana: «Vorrei una pace come quella che c’è in Europa. Viaggiare tra i Paesi senza
passaporto, senza nessun controllo, senza che ti chiedano chi sei, da dove vieni e dove vuoi
andare».
UN MODELLO PER L'ITALIA
Negli anni, il repertorio della compagnia si è ampliato a nuovi spettacoli: Anne in the Sky,
pièce ispirata alla vicenda di Anna Frank, Le avventure di Pinocchio e Vita di Galileo di Bertolt
Brecht. Le recite totali sono state più di 300 e hanno coinvolto un pubblico complessivo di
circa 90.000 persone. E la Fondazione Beresheeet LaShalom, che fino a oggi ha accolto a
Sasa più di 150 ragazzi, è uscita dai confini del Medioriente ed è approdata in Italia, Paese
con il quale Angelica mantiene un rapporto di elezione. Perché di educazione alla convivenza civile ha bisogno anche l’Europa, oggi interpellata da una nuova sfida all’integrazione.
In collaborazione con Wizo - Associazione Donne Ebree d’Italia, è nato così il ciclo di seminari itineranti Una cultura in tante culture, realizzato nelle scuole di diverse città italiane.
Rivolto inizialmente ai docenti, questo progetto di educazione all’interculturalità si è poi allargato agli studenti. Anche in questo caso gli incontri condotti da Angelica Edna sono centrati sulla conoscenza reciproca, la riscoperta espressiva del
corpo, l’apertura emozionale, l’improvvisazione. Il trasferimento, qui da noi, delle pratiche educative sviluppate in Israele - «il più grande laboratorio di culture del mondo», come lo definisce Angelica Edna - funziona, nei racconti dei ragazzi che partecipano ai laboratori. Ricorda Giovanni, del Liceo Casiraghi di Cinisello Balsamo: «Pian
piano, un arto alla volta, ci siamo sciolti. Ho visto persone che conoscevo da anni come
timidi cronici ballare e saltellare per la stanza e ragazzi sconosciuti svelare volti nascosti e inimmaginabili. Alla fine dell’incontro erano tutti rilassati e sorridenti, ci siamo salutati come vecchi conoscenti e un mio compagno di classe mi ha detto ridendo: "Oggi
ci siamo fatti un bel po’ di nuovi amici!"».
•••
Guarda il video della
performance
http://link.pearson.it/
C76D99D0
> Il teatro dell’Arcobaleno www.masksoff.org
> La fondazione Berehseet LaShalom www.beresheetlashalom.org
> Bread for peace www.breadforpeace.org
> La squadra di calcio United Colours of Galilee http://www.unitedcoloursofgalilee.org/
> Una Voce ha chiamato e sono andata. Beresheet LaShalom: i primi 10 anni, di Edna Calò Livné, Proedi,
2011, pag. 80, 10 euro
BENCHMARK
di Stefano Glenzer
benchmark
Ogni mese il programma internazionale PISA
pubblica focus dedicati a singoli temi della scuola
e dell'apprendimento che danno la possibilità di
paragonare la situazione dei diversi Paesi del mondo.
Per scoprire, per esempio, che la situazione degli
studenti stranieri non è sempre la stessa e che alcune
difficoltà possono pesare più di altre
U
n bambino immigrato quando arriva a scuola si trova subito ad affrontare una
lunga serie di problemi. Nella maggior parte dei casi la lingua che usa in aula è
diversa da quella in cui si esprime a casa. Probabilmente frequenta una scuola
con una alta concentrazione di bambini stranieri. Una scuola che magari è in
condizioni economiche difficili. I suoi compagni forse usano altre lingue ancora, diverse sia
dalla sua sia da quella usata durante le lezioni. Gli studenti immigrati o figli di immigrati si
trovano così in una posizione di svantaggio, che rischia di compromettere il loro rendimento
scolastico. Per farcela devono superare vere e proprie barriere: il loro stesso status di immigrati, l’ostacolo della lingua, una situazione economica spesso difficile, il fatto di frequentare coetanei con gli stessi problemi. Ma davvero è ovunque così? Giovani e giovanissimi immigrati si trovano certamente in situazioni simili nei diversi Paesi del mondo, perlomeno in
quelli che devono affrontare una forte immigrazione dalle regioni
più povere del pianeta. Ma quanto simili? E poi, quale tra i tanti
svantaggi che uno studente straniero deve affrontare nella sua
avventura scolastica pesa di più? Una risposta è difficile da dare
e sarebbe estremamente utile, sia a chi si trova quotidianamente
ad avere a che fare con questa realtà, a cominciare dai docenti,
sia a chi può intervenire con scelte di politica scolastica. Proprio
per trovare risposte come questa, l’OCSE nel 2000 ha istituito il
PISA, il programma per la valutazione internazionale dell’allievo. Il
suo compito principale è valutare ogni tre anni il livello delle competenze maturate dagli studenti di 15 anni del maggior numero
possibile di Paesi e, di conseguenza, la qualità dei loro sistemi scolastici (vedi anche l’approfondimento sul primo numero del nostro
magazine). Si tratta della sua funzione principale, che però è anche un punto di partenza:
sfruttando i dati raccolti in ognuna di queste macrorilevazioni, e grazie ad altre indagini
internazionali condotte su singoli temi, il PISA pubblica ogni mese sul suo sito un focus su
un tema particolare. Sono approfondimenti di quattro pagine accompagnati da statistiche e
grafici scritti in maniera semplice e diretta. Disponibili in inglese e francese, in alcuni casi si
possono trovare anche le versioni in italiano, tedesco, cinese, spagnolo e portoghese.
L'indagine sugli ostacoli all’ambientamento degli studenti stranieri è un esempio molto
chiaro dell'utilità di questi confronti che per ciascun Paese sarebbero difficilissimi da realizzare e che sono in grado di mettere in evidenza differenze significative e, talvolta, anche di
scoprire gli effetti di tali differenze. Tutti i Paesi hanno certamente problemi di inserimento
da parte dei ragazzi stranieri. Ma probabilmente problemi diversi. La percentuale di immigrati che frequentano le scuole con la più alta concentrazione di stranieri, per esempio, non
è affatto omogenea, neppure in Europa. In Lussemburgo e in Svizzera è molto inferiore alla
media dei Paesi OCSE, addirittura sotto il 50%, mentre in Italia si supera la media, anche se
Il blog di un'esperta per capire meglio i dati
Ogni focus viene accompagnato da una riflessione nel blog di Marilyn
Achiron, redattrice del consiglio direttivo per l’educazione del PISA.
Americana, laureata a Yale in letteratura inglese, in passato Achiron
ha lavorato anche per il settimanale Newsweek, per l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e per la Croce Rossa Internazionale.
I suoi post approfondiscono un tema particolare del focus del mese,
oppure ne spiegano in maniera più discorsiva il contenuto, cercando di
dare comunque una chiave di lettura personale. Nel commento al focus
sugli studenti stranieri svantaggiati, per esempio, Achiron cita il caso
positivo della provincia canadese dell’Alberta, nella quale le scuole con
i risultati migliori sono quelle con il più alto numero di alunni immigrati.
Un modello positivo da fare conoscere anche agli altri Paesi: «Spesso i
buoni risultati derivano da politiche regionali o nazionali pensate apposta
per provvedere e fare rendere al massimo classi eterogenee di studenti».
benchmark
I Papers, per chi vuole approfondire
L’OCSE pubblica con cadenza mensile anche gli Education Working Papers. Si tratta di studi
selezionati da più ampie ricerche della Divisione Educazione dell’OCSE, in genere lunghi tra
le 20 e le 50 pagine. Come per i focus del PISA, anche questi documenti sono disponibili in
inglese e francese, ma sono accompagnati da sommari presentati in altre lingue. I temi che
toccano sono molti: dall’impatto delle ricerche del PISA sulle decisioni dei Paesi in termini
di educazione, all’istruzione connessa all'abuso di alcol prendendo in esame il Regno Unito,
fino alla differenza delle prospettive di carriera per studenti e studentesse.
Si possono scaricare gratuitamente dal sito http://www.oecd-ilibrary.org/ nella sezione Papers.
la situazione è migliore, per esempio, rispetto a Paesi come la Gran Bretagna. La prima barriera da superare è quella linguistica, in media più della metà degli studenti dei Paesi OCSE non
parla in famiglia la stessa lingua che utilizza a scuola. Ma in Estonia questo è vero solo per un
giovane su quattro, mentre in Italia la quota sale a oltre sei ragazzini su dieci, più o meno come
in Francia, Austria e Olanda e, ancora una volta, meno che in Gran Bretagna. La famiglia può
certamente influenzare i risultati scolastici, soprattutto tra gli studenti immigrati, ma il focus
del PISA individua una forte correlazione tra il rendimento scolastico e il livello di istruzione
delle madri. I ragazzi più svantaggiati sono quelli con madri che non abbiano raggiunto la
scuola secondaria. Se poi in una scuola sono molti i ragazzi che condividono questo svantaggio culturale in famiglia, gli esiti peggiorano ancora. In questo parametro troviamo agli ultimi
posti della classifica Olanda, Stati Uniti, Francia, Danimarca e Regno Unito, tutti sopra il 50% a
fronte di una media OCSE del 36%. L'Italia in questo caso è invece ben al di sotto della media.
Il tema delle difficoltà scolastiche per i giovani immigrati è solo uno dei tanti temi trasversali che il PISA presenta con l’obiettivo di aiutare a comprendere tutti gli aspetti del mondo
dell’istruzione. Un'altra indagine recente ha tentato di scoprire quanto conti per i ragazzi la
presenza dei genitori. E da questo focus emerge che i genitori che leggono spesso un libro
con i figli quando sono piccoli è come se costruissero per loro una piccola rendita, che gli
consentirà di avere risultati migliori nelle prove di lettura quando saranno più grandi. E anche, per esempio, che gli studenti con i quali i parenti discutono di politica o su temi d'attualità ogni settimana ottengono, in media, 28 punti in più alle prove del PISA rispetto a quelli
che hanno padri e madri che si impegnano di meno nel rapporto con loro: il Paese che guida
questa speciale classifica è l’Italia, la migliore con 42 punti, mentre i genitori di Macao sono
i peggiori. Non stupisce invece il focus di luglio 2012, che si interrogava sull’effettiva utilità
delle attività extracurriculari in materie scientifiche come escursioni, esercitazioni sul campo, competizioni tra istituti, fiere tecnologiche. Ebbene, non solo i ragazzi che frequentano
scuole impegnate in queste iniziative hanno ottimi risultati in una o più materie scientifiche.
Ma grazie all’allenamento extra scolastico sviluppano anche un migliore approccio a questa
classe di discipline che possono sfruttare negli anni successivi.
•••
> La pagina dei Focus sul sito del PISA http://www.oecd.org/pisa/pisainFocus/#d.en.199059
> L’approfondimento dedicato al PISA sul primo numero del nostro magazine http://is.pearson.it/
magazine/pisa-radiografia-dellistruzione-nel-mondo
oltre la scuola
L'artigianato di alta gamma
L
o scenario della vita individuale e sociale è intriso
è una eccellenzadel nostro Paese,
nel nostro Paese di cultura
e di memoria figurativa. Ababituato a coabitare con il bello
biamo la più alta concentrazione di
in tutte le sue forme e a riprodurlo opere d’arte al mondo, viviamo immersi nell’arte e nella storia e, nononegli oggetti di uso quotidiano. stante fenomeni di degrado, dentro
abituali percorsi di una qualsiasi
Un ambito di studio e di lavoro gli
giornata possiamo quasi ovunque
che viene preso in considerazione fare diretta esperienza di testimonianze legate alle tante diverse traancora troppo pocoe che può dizioni estetiche che si sono succedute nel nostro territorio. Si tratta
portare al successo, di un patrimonio inestimabile che ha
plasmato il gusto e
individuale e collettivo insensibilmente
la qualità della vita e ha esercitato
influssi ampi e duraturi su un artigianato di altissimo livello. Nelle botteghe e nelle industrie italiane sono nati modelli,
stili e tendenze che dai contesti originari si sono irradiati fuori dai confini, ad altri luoghi e Paesi. A differenza dei visitatori stranieri però, la consapevolezza dell’eccezionale
qualità ambientale dell’Italia è tra noi assai scarsa, come lo è la capacità di valorizzare
una sapienza artigiana profondamente innervata nella cultura della nostra società. Questo segmento professionale soffre di una drammatica carenza di vocazioni, non attrae
nuovi operatori, o lo fa in misura troppo ridotta, e il lavorarvi viene avvertito come una
opzione al ribasso. Da centro che siamo, rischiamo di ritrovarci in breve tempo periferia, perché si sta interrompendo la trasmissione di talenti e competenze secolari. Far
conoscere questo continente inesplorato è uno dei compiti che si è data la Fondazione
Altagamma, che riunisce marchi di notorietà internazionale. Nel ventennale della sua
costituzione questa associazione di imprenditori ha messo in cantiere una
nutrita serie di iniziative che agiranno anche sul medio e lungo periodo.
“Il gusto delle cose
Con il Centro Sperimentale di Cinematografia è stato realizzato un filmato
che la mano plasma”
che, attraverso interviste a soci, maestri e giovani lavoratori rilancia una
Le Corbusier
convincente alternativa ai mestieri intellettuali; una mostra fotografica alla
Triennale di Milano (Italian Contemporary Excellence, 2012) e il libro che ne
è stato tratto restituiscono in un caleidoscopio di immagini le affascinanti sfaccettature
di mondi tra loro diversissimi ma per molti versi contigui. Su un versante più istituzionale sono stati siglati due importanti protocolli di intesa. Il primo, stipulato il 16 febbraio
2012 con Italia Lavoro, l’agenzia tecnica del Ministero del Lavoro, definisce un accordo quadro per “la valorizzazione del lavoro manuale e per la diffusione dell’apprendistato
presso le migliori realtà imprenditoriali del paese”. Il secondo, del 29 novembre 2012, vede
protagonisti Fondazione Altagamma e Federsolidarietà-Confcooperative; in una logica
di sistema si pone l’obiettivo di favorire sotto diversi punti di vista, anche formativi, le
relazioni tra imprese profit e no profit, così coniugando l’eccellenza della qualità con il
valore sociale. Ma un campo di intervento cruciale è senza dubbio la scuola, come sottolinea Francesco di Lauro, direttore del Centro Studi e Formazione Altagamma. Qui si
oltre la scuola
Che cos'è Altagamma
• Le immagini di queste
pagine sono tratte
dal libro Italian
Contemporary
Excellence, e
presentano prodotti e
attività di formazione
di alcune importanti
aziende.
A pag. 2, Etro;
a pag. 3, Ducati;
in questa pagina, Illy.
Foto, nell'ordine: Lorenzo
Pesce, Nicolò Degiorgis, Alex
Majoli/Contrasto
> Altagamma è stata costituita nel 1992 con l’obiettivo di promuovere
l’industria italiana di eccellenza, favorendone lo sviluppo e rafforzandone
la presenza a livello internazionale.
Ne fanno parte più di settanta aziende attive su diversi
fronti che coprono circa il 3% del PIL: design e arredo,
meccanica, velocità, nautica, abbigliamento, gioielleria,
accessori, alimentazione, ristorazione e ospitalità.
Il Centro Studi e la Fondazione, oltre a svolgere
sistematiche analisi e monitoraggi su tutti questi settori, si occupano di
formazione. Altagamma ha creato con SDA Bocconi due master specialistici
per il management (in Fashion, Experience & Design e in Food & Beverage)
ma sostiene anche e divulga al proprio interno le iniziative sperimentali
avviate da alcuni soci con istituti scolastici e partecipa con un certo numero
di aziende al programma di stages Learning on the job.
cittadinanza
220
200
180
160
140
2008
2009
2010
2011
2012
2008
2009
2010
2011
2012
60
55
50
45
40
Fatturato italiano
Fatturato mondiale
aprono varie possibilità di collaborazione a livello locale e nazionale perché formazione
e lavoro sono due facce della stessa medaglia. La Fondazione ha costituito il Gruppo di
Alto Livello sulla Formazione Professionale e Tecnica per l’eccellenza industriale italiana,
proponendosi come interlocutore del Ministero dell’Istruzione per quanto riguarda l’adeguamento dei programmi scolastici. Oltre alla flessibilità dei percorsi formativi - perché i
mestieri si trasformano - uno dei fattori determinanti nella tenuta dell’economia tedesca,
sostengono in Altagamma, è la presenza degli Istituti di istruzione e formazione tecnica
superiore (Fachhochschulen) che erogano titoli equiparabili alle nostre lauree triennali e
sono vertiginosamente cresciuti negli ultimi dieci anni. Un secondo elemento importante
è l’alternanza scuola-lavoro, che mette a contatto gli studenti con i ritmi e l’organizzazione dell’azienda (vedi anche iS magazine n. 2) e, aldilà del trasferimento di conoscenze esplicite, permette preziosi processi di apprendimento inconsapevole o, come dice di
Lauro, fa imparare un linguaggio. Insomma, c’è molta carne al fuoco e soprattutto c’è la
disponibilità, da parte di Altagamma, a impegnare seriamente le proprie energie e competenze, organizzando anche incontri con docenti, classi, famiglie.
•••
Guarda il video
della Fondazione Altagamma
Il successo nelle mani
http://link.pearson.it/57D28441
> Il sito della Fondazione Altagamma www.altagamma.it/
> Il comunicato della firma del protocollo d'intesa tra Italia Lavoro e Fondazione Altagamma
http://www.altagamma.it/s.php?s=2424
FOCUS TECH
di Fabio Serenelli
focus tech
E
siste una ricetta per una scuola più coinvolgente per gli studenti e meno frustrante
per gli insegnanti? Un modo di fare lezione che sia più efficace per il raggiungimento degli obiettivi didattici e più efficiente nella gestione del carico cognitivo e
delle energie di tutti? Una proposta arriva dagli Stati Uniti, patria del movimento
per una scuola attiva e oggi culla di una nuova corrente che coinvolge migliaia di insegnanti
di ogni ordine e grado e che mette in discussione la sacralità della lezione tradizionale come
pilastro della didattica contemporanea. È in atto una discussione che coinvolge sempre
più docenti e che si sta allargando dagli Stati Uniti agli altri Paesi, compresa l'Italia. Ma è
ancora in fase embrionale in termini di riflessione pedagogica, al punto che non esiste neppure un nome definitivo per il movimento stesso: flip-teaching (capovolgi l’insegnamento),
flip-learning (capovolgi l’apprendimento) o più semplicemente flip your classroom!, ovvero
“capovolgi la classe!”.
TRA CHIMICA E MULTIMEDIALE
Tutto è cominciato quando due insegnanti di chimica della scuola secondaria, Jonathan
Bergmaan e Aaron Sams, si sono accorti che entrambi percepivano la propria attività come
troppo meccanica e arida. Giorno dopo giorno, i cicli continui di lezione e test di verifica
limitavano il tempo necessario per conoscere in profondità i propri studenti e capire i loro
bisogni, in termini sia di apprendimento sia di relazioni. Nel 2007 hanno pensato di trovare questo tempo mancante spostando il momento dell’acquisizione dei saperi di base, cioè
della lezione tradizionale, oltre l’aula e hanno scelto di responsabilizzare gli studenti proponendo come “compito a casa” l'utilizzo di materiali digitali in autoistruzione. In questo
modo hanno liberato la loro didattica dall’incombenza delle lezioni, che hanno convertito in
screencast, ovvero brevi video digitali composti da audio e sequenze di immagini. Il tempo
in aula è diventato disponibile per laboratori in piccoli gruppi e per seguire direttamente i
singoli studenti attraverso un tutoraggio uno-a-uno. I due chimici hanno poi condiviso sul
web i video prodotti e hanno comnciato a raccontare la loro esperienza. I social network
Che cosa fa l’insegnate di una flipped class
>
Appena arrivato in classe comunica il programma della giornata ed esplicita gli
obiettivi da raggiungere
>
Verifica il livello di comprensione dei contenuti studiati in autonomia (pre-requisiti)
>
Adotta - se serve - un momento di istruzione frontale, per esempio per sintetizzare
o riprendere elementi poco chiari
>
Sostiene gli studenti in attività collaborative e cooperative in qualità di esperto
della materia e coordinatore dei gruppi
>
Guida la classe nella creazione di prodotti originali, anche digitali, che siano
applicazione delle teorie
>
Individualizza il feedback e predisporre piani personali per attività di recupero
o approfondimento
>
Promuove la dimostrazione pubblica della padronanza di fronte alla classe
e incoraggia la diffusione online di ciò che i ragazzi producono
focus tech
CASA
L’apprendimento inizia a casa. Lo studente vede
(e rivede) in autonomia e al proprio ritmo i video.
I materiali possono essere prodotti dal docente
o selezionati da siti specializzati.
SCUOLA
Modello Flip Your Classroom
Il docente esplicita gli obiettivi, crea gruppi
in base al livello di padronanza. Usa didattiche
mirate al problem-solving di gruppo, simulazioni,
laboratori.
Vantaggi del modello Flip Your Classroom
> PER LO STUDENTE
Assume il controllo del proprio
apprendimento. Guadagna tempo: segue
le lezioni dove vuole e quando vuole,
quante volte vuole e al proprio ritmo.
Nell’applicazione dei contenuti è sostenuto
dal docente e dai compagni. Aumentano gli
scambi con il docente e i compagni.
> PER L'INSEGNANTE / TUTOR
Aumenta il controllo della didattica.
Guadagna tempo: registrando le videolezioni può riutilizzarle di anno in anno
e in ogni classe. Evita la monotonia.
Può verificare in tempo reale i progressi
dei singoli. Conosce meglio i bisogni
dei singoli studenti.
hanno fatto il resto diffondendo a macchia d’olio il modello e dando il via al movimento flip
your classroom. Bergmaan e Sams pongono in evidenza come “ribaltare la didattica” possa
fornire un quadro operativo per allineare le conoscenze e le competenze degli studenti e
migliorare la relazione educativa attraverso la tecnologia e un’attenta ottimizzazione del
tempo. Potrebbe sembrare un approccio eccessivamente pragmatico. In realtà si basa sul
consolidato modello pedagogico del Mastery Learning, l’apprendimento per la padronanza
nato negli anni Settanta che, tra le altre cose, si scaglia contro l’idea che esistano studenti
di serie A e di serie B, in grado o meno di raggiungere accettabili livelli di prestazione. Il
Mastery Learning punta a far ottenere il massimo livello di padronanza al maggior numero
di studenti (se possibile alla loro totalità), nel rispetto dei ritmi e degli stili di apprendimento
dei soggetti. Il flipped learning in fondo ne rappresenta un’applicazione aggiornata ai tempi
delle tecnologie digitali e dei social network. Il ribaltamento del tempo consiste semplicemente nello spostare a casa i momenti di istruzione che richiedono un'interattività limitata,
attraverso lo studio in autonomia. In aula vengono invece valorizzati i compiti caratterizzati
da una maggiore complessità e apertura problematica, che vanno affrontati attraverso il
confronto critico con gli altri studenti e con il docente.
COME CAMBIANO I RUOLI
Da un punto di vista pratico, con il flipped learning il ciclo dell’apprendimento inizia a casa
e non a scuola, dove lo studente utilizza brevi ed efficaci videolezioni (o altro materiale
didattico appropriato) trovando da solo il ritmo di studio con il proprio computer, tablet,
lettore mp3 o cellulare. La mattina seguente il ragazzo si presenta a scuola già “informato”
focus tech
sui contenuti di base, che saranno usati come elementi chiave per realizzare attività più stimolanti, di problem solving oppure produzioni originali
“Con il flipped learning
individuali o in piccoli gruppi. Per esempio i ragazzi potranno impegnarsi
il ciclo dell’apprendimento
nella creazione di poster, presentazioni digitali, filmati, composizioni arinizia a casa e non a
tistiche o altro. Insomma, lo studente non svolge più i “compiti” a casa e
scuola, dove lo studente
in solitudine, invece, applica in modo attivo (in classe) i concetti appresi
può trovare da solo il
(a casa) e questo ne favorisce un “ancoraggio” più profondo, grazie al
proprio ritmo di studio"
supporto diretto del proprio insegnante e del gruppo classe. Una flippedclass si basa dunque sullo spostamento del momento di acquisizione dei contenuti didattici.
Ma ribaltare la didattica in aula significa sconvolgere anche ruoli e status consolidati dal
punto di vista fisico.
• Nel metodo flipped
classroom, il tempo
in classe è utilizzato
per esercitazioni e
attività di gruppo.
Foto: The Boston Globe/
Getty Images
TUTTI DIVENTANO PIÙ ATTIVI
In una flipped-class, l’insegnante non sta in cattedra, cambia la propria posizione e gira
continuamente tra i banchi, monitorando le attività e regolando l’interazione tra gli studenti. Per i sostenitori della flipped-school, questo significa che assume il ruolo di regista della
classe, più vicino alla figura del coach o del tutor che a quella del docente tradizionale. Un
ruolo impegnativo, che in realtà prevede molte attività, tra le quali compare anche la classica spiegazione. Che però diventa parte di un lavoro fatto per lo più insieme ai ragazzi. Lo
studente, da parte sua, è invece obbligato a essere attivo, perché in aula tutti si aspettano
da lui che applichi e produca conoscenza, non che assorba informazioni. L’obiettivo è che
l’aula diventi un luogo dove gli studenti siano incoraggiati a concentrarsi sulla sperimentazione diretta, ad apprendere criticamente e a collegare concetti potenzialmente astratti con
l’esperienza concreta e quotidiana.
focus tech
Il prof più famoso ha cominciato per caso
Il modello di blended learning, cioè di un mix bilanciato di istruzione in presenza
e a distanza, ha iniziato a diffondersi anche grazie alla spinta propulsiva offerta
dalla ormai celebre Khan Academy, un sito che offre gratuitamente una sterminata
libreria di video didattici - dalle scienze sociali alla fisica
quantistica - che possono essere usati per “capovolgere"
l’insegnamento. Il fondatore di questa accademia digitale
è Salman Khan, un plurilaureato del MIT (Massachusetts
Institute of Technology) che ha cominciato mettendo
su Internet poche videolezioni di matematica per le sue
nipotine e ha visto i suoi video diffondersi in modo virale
tra gli studenti degli Stati Uniti e poi in tutto il mondo.
Khan ha allora deciso di applicare su grande scala l’invito
di Bloom, Block e Anderson - i teorici del Mastery Learning
- a definire in modo esplicito gli obiettivi didattici per
le proprie videolezioni e a dividere i contenuti in minicorsi o unità di insegnamento-apprendimento autonome.
Ormai diventato un vero guru di YouTube, oggi ricopre anche il ruolo di involontario
innovatore pedagogico, ma viene bersagliato da critiche taglienti che lo considerano
responsabile della diffusione di uno stile di istruzione piatto, acritico e alienante.
Ecco la sua risposta: «Più gli insegnanti ribaltano il loro metodo di insegnamento – con
gli studenti che guardano le videolezioni a casa al proprio ritmo – più tempo verrà
liberato a scuola per attività creative come il gioco, l’arte o il brainstorming collettivo».
L’idea è che anche la percezione che gli studenti hanno del valore del tempo speso a scuola
debba cambiare: le ore passate con il tutor e i compagni non si limitano più all’ascolto passivo, ma diventano lo stimolo per relazioni cooperative e competitive finalizzate a una progressione dell’autonomia e alla pubblica dimostrazione di padronanza delle materie. Anche
la scuola nel suo complesso, attraverso l’adozione di questo modello potrebbe modificare la
propria immagine, passando da luogo spesso vissuto come oppressivo perché caratterizzato
da una didattica rigida e non centrata sulla persona, a uno spazio in cui il consumo degli stimoli informativi non sia mai superficiale e inconsapevole.
•••
Guarda il racconto
di Aaron Sams
dell’idea della
flipped classroom
(in inglese)
http://link.pearson.
it/20D5B4D7
> Flip Your Classroom: Reach Every Student in Every Class Every Day, di Aaron Sams e Jonathan
Bergmann, 19,95 dollari (disponibile su Amazon). Il racconto della prima esperienza statunitense
> The Flipped Classroom: The Full Picture, di Jackie Gerstein (disponibile su Amazon in formato
Kindle), 2,10 dollari
> Le videolezioni di Salman Khan khanacademy.desk.com/
> La pagina di Facebook e il sito di discussione per l'Italia flipyourclassroom.it, flipyourclassroom.org
CITTADINANZA
di Franca Bimbi
Professore ordinario
di Sociologia
presso l’Università
di Padova
cittadinanza
Per le donne nulla è ancora
scontato. I vecchi pregiudizi
sono sempre in agguato.
E l'uguaglianza dei diritti
nel riconoscimento
delle differenze resta
ancora da attuare
C
• Eleanor Roosevelt
presenta la
Dichiarazione dei
Diritti dell’Umanità
(1948), che sancisce,
tra i vari aspetti,
che il sesso non
può essere una
discriminante per
i diritti individuali,
civili, politici
economici, sociali,
culturali.
Foto: Federal Government
Usa
ittadinanza" non è una parola facile, è una parola che divide, come “famiglia”.
Non si può entrare senza essere invitati. E se entriamo, possiamo finire in un sottoscala, possiamo esser costretti a non parlare la nostra lingua, a lasciare fuori
tanta parte di noi, persino i nostri figli o i nostri genitori. Possiamo entrare, ma
non fare realmente parte del luogo in cui entriamo. Possiamo restare per sempre outsider
within: in parte straniere e, se non straniere, in parte estranee. Un limite o un privilegio?
Credo che sia un privilegio, oggi, per le donne native italiane, pienamente cittadine e persino (almeno in una certa proporzione) “arrivate”, emancipate, liberate, poter condividere
con le migranti e i migranti, questo sentimento di venire da lontano, sapere che non si è
mai completamente “dentro”, che anche nei luoghi del potere si deve fare i conti con una
storia recente di debolezza e di oggettiva inadeguatezza, a cui rinviano esclusioni esplicite o implicite. Aver presente il senso della relatività, la consapevolezza che cittadinanza
può significare un progetto comune, ma anche conflitto per l’affermazione di sé come
persona e dei diritti alla propria differenza, aiuta a immedesimarsi nelle condizioni di vita
di tutti quelli che sono costantemente messi ai margini. Venire da lontano, in quanto a
cittadinanza, significa per le donne venire dalla casa piuttosto che dalla città, dall’interno
domestico piuttosto che dall’agorà, dal regno della cura esclusiva dei “propri” piuttosto
che dal governo di tutti, anche degli estranei. L’espressione “il nostro mondo comune” può
significare per donne e uomini la famiglia, ma per gli uomini può significare più facilmente e con maggiore legittimazione anche la professione, lo sport, gli amici, soprattutto il
tempo per sé. Ciò da cui egli è chiamato a uscire coincide con ciò che lei è chiamata a
custodire. “Custodire” significa vivere per mantenere in vita, ma non si tratta di una vita
vissuta da essere morale se corrisponde a un obbligo ripetitivo di donare senza potersene
chiedere le ragioni, senza poter dire “vado altrove”, come la Nora di Ibsen. Oggi questo
tipo di considerazioni possono sembrare in via di radicale superamento per la femminilizzazione del vertice di molte professioni, anche di quelle votate alla guerra, o perché un
po’ di giovani padri possono scegliere di godersi la cura dei figli. Si tende a sottolineare
che le donne possono scegliere una professione o la vita familiare a tempo pieno, che le
ragazze superano i ragazzi nella presenza ai gradi più alti dell’istruzione, che le donne
cominciano a soffrire di molti mali da successo, di certi tipi di cancro o di depressione.
Proprio queste analisi, se unilaterali, rimettono in gioco vecchi pregiudizi: poter scegliere
cittadinanza
di restare disoccupata non è propriamente una scelta, studiare di più non significa avere
più denaro (in un mondo dove il denaro conta più dell’istruzione, alle donne resta quello
che socialmente vale di meno), agli uomini di successo non è mai stato consigliato di lasciar perdere per evitare l’infarto.
La cittadinanza formale è importante e, tuttavia, è la cittadinanza sostan“La cittadinanza formale
ziale che misura la forza della propria voce nella società: diritti politici, certo,
è importante e tuttavia
ma anche diritti sociali e civili. Decidere assieme agli altri, far pesare quanto
è la cittadinanza
ogni altra persona la propria opinione e le proprie esigenze: dall’inizio della
sostanziale che misura
storia umana guadagnarsi la cittadinanza ha significato avere accesso alla
la forza della propria
città, nel senso di spazi sociali di vita ma anche di autorevolezza nella sfera
voce nella società: diritti
pubblica. Il processo di riconoscimento della donna come individuo morale
politici, certo, ma anche
sta alla radice della cittadinanza, se intesa come democrazia effettiva, in
diritti sociali e civili"
ogni tempo. Rivediamo l’accesso recente alla città, che sta negli articoli 1, 2
e 3 della Costituzione: una Carta dell’autodeterminazione della persona, che
fonda l’uguaglianza nei diritti alla differenza, mentre afferma che l’uguaglianza non permette differenziazioni. I tre articoli disegnano un dispositivo complesso, che
non è interpretabile come semplice affermazione di parità. Nel 1970 il diritto di famiglia o
l’introduzione del divorzio affermano la parità, ma è la legge sull’interruzione di gravidanza
a riconoscere la differenza. È la donna che può decidere un sì o un no a una gravidanza:
questa volta la biologia è assunta nella sua dimensione morale e di esperienza. Nel 1996 con
la legge sulla violenza sessuale si riconosce che la donna è violata come persona, e dunque
lei sola può decidere se rivolgersi allo Stato per chiedere giustizia. Il principio dell’autodeterminazione così apparentemente semplice per il legislatore del 1996 (cos’altro è la violenza
se non vulnus alla libertà di disporre di sé prima che ferita del corpo?) ha perduto nel tempo
la sua centralità. Al posto dell’autodeterminazione femminile sta guadagnando spazio il
diritto penale: in Italia, in Europa, come in India, anche le donne sono tentate dalla richiesta
di maggiori pene per gli uomini violenti, fino alla cura coatta, alla castrazione o alla pena di
morte. La parabola delle politiche antiviolenza italiane è significativa per riflettere sul declino
della cittadinanza attiva delle donne, ma anche sui rischi della razializzazione del dibattito
sulla violenza di genere. Infatti sono diminuite nel tempo le risorse per i servizi antiviolenza
promossi dalle donne mentre la tipologizzazione dell’aggressore mette spesso in campo la
“barbarie” culturale dello straniero, nascondendo sotto l’etichetta di “femminicidio” l’inspiegabile comportamento aberrante dell’omicida autoctono, la cui violenza diventa facilmente
una patologia individuale. Il tema della cittadinanza delle donne, se non viene ridotto alle
pari opportunità (che comunque sono necessarie), ci aiuta a riflettere su molte dimensioni
di una possibile democrazia paritaria e del riconoscimento delle differenze, ma soprattutto
sulle dinamiche infinite tra diritti e forme di giustizia.
•••
> Donne, diritti, democrazia, a cura di G. Fiume, XL Edizioni, 2007, 18 euro, pag. 288
> Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Martha Nussbaum, Il Mulino, 2001, 25 euro, pag. 370
> Genere. Dagli Studi delle donne a un’epistemologia femminista tra dominio e libertà, Franca Bimbi, 2012,
About Gender. International Journal of Gender Studies, vol. 1, n. 1, pp. 52-93
LABORATORIO PEARSON
laboratorio Pearson
Il progetto The Learning Curve realizzato da Pearson
studia per la prima volta le relazioni tra i sistemi
educativi dei Paesi, l'economia, la società e il benessere.
E stila la classifica delle nazioni più virtuose.
Per capire punti di forza e debolezza di ciascun Paese
e offrire un aiuto concreto per migliorare
M
eglio funziona il sistema scolastico di un Paese, più elevati sono i suoi
standard e i risultati in termini di prodotto interno lordo, capacità imprenditoriale, sicurezza sociale. Molti studi hanno dato conferma a questa
affermazione soprattutto su scala locale. Del resto, che una buona scuola
produca una società migliore è un dato di fatto così evidente da sembrare addirittura
scontato. Ma nel momento in cui si vogliano indagare più nel dettaglio le modalità con
cui un buon sistema di insegnamento produce dei cambiamenti quantificabili, a livello
per esempio di maggior benessere diffuso o di riduzione della criminalità, le cose si complicano. La realtà in cui la scuola si inserisce è così variabile e sfaccettata, composta da
tanto numerosi e imponderabili aspetti, che risulta particolarmente difficile misurare la
sua efficacia, sia nell'ambito di un solo Paese sia in un confronto internazionale.
Ad aprire la strada a una classificazione e valutazione oggettiva delle performance dei
sistemi scolastici di 50 Paesi nel mondo è un grande progetto, denominato The Learning Curve (la curva dell'apprendimento), realizzato da Pearson in collaborazione con
EIU (The Economist Intelligence Unit). Il risultato finale è una graduatoria dei sistemi
scolastici di 50 Paesi, tra cui anche l'Italia, disponibile e consultabile liberamente online.
Per produrlo, gli esperti di Pearson e di EIU hanno raccolto e analizzato a fondo un’enorme massa di dati, che riguardano sia la valutazione dei singoli sistemi scolastici sia
economici e sociali. All'indagine statistica si sono aggiunte le interviste a 16 esperti in
laboratorio Pearson
scienze dell'educazione di tutto il mondo. Tutte le statistiche e i dati studiati sono stati
a loro volta trasformati in classifiche, liberamente consultabili sul sito del progetto, per
dar vita, come spiega Michael Barber, Chief Education Advisor di Pearson, «a un database vivente e aperto, da aggiornare mano a mano che vengono prodotti nuovi dati, che
speriamo possa incoraggiare nuovi studi e, in ultima istanza, diventare uno strumento
per meglio indirizzare la politica educativa».
FINLANDIA E COREA AL TOP
Dall'analisi è emerso un quadro complesso, accessibile a chiunque voglia approfondirlo e perfezionarlo, che è il primo serio tentativo di stabilire un sistema di confronto e
valutazione dei più importanti sistemi educativi. Secondo i dati raccolti e confrontati
dalla Learning Curve sono i sistemi scolastici di Finlandia e Corea
del Sud a risultare i più efficienti
del mondo, seguiti da Hong Kong,
Giappone e Singapore. L'Italia è
situata a metà della graduatoria, al ventiquattresimo posto,
davanti a Francia e Norvegia, e
non molto distante da Germania
e Stati Uniti, che la precedono rispettivamente di 9 e 7 posizioni.
Per definire questa classifica, gli
esperti di Pearson e di EIU hanno
realizzato un Indice Globale sulle
Capacità Cognitive e il Raggiungimento del Livello d'Istruzione.
Questo indice considera le capacità cognitive raggiunte dagli allievi, calcolate per mezzo di test
internazionali come PISA (Programme for Internationals Students Assessment), TIMSS (Trends
in International Mathematics and
Science Studies) e PIRLS (Progress
in International Reading Literacy
Studies) e la confronta con il livello di alfabetizzazione di ogni singolo Paese, calcolato
sul tasso di scolarità e di raggiungimento della laurea.
L'IMPORTANZA DEGLI INSEGNANTI
Secondo i responsabili del report sono due i segnali che emergono con maggior forza
dall'indagine. Da un lato è evidente il fatto che, per il miglior funzionamento di un sistema scolastico, non bastano gli investimenti. I migliori risultati si raggiungono laddove
l'istruzione è supportata dalla società civile, in termini di condivisione dei contenuti,
dei comportamenti, di stimolo agli studenti e di creazione di aspettative e aspirazioni.
D'altro canto emerge il ruolo centrale dell'insegnante. L'impatto di un docente bravo e
laboratorio Pearson
PAESE
PUNTEGGIO-Z
RANGO
FINLANDIA
1.26
1
COREA DEL SUD
1.23
2
PAESE
HONG KONG–CINA
GIAPPONE
SINGAPORE
REGNO UNITO
OLANDA
NUOVA ZELANDA
SVIZZERA
PUNTEGGIO-Z
0.90
0.89
0.84
0.60
0.59
0.56
0.55
RANGO
3
4
5
6
7
8
9
CANADA
0.54
10
IRLANDA
0.53
11
PAESE
PUNTEGGIO-Z
RANGO
DANIMARCA
0.50
12
AUSTRALIA
0.46
13
POLONIA
0.43
14
GERMANIA
0.41
15
BELGIO
0.35
16
STATI UNITI
0.35
17
UNGHERIA
0.33
18
SLOVACCHIA
0.32
19
RUSSIA
0.26
20
SVEZIA
0.24
21
REPUBBLICA CECA
0.20
22
AUSTRIA
0.15
23
ITALIA
0.14
24
FRANCIA
0.13
25
NORVEGIA
0.11
26
PORTOGALLO
0.01
27
SPAGNA
-0.08
28
ISRAELE
-0.15
29
BULGARIA
-0.23
30
GRECIA
-0.31
31
PAESE
PUNTEGGIO-Z
RANGO
ROMANIA
-0.60
32
CILE
-0.66
33
PUNTEGGIO-Z
RANGO
TURCHIA
-1.24
34
ARGENTINA
-1.41
35
COLOMBIA
-1.46
36
THAILANDIA
-1.46
37
MESSICO
-1.60
38
BRASILE
-1.65
39
INDONESIA
-2.03
40
PAESE
motivato sui propri allievi non si riscontra soltanto in un migliore risultato educativo,
con studenti in grado di percorrere una strada più lunga e più proficua nella scuola, ma
anche in una serie di elementi sociali positivi, come livelli più bassi di gravidanze tra i
teenager o una maggiore propensione a risparmiare in vista del pensionamento.
The Learning Curve ha lo scopo dichiarato di aiutare i legislatori a individuare i punti
chiave che decretano il successo di un sistema scolastico. È un progetto in evoluzione,
nel senso che si propone anche come un invito ad altri specialisti e realtà per approfondire il metodo, migliorarlo e giungere a un sistema sempre più preciso di valutazione
dei sistemi educativi e dei loro effetti, a breve e lungo termine, su tutti gli ambiti che
decretano il benessere di un Paese.
•••
Guarda il video di
presentazione
del progetto
(in inglese)
http://link.pearson.
it/72245FB0
> Leggi l’articolo Viaggio al centro dell’istruzione sul sito iS http://is.pearson.it/espresso/viaggio-alcentro-dellistruzione/
> Consulta la rassegna stampa http://is.pearson.it/espresso/the-learning-curve-rassegna-stampa/
> Visita il sito The Learning Curve http://is.pearson.it/multimedia/video-the-learning-curve/
LABORATORIO PEARSON
A che punto è
L'ITALIA
laboratorio Pearson
I dati sul nostro Paese, elaborati dallo studio The Learnig Curve,
rivelano una situazione con luci e ombre: siamo a metà
della classifica, offriamo ottime possibilità di scelta e i ragazzi
studiano fino a 16 anni, ma investiamo poco.
E siamo ben lontani dall'eccellenza
U
n Paese in cui gli allievi trovano una vastissima scelta di percorsi di studio, tra le
più ricche al mondo, e che ha raggiunto livelli di qualità paragonabili a quelli dei
più importanti Stati occidentali. Ma anche dove si investe relativamente poco per
l'istruzione rispetto al prodotto interno lordo. Seguiamo i nostri studenti molto
a lungo, in media 16 anni a testa, garantendo loro tutte le opportunità per una formazione
adeguata, ma non siamo capaci di sfruttare appieno i vantaggi di questo sistema, perché
il benessere del Paese non corrisponde al livello scolastico. È questo il profilo dell'Italia che
emerge dalla Learning Curve, dove ci troviamo esattamente a metà classifica, al ventiquattresimo posto su 50 in base all'Indice Globale sulle Capacità Cognitive e il Raggiungimento
del Livello d'Istruzione. Siamo in buona compagnia. In posizioni e con indici molto vicini al
laboratorio Pearson
nostro si trovano altre nazioni come Francia, Germania, Spagna, Belgio, Norvegia, Svezia,
Australia, Stati Uniti. Leggermente avanti si posizionano Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda, Svizzera, Belgio e Danimarca, oltre a Giappone, Hong Kong e Singapore. Ma solo i due
Paesi che guidano la graduatoria, Finlandia e Corea del Nord, sembrano decisamente al di
sopra di tutti gli altri. Va anche detto che vastissime aree del mondo non sono contemplate
nella classifica, per mancanza di dati. Tra gli esclusi figurano la Cina (a parte il territorio di
Hong Kong), l'India, tutta l'Africa, il Medio e il Vicino Oriente.
CONFRONTO TRA SISTEMI
Va poi sottolineato come Corea del Sud e Finlandia costituiscano due casi anomali rispetto
agli altri. Nel primo il sistema scolastico riflette la rigidità e la severità della società civile,
mentre la scuola finlandese spicca per un'impostazione straordinariamente elastica e libera.
Uno dei 16 esperti intervistati dagli specialisti di Pearson e di EIU che hanno stilato il rapporto, Robert Schwartz, professore di Pratica della politica e dell'amministrazione dell'educazione all'Università di Harvard, negli Usa, sottolinea che «la Finlandia è un caso di studio
laboratorio Pearson
meraviglioso. I bambini iniziano a studiare tardi, il tempo trascorso a lezione è più breve che
in altri Paesi, non hanno compiti, i loro insegnanti fanno poca presenza frontale. Secondo una
stima, gli italiani vanno a scuola per 3 anni in più». I dati del PISA, raccolti con una cadenza
di tre anni per verificare il livello di apprendimento di scolari di 15 anni di età, mostrano che
sono ben pochi i finlandesi che prendono ripetizioni, e quelli che lo fanno di solito hanno
risultati peggiori nei test, il che indica che si tratterebbe di operazioni di recupero. Infine, il
sistema ha la fama di essere concentrato sull’aiutare i bambini a comprendere e ad applicare
il sapere, e non solo a ripeterlo.
L'Italia, in base all'indice della Learning Curve, si pone a un livello alto, corrispondente a quello di un Paese con un PIL elevato e con un diffuso livello di alfabetizzazione. L'iniziativa di
Pearson, però, non si limita a fornire una classifica nuda e cruda. La ricchissima banca dati,
elaborata dagli esperti della Economist Intelligence Unit, raccoglie anche una serie di parametri, una sessantina, che illustrano tre differenti aspetti: gli input nel sistema educativo,
come la spesa pro capite per insegnanti e allievi; gli output, cioè i risultati forniti dai sistemi
educativi; l'ambiente socio-economico dei vari Stati, valutato sulla base di indici internazionali, sui livelli di salute e di reddito, ma anche sul numero di omicidi.
METÀ CLASSIFICA
Misurati sulla preparazione degli allievi, i nostri risultati sono medi. L'indice PISA, i cui dati
più recenti risalgono al 2009, e che misura capacità e conoscenze degli studenti di 15 anni,
analizzati a campione, ci pone a un livello medio della graduatoria, con un valore di 485,93,
laboratorio Pearson
distante da quello massimo, ottenuto da Hong Kong, di 545,57. I nostri risultati sono paragonabili a quelli di Spagna e Francia, ma distanti da quelli tedeschi. L'indice TIMSS, invece,
più orientato a valutare la preparazione sulle materie scientifiche e matematiche in due
stadi dell'apprendimento (dopo il quarto e l'ottavo anno di scuola) ci vede in una posizione
leggermente migliore. Osservando questa particolare classifica, su dati risalenti al 2007,
notiamo come gli scolari italiani mostrino performance migliori in queste materie in età più
giovane. Siamo anche al posto 26 su 50 nella classifica del livello di alfabetizzazione della
popolazione oltre i 15 anni, con una percentuale del 98,93%: i leader sono gli ucraini e i
sudcoreani, rispettivamente con il 99,71% e il 99,60%. Se i dati relativi a disoccupazione
e livello di preparazione scolastica non sono particolarmente attendibili, perché le serie più
complete risalgono al 2007 e sono precedenti alla crisi economica, più significativi sono i
dati sulla capacità di innovazione dei singoli Paesi, che ci vedono, di nuovo, a metà della
graduatoria, con performance distanti da Svizzera e Svezia, i leader in questo particolare
contesto. È alta invece rispetto alla media la produttività dei lavoratori italiani, in termini
di prodotto interno lordo. Anche questo dato è considerato una diretta conseguenza della
preparazione scolastica.
I PUNTI DI FORZA
Se andiamo a cercare i punti di forza del sistema italiano, quello che balza all'occhio è l'elevata possibilità di scelta. A qualsiasi livello del percorso formativo si presentano, davanti
all'allievo e alle famiglie italiani, molte più strade percorribili rispetto ad altri sistemi. Dopo
Singapore, Nuova Zelanda e Thailandia siamo il Paese che offre più possibilità agli allievi. Gli
laboratorio Pearson
autori del rapporto mettono in evidenza che «secondo recenti ricerche, i Paesi che offrono
un ventaglio più ampio di scelta hanno risultati educativi superiori. È plausibile quindi pensare
che permettere ai genitori di scegliere le scuole migliori premi l’alta qualità, portando a un
progresso generale». In realtà sono comunque molte le variabili: per esempio, la presenza di
scuole gratuite e pubbliche in Stati dove l'educazione è per lo più in mano a istituti privati
diventa un fatto positivo, così come, al contrario, l'esistenza di scuole private di alto livello
in Paesi poveri che non sono in grado di investire molto sull'istruzione e quindi di dare una
preparazione sufficiente alle proprie giovani generazioni. Più in generale, la possibilità di una
scelta ampia presuppone anche una capacità di informarsi e di scegliere da parte dell'allievo
e della propria famiglia. Di per sé, quindi, un ampio ventaglio di opzioni non è indice di successo. Un altro ambito in cui l'Italia mostra ottime performance è quello dell'aspettativa di
vita scolastica o, in altre parole, gli anni di insegnamento impartiti in media a ogni scolaro
in un Paese. Arriviamo a oltre 16 anni, più della Germania, per esempio, della Svizzera o del
Giappone. Soltanto Nuova Zelanda, Australia e Irlanda fanno decisamente meglio. Siamo
anche tra i Paesi che ammettono in una struttura scolastica i bambini in età più precoce:
già a tre anni i nostri figli possono essere ammessi in una struttura “pre-primaria”, come
viene definita nel report, Esaminando invece i compensi riconosciuti agli insegnanti in Italia,
considerati tutti i gradi di istruzione, questi sono al di sopra degli stipendi medi nazionali.
Ma, analizzando i dettagli, si nota come si investa di meno sugli insegnanti della scuola primaria. Inoltre non c'è molta variazione tra stipendi minimi e massimi. È bassa la percentuale
di PIL destinata dall'Italia all'istruzione (4,52% nel 2009), pur in un Paese in cui è elevata
l'età per la scuola dell'obbligo e in cui le scuole sono prevalentemente pubbliche.
SCUOLA E BENESSERE
Quale profilo tracciano dell'Italia questi dati? Sia gli investimenti fatti per la scuola sia i risultati prodotti ci garantiscono un elevato livello di benessere, ma potremmo fare meglio.
Nella graduatoria dell'Indice di sviluppo umano (Human Development Index), che indica il
livello macroeconomico degli Stati e la qualità della vita complessiva, siamo al posto 21
su 50. Ci troviamo, in questa classifica, dietro a Paesi come Corea del Sud, Israele, Spagna,
ma siamo in una posizione migliore rispetto al Regno Unito. Siamo anche tra quelli con un
basso numero di omicidi, 0,98 ogni 100.000 abitanti contro i 34,65 della Colombia o i 5
degli Stati Uniti. Abbiamo però una bassa percezione della corruzione, ai livelli del Ghana, del Brasile e della Cina e, come già accennato, stipendi medi bassi, intorno ai 26.400
dollari l'anno (circa 22.000 euro), contro gli oltre 61.000 di svizzeri e norvegesi. In altre
parole, il profilo dell'Italia che emerge dal report The Learning Curve è contraddittorio e
mette in evidenza luci e ombre, sia negli indicatori generali del livello di vita sia in quelli
particolari riferiti agli investimenti sulla scuola e alla preparazione degli allievi. Valutare
nel tempo come si modificherà il rapporto tra questi parametri consentirà a esperti e
osservatori di capire meglio come l'educazione possa avere riflessi positivi e negativi su
tutto il sistema paese.
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Guarda il video di
presentazione
del progetto
(in inglese)
http://link.pearson.
it/72245FB0
> Il sito di The Learning Curve http://thelearningcurve.pearson.com/
LABORATORIO PEARSON
di Donato Ramani
laboratorio Pearson
Il baricentro del mondo si sta spostando dall’oceano
Atlantico al Pacifico, dall’Occidente all’Oriente.
Ma il successo dei Paesi dipenderà sempre
di più dalla capacità del loro sistema educativo:
ecco quali saranno i fattori chiave
N
ei corsi e ricorsi della storia non capita spesso di osservare una così rapida rivoluzione nelle simmetrie del mondo, oggi arrivato a un punto in cui la leadership
mondiale, rimasta per tanto tempo saldamente in mano alle nazioni atlantiche, si
sta velocemente spostando verso un altro oceano, il Pacifico, le cui potenze sono
pronte a giocare carte decisive sul tavolo degli equilibri internazionali. E, secondo molti, a
dominare il prossimo futuro. Tutto deciso, dunque? Tutto inevitabile? Non esattamente. Le
sfide che si pongono a chi, da qui in avanti, avrà l’ardito compito di tenere le fila del pianeta sono tante e complicate. Per far fronte a queste sfide i cambiamenti da introdurre sono
numerosi e inevitabili. Due elementi, indissolubilmente legati l’uno all’altro, in particolare,
faranno davvero la differenza: l’innovazione e l’istruzione.
È questa la tesi sostenuta da Sir Michael Barber, Katelyn Donnelly e Saad Rizvi nel corposo
lavoro intitolato Oceans of innovation – the Atlantic, the Pacific, global
leadership and the future of education. Nella ricerca, compiuta per l’inCiò che serve è un salto,
glese IPPR, Institute for Public Policy Research, i tre autori, tutti masuna discontinuità,
simi esperti nel campo dell’istruzione e consulenti della casa editrice
una mossa decisiva
Pearson, analizzando gli ultimi studi e intervistando gli opinion leader
sulla strada del
del settore, hanno messo sotto la lente di ingrandimento economia,
progresso che rappresenti
società e servizi all’istruzione d’Oriente e Occidente, dell’area atlantica
un vero e risolutivo
e di quella pacifica, evidenziandone pregi e difetti in una prospettiva
scatto in avanti
globale e tutta proiettata al futuro.
Dati alla mano, il panorama, ci dicono, appare chiaro: i successi dell’Asia, le sue rombanti economie, i dati di crescita stupefacenti a fronte di un Occidente in evidenti difficoltà,
lasciano pochi dubbi sulla direzione in cui tira il vento. E se è vero che «l’istruzione è il più
importante investimento che si possa fare per prepararsi al futuro», come afferma il primo
ministro della Repubblica di Singapore Lee Hsien Loong nell’introduzione del lavoro di ricerca, non c’è dubbio alcuno che anche su questo versante le realtà dell’area pacifica e dell’Asia
in particolare giochino un ruolo di assoluta importanza. Lo dimostrano le altissime posizioni
in classifica di Paesi come Cina, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Giappone, nel ranking
mondiale sui sistemi educativi. Sulla base del test PISA, tanto per fare un esempio, uno studente coreano di 15 anni è 17 mesi avanti nello studio della matematica rispetto a un coetaneo statunitense; un giovane di Shanghai precede di due anni e mezzo un collega europeo.
Otto posizioni tra le prime dieci, nel test PISA sono occupate da Paesi dell’area pacifica.
laboratorio Pearson
Eppure, ci dicono Barber, Donnelly e Rizvi, la partita è tutt’altro che chiusa. Anzi: «Le questioni da affrontare si fanno sempre più complicate e pressanti. Questi problemi non si risolveranno semplicemente incrementando attività già in corso. C’è invece bisogno di un’innovazione, molto più rapida, più profonda, più disturbante che nel passato, indispensabile non solo
per sostenere l’economia ma anche per far fronte alle prove che si porranno da qui in avanti».
Ciò che ha funzionato negli ultimi cinque decenni permettendo di raggiungere i formidabili
traguardi di oggi non fornirà la chiave del successo nei prossimi 50 anni. Semplicemente
perché la nuova società globale va troppo veloce, l’informazione è molto dispersa e democratica, i cambiamenti in atto troppo rapidi. Ciò che serve è un salto, una discontinuità,
una mossa decisiva sulla strada del progresso che rappresenti un vero e risolutivo scatto in
avanti. Per ottenerlo «occorre creare le condizioni perché l’innovazione e la creatività possano
trovare spazio nella società» dicono Barber, Donnelly e Rizvi. Obbligatorio innanzitutto rivoluzionare quegli stessi capisaldi che, secondo gli osservatori, hanno portato i Paesi asiatici al
successo. Tra gli altri: una élite deputata a decidere la rotta di un intero Paese, una società
responsabile e rispettosa nei confronti dell’autorità e dello Stato, l’estrema organizzazione,
una cultura familiare forte, una scarsa mobilità professionale, l’uniformità e l’omogeneità
come valore, la collettività premiata sull’individualità.
Per rispondere alle sfide del futuro c’è bisogno di costruire, invece, quella che gli autori definiscono una global generation, capace di scrollarsi di dosso questi abiti diventati improvvisamente troppo stretti. La generazione globale di cui parlano è fatta di individui formatisi in
una specifica cultura ma aperti al mondo, indipendenti e in grado di adattarsi a incessanti
mutamenti, di continuare ad apprendere, di assumere responsabilità e prendere decisioni,
pronti a trasformare le cose con e per gli altri.
Le vie di questo cambiamento, nel pensiero degli autori, seguono un percorso ellittico, che
parte dalla società e vi ritorna attraversando un territorio in cui devono essere poste le autentiche fondamenta di questa trasformazione: la scuola. Non che, come già evidenziato,
in Oriente i risultati già raggiunti in campo educativo non siano degni di nota. Merito, dico-
laboratorio Pearson
no gli analisti, di diversi fattori: il grande valore
dato alla professione di insegnante, premiato
da ottimi stipendi e da un prestigio sociale sconosciuti in Occidente; il coinvolgimento attivo
delle famiglie nelle attività scolastiche, al di
fuori di ogni divisione di classe o di censo; l’importanza data all’apprendimento, concepito di
per se stesso come processo virtuoso; e, anche,
la pianificazione a lungo termine delle politiche
scolastiche, portate avanti con estrema puntualità e rigore. Se però i leader dell’area del
Pacifico si fermassero qui mettendo un punto
al processo di evoluzione «commetterebbero
un grossissimo errore». Scrivono infatti Barber,
Donnelly e Rizvi: «La grande sfida oggi è diventare leader dell’innovazione. Per farlo, occorre
adattare il sistema scolastico, passando dal paradigma di grande successo del ventesimo secolo a un altro, molto diverso, proprio del secolo
in cui viviamo». A tutti, il terzetto di autori offre
come ricetta per la migliore istruzione possibile
una formula dagli ingredienti potenti e suggestivi che suona così: Buona istruzione = Etica
(Conoscenza+Pensiero+Leadership).
Gli autori definiscono questa equazione «una
piattaforma, non una camicia di forza, che lascia spazio a ogni Paese di creare un modello
secondo le proprie esigenze». La Conoscenza
è da acquisire ma anche da saper utilizzare al
momento opportuno: «Vogliamo studenti che
non solo conoscano il teorema di Pitagora. Ma
che sappiano come e quando usarlo per risolvere dei problemi nel mondo reale».
La combinazione di questi elementi, dicono gli
autori, è ciò che permetterà alle nuove generazioni di liberare le qualità più innate, di essere
innovativi e costruttivi all’interno della comunità, a livello locale come in quello globale. Una
formula, questa, che dovrà essere applicata non
solo per una ristretta rappresentanza di studenti, per un’elite di talenti come è stato finora
soprattutto in Occidente, ma per l’intera comunità. Gli adulti dei prossimi decenni, infatti,
come lavoratori, come studenti, come cittadini,
dovranno tutti adattarsi a mutamenti rapidi nel
Foto: Danita Delimont Stock/Marka
laboratorio Pearson
mercato del lavoro, essere competitivi, «pensare alla propria carriera come a una start-up,
con un atteggiamento imprenditoriale» così nelle parole di Reid Hoffman, co-fondatore di
LinkedIn, e Ben Casnocha nel recente volume dal titolo The start-up of you di cui Oceans
of innovation riporta alcuni passi salienti. La global generation dovrà essere anche giovane,
fantasiosa, immaginativa, ingegnosa, costruttiva, talvolta irrispettosa delle regole, curiosa,
iconoclasta, spesso coraggiosa, capace di sbagliare e rialzarsi. Saranno proprio queste le
qualità che faranno la differenza nelle società del domani. La capacità di creare un terreno
fertile per farle sbocciare e crescere sarà l’elemento chiave che permetterà a un Paese di
correre più veloce di un altro, dal punto di vista economico, sociale, politico. Non a caso, a
fior di metafora, l’invito di Barber, Donnelly e Rizvi nei confronti di istituzioni e insegnanti è
quella di «togliere il soffitto» alla scuola e, in campo artistico, sportivo, accademico, dare ai
ragazzi, a tutti i ragazzi, «l’opportunità di volare», liberando aspirazioni, energie e potenzialità. Che, assieme all’applicazione, al lavoro costante e un ottimo training, garantiscono gli
autori, sono i veri ingredienti del successo. Una bella impresa per lo schema educativo occidentale, quello statunitense soprattutto, molto propenso a un’impostazione verticale, in cui
sono pochissimi talenti a emergere e ad avere accesso all’istruzione migliore. Così come per
quello orientale, più equo ma scolasticamente molto impegnativo, poco incline a valorizzare
le individualità e le differenze, molto omogeneo, molto disciplinato e con un’organizzazione
serrata. Un’impostazione che, ci suggerisce Oceans of innovation, riproduce al pantografo
quella dell’intera società asiatica.
È anche per questa ragione che i cambiamenti necessari e obbligatori perché le realtà del
Pacifico possano raccogliere efficacemente lo scettro di leader mondiale devono partire
dalla scuola, ponendo lì il seme di un mutamento difficilmente evitabile. Che è tecnologico e
sociale, e mette insieme innovazione e crescita economica, creatività e libertà di espressione.
Elementi questi con cui l’intera area pacifica, e la Cina in particolare, dovrà fare presto i conti per compiere l’evoluzione che saprà davvero ridefinire i connotati del pianeta che verrà.
In tema d’innovazione, è vero, con l’Asia da una parte e il Nord America dall’altra, già oggi
questa regione non teme paragoni. Seppur con significative differenze: se è vero infatti che
la quantità di application per nuovi brevetti in Oriente è aumentata di oltre il 50% dal 1996
laboratorio Pearson
Buona istruzione = E x (C + P + L)
al 2009, è altrettanto vero che troppo spesso questa innovazione è di matrice incrementale
e continuativa, non dirompente, esplosiva, sconvolgente, game–changing, come quella che
a tutt’oggi arriva dagli Stati Uniti. «Designed in California. Assembled in China» si legge dietro a ogni iPhone, ci ricordano gli autori. Una frase che traccia piuttosto bene gli equilibri
oggi presenti in un campo in cui da qui in avanti si svolgerà la partita del mondo.
Le regole del gioco saranno le diverse realtà nazionali a doversele dare. I giocatori si stanno
formando in questo momento nelle loro scuole. Quella che Barber, Donnelly e Rizvi chiamano “la rivoluzione educativa”, insomma, ha valenze di estrema importanza, molto al di
là delle pareti di un istituto, dei confini di un Paese e di un’area geografica. Sebbene lontanissima ai nostri occhi, remota culturalmente, apparentemente assai distante dai nostri
interessi primari, i mutamenti che quella parte del pianeta, l’Asia in primis, sarà capace di
mettere in atto, a partire dalla nuova società di individui che nelle sue scuole si sta oggi
formando, ci riguarda molto più da vicino di quanto saremmo pronti a pensare. Perché i
problemi che le realtà affacciate sul Pacifico, nella geometria che dall’Oriente raggiunge
l’Australia e finisce sulle coste del continente americano, saranno chiamate a risolvere, in
un’ottica globale, sono e saranno anche i nostri. Lo ribadiscono i tre autori nelle battute
finali del loro testo, così dichiarando: «Il futuro dell’area del Pacifico e la sua capacità di
diventare un oceano di innovazione sarà modellata ogni giorno, da qui in avanti, nelle classi
di Singapore e Shanghai, Hong Kong e Hanoi, Kuala Lumpur, Melbourne, San Francisco e
Vancouver. Dal successo di questa impresa, dipende il futuro di tutti». •••
Guarda l’intervento
di Sir Michael Barber
(in inglese)
http://link.pearson.
it/5236F26
> Il sito dedicato alla ricerca, da cui è possibile scaricare l’intero rapporto http://www.pearson.com/oceans.html
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