È uno strumento di lavoro per chi vuole avere una visione complessiva di
quanto accaduto e compiuto in questo quarto di secolo in cui Aspen Institute
Italia si è affermato. Un contenitore di idee, luogo di incontro e discussione, caratterizzato da una costante attenzione al contesto internazionale, con
l’obiettivo di riflettere sulla politica, sull’economia e sulle necessità e novità
sociali e culturali. Sempre tenendo presente il valore dei principi che sono
al cuore della civiltà occidentale, senza paura di aprirsi al mondo.
Aspen Institute Italia 1984 2010 Storia di un dialogo
Il volume ripercorre, seguendo il filo cronologico, la storia di Aspen Institute Italia. Lungo questo filo, se ne ricostruiscono la nascita, i primi passi, i
protagonisti, il progressivo consolidamento ed espansione dell’associazione
in termini di persone e programmi, ma soprattutto il dipanarsi di tutti gli
incontri organizzati in questo arco di tempo. Riporta, infatti, una puntuale
elencazione degli eventi, del loro contesto storico, contenuto e partecipanti:
dalle prime conferenze a carattere internazionale alle tavole rotonde, legate
a un vasto spettro di argomenti, sino agli incontri focalizzati su temi nazionali, da affermarsi anche sulla scena globale.
Aspen
Institute
Italia
1984
2010
Storia
di
un
dialogo
Giovanni Francesco Lucarelli
Giovanni F. Lucarelli è laureato in filosofia ed è dottore di ricerca in storia
moderna. Ha insegnato storia economica presso l’Università degli Studi di
Napoli “Parthenope” e l’Università degli Studi di Bologna. Attualmente si occupa di teoria e storia delle istituzioni e di analisi delle politiche pubbliche.
La versione integrale del volume è disponibile negli uffici dell'Istituto
Aspen Institute Italia
1984-2010
Storia di un dialogo
Giovanni Francesco Lucarelli
aspen institute italia
Presidente
Giulio Tremonti
Presidenti Onorari
Vice Presidenti
Giuliano Amato
Gianni De Michelis
Cesare Romiti
Carlo Scognamiglio
John Elkann
Enrico Letta
Paolo Savona (Vicario)
Lucio Stanca (Tesoriere)
Comitato Esecutivo
Luigi Abete
Giuliano Amato
Lucia Annunziata
Giuseppe Cattaneo
Fedele Confalonieri
Fulvio Conti
Maurizio Costa
Gianni De Michelis
Umberto Eco
John Elkann
Jean-Paul Fitoussi
Franco Frattini
Gabriele Galateri di Genola
Enrico Letta
Gianni Letta
Emma Marcegaglia
William Mayer
Francesco Micheli
Paolo Mieli
Mario Monti
Lorenzo Ornaghi
Riccardo Perissich
Angelo Maria Petroni
Mario Pirani
Romano Prodi
Alberto Quadrio Curzio
Giuseppe Recchi
Gianfelice Rocca
Cesare Romiti
Paolo Savona
Carlo Scognamiglio
Lucio Stanca
Giulio Tremonti
Beatrice Trussardi
Giuliano Urbani
Giacomo Vaciago
Segretario Generale
Consigliere del Presidente
Angelo Maria Petroni
Giuseppe Cattaneo
Direttore Aspenia
Direttore Responsabile Aspenia
Marta Dassù
Lucia Annunziata
Direttore Amministrativo
Adelia Lovati
© 2012 Aspen Institute Italia
INDICE
1I valori
1.1 Matrici
culturali
1.2 Genealogia
5
6
7
2
Pre-storia
2.1 Le origini
2.2 I
primi programmi
9
10
21
3
Una nuova fase
3.1 Cambiamenti
3.2 Gli
orizzonti si allargano
3.3 Dal focus sui problemi dell’imprenditoria agli Aspen
European Dialogue
43
44
49
58
4
Ramificazioni
4.1 La
fase 1994-1997
4.2 Interfase
4.3 L’avvio
degli anni duemila
75
76
121
176
5
2004: lo snodo
5.1 Vent’anni
dopo
5.2 Nel segno della continuità
5.3 Verso il presente, verso il domani
237
238
310
327
6
Conclusioni
385
i valori 1
1.1
Matrici culturali
6
Aspen Institute Italia è un mondo unico. La sua individualità inconfondibile ha
un primo punto di forza nella solida armatura del suo sviluppo. Il progetto parte
nel 1984 e si prolunga a tutt’oggi. Fin dallo stato iniziale prende slancio la prospettiva di un processo istituzionale che ha portato a fare di Aspen quella che
Giuliano Amato definisce: «una palestra ideale per mettere all’opera conoscenza
e ragione»1. Questo contenitore di idee persegue infatti, l’obiettivo di stimolare
la riflessione sull’economia, sui bisogni sociali, sulla politica, tenendo presente il valore dei principi che sono al cuore della civiltà occidentale. Nato come
emanazione2 di «The Aspen Institute for Humanistic Studies», ne eredita alcuni
ingredienti di fondo e ne modifica altri nel corso della sua vicenda.
Il valore di Aspen, ricorda Gianni De Michelis, è mettere intorno al tavolo
differenti realtà, facendole liberamente discutere e confrontarsi3. Discussioni, incontri, tavole rotonde sono gli strumenti attraverso i quali Aspen Italia formula
interrogativi sui grandi problemi del nostro tempo, inventa strade nuove ed esplica la propria attività di responsabilizzazione delle classi dirigenti (creazione di
coesione della classe dirigente nazionale attraverso la conoscenza comune di un
problema, dirà Carlo Scognamiglio Pasini4). Inoltre quando “clicca” sulla voce
«welfare», «impresa», «mercato», «tecnologia», non si limita a catalogare quanto
già esistente di concreto, ma anche il «welfare», l’«impresa», il «mercato» e la
«tecnologia» che si realizzerà nel futuro.
Questo “doppio gioco” permette di parlare di Aspen in termini di progetto in
senso forte, che richiama la parola Entwurf come impiegata da Heidegger. Il verbo
corrispondente, entwerfen, è composto da werfen che significa gettare, lanciare, e
dalla particella ent che sostiene e decide del significato dell’intera espressione.
Ent indica un «essere strappati», un portar via lontano da sé. Il progetto trasporta
in qualcosa di ancora non effettivo e dato. Muove da un qui presente a un là a
venire, apre l’effettivo al possibile, verso ciò che è inatteso5.
G. Amato, Il potere responsabile, in «Aspenia», n. 1, 1995, p. 105.
Cfr. Archivio Storico Aspen Institute Italia (d’ora in avanti ASAII), Atto costitutivo di Aspen
Institute Italia, 2 luglio 1984, p. 5.
3 Cfr. ASAII, riunione del Comitato esecutivo, 6 febbraio 2006, Milano, p. 1.
4 Ivi, p. 3.
5 Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, Il melangolo, Genova, 1999, p.
465.
1 2 1.2
Genealogia
Come sottolinea Giuliano Amato: «Aspen differisce da altri perché quello che
riserva ai suoi soci e ai suoi frequentatori non è mai l’ascolto passivo. Fa discutere insieme con un lavoro che è allo stesso tempo d’informazione e di formazione
reciproca e collettiva»6.
Da questo punto di vista Aspen riattualizza alcuni codici e stili della tradizione umanistica. Il canone del dialogo razionale rinvia alla scena dei dibattiti
intellettuali che si svolgono all’interno dell’accademia, l’istituzione che la cultura
del Cinquecento mutua dal mondo dell’accademia platonica. Più vicina all’antico
simposio che al moderno seminario, più formale e durevole di un circolo (quello
dei discepoli di Petrarca, ad esempio), ma meno formale di una facoltà universitaria, l’antica scuola di Platone rinasce nel XV secolo dopo una lunga eclissi. E
torna a riassumere la veste originaria di un luogo di riunione di persone legate
da interessi comuni (per la filosofia, la letteratura, la musica o le scienze7) e tutte
animate da una fede vigile e critica nelle molteplici proprietà dell’eloquentia.
F. Gusmaroli, S. Salustri (a cura di), Incontri 1993, Aspen Institute Italia, Veutro Editore,
Roma, 1994, p. 1.
7 E. Pommier, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento, Einaudi, Torino, 2007.
6 7
8
pre-storia 2
9
2.1
Le origini
10
L’azione convergente di diverse personalità è all’origine di Aspen Institute Italia. Un momento clou di questo gioco di relazioni, orientate verso una serie di
obiettivi condivisi, è rappresentato da un viaggio di Gianni De Michelis. Invitato
nel 1983 da Gary Hart in South Carolina a un seminario sponsorizzato da «The
Aspen Institute for Humanistic Studies», De Michelis prende la decisione di creare le condizioni per aprire in Italia una sede dell’istituto fondato da Giuseppe A.
Borgese, Robert H. Hutchins e Walter Paepcke nel 1950 ad Aspen, nel Colorado.
Ma, come si vedrà meglio più avanti, l’iniziativa di De Michelis è collegata a diversi attori all’opera su un’unica scacchiera.
Negli anni cinquanta Borgese, già professore di letteratura tedesca all’Università di Milano, è professore emerito di letteratura italiana alla University of Chicago. Antifascista, ha lasciato l’Italia negli anni trenta per trasferirsi in America.
A Chicago, Borgese e Hutchins sono colleghi. Hutchins è un giurista, preside della School of Law della University of Chicago, e insieme a Mortimer Adler è l’autore di una critica e di un progetto di riforma del sistema universitario americano.
Con Piotr Sorokim e William Elliott fa parte di quella generazione di intellettuali
americani che muove da posizioni antitetiche al relativismo e al pragmatismo per
riaffermare i fondamenti morali sui quali si basa la democrazia contro il totalitarismo8.
Paepcke, presidente della Container Corporation of America, è – in seguito
alla chiusura del Bauhaus di Gropius – uno dei principali sostenitori della nascita del New Bauhaus di Chicago e del Chicago Institute of Design, sorto sulle ceneri del New Bauhaus finito in bancarotta. Discendente da una famiglia tedesca
emigrata a Chicago nel 1870, riceve un’educazione umanistica intrecciando lo
studio del latino e della letteratura tedesca a studi di economia. La sua passione
per il design e l’arte lo porterà ad arruolare nella sua azienda artisti del calibro di
William de Kooning o Henry Moore in qualità di disegnatori pubblicitari.
Borgese formula e presenta a Hutchins l’idea di organizzare alla University
of Chicago le celebrazioni del bicentenario della nascita di Goethe, sicuro che
questo appuntamento sarebbe stato in grado di catalizzare l’interesse e la partecipazione di tutta la scena intellettuale e politica mondiale. Hutchins, a sua
R. H. Hutchins, Education and social improvement. The cult that destroys, in «Vital speeches of the day», n. 4, 1938, pp. 456-500.
8 volta, coinvolge Paepcke nell’iniziativa. Paepke aderisce. Si fa carico di suggerire
che la manifestazione debba prevedere anche un festival musicale (considerando
che Goethe era stato una fonte di ispirazione per molte opere e composizioni) e
convince sia Hutchins che Borgese ad allestire l’evento non nel campus della
University of Chicago bensì in Colorado, nello scenario naturale di Aspen.
L’evento – della durata di venti giorni e organizzato sotto la supervisione
scientifica di Borgese – inizia il 27 giugno del 1949. Oltre a Ernst Curtius, José
Ortega y Gasset, Robert Redfield, Arthur Rubinstein, Albert Schweitzer, Stephen
Spender e Thorton Wilder, vi partecipano circa duemila persone. Non è però
solo un grande evento culturale. Durante quelle giornate, come avverte Sydney
Hyman, si assiste alla nascita di una vera e propria comunità di discorso9.
Sulla base di questo risultato, Paepcke inizia a elaborare il proposito di fondare ad Aspen qualcosa di simile ad un’università ma priva delle routines della vita
universitaria come esami, consigli di facoltà, promozioni, avanzamento di carriera, cattedre. L’anno successivo viene fondato «The Aspen Institute for Humanistic Studies» e si tiene il primo seminario per imprenditori. Negli anni successivi
si aggiungono l’Aspen Music Festival, l’International Design Conference e altri
programmi tesi ad estendere la comprensione degli studi umanistici, promuovere
il confronto libero fra culture diverse, sino a dar vita a quindici programmi di
discussione politica su temi come la pace, la sicurezza internazionale, la democrazia e l’innovazione sociale attraverso l’impresa. Nel 1979 – grazie alla donazione di mille acri di terreno sul Wye River nel Maryland da parte dell’industriale
Arthur A. Houghton Jr. – viene costruito il Wye River Conference Center10.
L’idea di De Michelis è quella di dar vita a un’istituzione esemplata sul modello americano e in grado di offrire riferimenti strategici essenziali alla gestione del
cambiamento e al rinnovamento della cultura politica e imprenditoriale nazionale
e internazionale. Ma c’è di più. All’elaborazione della mission coopera una compagine di attori e fattori in relazione attiva l’uno con l’altro.
Nel 1984 infatti, insieme a De Michelis, Sergio Berlinguer, Domenico Cacopardo, Umberto Colombo, Francesco Cossiga, Ennio Presutti, Franco Reviglio,
Cesare Romiti ed Enzo Viscusi sono tutte figure che si intersecano nel punto centrale della scena. Privi di visioni ombelicali, contribuiscono a dare ad Aspen una
forte impronta cosmopolita, mettendola al riparo da angolature anguste. Da qui
si sviluppa un percorso che porterà Giulio Tremonti nel 2005 a scrivere: «Aspen
non va visto come un luogo di elaborazione di idee politiche, più o meno domeCfr. S. Hyman, The Aspen Idea, University of Oklahoma Press, Oklahoma, 1975.
Sull’insieme di queste vicende si rimanda a S. Hyman, The Aspen Idea, cit.
9 10 11
12
stiche, ma principalmente come un luogo di discussione e di incontro tra mondo
delle imprese e altri mondi. In Italia e fuori dai nostri confini»11.
In un’ottica di lungo respiro, la vicenda Aspen Italia rimanda alla storia del sistema di relazioni politico-culturali intercorse tra Europa e Stati Uniti. Una storia
che dagli anni venti del Novecento segna l’inizio degli scambi più intensi, che
alimentano una tradizione di interessi e curiosità reciproche a fronte del clima
di indifferenza creato da un’America decisa a chiudere il capitolo europeo e a
tornare nella sua splendid isolation.
La guerra ha portato in Europa più di due milioni di americani. Tra di loro ci
sono artisti, giornalisti, intellettuali. Numerosi expatriates vivono nelle capitali
europee della cultura come Parigi e Berlino (negli anni di Weimar la Germania
è il paese europeo in cui l’attenzione per gli Stati Uniti è più viva e dove «i valori americani» lasceranno la traccia più profonda, che tuttavia il regime nazista
farà in modo di cancellare dopo il 1933). Pittori, musicisti, letterati frequentano
scuole, cenacoli, accademie. Hanno contatti con gli ambienti e gli esponenti culturali dei paesi che li ospitano. Iniziative come la creazione dell’American Legion
contribuiscono sia a coltivare il mito dell’America che aveva vinto la guerra per
l’Europa che a conservare un legame con le sue città, i suoi abitanti.
Nei medesimi anni arriva in Europa il taylorismo, il complesso di regole e criteri che Frederick Taylor ha applicato all’organizzazione aziendale per migliorarne
efficienza e produttività. Un altro modello americano è rappresentato dalle politiche
del governo federale, dirette a favorire la ristrutturazione dell’industria secondo criteri organizzativi che tendevano a raggruppare e fondere le imprese industriali e finanziarie in unità sempre più grandi, al fine di adottare produzioni standardizzate e
realizzare economie di scala. Così in Germania la Ig Farben, creata nel 1923, dopo
appena quindici anni arriva a controllare i quattro quinti del suo settore. La Renault
in Francia e la Fiat in Italia faranno altrettanto al fine di procurarsi il controllo del
cosiddetto «indotto», secondo il principio della concentrazione verticale. È il momento in cui per sostenere la concorrenza internazionale e per operare investimenti
sempre più massicci – resi necessari dall’espansione e dalla modernizzazione degli
impianti – si impone la concentrazione della produzione e del capitale secondo lo
slogan «grande è bello». Cinquanta anni dopo convinzioni e convenienze verranno
letteralmente rovesciate. Ma la nuova parola d’ordine, «piccolo è bello», partirà
ancora una volta dagli Stati Uniti12.
G. Tremonti in «Aspenia», n. 31, 2005, p. 5.
Sul complesso di queste relazioni cfr. G. Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati
Uniti nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 61-66.
11 12 Da un punto di vista geopolitico è decisivo il periodo del New Deal. Dopo anni
di politica estera rivolta quasi esclusivamente all’area centroamericana, Roosevelt nel 1937 cambia strategia. Attraverso il discorso sulla Quarantena il presidente americano richiama l’attenzione sulla «interdipendenza tecnica e morale»
del mondo moderno per cui è impossibile «isolarsi dai rivolgimenti politici del
resto del mondo». A partire da questo momento, negli Stati Uniti si avverte che
sarà inevitabile la partecipazione allo scontro che si stava preparando. Dopo lo
scoppio della guerra in Europa, successivamente all’attacco tedesco alla Polonia,
la politica interventista di Roosevelt si manifesta senza incertezze. Il Congresso
modifica radicalmente la legge sulla neutralità. Nel settembre 1940 alla Gran
Bretagna vengono ceduti 50 cacciatorpedinieri in cambio dell’affitto per 99 anni
di 8 basi britanniche in area caraibica e nell’Atlantico centro-settentrionale13.
Come illustra William Wallace, gli Stati Uniti divengono «arsenali della democrazia» per tutta la durata del conflitto14. In seguito, nel periodo 1946-47, Washington riconosce la necessità di un impegno ancora più esteso, fintanto che
l’Europa occidentale non avesse raggiunto un livello di ripresa economica tale
da poter provvedere da sola alla propria difesa e fintanto che la dinamica interna
del sistema politico sovietico non ne avesse mitigato gli aggressivi atteggiamenti
interni15. Ormai il filo rosso che lega le due sponde dell’Atlantico è in procinto di
annodarsi e dare vita ad un fitto intreccio di rapporti, tenuti insieme da una grande vocazione universalista. Lo stesso sistema di Bretton Woods, è rilevato anche
da Gianni Agnelli, nasce con lo scopo di livellare le differenze tra i due versanti
dell’Atlantico, posti in punti diametralmente opposti del ciclo del business16.
Si tratta di ciò che Alfred Thayer Mahan, le cui idee riemergeranno periodicamente durante tutto il XX secolo, chiama il «guardare oltre le frontiere» e il cui
esempio politico più significativo è rappresentato dalle idee di Woodrow Wilson.
Riformista, democratico (dopo tanti presidenti repubblicani), portatore di una visione alta dei rapporti internazionali, convinto della necessità per gli Stati Uniti
di svolgere il ruolo che la grande potenza economica gli assegna, cosciente della
necessità di coniugare i valori della democrazia con quelli dell’economia17, lascia
un’eredità che travalica i confini cronologici della seconda guerra mondiale, degli
Ivi, pp. 101-102.
Cfr. W. Wallace, Le trasformazioni dell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 63.
15 Ivi, p. 111.
16 Cfr. G. Agnelli, Una certa idea dell’Europa e dell’America, Einaudi, Torino, 2004, p. 133.
17 Cfr. P. M. Defarges, Introduzione alla geopolitica, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 49; G. Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti nel XX secolo, cit., p. 29.
13 14 13
14
anni sessanta, del «grande progetto» americano del 1961-63 e tutti gli anni settanta.
«Grande progetto» che, a fronte del suo fallimento, prevedeva la creazione
di una comunità atlantica in seno alla quale una Europa occidentale integrata
potesse dar vita ad un equilibrato rapporto associativo con gli Stati Uniti. Nel
1962 a Filadelfia, Kennedy, supponendo avvenuta l’adesione del Regno Unito
alla Comunità e mentre erano in corso i negoziati a Bruxelles, offriva alla Comunità allargata la partnership con gli Stati Uniti negli affari del mondo occidentale.
Gli anni settanta sono quelli in cui Henry Kissinger sottolinea esplicitamente
la responsabilità «globale» degli Stati Uniti. A New York, il 23 aprile 1973, l’allora consigliere presidenziale per gli affari della sicurezza nazionale, introducendo
il suo discorso al pranzo annuale della Associated Press, proclama: «Quest’anno
sarà chiamato l’anno dell’Europa». James Reston prontamente paragona questa
dichiarazione al famoso discorso pronunciato dal generale Marshall ventisei anni
prima per il varo dell’Economy Recovery Program (erp).
Il discorso di Kissinger, pur non suscitando immediati e concordi entusiasmi (gli
Stati Uniti sembravano risvegliarsi da un lungo torpore in cui avevano vissuto negli
ultimi anni i loro rapporti con l’Europa e Kissinger sembrava voler cancellare con
un colpo di spugna: l’irritazione degli europei per l’esclusione dai negoziati Salt e
dalla nuova politica cinese di Nixon; l’atto del 1971 con cui era stata posta fine alla
convertibilità del dollaro, sconvolgendo l’organizzazione monetaria internazionale
proprio nella fase di avvio dell’unione economica dell’Europa) esprimeva il sostegno
americano alla costruzione dell’Europa economica e politica e invitava gli europei ad
un’ulteriore liberalizzazione degli scambi in Occidente. Invitava a definire un insieme preciso di obiettivi comuni e a realizzare una nuova «Carta» dell’Occidente18.
Da un punto di vista più strettamente economico, gli anni settanta sono quelli in cui il settore farmaceutico italiano è controllato per il 35,8 per cento da
imprese americane; il settore della raffinazione del petrolio lo è per più del 30
per cento19. ibm Italia – che avrà un peso enorme nel fornire risorse intellettuali
e finanziarie ad Aspen Italia nel corso di tutta la sua vicenda – nel 1977 ha un
fatturato di 691.707 miliardi di lire e rappresenta la maggiore impresa americana
nell’industria manifatturiera italiana. Con un numero di dipendenti nettamente
Cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, Il Mulino, Bologna, pp. 154-155.
19 Cfr. V. Grandi, Gli investimenti americani in italia, in M. Fini (a cura di), Dove va l’America.
La politica estera degli Stati Uniti e l’Italia durante gli anni settanta, Feltrinelli, Milano, 1980,
pp. 146-147.
18 inferiore a quello di ibm usa (8.815 rispetto a 188.000) ha un fatturato medio per
addetto superiore a quello statunitense (79,863 dollari contro 47,914)20.
General Motors e Ford pervengono gradualmente all’integrazione delle loro attività europee di produzione e marketing, producendo e acquistando sul continente
europeo la loro componentistica21. La stessa sopravvalutazione del dollaro rispetto
alle monete europee ha favorito questa tendenza, rendendo più conveniente acquistare unità produttive in Europa che esportare merci dagli Stati Uniti.
In sostanza, l’istituzionalizzarsi di una leadership americana ha dettato il contesto entro il quale la politica, le istituzioni e l’interdipendenza socio-economica
dell’Europa si sono venute evolvendo sino a oggi22. Però le relazioni fra Stati Uniti
ed Europa sono anche immerse in un sistema di interazioni rese ancora più dense
da un processo creativo istituzionale esogeno alle strutture centrali dell’amministrazione americana. Accenniamo qui ad alcune fra le principali.
Nel 1914, con il sostegno del presidente Wilson, nasce il National Foreign
Trade Council. A fondarlo è un gruppo di società industriali americane impegnate
nel commercio e negli investimenti internazionali e interessate a liberalizzare il commercio mondiale. L’organizzazione si dota di due sedi, una a Washington e un’altra
a New York con l’intento di orientare il governo americano su questioni connesse
all’incremento delle esportazioni, alla protezione degli investimenti esteri e al regime fiscale su proventi da attività internazionali. Diretta da un consiglio di cinquanta
membri, rappresentanti di altrettante grandi imprese, incentra la propria attività su
contatti formali e informali con funzionari governativi, conferenze, dibattiti.
Nel 1921 viene fondato il Council on Foreign Relations, fucina di orientamenti e ipotesi per la politica estera americana, che trae origine dalla riunione
di un gruppo di diplomatici inglesi e americani svoltasi a Parigi nel giugno del
1919, in margine alle trattative di Versailles. A guidare il gruppo Edward Mandell
House, consigliere del presidente Wilson. Finanziato da Carnegie e Rockefeller,
diviene la più influente organizzazione privata nel campo della politica estera
americana. Considerato «il ministero degli esteri dei Rockefeller» e il cuore del
Dipartimento di Stato con cui collabora ufficialmente, pubblica «Foreign Affairs», nonché una serie di rapporti su temi di politica internazionale. Organizza
riunioni e conferenze con leader politici di tutto il mondo e tra i suoi membri sono
inclusi tutti i segretari di stato americani, numerosi membri dei governi succedutisi dal 1940 e diversi presidenti degli Stati Uniti.
Ivi, p. 148.
Cfr. W. Wallace, Le trasformazioni dell’Europa occidentale, cit., p. 123.
22 Ivi, p. 140.
20 21 15
16
Una delle tappe fondamentali della vita di questo organismo è rappresentata
dal lancio del «Progetto Ottanta». Varato nel 1972, si prefigge di analizzare tutto il complesso delle relazioni internazionali. Diventa necessario formulare un
nuovo disegno di egemonia internazionale americana che tenga conto dei nuovi
sviluppi sorti dalle critiche alla politica estera di Nixon e Kissinger. Il «Progetto
Ottanta», che aveva un precedente soltanto nei piani elaborati durante la seconda
guerra mondiale, sfocia in una proposta globale di nuovo ordine planetario23.
Nel 1927 nasce la Brookings Institution. È un’organizzazione privata sorta
dalla fusione tra l’Institute for Government Research (la prima istituzione privata
nata nel 1916 per analizzare la politica interna americana), l’Institute of Economics e la Brookings School, fondate dal businessman Robert Somers Brookings
rispettivamente nel 1922 e nel 1924, think tank che analizza le politiche americane interne ed estere.
Nel 1952 sorge il Bilderberg Group, fondato da Josef Reitinger, segretario
dell’Independent League for European Cooperation; tiene la prima riunione a Oosterbeeck, vicino L’Aja, nell’albergo Bilderberg, da cui il club prende il nome. È
un sodalizio di settanta-ottanta membri europei, americani e canadesi del mondo
politico, dell’alta finanza e delle istituzioni scientifiche. Gli incontri avvengono
ogni anno e durano tre giorni, ogni volta in una sede diversa per discutere di problemi considerati di particolare rilevanza per l’Occidente24.
Da una costola del Bilderberg, nell’ottobre del 1973, nasce la Trilateral
Commission. Con sede a New York e Parigi, diviene il cenacolo dell’élite politica ed economica internazionale e individua tra i suoi fini principali quello di
creare le condizioni più idonee per un dialogo costruttivo tra Stati Uniti, Europa
e Giappone attraverso lo scambio di opinioni, la ricerca di soluzioni equilibrate a problemi nodali e un’opera di sensibilizzazione dei rispettivi governi sulle
misure da intraprendere. L’atto istitutivo recita testualmente: «La Commissione
Trilaterale è un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (America settentrionale, Europa
occidentale, Giappone) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse»25.
Cfr. M. Vaudagna, Gli Stati Uniti e la crisi della democrazia, in M. Fini (a cura di), Dove va
l’America. La politica estera degli Stati Uniti e l’Italia durante gli anni settanta, cit., p. 74.
24 Cfr. V. Castronovo, Introduzione, in G. Agnelli, Una certa idea dell’Europa e dell’America,
cit., p. XXIX.
25 Tratto da G. Agnelli, Prefazione al rapporto della Commissione Trilaterale, in M. Crozier, S.
P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli, Milano, 1977, p. 11.
23 Riconosciuta la divisione di fatto del sistema internazionale in tre sottosistemi,
si pone il problema della possibile identificazione di un «mondo occidentale»
industrializzato e democratico. La Trilaterale punta a sostenere i fondamentali
principi della cooperazione nella libertà internazionale degli scambi con l’obiettivo di uno sviluppo equilibrato nel mondo26.
Gianni Agnelli assume il ruolo di capofila della delegazione italiana, composta da una decina di membri fra cui figurano Manlio Brosio, Aurelio Peccei e
Guido Carli. La nascita di questa organizzazione avviene in un periodo di forte
turbolenza e incertezza della politica mondiale. La direzione dell’economia sembrava dover sfuggire di mano ai leader dei paesi più avanzati e la crescente interdipendenza delle questioni economiche rendeva necessaria una cooperazione più
stretta fra le maggiori nazioni industriali.
Le riunioni si svolgono in varie città della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone), al riparo dai media. Gli argomenti trattati sono oggetto di rapporti annuali
(the trialogue) e di lavori di ricerca (triangle papers) realizzati da équipe di esperti
americani, europei e giapponesi. Questi documenti regolarmente pubblicati riguardano problemi che trascendono la sovranità nazionale come la globalizzazione dei mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Est-Ovest, il debito dei paesi
poveri. Gli interventi ruotano intorno ad alcune idee guida. La prima è l’esigenza
di un «nuovo ordine internazionale». La seconda, che trae origine dalla prima,
è il ruolo tutelare della triade, in particolare degli Stati Uniti, nella riforma del
sistema internazionale. In altre parole: «La Commissione Trilaterale sorgeva con
lo scopo di fornire ai principali interessi economico-finanziari degli Stati Uniti,
del Giappone e dell’Europa una sede dove discutere una proposta di equilibrio
internazionale dominato da queste aree forti del capitalismo»�27.
Il 1983 è la volta della nascita del Consiglio per le relazioni fra l’Italia e
gli Stati Uniti, organizzazione privata «binazionale» impegnata ad ampliare il
dialogo e l’interscambio tra i due paesi nel quadro più ampio delle relazioni fra
Stati Uniti ed Europa. Padri fondatori di questo consesso sono David Rockefeller
e Gianni Agnelli, che ne diviene presidente onorario. Una sezione americana del
Consiglio ha sede presso la Brookings Institution.
Tornando ora ad Aspen Italia e alla «foto di gruppo» di partenza – quella in cui compaiono De Michelis, Cossiga e molti altri – si osserva che quando l’istituto nasce non
Ivi, pp. 11-12.
M. Vaudagna, Gli Stati Uniti e la democrazia, cit., p. 74.
26 27 17
18
è casuale che la politica estera italiana sancisca una totale e rigorosa centralità atlantica. Bettino Craxi nel settembre 1983 effettua la sua prima visita ufficiale a Washington. Il neoeletto presidente del Consiglio viene accolto con calore da Reagan
che lo definisce «uno dei massimi esponenti della politica mondiale». Come ricorda
Antonio Badini, l’ambasciatore consigliere diplomatico di Craxi, il legame che si
stabilisce con il presidente Reagan fu eccellente e tra i due si sviluppò una vera
e propria personal chemistry. Di lì a poco i commenti rilasciati dallo stesso Craxi
(nell’ottobre del 1983) in merito all’invasione americana dell’isola di Grenada sono
comunque parole di deplorazione per un gesto compiuto da una nazione amica e non
possono essere confrontati con la reazione dura manifestata all’indomani dell’abbattimento, nel settembre 1983 da parte sovietica, di un jumbo sudcoreano. La stessa
imminente crisi dell’«Achille Lauro» del 198528 (riverberatasi nelle dimissioni di
Spadolini da ministro della difesa), pur mettendo in evidenza una linea alternativa
di potenzialità critica verso gli Stati Uniti, viene preceduta nel 1979 dalla decisione – presa dal governo guidato da Francesco Cossiga – di permettere l’installazione
(prevista dal Consiglio Atlantico) degli «euromissili» sul territorio italiano. Dopo aver
dato prova di indiscutibile lealtà atlantica, diviene possibile scoprire che esistono
altri interessi verso i quali l’Italia può sviluppare la sua azione in modi più elastici29.
Sul piano diplomatico, l’incidente di Sigonella si conclude il 24 ottobre 1985
a New York. Durante un colloquio fra Craxi e Reagan, il presidente americano si
rivolge al capo di governo italiano sottolineando l’importanza della solidarietà e
dell’amicizia italo-americana e ribadendo che nulla sarebbe venuta a turbarla30.
Il disegno di Aspen Italia è anche effetto di questi grandi inputs. Da un punto di vista strettamente statutario, il varo dell’istituzione avviene nell’estate del
1984. Il 2 luglio si riuniscono alla presenza di un notaio: Domenico Cacopardo,
Sergio Berlinguer e Stephen Strickland per dare vita a un’associazione privata,
indipendente, internazionale, apartitica, senza fini di lucro, parte integrante di
«The Aspen Institute for Humanistic Studies».
Domenico Cacopardo era allora consigliere di stato e capo di gabinetto di Gianni
De Michelis (nel 1984 ministro del lavoro). Prima del 2 luglio 1984 aveva già stabiSul «caso Lauro» cfr. A. Cassese, Il caso «Achille Lauro», Editori Riuniti, Roma, 1987.
Su questi aspetti in particolare cfr. E. Di Nolfo, La politica estera italiana negli anni Ottanta.
Relazione introduttiva, in Idem (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Lacaita
editore, Mandria, 2003, p. 11.
30 Cfr. R. Petrignani, Intervento sui rapporti con gli Stati Uniti, la crisi di Sigonella e l’abolizione del G5, in E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, cit., p. 147. Per
una puntuale ricostruzione dell’intera vicenda cfr. anche A. Silj, L’alleato scomodo, Corbaccio,
Milano, 1998.
28 29 lito una serie di contatti con i vertici istituzionali di Aspen usa, facendosi portavoce
dell’idea di fondare Aspen Italia all’indomani del viaggio di De Michelis nel South
Carolina. A luglio 1983, accompagnato da Enzo Viscusi, incontra Joseph E. Slater,
presidente dell’istituto in America, e discute dell’ipotesi di costituire una sede italiana di Aspen. Slater a sua volta organizza un successivo incontro con il presidente
del Board of Trustees di Aspen usa, Robert O. Anderson, il quale aderisce in pieno
all’ipotesi che gli viene formulata dichiarando: «We must do it». Nell’autunno 1983
Slater raggiunge Roma. Qui si svolgono una serie di incontri con alte personalità
istituzionali tra cui Francesco Cossiga, allora presidente del Senato, e Sergio Berlinguer. Gradatamente, il progetto Aspen Italia prende corpo.
Sergio Berlinguer è direttore generale dell’emigrazione al Ministero degli affari esteri, Strickland è il vicepresidente di «The Aspen Institute for Humanistic
Studies». Come recita lo statuto: «oggetto di Aspen Italia è la promozione di
studi, corsi, seminari, convegni, rappresentazioni artistiche e culturali e altre
manifestazioni su base nazionale e internazionale, nei diversi settori educativi,
culturali, scientifici, artistici e dell’attualità politica ed economica nazionale e
internazionale nel quadro degli obiettivi di «The Aspen Institute for Humanistic Studies» che riguardano i grandi temi con i quali si confrontano la società
contemporanea e il singolo individuo, non meno di tutte le attività che mirano
all’elevazione intellettuale e spirituale del singolo. […]. Essa inoltre potrà avvalersi della cooperazione di esponenti del mondo culturale, politico, scientifico,
universitario, imprenditoriale, sindacale, artistico, religioso italiani e stranieri.
L’associazione potrà altresì curare la diffusione in Italia e all’estero, nelle diverse
forme e la pubblicazione dei risultati delle ricerche da essa promosse o svolte in
collaborazione con altri organismi o persone»31.
L’organismo che sta per essere fondato viene articolato su tre livelli funzionali: presidenza, presidenza onoraria, co-presidenza, Comitato esecutivo, Consiglio
generale. Di quest’ultimo fanno parte tutti i membri effettivi dell’associazione. Si
prevede che debba essere convocato almeno una volta l’anno dal presidente onorario e dai due co-presidenti. Definisce le grandi linee dell’attività associativa ed
elegge tra i suoi membri il presidente onorario, i due co-presidenti, un tesoriere e
il segretario.
Il Comitato esecutivo è un organo più ristretto. Ne fanno parte nove componenti. Presidente onorario, i due co-presidenti, tesoriere e segretario sono membri
di diritto. L’elezione degli altri membri è di spettanza del Consiglio generale. DuASAII, Allegato A all’Atto costitutivo dell’associazione «Aspen Institute Italia», repertorio
n. 198, raccolta 112, pp. 5-6.
31 19
20
rante la stipula dell’atto si delibera di organizzare a Venezia entro luglio il Consiglio generale onde procedere alle nomine delle cariche sociali. La prima sede
viene istituita a Roma in via di Ripetta e si prevede una seconda sede a Venezia.
Qui, presso la Fondazione Cini, il 12 luglio 1984 ha luogo la prima seduta
del Consiglio generale.
Durante la riunione verranno eletti il primo presidente onorario della storia di
Aspen Italia insieme ai primi co-presidenti, tesoriere, segretario, direttore generale e ai rimanenti membri del Comitato esecutivo. La presidenza dell’assemblea
viene assunta da Sergio Berlinguer, il quale propone alla nomina di presidente
onorario Francesco Cossiga; Gianni De Michelis e Joseph Slater, presidente di
Aspen usa, alla carica di co-presidenti; Giorgio La Malfa alla carica di tesoriere
e Domenico Cacopardo a quella di segretario. Come rimanenti membri del Comitato esecutivo vengono proposti Sergio Berlinguer, Umberto Colombo, Cesare
Romiti, Stephen Strickland.
Il Consiglio generale approva all’unanimità le nomine proposte e Strickland
assume la carica di direttore generale su proposta di Joe Slater. Strickland di lì
a poco rassegnerà le dimissioni da direttore generale, carica che verrà affidata a
Richard Dufallo32.
Durante la medesima riunione si stabiliscono le linee programmatiche dell’associazione e vengono designati i primi coordinatori delle varie aree di studio e
analisi. A Cesare Romiti viene affidato l’incarico di coordinare gli incontri sull’America Latina, De Michelis seguirà l’organizzazione degli incontri sul Mediterraneo, Umberto Colombo quelli sull’impatto sociale delle tecnologie, Franco Reviglio quelli sui sistemi di governance della grande impresa.
Cfr. ASAII, Verbale del Comitato esecutivo del 14 novembre 1984, p. 2.
32 2.2
I primi programmi
De Michelis ricopre la carica di presidente dal 1984 al 1992. Tra gli eventi di
più vasta risonanza organizzati negli anni del suo mandato vanno segnalati: a
settembre 1988 l’incontro organizzato a Venezia; per il 1989 seguono quelli di
inizio giugno a Madrid e a Castelporziano dodici giorni più tardi; la conferenza a
Venezia a ottobre e poi a Marsiglia a dicembre; nel 1991 gli incontri del febbraio
e aprile a Roma; la conferenza di giugno-luglio a Malta; e ancora gli incontri a
Roma, nel mese di luglio, e a Venezia, a ottobre, e uno a dicembre a Milano a
chiusura dello stesso anno.
Tra il 19 e il 21 settembre 1988 a Venezia il tema è strategico: Italy today and
tomorrow: A country for 1993. Vi partecipano (oltre a De Michelis) Piero
Barucci, Silvio Berlusconi, Umberto Colombo, Richard Gardner, Gino Giugni,
Giorgio La Malfa, Joseph La Palombara, Antonio La Pergola, Antonio Maccanico,
Enrico Manca, Franco Modigliani, Mario Monti, Ennio Presutti, Cesare Romiti,
Giorgio Ruffolo, Renato Ruggiero.
Il 1993 vedrà la nascita del Mercato Unico Europeo. Come sottolinea Gianni
De Michelis, l’evento politico che sta per avvicinarsi assomiglia all’arrivo di un
ciclone che travolge tutto. Ma come reagiranno cose e persone che si trovano
nell’occhio del ciclone? Alcuni, continua De Michelis, non si accorgeranno di
nulla, altri saranno presi dal panico e infine ci saranno coloro i quali non avranno
paura di osservare e diventeranno testimoni e protagonisti.
L’incontro di Aspen risulta finalizzato a discutere le implicazioni più rilevanti
poste dalla scadenza del 1993. Ciò che il dibattito evidenzierà maggiormente sarà
il sostanziale gap che divide il livello di adeguatezza del sistema imprenditoriale
italiano alla sfida del 1993 dalle condizioni di arretratezza dell’apparato pubblico
e dal dissesto della contabilità di stato. Viene percepito fortemente il rischio che
il dissesto della finanza possa compromettere l’inserimento a pieno titolo nell’Europa del mercato unico. Le imprese, a partire dal 1978, hanno già dimostrato di
essere in grado di fornire una risposta positiva in termini di efficienza alla prova
rappresentata dall’adesione al Sistema Monetario Europeo.
Nel corso della riunione di Venezia, i dubbi che vengono sollevati riguardano soprattutto l’efficienza del settore pubblico, gravato da un debito di 124.000
miliardi di lire per il solo 1988. La preoccupazione che prende corpo è quella
della perdita di credibilità internazionale, derivante da una ipotesi di richiesta
21
di deroga che l’Italia potrebbe trovarsi in condizione di chiedere all’eliminazione
delle barriere valutarie all’interno della Comunità�33.
Le analisi avanzate e discusse nel corso del convegno suscitano vasta eco e
vengono riprese in misura rilevante dalla stampa. La conferenza di Aspen riesce
a occupare il 27 per cento dello spazio totale di giornali come il «Corriere della
Sera», «Italia Oggi», «Il Messaggero», «la Repubblica», «Il Sole 24 Ore», «La
Stampa», «l’Unità» e molte altre testate34.
22
Tra il 4 e il 6 giugno 1989 è la volta di Madrid. Aspen Italia, in collaborazione con
l’Institute for European-Latin American Relations (irela) e l’Agencia Española
de Cooperación Internacional (aeci), organizza la conferenza Latin America and
Europe in the nineties: Toward a new relationship.
Le relazioni culturali, economiche e politiche tra America Latina ed Europa
hanno seguito dal periodo della scoperta e della colonizzazione una traiettoria
diversificata. Tre principali periodi di durata diseguale si sono avvicendati nel
corso di queste dinamiche.
L’inizio del XIX secolo fino al 1920 è caratterizzato da una tipica relazione
semicoloniale in cui le società dell’America Latina importavano prodotti finiti
dall’Europa ed esportavano materie prime. Fra gli anni trenta e sessanta gli Stati
Uniti esercitano una indiscussa egemonia sulla regione. L’Europa viene relegata
ad un ruolo complementare e secondario. Fa eccezione il piano culturale, in cui il
predominio dell’Europa viene mantenuto durante il periodo della guerra e ripreso
a partire dagli anni settanta.
Una terza fase comincia a delinearsi proprio a partire dagli anni settanta,
quando la crescente complessità della regione supera la possibilità degli Stati
Uniti di operare come una specie di mediatore fra l’America Latina e il mondo.
I grandi paesi latino-americani come Brasile, Messico, Argentina e Venezuela
raggiungono una posizione internazionale di rilievo che li induce a manifestare
un’equivalente propensione a giocare un ruolo autonomo35.
Preceduto da una conferenza intitolata Latin America: Challenges and
perspectives, svoltasi a Torino a fine aprile 1987, e da un altro incontro – Latin
F. Gusmaroli, N. Gardner (a cura di), Italia oggi e domani: un paese per il 1993 (Venezia,
19-21 settembre 1988), Aspen Institute Italia, Roma, 1989.
34 ASAII, Consuledis, Uno studio sull’immagine di Aspen Institute Italia (1988-1990), Milano, 1990.
35 H. Jaguaribe, America Latina ed Europa: una complementarità da valorizzare, in «Politica
internazionale», n. 12, 1984, pp. 5-12.
33 America in the world economy: Structural challenger and new economic
perspectives – tenutosi a Caracas dal 2 al 4 maggio 1988, l’evento di Madrid
affronta il tema delle relazioni tra Europa e America Latina dal punto di vista del
ruolo giocato dai partiti politici e dalle organizzazioni non governative.
Aspen tocca una questione dalle implicazioni molteplici. Il momento storico è
quello in cui i rapporti tra America Latina ed Europa si trovano in uno stato di accentuata indeterminatezza. Sussiste un vastissimo potenziale di cooperazione reciproca ma con forti possibilità per le due parti di seguire cammini separati36. Esiste
una debolezza organica dei partiti latino-americani che hanno scarse radici e collegamenti con la società civile e gli interessi che sono chiamati a rappresentare. Solo
in Brasile si è operato nella direzione del rinnovamento. In Argentina, Uruguay,
Cile essi si ripresentano sulla scena con gli stessi programmi, le stesse divisioni e
contraddizioni interne, gli stessi leader. Anche il deficit della società civile resta
notevole. Le organizzazioni sociali dei più diversi tipi presentano rapporti, risorse e
forme di associazione di tipo embrionale. Prevalgono apatia e astensionismo. Ecco
perché i più avveduti analisti (come il politologo cileno Eduardo Palma) insistono
sul rafforzamento della società civile, sulla creazione di strutture di partecipazione
ai diversi livelli della realtà sociale come premessa indispensabile al consolidamento della democrazia e come antidoto alle ricorrenti e mai scongiurate tentazioni
autoritarie37.
All’incontro di Madrid parteciperanno tra gli altri, oltre a De Michelis, Giuliano Amato, ministro del tesoro, Imelda Cisneros, direttore generale a Caracas
del Ministero dello sviluppo, Felipe Gonzales, primo ministro spagnolo, Franco
Reviglio, presidente dell’eni e Renato Ruggiero, ministro del commercio estero38.
La discussione sottolinea l’importanza del dialogo fra l’Europa e i paesi latinoamericani. Si auspica che i paesi di quest’area prendano a modello i meccanismi
di integrazione adottati dalle economie europee e diano voce nell’arena internazionale ai loro interessi attraverso un unico rappresentante. Appare urgente,
inoltre, porre termine alle politiche protezioniste attuate dall’Europa nei riguardi
dell’America Latina. L’assemblea, infine, esprime accordo unanime sull’utilità di
allestire dei fora informali di discussione.
Ivi, pp. 10-11.
G. Pasquini, Obiettivo democrazia: La transizione in America Latina, in «Politica internazionale», n. 6, 1983, pp. 41-43.
38 N. Gardner (a cura di), Aspen Institute Italia. 1989 Conference reports, Aspen Institute
Italia, Roma, 1990.
36 37 23
24
Qualche giorno dopo, il 18 e 19 giugno 1989, a Castelporziano, l’attenzione si
sposta sulle relazioni tra Italia e Jugoslavia. Trentuno partecipanti (uomini politici, tra cui il vicepresidente del Consiglio jugoslavo, diplomatici, imprenditori)
discutono su Yugoslavia between reform in the East and integration in the
West. Le giornate ruotano intorno a cinque grandi questioni: la situazione jugoslava in una fase istituzionale di transizione; l’evoluzione della politica interna; lo
sviluppo economico a confronto con quello europeo; le prospettive di cooperazione tra Italia e Jugoslavia; gli ostacoli da rimuovere per la cooperazione futura. In
particolare, i partecipanti di entrambe le sponde adriatiche sottolineano la necessità di un profondo cambiamento nelle loro relazioni economiche. Prendono corpo
l’idea di trasformare il Mar Adriatico in un sistema di comunicazioni integrate più
che in un confine e l’idea di un dialogo permanente39.
Dal 29 al 31 ottobre 1989 ha luogo a Venezia la terza conferenza annuale di Aspen
Italia dal titolo Italy today and tomorrow: Integration in European communications. Vi prendono parte 54 invitati, rappresentanti del mondo dei media,
della politica e dell’economia di Europa e Stati Uniti. A palazzo Labia si danno
appuntamento, tra gli altri: Silvio Berlusconi, Richard Gardner, Arrigo Levi, Oscar
Mammì, Enrico Manca, Robert Maxwell, Ennio Presutti, Cesare Romiti.
Lo scopo delle discussioni è quello di esaminare le nuove tecnologie, le tendenze dei mercati, le innovazioni istituzionali e le nuove cornici normative. A coordinarle ci sono Giorgio La Malfa, segretario del Partito Repubblicano Italiano,
e Filippo Maria Pandolfi, vicepresidente della Commissione europea.
Di nuovo, Aspen Italia si rivela protagonista dell’arte di porre domande. Il
primo problema su cui si concentra l’attenzione dei partecipanti è costituito da
un’analisi della situazione nazionale del settore delle telecomunicazioni, del suo
grado di sviluppo rispetto agli altri paesi europei e delle prospettive di integrazione delle reti italiane in quelle europee. L’Italia appare in notevole ritardo. La
conferenza cerca di capire come colmarlo, aprendo il comparto a collaborazioni
internazionali e discutendo se sia utile mantenere il settore dentro il sistema
delle imprese pubbliche. Un secondo problema è rappresentato dalla dimensione
e dalla specializzazione delle imprese a fronte di un quadro europeo e mondiale
in cui si è assistito a una crescita dimensionale e all’attuazione di strategie di
diversificazione che hanno visto la trasformazione e nascita di grandi gruppi multimediali. Durante il dibattito a palazzo Labia è sottolineata la necessità di interrogarsi sulla possibilità per l’industria italiana di restare prevalentemente chiusa
Ivi, p. 7.
39 al suo interno, dentro una scala nazionale. Infine, il terzo problema discusso è
relativo alla legislazione in materia di comunicazioni e alla normativa antitrust40.
Questioni altrettanto nevralgiche verranno affrontate nell’ultimo incontro del 1989,
dal 10 al 12 dicembre a Marsiglia, nella conferenza Mediterranean worlds
crossroads: A medium term strategy for cooperation, che affronta il tema di
come promuovere e sostenere la stabilità dei paesi del Mediterraneo meridionale. Il
periodo, soprattutto tra il 1985 e il 1986, ha visto scatenarsi nel Medio Oriente e nel
Mediterraneo una turbolenza particolarmente intensa come risultato dell’accumularsi delle dislocazioni succedute all’invasione del Libano nel 1982. In questo quadro,
l’intesa giordano-palestinese dell’11 febbraio 1985 si colloca all’apice del ciclo. A
partire da quel momento lo scontro si acuisce al massimo con un impiego su vasta
scala del terrorismo. Al tempo stesso si avviano processi politici e diplomatici volti a
creare opzioni alternative e interrompere la lotta senza quartiere che investe il Medio
Oriente, il Mediterraneo, il Golfo e molto pesantemente l’Europa occidentale41.
Inoltre, in questi anni siamo allo scadere di due importanti anniversari: i 25
anni dalla creazione del Comitato di Aiuto per lo Sviluppo (dac) e i 40 dalla
fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Entrambi gli appuntamenti,
se da un lato forniscono lo spunto per avviare una riflessione critica sul ruolo e
le finalità della cooperazione internazionale, dall’altro non bastano ad arginare
la profonda crisi politica, economica e istituzionale che investe il sistema della cooperazione multilaterale. Mentre continua l’offensiva diplomatica di alcuni
paesi industrializzati a economia di mercato (piem), tesa a ottenere una maggiore
rappresentatività all’interno di organismi che essi stessi in larga misura finanziano, il consolidarsi della tendenza da parte delle stesse nazioni industrializzate ad
avviare una riduzione unilaterale dei contributi – qualora le cause di insoddisfazione non siano immediatamente rimovibili – pesa in modo negativo su tutto il
panorama dei rapporti tra Nord e Sud. E accelera quel processo di fuga dalla cooperazione multilaterale che è in atto già da qualche tempo e che, in prospettiva,
rischia di mettere in discussione la sopravvivenza dell’intero sistema.
Di conseguenza l’iniziativa dei paesi industrializzati, tesa a delegittimare e
ridimensionare i principi e gli organismi della cooperazione internazionale, ha
accentuato il clima di disorientamento presente tra i paesi in via di sviluppo (pvs).
Aspen Institute Italia, Italy today and tomorrow: Integration in European communications,
Conference Program.
41 Cfr. Istituto Affari Internazionali, L’Italia nella politica internazionale, anno quattordicesimo 1985-1986, Franco Angeli, Milano, 1988, p. 39.
40 25
Si determina un sostanziale impoverimento della loro capacità propositiva e si
indebolisce nei fatti la loro posizione negoziale.
Un’altra nota dolente è rappresentata dai contributi agli organismi multilaterali dove si conferma la tendenza a una contrazione dei finanziamenti. È proprio
questo calo a determinare una flessione degli aiuti pubblici allo sviluppo in rapporto al pil, passati dallo 0,36 per cento nel 1984 allo 0,35 per cento nel 198542.
Ma negli anni ottanta in Italia si assiste al crescere della carica di attivismo della
politica estera nel settore Mediterraneo/Medio Oriente e nel settore Africa Nera43.
26
All’incontro organizzato da Aspen Italia fanno da sfondo queste vicende. De Michelis vi partecipa nella veste di ministro degli esteri oltre che di presidente di Aspen.
Nel corso del suo intervento lancia una nuova proposta per il 1992. Nel 1988, l’1
per cento del pil della cee è stato pari a 54 miliardi di dollari. L’aiuto erogato dai
«Dodici» ai paesi in via di sviluppo è ammontato globalmente a 21 miliardi di dollari. De Michelis suggerisce che l’incremento dell’aiuto comunitario venga distribuito per un 25 per cento ai paesi dell’Europa centrale e orientale, per un altro 25
per cento ai paesi mediterranei, il restante 50 per cento agli altri paesi emergenti.
In coincidenza con l’avvio del grande mercato interno, la crescita prevista della
cee stimata attorno al 5-7 per cento permetterebbe il trasferimento di una cospicua
massa di denaro attraverso assicurazioni ai crediti sulle esportazioni, joint ventures.
In base alla proposta di De Michelis, il trasferimento sarebbe dovuto avvenire sui
bilanci pubblici, rispettando principi di adeguatezza, tempestività, globalità.
Si trattava di un’innovazione di indubbio rilievo. In materia di relazioni euromediterranee, la politica comunitaria utilizzava prevalentemente strumenti istituzionali rappresentati da alcuni articoli del Trattato di Roma (nella fattispecie,
gli articoli dedicati ai rapporti con i paesi e territori d’oltremare e gli articoli 113
e 238). Solo in una fase successiva, con l’inserimento nel Trattato di Maastricht
del titolo XVII dedicato alla cooperazione allo sviluppo, si affermerà l’esigenza di
conferire al sistema delle relazioni e di cooperazione con i paesi terzi una dimensione ampia, organica e plurisettoriale.
La conferenza del 1989 si conclude con la stesura di una dichiarazione finale
che fissa gli obiettivi chiave da raggiungere: il lancio di una campagna informativa multimediale sulla storia dei paesi di cultura mediterranea per rafforzare
Ivi, pp. 293-295.
Cfr. C. M. Santoro, Dove va la politica estera italiana? Cinque ipotesi su una media potenza,
in «Relazioni internazionali», n. 1, 1988, pp. 92-101; C. M. Santoro, La politica estera di una
media potenza: l’Italia dall’Unità ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1991.
42 43 la conoscenza reciproca; collegare le attività svolte dai vari centri di cultura e
università presenti in area mediterranea, favorire lo scambio di informazioni tra
istituzioni sui programmi in corso; incoraggiare l’istituzione nelle università europee di dipartimenti di islamistica; fare in modo che le politiche per l’immigrazione non siano stabilite unilateralmente dai paesi della Comunità Europea, ma
tengano conto delle visioni e degli interessi dei paesi mediterranei44.
In definitiva, il Mediterraneo viene letto come area di dialogo e laboratorio di
incontro di culture. Da questo punto di vista l’incontro aspeniano non attribuisce
una connotazione prettamente economica alla tipologia dei rapporti tra mondo
industrializzato e mondo in via di sviluppo. Viceversa, anticipa molti contenuti
della Dichiarazione di Barcellona del 1995.
La partnership euromediterranea alla quale la Dichiarazione intenderà dare
vita mira a realizzare una cooperazione economica e finanziaria strettamente congiunta a uno sviluppo della dimensione sociale, culturale e umana. Un ruolo fondamentale viene assegnato alle società civili dei paesi dell’area mediterranea,
sottolineando che possono apportare un contributo essenziale al processo di sviluppo della partnership giacché rappresentano un fattore fondamentale per una
maggiore comprensione e vicinanza tra i popoli. Ciò significa che la cooperazione
intergovernativa può realizzarsi compiutamente solo sulla base della creazione di
un sistema di reti di relazione tra le società. Solo in questo modo si può creare
un’area di pace e stabilità, prosperità condivisa e mutua comprensione45.
1990
Sul tema delle relazioni con il mondo latino-americano, l’istituto italiano tornerà
a riflettere con cadenza regolare. Nel 1990 a Città del Messico, tra il 27 e il 30
maggio, si discute su Latin America in the world economy: A medium term
strategy. Tra le presenze di maggiore spicco quelle dal Messico: dell’ex presidente Miguel de la Madrid Hurtado, del presidente allora in carica Carlos Salinas
de Gortari e del ministro degli esteri Fernando Solana Morales.
Scopo dell’evento è quello di valutare l’effetto dei cambiamenti in corso in
Europa sul quadro politico latino-americano. I partecipanti si interrogano sulle
N. Gardner (a cura di), Aspen Institute Italia, 1989 Conference report, cit.
Cfr. G. Gozzi, Le carte dei diritti nel mondo islamico, in V. Colombo, G. Gozzi (a cura di),
Tradizioni culturali, sistemi giuridici e diritti umani nell’area del Mediterraneo, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 238-239.
44 45 27
28
soluzioni da adottare per evitare che quest’area diventi marginale. Come sottolinea Salinas de Gortari nel suo intervento, la coperazione tra le regioni dell’area
latino-americana, la modernizzazione, la democratizzazione e la riduzione del debito pubblico sono obiettivi prioritari.
Gianni De Michelis rilancia la sua proposta di cooperazione allo sviluppo
argomentando che il contributo dell’1 per cento del pil comunitario debba essere
suddiviso tra Europa dell’Est, Africa e America Latina. Il consenso è pressoché
unanime sul dato che i processi di integrazione in atto nel continente europeo
hanno il potenziale per imporre una nuova dinamica a tutte le economie del mondo. Stessa convergenza di orientamenti è raggiunta sull’esigenza di abbattere le
barriere protezionistiche e di stimolare i processi di liberalizzazione.
L’apertura al futuro caratterizza anche la conferenza tenutasi dal 25 al 28 agosto 1990. Al Gore, Arthur Dunkel, Rainer Masera, Robert McNamara, Renato
Ruggiero, Ennio Presutti, Rinaldo Piaggio, Paolo Savona (per ricordare alcuni
dei presenti) si riuniscono a Venezia per discutere su Economic policies for a
new era: East-West and West-West. L’incontro è aperto ufficialmente da Ernst
Obminsky in rappresentanza del ministro degli affari esteri sovietico e dal parlamentare tedesco Otto Lambsdorff.
Durante la discussione, molti dubbi sono sollevati sull’esito della transizione in
atto nei paesi dell’Est e in tutta l’Unione Sovietica se non si provvede a fornire assistenza tecnico-economica. A questo proposito, si ravvisa la necessità di stabilire a
Mosca delle succursali della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale
(fmi) e uffici della Comunità Economica Europea. L’ipotesi di un ritorno al vecchio
modello di stato sovietico sembra impensabile. Tuttavia i passi compiuti nella direzione dell’introduzione di formule liberali risultano molto ostacolati. Mentre ampi
settori della società civile sovietica si dichiarano favorevoli al passaggio ad una economia di mercato, sussiste una fondamentale mancanza di consapevolezza circa cosa
il mercato realmente implichi e significhi. A questo proposito i delegati sovietici
sottolineano che la responsabilità degli esiti della transizione vada ascritta all’azione della classe dirigente locale e non a quella dei gruppi dirigenti occidentali. A
quest’ultima è altresì richiesto uno sforzo per favorire l’eliminazione delle barriere
e l’integrazione dell’economia sovietica dentro il sistema mondiale delle economie
capitalistiche.
Nel 1990 il ciclo annuale degli incontri si conclude con una conferenza dedicata
al tema della cooperazione nell’area adriatico-danubiana: Cooperation in the
Adriatic-Danube region. I lavori si tengono a Vienna tra il 14 e il 16 ottobre
1990. Tra i convenuti spicca la presenza di Rudolf Filkus, ministro delle strategie
economiche della Repubblica Slovacca, di Laszlo Kapolyi, ex ministro dell’industria in Ungheria, di Ferdinand Lacina, ministro delle finanze austriaco, e di
Franz Vranitsky, cancelliere federale austriaco46.
1991
Via via l’arco dei temi è destinato ad ampliarsi. L’8 febbraio 1991 si inaugura il
ciclo degli incontri in sede con la tavola rotonda Venezuela: una strategia di
sviluppo sul futuro delle relazioni economiche tra Italia e Venezuela. Petrolio,
industria manifatturiera, piccole e medie imprese, banche, risorse umane sono i
punti messi in agenda. Per la seconda volta, Imelda Cisneros (nominata nel frattempo ministro dello sviluppo del governo venezuelano) partecipa a un incontro
Aspen. Insieme a lei discutono del tema Gabriele Cagliari, Franco Nobili e altre
figure della scena politica ed economica italiana.
Durante l’incontro emerge un dato fondamentale: le relazioni con il Venezuela
vengono considerate prioritarie rispetto a quelle con gli altri paesi dell’America
Latina. Nuovi accordi intercorsi tra Italia e Venezuela prevedono un miliardo di
dollari in prestiti, crediti commerciali e agevolati erogati dalle banche. L’obiettivo
è quello di accrescere gli investimenti italiani in Venezuela rispetto al 2,4 per
cento del totale degli investimenti italiani all’estero raggiunto nel 1988. I rappresentanti del governo italiano presenti (come Raniero Vanni d’Archirafi, direttore
generale degli affari economici della Farnesina) riconoscono la necessità di impegnarsi a favore di un coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti
in progetti interregionali latino-americani, pur constatando la scarsa attenzione
della Comunità Europea verso l’America Latina. Un segnale di grande rilievo è
l’iniziativa presa da George Bush di fondare l’«Enterprise for the Americas». A
questa istituzione, che dimostra il rinnovato interesse degli Stati Uniti per l’America Latina, verrà attribuita la capacità di incidere anche sulle politiche europee.
A distanza di circa due mesi, il 12 aprile 1991, si tiene una riunione – riservata
ai componenti del Comitato esecutivo – in cui Jean-Paul Fitoussi, allora presidente del comitato scientifico della Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo (bers), presenta il rapporto sull’economia sovietica commissionato
Sulle attività svolte nel 1990 cfr. N. Gardner (a cura di), 1990 Conference report, Aspen
Institute Italia, Roma, 1991.
46 29
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dal Vertice di Houston (nel luglio del 1990) alle quattro più importanti istituzioni
finanziarie internazionali (bers, Banca Mondiale, fmi e ocse).
L’economista francese mette in evidenza come nessun processo di riforma possa svolgersi in modo ordinato senza una ridefinizione degli equilibri istituzionali.
Da un punto di vista strettamente economico, il maggior ostacolo alla transizione
al mercato è rappresentato dal fatto che i sovietici stanno diventando capitalisti
prima che le regole del gioco siano definite. Nel 1990 esistevano in Unione Sovietica 260.000 aziende private. Il sistema bancario è entrato in un processo di
riforma. Ci sono due livelli: la banca centrale e le banche governate in base agli
standard occidentali. Dal 1990 al 1991, da 400 banche di credito ordinarie si è
passati a 1.500. Però resta aperto il problema del disavanzo di 11.000 miliardi
di dollari che tuttavia, sostiene Fitoussi, non è destinato a costituire per l’Unione
Sovietica un problema insormontabile.
La discussione che scaturisce dalla relazione di Fitoussi mette in evidenza
molte incertezze sul futuro dell’urss. Il drastico calo del pil, il forte aumento
dell’inflazione, l’inizio di paralisi dovute a scioperi, l’arretratezza tecnologica, la
carenza di istituzioni, di strumenti politici, di cultura del profitto sono ritenuti
grossi fattori di freno al rilancio economico-politico.
Eppure – indipendentemente da una analisi ottimista o pessimista della realtà
sovietica – i partecipanti si rivelano concordi nel sottolineare il ruolo che l’Occidente può svolgere nel favorire la transizione al mercato. In particolare, nel settore della ricerca scientifica e tecnologica, attraverso l’aiuto economico selettivo,
centrato sui problemi di maggior peso, dovrebbe concretizzarsi la cooperazione
con i paesi occidentali.
Continua poi il filone degli incontri dedicati a Mediterraneo crocevia del
mondo con l’appuntamento di Malta tra il 30 giugno e il 2 luglio 1991, all’indomani della Guerra del Golfo.
Il quadro politico non sembra incoraggiare la cooperazione e l’integrazione nel
Mediterraneo. A esserne consapevoli sono gli stessi arabi che nei settant’anni successivi alla fine della prima guerra mondiale e alla disintegrazione dell’impero ottomano hanno visto naufragare tutti i progetti di riunire in un’unica struttura statuale
«la nazione araba dal Golfo all’Oceano». L’avvio di un processo di integrazione
economica costituisce uno degli obiettivi della Lega Araba fin dalla sua fondazione
nel 1945. Al 7 settembre 1953 risale un trattato finalizzato a facilitare i movimenti
commerciali sottoscritto da Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Kuwait, Libano, Siria e Yemen del Nord. Il 3 giugno 1957 viene stipulato il Trattato per l’Unità
Economica Araba che istituisce il Consiglio dell’Unità Economica Araba (cuea), le
cui iniziative concrete non si sono viste prima dell’agosto 1964 con la fondazione
del Mercato Comune Arabo (mca); il campo d’azione di quest’ultimo risultava però
circoscritto a fine anni sessanta ai soli Egitto, Giordania, Iraq e Siria. Secondo diversi osservatori, gli errori di fondo sono quelli di concentrare gli sforzi sui tentativi
di unione totale invece che su progetti di graduale integrazione: a partire da nuclei
regionali in aree caratterizzate da migliori presupposti di complementarità fra le diverse strutture produttive (Valle del Nilo, Mezzaluna Fertile, Maghreb). Sull’incertezza della situazione gravano inoltre l’emergere di tensioni e reciproci sentimenti
di esclusione nelle società delle due sponde, nonché la crescente diffusione degli
squilibri sociali esistenti nei paesi della sponda meridionale47.
L’incontro di Malta si propone di discutere le misure atte a rilanciare la cooperazione regionale e sub-regionale nell’area. La soluzione dei problemi richiede
una visione transnazionale e interculturale. Secondo la maggioranza dei presenti
è necessario creare al più presto un nuovo sistema per la sicurezza dell’area e
l’intera comunità internazionale deve impegnarsi ad appoggiare il consolidamento della democrazia in questi paesi. L’Europa è un attore in grado di promuovere
la stabilità. A questo proposito emerge l’ipotesi di avviare nel Mediterraneo un
processo di sicurezza e cooperazione mutuato dal modello della csce. Molti consensi continua a raccogliere la proposta, già formulata da De Michelis, di destinare, più che ad armamenti, l’1 per cento del pil comunitario alla cooperazione.
Viene inoltre suggerito di creare una nuova istituzione finanziaria multilaterale,
tipo la bers, che potrebbe costituire uno strumento utile per supplire ad un flusso
di investimenti esteri ancora troppo debole.
Durante la discussione in materia di risorse petrolifere, emerge l’ipotesi di
creare un fondo regionale per la cooperazione economica destinato a stabilizzare
il prezzo del petrolio con l’azione coordinata dei paesi produttori e consumatori.
I rischi di un andamento irregolare del mercato petrolifero sono sempre molto
elevati. Occorre trasformare questa risorsa da fattore che aggrava le tensioni a
fattore di cooperazione e stabilità. La dotazione iniziale del fondo potrebbe affluire annualmente dalle risorse che la Comunità Europea destina alla cooperazione
con il Sud. Un importo corrispondente potrebbe provenire dai paesi produttori.
Il fondo dovrebbe essere amministrato da una nuova istituzione – una banca
di sviluppo dell’area – che avrebbe il compito di erogare le risorse sulla base di
criteri omogenei per i diversi paesi, in relazione ai processi di riforme strutturali
verso il mercato.
Su questi temi cfr. P. G. Donini, Il Grande Maghreb guarda all’integrazione europea, in
«Politica internazionale», n. 1-2, 1990, pp. 71-81.
47 31
32
Il 9 luglio 1991 è nuovamente ripreso il tema della transizione nei paesi dell’area
sovietica. L’occasione è fornita da un incontro dove si presenta in anteprima il
rapporto ocse su Le economie europee in transizione. Nel presentare lo studio, Renato Filona, direttore esecutivo del fmi, e Jean-Pierre Tuberi, vicedirettore
del Centro per la cooperazione con le economie europee in transizione dell’ocse,
si soffermano sugli aspetti macro e microeconomici della transizione dei paesi
dell’Europa centro-orientale verso l’economia di mercato.
Da quanto risulta dalle loro analisi, malgrado le aspettative ottimistiche, l’andamento della ristrutturazione e privatizzazione delle aziende non sembra registrare progressi significativi. Il processo di transizione appare doloroso e lento più
del previsto. L’ostacolo maggiore è rappresentato da un’ondata di disoccupazione
crescente e dalla conseguente domanda di meccanismi di salvaguardia sociale. Un’altra sfida ardua proviene dall’andamento dell’inflazione – da tenere sotto
controllo – che implica mancati risparmi e scarso accumulo di capitali.
Per quel che riguarda gli aspetti microeconomici, il rapporto ritiene vitale la
formazione di un tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese. La privatizzazione stenta a decollare. Se in Polonia sono stati privatizzati 28.000 esercizi
commerciali e un fenomeno analogo si è avuto in Cecoslovacchia, il vero problema è la creazione di un management all’altezza di gestire le nuove imprese. I
governi dell’Europa centro-orientale mirano – in un arco di tempo che può variare
da tre a cinque anni – a ridurre dall’attuale 90 al 50 per cento il peso dello stato
nell’economia, per arrivare, entro una decina d’anni, al 30 per cento che costituisce la media dei paesi ocse. Ma la fisionomia monopolistica dell’impresa è un
dato che tende ad assumere un carattere strutturale.
La sera stessa del 9 luglio, alle 19.00, durante il Comitato esecutivo riunitosi a
Roma, Ennio Presutti, presidente di Assolombarda, rassegna le dimissioni dalla
carica di tesoriere. Il presidente propone la nomina di Lucio Stanca, amministratore delegato di ibm Semea. Nella stessa seduta viene discussa la proposta di
mettere a punto entro fine anno un progetto di «Seminario europeo». L’obiettivo
è di offrire ai leader di una nuova Europa unita e allargata programmi conformi
allo spirito maieutico di Aspen. L’idea è considerata di estrema rilevanza specialmente nell’ottica dell’Europa del 1993. Il carattere di Aspen diventa sempre
più vettoriale. È da questa riunione che scaturisce il tema della «leadership futuribile»: si tratta di stabilire come i leader debbano ripensare i propri punti di
riferimento culturali48.
Cfr. ASAII, Verbale della riunione del Comitato esecutivo, 9 luglio 1991, pp. 49-50.
48 La tavola rotonda del 19 ottobre 1991 è il trampolino di lancio di questo programma. A Venezia si discute di Leadership futuribile, tema affrontato sotto
vari profili da figure come Giuliano Amato, Sergio Berlinguer, Gabriele Cagliari,
Giuseppe Cattaneo, Gianni De Michelis, Richard Gardner, Ennio Presutti, Cesare Romiti, Lucio Stanca.
Da un punto di vista economico, per la maggior parte dei presenti le sfide del
futuro obbligheranno i leader a visioni interdisciplinari, a precedere il progresso e il
cambiamento puntando su tecnologia e innovazione. Spetterà poi al leader del futuro
saper gestire lo sviluppo sostenibile attraverso un ripensamento di tutti i fattori: produttivi, scientifici, tecnologici, commerciali e finanziari. Anche se esistono modelli
organizzativi che ostacolano il leader nell’esercizio delle sue potenzialità innovative.
Quindi, secondo gli scenari emersi nell’occasione, la leadership del futuro dipenderà sia dalle qualità personali, sia dai modelli all’interno dei quali viene esercitata.
L’incontro si conclude con l’intento di mettere a punto un progetto di seminari specificatamente rivolti a leader, facendosi carico di identificare personalità
emergenti non solo all’interno della Comunità Europea ma anche nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica.
Il 1991 è anche l’anno in cui a Maastricht, il 10 e l’11 dicembre, i capi di stato e di governo riuniti nella sessione del Consiglio europeo raggiungono, a notte
fonda, un accordo sul nuovo Trattato sull’Unione Economica e Monetaria (uem)49.
Il 17 dicembre l’istituto, consapevole dell’importanza di una riflessione sul futuro
della nuova Europa, organizza a Milano, in collaborazione con Assolombarda, un
dibattito sul Dopo Maastricht. Tutti i convenuti concordano che a Maastricht è
scattato il conto alla rovescia verso il completamento dell’integrazione europea.
Il Trattato fissa per il 1997, al massimo per il 1999, la nascita della moneta
unica e della Banca Centrale Europea, ma Maastricht è anche il simbolo di una
«rivoluzione istituzionale» che consentirà un passaggio graduale da metodi intergovernativi a metodo comunitari e, in prospettiva, ad assetti di tipo federale. Di
fronte alle riforme avviate a livello europeo, i partecipanti ipotizzano che anche
l’Italia avrebbe bisogno di un quadro istituzionale rinnovato, che tenga conto dei
nuovi poteri che assumeranno le istituzioni sopranazionali e del possibile emergere delle regioni d’Europa come nuova dimensione comunitaria. L’Italia dovrebbe inoltre operare affinché il recepimento delle direttive sia più veloce.
In materia di politica estera, molti concordano sul fatto che di fronte alla dissoluzione del blocco sovietico e per poter passare da un vecchio a un nuovo ordine
Cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, cit.,
p. 378.
49 33
34
internazionale, l’Europa è chiamata ad assumersi responsabilità maggiori rispetto
al passato. Non si tratta cioè di difendersi da un’aggressione esterna ma dal disordine interno, dove l’instabilità del quadro politico si intreccia con i conflitti etnici
e i nazionalismi. C’è molto dissenso, invece, sulla capacità europea di incidere a
fondo su grandi vicende internazionali. I più critici argomentano che le procedure
esistenti non permettono di prendere decisioni sui problemi urgenti di politica estera. A suffragio di questa tesi, si rifanno alla scarsa compattezza manifestata in occasione della guerra del Golfo e alla difficoltà nel raggiungere un compromesso sul
riconoscimento della Croazia. Mentre per i protagonisti del Vertice di Maastricht la
Politica Estera e di Sicurezza Comune (pesc) è già realtà, come dimostrano gli accordi tra i Dodici e la Cecoslovacchia, la Polonia e l’Ungheria. Attraverso un’intesa
con tre paesi centro-orientali che entrano nel processo di integrazione.
Sul fronte della politica monetaria sono emersi ulteriori spunti di riflessione.
Molti hanno sostenuto che i benefici economici saranno maggiori per i paesi che
avranno più difficoltà ad accettare il pieno significato degli accordi di Maastricht.
La prospettiva della moneta unica non costituisce soltanto un forte incentivo per
questi paesi, ma potrà avere conseguenze positive sulla politica economica europea nel suo complesso.
Nell’analisi del caso italiano, c’è chi invita a non drammatizzare il problema
della convergenza economica e finanziaria e a confidare nella capacità del sistema italiano di raggiungere i parametri richiesti. Secondo gli economisti, invece,
delle cinque condizioni necessarie per entrare in Europa l’Italia rispetta soltanto la stabilità del tasso di cambio. Tasso di inflazione, tasso d’interesse, deficit
pubblico e rapporto tra debito e reddito nazionale restano lontani dai parametri
europei. A questo proposito viene formulato il suggerimento di introdurre nella
Costituzione italiana una norma transitoria che stabilisca, nel giro di tre anni,
l’equilibrio del bilancio pubblico.
1992
Nel 1992 alcuni temi in parte già saggiati e che saranno ricorrenti nella vita di
Aspen Italia sino a oggi conquistano definitivamente l’attenzione: i rapporti con
il centro-Europa e l’area mediterranea, la questione ambientale e lo sviluppo
sostenibile.
L’anno si apre con una conferenza che si tiene a Bologna: tre giorni di dibattito, dal 27 al 29 febbraio, sono dedicati all’analisi delle relazioni tra Italia ed
Europa centro-orientale. Per dare una risposta alla domanda Italia ed Europa
centro-orientale: un rapporto preferenziale? personalità italiane (Umberto
Colombo, Gianni De Michelis, Giorgio La Malfa, Arrigo Levi, Romano Prodi, Cesare Romiti) e straniere (Zbigniev Brzezinski, Zdenek Drabek, Géza Jeszenszky,
Stephen Low) sono invitate a riflettere sulla natura di questo rapporto.
L’Italia ha svolto nei paesi dell’Europa centro-orientale un ruolo particolarmente attivo. Responsabilità e solidarietà emergono come i tratti essenziali dell’azione italiana fin dalla caduta del Muro di Berlino. L’attenzione dei partecipanti
è rivolta all’importanza del lancio dell’Iniziativa Quadrangolare (poi diventata
Iniziativa Centro-europea) e ai programmi di assistenza lanciati dalla Comunità
Europea. L’Iniziativa Centro-europea – che nel 1995 arriverà ad associare 10
paesi (Italia, Austria, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia,
Croazia, Bosnia e Macedonia) – si innesta sul ceppo della cooperazione «quadrangolare» Alpe-Adria (tra Italia, Jugoslavia, Austria e Ungheria) esistente già
dal 1978, rilanciata nel 1989 a Budapest da Gianni De Michelis. Quest’ultimo,
nella veste di ministro degli esteri, intendeva farne un foro di consultazione politica e di coordinamento di progetti infrastrutturali e di sviluppo regionale. Con
l’entrata della Cecoslovacchia nell’aprile del 1990, il raggruppamento assunse la
denominazione di «pentagonale». Nel 1991 diviene «esagonale» con l’ingresso
della Polonia. Nel dicembre 1991, con la dissoluzione della Jugoslavia, si smette
di fare riferimento ai poligoni e si cambia denominazione usando l’espressione
Iniziativa centro-orientale.
Durante l’incontro di Bologna la comunità aspeniana sottolinea il ruolo di
interlocutore privilegiato che l’Italia può candidarsi a ricoprire, visto anche che è
definita patria altera, come altra madrepatria dell’Europa centro-orientale. Con la
sua costante ricerca di modernità, la sua politica culturale, la creatività in campo
artistico ed estetico, il paese può diventare un forte polo di attrazione. Il convegno
mette in evidenza come la cultura italiana goda nell’Europa centro-orientale di
una popolarità molto diffusa. I rapporti storicamente profondi intercorsi con la
regione danubiana hanno poi sempre avuto un particolare interesse a rafforzare e
intensificare il dialogo e la cooperazione al di là di quella cortina di ferro che ha
tenuto separate per troppo tempo Croazia, Jugoslavia, Russia, Slovenia, Ungheria
e le altre repubbliche dell’Europa occidentale.
Sulla base di queste prime considerazioni si è passati a delineare una vera e
propria analisi di caso. L’agenda europea prevede di creare una realtà politica,
economica e militare che racchiude la civiltà europea nel suo complesso. Ma
l’integrazione non deve essere concepita come espansione da Ovest verso Est.
Essa deve avvenire anche all’interno dell’Europa centro-orientale. I paesi centroeuropei dovrebbero eliminare i problemi strutturali che ostacolano le aziende oc-
35
36
cidentali. In paesi come la Polonia gli imprenditori si confrontano con mutamenti
legislativi concomitanti ad ogni cambio di governo. Se questa scarsa efficienza
istituzionale non dovesse essere rimossa, l’interesse degli imprenditori occidentali sarebbe destinato a indebolirsi.
In materia di ricette di politica economica, l’idea che prende corpo nel corso
della discussione è quella di favorire modelli di sviluppo che contengano una miscela equilibrata di capitalismo e socialdemocrazia. Senza un equilibrio di queste
componenti, l’overdose di ricette neoliberali rischia di non portare risultati di
segno positivo. La via da percorrere è quella dello sviluppo della democrazia in
tutti i settori della vita associata.
L’Italia è in grado di disporre di strumenti economici di intervento. Si tratta
di leggi che stanziano 1.500 miliardi di lire in tre anni a beneficio di iniziative
verso i paesi centro-orientali. Favoriscono le imprese miste e prevedono l’azione
della Sezione Speciale per l’Assicurazione del Credito all’Esportazione. Si tratta
di un impegno importante, secondo al mondo, dopo la Germania e prima degli
Stati Uniti, della Francia, della Spagna e del Giappone. Ma, si argomenta, è un
impegno a cui dovrebbe sommarsi la mobilitazione degli operatori privati.
Nel luglio del 1992 la discussione verte sulla politica ed economia dell’ambiente.
A Genova fra il 3 e il 5 luglio ha luogo la conferenza internazionale Dopo Rio:
ambiente e sviluppo sostenibile nel Mediterraneo. Vi partecipano politici,
imprenditori, accademici, giornalisti, esponenti del mondo della finanza provenienti da tredici paesi.
Questo appuntamento arriva a due anni da un incontro organizzato nel maggio
1990 dalla Banca Mondiale e da Aspen usa a Washington su «Ecological economics of sustainability». In una settimana di brainstorming, 25 scienziati si trovano insieme a discutere i concetti fondamentali dello sviluppo sostenibile e a porre
le basi di una nuova disciplina, l’eco-economia. La particolarità e l’importanza
del convegno non consisteva soltanto nella profonda contaminazione di linguaggi
e discipline diverse, ma nella presenza di ministri e responsabili politici di paesi
del Terzo Mondo.
La discussione di Genova, tenuta a bordo della motonave «Daphne», si dipana a partire da una critica ad alcuni passaggi chiave della conferenza di Rio. In
particolare viene contestato il profondo divario tra obiettivi e strumenti, per la
mancata firma di impegni finanziari. Per il resto viene riconosciuto che il Summit
della Terra apre visioni e responsabilità nuove, pone la questione ambientale al
centro della politica internazionale e costituisce un punto di partenza verso un
nuovo ordine mondiale. Lo comprovano alcuni dati. Vi hanno preso parte 178 pa-
esi concordi nel ridisegnare i rapporti di cooperazione funzionali al confronto con
le questioni in gioco. Sono stati presi una serie di accordi sul cambiamento del
clima e sulla biodiversità. L’Agenda 21 può risultare di importanza particolare
data la fragilità dell’ecosistema, l’alta densità abitativa, le previsioni di crescita
demografica e le notevoli disparità nei livelli di reddito dei paesi dell’area mediterranea.
L’assemblea a bordo della «Daphne» mette in evidenza la necessità di mettere
mano al completamento della tool box di Rio. Un input significativo in tal senso
viene dalla proposta di istituire una task force in grado di lavorare sul progetto
di un’Agenda 21 a scala regionale, definendo come prioritarie specifiche aree di
intervento: gestione delle acque, conservazione delle risorse, gestione integrata delle aree costiere, armonizzazione delle normative ambientali e legislazione
sulle tecnologie pulite. Inoltre – constatato che lo stanziamento complessivo per
programmi legati alla salvaguardia ambientale dei paesi della sponda sud del
Mediterraneo non supera i 50 milioni di dollari annui, per lo più concentrati in
tre grandi progetti – si conviene sulla necessità di risorse addizionali. Risorse che
dovrebbero essere coordinate da una istituzione finanziaria regionale. Nello stesso tempo viene manifestato il proposito di sostenere ed incoraggiare quei paesi
che a Rio hanno annunciato di destinare entro il 2000 lo 0,7 per cento del pil.
Molto consenso attira la proposta di istituire una Mediterranean Environmental Facility creata in sintonia con la Global Environmental Facility. Questo nuovo
organismo dovrebbe cooperare a sostenere investimenti e iniziative industriali
compatibili con l’ambiente e promuovere iniziative comuni su larga scala, come
laboratori di ricerca e progetti di disinquinamento che i paesi singoli non riescono ad avviare. La fonte di finanziamento potrebbe essere costituita da forme di
tassazione del turismo. A questo proposito viene fatto riferimento ad uno studio in
base al quale il 70 per cento dei turisti in visita nel Mediterraneo sarebbe disposto a pagare una tassa di 5 dollari per la creazione di un fondo per la protezione
del mare e delle coste.
In questi anni si assiste a fenomeni che generano molti dubbi sul cammino dei
Dodici verso l’Europa. I sintomi della depressione economica appaiono incombenti. Il 1992 è l’anno del «no» danese al processo di integrazione comunitaria. Il
risultato del referendum del 2 giugno non è una buona notizia per molti governi e
paesi europei. I cittadini danesi hanno dato l’avvio alla crisi del dopo-Maastricht.
L’insofferenza verso il «leviatano bruxellese» sembra destinata a crescere. In
Francia il colpo alle certezze è duro e nessuno lo nasconde. Jacques Delors si
lascia andare a diverse dichiarazioni contro l’ingratitudine danese. François Mit-
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38
terrand decide immediatamente di convocare un referendum per la ratifica del
Trattato di Maastricht (peraltro non necessario poiché l’iter costituzionale francese era già stato compiuto e l’approvazione parlamentare assicurata).
Anche per John Major il risultato danese non è una buona notizia. Il governo
conservatore si era proposto di attendere le ratifiche di tutti gli altri paesi membri
prima di affrontare la Camera dei Comuni, dove gli euroscettici del Partito Conservatore sarebbero stati disarmati dal fatto compiuto. Adesso invece iniziava un
grande dibattito sulle ragioni del voto danese. La stampa britannica diagnosticava
i difetti della Comunità e le incognite del Trattato di Maastricht. Il significato del
«no» veniva assunto a simbolo del ripudio da parte dell’opinione europea di una
costruzione cresciuta nell’assenza di una vera adesione democratica. Soprattutto
riprendeva la polemica contro le velleità federali della struttura comunitaria. In
particolare veniva presa di mira la Commissione, con il suo apparato burocratico e
la sua tendenza a legiferare e amministrare anche laddove erano evidenti le ragioni
che militavano a favore di una vocazione nazionale. A essere rimesse in discussione
erano le basi dell’integrazione sul modello «funzionalistico» e si riapriva la discussione sul «principio di sussidiarietà» che il Trattato di Maastricht aveva codificato. La definizione dell’articolo 3b appariva bisognosa di specificazioni in modo da
articolare meglio le rispettive competenze della Comunità e degli stati nazionali.
Un’altra questione riaccesa dal voto danese concerneva la trasparenza, vale a dire la
chiarezza e l’accessibilità per il cittadino delle decisioni prese a livello comunitario.
Lo choc del 2 giugno si riverbera negativamente sul mondo della finanza internazionale. Si diffonde un crollo di fiducia da parte degli operatori economici sulla
capacità dei Dodici di dar vita all’uem. La crisi si aggrava per effetto della caduta
del dollaro, che a luglio 1992 scende al livello storico più basso nei confronti
del marco. A Bath, il 5 e 6 settembre, alla riunione informale dei ministri dell’economia e delle finanze, i britannici attaccano i tedeschi accusandoli di essere
colpevoli di mantenere a livelli troppo alti i tassi di interesse del marco, al punto
tale da minacciare la sterlina. Da parte tedesca si obietta che la sterlina è sopravvalutata e che non vi è altro rimedio all’infuori della sua svalutazione. Il governo
britannico, nel Sistema Monetario Europeo (sme) dal 1990, non ha intenzione di
svalutare. Però, nel fine settimana tra il 12 e il 13 settembre, la lira svaluta del
7 per cento, ma la svalutazione si rivela insufficiente. Il 13 settembre la sterlina
esce dallo sme, la lira la segue mentre la peseta spagnola svaluta del 5 per cento50.
Cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, cit.,
pp. 407-419.
50 Il 30 settembre, a Roma, l’incontro-dibattito Unificazione europea e prospettive per l’Italia prende l’avvio dalla constatazione della difficoltà del cammino
europeo. Il rifiuto dei danesi se da una parte è visto come un fattore di rallentamento del meccanismo comunitario, dall’altra è letto come un impulso al rilancio
del dibattito sull’Europa da una prospettiva meno idealistica che nel passato. Ma
il voto danese rivela altre implicazioni. Conferma un giudizio negativo comune
dato da molti sul Trattato di Maastricht, esito di conferenze intergovernative condotte con uno stile burocratico tipico di Bruxelles. Stile al quale occorre porre
rimedio attraverso l’allargamento del circuito e della base informativa.
Sul fronte economico, l’ipotesi che prende corpo è quella di uno sme troppo
rigido e debole, da rafforzare e rendere più flessibile. Al contempo si prevede
che le autorità monetarie siano maggiormente coinvolte nelle decisioni politiche
della Comunità, invitando i governatori delle banche centrali alle riunioni dei
capi di stato e di governo. L’obiettivo principale per il futuro dovrà essere quello
di evitare nuove speculazioni, anche a costo di non avere nello sme tutte e dodici
le monete.
La seconda parte dell’incontro è dedicata all’analisi della situazione italiana.
Il paese appare calato dentro una delle fasi istituzionali più difficili della storia
repubblicana. Le cifre lo confermano. Nel 1976 i due maggiori partiti, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, arrivavano insieme al 73 per cento dei voti.
Nel 1992 gli stessi due partiti – tenendo conto che il vecchio Partito Comunista è
diventato Partito Democratico della Sinistra – arrivano insieme al 48,2 per cento.
Venuta meno la polarizzazione, è in atto un processo di frammentazione del sistema dei partiti da cui emerge il ruolo di alcune formazioni nuove (Lega, Verdi,
Rete).
Sull’onda della crisi mondiale, anche l’economia italiana è entrata in una fase
di stagnazione. A questo proposito si osserva che la crisi si può superare riequilibrando tasse e spese e riducendo l’enorme debito pubblico. In conclusione, si
sottolinea che l’Italia ha bisogno di un’Europa stabile per portare a termine il suo
processo di riforme.
Le riunioni di Aspen intercettano nuovamente un insieme di questioni nevralgiche. Su trasparenza e controllo democratico delle istituzioni comunitarie si discuterà anche a Birmingham durante la seduta del Consiglio europeo del 16 ottobre
1992. Jacques Delors sottolinea la necessità di ridurre, semplificare e chiarire le
procedure di decisione, e la «Dichiarazione di Birmingham» contiene una serie
di impegni per una Comunità vicina ai suoi cittadini. Occorre dimostrare i vantaggi del Trattato di Maastricht rendendo la Comunità più aperta all’informazio-
39
ne, rispettosa della singolarità delle nazioni che la compongono. Il documento
sottolinea che le decisioni vanno prese a un livello quanto più possibile vicino ai
cittadini51.
40
Il 1992 è anche l’anno in cui la comunità aspeniana torna a riflettere sul tema
della leadership. Lo fa nella tavola rotonda Leadership 21: la guida del cambiamento, a Venezia, il 24 e 25 ottobre. Alla base ci sono alcuni convincimenti
di fondo. Gli scenari mutano sempre più velocemente. Le accelerazioni della tecnologia sono brucianti, il mercato cambia. Ai futuri leader si richiede la capacità
di bilanciare dati, richieste e sollecitazioni provenienti da più fronti (azionisti,
governi, domanda). Le scelte vanno operate eliminando le contraddizioni e tenendo conto delle responsabilità del capitalismo. Il leader deve saper coniugare
doveri etici e doveri funzionali. L’attenzione va tenuta alta sul ruolo della leadership quale catalizzatore di beni relazionali, sensibile al ruolo politico e sociale
dell’impresa. La tavola rotonda di Venezia mette in evidenza la necessità di una
cross-fertilization tra azione manageriale e vita politica fondata su obiettivi etici,
sociali e culturali comuni. La tendenza è già in atto nelle principali aree pilota
del mondo industrializzato, come Giappone e Stati Uniti. Si tratta però di approfondire l’osmosi.
Le scuole di formazione esistenti non appaiono in grado di stimolare la formazione di nuovi modelli di leadership. Durante la tavola rotonda di Venezia l’istituto lancia un programma di rinnovamento culturale, ed è in questa occasione che
si annuncia una nuova serie di seminari – Aspen Seminars for Leaders (asl) –
tali da rappresentare un punto di riferimento per i leader del mondo politico e imprenditoriale dell’area sia europea che extraeuropea. Gli asl intendono costituire
un laboratorio di idee con l’obiettivo di fornire non tanto risposte immediate alla
soluzione di possibili problemi quanto uno strumento di formazione permanente,
con obiettivi di lunga gittata. È la nascita di un programma che accompagna la
vita dell’istituto sino a oggi. Oltre a quanto qui di seguito riportato anno per anno,
per quanto riguarda gli asl in tutti i dettagli si rimanda alla sezione del sito loro
dedicata: www.aspeninstitute.it/attivita/aspen-seminars-for-leaders.
Cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, cit.,
pp. 421-422.
51 42
43
una nuova fase 3
3.1
Cambiamenti
44
Nel Comitato esecutivo del 6 ottobre 1992 Gianni De Michelis preannuncia le
dimissioni da presidente di Aspen. Nel corso della medesima riunione propone:
la riconferma a presidente onorario di Francesco Cossiga e la nomina di Giuliano
Amato a presidente e di Ennio Presutti e Lucio Stanca (riconfermato tesoriere)
entrambi alla carica di vicepresidente. In un successivo Comitato esecutivo, il 24
ottobre 1992 a Venezia, si delibera di sottoporre ad approvazione del Consiglio
generale le nomine di Giuliano Amato a presidente, di Claudio Cavazza a vicepresidente e di Lucio Stanca a vicepresidente e tesoriere. In effetti il Consiglio
generale si riunisce il giorno dopo e convalida le decisioni assunte in sede di
esecutivo. È l’inizio di un nuovo ciclo istituzionale.
In questa fase la comunità aspeniana continuerà a interrogarsi intorno a un
ampio panorama di problemi e a intrecciare diversi livelli di analisi. Davanti
all’assemblea dei soci, Giuliano Amato riassume i tratti salienti dei programmi
da realizzare. Nel corso della sua presidenza prevede di consolidare le iniziative
che mirano alla messa a punto di proposte e discussioni su questioni strategiche,
lo sviluppo degli Aspen Seminars for Leaders, la ripresa dei nuclei tematici più
profondamente radicati nella tradizione degli incontri di Aspen (il Mediterraneo,
la nuova Europa, l’America Latina), il lancio di nuovi progetti.
È su tale strada che il 12 novembre 1992 a Milano si discute il sistema di regole
previsto dall’Accordo Nord-Americano di Libero Scambio (nafta). Il dibattito
nafta: riflessi sul mercato europeo e sul commercio internazionale è l’ultimo appuntamento della tornata degli incontri del 1992 e costituisce il primo
evento organizzato durante la presidenza di Giuliano Amato.
Il contesto è complesso. Numerosi gli agganci con i punti topici della grande storia. La fine del XX secolo vede la nascita di spazi economici a forte densità di interdipendenza. Aspen torna a prendere di petto gli avvenimenti di maggiore rilevanza.
A partire dagli anni ottanta si assiste alla nascita del Mercosur (Brasile, Argentina,
Paraguay, Uruguay), dell’Associazione delle Nazioni dell’Asia del Sud-Est (asean),
del nafta. Il mondo del XXI secolo sembra costituito da blocchi economici regionali che si inseriscono in una logica di creazione di grandi mercati. L’accordo nafta
istituisce un’area di libero scambio di 360 milioni di consumatori. L’intesa che vede
coinvolti Stati Uniti, Messico e Canada prevede un’apertura delle frontiere di Stati
Uniti e Canada alla quasi totalità (80 per cento) delle esportazioni messicane. In
previsione il mercato messicano, più debole rispetto agli altri due, procederà ad
una liberalizzazione più graduale. In una prima fase aprirà solo il 40 per cento del
proprio mercato alle esportazioni canadesi e statunitensi; il restante 60 per cento
verrà aperto progressivamente nell’arco di cinque, dieci e quindici anni.
L’accordo nafta è siglato in una fase particolarmente positiva per la politica
economica messicana. Sono anni in cui la politica economica sta ottenendo diversi successi attraverso un processo di risanamento macroeconomico. Punti chiave
del rilancio sono stati le privatizzazioni e la deregolamentazione nonché l’adozione di politiche monetarie rivolte a sostenere l’industria locale. Attraverso queste
azioni l’economia messicana è passata da un tasso di inflazione del 170 per cento
del 1987 al 10 per cento del 1993. Inoltre il rapporto tra debito del settore pubblico e pil è di poco inferiore al 30 per cento, mentre il saldo annuo del bilancio
registra un leggero avanzo.
La discussione si incentra tanto sugli effetti statici, operanti quando è in vigore un sistema di accordi commerciali preferenziali, quanto sull’analisi di quelli
dinamici avviatisi con l’attivazione del processo di liberalizzazione. Il nafta apre
nuovi spazi di mercato per le produzioni europee. Si prevede che le numerose
aziende europee già attive nei tre paesi firmatari saranno messe in condizione di
razionalizzare la loro presenza a livello regionale, realizzando economie di scala
e abbassando i costi operativi. Inoltre verrà permesso agli investimenti europei
di entrare nell’area del dollaro e avere accesso alle tecnologie americane a costi
inferiori. Ogni azienda che investe nell’area è destinata a diventare «nafta company» e a godere degli effetti e delle garanzie previste dal trattato.
Tuttavia, durante la conferenza emergono alcune criticità. La discussione evidenzia la complessità dell’accordo che – oltre a prevedere molte clausole di salvaguardia delle industrie locali – ne contiene altre per la protezione del mercato
nordamericano dall’afflusso di produzioni provenienti dal Messico. Una certa preoccupazione è emersa inoltre per il trattamento applicato agli investimenti esteri
diretti, che, secondo gli europei, possono circolare meno liberamente di quanto
avvenga in Europa. Dal canto loro, i partecipanti messicani ribadiranno che non
ci sarà una «fortezza» nafta e si dichiareranno convinti sostenitori del principio
in base al quale non si può essere competitivi all’interno di un’economia chiusa.
Viceversa la competitività, affermano, è maggiore laddove maggiore è il livello
di apertura economica. La firma dell’accordo nafta testimonia la scelta netta di
puntare sull’apertura degli scambi e sull’integrazione come fattore di sviluppo52.
Sull’insieme degli incontri Aspen tenutisi nel 1992 si veda F. Gusmaroli, F. Salustri (a cura
di), Conferenze 1992, Aspen Institute Italia, Roma, 1993.
52 45
1993
46
Un primo contributo dato dal nuovo ciclo di seminari al tema della leadership viene
dalla tavola rotonda, a Siena nella sala «Achille Sclavo» del Park Hotel, intitolata
Alla ricerca della qualità: opportunità per una crescita sociale ed economica. È il 2 maggio 1993. All’incontro partecipano tra gli altri Luigi Berlinguer,
Claudio Cavazza, Francesco Cossiga, Richard Gardner, Franco Nobili, Cesare Romiti, Giorgio Ruffolo, Paolo Savona, l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt.
Nel 1992 è scoppiato lo scandalo Tangentopoli. Le indagini giudiziarie sulla corruzione coinvolgono numerosi esponenti della classe dirigente, politica e imprenditoriale. Molti grandi gruppi industriali, pubblici e privati, italiani e stranieri risultano aver preso parte in modo più o meno diretto e attivo al sistema dei finanziamenti
illeciti ai partiti politici, spesso in relazione ad appalti delle opere pubbliche. Ne
consegue un cambiamento di classe dirigente e, come sottolinea Amato: «è possibile che nei prossimi anni ai posti di comando di grandi imprese e amministrazioni
pubbliche siedano persone che non hanno esperienza di leadership. Occorre quindi
formare chi approderà dalla società civile alla classe dirigente»�53.
L’incontro di Siena rilancia anche la discussione su come ridisegnare lo stato
sociale europeo. L’intervento di Schmidt verte sul ritorno alle divisioni di reddito
tipiche di uno stato antico. A margine della tavola rotonda, Amato vi si ricollega
richiamando l’attenzione sulla necessità di costruire ponti che riducano i fattori
di divisione e di un governo dell’Europa che assicuri una crescita equilibrata54.
Cercando di riassumere alcuni punti focali del dibattito, dichiara: «Qui si tratta
di ripristinare le condizioni essenziali della crescita sociale»�55.
Il tema della qualità delle classi dirigenti tende ad assumere il connotato di un
vero e proprio filo conduttore di molte discussioni organizzate da Aspen. Riemerge pure durante l’incontro che si svolge a Roma il 17 maggio 1993 su Investimenti pubblici e ripresa economica.
Il presente è sconfortante. I segni del peggioramento della crisi economica sono
già chiari. Con la diminuzione di circa il 2 per cento della produzione nazionale
Amato: cambiamo la classe dirigente, in «la Repubblica», 4 maggio 1993, p. 45.
Cfr. Amato: una classe dirigente post-tangentopoli, in «Il Giorno», 4 maggio 1993, p. 4;
Amato: cambiamo la classe dirigente, cit.; Il difficile momento di transizione del Paese fotografato
da Giuliano Amato. Nuova classe dirigente: dove trovarla?, in «Il Giornale», 4 maggio 1993, p. 15.
55 A. Rossi, Con leader senza esperienza cambierà la classe dirigente, in «Milano finanza», 4
maggio 1993, p. 4.
53 54 della Germania si può già parlare di vera recessione in corso nella Comunità Europea. Le iniziative comunitarie e in primo luogo l’«iniziativa europea di crescita», decisa nel dicembre 1992 al Consiglio europeo di Edimburgo, si dimostrano
modeste. La recessione sembra davvero compromettere le prospettive della vita
comunitaria persino a medio termine.
In Italia, il 1993 – con una crescita negativa del pil (valutata tra -1,2 e -0,7 per
cento) e una forte contrazione della produzione industriale – segna il punto di svolta
inferiore della recessione. La caduta del pil viene contenuta dall’elevata domanda
estera: le esportazioni di beni e servizi aumentano del 9 per cento, favorite anche
dalla svalutazione della lira, mentre le importazioni si contraggono sensibilmente. Tuttavia la congiuntura negativa è amplificata dall’instabilità politica e dalle
inchieste giudiziarie sulla corruzione politica. Il coinvolgimento nelle indagini di
alcune delle principali imprese costruttrici del paese e di numerosi amministratori
locali provoca un forte rallentamento nell’attuazione delle opere pubbliche56.
L’incontro mette in evidenza come la paralisi degli investimenti pubblici in un
contesto di recessione economica rischi di aggravare ulteriormente i livelli qualitativi e quantitativi della produzione industriale. Le manovre di contenimento della spesa pubblica – se non integrate con opportune azioni di politica industriale – possono
ridurre la competitività delle imprese a fronte di un rallentamento dell’amministrazione pubblica. Si registra la carenza di nuove procedure che garantiscano trasparenza degli appalti unita ad un rallentamento dell’azione amministrativa pubblica.
Dal dibattito emergono più ipotesi di soluzione. Da una parte si tratta di sostenere la domanda finale di beni e servizi, rilanciando le opere pubbliche. Dall’altra di impegnarsi su alcuni progetti definiti come la formazione culturale del personale della pubblica amministrazione, il migliore reperimento di manager per
l’impresa ex pubblica, l’automazione nei processi decisionali, l’istituzione presso
la presidenza del Consiglio di un Centro di coordinamento di progetti dei diversi
settori della pubblica amministrazione. In sostanza, urge colmare il divario tra
livello di qualità dei servizi erogati in Europa e in Italia.
Sette mesi dopo, il 10 e l’11 dicembre 1993, sarebbe stato presentato a Bruxelles il Libro bianco su Crescita, competitività e occupazione. Anche il documento
della Commissione europea (fermo restando che il Consiglio d’Europa non prenderà decisioni operative sul merito delle proposte avanzate) avrebbe ritenuto indispensabile la crescita degli investimenti, non soltanto in un’ottica congiunturale per rilanciare la domanda ma anche sul lungo periodo, per favorire la ripresa di
una crescita equilibrata nell’ambito del mercato interno. La previsione di spesa
Cfr. S. Battilossi, Storia economica d’Italia, vol. II, Annali, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 525.
56 47
ammontava a 20 miliardi di ecu annui, finanziati in parte sul mercato dei capitali.
In questo modo sarebbe stato possibile eliminare alcune strozzature causate dalla
limitazione della spesa pubblica, conseguente alle politiche di aggiustamento finanziario ultimamente perseguite dai paesi membri. L’adozione di un programma
ambizioso di investimenti pubblici veniva inoltre considerata indispensabile per
legare più strettamente l’Europa comunitaria con i paesi dell’Europa centrale e
orientale e con l’Europa del Sud57.
48
Cfr. A. Majocchi, Un nuovo sviluppo per l’Europa. Le indicazioni del Piano Delors, in «Il
Mulino/Europa», n. 1, 1994, pp. 51-52.
57 3.2
Gli orizzonti si allargano
La discussione del 7 giugno 1993, a Roma, è su Italia, Europa e Giappone. I
nodi da sciogliere sono relativi ai problemi e alle prospettive della cooperazione
tra Europa e Giappone.
Nel 1993 il Giappone è sul corridoio d’uscita da una lunga e pesante crisi recessiva iniziata nel 1991. Una fase che per durata e intensità può essere
paragonata a quella del 1973-75. Ma le cause stavolta sono diverse: mentre la
recessione del 1973-75 è provocata dall’embargo petrolifero e dal conseguente
aumento dei prezzi della principale fonte di energia da cui dipende l’economia
giapponese; quest’ultima fase ha origine invece da una bolla speculativa, generatasi sui mercati finanziari e propagatasi a quelli immobiliari. Ciò induce non
pochi osservatori ad avanzare dubbi e perplessità sulla tenuta e trasferibilità in
contesti diversi di un modello che in quegli anni inizia ad apparire meno efficace
e meno attraente. Dovendo semplificare, all’indomani della crisi degli anni novanta, si afferma in Giappone una scuola di pensiero rappresentata da economisti
e politologi di formazione liberale che ritiene di dare luogo a riforme radicali
nella struttura e nell’organizzazione sociale ed economica del paese.
Tra le posizioni di maggior spicco c’è quella assunta dall’economista Iwao Nakatani. Nel 1995 pubblica sul «Nikkei» – il principale giornale economico giapponese –
un articolo in cui sostiene la necessità di una drastica politica di riforme che renda
il sistema economico giapponese più simile al modello occidentale e anglosassone.
La politica industriale del Ministero dell’industria (miti), il sistema finanziario dominato dalle banche guidate e controllate dal Ministero delle finanze, l’organizzazione
delle imprese orientata a promuovere l’innovazione di tipo incrementale, il sistema
formativo fanno parte di un modello che sta perdendo terreno58. Come argomenta
Yukio Noguchi59, nell’economia giapponese permangono molti elementi strutturali la
cui origine risale al periodo dell’economia di guerra, elementi che sono sopravvissuti
non soltanto alla fine del conflitto ma alla stagione di riforme realizzate durante l’occupazione americana. Molte di queste istituzioni, che hanno svolto un ruolo positivo
in passato, costituiscono un freno al cambiamento imposto dalle mutate circostanze
interne e internazionali. Occorrerebbe invece eliminare i residui del passato e consentire ai meccanismi del mercato e della concorrenza di esercitare la loro funzione.
58 59 I. Nakatani, Keizai Taisei Sennshinkokugata ni, in «Nikkei», 9 gennaio 1995, p. 12.
Y. Noguchi, Senji-40nen Taisei no Kofukuku o, in «Nikkei», 4 gennaio 1995, p. 7.
49
50
Fuori dal contesto dell’elaborazione teorica giapponese, sarà l’«Economist» a
schierarsi tra i primi su questo fronte, pubblicando un inserto dedicato al Giappone dal titolo La fine di un modello60. Vi si sostiene la tesi per cui i punti di forza
che in passato avevano consentito al paese di raggiungere risultati straordinari
si stanno trasformando in elementi di debolezza e che ancora una volta debbono
essere i giapponesi ad apprendere dall’Occidente e non viceversa.
Durante il dibattito di Aspen Italia ci si chiede se l’accento posto sugli elementi di debolezza impedisca di considerare il potenziale di crescita della prima
potenza economica non occidentale. Pur riconoscendo la serietà dei problemi che
affliggono il Giappone alla vigilia del XXI secolo, occorre tener presente le notevoli capacità organizzative e le risorse finanziarie ingenti che possono consentire
al paese e alle sue imprese di impostare programmi di espansione e riqualificazione della struttura produttiva.
Si prevede una veloce crescita di peso politico sul piano internazionale e che il
polo di attrazione dello sviluppo sia destinato a spostarsi verso i paesi della costa
occidentale del Pacifico. Il Giappone dovrebbe beneficiare enormemente della
sua posizione di fulcro di una vasta area geografica. Indicatori importanti come
l’intensificarsi degli scambi commerciali e il consistente flusso di investimenti
diretti e di portafoglio tra paesi localizzati nella regione dell’Asia-Pacifico suggeriscono che è in atto un rapido processo di crescita e integrazione economica
fondato su una sempre maggiore interdipendenza. In questo processo il paese
svolge un ruolo propulsore come maggior potenza in grado di fornire non soltanto
le risorse finanziarie, i beni capitali e intermedi, le conoscenze tecnologiche e
manageriali indispensabili per lo sviluppo, ma anche un modello di riferimento
cui più o meno dichiaratamente si ispirano i paesi della regione. I giapponesi
inoltre puntano ad un più stretto rapporto con la Cina. Sollecitano il sistema politico al riconoscimento di più ampie libertà, chiedono un maggiore rispetto dei
diritti umani ma ritengono che il paese non vada isolato. Per questo negli anni
novanta il Giappone destina alla Cina la quota più alta di assistenza economica,
pari a circa 700 milioni di dollari annui.
È a fronte dell’analisi di questi processi che l’incontro Aspen vede in una più
stretta cooperazione tra Europa e Giappone nuove opportunità di inserimento nei
mercati asiatici. Appare evidente che tra il 1991 e il 1993, benché le importazioni giapponesi in Italia siano diminuite, l’immagine del paese ottiene crescenti
consensi. Le esportazioni italiane sono in aumento. Ma occorre consolidare e
migliorare quest’immagine, riducendo alcune divergenze.
Japan: Death of a role model, in «The Economist», 9 luglio 1994.
60 La proposta emersa dal dibattito prevede un avvicinamento tra modelli economici diversi: quello giapponese enfatizza il ruolo del capitale umano ad alta
specializzazione, mentre quello italiano risulta carente di professionalità. Le economie orientali funzionano meglio non solo perché dotate di manodopera a basso
costo, ma anche perché il processo lavorativo è permeato da elevati tassi di istruzione. Puntare sulla formazione è considerata una delle chiavi principali atte ad
intensificare il dialogo tra le due realtà socio-economiche.
Vista l’istituzione in Giappone di un Piano di aiuto pubblico allo sviluppo col
quale il governo giapponese prevede di spendere all’estero in quattro o cinque
anni circa 85 miliardi di dollari, un’ulteriore ipotesi qui caldeggiata è la possibilità di agevolare gli investimenti giapponesi non soltanto in Italia ma anche
nell’Europa centro-orientale. In cambio si potrebbero ottenere facilitazioni per gli
investimenti italo-giapponesi nell’Asia orientale.
Intanto, in seno al Comitato esecutivo si amplia la discussione sui programmi da
realizzare. Il 6 ottobre 1993 si delineano le strategie per il 1994. Amato propone
di consolidare il ruolo formativo dell’istituto in modo da porlo a livello nazionale
e internazionale come un importante punto di riferimento per la classe dirigente.
Il nuovo anno dovrà essere caratterizzato dal decollo degli Aspen Seminars for
Leaders, dal varo di alcune iniziative chiave come una conferenza sul ruolo delle
telecomunicazioni nel contesto atlantico. Durante la riunione si prende poi atto
delle dimissioni di Claudio Cavazza da vicepresidente. In sostituzione, il presidente propone Giuseppe Glisenti. L’assemblea approva61.
Sul fronte delle attività, il 18 ottobre 1993 l’attenzione torna, con Un nafta per
il Mediterraneo, sull’ipotesi di cooperazione tra Comunità Europea, Unione del
Maghreb, Egitto, Giordania, Israele e Palestina. Per i paesi del bacino mediterraneo (in particolare Maghreb ed Egitto) gli anni novanta corrispondono ad un
periodo di trasformazioni profonde. Appaiono dotati di economie vive e vitali, di
un notevole capitale umano e di importanti risorse naturali. Tutti dispongono di
un settore agricolo capace di produrre beni esportabili anche nella Comunità. Le
loro popolazioni risultano in forte crescita.
A livello geopolitico, molti parametri sono cambiati in profondità. La guerra del
Golfo del 1990-91 sembra aver distrutto le ambizioni dell’Iraq di Saddam Hussein e
i grandi sogni di potenza militare degli arabi. L’altro cruciale evento è la scomparsa
dell’Unione Sovietica, con la quale gli arabi hanno perso quasi di colpo quello che
Cfr. ASAII, Verbale della riunione del Comitato esecutivo, 6 ottobre 1993, pp. 89-94.
61 51
52
per più di trent’anni è stato sulla scena globale un loro vitale alleato e protettore.
Inoltre il 1991 si è concluso con la promettente svolta del processo arabo-israeliano
avviato a Madrid, proseguito prima a Mosca e poi a Washington.
Sulla spinta di questi processi, le politiche comunitarie verso i paesi in via di
sviluppo – nate a dimensione regionale, concepite come aggiuntive a quelle bilaterali dei paesi membri e basate sull’utilizzo di pochi strumenti – hanno subito
mutamenti significativi. Tuttavia le vere innovazioni sono state poche, di modesta
portata sia dal punto di vista concettuale sia da quello strategico a fronte di un
forte bisogno di aiuto europeo62.
Durante il dibattito si sollecita una valutazione prioritaria. È necessario interrogarsi sulle reali prospettive di democratizzazione dei paesi del Maghreb e
Mashrek. Da questo punto di vista appare chiaro quello che enuncerà il politologo
Thomas Carothers nel 2003: «Benché l’idea che il cambiamento economico debba precedere il cambiamento politico sia molto attraente, resta non di meno il fatto che la mancanza di riforme politiche e della conseguente affidabilità è proprio
ciò che vanifica gli sforzi volti a motivare i governi arabi ad attuare riforme economiche strutturali di grande portata»63. In sede Aspen non ci si limita a riprendere
le strategie delineate nelle famose Commissioni Pearson del 1968 e Brandt del
1980 in base alle quali una maggiore disponibilità di risorse è automaticamente
un fatto positivo ai fini dello sviluppo. Per incrementare gli investimenti esteri e ottenere un livello di cooperazione fruttuosa sono necessarie determinate
precondizioni istituzionali. Nell’ambito di tale analisi emerge l’invito a costruire
un’area commerciale comune (esemplata sul modello del nafta) per il Mediterraneo. In questa prospettiva prendono corpo l’ipotesi di sollecitare l’Europa ad
un maggiore impegno finanziario nell’area e la proposta di istituire un’authority
internazionale a cui affidare il compito di cogliere tre obiettivi specifici. In primo
luogo, riconsiderare il problema dell’utilizzazione dell’energia nel Mediterraneo
perché questo diventi il polo di attrazione per ulteriori investimenti diretti. In secondo luogo, delineare regole e contratti comuni. Infine, realizzare joint ventures
per l’utilizzazione di energia ed elettricità. Un utilizzo comune di energia e altre
risorse strategiche come l’acqua potrebbe costituire uno strumento per accelerare
la crescita di un’area di libero scambio allargata.
E. Grilli, Riconsiderare le scelte della cooperazione allo sviluppo, in «Politica internazionale», n. 1, 1993, pp. 171-181.
63 T. Carothers, Is gradualism possibile? Choosing a strategy for promoting democracy in the
Middle East, in «Carnegie endowment for international peace, democracy and rule of law project», Working paper n. 39, 2003, p. 9.
62 In attuazione a quanto deciso in Comitato esecutivo, dal 28 al 31 ottobre 1993 a
Borgo San Felice, vicino Siena, si realizza la prima edizione degli Aspen Seminars for Leaders. Altro programma strategico di Aspen, nel quale piccoli gruppi
di non più di venti partecipanti si riuniscono per analizzare i valori e i principi
alla base dei processi decisionali, per confrontare i propri giudizi e rinnovare i
propri schemi di analisi. Il programma si avvia con due incontri: How to think
about democracy e How to think about European unity.
Un altro fronte di analisi che l’istituto torna a riaprire in questi anni è costituito
dal tema delle telecomunicazioni. A fine XX secolo lo sviluppo delle nuove tecnologie ha giocato un ruolo di rilievo. La produzione di reti via cavo, più versatili
e sofisticate, capaci di trasmettere grandi quantità di informazioni, la crescente
utilizzazione dei satelliti per la comunicazione a grandi distanze spesso in combinazione con reti via cavo su terra, la digitalizzazione dell’informazione, l’attività di grandi società di comunicazione hanno rivoluzionato l’intero sistema delle
telecomunicazioni. In soli nove anni, dal 1992 al 2001, il peso di questo settore
nell’economia è raddoppiato64.
Con la rapida crescita delle nuove reti, le fibre ottiche offrono una soluzione
migliore ai sistemi telefonici che utilizzavano cavi in rame. Più costose da installare, presentano però un costo unitario assai minore per singolo messaggio.
La capacità addizionale delle fibre ottiche (ampiezza di banda) consente la trasmissione simultanea di migliaia di messaggi attraverso la stessa fibra di vetro. È
semplice da gestire e da isolare da interferenze.
I grandi commutatori digitali hanno permesso un incremento tale nella capacità di connessioni che la domanda di un’intera regione o persino di una piccola nazione può essere soddisfatta da un solo centralino di commutazione. L’invenzione
del telefono cellulare ha creato un mercato del tutto nuovo. Nel 1994 vi sono già
24 milioni di abbonati e il settore è in piena espansione soprattutto nei paesi ex
socialisti i quali non possedevano l’infrastruttura fissa progredita dell’America,
del Giappone e dell’Europa.
Esistono poi i satelliti in orbita intorno alla Terra. Sviluppati inizialmente dalle
superpotenze per scopi di sorveglianza militare a fine anni cinquanta, sono diventati un grande affare con finalità civili negli anni settanta. In uno strano esempio
di collaborazione avvenuta durante la guerra fredda, entrambe le superpotenze si
unirono ad altri partner nell’acquisto di quote e nell’acquisto di un consorzio interCfr. J. E. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia, Einaudi, Torino, 2005, p. 87.
64 53
54
nazionale di imprese (Intelsat). Il suo primo satellite geostazionario consentiva 240
conversazioni simultanee attraverso l’Atlantico. Nel 1989 il primo satellite di Intelsat gestiva 120.000 circuiti operanti in entrambe le direzioni. E poiché la distanza
non incide sul costo, il risultato ha portato ad una drastica caduta nelle tariffe intercontinentali per telefonate e trasmissioni di dati. Le tariffe annuali di affitto di un
intero circuito scendono di circa dieci volte fra il 1960 e gli anni ottanta.
Infine, i computer e la maggiore efficienza dei sistemi di trasmissione telefonica hanno concorso nel rendere obsoleti i sistemi di messaggeria telex, proprio
come il telex aveva reso obsoleti i sistemi telegrafici negli anni sessanta. Un
tempo grandi, lenti e costosi, questi sistemi sono rapidamente diventati piccoli,
veloci ed economici; mentre la digitalizzazione dell’informazione ha consentito la
compressione di dati che, tramite altri mezzi di comunicazione, avrebbero impiegato molto tempo a passare da A a B. Inoltre, a fine anni ottanta, il telefax stava
diventando il sistema di comunicazione più comune per gestire affari. Nel 1993
si contano 25 milioni di terminali telefax. Addirittura più veloce è stata la crescita della posta elettronica, che ha permesso ai terminali l’accesso istantaneo a
chiunque fosse connesso con un proprio terminale. Negli anni novanta il numero
dei nuovi utilizzatori cresce di un milione all’anno65.
L’11 novembre 1993, a Roma, viene dedicata una riflessione molto composita a
queste trasformazioni e alle loro implicazioni istituzionali. L’incontro Il futuro
delle telecomunicazioni parte dall’analisi di tre principali fattori: il moltiplicarsi di aggregazioni che pongono spinosi problemi normativi alle autorità che
vigilano sulla concorrenza, sia negli Stati Uniti che in Europa; la deregolamentazione diffusa a livello mondiale; la crisi delle grandi aziende produttrici.
Un grosso nodo problematico su cui si discute è rappresentato dal ritardo che
l’Europa ha accumulato nel processo di deregolamentazione. I partecipanti appaiono concordi nel ritenere che per la realtà europea la maggiore difficoltà consiste
nella persistenza dei monopoli pubblici. Sul versante più propriamente nazionale
si pone il problema di individuare le criticità del caso italiano e le possibili vie
d’uscita. Il paese è dotato di una struttura industriale costituita prevalentemente
da piccoli operatori. Sarebbe quindi preferibile puntare su strategie di nicchia e
non imitare strategie di paesi con strutture diverse a livello di avanzamento tecnologico e forme d’impresa. Si dovrebbero cioè analizzare i punti di forza e valorizzare il ruolo della dimensione industriale più conforme alla natura e alla storia
Per una panoramica di queste vicende cfr. S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?,
Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 152-154.
65 del capitalismo italiano. Ma dal dibattito non emergono altre proposte. Secondo
il parere espresso da diversi partecipanti, la frontiera tecnologica più avanzata
sarà funzione del processo di liberalizzazione e dell’investimento in ricerca. Liberalizzazione guidata e non selvaggia, accompagnata dal sostegno allo sviluppo
industriale e scientifico in segmenti alti.
Aspen continua ad essere un punto di convergenza di presente e avvenire. Gli
argomenti trattati in questo incontro di novembre pongono questioni a cui anche
in sede europea si inizia a dare risposte. Nel dicembre 1993, il Libro bianco della
Commissione europea constata chiaramente l’incapacità da parte della Comunità
di anticipare e persino di accompagnare gli effetti della rivoluzione tecnologica
che sta investendo il settore delle telecomunicazioni. Anche da questa angolazione il quadro normativo risulta insufficiente a preparare il futuro. Ma bisogna
aspettare il dicembre 1994: sarà il Rapporto Bangeman (dal nome del commissario europeo competente in materia) presentato al Consiglio europeo di Corfù a
dare il via definitivo da parte dell’Unione Europea per la creazione di condizioni
tali da permettere ai paesi della Comunità di affrontare la grande competizione
del mercato globale della società dell’informazione.
Un’altra tappa fondamentale di questo processo verrà rappresentata dalla Conferenza ministeriale del G7 sullo sviluppo della società globale dell’informazione
tenutasi a Bruxelles a febbraio 1995. I lavori si concludono con l’enunciazione
di otto principi fondamentali: 1) la promozione di una concorrenza dinamica; 2)
l’incoraggiamento degli investimenti privati; 3) la definizione di un quadro normativo adeguato; 4) la garanzia del libero accesso alle reti; 5) l’accesso universale
ai servizi; 6) l’uguaglianza delle opportunità ai cittadini; 7) la promozione della
molteplicità dei contenuti; 8) il riconoscimento della necessità della cooperazione mondiale con particolare riguardo ai paesi meno sviluppati.
Si va verso una fase cruciale. Sono gli anni 1995-96 quelli in cui vengono
approvate, sulla base dell’articolo 90 del Trattato di Maastricht, le direttive per
la liberalizzazione delle telecomunicazioni. In particolare la direttiva del 19 luglio 1995, che prevede la liberalizzazione completa della telefonia vocale e delle
infrastrutture di telecomunicazione per il gennaio 1998. Preceduta da lunghi e
intensi dibattiti a tutti i livelli, nel Parlamento Europeo come in seno al Consiglio,
rappresenta una delle pietre miliari dell’integrazione europea degli anni novanta66.
Cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, cit.,
pp. 477-478.
66 55
56
Si torna poi a riflettere su uno dei temi chiave aspeniani: le relazioni transatlantiche. Negli anni novanta si ridelinea la prospettiva di un’America che ha bisogno dell’Europa, che le dà ruolo come parte della strategia mondiale degli Stati
Uniti, che vede una certa misura di integrazione europea utile all’Occidente67. La
fase politica che si apre è quella segnata dal completamento della trasformazione
politica e istituzionale dell’Unione Sovietica, dall’integrazione della Germania
unificata nella nato accettata dall’urss, dal vertice dei 35 paesi della csce per
stipulare una convenzione di sicurezza collettiva, dal consenso ampio – emerso a
fine anni ottanta – sulla necessità di conferire una più forte ossatura istituzionale
a un comune ambito euro-americano.
In Occidente si inizia a parlare di evoluzione della nato come alleanza più
«politica». Si cerca di recuperare una più ampia latitudine dell’Alleanza. Stanley
Hoffman ha da poco preconizzato, come condizione di una più efficace coesione
euro-americana nelle nuove situazioni internazionali, un’accentuata «politicizzazione» di tale organizzazione. In un articolo pubblicato nel 1990 sostiene che invece dell’assetto esistente bisognerebbe disporre di un sistema basato sul Trattato
del Nord Atlantico del 1949, che non istituì nessuna struttura militare integrata,
ma diede una garanzia americana alla sicurezza dell’Europa occidentale68.
Più in generale, gli anni novanta non sono stati un decennio facile per avviare
un processo di riforma strutturale e di adattamento all’evoluzione delle aree di
interesse strategico alleato. La trasformazione degli assetti continentali europei
dopo la fine della guerra fredda ha profondamente influito sull’approccio ai problemi della sicurezza, condiviso dagli stati che fanno politicamente o geograficamente parte della coalizione euroatlantica.
Per esempio, dopo il 1989, la nato ha dovuto diversificare la capacità della
propria struttura militare aggiungendo – alla missione tradizionale di rigida difesa territoriale – una serie di missioni e funzioni che l’hanno resa un contenitore
ideale per operazioni di sicurezza collettiva su base volontaria e selettiva nelle
outer areas immediatamente esterne al territorio degli stati membri. Per rispondere al mutamento strategico – e in osservanza a quanto contemplato dal Nuovo
Concetto Strategico scaturito dal Vertice di Roma del 1991 – la nato inizia a
mutare l’organizzazione e la struttura delle proprie forze. Le operazioni di peacekeeping e peaceforcing affiancano le tradizionali funzioni militari (protezione
Cfr. J. L. Harper, Punti di vista sull’Europa e sull’ordine mondiale dopo il 1989, in T. Bonazzi
(a cura di), Quale Occidente, Occidente perché, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 182-183.
68 S. Hoffmann, From old NATO to a New North Atlantic Security Structure, in «International
Herald Tribune», 29 maggio 1990.
67 nucleare, protezione convenzionale, fornitura di una comunità di sicurezza) da
essa svolte.
In questo scenario si inserisce l’incontro Quale futuro per la partnership
transatlantica?, del 9 dicembre 1993, che parte dal riconoscimento dell’importanza delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico69. Anche qui si tratta di un
complesso di tesi e proposte costruite per favorire un processo di cambiamento,
rivolte a diverse forze in campo. La discussione individua dei punti fissi. Europa
e Stati Uniti sono legati da una partnership antica. Le due sponde dell’Atlantico
condividono sistemi democratici radicati, fondati sulla cultura della tolleranza e
su economie che tendono sempre più ad avvicinarsi. I viaggi del presidente Clinton in Europa dimostrano la priorità assegnata dall’amministrazione americana
al rapporto con l’Europa. Tuttavia si riscontra come molti settori dell’opinione
pubblica europea temano che gli americani siano troppo focalizzati su un’impegnativa agenda politica interna. A ciò si aggiunge la preoccupazione europea di
un raffreddamento dei rapporti, dovuto al momento di congiuntura economica
sfavorevole. Per i più pessimisti l’Europa ha perduto le grandi battaglie tecnologiche. Ha un livello di welfare e una rigidità del mercato del lavoro tali da causare
una sensibile perdita di competitività.
In questo quadro, uno dei principali strumenti di partnership continua ad essere proprio la nato. Ma occorrono nuove regole, e dal dibattito emergono diverse
proposte operative. Non dovrebbero rientrare nei compiti istituzionali della nato
interventi militari esterni alla sua area, come nel caso della guerra del Golfo. Se
necessari, dovrebbero ricadere sotto la responsabilità di un’alleanza allargata ed
essere sostenuti da un consenso generale di base. L’Organizzazione inoltre dovrebbe assumere nuove funzioni in settori diversi dalla difesa, incaricandosi per
esempio di salvare il sistema scientifico dell’ex Unione Sovietica. Più in particolare viene avanzata l’ipotesi che questa istituzione debba sviluppare una propria
attività scientifico-tecnologica che esuli dal settore della difesa in senso stretto.
Per l’insieme delle attività del 1993, sintesi di questa conferenza compresa, cfr. F. Gusmaroli, S. Salustri (a cura di), Incontri 1993, cit.
69 57
3.3
Dal focus sui problemi dell’imprenditoria agli Aspen
European Dialogue
58
Il 1994 è l’anno in cui sono organizzati i primi incontri centrati sulla piccola e
media impresa. A fine Novecento l’Italia sta vivendo una fase di complessiva
ristrutturazione del proprio sistema industriale. Le grandi imprese vedono dissolversi molte delle certezze su cui avevano basato la propria solidità economica,
altre di minori dimensioni emergono costituendo spesso un elemento di fondamentale novità. Cresce di molto il numero dei lavoratori occupati in aziende con
meno di cento addetti, diminuisce il numero dei lavoratori nella grande impresa.
Nell’Italia del Nord-Est/Centro e del Nord-Ovest, in aree caratterizzate storicamente dalla grande impresa di tipo fordista, si assiste a un processo di concentrazione territoriale di queste forme d’impresa.
Tale processo origina negli anni sessanta, come si rileva per esempio dalla
struttura dell’occupazione industriale e dalla quota delle imprese piccole e medie, aumentata fra i censimenti del 1961 e del 197170. La saturazione dei mercati
di sbocco, la loro crescente instabilità e segmentazione, assieme a ragioni di natura più congiunturale (come la fine del regime di cambio di Bretton Woods e gli
shock petroliferi) danno vita a forti rigidità che ostacolano strategie competitive
basate sul contenimento dei costi. I vantaggi delle economie di scala si vanificano
a causa della sempre maggiore diffusione di tecnologie flessibili e a basso costo.
Esiste quindi un complesso insieme di fattori che minano le fondamenta di un
modello organizzativo basato su bassa flessibilità e alti volumi di produzione.
Proprio a seguito di questi cambiamenti, si aprono molti modelli competitivi alternativi al fordismo.
L’Italia ha costituito un punto di osservazione privilegiato per questo tipo di
fenomeni e già a partire dalla fine degli anni sessanta si passa da una concezione
dualistica dell’economia italiana a una visione più complessa e variegata che
porta all’introduzione del concetto di «Terza Italia»�71. In quegli anni si inizia a
sottolineare che a fianco del Nord-Ovest – caratterizzato dalle grandi imprese
industriali in crisi – e del Mezzogiorno vi fosse anche l’Italia delle piccole e
Cfr. F. Forte, L’impresa: grande pubblica – piccola privata, in F. L. Cavazza, S. R. Graubard
(a cura di), Il caso italiano, vol. II, Garzanti, Milano, 1974, p. 339.
71 Su questo concetto cfr. A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo
italiano, Il Mulino, Bologna, 1977.
70 medie imprese dinamiche. È il paese caratterizzato da imprese specializzate sia
in produzioni più tradizionali (tessile, abbigliamento, calzature, eccetera) sia in
produzioni più moderne (meccanica, produzione di utensili, eccetera).
L’attenzione per i problemi posti da questi fenomeni è destinata a crescere
soprattutto nel corso degli anni novanta. Nel 1990 è pubblicata la traduzione italiana di un classico della riflessione economica come Piccola e grande impresa di
Joseph Steindl72. Il dibattito teorico si arricchisce di nuovi contributi e mutano gli
interrogativi, mentre l’internazionalizzazione dell’economia procede. Il grado di
apertura dell’industria italiana – (import + export)/pil – cresce dal 21,2 per cento
del 1961 al 51,4 del 1990. Le imprese nazionali affrontano i mercati stranieri e
sono frequentemente quotate sulle principali borse internazionali. L’Italia entra a
pieno titolo nel primo gruppo di nazioni utilizzatrici della moneta unica europea.
Ci si chiede quali possano essere le risposte che imprese di piccole e medie dimensioni sono in grado di dare ai processi di globalizzazione.
1994
Il 22 febbraio 1994, a Roma, l’incontro La vulnerabilità del modello italiano73 prende il via da una riflessione di lunga durata sull’azione delle pmi nel
contesto delle trasformazioni caratterizzanti lo scenario internazionale. Il progetto
aspeniano mira a sensibilizzare istituzioni e imprese all’esperienza di contesti
economico-industriali internazionali, ad aiutarle a circoscrivere e analizzare i
loro problemi e a orientarle verso forme di cooperazione adatte alle loro esigenze.
La discussione si avvia dai criteri definitori della categoria di pmi per spostarsi
sui ritardi accumulatisi nel dialogo tra istituzioni e imprenditoria minore. Anche
tenuto conto di come negli anni novanta lo scenario politico appaia radicalmente
mutato e si stia creando un nuovo clima. Il proliferare di gruppi industriali di
piccole e medie dimensioni, oltre che rappresentare uno dei fenomeni di maggiore interesse del capitalismo italiano contemporaneo, pone problemi e questioni
che sono diventati temi di governo. In particolare attraverso la legge 317 del
1991 (che definisce anche le soglie dimensionali delle imprese destinatarie del
J. Steindl, Piccola e grande impresa. Problemi economici della dimensione dell’impresa,
Franco Angeli, Milano, 1990.
73 Sull’insieme di queste vicende si vedano in particolare: N. Crepax, Storia dell’industria in
Italia. Uomini, imprese e prodotti, Il Mulino, Bologna, 2002; C. Crouch, P. Le Galès, C. Trigilia, H.
Voelzkow, I sistemi di produzione locale in Europa, Il Mulino, Bologna, 2001.
72 59
60
provvedimento, proponendo il criterio del numero di addetti non superiore alle
200 unità e l’ammontare del capitale investito non inferiore ai 20 miliardi di lire)
e la legge 598 del 1994, sono intraprese azioni dirette di politica industriale di
incentivazione e tutela delle pmi.
Il dibattito enfatizza la necessità di approfondire l’azione istituzionale. Molti
spunti di riflessione riguardano il rapporto con il fisco. È ribadita l’importanza
di sviluppare regole che scoraggino triangolazioni illecite con paradisi fiscali e
si delinea la proposta di alleggerire la tassazione su plusvalenze derivanti da
operazioni di incorporazione e fusione. Prende corpo l’idea di defiscalizzare le
assunzioni a termine soprattutto per quel che riguarda studi e ricerche finalizzati
alla messa a punto di strategie di penetrazione su mercati esteri.
Nel caso dell’accesso al credito si sottolinea come le banche debbano impegnarsi nel facilitare l’erogazione di finanziamenti. Nel caso degli assetti organizzativi si auspica un avvicinamento al modello giapponese e una sempre crescente
qualità del management. Il modello italiano di impresa di piccola e media dimensione rimane vincente. Occorre tuttavia puntare costantemente al miglioramento
dell’immagine del sistema Italia per portarlo all’altezza dei livelli internazionali.
Spesso i concorrenti stranieri risultano in vantaggio sugli operatori nazionali grazie ad una maggiore credibilità complessiva del loro paese.
Nel frattempo, il 22 marzo 1994 a Roma, con Rinnovamento ed efficacia della leadership, l’istituto continua a diffondere conoscenza su questo tema. Aspen
ha presente che le grandi trasformazioni politiche, economiche e tecnologiche
stanno avendo un impatto diretto sui processi decisionali. Nella gestione di una
leadership di primo piano, l’ambiente simbolico ha acquisito grande importanza e
può, a seconda dei casi, ritardare o accelerare il cambiamento. Il rapporto tra leader e media, tra televisione e politica, appare in continua crescita, dilatando a dismisura il potere delle immagini. Secondo gli ideatori dell’incontro, questa realtà
in rapida accelerazione richiede un sistema di formazione permanente che faciliti
l’adozione di nuovi stili e l’adeguamento delle strategie a un audience globale. Si
avverte l’esigenza di una classe dirigente in grado di apprendere a interagire con
le nuove dimensioni della comunicazione. Una leadership per il XXI secolo che
deve confrontarsi con le sfide poste da una società fortemente mediatizzata74.
Il background dell’incontro dedicato a questo tema è costituito in parte da una
tradizione di studi che si sviluppa nell’America degli anni venti. Dopo la prima
Cfr. F. Gusmaroli, S. Salustri (a cura di), Incontri 1994, Aspen Institute Italia, Roma, 1995,
74 p. 89.
guerra mondiale, l’enorme sviluppo dei mass-media e dell’advertising incrementa
un nuovo campo d’indagine. Il settore della pubblicità diventa parte di un più
ampio settore – quello delle public relations – di cui si dotano tutte le principali
corporations con l’obiettivo di programmare e gestire tutti i rapporti con la sfera
pubblica. Nuovi interrogativi si aprono sulle possibili compatibilità tra lo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate di condizionamento delle masse, di orientamento dei loro gusti e della loro mentalità. La funzione del leader acquisisce una
rilevanza cruciale. Nella formulazione di quello che veniva definito l’«American
Plan», la leadership doveva essere considerata non una dote innata ma un’attitudine da sviluppare e formare attraverso un training adeguato. In seguito, all’Università di Chicago, Charles Merriam, con la collaborazione di Harold Lasswell,
inizia a interessarsi di politica come analisi di gestione del potere. Nel 1935,
per conto del Social Research Council, Lasswell svolge una prima ricognizione
sull’argomento e arriva alla conclusione che è grazie al piano simbolico che avviene una mobilitazione politica e si può formare un movimento politico75.
Otto giorni dopo il 30 marzo, sempre a Roma, l’asse della discussione si sposta sui
Nuovi strumenti per la competitività internazionale. L’analisi del rapporto
istituzioni/imprese si estende al ruolo svolto da organismi pubblici e privati come
l’Istituto per il Commercio Estero (ice), camere di commercio e associazioni di categoria nel sostenere lo sforzo di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese. L’obiettivo è quello di arrivare ad un ripensamento dei tradizionali strumenti
di supporto all’internazionalizzazione delle pmi. A fronte della crescita numerica
di organismi pubblici e privati che si occupano di favorire l’ingresso di imprese
italiane sui mercati internazionali, si riscontra un elevato livello di insoddisfazione
nei riguardi dei servizi prestati e un ritardo da parte di ice e camere di commercio.
Queste ultime in particolare, oltre a beneficiare di finanziamenti esigui, risultano
presenti solo laddove esiste già un certo numero di imprese italiane e sono invece
assenti dove potrebbe essere maggiore la necessità di un sostegno.
Nel 1989 si è avviato un processo di riforma dell’ice. Occorrono però molti
aggiustamenti aggiuntivi per un più attento disegno delle politiche di intervento.
Aspen ospita certezze e dubbi, percorsi editi e inediti e indica quelli non ancora
disponibili. La discussione in questa occasione pone l’accento sulla necessità di
apportare alcune specifiche modifiche. Di nuovo si appronta una cassetta degli
attrezzi di pronto intervento.
H. D. Lasswell, R. D. Casey, B. I. Smith (a cura di), Propaganda and promotional activities:
An annotated bibliography, University of Chicago Press, Chicago, 1935.
75 61
62
L’ice dovrebbe disimpegnarsi dagli interventi nazionali e dalle azioni limitate
all’Unione Europea per operare in particolare su mercati extraeuropei (come quelli asiatici) dove i principali concorrenti del sistema imprenditoriale italiano (Germania, Francia e Stati Uniti) sono attivi. Occorrerebbe inoltre sincronizzare meglio
la diffusione di informazioni strategiche ai reali bisogni delle imprese. Spesso le
informazioni rilasciate dall’ice risultano intempestive e generiche. Si renderebbe
infine altrettanto prioritario razionalizzare i costi e la gestione dell’ente.
Osservazione, analisi, ingegneria istituzionale. Aspen mette in moto tutti questi elementi insieme. La prospettiva è sistemica. Un altro tema chiave affrontato
riguarda la necessità di un’evoluzione positiva del rapporto banche/imprese per
ciò che concerne le garanzie richieste. Nell’istituto se ne era già parlato. Come
sottolinea una ricerca del Mediocredito, discussa durante il dibattito, sussiste un
deficit di capacità finanziaria che tende ad aggravarsi nel caso di applicazione
di strategie di internazionalizzazione imprenditoriale. In tutti i paesi, anche in
quelli a elevato grado di sviluppo economico, l’accesso al credito per imprese di
dimensioni medio-piccole costituisce un aspetto critico, segnalato anche da tutte
le indagini empiriche e da tutti gli organismi internazionali che seguono il problema. Una delle azioni più diffuse è rappresentata dalla costituzione di organismi
orientati a strumenti specifici e tra questi alla garanzia dei fidi concessi dalle
banche e dagli istituti deputati al credito.
Negli anni successivi al suddetto incontro (il 1994 è l’anno in cui entra in
vigore la «nuova legge bancaria» che mira a europeizzare il sistema bancario
italiano e viene in particolare superata la rigida separazione tra credito a breve e
a medio-lungo termine), sono due i principali fondi di garanzia che si aggiungono a quello istituito presso l’Artigiancassa con la legge 1068 del 1964. Si tratta
dei fondi di garanzia costituiti rispettivamente presso il San Paolo-Imi con la
legge 341/1995 (articolo 2) e il Mediocredito Centrale con le leggi 662/1996 e
2667/1997. Il fondo San Paolo si caratterizzerà per tre linee differenti costituite
dal consolidamento dei crediti a breve con l’offerta di garanzie, dalla possibilità
di effettuare prestiti partecipativi e dall’acquisizione di partecipazione. Quello
del Mediocredito si rivolge alle piccole e medie imprese secondo i parametri
dimensionali comunitari e nei confronti dei consorzi e società consortili di pmi.
Sono espressamente escluse le imprese artigiane e sono ammesse sia operazioni
di garanzia diretta che di controgaranzia e cogaranzia76.
R. Brancati, I fondi e i consorzi di garanzia fidi, in Idem (a cura di), Le politiche industriali
nelle regioni. Realtà e valutazioni, Donzelli, Roma, 2001.
76 Dal punto di vista dell’evoluzione degli assetti dell’istituto, la primavera del 1994
corrisponde all’inizio di un’ulteriore fase innovativa. Partono due progetti di cui
si era già discusso durante la riunione del Consiglio generale, a Siena, il 3 maggio
199377. Il 14 aprile 1994 si realizza l’idea di ampliare la base associativa grazie
ad Amici di Aspen 78. Finalizzata a raccogliere la partecipazione alle attività
svolte dall’istituto da parte del mondo della piccola e media impresa, il progetto
è posto sotto la guida di Giuseppe Cattaneo. Vicedirettore generale di ibm Semea,
assume la carica di primo presidente del nuovo gruppo79. Il regolamento viene
deliberato nel Comitato esecutivo del 19 dicembre 1994 e le prime adesioni si
raccolgono a partire dal 1995.
L’associazione nasce in base all’applicazione dell’articolo 10 dello statuto in
previsione di una categoria di associati composta da persone, enti o associazioni
che sviluppano le finalità previste dall’istituto. In origine potevano aderire sia
persone fisiche che professionisti, accademici ed esponenti del vertice di società,
enti e associazioni. Nel proseguire della vita del gruppo l’adesione si restringe a
esponenti della piccola e media impresa, dell’associazionismo imprenditoriale e
a esponenti del governo regionale e locale.
Nel corso del 1994 Amici di Aspen viene collegata alla riflessione sull’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese attraverso sei incontri-dibattito che vedono la partecipazione di oltre cento tra imprenditori, esponenti di governo e rappresentanti di associazioni industriali. Come spiega Amato durante la
seduta del Comitato esecutivo del 14 aprile: «Amici di Aspen potrà essere finalizzata ad ampliare il network e coinvolgere le aziende in un rapporto di partnership
sui progetti dell’istituto»80. Lo stesso giorno Amato annuncia di voler impegnare
Aspen Italia nella pubblicazione di una rivista bilingue e semestrale di politica
internazionale. Se ne individua il nome in «Aspenia»81.
Le novità non sono finite: negli stessi giorni si dà il via agli Aspen European
Dialogue (aed). «Dopo dieci anni di presenza propositiva in varie aree della politica nazionale e internazionale, Aspen rilancia il suo ruolo di forza aggregante e
integrante della leadership europea»�82. L’obiettivo del nuovo programma consiste
Cfr, ASAII, Verbale della riunione del Consiglio generale, Siena, 3 maggio 1993, p. 91.
Cfr. ASAII, Verbale della riunione del Comitato esecutivo, Roma, 14 aprile 1994, pp. 95- 104.
79 Cfr. ASAII, Verbale della riunione del Comitato esecutivo, Roma, 30 aprile 1994, p. 99.
80 Ivi, p. 101.
81 Ivi, p. 102.
82 Cfr. ASAII, Verbale della riunione del Consiglio generale, Roma, 30 aprile 1994, p. 97.
77 78 63
64
nell’elaborare strategie concrete per rilanciare il processo di unificazione europea
alla fine della crisi economica che ha caratterizzato il dopo-Maastricht. Si fa strada l’esigenza di individuare modelli di sviluppo che rilancino la crescita e creino
occupazione in Europa attraverso il contributo di un forum di esperti e decisori
provenienti da vari settori della società europea.
Con il Libro bianco di Delors è stato dato un ulteriore impulso alla costruzione di
un sistema integrato di reti informatiche per gettare le basi di uno sviluppo sostenibile di lunga durata per le economie europee. Eppure il contesto socio-economico
di metà anni novanta appare ancora caratterizzato da due fattori preoccupanti: l’elevato livello di disoccupazione e il basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro.
Il progetto aed prevede una serie di incontri in varie città europee con l’obiettivo di
elaborare proposte per il futuro politico europeo, l’allargamento dell’unione economica alla ricerca di un linguaggio comune su termini strategici come federalismo,
moneta unica, flessibilità del mercato e stabilità dei cambi. Complementari a questi
temi ci saranno la dimensione sociale, le opportunità sociali offerte dall’innovazione tecnologica, i modi e gli strumenti per aggredire la disoccupazione strutturale
e riformare il welfare83. All’aed parteciperanno tra gli altri: Giuliano Amato, David
Anderson, Paolo Baratta, Enrique Barón Crespo, Gianni Billia, Elio Catania, Umberto Colombo, Umberto De Capua, Luciano Gallino, Richard Gardner, Giuseppe
Glisenti, David McLaughlin, Konrad Seitz, Luigi Spaventa, Lucio Stanca, Benn
Steil, Alain Touraine, Giulio Tremonti, Sergio Vento, Enzo Viscusi, Frederick Vreeland. Spaventa e Gallino avevano già preso parte ad un seminario organizzato su
temi specificatamente europei dalla Fondazione Rosselli nel 1988. Ne era nato un
gruppo di lavoro inizialmente composto dallo stesso Giuliano Amato, da Claudio
Roveda, Massimo Luigi Salvadori e Riccardo Viale. Una prima versione delle ricerche svolte da questi autori era stata presentata durante un convegno organizzato,
oltre che dalla Fondazione Rosselli, dall’Istituto di Politica Internazionale (ispi) e
dal Centro Informazione e Studi sulla Comunità Europea (cismec)84.
Ad aprire la fase aed è la conferenza del 29 aprile 1994 Made in Europe: nuovi
paradigmi per la competitività e la responsabilità sociale. Si parte da un
assunto di base. In Europa si assiste al dispiegamento di una crisi di competitività del sistema produttivo. Non avendo sviluppato un suo modello endogeno di
competitività, è prevalsa una strategia di allineamento a paradigmi desunti da
realtà esterne. Per rilanciare il sistema economico europeo si impone un radicale
Cfr. F. Gusmaroli, S. Salustri (a cura di), Incontri 1994, cit., p. 1.
Cfr. G. Amato, M. L. Salvadori (a cura di), Europa conviene?, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. VII.
83 84 rovesciamento di matrici. Non potranno essere di aiuto aggiustamenti di breve
periodo che provocano disoccupazione e appesantiscono il welfare, forme di protezionismo care al modello giapponese, né tanto meno le politiche di riequilibrio
dei salari sperimentate negli Stati Uniti.
Da sottoporre a revisione anche il tradizionale modello degli indicatori di sviluppo in termini di pil per aderire maggiormente alle riformulazioni operate dalle Nazioni Unite attraverso una serie di nuovi indicatori denominati «indicatori
dello sviluppo umano» e «indicatori di sviluppo e benessere». Come affermerà
Amartya Sen nel 1999, occorre dilatare la nozione di sviluppo in modo da farvi
rientrare non solo lo sviluppo economico – inteso nel senso convenzionale di un
miglioramento del tenore di vita determinato dalla modernizzazione dell’attività
economica – bensì anche l’espansione delle libertà umane85.
La discussione aspeniana indica alcune priorità assolute. Occorre ripristinare
un quadro macroeconomico con tassi di cambio stabili, muovere un drastico attacco alla disoccupazione strutturale, ridurre il costo del lavoro, limitare la presenza dello stato nell’economia e accentuare il sostegno a progetti di ricerca e
sviluppo maturati in seno al mondo della piccola e media impresa. Da un modello
di occupazione ad altissima intensità di capitale bisognerà passare ad un modello
ad alta intensità di lavoro.
Tutto questo potrebbe non bastare. Al centro della strategia dei paesi ocse dovrebbe essere posta una maggiore diffusione delle tecnologie più avanzate. L’aumento degli skills della forza lavoro farà crescere produttività e salari innescando
un effetto moltiplicatore sulla performance di tutto il sistema economico. Più in
particolare, andrebbero attuate politiche attive per il mercato del lavoro a sostegno della mobilità e dell’addestramento professionale. Come si possono sviluppare nuove abilità e dischiudere nuove capacità? È sempre più urgente una politica
che porti ad una ristrutturazione complessiva del sistema formativo che annulli la
distinzione fra training e capacity building. La società della conoscenza richiede
soprattutto un nuovo modello di educazione permanente. Gli ammortizzatori sociali dovrebbero avere un carattere temporaneo. Non appare più percorribile la
soluzione offerta da benefici per la disoccupazione.
Aspen Italia guarda con attenzione positiva alle misure che stanno per essere
sperimentate nell’America di Clinton, si discosta però dalle posizioni assunte da
Peter Drucker su «Aspen Quarterly» nell’inverno del 1994 e successivamente
dall’«Economist». Le prime applicazioni della ricetta statunitense risalgono al
9 marzo 1994 ed entrano in vigore attraverso il Re-employment Act. Drucker
A. Sen, Development as freedom, Anchor, New York, 1999.
85 65
66
dichiarerà che non c’è nulla che il governo di un paese sviluppato come gli Stati
Uniti possa fare per creare nuovi posti di lavoro. L’«Economist» il 12 marzo del
1994 mette in evidenza le possibili distorsioni indotte da queste strategie. Il dibattito non manca di allargarsi. Ronald Dore dalle pagine de «Il Mulino» solleva
molti dubbi sulla formula: migliore istruzione e migliore formazione. Secondo il
sociologo del mit occorre porsi alcune domande prioritarie: quanto sono elastici
davvero i limiti della capacità di apprendimento? Quanto possiamo allargare le
capacità migliorando la qualità dell’ambiente familiare e scolastico, l’efficacia o
la portata dell’istruzione o gli incentivi all’apprendimento?86.
Ferma restando l’esigenza della crescita, l’obiettivo del programma americano è
quello di riqualificare la forza lavoro occupata e disoccupata. La filosofia dell’intervento è ispirata dal consigliere di Clinton, Bob Reich. I sussidi ai disoccupati sono
trasformati in un sistema di formazione e riqualificazione da attivare nei periodi di
disoccupazione, all’interno di un disegno di politica industriale volto a promuovere
lavori più qualificati. In questo modo il sistema di assistenza pubblica cessa di essere
un meccanismo di sostegno dei redditi a cui ricorrono i disoccupati tra un lavoro non
specializzato e l’altro, diventando una sede di riqualificazione che consente ai lavoratori temporaneamente inoccupati di salire nella scala dei lavori e delle mansioni87.
Un’altra pietra angolare delle proposte discusse durante l’aed è rappresentata
dall’idea di rinnovare il patto sociale tra generazioni. Una soluzione potrebbe
prevedere diverse fasi: entrare nel mercato del lavoro a tempo parziale, avere il
tempo pieno nella fase centrale del ciclo della vita dove serve più reddito e tornare di nuovo al part-time nella fase finale, quando la propensione al consumo tende
naturalmente a decrescere. Andrebbe inoltre riconosciuta la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Si tratta di staccarsi dal passato. Va promossa e portata a termine una vera
e propria rivoluzione copernicana senza essere inclini a sentimenti nostalgici.
Nessuna «decomposizione», ma una sfida per l’immaginazione istituzionale che
implica una nuova visione politica generale da cui ripartire per riformare l’intero
sistema del welfare.
Anche sul fronte del problema dei flussi migratori è opportuno rivedere i modelli. Si dovrebbe puntare ad un compromesso tra responsabilità di natura umanitaria e l’interesse dei paesi membri. L’emigrazione non presenta soltanto dei
connotati negativi ma si impone la formulazione di un quadro normativo comune.
Cfr. R. Dore, La disoccupazione moderna: un male incurabile?, in «Il Mulino», n. 2, 1994,
p. 274.
87 Cfr. D. Siniscalco, Incerte strategie per l’occupazione, in «Il Mulino», n. 2, 1994, p. 287.
86 Il mercato globale conta al 1994 almeno due miliardi persone in più. Cina, India,
le repubbliche ex sovietiche e i paesi dell’Europa centro-orientale sono diventati
parte di un processo competitivo globale.
Quattordici giorni prima dell’aed i rappresentanti di 116 governi firmano l’accordo Uruguay Round e formalizzano l’impegno per la creazione della World Trade Organization (wto). Il 15 aprile 1994 corrisponde alla data in cui viene scritto
l’ultimo capitolo del commercio mondiale di vecchio standard e si dà l’avvio al
primo capitolo delle nuove regole del gioco impegnate a risolvere l’antinomia fra
regionalismo e multilateralismo. Si chiude quella fase della storia commerciale
mondiale iniziata a Ginevra nell’ottobre del 1947 con la conclusione del primo
round negoziale e la nascita del gatt. La novità rispetto al vecchio ordine commerciale è che i grandi paesi ricchi quali Stati Uniti, Giappone e tutti gli altri
paesi dell’area ocse formavano alla vigilia di questo accordo una sorta di club
molto esclusivo, mentre i paesi poveri o in via di sviluppo ricevevano le cosiddette «preferenze generalizzate». Un sistema omogeneo con un numero ridotto di
soggetti è trasformato in un sistema eterogeneo, ricco di nuovi attori come il Messico o l’India. La fase che si apre è caratterizzata dalla necessità di fissare alcune
regole del gioco alla competizione globale in antitesi ad una fase caratterizzata
prevalentemente dalla liberalizzazione delle importazioni88.
Ai partecipanti all’aed non sfugge come lo scenario demografico e i flussi migratori stiano delineando una condizione europea sempre più diversa. L’Europa
deve abbandonare una posizione di difesa nei confronti dei paesi asiatici e di
quelli dell’Europa centro-orientale tenendo presenti principalmente gli accordi di Marrakesh. La nascita della wto apre molte prospettive perché nessuna
istituzione sopranazionale ha poteri tanto estesi. In questo senso la sua azione
dovrebbe occuparsi di questioni sociali oltre che focalizzarsi sull’introduzione di
miglioramenti nella disciplina normativa dell’istituto della proprietà o in materia
di sviluppo del commercio e investimenti internazionali.
Il 13 giugno 1994 a Milano si torna a discutere di piccola e media impresa: Il sostegno dell’Europa alla crescita delle pmi. L’obiettivo principale è quello di analizzare il nuovo programma comunitario (Iniziativa pmi) che affronta il coordinamento
tra paesi membri per azioni comunitarie calibrate sul sistema delle pmi nel campo
della formazione, del credito e della creazione di mercati finanziari telematici.
R. Ruggiero, Verso un nuovo ordine del commercio mondiale, in «Il Mulino/Europa», n. 1,
1994, pp. 46-49.
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Alcuni punti chiave danno avvio al dibattito. Il primo è rappresentato dall’evoluzione della proiezione internazionale delle pmi. A partire da una semplice
attività di esportazione, molta imprenditoria minore ha realizzato accordi commerciali, scambi di brevetti, joint-ventures e consorzi. È subito posto in rilievo
che l’internazionalizzazione avviene attraverso un uso molto limitato di strutture
pubbliche, alle quali solitamente è attribuita grande importanza. Tuttavia appare
urgente sviluppare altre strategie, che consistono per esempio nella promozione
di maggiori capacità infrastrutturali nel campo della logistica e delle fiere. Ridurre i costi della partecipazione alle manifestazioni e offrire servizi più efficienti
potrebbe favorire il segmento delle aziende di nicchia che devono difendere la
loro specificità su mercati sempre più vasti.
La riflessione non si esaurisce qui. A livello comunitario è stato affrontato il
problema dei rapporti tra sistema creditizio e pmi. Iniziative dirette come quelle
dei Consigli Europei di Edimburgo e Copenaghen hanno consentito di erogare 1
miliardo di ecu per garanzie al credito loro dedicate e di offrire condizioni più
favorevoli all’indebitamento. Sul fronte nazionale il project-financing e altri strumenti innovativi possono contribuire a ridurre il carico di crediti che vanno a pesare sul Ministero del Tesoro, offrendo pacchetti finanziari completi alle imprese
che mirano a operare all’estero.
Molti interventi esprimono la necessità di un migliore coordinamento degli attori istituzionali in merito alle aspettative e alle esigenze delle imprese. Si ritiene
indispensabile giungere alla semplificazione dei rapporti con la macchina amministrativa. Alle istituzioni si presentano due alternative. La prima è relativa al
coordinamento generale delle competenze con scelte precise in termini di servizi
e sostegno all’azione imprenditoriale. La seconda è quella di una razionalizzazione funzionale di ciascun organismo finalizzata ad una più efficace risposta alle
sollecitazioni del mercato. Dal punto di vista delle soluzioni immediate emerge
l’ipotesi di accelerare sul varo di alcune misure di base. Il rimborso dell’iva in
tempi brevi e certi, la copertura efficace del credito di esportazione, la riduzione
degli uffici inutili e l’incentivazione del personale delle strutture pubbliche costituiscono formule più praticabili di impegnativi programmi di riforma.
A Roma, il 15 settembre 1994, ancora le questioni mediterranee sono protagoniste nell’incontro Strategie per una partnership mediterranea. Sono passati
tre mesi dal Consiglio europeo di Corfù del giugno 1994, la Commissione europea
propugna da tempo una politica globale mediterranea in seguito alla moltiplicazione di accordi bilaterali con i paesi dell’area. Ma è durante l’appuntamento del
giugno 1994 che si decide di chiedere alla Commissione europea un documento
di riflessione e di proposte per il rafforzamento a breve e a medio termine della
politica mediterranea dell’Unione in favore della pace, della sicurezza e dello
sviluppo economico della regione. Fu allora che si lanciò l’ipotesi di organizzare
nel corso del 1995 una Conferenza mediterranea.
Durante l’incontro romano è evocata l’immagine di un’Europa che sostiene da
molti anni iniziative volte all’integrazione economica della regione mediterranea
e alla messa a punto di strumenti che facilitino i rapporti con l’Africa del Nord.
Tuttavia fattori non solo economici ma anche politici, religiosi e culturali hanno
nel breve e lungo periodo ostacolato tali iniziative. Da un punto di vista strettamente economico – malgrado le legislazioni dei vari paesi europei favoriscano
gli investimenti esteri – gli imprenditori europei, soprattutto piccoli e medi, non
trasferiscono volentieri i loro capitali in Nord Africa, preferendo i mercati dell’Estremo Oriente. Tra gli imprenditori che hanno avviato rapporti economici con
il Maghreb pochi si dichiarano complessivamente soddisfatti. Durante gli anni
novanta, alcuni paesi dell’area hanno messo in atto politiche di aggiustamento
strutturale, sono riusciti a ridurre il tasso di crescita dell’inflazione, a contenere
il disavanzo dei conti pubblici e a raggiungere la stabilità dei tassi di cambio. Ma
hanno avuto scarso successo nel controllare variabili quali il risparmio, gli investimenti, l’occupazione e le esportazioni non-petrolifere89.
L’iniziativa lanciata dal Consiglio europeo di Corfù può significare un’occasione di forte crescita di presenza politica ed economica. Più in particolare, l’integrazione dell’economia nordafricana nell’economia europea – sostengono i partecipanti al dibattito Aspen – passa attraverso l’integrazione del mercato africano.
È necessario che nel Maghreb si sviluppi un grande mercato perché è di questo
che gli investitori hanno bisogno sopra ogni altra cosa.
Alla mancanza di una cultura liberale si somma il fenomeno dell’integralismo
islamico. Per ovviare all’inerzia esercitata da questi fattori di freno si suggerisce
che le istituzioni europee garantiscano sostegno politico e solidarietà economica principalmente a quei paesi arabi moderati dove l’integralismo è più debole.
Incoraggiando i paesi del Nord Africa che muovono i primi passi verso la democrazia e la tutela dei diritti umani, l’Europa potrebbe contribuire a erigere vere e
proprie barriere contro questo fattore di instabilità.
Un caso portato a esempio sopra tutti gli altri è rappresentato dalla Tunisia.
In questo paese nel 1987 attraverso la politica di Ben Alì si è avviata una rivoluzione di spessore politico, economico e culturale che ha portato a debellare
Cfr. A. Romagnoli, Regionalismo o multilateralità: quale alternativa per lo sviluppo dell’area mena?, in V. Colombo, G. Gozzi (a cura di), Tradizioni culturali, sistemi giuridici e diritti umani
nell’area del Mediterraneo, cit., pp. 329-330.
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l’integralismo. Malgrado la presenza di elementi conflittuali, il cambiamento è
avvenuto in modo incruento.
L’assemblea dibatte a lungo sulle ricadute dell’integralismo e ne emerge un
quadro contraddittorio. Alcuni ritengono che l’obiettivo da raggiungere sia una
convivenza pacifica tra Europa e paesi dove è più forte l’integralismo, partendo
dal presupposto che non si possa impedire ad una società di darsi la struttura politica, religiosa, economica ritenuta più valida. Secondo altri, l’integralismo non
è un problema europeo e nei suoi confronti l’Europa non è in grado di agire.
Un punto di convergenza viene raggiunto nel condividere che lo sviluppo dei
paesi dell’Africa del Nord debba essere inteso in modo sistemico. Piuttosto che
promuovere singole iniziative di sviluppo industriale, l’Europa dovrebbe intervenire per realizzare e potenziare le infrastrutture necessarie allo sviluppo e alla nascita
di un mercato. Lo sviluppo va affrontato a partire dalla realtà dei diversi territori.
L’esperienza di alcuni paesi musulmani o non arabi come la Turchia o la Malaysia
dimostra che non sussiste trade-off tra identità culturale e decollo economico.
Molti di questi temi e questioni si ritrovano nell’agenda dei problemi affrontati
in sede comunitaria. Già il 25 ottobre 1994 il primo documento presentato dalla
Commissione al Consiglio propone l’instaurazione di un partenariato tra l’Unione
e i paesi dell’area mediterranea, indicando con questa parola un complesso di legami negoziali multilaterali che superi la molteplicità degli accordi multilaterali
e differenziati. L’incontro di Aspen prefigura l’adozione di una nuova politica di
vicinato e anticipa il proposito di creare una zona euromediterranea di stabilità
politica e sicurezza, che sia al tempo stesso uno spazio economico con sistemi di
aiuti e cooperazione economica90.
Arriviamo alla seconda edizione degli Aspen Seminars for Leaders nuovamente a Borgo San Felice, tra il 25 settembre e il 2 ottobre, dedicati a: Europe
towards unity; Democracy and federalism; The changing corporation;
Managing information age. I partecipanti provengono da Europa, America,
Asia e Africa.
Il 1994 è anche l’anno in cui ricorre un anniversario cruciale. Sono trascorsi
cinquant’anni dagli accordi di Bretton Woods. Dopo la fine della seconda guerra
mondiale la ricostruzione del sistema di relazioni commerciali e finanziarie è
affidata a nuove regole concordate tra i maggiori paesi nella nota conferenza a
Cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, cit.,
pp. 468-469.
90 Bretton Woods nel 1944. Grazie alla posizione di particolare forza politica ed
economica degli Stati Uniti, il dollaro inizia a fungere da moneta internazionale. Diventa riserva valutaria e mezzo di pagamento nelle relazioni economiche
internazionali. Gli accordi di Bretton Woods prevedono anche la convertibilità
reciproca delle valute dei vari paesi, il sistema di cambi fissi, l’istituzione del
Fondo Monetario Internazionale. Funzioneranno in modo soddisfacente per parecchio tempo. Nel corso degli anni sessanta si incorre in una serie di cospicui
passivi nella bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti. Il 15 agosto 1971 il governo
americano decide di abolire unilateralmente la convertibilità del dollaro in oro
anche per le banche centrali degli altri paesi. Nasce allora un sistema monetario
internazionale basato su cambi flessibili91.
L’incontro del 6 ottobre 1994 è dedicato a Il coordinamento della politica economica e monetaria a 50 anni dagli accordi di Bretton Woods e si avvia
dalla constatazione che le istituzioni messe a punto nel 1944 devono tener conto delle vicende economiche dei paesi asiatici. Si rileva infatti come negli ultimi
vent’anni il mondo «non anglosassone» abbia costantemente aumentato il suo potere. La discussione è articolata. Dopo questi primi punti si sofferma sul ruolo del
fmi nella politica globale. I partecipanti esaminano il ruolo potenziale che il Fondo
potrà svolgere nel garantire la stabilità globale dei tassi di cambio. Rilevano che
di fronte al ruolo di controllo economico e stanziamento di fondi svolto dal fmi, i
mercati potrebbero essere in posizione migliore per indurre i paesi ad applicare
politiche economiche e monetarie coerenti. Secondo alcuni interventi, non si vede
la necessità di un organismo che assicuri la stabilità dei cambi a livello globale.
Questo appuntamento porta a termine la fase dei programmi attuati da Aspen
durate la presidenza di Giuliano Amato. L’11 novembre 1994 Amato si dimette
dalla carica di presidente dell’istituto e assume quella di past president «on leave of absence»92. Giuseppe Glisenti diventa presidente ad interim e con l’ultimo
incontro sulle pmi e poi con il secondo della serie aed (descritti qui di seguito) si
conclude l’attività prevista per il 1994.
Il 5 dicembre a Milano il convegno Le piccole e medie imprese e il rapporto con le istituzioni ha come finalità principale quella di evidenziare come la
debolezza del sistema paese costituisca uno dei principali fattori di freno e ritarCfr. A. Roncaglia, Lineamenti di politica economica, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 348-353.
Cfr. ASAII, Verbale della riunione del Comitato esecutivo, Roma, 19 dicembre 1994, p. 11.
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do all’internazionalizzazione delle pmi italiane. Debolezza del sistema paese che
significa: conflittualità politica, proliferazione di attori e di competenze istituzionali rispetto alle quali le ricette tradizionali (coordinamento degli attori in gioco,
potenziamento delle camere di commercio esistenti all’estero, semplificazione
burocratica) sono apparse impraticabili nel breve periodo. Viceversa, gli intervenuti richiamano l’attenzione su altri strumenti quali lo sviluppo di una contrattualistica internazionale innovativa rispetto a quella vigente, non in grado di
garantire le pmi nei confronti dei grandi gruppi internazionali. Un’altra proposta
che viene avanzata riguarda l’attivazione di un sistema informativo centralizzato
che potrebbe facilitare l’accesso diretto ai dati più utili e rilevanti per l’internazionalizzazione. Infine, è sollecitato un migliore dialogo tra imprese e università
per formare figure professionali funzionali alle esigenze della competizione economica internazionale. Di nuovo, si passa dal piano interpretativo dell’analisi a
quello operativo e prescrittivo.
Un secondo incontro rientra nel programma aed, il 16 dicembre affronta la questione Competitività e nuova occupazione nella società della conoscenza.
In tutti gli interventi della giornata è possibile cogliere due linee di riflessione.
Una è la rivoluzione tecnologica e la difficile individuazione delle sue conseguenze. L’altra linea problematica è quella dell’elevato livello di disoccupazione
e del basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro dentro il contesto europeo.
Partire da questa ipotesi non significa per i partecipanti all’aed rilanciare l’idea
della tecnologia come creatrice di disoccupazione.
Si è concordi sul fatto che il cambiamento tecnologico possa determinare una
riconfigurazione nella divisione internazionale del lavoro. Ma la storia insegna
che le ondate di innovazione tecnologica succedutesi nel tempo hanno portato a
compensazioni nelle perdite dei posti di lavoro grazie ad un processo parallelo di
creazione di nuovi lavori, nascita di azienda e sviluppo di settori industriali e dei
servizi. A questo proposito vengono addotti alcuni esempi relativamente agli effetti sul mondo del lavoro dell’affermazione di alcune nuove tecnologie. È il caso
delle reti e delle autostrade elettroniche che porteranno a valorizzare i processi
di gestione dei flussi informativi e che consentiranno il movimento non più di
persone e cose ma di beni immateriali.