Quel che l`arte pubblica e partecipativa mettono in gioco

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DOSSIER
Nessuna partecipazione senza distanza.
Quel che l’arte pubblica e partecipativa
mettono in gioco
di Ivan Bargna
IMPOSSIBLE
SITES dans
la rue,
WIDESPREAD
STARES.
Foto di
Simona
Olivieri,
Genova 2011
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L
évi-Strauss diceva che l’antropologo non può non
provare un certo disagio davanti all’arte moderna:
il suo individualismo e accademismo, la perdita
progressiva della propria vocazione comunicativa e del
contatto con la realtà sociale la condannerebbero all’autoreferenzialità, a un linguaggio sempre più solipsistico, a
un’astrazione disancorata dall’esperienza sensibile o a un
ornamento privo di significato (Charbonier 1961). Vuota e
socialmente inutile, proprio perché privata della sua vocazione simbolica, l’arte moderna avrebbe perso quella capacità, che era dell’“arte primitiva”, di stringere e articolare
legami simbolici, di connettersi esteticamente al mondo
creando comunità.
Quando sosteneva questa tesi Lévi-Strauss era certo animato da una forte vena nostalgica, ma non si può riconoscergli una certa preveggenza quando nel 1965, immaginan-
do quella che sarebbe stata l’arte nel 1985, preconizzava
un’arte bulimica che avrebbe cannibalizzato la diversità
culturale, consumandola e banalizzandola, per poi esaurirsi in un’indifferente e svogliata inappetenza (Lévi-Strauss
1973). Se guardiamo a tanta World Art contemporanea e
al modo in cui saccheggia il pianeta non si può non dargli
ragione (Bargna 2010).
Se però volgiamo il nostro sguardo a tutte quelle forme
di arte partecipativa e di attivismo artistico che si sono
sviluppate dentro e fuori il sistema internazionale dell’arte (Kwon 2004; Scardi 2011; Mancini 2011) soprattutto a
partire dagli anni ’80 (ma con alle spalle la storia dei movimenti artistici e politici degli anni Sessanta e Settanta) possiamo chiederci se Lévi-Strauss non avrebbe avuto qualche
buona ragione per rivedere il proprio pessimismo.
Passando dalle performance, happening e body art degli anni
Sessanta, alle arti partecipative, relazionali e contestuali di
oggi, vediamo come gli artisti abbiano cercato sempre più
non di rappresentare la realtà, ma di prendervi parte, modificandola attraverso la creazione di situazioni, azioni e
manovre (Ardenne 2004).
Dalla produzione di opere si è così passati alla costruzione
di processi che rimettono in discussione il rapporto fra artista e pubblico, rendendo la materialità dell’opera spesso
effimera o inconsistente e ponendo piuttosto l’accento sulla dimensione site specific, situazionale e relazionale della
creazione.
Mossa da una forte tensione utopica, l’arte ha così mirato alla propria autodissoluzione, alla ricomposizione della
frattura fra tempi e luoghi del lavoro e del desiderio.
Nuovi percorsi artistici per incidere nella realtà
Uno degli sbocchi più conseguenti di questo percorso è
stato quello dell’arte pubblica e partecipativa. Gli artisti
che l’hanno praticata non solo hanno realizzato le loro opere in rapporto a luoghi specifici, mettendo in primo piano
le relazioni fra le persone che vi vivono più che lo spazio
nella sua mera materialità ma hanno talvolta anche cercato
di comprenderne le dinamiche sociali dall’interno, proprio
come fanno gli antropologi nelle loro ricerche sul campo.
Questo non solo per assicurarsi della ricaduta positiva del
proprio intervento, ma per coinvolgere direttamente i propri interlocutori (comunità di vicinato, professionali, minoritarie ecc.) sia nell’esecuzione dell’opera che nell’ideazione stessa dell’operazione artistica favorendo così forme
di autorialità condivisa.
In tutte queste operazioni all’arte è spesso attribuita una
valenza “democratica” e la capacità di fare comunità
(Bourriaud 1998) nella misura in cui richiede il coinvolgimento e la partecipazione diretta delle persone, promuovendo forme collaborative e cooperative e un’educazione
alla cittadinanza attiva o alla resistenza sociale, culturale e
politica (Bishop 2004, 2006).
Con lo smorzarsi negli anni Ottanta della speranza in una
trasformazione radicale della società, l’arte ha però dovuto
fare i conti con una sempre più diffusa estetizzazione della
realtà che invece di liberare la vita ha prodotto una mercificazione dell’esperienza: nella società dell’immagine, basata
su merci sempre più immateriali (simboli che diventano
brand) sulla centralità del marketing e del lavoro creativo,
sperimentiamo la penetrazione capillare delle logiche del
consumo e del profitto in ogni aspetto della nostra vita personale e sociale. L’arte non muore ma diviene il prodotto di
un sistema economico internazionale integrato.
Un ruolo centrale in questa diffusione sociale della dimensione estetica, immaginativa e creativa è quello giocato dai
media, sia dai mass media che operano con modalità topdown che dagli small media che funzionano in modalità
peer to peer: immagini televisive, film, foto scaricate o immesse in rete, video postati su You Tube costituiscono gli
ingredienti con cui in molte parti del mondo le persone
compongono sceneggiature di vite potenziali (Appadurai
1996) e si creano gruppi che hanno la forma di comunità immaginate, di forme associative in cui cioè il legame è
dato da ciò che “si immagina” di condividere (Anderson
1983).
Le pratiche artistiche relazionali e partecipative vanno dunque pensate su questo sfondo, a partire dal modo in cui si
innestano su processi sociali ben più ampi, niente affatto
marginali, underground o antagonisti; non basta guardare
all’intenzione dell’autore, occorre guardare all’arte come
parte di un dispositivo di potere e sapere e, nel contempo,
come ciò che gli resiste (Barravalle 2009).
Se la modernità è stata marcata dall’autonomia e dalla separatezza delle sfere di vita, dall’opposizione fra il tempo
della produzione e del lavoro e il carattere “disinteressato”
ed elitario dell’arte, la contemporaneità è invece contrassegnata dalla disseminazione dell’esperienza estetica all’interno della società e dall’apparente “democratizzazione”
dell’arte, nelle forme del design, del turismo culturale e
delle forme del lavoro “creativo”. In questo contesto non
solo il pubblico dell’arte ma più in generale i consumatori sono sempre più sollecitati a non restare spettatori,
a farsi coinvolgere nella costruzione e confezionamento
degli eventi e dei prodotti di cui sono destinatari. Così se
guardiamo ad esempio al museo, luogo da cui gli artisti
fuggivano per cercare la strada, oggi ritorna a nuova vita
proprio aprendosi al mondo esterno, stimolando pratiche
collaborative e partecipative di gestione e modalità interattive di fruizione, ma sempre più nello spirito dell’impresa,
della valorizzazione economica della cultura.
Nel vuoto della politica ridotta all’impotenza dall’economia finanziaria, nella decomposizione dello spazio pubblico e nella frammentazione dei conflitti, nell’importanza
sempre maggiore che assumono la dimensione estetica e
l’immaginario nella vita delle persone, l’arte sembra poter
costituire uno degli strumenti di governance così come di
espressione del dissenso, di volta in volta strumento e terreno di pacificazione, di empowerment, di rivendicazione
e resistenza.
L’arte sembra così ritrovare lo spazio dell’azione, la possibilità di incidere sulla realtà oltrepassando la propria separatezza ma in una situazione di crescente confusione che
Un momento
di Oikos
studio teatrale
di un nuovo
immaginario.
Foto
© marcosasia
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AeM 76 mag. 12
non è priva di rischi: mentre da un lato l’arte sembra quasi
svolgere una funzione di supplenza della politica agendo
da camera di compensazione, da prefigurazione di altri
mondi possibili o da strumento di integrazione sociale,
dall’altro l’agire sociale e politico si appropria dei linguaggi e delle pratiche dell’arte, assumendo pose sempre più
estetizzanti. Quel che ne esce è un quadro ambiguo in cui
il confine fra arte e assistenza sociale, fra pratiche di resistenza e tecniche di costruzione del consenso, fra disseminazione dell’esperienza estetica e creazione programmata
della cultura, appare sempre più mobile e incerto.
Una situazione che può costituire un pericolo sia per l’arte, che da un dorato isolamento rischia di passare a una
situazione di eteronomia e dipendenza, sia per la politica
che invece può fingere o illudersi che si possano surrogare concrete politiche sociali con operazioni di immagine e
comunicazione.
Nel crescente venir meno della distinzione fra pubblico e
privato, i conflitti sociali tendono a essere riformulati nei
termini di un disagio psicologico, in rapporto al quale la
risposta appropriata non è più un atto di giustizia sociale
ma quella di un gesto compassionevole che di volta in volta
prende la forma dell’aiuto umanitario, del counseling, della psicoterapia, dell’assistenza spirituale, della consulenza
filosofica, dell’arteterapia (Fassin 2006; Boltanski 1993;
Rovatti 2006).
L’arte partecipativa in alcune delle sue espressioni (in particolare quelle che fanno leva sul dialogo e la conversazione) sembra talvolta condividere questo paradigma, muovendo da una concezione idealistica dell’arte centrata sulla
creatività e da una visione moralistica della politica che fa
leva sulla mobilitazione delle energie interiori, che finisce con l’assegnare all’intervento artistico, in modo più o
meno consapevole, una finalità terapeutica e di redenzione
(Kester 2004). In questi casi l’arte assume la forma di una
cura volta a recuperare i deficit espressivi e comunicativi
di persone e comunità, divenendo così uno degli strumenti
della governance di istituzioni e aziende.
Non si tratta tanto di un trasferimento di conoscenze e di
competenze, quel che forse conta di più in molte operazioni di arte pubblica e partecipativa, non è neppure quel che
si fa, ma il semplice fatto che lo si faccia e lo si faccia insieme. In particolare è il creare qualcosa che va sotto il nome
di “opera d’arte”, qualunque cosa sia, che può diventare
fonte di empowerment (Gillian 1997): l’apprendimento e
l’esecuzione di gesti anche banali, per via del riconoscimento sociale di cui gode l’arte, diviene il segno della promozione sociale dei partecipanti. Chi sta ai margini viene
così portato, almeno per un momento, dentro il mondo
della cultura, “partecipando” a ciò da cui è ordinariamente escluso. Quel che al termine dell’operazione artistica le
persone dovrebbero portarsi a casa, traendone vantaggio
nella loro quotidianità, non sarà tanto lo specifico artistico,
quanto l’autostima rigenerante che ne potenzia le energie.
Che questo effettivamente accada o resti solo sulla carta dipende dalla situazione e dall’artista, ma sarebbe un errore
se gli artisti si limitassero a interrogarsi sulla efficacia delle
loro azioni senza riflettere sui dispositivi di potere e sapere
entro i quali operano e che contribuiscono a mettere in
campo.
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Artisti creatori di relazioni
In queste operazioni il ruolo dell’artista si avvicina a quel-
lo del facilitatore e del mediatore culturale: quello di un
catalizzatore che consente lo stabilirsi di connessioni proficue. La posizione dell’artista sembra oscillare, secondo le
situazioni, fra quella del demiurgo (che consente a persone
e comunità di trovare una propria forma ed equilibrio) e
quella di un prestatore di servizi (che fornisce un’assistenza tecnica alle intenzioni comunicative dei soggetti).
Queste forme dell’azione artistica sollevano molti interrogativi sia rispetto alla loro efficacia sociale che alla loro
artisticità e su ciò che intendiamo per arte, società, politica,
sul modo di distinguerle e tenerle insieme oppure di andare oltre. Se da un lato l’arte sembra fondersi o dissolversi
nella vita, dall’altro ci si può chiedere se non si tratti di
un’ulteriore tappa di quel processo di cannibalizzazione
della realtà da parte del mondo dell’arte di cui proprio
Lévi-Strauss si lamentava.
Certamente mistificatori, imbonitori e ciarlatani nel sistema dell’arte sono di casa e tuttavia credo che, non solo non
dovremmo buttare il bambino con l’acqua sporca, ma che
non dovremmo neppure illuderci di poter avere un giorno
acqua pulita. Fuor di metafora, quel che voglio dire, è che
l’ambiguità è consustanziale all’arte in quanto costruzione
simbolica perché, proprio come sosteneva Lévi-Strauss,
essa implica necessariamente una modellizzazione della realtà, un connubio di distanza e partecipazione, di realtà e
artificio (Lévi-Strauss 1962).
Questo vale anche per l’arte partecipativa i cui interventi
consistono spesso di gesti apparentemente banali e ordinari (coltivare un orto, cucinare, mangiare e conversare
insieme) in cui l’arte diviene “quasi” indistinguibile dalla
vita; è però proprio il capitale simbolico (l’aura, l’alone di
sacralità) di cui l’artista ancora può godere a mutare il significato di quei gesti, a intensificarne il senso, a conferire
loro valore: ciò che è banale diviene enigmatico, sollecitando l’attenzione, l’impegno e la riflessione dei partecipanti,
producendo così degli effetti. Quel che però continua a
differenziare l’intervento d’arte pubblica da uno di politica
sociale è quella cura estetica della forma che, nei casi più
riusciti, si carica di una portata simbolica che conferisce
all’operazione un carattere di esemplarità, un’ulteriorità, che va oltre l’efficacia immediata del gesto tecnico. In
questo senso la modellizzazione della realtà (Geertz 1973)
operata dall’arte non vale solo come “modello di” (rappresentazione del mondo) ma anche e nel contempo come
“modello per” (prefigurazione, incarnata nel fare, di una
realtà da realizzare).
Nell’apparente contraddittorietà con cui nel contempo
afferma e nega l’artisticità della sua operazione, l’artista
costruisce uno spazio liminale (Turner 1982) in cui diviene
possibile sperimentare modalità diverse di relazione. Il porre un’azione sotto il segno dell’arte consente cioè – come
nel gioco – di affermarne il carattere di finzione (qualcosa
di meno della vita reale, di cui sospende temporaneamente
gli effetti) ma anche – come nel rito – di sostenere che vi sia
qualcosa di più rispetto alla vita ordinaria, trasfigurando la
banalità dei gesti nel simbolo (Bargna 2011).
Proprio per questa sorta di sacralità secolarizzata le forme
dell’arte relazionale e partecipativa si prestano a un uso
pubblico che ne faccia strumenti retorici e ideologici di acquisizione del consenso, d’integrazione culturale di gruppi
marginali e subalterni ma anche luogo di espressione del
dissenso e di altri mondi possibili. L’immaginario è infatti
il luogo a partire dal quale si può costruire la propria pro-
testa, quel che fa sì che la vita non si riduca all’esistente e
al “copione pubblico” messo in scena dal discorso dominante (Scott 1990). Da questo punto di vista, l’arte non è
quindi solo un sostituto della resistenza politica ma una
delle condizioni della sua esistenza: definisce uno spazio
dentro il quale la resistenza diventa immaginabile e quindi
possibile.
Ivan Bargna è ricercatore e docente di Etnoestetica ed Etnologia presso l’Università di Milano Bicocca. È autore di
Arte africana, Jaca Book, 1998 e 2003
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What public and participative
art put at stake
A
ccording to Claude Lévis-Strauss, Modern art
lost its main characteristic that is the power
of creating symbolic links, typical of the so-called
“primitive art”. Nevertheless, if we start reflecting
on participative art and its different forms, which has
been developed at international level in the ’80s as a
result of many political and artistic movements in the
’60s and ’70s, we might change our mind.
The evolution of this type of art demonstrates how
artists have tried to engage into the real world through
their own experiences rather than simply representing it. This led the artists’ transition from creating
their work alone to having the community work on
it as a whole. Participative art projects usually take
place in symbolic places, and try to appreciate social
dynamics. In this context the public is asked to participate in the creation of the art works rather than
just being a spectator.
Politics has recently lost its public role by detaching from its own citizens because of excessive care
of finance and aesthetic. Therefore participative art
has taken over the role of politics becoming a new
form of governance, reflecting society’s dissent and
empowerment. However this new vocation has its
down sides. One of them is the risk that politics will
rely on participative art rather than on conceptualizing new and more effective social policies. It might let
art trying to solve people’s issues disregarding social
policies. Another negative feature is that art might
become more of a tool for the government, which will
result in the loss of its independence and authenticity
turning it into a political tool.
Performance in participative art requires that everyday events convey new meanings. The importance
that society gives to art and its productions allows
this transfiguration. This process might help marginalized people gain self-esteem through the process of
making art. The power of defining a normal gesture
under the label of art permits its transformation into
a symbol by intensifying its meaning. At the same
time participative art creates places in which it can
express dissent and elaborate new social reforms. In
this process the role of the artist is that of a cultural
mediator: a person that permits the creation of social
and fruitful connections.
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