Twentyfourseven_Mitola_ita

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Fashion
Alternative Italian Fashion
Interview with Twentyfourseven, the Milanese company example of a new model of Italian fashion
business
Interview Alessandro Mitola
Photography Alessandro Mitola
Portraits Mattia Buffoli
C’è chi fronteggia la crisi sollazzandosi piacevolmente, chi si affligge, chi finge che vada tutto bene. Poi c’è
chi si rimbocca le maniche e surclassa i soliti luoghi comuni partorendo un ricettacolo di idee volte al
progresso. Sì, perché spesso il vero tarlo è la mancanza di inventiva. Laddove il capitale non manca, è
l’iniziativa a scarseggiare e il peso dell’indolenza diventa schiacciante. È così che abbiamo conosciuto
Giacomo Piazza, Matteo Mendiola e Tommaso Bosco rispettivamente creative and fashion director, art
director e ceo di Twentyfourseven, tre ragazzi intraprendenti, svegli ma soprattutto competenti e sensibili
rispetto al prodotto e alla comunicazione della moda che hanno creato una serie di progetti manifestazione
di un nuovo modello di business, dove la capacità di applicare le peculiarità dell’artigianato e della
tradizione familiare all’industrializzazione del prodotto dell’imprenditoria italiana si arricchisce di nuovi
contenuti ed esperienze internazionali. Twentyfourseven affronta la moda rispettando l’aspetto
contenutistico e narrativo del prodotto attorno al quale taglia a misura un modello di business, dala
produzione alla comunicazione, in modo che il prodotto arriva naturalmente al suo consumatore ideale
senza doversi snaturare e adattare alle regole del mercato di massa. Nel 2007 Piazza, Mendiola e Bosco
fondano 247showroom, lo showroom multibrand e multidisciplinare responsabile della distribuzione in
Italia e in Europa di alcuni dei più interessanti marchi rappresentativi dello streetwear di nuova
generazione. Nello stesso anno nasce Volta Footwear, il brand di calzature da loro progettato a 360 gradi
dalla strategia di mercato a quella di comunicazione, al design del prodotto, che in pochissimo tempo ha
invaso il mercato internazionale dando origine a una serie di innumerevoli cloni. “Il prodotto inteso come
oggetto commerciale di facile vendita non ci interessa, non lo vogliamo e soprattutto non siamo in grado di
venderlo. Vendiamo storie, progetti con un background solido e vero.” Parola di Twentyfourseven.
Qual è il background del team Volta? Raccontatemi di voi e della vostra formazione, cosa avete fatto
prima di iniziare questo progetto?
Matteo Mendiola: Ad eccezione di Giacomo, che ha sempre lavorato nella moda, veniamo da ambienti
differenti ed è questo il nostro punto di forza. Prima di Twentyfourseven ero un fotografo, mi occupavo
principalmente di fotografie d’architettura. Successivamente, ho aperto una libreria e galleria d’arte a
Roma e ho iniziato a fare l’art director. Ho quindi aperto un’agenzia di comunicazione e dopo un po’ ho
trasferito l’agenzia a Milano.
Giacomo Piazza: Sono stato buyer di moda e consulente e ho collaborato con alcuni amici a un progetto di
abbigliamento. L’incontro con Matteo e Tommaso è stato un avvenimento fortuito, è avvenuto grazie al
socio che adesso ha lasciato la società e il progetto: inizialmente eravamo in quattro. Volevamo aprire a
Milano uno showroom che vendesse marchi che a noi piacevano molto inesistenti sul mercato italiano ed
eravamo alla ricerca di un’agenzia di comunicazione. Senza pensarci due volte abbiamo deciso di fare
qualcosa tutti insieme: era il 2007, un momento davvero nero per l’economia italiana, quasi più
drammatico di quello che stiamo vivendo adesso che si differenzia solo per essere un vero e proprio
fenomeno di portata globale. Contemporaneamente è nato il progetto Volta che ha funzionato da
catalizzatore e strumento di comunicazione di tutte le nostre attività. È nato inizialmente come spin-off
dello showroom e dell’agenzia di comunicazione. La collezione ha incontrato il favore del mercato e in
breve siamo riusciti a farlo diventare un brand a tutti gli effetti.
Come mai avete scelto proprio il footwear?
GP: Venivamo da una serie di esperienze legate al footwear di grande successo dal punto di vista
commerciale e per questo avevamo una forte credibilità nel veicolare un nuovo progetto nel settore; al
tempo stesso le scarpe sono una mia fissazione. Quello delle calzature ha il vantaggio di essere un settore
nel quale non è necessario un budget ragguardevole per mettere in piedi un progetto e comunicarlo, il
fattore economico viene in un secondo momento. Non avendo a disposizione grandi risorse abbiamo scelto
il mercato della calzatura per creare un prodotto in grado di comunicare le nostre potenzialità nel
marketing, nella vendita, nella distribuzione e nella comunicazione. A differenza del settore abbigliamento
il footwear consente di sviluppare numeri importanti in breve tempo e non richiede un background
specifico. Insomma, per una serie di motivi strategici, tecnici ed emozionali la nostra scelta è ricaduta
proprio sul footwear.
La collezione SS13 The Berbers è nata in Marocco, luogo in cui avviene la produzione di Volta Footwear.
Come scatta la scintilla che innesca il processo creativo?
MM: Questa collezione è una conferma della maturità della nostra parte creativa e di design. Fino a poco
tempo fa le collezioni erano realizzate da Giacomo lavorando soprattutto sui materiali e seguendo i trend in
maniera istintiva.
GP: Il processo creativo per me parte sempre dai materiali. Durante un viaggio in Giappone, la patria della
sneaker, con enorme sorpresa ho notato che tutti indossavano solo boot, Red Wing e brown shoes. Così ho
pensato di creare un ibrido tra una scarpa e una sneaker e nel luglio 2010 è nata Strada by Volta Footwear.
L’idea è stata dettata dall’esigenza di ampliare la nostra offerta e restare competitivi senza allontanarci dal
nostro core identificabile nella brown shoe, la Classic Volta. L’ispirazione per la collezione SS13 è nata
invece in Marocco dove trascorro gran parte del mio tempo. Di fondamentale importanza è stato il libro
dell'artista francese Jean Besancenot intitolato Costumes of Morocco che ho acquistato a Marrakech,
contenente le tavole di tutti i costumi tradizionali marocchini. Queste illustrazioni sono state uno stimolo
incredibile: mi sono lasciato impressionare e trasportare dall’estetica del Maghreb, dal mix di colori e
materiali. Il legame con la terra e con la natura qui è ancora straordinariamente forte, per cui abbiamo
selezionando solo fibre naturali, tessuti e pelli lavorate artigianalmente pur mantenendo l’altissima qualità
che ha contraddistinto le nostre scelte nelle ultime stagioni.
La ricerca è uno dei vostri punti di forza, lo dimostra anche l’alta qualità dello scouting di brand
emergenti di 247 Showroom. Quali sono i vostri riferimenti? Su cosa si basa la ricerca e qual è il vostro
metodo di valutazione?
GP: Prima di creare Twentyfourseven e Volta ognuno di noi è stato parte di un’avanguardia, di una tribù
espressione di una sottocultura giovanile per la quale lo stile che scegli nel vestire è il primo grande
strumento di comunicazione. Il nostro percorso professionale è alternativo al mainstream, racconta una
realtà e la nostra identità: per questo siamo stati per diversi anni gli unici italiani inseriti nel contesto dei
collettivi francesi, scandinavi e inglesi rappresentativi delle nuove avanguardie creative. Abbiamo
partecipato a tante fiere di prodotto, ci siamo interfacciati con molte realtà e abbiamo conosciuto molto da
vicino gruppi di lavoro con filosofie e attitudini differenti. Inizialmente la scelta dei marchi presenti
all’interno di 247 Showroom era legata al nostro desiderio di creare uno spazio che rappresentasse queste
nuove realtà creative legate a fenomeni artistici e musicali, marchi di moda che stavano emergendo a livello
internazionale. Erano una novità assoluta: li abbiamo trasportati in Italia e li abbiamo messi a contatto con
la cultura del prodotto nazionale rinnovando il mercato. Non era ancora nato il nostro showroom di Parigi,
e a Milano vendevamo marchi emergenti che sceglievamo in base al nostro gusto personale: sceglievamo
tutto ciò che desideravamo avere nel nostro guardaroba. La selezione avveniva senza nessun filtro tecnico.
Prendevamo in showroom tutto quanto per noi era eccellente e osservavamo la reazione dei compratori.
Quando l’azienda è cresciuta ci siamo resi conto che questo approccio aveva dei limiti, che per essere un
progetto di business di successo ci sono delle regole di mercato di cui non puoi non tenere conto e che non
sempre il gusto personale influisce positivamente sul bilancio aziendale.
Oltre a questo c’è anche il fatto che lavorare con piccoli brand significa conoscere da vicino le loro realtà ed
essere coinvolto nei loro problemi in maniera diretta. Occorre moltissimo tempo per seguirli nel percorso di
crescita. Per cui, circa due anni fa abbiamo sottoposto a una scrematura la nostra rosa di marchi
selezionando tutti quelli che, come noi, sono cresciuti diventando aziende ed eliminando i più piccoli per
sostituirli con progetti sempre identitari dal punto di vista del contenuto e dello stile ma con più chiari
presupposti di mercato. In questo momento siamo in una fase di ulteriore cambiamento, il mercato è
veramente difficile e affrontiamo la criticità della situazione puntando sull’internazionalizzazione e
lavorando molto con il Giappone e la Corea. Essere diventati quello che siamo è stato un percorso difficile
ma siamo fieri di esserci evoluti anche adattandosi alle regole di mercato ma senza compromettere la
nostra idea iniziale di lavorare sui brand invece che sul prodotto. Il prodotto inteso come oggetto
facilmente vendibile non ci piace, non lo vogliamo e soprattutto non siamo in grado di venderlo. Vendiamo
storie, progetti con un background solido. È davvero difficile trovare marchi italiani di spessore, gli manca
sempre qualcosa. Al tempo stesso in Italia ci sono marchi capaci di gestire in maniera impeccabile la
distribuzione e le pubbliche relazioni, come MSGM e Golden Goose. Un problema italiano che influenza
negativamente l’evoluzione del settore moda è l’assenza di pr e comunicatori di nuova generazione, l’età
media anche non anagrafica è decisamente elevata e i nuovi marchi che si affacciano sul mercato, non
capiti o comunicati in maniera obsoleta, arrancano.
Quanto vi sentite legati alla vostra nazione?
MM: Siamo fierissimi di essere italiani. Diamo molta importanza alle nostre origini nonostante, soprattutto
all’inizio, ci sono stati molti pregiudizi nei nostri confronti proprio a causa delle nostre origini. Capita spesso
che ci chiedano se siamo americani, come se in Italia non potesse accadere niente di nuovo: questa idea
che il mondo ha della nostra nazione è molto fastidiosa. Il nome Volta è italiano ed è stato scelto
volontariamente per essere letto e pronunciato allo stesso modo in qualsiasi lingua così come la nostra
immagine è letta univocamente in tutto il mondo. L’italianità è un valore aggiunto che vogliamo sostenere
ed usare come plus lavorando il più possibile con fornitori italiani.
GP: L’unica accezione negativa che comporta essere italiani nel mondo della moda, soprattutto nel
footwear, è la connessione all’artigianalità. Di sovente dobbiamo rapportarci e scontrarci con la monotona
retorica dell’artigiano italiano. Abbiamo deciso di non offrire un’immagine ridondante dell’italianità ma di
mostrare una faccia dell’Italia che sa cosa succede nel mondo, sa comunicarsi con il linguaggio di oggi ed è
in grado di essere apprezzata da un pubblico internazionale.
Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato dal punto di vista imprenditoriale quando
avete avviato il progetto?
MM: Abbiamo dovuto combattere contro i pregiudizi scatenati dalla nostra età. In Italia l’imprenditoria
giovanile è rara e poco stimata e deve scontrarsi con il problema della mancanza di credibilità. Non essere
seduto su una poltrona dirigenziale da almeno quindici anni equivale a ottenere scarsi riconoscimenti. La
mancanza di credibilità è un ostacolo non solo a livello economico ma anche nel rapporto con la stampa:
ottenere una pubblicazione senza essere additato con il clichè del collettivo di giovani creativi e non come
imprenditori è davvero complicato.
GP: Abbiamo messo a fuoco che problema dell’Italia non è la mancanza di capacità produttive ma la
carenza di idee. Molte aziende chiudono per semplice pigrizia: prendere un aereo e spostarsi, mettersi in
gioco e ripensarsi in uno scenario internazionale, cercare nuovi partner e creare possibili collaborazioni è
uno sforzo troppo grande. Si preferisce aspettare passivamente che qualcuno bussi alla porta. Questo
succede a qualsiasi livello, in qualsiasi settore del sistema moda italiano. L’alternativa al fallimento è lo
spostamento dell’attività in Cina, Romania o in altri siti produttivi in cui esportare tutto il nostro sapere
impoverendo così la nostra nazione.
Sempre parlando di ricerca, avete utilizzato tessuti jacquard con motivi originali estratti direttamente
dagli archivi dalla famosa azienda tessile comasca Limonta. Qual è il futuro dei materiali applicati al
mondo delle sneaker?
MM: La mia prospettiva di analisi è quella della realizzazione del prodotto. In questo momento la
produzione di scarpe è generalmente molto costosa, sia per noi sia per le grosse aziende. In futuro si
tenderà a lavorare su costruzioni semplici e facili da creare, con meno cuciture possibili e materiali che
possano essere tagliati senza essere piegati. Lo sviluppo dei materiali seguirà questa direzione legandosi
sempre più allo sportswear che, nell’abbigliamento maschile, è il settore e lo stile che salverà il mercato nei
prossimi tre anni. In tempi di crisi questo settore stimola il consumatore all’acquisto perchè mosso dal suo
interesse personale verso lo sport sia jogging o yoga. L’acquisto è orientato verso un prodotto
esteticamente gradevole, con attitudine alla performance e alla funzionalità e di derivazione tecnologica,
caratteristiche che corrispondono all’offerta del mondo sportswear che sarà protagonista di un incremento
delle vendite. Parallelamente assisteremo all’introduzione sempre più consistente di elementi di
derivazione sportswear nel mondo del fashion che porteranno il consumatore maschile ad avvicinarsi di più
alla moda con un riscontro altrettanto positivo sulle vendite anche di questo settore. Parlando di calzatura
più costruita e formale la tendenza si svilupperà avvicinandosi con massimo rigore al tecnicismo, alla qualità
e all’artigianalità. Con Volta vogliamo inserirci nel running senza sfiorare la competizione con i grandi
marchi dello sportswear i quali non possono prescindere dall’atleta e dalla performance sportiva. L’idea è
creare una Volta running slegata da questi vincoli: l’attività fisica deve essere una realtà personale in grado
di far stare bene la persona, la prestazione non ha importanza.
Il legame tra scarpa e viaggio è immediato ed efficace: com’è nata l’idea di Strada X-Travelling serie di
calzature diventato poi progetto di comunicazione attraverso il quale avete promosso il lavoro di
designer, creativi, fotografi, giornalisti, musicisti equipaggiandoli nei loro viaggi con un paio di Strada?
MM: X-Travelling è nata in maniera semplice. Avevo in programma un viaggio in India, così, prima della
partenza ho preso il campione di una scarpa non ancora andato in produzione e l’ho portato con me per
testarlo. La suola era stata fatta in collaborazione con Vibram e disegnata in esclusiva per Volta. Durante le
escursioni ho scattato un po’ di foto e quando sono tornato abbiamo pensato di proporre la scarpa Strada
associandola all’idea del viaggio, in quanto si tratta di un modello comodo e performante. Conosciamo
molte persone che a causa della loro professione hanno vite molto attive e viaggiano frequentemente per
cui abbiamo pensato di raccontare questa scarpa chiedendo loro di testimoniare le loro piccole grandi
avventure con ai piedi la nostra Strada. La serie X-Travelling si è conclusa a gennaio e darà luogo a un nuovo
progetto a cui stiamo lavorando. Il quattordicesimo e ultimo appuntamento è stato la pubblicazione del
secondo romanzo di Clancy Martin ispirato al Sud America intitolato Travels in Central America.
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