Con l`occhio al presente. Sollecitazioni crociane nella lettura dei

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ROSARIO DIANA
Con l’occhio al presente.
Sollecitazioni crociane nella lettura dei classici
1. Questo breve saggio è il risultato di una serie di lezioni che tenni dal
16 al 19 novembre 2009 nella sede napoletana dell’Istituto per la Storia del
Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno (Ispf) del Consiglio Nazionale
delle Ricerche. Titolo del seminario era: Filosofia del passato e riflessione sul
presente. “Contemporaneità della storia” e “contemporaneità della filosofia” in
Croce. Una proposta teoretica. La “proposta teoretica”, formulata e discussa
allora con gli studenti, consisteva nell’assumere le posizioni teoriche
crociane, indicate nel titolo dell’incontro di studio, non tanto come
documenti storico-filosofici relativi ad alcune parti rilevanti di una delle
riflessioni più ricche, complesse e controverse del Novecento europeo, ma
piuttosto come esortazioni (e non è detto che tali non fossero anche per
Croce) a sperimentare la possibilità di intraprendere la lettura dei ‘classici’
filosofici – a cui sono consegnati i dilemmi e le soluzioni dei grandi
pensatori del passato – con una più pronunciata esigenza (non certo priva
di attenzione alle diverse ambientazioni storico-culturali in cui i testi
furono concepiti e scritti) di ricercare (ove possibile, naturalmente) nella
meditazione del passato strumenti metodologici, strutture concettuali,
apparati teorici che possano costituire una risorsa preziosa per sostenere e
meglio articolare le domande filosofiche suscitate dal nostro presente e
magari offrire buone basi per formulare ipotesi di risposta. Si tratta,
naturalmente, di una fra le altre possibili modalità di approccio alla lettura
di un testo filosofico; una modalità che pone un problema molto complesso
– non possiamo affrontarlo ora – e che provoca contaminazioni trasversali
fra le tradizionali aree disciplinari in cui si dipana il sapere filosofico.
Rimandando la questione ad altra sede e a un diverso momento, ci si
accontenterà qui di fornire una traccia delle lezioni, conservando
l’impianto generale del lavoro, che fa perno sul confronto diretto con la
pagina crociana. A tale scopo, si è quasi escluso del tutto il riferimento alla
vastissima letteratura secondaria.
Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 339-349
ISBN 978-88-548-6064-3
ISSN 1593-7178-00027
DOI 10.4399/978885486064323
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Nel paragrafo che segue si rimedita la teoria del giudizio, così come
viene esposta nella Logica crociana del 19091, e si mostra come in essa si
annunci un’idea di ‘contemporaneità della filosofia’. Nel terzo paragrafo si
ripropone sinteticamente la nota tesi che afferma la contemporaneità della
storia. Infine, nel quarto si traggono le conclusioni del nostro discorso.
2. Centrale nella Logica di Croce è la teoria del giudizio. Giudicare
significa unire un soggetto a un predicato per mezzo di una copula.
Condizione necessaria affinché si dia un giudizio, è che soggetto e predicato
siano distinti nella loro natura. Per il filosofo abruzzese, la condizione
appena indicata si realizza pienamente nel giudizio individuale, ossia quello
in cui: a) il soggetto si distingue dal predicato sia dal punto di vista formale
(dal momento che il soggetto è individuale, ossia è una rappresentazione,
mentre il predicato è universale, ovvero è un concetto) sia, di conseguenza,
dal punto di vista del contenuto; b) posta la distinzione fra soggetto e
predicato, la copula esercita la sua funzione più autentica, che è appunto
quella di unire due elementi eterogenei (rappresentazione e concetto). Il
giudizio individuale (rappresentazione/individuale + concetto/universale) è il
giudizio vero e proprio, anzi l’unico vero giudizio. Nella Logica Croce
chiarisce in maniera esemplare:
Soggetto e predicato possono essere con ragione e giustificazione distinti
solamente in quanto l’uno non è universale e l’altro sì, l’uno non è concetto e
l’altro sì: vale a dire, solamente in quanto l’uno è rappresentazione e l’altro
concetto. Un concetto […] è sempre […] concetto universale, e disadatto
dunque a fungere da soggetto cui si applichi un predicato […]. Solo la
rappresentazione può essere veramente soggetto, e solo il concetto veramente
predicato, come si osserva nel giudizio individuale, che congiunge i due
elementi. Il giudizio individuale: «Pietro è buono» pone e media, ossia
congiunge, il soggetto «Pietro», e il predicato «buono», l’uno
inconfondibile con l’altro2.
Dal momento che il giudizio individuale è unione di rappresentazione e
concetto, di intuizione e intelletto, esso, a tutti gli effetti, può essere
definito «intuizione intellettuale ossia intellezione intuita»3. Non solo,
1 B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, ed. crit. di C. Farnetti, con una Nota al
testo di G. Sasso, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 1996 (le citazioni seguenti si riferiscono
esclusivamente al vol. I, d’ora in poi indicato con la sigla: Log).
2 Log, p. 123 (corsivi miei).
3 Log, p. 125.
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proprio in virtù di tali caratteri, esso è anche un giudizio percettivo, ossia
una percezione. A questo proposito bisogna ricordare che per Croce la
percezione è cosa ben diversa dall’intuizione in senso stretto. Se
l’intuizione è rappresentazione pura e semplice che prescinde dai requisiti
di realtà o irrealtà, la percezione non è abbandono al sentire e all’intuire,
ma è «apprendere una cosa come avente tale o tal’altra qualità, e perciò
pensarla e giudicarla»4.
Non basta. Croce aggiunge anche che il giudizio storico, quello cioè per il
quale noi stabiliamo che un fatto è accaduto nel passato, è un giudizio
percettivo, così come il giudizio percettivo stesso è giudizio storico. Ma
leggiamo le parole vive del filosofo:
Il giudizio individuale può prendere anche nome assai più noto e familiare,
quello di percezione; come la percezione dovrebbe essere detta
sinonimicamente giudizio individuale o almeno giudizio percettivo. […]
Donde la dignità suprema del giudizio individuale, che effettua tutta la
conoscenza da noi in ogni istante prodotta, e pel quale solamente
possediamo il mondo, anzi pel quale solamente un mondo è. Nei giudizi
percettivi sono compresi anche i giudizi che da taluni si denominano
memorativi o storici: quelli cioè pei quali si afferma che un fatto è accaduto
nel passato. […] Tutti i giudizi percettivi sono in qualche modo memorativi e
storici, perché il presente, nell’atto medesimo in cui lo fermiamo innanzi al
nostro spirito, diventa un passato: oggetto, come si suol dire, di memoria
e di storia5.
Nel giudizio individuale (o percettivo o storico) il soggetto, ossia la
rappresentazione dell’individuale, è l’elemento che urge e spinge lo spirito
a darsi un mondo nel giudizio storico. Senza l’insorgere di un’intuizione che
si fa percezione, ossia affermazione di realtà, non ci sarebbe ragione e
motivo di giudicare, ossia di costituire quel mondo storico contemporaneo al
giudicante, che è l’orizzonte entro cui emergono per lui sempre nuovi
problemi e, dunque, sempre nuove occasioni per formulare giudizi e con
essi riconsiderare e ristrutturare quel mondo storico stesso6. Da questo punto
Ibid.
Log, pp. 125-126 (corsivi miei).
6 «Tutta la filosofia che andiamo svolgendo – osserva Croce – comprova che nulla vi ha
di esterno allo spirito, e perciò non vi sono di fronte a esso “posizioni” di sorta; e che i
concetti stessi di mondo esterno, meccanico o naturale non sono già posizioni dall’esterno,
4
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di vista si coglie la centralità – seppure incardinata nell’indissolubilità del
rapporto con il predicato (concetto universale) – della componente
rappresentativa (ossia individuale) nel giudizio storico: essa attesta che il
giudicare è di volta in volta risposta comprendente (preparante non
determinante dell’agire7) alle sollecitazioni problematiche sollevate o
imposte al pensatore-storico dalla realtà a lui contemporanea, che egli
stesso costituisce, riempie di senso, e nella quale vive svolgendo il proprio
compito intellettuale.
Quest’ultimo punto si comprende ancora meglio, se spostiamo la
nostra attenzione sul giudizio definitorio. A prima vista quello definitorio
sembra non essere un vero e proprio giudizio, dal momento che i tre
elementi costitutivi del giudicare – soggetto, copula e predicato – non
sono reciprocamente distinti. Infatti, nel giudizio definitorio: «la volontà è
la forma pratica dello spirito»8, noi individuiamo un soggetto («la volontà»)
e un predicato («la forma pratica dello spirito») che sono entrambi
universali. Pertanto nel giudizio definitorio: a) un universale si predica di
un altro universale (manca, dunque, la distinzione fra soggetto/individuale
e predicato/universale); b) l’universale che fa da predicato in realtà non
aggiunge nulla al concetto del soggetto (non vi è, quindi, differenza di
contenuto fra i due), ma semplicemente esplicita il concetto del soggetto
(come nei giudizi analitici kantiani). Dunque «la differenza di soggetto e
predicato è qui illusoria, perché predicato significa l’universale che si predica di
un individuale, e qui tanto il preteso soggetto quanto il preteso predicato sono due
universali, e il secondo, non che essere più ampio del primo, è il primo
stesso»9; c) la copula in realtà non è più tale, dal momento che essa non
connette due elementi distinti. Essi sono già uniti, poiché il predicato dice
semplicemente il soggetto, senza estendere la cognizione che già ne
abbiamo. «L’“è”, nel caso della definizione – scrive Croce –, non esprime
altro se non l’atto stesso del pensiero che pensa, perché quel che si pensa è,
in quanto si pensa: se non fosse non si penserebbe, e, se non si pensasse,
non sarebbe»10. Dunque nel giudizio definitorio in realtà il pensiero non
ma posizioni dello spirito stesso, che foggia quel cosiddetto “esterno”, perché gli giova
foggiarlo, salvo a riannullarlo quando non gli giova più» (Log, p. 136).
7 Cfr. B. CROCE, Il carattere preparante e indeterminante della storiografia rispetto all’azione,
in ID., La storia come pensiero e come azione (1938), ed. crit. a cura di M. Conforti, con una
Nota al testo di G. Sasso, Bibliopolis, Napoli 2002, pp. 183 sgg.
8 Log, p. 100.
9 Ibid (corsivi miei).
10 Ibid.
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predica qualcosa di qualcosa, ma semplicemente pensa, definisce il
contenuto del pensare. Ciò detto, possiamo perciò concludere con Croce
che, «rispetto al concetto, la definizione non è da ritenere da esso
distinguibile»11; ovvero: concetto e definizione si identificano. Non solo.
Poiché sappiamo che per Croce non vi può essere concetto senza
espressione del concetto e che, anzi, concetto ed espressione si
identificano, dobbiamo concludere che concetto, espressione e definizione
si identificano: la definizione è l’espressione del concetto e dunque il
concetto stesso. «Definire – scrive Croce –, sotto l’aspetto verbale, vuol
dire esprimere il concetto; e tutte le espressioni del concetto sono
definizioni»12.
A questo punto si impongono, però, due domande reciprocamente
connesse: 1) se quello definitorio non è un vero e proprio giudizio, in
quanto è privo della componente rappresentativo-percettivo-individuale,
allora perché se ne parla nella Logica?; 2) dal momento che se ne parla,
vuol dire che questo giudizio – malgrado tutto – esercita una qualche
funzione, quale? Il dilemma posto dai due quesiti si chiarisce, se con Croce
proviamo a rispondere innanzitutto alla seconda delle due domande. Se,
sulla base all’indicazione stessa del filosofo abruzzese, formuliamo il
seguente giudizio storico: Pietro è esistente, dobbiamo dare per acquisiti i
concetti di “uomo” (Pietro, appunto) e di “esistenza”, altrimenti quella
proposizione non significherà nulla per noi. Questo dovrebbe bastare a
farci concludere – con Croce – che il giudizio storico presuppone il giudizio
definitorio. Si legge nella Logica:
Il giudizio definitorio non è giudizio individuale, ma il giudizio individuale
implica un precedente giudizio definitorio. Che si pensi il concetto di uomo,
non vuol dire che l’uomo Pietro esista; ma per affermare che l’uomo
Pietro esiste, si deve prima aver affermato che esiste l’uomo, ossia aver prima
pensato quel concetto13.
Dunque, se così stanno le cose, non possiamo rinunciare al giudizio
definitorio, se vogliamo continuare a concepire ed esprimere (i due atti per
Croce si identificano, come abbiamo visto) giudizi individuali e storici.
Con ciò abbiamo chiarito la funzione (imprescindibile) del giudizio
Log, p. 101.
Log, p. 102.
13 Log, p. 154 (corsivi miei).
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definitorio: resta però il fatto che esso – a voler essere conseguenti rispetto
all’argomentazione crociana – non è un vero e proprio giudizio, poiché è
privo della dimensione rappresentativa e individuale. E se questa mancanza
fosse solo apparente? Il procedimento crociano è chiaro: per poter
sussumere a pieno diritto il giudizio definitorio sotto il titolo generale del
“giudizio”, dobbiamo ricercare (e trovare) anche in questa forma
particolare del giudicare quella componente percettivo-rappresentativa che
denota il giudizio in quanto tale. Le vie che conducono al conseguimento
dell’obiettivo sono due. La prima prende in considerazione – per così dire
– il bisogno storico del giudizio definitorio. Una definizione è sempre la
risposta ad una domanda emergente da un problema sorto storicamente e,
come tale, condizionato e contestualizzato. Ciò significa, ad esempio, che
la definizione di uomo come “animale razionale” corrisponde a quella che
dell’essere umano poteva dare la filosofia greca del IV secolo a.C. con
Aristotele. Non solo, ma la definizione, nascendo dalla posizione di un
problema filosofico che è storicamente condizionato e di volta in volta
diverso, si riferisce a questo problema filosofico stesso, in quanto
contribuisce a chiarirne gli aspetti ed eventualmente a darne una soluzione.
Dunque – lo ripetiamo – una definizione è storicamente situata in quanto è
la risposta ad un problema circoscritto che si pone in un determinato
momento della storia del pensiero. Eccolo dunque l’elemento
rappresentativo ed individuale che entra nel giudizio definitorio: è appunto
il problema storicamente dato, è la situazione storica che genera quella
domanda filosofica a cui il giudizio definitorio cerca di dare risposta. Ci
conviene, a tal proposito, leggere un lungo brano del filosofo, che saprà
ripagarci dello sforzo compiuto.
Ogni definizione è la risposta a una domanda, la soluzione di un problema; e
non vi sarebbe luogo a pronunciarla se noi non facessimo domande e non
ci proponessimo problemi. Perché ci daremmo quell’incomodo? quale
bisogno ci costringerebbe? Come ogni atto dello spirito, la definizione sorge
da un contrasto, da un travaglio, da una guerra che invoca pace, da una
oscurità che cerca luce, ossia, come abbiamo detto, è una domanda che
chiede risposta. Né solamente la risposta suppone la domanda, ma tale
risposta, tale domanda. La risposta deve essere intonata alla domanda,
perché altrimenti non sarebbe risposta, ma elusione di risposta. Il che
torna a dire che la natura della domanda colora di sé la risposta, e che una
definizione, considerata nella sua concretezza, appare determinata dal
problema che la fa sorgere. Variando il problema, varia l’atto definitorio.
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Ma la domanda, il problema, il dubbio è sempre individualmente
condizionato: il dubbio del bambino non è quello dell’adulto, il dubbio dell’uomo
incolto non è quello dell’uomo colto, il dubbio del novizio non è quello
dell’addottrinato, il dubbio di un italiano non è quello di un tedesco, e il dubbio di
un tedesco dell’anno 1800 non è quello di un tedesco dell’anno 1900; anzi, il
dubbio formolato da un individuo in un determinato momento non è quello che lo
stesso individuo formola un momento dopo. Semplificando, si suole affermare
che una stessa domanda è stata mossa tal quale da molti uomini in varî
paesi e in varî tempi; ma, col dire ciò, si fa per l’appunto, una
semplificazione, ossia un’astrazione. In realtà ogni domanda è diversa
dall’altra, e ogni definizione, per costante che suoni è circoscritta da certe
determinate parole, in realtà è diversa dall’altra, perché le parole, anche
quando sembrino materialmente le stesse, sono effettivamente diverse
secondo la diversità spirituale di coloro che le pronunciano, i quali sono
individui e si trovano perciò sempre in circostanze individuali e nuove. […]
Ammessa la condizionalità individuale e storica di ogni pensamento del
concetto ossia di ogni definizione […], si deve ammettere altresì che la
definizione, la quale contiene la risposta e afferma il concetto, nel fare ciò
illumini quella condizionalità individuale e storica, quel gruppo di fatti da cui essa
sorge. Lo illumina, ossia lo qualifica per quel che è, lo apprende come soggetto
dandogli un predicato, lo giudica; e, poiché il fatto è sempre individuale, forma
un giudizio individuale; ossia ogni definizione è insieme giudizio individuale14.
Come si vede, la conclusione più conseguente è la riconduzione del
giudizio definitorio al giudizio individuale e storico. «L’atto logico –
aggiunge inequivocabilmente il filosofo – […] è unico, ed è identità di
definizione e giudizio individuale»15.
La seconda via percorsa da Croce si riferisce alla natura del concetto:
una forma di conoscenza teoretica di secondo grado che presuppone
l’intuizione come suo fondamento. Nella Logica leggiamo:
Il pensamento del concetto è un grado superiore alla pura rappresentazione,
e nei gradi dello spirito il superiore contiene in sé l’inferiore, nel concetto si deve
ritrovare di necessità non solo l’elemento concettuale ma anche quello
rappresentativo, e congiunti e fusi in guisa tale che non sia dato distinguerli
14
15
Log, p. 159-161 (corsivi miei).
Log, p. 161 (corsivi miei).
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se non per astrazione. […] Il concetto non si applica all’intuizione, perché
non esiste nemmeno per un attimo fuori dell’intuizione16.
3. La tesi sulla contemporaneità della storia non ci impone tutti i
passaggi che sono stati necessari per illustrare e argomentare quella che
abbiamo denominato ‘contemporaneità della filosofia’. La sua enunciazione
è, infatti, molto più diretta ed esplicita, e si trova nel primo capitolo di
Teoria e storia della storiografia, intitolato: “Storia e cronaca”. «“Ogni vera
storia – vi si legge – è storia contemporanea”»17. Cosa intende dire il
filosofo con questo aforisma? Vuole, da un lato, affermare la stretta
connessione fra i problemi attuali e urgenti in cui il pensatore-storico si
imbatte, vivendo entro l’orizzonte ampio della propria epoca, e la
direzione nonché l’oggetto della sua ricerca; dall’altro, vuole mettere fuori
gioco ogni tentazione di concepire il lavoro dello storiografo come
esercizio di pura erudizione. Secondo la proposta teorica crociana,
contenuta in quel famoso assunto, il nostro rapporto con il passato è
mediato e governato dalle circostanze e dalle questioni che si agitano, sono
vive e fortemente sentite entro l’alveo del nostro mondo storico
contemporaneo: è, infatti, «evidente che solo un interesse della vita
presente ci può muovere a indagare un fatto passato»18. Ancora una volta
vale la pena di ricorrere alle parole stesse del filosofo, che sono – come
sempre, del resto – un modello di chiarezza e di concisione:
Quale l’interesse presente della storia che narra la guerra peloponnesiaca o
la mitridatica, le vicende dell’arte messicana o della filosofia arabica? Per
Log, pp. 162-163 (corsivi miei). «Senza le intuizioni non sono possibili i concetti –
scrive Croce nell’Estetica – […]. Le intuizioni sono: questo fiume, questo lago, questo
rigagnolo, questa pioggia, questo bicchier d’acqua; il concetto è: l’acqua, non questa o
quella apparizione e caso particolare, ma l’acqua in genere» (B. CROCE, Estetica come scienza
dell’espressione e linguistica generale – 1902 –, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990, p.
29).
17 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia (1917), ed. crit. a cura di E. Massimilla e
T. Tagliaferri, con una Nota al testo di F. Tessitore, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 2007, vol.
I (d’ora in poi: Tss), p. 12. Per un esame dell’articolata costituzione testuale di quest’opera
crociana cfr. E. MASSIMILLA, T. TAGLIAFERRI, “L’edizione critica di Teoria e storia della
storiografia”, in I percorsi dello storicismo italiano nel secondo Novecento, a cura di M. Martirano
ed E. Massimilla, Liguori, Napoli 2002, pp. 371-378; E. MASSIMILLA, T. TAGLIAFERRI,
“Ancora sull’edizione critica di Teoria e storia della storiografia”, Archivio di storia della cultura
XVII (2004), pp. 185-203.
18 Tss, p. 12.
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me, in questo momento, nessuno; e quindi, per me, in questo momento,
quelle storie non sono storie, ma, tutt’al più, semplici titoli di libri storici
[…]. Quando le penserò, rielaborandole secondo il mio bisogno spirituale
[…], quando lo svolgimento della cultura del mio momento storico (e
sarebbe superfluo, e forse anche inesatto, aggiungere: di me come
individuo) apre innanzi a me il problema della civiltà ellenica, della
filosofia platonica, o di un particolare atteggiamento del costume antico,
quel problema è così legato al mio essere come la storia di un negozio che
sto trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che
m’incombe; ed io lo indago con la medesima ansia, sono travagliato dalla
medesima coscienza d’infelicità, finché non riesco a risolverlo. La vita
ellenica è, in quel caso, presente in me; e mi sollecita e mi attrae o mi
tormenta, come il sembiante dell’avversario, della donna amata, o del
figlio diletto pel quale si trepida19.
4. Giudizio individuale, giudizio definitorio, tesi sulla contemporaneità
della storia, pur nella differenza delle rispettive articolazioni logicostrutturali e dei contesti teoretici di riferimento e di applicazione, attestano
la centralità della vita storica effettuale quale punto di origine per la
costruzione e la direzione del sapere. Meno impetuose di quelle enunciate
nella II inattuale di Nietzsche20; pensate e maturate in un quadro teorico
profondamente diverso rispetto a quello nietzscheano e con una maggiore
e più dettagliata attenzione ai processi effettivi con cui si costituiscono gli
strumenti concettuali necessari alla conoscenza – soprattutto di tipo
umanistico –, le posizioni crociane, che abbiamo appena esaminato,
possono essere naturalmente criticabili a vario titolo e da diverse
prospettive filosofiche ed epistemologiche. Qualcuno potrà giudicarle
antiquate, e forse avrà buon gioco e ragione a farlo: al momento la
questione non è di grande importanza. Quello che mi sembra interessante
nel Croce della contemporaneità della filosofia e della storia – che qui si è
cercato insufficientemente di delineare – è il deciso e incisivo accento
posto sulla chiara direzionalità dello sguardo di chi riflette e indaga, cui si
collega l’altrettanto chiara stigmatizzazione di ogni ingenua, per quanto
appassionata, concessione alla (vuota) amenità e alla (talvolta circense)
erudizione filosofica e storica.
Tss, pp. 12-13.
Cfr. F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), a cura di G.
Colli e M. Montinari, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 19814.
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Si formulano sempre nuovi giudizi storici e si forniscono sempre nuove
definizioni perché il nostro tempo – come quello che per i grandi pensatori
del passato fu il loro tempo – ci mette di fronte a individualità sempre nuove
che vogliamo comprendere e a problemi sempre nuovi che richiedono spesso
nuovi o rinnovati strumentari concettuali. Si può guardare al passato con gli
occhi del presente, perché nell’oggi una questione cruciale ci attanaglia e
pensiamo di poterne illuminare alcuni aspetti riandando a situazioni
analoghe più antiche o recenti: e ciò non perché la storia è
(improponibilmente) magistra vitae, ma perché rapporti di filiazione teorica
che riteniamo di ravvisare, linee di tendenza, vecchie e nuove
corrispondenze fra la condizione odierna e quella di ieri o dell’altro ieri
possono offrire un contributo alla comprensione della nostra vita attuale21.
Tutto ciò, su cui – lo si ribadisce – si può convenire o meno, indica,
però (ed è questo che ora interessa), una posizionalità e una direzionalità del
lavoro di ricerca – e segnatamente di ricerca filosofica, quella che qui mi
sta più a cuore –, che possono essere rifiutate, certo, ma anche scelte da un
indagatore, come alcune possibilità fra tante altre. Se con Croce – ossia
coperti dall’autorevolezza di un pensatore ‘grande’, ma anche controverso,
contrastato e da contrastare in molti aspetti del suo pensiero – si opterà
per la posizionalità e direzionalità dello sguardo filosofico che dal presente
muove verso il concetto e verso la parola del passato, allora anche la
riflessione proveniente da un’altra costellazione storico-teorica, oggettivata
in quel testo comunemente chiamato ‘classico’ (che, come il tempo per
Agostino22, tutti noi sappiamo cos’è, se nessuno ci chiede di definirlo) ne
avrà un beneficio. Sospesa quell’auralità e quella venerazione sacrale che il
riconoscimento di un’esemplarità d’eccezione legittimamente gli tributa, il
‘classico’ filosofico sarà ‘riscoperto’ nella sua funzione originaria di strumento
per pensare e (sia detto con scandalo dei benpensanti) ‘saccheggiato’ nelle
parti che – opportunamente rimeditate – ci consentiranno di dare qualche
21 «L’oggetto della storia della filosofia – osserva Croce a questo proposito in un altro
luogo e in un diverso tempo – […] è […] un problema critico e la soluzione che se n’è
data; e suo motivo non è la disposizione a rivivere i vari problemi in estetica contemplazione,
sì invece un determinato nuovo problema che travaglia il pensatore, una nuova domanda alla
quale esso dà risposta e per la quale risale alle precedenti domande e risposte a cui la sua si
annoda come un discorso coi suoi precedenti, e che, nell’atto stesso che rischiarano il nuovo
problema, ne vengono rischiarate» (B. CROCE, Intorno alle condizioni presenti della storiografia in
Italia, in ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono – 1921 –, 2 voll., Laterza,
Bari 19302, vol. II, p. 176).
22 Cfr. A. AGOSTINO, Confessioni (400), lb. XI, 14, 17.
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risposta al nostro presente e di obbedire all’antico imperativo delfico che
impone l’autoconoscenza.
Per condurre correttamente un’operazione siffatta – e in qualche caso
riguadagnare così un senso per il proprio lavoro filosofico –, c’è bisogno,
ovviamente, di consapevolezza storica e raffinatezza ermeneutica, che
saranno il frutto di un lungo esercizio del mestiere; e non è detto che il
faticoso itinerario di ricerca che si percorrerà con questi intenti sarà
fruttuoso. Ma, nell’eventualità di una riuscita, la ricompensa potrà essere
grande: conoscere un po’ meglio se stessi e il proprio mondo, e farlo in
compagnia di qualche illustre, buon amico…
Abstract
After reviewing and discussing the theory of Croce's contemporary
history – exposed, as is well known, in Theory and History of
Historiography (1917) –, the author proposes to transfer from history to
philosophy. With this shift, and discounting the question, He interprets the
relationship between theoretical elaboration and the history of philosophy
in the light of the relationship between past and present in the above
mentioned thesis statement of Croce, thus indicating a possible mode of
philosophical work.
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