Letteratura e antropologia - Hal-SHS

Letteratura e antropologia
Amalia Dragani
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Amalia Dragani. Letteratura e antropologia. Letteratura europea, V, 2014, Letteratura europea, ISBN 9788802087320. <halshs-01216872>
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Letteratura e antropologia
Amalia Dragani
1. Introduzione
I punti di convergenza fra antropologia e
letteratura si situano su due terreni: da un lato
gli antropologi si segnalano agli studi letterari
come “produttori” di letteratura, e soprattutto
di poesia, in quanto alcuni furono, essi stessi,
poeti e scrittori (si veda al par. 2), dall’altro
come “riproduttori”, professionisti dello studio
delle letterature orali degli Altri (si veda ai
parr. 3, 4, 5).
Gli antropologi manifestano anche un interesse
professionale verso le letterature scritte postcoloniali, considerandole un prezioso archivio
di informazioni sia sulle realtà socio-culturali
da essi indagate, sia una possibile breccia aperta
nella dimensione, sottile e sfuggente, della
soggettività nativa (si veda al par. 6).
2. Esordi taciuti: la Musa antropologica
e i poeti-antropologi
La “produzione” di letteratura da parte degli
antropologi, sin dai suoi esordi, costituisce un
tratto di originalità dell’antropologia rispetto
alle altre scienze sociali, come la sociologia
o la psicologia. La vena letteraria soggiacente
a molte personalità di antropologi noti, oltre
a interessare i critici letterari e gli studiosi di
letteratura di viaggio, necessariamente interroga
anche gli storici dell’antropologia e quella parte
della comunità scientifica più propensa a esercitare
una riflessione antropologica su se stessa.
Occorre precisare che si tratta di un compito
assai arduo reperire il materiale letterario e
poetico prodotto dai primi antropologi, a causa
di un generale occultamento, dovuto alla
necessità dell’antropologia nascente d’inizio
secolo di professionalizzarsi come disciplina
accademica e universitaria, se non addirittura
di presentarsi come una scienza naturale.
Benché l’antropologia attuale possa vantare
precursori illustri come Erodoto, la sua
costituzione accademica come scienza sociale
praticata da professionisti risale solo agli inizi
del Novecento. Nel periodo che data dalla fine
dell’Ottocento ai primi venti anni del Novecento,
l’antropologia e i suoi protagonisti dovettero
ingaggiare una coraggiosa battaglia per far
guadagnare alla loro disciplina una credibilità
scientifica e accademica, per ottenere il
riconoscimento di cui gode oggi in maniera
solare (pensiamo al successo del concetto
di “cultura”, elaborato dall’antropologia,
ora adoperato dalla sociologia, dalla critica
letteraria e in molti altri ambiti).
Fra le strategie adottate durante il periodo
della sua fondazione accademica ci fu quella di
creare e definire i propri confini, in particolare
prendendo le distanze dagli altri soggetti
occidentali operanti allora su terreni extraoccidentali: i missionari, che spesso redigevano
lessici di lingue native e raccolte di “tradizione
orale”, i funzionari coloniali (amministratori,
medici) che presentavano talvolta interessi
intellettuali che oltrepassavano la loro specifica
attività lavorativa e i grandi viaggiatori e
viaggiatrici ottocenteschi, i cui romanzi di
viaggio godevano di ampia fama e, a differenza
delle trattazioni scientifiche, di piacevole
leggibilità e forza di trascinamento emotivo.
I loro scritti, che si occupavano di popolazioni
esotiche, non erano tuttavia credibili sul piano
scientifico, gravati com’erano da un pesante
etnocentrismo. Per quello che riguarda poi
missionari e funzionari coloniali, questi ultimi
erano imbevuti di un’ideologia religiosa e
coloniale che si distingueva, in termini negativi,
dal “puro” e “disinteressato” approccio che
allora, in epoca positivistica, si credeva fosse
proprio del lavoro scientifico. Tuttavia, vuoi per
la permanenza sul campo di funzionari coloniali
o ecclesiastici, superiore in durata a quella
degli etnologi, vuoi per le caratteristiche proprie
della scrittura letteraria, capace di godere di
un pubblico più vasto, queste figure si trovavano
in una posizione antagonistica, talvolta in grado
di oscurare la nascente antropologia.
Lo sforzo prezioso degli antropologi dell’epoca
fu di fare chiarezza fra chi fosse parte del
“noi” (la comunità scientifica e la categoria
professionale degli antropologi) e tutti gli altri
(missionari, funzionari coloniali e scrittori di
viaggio), ai primi attribuendo la caratteristica
della professionalità e della “scientificità”,
agli altri quella del dilettantismo.
Tuttavia diversi antropologi professionisti e
fondatori della disciplina coltivarono pronunciati
interessi artistici, musicali e letterari, ma
soprattutto poetici. Alcuni di loro pubblicarono
Patung, feticcio Kachina
della cultura Hopi,
disegno dal Codex
Hopiensis, 1899,
matite colorate e
acquarello, Washington
DC, Smithsonian
Institution.
313
Letteratura, arti, scienze
314
poesie sotto pseudonimo (come Ruth Benedict)
o senza pseudonimo (come Edward Sapir in un
periodo duro della sua vita, in urto con Franz
Boas e voglioso di abbandonare definitivamente
l’antropologia e di darsi interamente alle
“ambizioni clandestine”, la musica e la
letteratura, come Jaime de Angulo, Margaret
Mead, Gregory Bateson, Roger Bastide); altri
ancora scrissero poesia privatamente, come
Bronisław Malinowski.
L’antropologia è perciò invitata oggi a
interrogarsi sul ruolo che la pratica di un’arte
(la poesia) da parte di suoi importanti fondatori
ricoprì nella plasmazione del metodo e del
profilo teorico della disciplina.
L’antropologia culturale statunitense, fondata
dal tedesco Franz Boas, offre numerosi esempi a
questo riguardo. Fra gli allievi di Boas troviamo
molti antropologi e antropologhe dotati di
talento poetico e narrativo: fra questi ricordiamo
i poeti-antropologi che pubblicavano nelle riviste
letterarie del circuito di Ezra Pound, Ruth
Fulton Benedict (col nom de plume di Anne
Singleton) ed Edward Sapir. Anche Margaret
Mead compose poesia, più per diletto forse, e
Zora Neale Huston (1891-1960), una delle più
giovani allieve di Boas, è oggi ricordata dalle
scrittrici Alice Walker e Toni Morrison come
una delle prime narratrici afroamericane.
Un caso particolare è costituito dall’eccentrica
figura dell’antropologo non professionista
(medico di formazione) Jaime de Angulo
(1887-1950), collaboratore di Franz Boas,
di Edward Sapir e di Alfred Kroeber. Con la
crescente professionalizzazione della disciplina
e con la Depressione economica del 1929, che
imponeva tagli alla spesa per i collaboratori
esterni, la figura di Jaime de Angulo fu obliata
dalla comunità scientifica per lungo tempo.
Curiosamente però, fu la comunità letteraria
ad appropriarsi della sua memoria, divenendo,
dagli anni Sessanta, un’icona di riferimento
per gli artisti della Beat Generation. L’esclusione
dalla comunità ufficiale fu senz’altro dovuta
alla sua mancanza di un PhD in Antropologia
(che permise invece a Paul Radin, addottorato
nel 1911, un altro “irregolare” della disciplina,
di entrare, anche se tardi, nel corpo docente
della Columbia).
La formazione di Ruth Fulton Benedict (18871948) fu in letteratura al Vassar College e il suo
primo interesse la poesia. Quando nel 1919 fu
introdotta nel Dipartimento di antropologia era
Letteratura e antropologia
una poetessa che aveva già pubblicato con il
nome di Anne Singleton. Studiò antropologia
con Alexander Goldenweiser e Elsie Clews
Parsons, divenendo, nel 1922-23, assistente
di Boas al Barnard College, e nel 1924 alla
Columbia University. Svolse il suo “terreno” fra
i Serrano del sud della California e inchieste fra
i Pima e i Pueblos del sud-ovest, pesantemente
ostacolata da una progressiva sordità. Diresse
gli studi sugli Apache e i Blackfoot del nord.
La sua poesia è di natura intimista, un
ripiegamento soave e mistico, che si estroflette
al mondo utilizzando un linguaggio dai duri
toni biblici, ma solo per affondare ogni certezza
in un credo.
Edward Sapir (1884-1939), allievo diretto
di Franz Boas, prese parte a numerose ricerche
etnografiche e linguistiche tra varie tribù di
indiani del Nordamerica. I suoi lavori, frutto
della ricerca sul campo, cercano di articolare le
relazioni fra l’inconscio, la personalità, la lingua
e la cultura, intesi come “sistema formale
sommerso” che impone all’individuo, a sua
insaputa, le categorie concettuali, gettando così
le basi di una scienza del comportamento, dove
convergono etnologia, psicoanalisi e linguistica.
Pianista e poeta, Sapir pubblicherà nel 1916
un volume di poesia, Dreams and Gibes: le
tematiche che vi traspaiono sono tanto di natura
sociale (in cui travasa tutto il suo impegno civile
e l’orrore suscitato dalla Prima guerra mondiale)
quanto privata (ansie personali dovute alla
malattia mentale e fisica della moglie, e fastidio
nei confronti dell’ambiente accademico da cui
sogna di evadere).
Anche in Europa troviamo casi di poetiantropologi, soprattutto in Gran Bretagna
e in Francia. Nel panorama dell’antropologia
sociale britannica si segnalano per avere scritto
dei poemi Bronisław Malinowski (1884-1942)
e il suo studente “eretico” Gregory Bateson
(1904-1988).
Malinowski, figura assolutamente centrale
nell’antropologia (a lui viene attribuita
l’invenzione del metodo attuale della ricerca
sul campo, basato sull’osservazione partecipante
dell’antropologo alla vita dei nativi), nacque
in Polonia, figlio di un filologo, interessato
anche al folklore e all’etnografia domestica,
e di una nobildonna poliglotta.
A Cracovia Malinowski strinse amicizia con
i giovani letterati dell’epoca, tutti destinati a
diventare figure emblematiche nella letteratura
polacca novecentesca. Giovane poeta egli stesso,
Malinowski scrisse però poesia lontana dal
canone sovvertitore dell’epoca, legato al culto
del mauditisme d’ispirazione francese, vivendo
al contrario una giovinezza al riparo dalle
sfrenatezze bohémiennes che non condivideva,
a causa anche dell’attaccamento morboso alla
madre vedova e di una malattia che l’aveva
segregato dalla vita per molto tempo.
La sua poesia, considerata antiquata dai
coetanei, non poté godere del supporto dal
“gruppo dei pari”, che avrebbe potuto portare
all’espressione completa delle sue pulsioni
artistiche. Restano soprattutto poemi di
corrispondenza, mottetti indirizzati ad amici
e qualche lirica d’amore mai tradotta dal
polacco. Ci è difficile sapere se altre poesie siano
sopravvissute in carte personali e in archivi
appartenenti ai suoi amici dell’epoca.
Probabilmente a causa delle sue ambizioni
letterarie represse, egli si accanì con particolare
astio sul suo allievo Gregory Bateson, stroncando
la sua tesi di dottorato, Naven, del 1936,
probabilmente la prima etnografia sperimentale
che l’antropologia annoveri, al contrario
recensita con toni incensatori da Ruth Benedict
negli Stati Uniti, dove Bateson infatti proseguì
la sua carriera. L’opera è geniale per la sua
originale tripartizione, che mostra le tre possibili
diverse interpretazioni che si possono dare
dello stesso rituale. Bateson, oltre a essere
stato un pioniere in campo antropologico, e in
particolare dell’antropologia visuale, impegnato
in campi quali la cibernetica e la psichiatria,
fu anche un poeta. Non è facile reperire i suoi
poemi, che ora sua figlia Mary C. Bateson,
studiosa di antropologia e poesia mediorientale,
comincia però a diffondere, come già
precedentemente con alcuni poemi di sua
madre, Margaret Mead.
Anche in Francia spiccano alcuni poetiantropologi, quali Michel Leiris (1901-1990)
e, in misura minore, Roger Bastide (1898-1974).
Leiris, dopo aver aderito fin dal 1924 al
Surrealismo, se ne distacca nel 1929, per
dedicarsi all’etnologia. Nel 1931 partecipa alla
missione Dakar-Gibuti, diretta da Marcel
Griaule. Compie ricerche etnografiche tanto
nell’Africa nera (culti di possessione, voudou,
status estetico dell’arte africana) quanto nelle
Antille francesi, come direttore di ricerca al
CNRS. La sua presenza arricchirà l’antropologia
francese per quanto riguarda sia la forma
scrittoria (che vuole esplorare tutte le
potenzialità del linguaggio) sia il piano dei
contenuti, inserendo la dimensione esistenziale
e riflessiva (il tema del processo attraverso cui
un soggetto trasforma altri soggetti in oggetti
da conoscere e in un contesto coloniale), con
la pubblicazione nel 1934 di L’Afrique fantôme
(L’Africa fantasma) e di L’ethnographe devant
le colonialisme (L’etnografo davanti al
colonialismo, 1950).
A sua volta, Bastide compie ricerche in Brasile,
insegnando dal 1938 al 1953 all’Università
di São Paolo e dedicandosi alle religioni
afro-brasiliane (il candomblé di Bahia), ai
fenomeni di acculturazione, all’etnopsichiatria
e alle letterature brasiliane. Al suo ritorno è
direttore di studi all’EHESS di Parigi. Consegue
nel 1957 anche un dottorato in lettere. Fin
da giovane frequenta i circoli letterari francesi,
divenendo amico di Louis Aragon e componendo
anch’egli poesia.
Stupisce con quale accuratezza i poetiantropologi, agli esordi dell’antropologia
accademica, siano riusciti a occultare le tracce
dei loro interessi letterari, tanto che oggi è
difficile rinvenire perfino le opere pubblicate.
Quella che, in tempi più recenti, sarebbe stata
chiamata la “Musa antropologica”, necessitava
allora, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi
del Novecento, di essere ammansita. Trovare
credibilità e autorevolezza per l’ingresso
nell’establishment accademico di questa nuova
disciplina, da poco sottratta al dilettantismo,
reperire fondi per la ricerca, adottare una
politica di espansione culturale: pare fossero
questi gli imperativi principali a cui gli stessi
antropologi, autori di poesia, si sottoposero
volontariamente.
La “doppia fedeltà” alla letteratura, alla Musa
da un lato, all’antropologia dall’altro, era prassi
tollerata, a patto che l’attività letteraria fosse
svolta privatamente e con discrezione. Certo,
occorre dire che le composizioni poetiche
di questi autori, oggi sepolte, perdute o
difficilmente reperibili negli archivi, non
brillavano da un punto di vista letterario: essi
furono poeti sì, ma non poeti geniali. Forse si
dedicarono ad altro (l’antropologia), perché
consci di non avere un talento adeguato o forse,
al contrario, un talento potente e creativo si
auto-esalta di più nella messa al mondo di
una nuova intera disciplina.
Forse l’antropologia poteva tollerare la doppia
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Letteratura e antropologia
fedeltà (e per intenti divulgativi l’antropologia
boasiana approfittò della simpatia che suscitava
fra i più influenti circoli letterari dell’epoca,
quello di Ezra Pound a New York e di David
Herbert Lawrence in California, il cui tramite
era Jaime de Angulo), ma la Musa non poteva.
L’ispirazione potente non si dona a chi si offre
per metà.
Dagli anni Ottanta, però, dopo che la literary
turn, la svolta letteraria che negli Stati Uniti ha
impresso all’antropologia una virata verso gli
studi di critica letteraria mediante la corrente del
cosiddetto Postmodernismo, trovare antropologi
che apertamente scrivano poesia o narrativa non
è infrequente. Addirittura riviste ad hoc sono
sorte insieme al premio letterario Edith Turner
per la “poesia antropologica” e riviste ufficiali,
di comprovata appartenenza accademica, come
l’«American Anthropologist», non hanno esitato
a ospitare le riflessioni degli antropologi-poeti,
ora considerate innovative e originali.
La produzione poetica e letteraria degli
antropologi oggi prosegue in maniera feconda
di esiti e di riflessioni teoriche principalmente
negli Stati Uniti. A partire dagli anni Ottanta,
si segnala l’opera poetica di Stanley Diamond,
Paul Friederich e Renato Rosaldo (in spagnolo).
Un’antologia dei loro poemi è stata pubblicata
e intitolata Reflections. The Anthropological
Muse, a cura di Ian Prattis. Si tratta di un’opera
rilevante, in cui compaiono voci di antropologhe
e antropologi-poeti statunitensi contemporanei
(Stanley Diamond, l’iniziatore della “poesia
antropologica”, Dennis Tedlock, Regna Darnell,
Robin Fox, David Price, Toni Flores) e di un
poeta (Nathaniel Tarn).
In essa troviamo anche una sezione dedicata
alle poesie composte dai nativi contenente una
critica, in forma di versi, della rappresentazione
antropologica, la quale tende a uniformarli, a
dare scarso peso alle soggettività (post)-coloniali,
imbrigliandoli nel concetto astratto di cultura,
intesa come blocco monolitico privo delle
sfumature di cui ogni individuo è apportatore.
I poemi etnografici, scritti col consapevole
intento di esprimere concetti antropologici
in poesia, sono basati sull’assunto che la
poesia è epistemologicamente indispensabile
all’antropologia. Essendo di natura intuitiva,
la poesia può svelare l’inconscio dell’antropologo
e aiutarlo a correggere i propri errori di analisi
mentre li commette.
In quanto multum in parvo, la poesia prodotta
sul terreno, in contesti in cui difficilmente
ci si può isolare dalla vita comunitaria, offrirà
rapidità di annotazione degli avvenimenti e
densità di concetti in un precipitato di senso,
da dipanare e rielaborare successivamente.
Inoltre la poesia è portatrice di messaggi intuitivi
e permette di accedere a un altro livello di
comprensione (una comprensione obliqua,
trasversale, creatrice di potere interpretativo,
che con la sola mente razionale non affiora).
Qualora poi si voglia, coniugandolo con le
metodologie più comuni e tradizionali, applicare
il metodo della scrittura automatica in uno stato
di trance autoindotta, sicuramente l’antropologo
giungerà a intuizioni ancora più insospettabili
se, con rigore e scrupolo professionale, potrà
constatarne l’eventuale fondamento empirico
e la possibile validità scientifica.
Francis Bacon,
Studio per un ritratto
di Michel Leiris, 1978,
olio su tela, Parigi,
Musée national d’Art
moderne - Centre
Pompidou.
3. Perle di culture: l’antropologia delle
“letterature orali”
Le grandi iniziatrici dello studio antropologico
della letteratura orale moderna saranno due
donne: Ruth Finnegan (che chiamerà la sua
disciplina «la Cenerentola dell’antropologia
sociale britannica») in Gran Bretagna e
Geneviève Calame-Griaule in Francia che,
insieme a Denise Paulme e Germaine Dieterlen,
darà inizio alla “piccola tradizione” della
letteratura orale in seno all’antropologia
francese.
In Francia le ricerche sono ferventi. Per quello
che concerne la poesia orale, segnaliamo l’opera
di Christiane Seydou (poesia peul), Alice Tauzin
e Catherine Taine-Cheik (poesia mauritana),
Dominique Casajus e Amalia Dragani (poesia
tuareg), Tassadit Yacine (poesia cabila) e, in
contesto europeo, Maria Manca (poesia sarda).
Per quello che riguarda la letteratura orale in
senso più ampio, i riferimenti imprescindibili
sono Nicole Belmont, Ursula Baumgardt, Jean
Derive, Nicole Revel, Sandra Bornand, Cecile
Leguy.
La ricerca sul campo in letteratura orale è
particolarmente difficoltosa, in quanto prevede
il reperimento degli esperti locali, maestri
o “tesori viventi” della tradizione orale, sempre
più rari, che vogliano collaborare al progetto
di raccolta.
Una volta verificata la loro disponibilità, si
procede alla registrazione della performance,
317
Letteratura, arti, scienze
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che avviene mediante apparecchiature digitali
e video che consentono di captare non solo
la voce, ma anche l’immagine, la gestualità,
lo sguardo e la mimica facciale del cantore
e del suo pubblico. Questo va bene per quanto
riguarda vista e udito. Ma esistono gli altri sensi,
che i mezzi meccanici non riescono a tutt’oggi
a registrare: il tatto, l’olfatto e il gusto,
considerati per lungo tempo dalla nostra
società dei sensi minori. Poiché in altre culture
questi sensi rivestono un’importanza tutt’altro
che irrilevante, sarà cura dell’antropologo
restituire l’insieme di stimoli olfattivi, tattili
e gustativi che si presentano nel corso di una
performance artistica orale. P. es., durante
una recita pubblica di composizioni fra i tuareg
(di cui si è occupata chi scrive), come trascurare
i profumi degli incensi bruciati nell’aria, insieme
al carbone, a seconda dell’ora del giorno
o della funzione (le erbe usate al tramonto
per scacciare gli spiriti della notte o per sedare
raffreddori, artriti e malumori accumulati
durante il giorno)? Come non tenere conto
dei profumi di cui si aspergono tradizionalmente
gli uomini e le donne tuareg e che, in contesti
pubblici, vengono spruzzati sugli astanti e
sull’antropologa dal padrone di casa? Allo stesso
modo come ignorare l’aptica, il senso del tatto,
i saluti che consistono nell’accarezzare per
almeno tre volte consecutive le dita della mano
e che ritmano la performance all’arrivo di ogni
nuovo ascoltatore, o la pressione sulla spalla
aguzza del vicino esercitata in sequenza col
metacarpo della mano, fra gli uomini in circolo,
quando un verso fa vibrare in loro una viva
emozione? E ancora come trascurare la
consumazione del formaggio di capra o del
tabacco da masticare, per gustare il quale si
interrompe la seduta? Come non ricordare
l’infinita litania del tè? Altri fattori, di scarsa
importanza per gli “occidentali”, richiedono
l’attenzione dell’etnologo: la presenza di animali
che entrano fortuitamente nel gruppo umano
e che si fermano a osservare e che partecipano
loro pure emettendo grida in momenti tutt’altro
che casuali dell’incontro poetico (secondo i
tuareg, infatti, gli animali, avvezzi fin da cuccioli
a vivere fra gli uomini, ne comprendono in
parte la lingua e manifestano anch’essi piacere
nell’ascolto poetico).
L’etnologo deve inoltre prendere in considerazione
la prossemica (lo studio della vicinanza fisica
fra i corpi), la cinesica (i movimenti dei corpi)
Letteratura e antropologia
e la vestemica (la tenuta e l’abbigliamento usati
dall’interprete e dai differenti membri
dell’uditorio). Non va neppure dimenticata la
differenza fra le diverse performances: è ben
diverso registrare una performance spontanea
(importante per la successiva analisi dei
comportamenti e delle interazioni fra l’interprete
e il suo pubblico) o una ricreata successivamente
al solo fine di isolare la voce che sarà poi,
complice la migliore acustica, testualizzata
più efficacemente. Sarebbe opportuno cogliere
entrambe le versioni.
Ritornato a casa, col suo bagaglio di
osservazioni, interviste, note e diari di campo,
impressioni raccolte, bande sonore e video,
l’etnologo dovrà analizzare il materiale raccolto.
In questa fase s’impongono la trascrizione
e la traduzione, un tempo operazioni ovvie,
ma oggi controverse (si veda al par. 5). Segue
l’applicazione del metodo comparativo tanto
in senso diacronico che sincronico e tanto per
la microarea, quanto per la macroarea. In senso
diacronico si comparano i poemi raccolti
con quelli che sono già stati oggetti di studio
precedente da parte di altri studiosi. Si può
infatti riscontrare che, a distanza di
cinquant’anni, p. es., lo stesso poema o canto
raccolto ha subito modificazioni e trasformazioni.
Cosa del resto naturale, dal momento che una
caratteristica dell’oralità è proprio quella di
rinnovarsi continuamente di generazione in
generazione (ogni cantore imprime infatti traccia
di sé e del suo operato): talvolta si riscontra
l’introduzione di neologismi e di nuovi simboli
per esprimere una trasformazione sociale ben
più rilevante. In senso sincronico si provvede
a comparare le differenti versioni dello stesso
poema o canto o racconto, raccolte nello stesso
periodo da differenti cantori o a distanza di poco
tempo dallo stesso: questo per studiare le più
piccole variazioni e come agisce l’elemento
creativo del narratore sul breve periodo e sulla
stessa traccia raccolta.
La comparazione per microarea si effettua
tenendo conto delle produzioni raccolte (tanto
in senso diacronico quanto in senso sincronico)
nello stesso contesto geografico: questo prevede
la comparazione con elementi simili prelevati da
altri studiosi o dallo stesso studioso su membri
appartenenti allo stesso gruppo etnico e parlanti
la medesima lingua, ma che abitano in un altro
luogo o che appartengono a un altro gruppo
sociale presente nelle vicinanze. Si deve inoltre
tenere conto dell’opportunità di operare una
comparazione su microarea anche riguardo
alle tradizioni letterarie presenti sul territorio
studiato, ma appartenenti a differenti gruppi
etnici.
Nel caso sopra citato dei tuareg, p. es., la
compresenza di peul nomadi e di haussa
sedentari nello stesso territorio, compositori
anch’essi di poemi in lingua differente, può
aver dato luogo a scambi, a conoscenze
reciproche, che l’antropologo, attraverso
opportune interviste, dovrà rilevare, tenendo
presente e consultando i suoi colleghi esperti
di poesia peul e haussa, al fine di far partecipe
dei propri dati la comunità scientifica nel suo
senso più esteso.
La comparazione per macroarea, un tempo
ampiamente diffusa in antropologia, è oggi
caduta in disuso a causa delle ovvie diffidenze
suscitate dalla disinvoltura con cui si ponevano
in connessione popolazioni residenti in zone
geografiche e continenti diversissimi, sulla
base di criteri tipologici scorretti, sia in senso
scientifico sia in senso etico-morale. Tuttavia,
casi di macrocomparazione di piccoli elementi
e in maniera controllata possono portare a
risultati inattesi: una comparazione su vasta
scala delle società nomadi a economia pastorale
presenti in tutti i continenti (i tuareg e i
peul nell’Africa saharo-saheliana, i sami in
Scandinavia, i tongusi siberiani, i beduini del
Vicino Oriente) mostra una poderosa pratica
della poesia orale, di gran lunga preferita
ad altre pratiche artistiche.
Un antropologo dovrà formulare a questo
proposito ipotesi convincenti (essendo popoli
nomadi, necessità di agilità e leggerezza nel
trasporto dei pesi fanno sì che sia prediletta
l’arte verbale rispetto a quella plastica, più
ponderosa, e saggiamente limitata tra i nomadi
alla decorazione accurata dei paletti delle
tende o dei monili). L’antropologo può inoltre
confrontare i diversi poemi riguardo alle
tematiche principali, cercando di cogliere
somiglianze e divergenze, e cercando di offrire
un’ipotesi interpretativa.
Un confronto inoltre con esperti di altri
temi d’interesse antropologico, come
l’etnomusicologia, può permettere all’esperto
di letterature orali di restituire un’immagine
più fedele della performance, perché l’espressione
verbale è spesso accompagnata da elementi
sonori, musicali e coreutici.
4. Un cambiamento di sensibilità teorica:
dalla struttura all’agency
È del 1983 il saggio che segna la così detta
“svolta letteraria” o literary turn in antropologia,
Works and Lives (Opere e vite) di Clifford
Geertz, fra i maggiori autori di antropologia,
esponente dell’antropologia interpretativa che
dagli anni Sessanta cercava di volgersi verso
i significati più che le forme (o le strutture).
In questo saggio Geertz compie un passo
in una direzione diversa: si occupa infatti di
“come scrivono” gli antropologi più che di cosa
scrivono, quali strategie narrative adottano per
richiamare l’attenzione del lettore sulla loro
autorialità, conferita non solo dall’essere stati
là, in luoghi esotici, ma anche dall’uso di un
determinato stile di scrittura. Il problema di
come scrive l’antropologo si lega al problema
della rappresentazione in antropologia e
richiama al tema dell’antropologo come autore.
Del 1986 è invece un altro testo, ancora più
radicale, Writing Cultures (Scrivere le culture),
in cui la questione della scrittura antropologica,
del genere etnografico, della monografia, dei
mutati rapporti politici dopo il colonialismo,
sono analizzati da parte di autori quali Vincent
Crapanzano, George E. Marcus, Renato Rosaldo,
Talal Asad, Michael Fischer e Paul Rabinow.
In questa congiuntura favorevole si avvicina
all’antropologia statunitense James Clifford,
critico letterario prestato all’antropologia, il
quale analizza i procedimenti discorsivi e la
scrittura etnografica come se fosse un genere
letterario vero e proprio in un’opera rilevante
come The Predicament of Culture (I frutti puri
impazziscono) del 1993. Sembra nascere una
nuova corrente che permette la pubblicazione
di poesia antropologica in molte riviste, liberando
una scrittura antropologica meno impaurita dal
tratto soggettivo e dichiaratamente narrativo.
In questo clima creativo nascono etnografie
sperimentali come Nisa di Marjorie Shostak del
1981 e Tuhami di Vincent Crapanzano del 1980,
etnografie riflessive e dialogiche e soprattutto
incentrate sul rapporto con un solo individuo.
Alla fine del sec. XX, l’antropologia statunitense
sembra riavvicinarsi alle tematiche umanistiche
e letterarie che avevano impegnato in privato
i rappresentanti dell’antropologia boasiana.
Ora, passato il periodo della fondazione
boasiana, i confini netti e autoprotettivi,
tracciati dall’antropologia per inserirsi nel
319
Letteratura, arti, scienze
Maschera di cultura
Attié, proveniente
dalla Costa d’Avorio,
legno, Parma,
Collezione privata.
mondo accademico, si affievoliscono.
Molti autori contemporanei (principalmente
statunitensi) sono impegnati perché
l’antropologia si consideri più una disciplina
umanistica che una scienza sociale e per
contribuire alla costruzione di un’antropologia
di impianto unicamente letterario e filosofico
(ermeneutico).
Grazie al rinnovato legame con le discipline
umanistiche, nuove tematiche oltre a quelle
dominanti, le quali miravano a portare in luce
soprattutto le strutture sociali, emergono e
acquisiscono una relativa centralità: di solito
vengono indicate con il termine inglese di
agency.
Agency è un concetto complesso che incorpora le
nozioni di creatività individuale, intenzionalità,
ribellione, affettività, pulsionalità, soggettività,
riconoscendo all’individuo il ruolo attivo di
plasmatore di cultura, non solo di passivo
ricettore. L’agency, di scarsa importanza per
l’antropologia che si occupava di “strutture”
sociali, viene ora a occupare un ruolo destinato
ad accrescersi nei prossimi anni.
L’influenza che questo genere di riflessioni
esercita sulle “letterature orali” è notevole
perché la prospettiva funzionalista per cui la
letteratura orale è solo espressione di coesione
sociale, dunque qualcosa di legato più alla storia
orale e alla tradizione orale che alla creatività
letteraria, cede ora il passo a nuove forme che
puntano sull’individuo, creatore di letteratura,
piuttosto che nascondere quest’ultimo
nell’anonimato e nell’atemporalità, “funzionali”
al mantenimento della tradizione.
In questa nuova voga antropologica è stata
riscoperta la poesia orale come maniera di
comprendere i “soggetti nativi”: un caso
rilevante è quello di Lila Abu-Lughod, col suo
Veiled Sentiments (Sentimenti velati), che ha
avuto numerosi imitatori e imitatrici, che utilizza
la poesia in maniera strumentale allo studio
dei sentimenti fra le donne beduine egiziane.
5. Dai prodotti alla produzione, dalla letteratura
orale all’arte verbale
320
In sintonia con i recenti cambiamenti nel vivace
dibattito antropologico, forti critiche sono oggi
mosse a carico degli studi di letteratura orale,
critiche costruttive e produttive di un nuovo
modo di studiare letteratura orale, aggiornato
e più sensibile alla partecipazione dei soggetti
post-coloniali alla riedificazione di tale ambito
disciplinare.
Ai suoi esordi, lo studio della letteratura orale
sembra caratterizzato da un interesse maggiore
per il prodotto che per la produzione, vale a dire
un’attenzione per la fase conclusiva del lavoro
di creazione orale, i poemi, canti, raccolti al fine
di creare un’antologia e sottoporli a un processo
di testualizzazione. Dominava allora una
sensibilità simile a quella che presiedeva alla
nascita del museo etnografico, in cui gli oggetti
esotici venivano classificati, secondo criteri o
tipologici o geografici, per garantire una migliore
catalogazione, ripartizione in generi,
conservazione e comparazione transculturale.
L’approccio alla letteratura orale nasce senza
dubbio con lo stesso intento, quello di
“museificare” per preservare un patrimonio
culturale immateriale che si sente in pericolo
di scomparsa. L’obiettivo è quello di creare
delle antologie della tradizione orale, ordinate
anch’esse in base a criteri tipologici o geografici,
archivi di testi orali, in cui l’oralità sia fissata
e conservata una volta per tutte, messa al riparo
dallo scorrere del tempo e dall’oblio.
L’ambito delle letterature orali nasce inoltre
per superare il pregiudizio che solo le letterature
scritte possano produrre composizioni di alto
livello estetico, mentre le composizioni orali
apparterrebbero a un genere inferiore, che può
suscitare interesse solo in quanto curiosità
etnografica, non certo per un intrinseco valore
artistico.
Ora, esattamente come accade negli anni Ottanta
e Novanta per l’antropologia museale, anche
l’antropologia della letteratura orale si trova
ad affrontare temi scottanti al suo interno, che
le impongono di ri-orientare i suoi presupposti
teorici-metodologici.
Se per l’antropologia museale uno dei temi più
brucianti era quello della “rapina” sistematica
di oggetti esotici sottratti ai loro contesti
d’origine, attraverso la quale si erano costituiti
i musei etnografici, per l’antropologia della
letteratura orale, che si occupa del patrimonio
artistico immateriale, il tema della “rapina”
si declina in maniera più sottile, ma non meno
insidiosa.
Tenuto conto del passaggio dal prodotto alla
produzione, del fatto che si privilegia un
approccio processuale, con cui si cerca di
comprendere tutto quello che viene prima
Letteratura, arti, scienze
322
del poema (come il cantore forma il suo
repertorio di canzoni, come e quanto dura
il suo apprendistato ecc.), al centro del dibattito
appaiono i temi della testualizzazione forzata
dell’oralità, della decontestualizzazione del
prodotto artistico dissociato dal suo contesto
e dal suo processo di produzione, della
classificazione arbitraria in generi letterari
di impronta occidentale per favorire una
comparazione trans-culturale fittizia.
Le critiche sopra enucleate, espresse dagli
intellettuali affiliati al gruppo dei (Post)-Colonial
Studies, al collettivo dei Subaltern Studies
e dei Translation Studies, scatenano un acceso
dibattito in ambito anglofono. In breve, i (Post)Colonial Studies si occupano di analizzare il
fenomeno della marginalità coloniale, utilizzando
la prospettiva soggettivistica aperta dal
Decostruzionismo il cui fine, in questo caso,
è di restituire ai colonizzati lo status di soggetti
dei loro discorsi e della loro storia.
Essi infatti sottolineano che lo studio delle
culture e delle società non occidentali è sempre
stato prodotto senza la partecipazione delle
popolazioni chiamate in causa, semplici
“oggetti” del discorso colto dell’etnologo e
dell’antropologo, ma mai chiamati a intervenire
sulla scelta dei metodi e dei paradigmi, le ipotesi
e le conclusioni. Gli intellettuali nativi (post)colonialisti vorrebbero sostituirsi alla voce
assente dei nativi.
A essi fa eco il collettivo dei Subaltern Studies,
concorde sull’idea di colmare le lacune del
discorso storico dominante ma dubbioso sul fatto
che gli intellettuali nativi (post)-colonialisti,
appartenenti a una classe colta ed egemonica,
possano parlare a nome dei ceti nativi subalterni.
Il principale problema che si trova oggi ad
affrontare l’antropologia della letteratura orale
riguarda la testualizzazione dell’oralità, più
interessata alla raccolta e allo studio del
“prodotto culturale” (i “testi orali”, collocati
in appositi musei della carta stampata, come
le antologie) considerata dagli studiosi postcoloniali come una violenza simbolica, i cui
corollari sono una sorta di “mummificazione”
dell’aspetto vivente delle letterature orali.
Nell’opera di testualizzazione ha un grande
peso il lavoro arduo della trascrizione foneticofonologica e quello della traduzione che,
investendo il senso del componimento artistico,
si presenta come uno tra i momenti più delicati
dell’intero lavoro, momento che i Translation
Letteratura e antropologia
Studies interpretano come suscettibile di
manipolazione ideologica, strumento anzi di
“normalizzazione” dell’alterità e della differenza
culturale, in funzione dell’espansionismo
culturale e politico del capitalismo occidentale.
La testualizzazione forzata delle arti del
linguaggio implica per gli antropologi la
questione della decontestualizzazione dei
componimenti orali, ridotti a pagine scritte
in antologia, “prodotto” letterario, uguale
a tanti altri creati invece per essere scritti,
senza tenere conto del processo di produzione
e dell’imprescindibile elemento performativo.
La scrittura trasforma l’oralità e il contesto
estetico in cui è nata la produzione, ovvero
trasmuta un brano di letteratura orale,
contestualizzato, musicato, danzato, cantato,
in una pagina di carta scritta una volta per
sempre, mentre sappiamo che le caratteristiche
dell’oralità sono la continua trasformazione
e reinterpretazione dei brani oltre all’insieme
performativo.
Gli studi di letteratura orale, considerati dagli
intellettuali (post)-coloniali come un’invenzione
dell’Occidente, sono stati per lungo tempo
impregnati di una testualizzazione delle pratiche
culturali in cui l’elemento verbale si trova
in effetti ingabbiato in “testi” analoghi di
cui si possono induttivamente scoprire le
costanti poetiche e letterarie, in generi orali
transculturali, esattamente come avveniva per
gli oggetti esposti nei musei etnologici.
Il problema serio si pone quando i critici letterari
occidentali, privi per lo più di una formazione
antropologica, senza mai aver raccolto loro stessi
questi testi, coabitato e condiviso il quotidiano
coi loro produttori, pensano di poter operare
con le trascrizioni dei poemi nativi come fossero
pagine scritte da un autore occidentale, per
le loro finalità accademiche e ai fini di una
comparazione transculturale incurante del
contesto dell’opera letteraria.
Si genera quindi un circolo vizioso, che comincia
col descrivere una letteratura orale esotica,
costruire dei generi transculturali e infine
enunciare i tratti universali della letteratura,
ma che finisce sempre col fornire un riflesso
solo appena deformato delle categorie che
strutturano la poetica occidentale. Quando
lo studioso di oralità intraprende una
comparazione transculturale, la concezione
letteraria occidentale riprende il sopravvento
e sarà inevitabile che la comparazione si effettui
nel contesto egemonico della cultura occidentale.
La stessa definizione di “letteratura orale”, la
cui etimologia è legata al latino littera reca in sé
un controsenso: si può parlare di “letteratura
orale”? Quindi oggi si preferisce sostituire alla
dizione “letteratura orale” quella di “arte
verbale”.
Dall’altro lato siamo sicuri che esistano
universalmente e siano ovunque presenti
le categorie di arte, letteratura e poesia?
Innanzitutto occorrerebbe scoprire i lessemi
indigeni che si avvicinano al corrispettivo
occidentale. È meglio dunque che lo studioso,
all’inizio del suo lavoro, sia cauto e sospenda
momentaneamente le nozioni di “letteratura”,
“poesia” e si concentri sulle pratiche e la
performance in cui la componente verbale
sia abbastanza netta.
Studiare la struttura del verso, le metafore,
la coesione interna, sono problemi fondamentali
per il linguista o per il critico letterario, e forse
anche per l’antropologo, ma solo dopo aver
concluso il suo precipuo lavoro, che consiste
nello studiare le pratiche sociali sottostanti alla
performance, secondo l’insegnamento di
Geneviève Calame-Griaule, la quale presenta
una ricca descrizione delle teorie della parola
dei dogon, presupposto culturale indispensabile
alla comprensione della loro arte verbale.
6. La nozione di “patrimonio immateriale”
e la sua salvaguardia
Le questioni sopra esposte, relative al patrimonio
culturale immateriale extra-europeo, riaffiorano
in maniera ardua, quando dal piano della
discussione astratta si passa al concreto,
dall’antropologia culturale all’antropologia
applicata.
Tali problemi sono oggi in primo piano per
quello che riguarda il vasto progetto finanziato
dall’Unesco che mira alla salvaguardia del
patrimonio artistico dell’umanità, sia per quello
che riguarda i beni materiali (riserve naturali
o monumenti architettonici) sia per quel che
riguarda i beni artistici immateriali e intangibili,
e questo è il caso delle letterature e delle
tradizioni orali. L’impegno profuso dall’Unesco
suscita un acceso dibattito su una serie di
questioni che hanno stretta attinenza con
quanto enunciato prima.
Innanzitutto si segnala un problema relativo
alla parcellizzazione del patrimonio orale sulla
base delle categorie occidentali che suddividono
i diversi generi: si procede a distinguere e
classificare drasticamente il canto dalla poesia,
il teatro dal rituale, arrivando anche a
salvaguardare categorie particolari che non
hanno esistenza né senso nelle culture d’origine:
si protegge, p. es., l’espressione orale femminile,
quella infantile, quella degli anziani, quella
dei giovani con progetti mirati. Invece di
salvaguardare queste “categorie” astratte taluni
pensano sia meglio offrire un vitalizio ai maestri
del sapere o del saper-fare, “tesori viventi”,
per incoraggiare la trasmissione alle giovani
generazioni.
A questa soluzione è legato però un altro
problema connesso alla volontà di perennizzare,
dunque non solo testualizzando, ma anche
incidendo in videocassette, senza tener conto
che l’oralità risiede nella parola vivente che
muta di generazione in generazione, di narratore
in narratore, quindi la versione che gli esperti
dell’Unesco decidono di salvare sarà solo una,
la più recente, e il timore è che, così facendo, si
rischi di fissare, di mummificare un’espressione
vivente, rendendola una merce priva di anima
nel circuito turistico internazionale. In terzo
luogo si pone il problema, non da poco, del
diritto d’autore e di incisione rivendicato dagli
intellettuali nativi post-colonialisti, secondo
cui questo genere di progetti internazionali
rappresenterebbero una maniera d’impadronirsi
di risorse (in questo caso spirituali e letterarie)
per rinverdire le proprie.
Il mercato occidentale discografico della world
music si è alimentato anche sulle musiche dette
tribali, registrate spesso all’insaputa dei musicisti
del Sud del mondo che ora, complice la
diffusione globale dell’informazione a mezzo
televisivo, cominciano a rendersi conto della
rapina subita. Benché la ricerca di chi scrive
non fosse a scopo di lucro, mi è capitato,
all’inizio del mio lavoro, che mi venissero
richieste cifre abbastanza ingenti per un giovane
ricercatore (200 euro ogni incontro), anche solo
per ottenere un’intervista da una violinista
tradizionale tuareg (senza peraltro registrarne
la musica). Ho declinato la proposta, con più
di un pensiero di rammarico al peso scientifico
che avrebbe potuto avere la testimonianza
di quell’anziana violinista.
Quanto al diritto d’autore per la poesia e la
letteratura, sicuramente il mercato editoriale
Nelle pagine seguenti,
donne indiane che si
lavano in una piscina,
pagina del Codice
di Goa, ms. del sec. XVI,
Roma, Biblioteca
Casanatense.
323
Letteratura, arti, scienze
è più povero di quello discografico e il diritto
d’autore viene posto come una questione di
principio, di rispetto morale e di riconoscimento
della capacità individuale. La sensibilità
antropologica degli ultimi tempi fa sì che oggi
a nessun antropologo venga più in mente
di pubblicare sotto il suo nome i poemi orali
raccolti sul terreno, senza specificare chi li ha
composti (e dando l’impressione che nelle
società a tradizione orale non ci sia la percezione
dell’autore come da noi): oggi molti antropologi
presentano raccolte in cui, insieme al proprio
nome, figura anche quello dell’informatore e del
maestro di letteratura con cui hanno lavorato.
Altro grosso problema dibattuto è quello della
valutazione comparativa (in cui si dà preferenza
a produzioni letterarie che attirano il gusto
occidentale): in base a quale criterio si sceglie
un patrimonio intangibile da salvare, facendolo
passare per espressione di un gruppo (e non
dell’individuo che l’ha composto), e si nega lo
stesso riconoscimento alla tradizione del gruppo
attiguo, creando squilibri sociali, politici e anche
economici (fra popolazioni che sarebbero capaci
di inventarsi una tradizione da zero pur di
godere di un sussidio finanziario da parte di
un organismo internazionale)?
Un problema ancora più significativo per quello
che riguarda le ricadute è quello di sovraesporre
un gruppo su un altro creando competizione.
In questo, senz’altro l’etnologo, conoscitore
e frequentatore di lunga durata del terreno,
può essere con la sua professionalità un buon
mediatore fra organismi internazionali e gruppi
nativi.
7. L’antropologia letteraria
326
Oltre all’interesse professionale dimostrato
dall’antropologia nei confronti dell’espressione
artistica verbale, si segnala oggi una disposizione
più programmatica allo studio del fenomeno
letterario anche di tipo scritto. In questo ambito
rientrano senz’altro le letterature post-coloniali
francofone, anglofone e lusofone, scritte nella
lingua dell’ex colonizzatore per accedere a
un pubblico più ampio.
Occorre sottolineare che, per quanto la lingua
utilizzata per esprimersi sia di origine europea,
essa subisce un processo di appropriazione
da parte dei nativi che genera neologismi,
originalità sintattiche e una trasposizione
Letteratura e antropologia
dei tratti peculiari della letteratura orale
(ridondanze affabulative, teatralità, ricerca
di una risonanza col pubblico-lettore) nello
scritto. La tradizione orale non è per nulla
ignorata o dimenticata: essa è invece esaltata
e accresciuta e spesso lo scrittore scrive come
se recitasse, ponendosi nelle vesti di un griot,
di un cantastorie tradizionale. La lingua
straniera utilizzata nella scrittura (francese,
inglese, portoghese) risulta essere solo un
guanto che si adatta e si sagoma su una mano
antica, quella dell’oralità.
Esistono anche opere letterarie composte in
lingua indigena, poche per la verità, a causa
della difficoltà di operare una trascrizione
fonetica in caratteri a stampa di lingue mai
scritte con cospicua varietà dialettale, cosa
quest’ultima che pone una serie di problemi
di ordine linguistico e politico-antropologico
(in base a quale criterio preferire una varietà
dialettale all’altra e quali conseguenze questa
preferenza può arrecare all’interno della
comunità linguistica?).
Talvolta il ricorso a una lingua europea
non solo è la risposta pratica per soprassedere
a grattacapi pratici di trasposizione letteraria
(in fondo lo scrittore non è un linguista,
né un antropologo), ma permette di ovviare
anche a una serie di problemi a sfondo etnico.
Non dobbiamo inoltre scordare che, nel caso
dell’Africa, tutto il processo di scolarizzazione
spesso avviene non nella lingua materna ma in
quella dell’ex-colono (con disagi psicolinguistici
iniziali nella fase dell’apprendimento infantile).
Alla fine del processo educativo non sorprende
che l’allievo riproduca la stessa modalità nella
stesura di opere letterarie, privilegiando quindi
il francese o l’inglese.
Proprio perché le frontiere degli Stati africani
sono state concepite a tavolino, includendo
o escludendo popolazioni in modo del tutto
arbitrario, nasce oggi l’esigenza di creare delle
“comunità immaginate”, secondo la definizione
fortunata di Benedict Anderson, che necessitano
della fondazione di letterature nazionali. Un
esempio di questo genere può essere fornito
da chi scrive: all’Università di Ouagadougou,
dove studiavo al Dipartimento di letterature
orali, mi è capitato di osservare la grande
quantità di locandine ministeriali che offrivano
compensi in denaro a chi volesse scrivere prosa,
poesia, teatro con l’intento esplicito di fondare
una tradizione nazionale burkinabé di letteratura
scritta, per ovviare alla disparità presente
nei riguardi di alcuni stati confinanti, come
il Mali, che presenta un filone letterario nutrito
e internazionalmente noto.
L’antropologia letteraria nasce dunque con
l’intento di interrogare il testo letterario,
considerato come un importante strumento
di ricerca antropologica, capace di disegnare
un nuovo metodo di indagine antropologica.
È innegabile infatti che la letteratura esprima
pienamente la cultura dell’autore e della sua
epoca e costituisca un ricchissimo archivio di
informazioni per l’antropologo. Dall’altro lato,
la caratteristica da sempre propria della
letteratura di essere speculum animi, permette
di aprire una breccia nel terreno difficilmente
sondabile coi consueti strumenti dell’antropologia
(come l’osservazione partecipante), per studiare
la soggettività post-coloniale. Questo potrebbe
essere particolarmente proficuo se si ponesse al
centro dell’indagine il genere dell’autobiografia
letteraria, utilizzato come strumento di
comprensione dell’interiorità umana.
La letteratura si presenta quindi come fonte
di dati per un’antropologia impostata, da
un punto di vista teorico-metodologico, su
un piano storico-letterario e convinta che
attraverso la letteratura si possa svelare una
verità antropologica altrimenti inaccessibile.
Una seconda opzione potrebbe essere quella
di esaminare il testo letterario non soltanto
come fonte di dati, ma come oggetto o strumento
di indagine antropologica in sé. Due diverse
impostazioni teoriche – la letteratura come
fonte di dati e come oggetto o strumento di
conoscenza antropologica – hanno dato vita
a differenti linee di sviluppo dell’indagine.
La seconda linea d’indagine teoricometodologica individua, come tratto
propriamente umano della letteratura, la
capacità immaginativa d’invenzione del singolo:
tutte le culture hanno creato una letteratura
di immaginazione, che costituisce lo specchio
delle caratteristiche antropologiche fondamentali.
L’immaginazione e la fantasia diventano punti
cardine dello studio antropologico perché
riflettono una caratteristica antropologica
fondamentale: la tensione irrefrenabile
dell’individuo a superare se stesso e i confini
del mondo reale, creando immagini fittizie.
La finzione letteraria crea estensioni dell’umano,
superamenti di sé, grazie alla sua libertà da
vincoli pragmatici, mettendo in luce da un lato
la condizione umana, dall’altro la percezione
del reale da parte del soggetto, con conseguenze
sulla vita del singolo. La capacità immaginativa
creerebbe non solo mondi alternativi, ma
permetterebbe di canalizzare nel quotidiano
la quantità di fantasia necessaria, perché abbia
luogo lo sviluppo culturale. La letteratura non
si porrebbe quindi soltanto come utile strumento
di indagine antropologica, ma quale elemento
attivo di creazione culturale.
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