L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO (SINTESI PER I PARTECIPANTI AL CONVEGNO) MARINA BROLLO, UNIVERSITÀ DI UDINE • L’ALLARGAMENTO DELL‘EUROPA: LE SFIDE Nell’epoca della crescente globalizzazione dell’economia, l’allargamento dell’Unione europea (1) ai dieci Paesi dell’Europa Centrale e dell’Est (2) e la candidatura dei nuovi quattro Paesi (3), al di là della portata storica e simbolica, costringe i vecchi quindici Paesi (4) ad affrontare nuove e grandi sfide sia esterne che interne, specie in relazione al mercato del lavoro (vedi la tabella 1). Il recente allargamento, essendo il più consistente nella storia della Ue (per il numero di Paesi e di popolazione) (5) e il più impegnativo per l’ampio divario economico (6), politico e giuridico fra vecchi e nuovi membri, fa diventare l’Europa più grande (vedi la tabella 2), ma anche più diversa, disomogena e meno integrata, quindi meno unita. • IL MERCATO DEL LAVORO TRA ALLARGAMENTO E REGIONALIZZAZIONE E’ noto che, in gran parte dei Paesi europei, il diritto del lavoro è nato ed è cresciuto nella dimensione relativamente chiusa dello Stato-nazione. Tuttavia, negli ultimi decenni, la sua identità è influenzata da un rapporto intenso con l’Europa e con il Diritto comunitario del lavoro; e lo sarà ancor di più con l’entrata a regime dell’allargamento del mercato del lavoro. 1 L’Unione europea è stata creata dal Trattato di Maastricht (1992) quale sviluppo della precedente Comunità europea, a sua volta figlia della CEE, CECA e CEEA. 2 Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta: vedi la tabella n. 1 3 Romania, Bulgaria, Croazia e Turchia: vedi la tabella n. 1. Per i primi due l’ammissione è prevista per il 1° gennaio 2007. Romania e Bulgaria intrattengono già significativi rapporti economici con l’Italia. Il caso della Croazia è più complesso, anche in quanto rappresenta l’apertura all’area dei Balcani. La candidatura della Turchia, paese islamico moderato, è la più complicata, soprattutto per questioni di natura politica: dal rispetto dei diritti umani alla ‘questione curda’, dall’amministrazione giudiziaria e carceraria, all’occupazione della parte settentrionale di Cipro. 4 Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Regno Unito, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia: vedi la tabella n. 1. 5 Sui precedenti allargamenti dell’Europa vedi la tabella n. 1. Secondo le statistiche di Eurostat (l’Ufficio statistico della Ue), con l’allargamento l’Unione aumenta circa del 20%, diventando la terza entità politica per popolazione dopo la Cina e l’India: vedi la tabella n. 2. Complessivamente, nel 2004, nell’Ue a 25 si contano 194,5 milioni di lavoratori tra i 15 e i 64 anni. Dei nuovi entrati, la Polonia è il paese più grande e più abitato e con un tasso di disoccupazione che sfiora il 20%. Inoltre, per l’Italia, rappresenta il principale partner sia per le importazioni sia per le esportazioni. 6 Le economie dei nuovi entrati sono caratterizzate da un maggior peso dell’agricoltura e dell’economia informale rispetto alla media della vecchia Ue. M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO Ma è probabile che il nuovo mercato europeo allargato imponga un cambiamento allo stesso paradigma del diritto comunitario del lavoro. L’ingresso dei nuovi Paesi, con le loro diversità, mette in crisi sia la vecchia idea di un’armonizzazione spinta, intesa come processo di uniformazione e di eliminazione delle differenze nazionali; sia la tradizionale tecnica di armonizzazione legislativa ‘pesante’, mediante direttive corpose contenenti non solo principi ma anche regole. Con l’allargamento sta maturando la consapevolezza che le diversità di regolamentazione non sono necessariamente un ostacolo allo sviluppo. Per cui l’armonizzazione di diritti nazionali deve essere ripensata e riregolata, paradossalmente, come processo di differenziazione, anziché di uniformità. Cioè, come mantenimento delle differenze socialmente sostenibili, in un quadro di progressiva integrazione sociale ed armonizzazione con nuove tecniche di soft laws (fra le quali le direttive ‘contrattate’), di guidelines, ecc. e con l’applicazione graduale delle discipline. E’ probabile che fra diritto comunitario e diritto nazionale si instauri un rapporto simile a quello fra diritto nazionale e diritto regionale, cioè di ambiti di competenze esclusive e ambiti di competenze concorrenti in cui il livello più alto (la Ue) pone i principi e il livello più basso (le nazioni e le regioni) le regole di dettaglio nel rispetto dei principi. Anche se, si rammenta, che alcuni importanti aspetti del lavoro risultano ancora sottratti alla competenza comunitaria (ad esempio, la retribuzione e lo sciopero), mentre altri restano soggetti alla logorante regola dell’unanimità (ad esempio, la sicurezza e la protezione sociale e le condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi). Infine si segnala che l’ordinamento normativo è reso più complesso dall’operare di nuove istanze di neo-regionalizzazione o di federalismo. Il sistema delle fonti italiano, delineato dalla riforma costituzionale, sembra mostrare l’esistenza di una relazione diretta fra Regioni e Unione europea in merito alla attuazione delle direttive comunitarie su materie di competenza esclusiva e concorrente delle regioni. • L’ITALIA FRA DECLINO E SVILUPPO In questa fase di transizione, l’Italia –che è tra i Paesi fondatori della Cee– sembra in particolare difficoltà sul piano economico. E’ vero che l’economia dei Paesi dell’area dell’euro (7) –secondo le ultime stime del Fondo monetario internazione– appare in crescita quasi anemica (1,3) rispetto alla crescita robusta degli Stati Uniti (3,5) e a quella più che vigorosa della Cina (8,5). Ma in Italia lo sviluppo non c’è e non si intravede, anzi nei saggi degli economisti e nelle indagini giornalistiche si parla di un’economia in declino, caratterizzata fra l’altro da: bassissima crescita della produttività, stagnazione dell’economia, decelerazione della dinamica occupazionale, bassa crescita dei salari reali, invecchiamento della popolazione e forti squilibri territoriali del Paese. E’ noto che l’economia italiana da tempo soffre di difetti strutturali, specie nei settori tradizionali sempre più esposti alla concorrenza dei Paesi in via di 7 Vedili nella tabella n. 1 allegata. 2 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO sviluppo. Ma, in questo inizio di XXI° secolo, l’Italia sta vivendo un periodo di deciso rallentamento che scivola nel declino, con un sistema produttivo che arranca, con una capacità competitiva in crisi e con una produttività del lavoro in calo. In definitiva, l’Italia sembra un paese in ritardo, quasi schiacciato sul presente, che perde posizioni nella competizione europea ed internazionale. Da qui il diffondersi di aspettative di lavoro e di vita al ribasso, una forte incertezza e insicurezza sul futuro. Il senso di pessimismo e di arretramento, la percezione più di rischi che di vantaggi, diffondono una paura del cambiamento, del mutamento nelle condizioni di vita degli individui. Se così è, non sorprende che dinanzi all’allargamento dell’Unione scatti, quale meccanismo di difesa, la tentazione protezionistica dei cittadini sia dentro che fuori delle proprie frontiere, con la richiesta di misure di chiusura dei mercati (barriere doganali, chiusura degli accessi, ecc.). A ben vedere, le politiche protezionistiche ampliano l’influenza della politica sull’economia (che conserva i privilegi di pochi protetti) e minano le capacità evolutive del sistema, cristallizzando la situazione attuale. La tentazione difensiva –basata sul falso luogo comune che i posti di lavoro siano fissi– è pericolosa, affronta le nuove sfide della competizione con la vecchia ricetta della chiusura in se stessi e nel presente. La paura del cambiamento alimenta il desiderio di restare fermi, se non la nostalgia del passato. Viceversa, la via della competitività e dello sviluppo chiede un maggior grado di apertura dei mercati, richiede il coraggio di affrontare il percorso per l’innovazione al fine di valorizzare al meglio le risorse del nostro Paese. L’apertura delle frontiere, se gestita bene, può essere, anche tenendo conto dei noti problemi demografici e di welfare dei Paesi maturi, una opportunità di crescita e di creazione di nuova occupazione, in sintonia con il rilancio della strategia di Lisbona (8). Per essere all’altezza dei tempi occorre camminare verso un mercato paneuropeo della manodopera caratterizzato dalla mobilità geografica e professionale. • MERCATO DEL LAVORO ALLARGATO: RISCHI E OPPORTUNITÀ In questo scenario, il recente allargamento dell’Unione europea e la possibile ulteriore espansione dei mercati del lavoro verso i Paesi limitrofi (non solo quelli già candidati, ma anche quelli posti ai nuovi confini della Ue) (9), con la creazione di un mercato del lavoro sempre più ampio e diversificato, possono essere vissuti come una minaccia per l’occupazione nazionale o come una opportunità da cogliere. Come anticipato, l’allargamento determina l’ingresso nella Ue di nuovi Paesi caratterizzati da condizioni socio-economiche, sistemi e regolamentazioni del mercato del lavoro assai diverse da quelle dei vecchi Paesi membri. Inoltre, l’ampliamento determina un aumento consistente della popolazione Ue (10), 8 Proposto dalla Commissione europea COM (2005) 24 del 2.2.2005, “Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della strategia di Lisbona”, e accolto dal Consiglio europeo del marzo 2005. 9 In particolare fra quelli dell’ex blocco sovietico si distinguono, per maggiori simpatie verso la Ue, l’Ucraina e Bielorussia, (non a caso presenti al convegno di Udine). 10 Rinvio alla precedente nota 5. 3 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO seppur senza provocare una cambiamento nelle tendenze demografiche (verso una diminuzione della popolazione attiva e un processo di invecchiamento). E’ evidente che ciò solleverà delicate ed importanti problematiche sul mercato del lavoro: a partire dall’assottigliamento dei fondi strutturali europei per gli aiuti di stato all’occupazione (da usare per sostenere la crescita dei nuovi Paesi più arretrati) per chiudere con le misure di politica del lavoro attuabili dai legislatori regionali. L’apertura a Est profila, quindi, un nuovo scenario sociale dai caratteri incerti, se non inquietanti, che metterà a dura prova le capacità regolative dell’occupazione sia dei singoli sistemi nazionali e locali che della stessa Unione europea e, all’interno di essi, del ruolo della contrattazione collettiva, (a livello europeo, nazionale e decentrato). • I NODI CRITICI: LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI I nodi più delicati del processo di allargamento, soprattutto per le regioni del vecchio ‘confine’ (come il Friuli Venezia Giulia) (11), sono due: • la libertà di circolazione dei lavoratori; • la propensione delle imprese dei Paesi ‘ricchi’ a delocalizzare le produzioni nei Paesi ‘poveri’ con un costo del lavoro più basso. Qual è il contenuto del “diritto” alla libera circolazione? La libertà di circolazione, sin dalla prima versione del Trattato (Roma, 1957), sostanzia fondamentalmente il divieto di «qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, fra i lavoratori degli Stati membri per quanto concerne l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro» (12); salvi alcuni limiti (13) progressivamente limati dalla Corte di Giustizia europea. All’inizio, le norme sulla libera circolazione di lavoratori comunitari erano pensate soprattutto per permettere alla manodopera italiana di emigrare verso gli altri cinque Stati della Comunità. Nel corso del tempo, mentre le norme 11 Si segnala che la recente legge regionale Friuli Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18, Norme regionali per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro, dedica un titolo (il sesto) alla “Internazionalizzazione del mercato del lavoro”. Ai nostri fini si segnala, in particolare, il contenuto dei primi due commi dell’articolo 57 (Internazionalizzazione del mercato del lavoro): “1. La Regione favorisce lo sviluppo delle relazioni in materia di lavoro con le Regioni e gli Stati vicini, in particolare con quelli dell’Europa centro-orientale e dei Balani, con l’obiettivo di promuovere la cooperazione, la circolazione dei lavoratori, lo scambio di esperienze e la collaborazione in materia di lavoro e di formazione. 2. La Regione promuove la costituzione di reti internazionali tra i servizi per l’impiego e i corrispondenti servizi degli altri Stati, al fine di favorire la migliore conoscenza dei rispettivi mercati del lavor, della legislazione e delle prassi amministrative in materia di lavoro e lo scambio di esperienze. La Regione, in particolare, può concorrere al sostegno delle spese relative all’attuazione dei programmi previsti nell’ambito della rete europea di servizi all’impiego EURES (European Employment Services)”. 12 Ora artt. 3, 39-42 Trattato CE, cui si aggiunge il Regolamento CEE n. 1612/68 e successive modifiche, integrato da alcune direttive relative a specifiche figure di lavoratori, nonché le pronunce, spesso creative, della Corte di Giustizia, fra le quali spicca il caso Bosman. Da ultimo, è stata approvata (ma non è ancora entrata in vigore) la direttiva Ce n. 2004/38 che costituisce una sorta di testo unico della libertà di circolazione. 13 Limiti di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica e per gli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni che implicano la partecipazione all’esercizio dei pubblici poteri. 4 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO fondamentali sono rimaste le stesse, il flusso migratorio è cambiato. Anche l’Italia, da terra di esportazione del lavoro, è diventata un Paese che importa lavoro. L’allargamento della Comunità ad altri Paesi europei con alti tassi di disoccupazione e soprattutto, in tempi più recenti, l’esplosione dell’immigrazione dai Paesi extracomunitari hanno messo in luce un problema generale di governo dei movimenti migratori in Europa sia sotto il profilo dell’integrazione socio-economica che sotto quello dell’assimilazione culturale. Il principio della libertà di circolazione dei lavoratori costituisce un capitolo centrale e cruciale del diritto comunitario del lavoro. La centralità è confermata da vari elementi: • dal rilievo che la libertà di circolazione dei lavoratori rientra nella libera circolazione delle persone, la quale assieme alla libera circolazione delle merci, servizi e capitali, rappresenta uno degli obiettivi primari presente già nei Trattati originari (CECA, CEEA, CEE); • dalla considerazione che la libertà di circolazione delle persone è una delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione europea (art. I4) e che “ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare e di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro” (art. II-75); • dalla sua importanza nel tentativo di dar vita ad un governo dei flussi migratori in Europa, includendo anche l’immigrazione extracomunitaria. Perché la libera circolazione dei lavoratori neo-comunitari è anche una questione cruciale ? Perché presenta il rischio di tensioni occupazionali sui mercati del lavoro dei vecchi Paesi comunitari, specie se i flussi di migrazione si concentreranno sui Paesi confinanti. Il timore è quello di una concorrenza al ribasso, cioè di un dumping salariale e sociale. I lavoratori dell’Europa centro-orientale, alla ricerca di retribuzioni più alte (vedi la tabella 3) (14) e di prestazioni sociali più generose, potrebbero invadere i mercati di lavoro della vecchia UE, alimentando uno shock di offerta di lavoro, peggiorando le prospettive occupazionali e i salari dei lavoratori locali. • (SEGUE) LA DELOCALIZZAZIONE D’altra parte anche le imprese, visti i significativi differenziali di costo normativo e salariale del lavoro subordinato (vedi la tabella 4), nonché i differenti sistemi previdenziali e di welfare, tra i Paesi della vecchia e della 14 Sul punto è molto utile l’Indagine Europea sul Costo del Lavoro (European Labour Cost Survey o ELCS) (vedi tabella n. 3). L’indagine è realizzata con cadenza quadriennale, ma pubblicata con notevole ritardo. Le informazioni disponibili più recenti risalgono al 2000, quindi antecedenti all’introduzione dell’Euro, ma essendo state pubblicate solo nella metà del 2003 i valori monetari sono già espressi in Euro. Tra i vecchi paesi Ue, l’Italia (anche per la dimensione media delle imprese e per la specializzazione produttiva) figura nel gruppo di paesi caratterizzati da un basso costo del lavoro (avanti solo a Irlanda, Spagna, Grecia e Portogallo), mentre spicca (insieme alla Svezia) per l’elevata incidenza degli oneri obbligatori a carico dei datori di lavoro. Secondo i dati del Centro Studi della Confindustria (dell’aprile 2005) per 100 euro di retribuzione netta, il costo del lavoro (aggiungendo il cuneo contributivo e tributario) sale a 183. 5 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO nuova Unione europea sono tentate dalla delocalizzazione industriale, specie delle produzioni ad alta intensità di lavoro. Tale prospettiva, nei Paesi della vecchia Ue, sta favorendo la stipula di accordi sindacali al ribasso su orari e salari (quindi su diritti) in difesa dell’occupazione locale e degli interessi nazionali (a partire dal famoso caso della tedesca Siemens). Gli studi empirici, per un verso, non hanno dimostrato un legame diretto ed immediato tra delocalizzazione e perdita dei posti di lavoro, per l’altro verso, dimostrano che la scelta delle imprese di delocalizzazione dipende non soltanto dai fattori di costo del lavoro (15) ma anche da molti altri elementi, fra i quali spiccano: la qualificazione della manodopera e la cultura del lavoro, lo stato delle infrastrutture, il livello di conflittualità e lo stato delle relazioni industriali, il regime fiscale e l’eventuale presenza di incentivi, le complicazioni burocratiche, nonché il livello di criminalità. Inoltre, con gli attuali rischi di disoccupazione in agguato, il problema delle imprese italiane sembra non tanto quello di ‘catturare’ lavoratori a basso costo, quanto quello di conquistare nuovi mercati. Infine, anche se ci sarà un lungo periodo transitorio per avvicinare i livelli di reddito e di vita, la competizione al ribasso si attenuerà a mano a mano che aumenterà lo spazio sociale europeo sottoposto a standard omogenei o compatibili. Ovvero più i Paesi si avvicinano, più si elimina la delocalizzazione. • LA MORATORIA Ritornando ai lavoratori, la Ue a 15 non è riuscita a trovare un accordo su politiche comuni sui flussi né degli extracomunitari, né dei neo-comunitari. Per questi ultimi, in particolare, la Ue ha delegato ai singoli (vecchi) Stati membri le decisione circa un periodo di differimento dell’entrata in vigore della libertà di circolazione della manodopera (c.d. moratoria). La linea dura di Germania e Austria ha alimentato le preoccupazione degli altri di dover assorbire i flussi migratori deviati. Così, complice la debole crescita della vecchia UE, gran parte dei Paesi si sono allineati sulla scelta protezionistica di rinviare la libertà di circolazione dei lavoratori (salvo per quelli di Malta e Cipro). Secondo la tempistica prevista dal Trattato di adesione (16), la libera circolazione dei neo-comunitari potrà essere congelata al massimo per altri sette anni, cioè sino al 2011. Anche l’Italia –assieme a gran parte degli Stati membri (17)– ha aderito all’idea di differire l’apertura delle frontiere ai lavoratori subordinati in prima battuta per due anni, cioè sino al 30 aprile 2006. Ciò ha determinato il paradosso di persone che hanno lo status di ‘cittadini dell’Unione’ (cechi, estoni, 15 Secondo la citata indagine, nel 2000, la media europea del costo orario del lavoro era di 22 Euro (e di 19 Euro in Italia). Nei nuovi paesi Ue, il costo orario del lavoro si attesta tra 2 e 5 Euro. Nei paesi in lista d’attesa (sono disponibili solo i dati per la Bulgaria e la Romania) scende addirittura al di sotto dei 2 Euro. Tuttavia si ricorda che anche nella Ue a 15 esistevano sensibili disparità in materia salariale: con i paesi scandinavi e continentali nel gruppo ad alto costo e i paesi mediterranei (più l’Irlanda) nel gruppo a basso costo del lavoro. 16 Ratificato in Italia con la legge 24.12.2003. 17 Ad eccezione di Irlanda, Gran Bretagna e Svezia. 6 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO lettoni, lituani, ungheresi, polacchi, sloveni e slovacchi) che quando vestono i panni di lavoratori dipendenti restano stranieri, cioè extracomunitari. In altri termini, per otto dei nuovi entrati non vale, in via immediata e piena, una delle libertà fondamentali del mercato interno e della cittadinanza europea: la libertà di circolazione (che resta sospesa per due anni). Questi lavoratori pur essendo cittadini europei –a differenza dei tedeschi, francesi, inglesi, greci, austriaci, ecc. – non hanno il diritto di accesso all’impiego negli altri Stati europei. Devono, invece, rispettare i severi controlli previsti dalla legge BossiFini per il lavoro degli immigrati extracomunitari (18). Così, si verifica la curiosa situazione per cui il lavoratore sloveno (diventato neo-comunitario) che intende accedere al mercato del lavoro italiano dovrà chiedere il rilascio delle autorizzazioni al lavoro subordinato (19), allo stesso modo del lavoratore croato (che resta extracomunitario). A conti fatti, per i nuovi entrati l’accesso ai mercati del lavoro della vecchia Ue resta soggetto a controlli, molto lunghi e complicati, con pesanti interferenze sulla disciplina lavoristica delle ragioni di ordine pubblico relative all’ingresso e al soggiorno in Italia degli stranieri. A ben vedere, le paure di un’invasione ‘selvaggia’ dall’Est appaiono assolutamente ingiustificate, anche in considerazione del fatto che dei nuovi entrati solo la Polonia e la Slovacchia hanno problemi di disoccupazione. Inoltre la mobilità è frenata vuoi dai costi del trasferimento, specie per i lavoratori con famiglia, vuoi dalla presenza in loco di regimi di prestazioni sociali in caso di disoccupazione. • IL PARADOSSO DELL’EUROPA ‘A METÀ’ Nonostante la riunificazione delle due Europe, quella ‘Occidentale’ e quella del Centro-Est, il rinvio dell’apertura delle frontiere ai lavoratori neo-comunitari e il mantenimento di una barriera all’ingresso dei lavoratori dell’Est è uno degli aspetti che evidenziano come l’integrazione sia rimasta ‘a metà’. Proprio l’attuale incompletezza del progetto di integrazione europea ha finito per rendere evidenti i vincoli e i costi immediati del processo stesso e per oscurarne, invece, i benefici e i vantaggi. Mentre i mercati, anche del lavoro, restano nazionali, la moneta diventa unica permettendo di comparare (su dati omogenei) i prezzi e i costi e di stabilire la posizione relativa dei singoli Paesi. Di fronte all’integrazione ‘a metà’, l’opinione pubblica, specie quella italiana, ha finito per dare la colpa di tutto all’euro: di aver innalzato i prezzi, ben più di quanto le statistiche ufficiali non rivelino, e quindi di aver ridotto i consumi danneggiando l’economia. Il malessere o la ‘sindrome del vincolo esterno’ ha contagiato un po’ tutti i Paesi della vecchia Ue. In gran parte dei Paesi fondatori e ‘anziani’ dell’Unione europea è maturato un clima prima di tutto sociale di preoccupazione, con un atteggiamento meno favorevole, se non ostile all’Unione stessa, come hanno denunciato i risultati dei referendum in Francia e Olanda, Paesi fondatori della Commissione, sulla Costituzione europea. 18 19 D. Lgs. n. 286/1998, modificato radicalmente dalla L. n. 189/2002 (c.d. Bossi-Fini). DPCM 20.4.2004 e Circ. Min. Lav. n. 14 del 28.4.2004. 7 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO • UNA PROPOSTA La scelta “di non fare in fretta”, nel caso del lavoro, potrebbe presentare dei vantaggi: potrebbe costituire l’occasione per non arrivare impreparati all’evento, per riflettere sui passi da fare per promuovere, gestire la libera circolazione dei lavoratori e per essere pronti a coglierne gli aspetti positivi. E’ evidente che le scelte di mobilità dei lavoratori dipendono in maniera significativa dall’età, dalla propensione al cambiamento, dalle reti familiari, sociali e culturali. Tuttavia, anche la conoscenza delle istituzioni, dei mercati del lavoro, delle legislazioni, delle prassi amministrative, nonché della lingua dei diversi Paesi può agevolare la mobilità. Tale conoscenza richiede di superare vari scogli: da quello dell’individuazione dei referenti locali, a quello della reperibilità delle informazioni, fino alla barriera linguistica. Solo la conoscenza reciproca, continua e puntuale, favorisce il dialogo, lo scambio e la mobilità. La stessa Commissione europea ha appena proclamato il 2006 quale ‘Anno europeo della mobilità (geografica e professionale) dei lavoratori” promuovendo le azioni di sensibilizzazione (20). Lo ha fatto non a caso, ma con la consapevolezza che con il prossimo anno molti dei vecchi Paesi membri, inclusa l’Italia, che hanno applicato la moratoria avranno la possibilità di decidere se mantenerla o toglierla, aprendo le frontiere anche ai lavoratori dipendenti. Sul versante della mobilità, le Università dei vari Paesi possono svolgere un ruolo molto utile anche per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona. Così il convegno, organizzato dall’Università di Udine (21), si propone come momento per esaminare le nuove sfide del mercato del lavoro allargato e proporre un contributo degli studiosi di diritto del lavoro e di relazioni industriali per agevolare questo delicato e storico passaggio. Di più. L’incontro udinese vuole costituire l’occasione non solo per scambiarsi informazioni, ma anche per costituire una sorta di Osservatorio o Laboratorio sui nuovi mercati del lavoro europeo, per osservare, studiare, confrontare la regolamentazione del lavoro degli altri Paesi e per monitorare il processo di integrazione europea. L’idea è quella di costruire una sorta di ‘Bussola per il lavoro europeo’, inizialmente puntata sui mercati del lavoro del nord-est dell’Unione europea. Naturalmente una bussola moderna, quindi informatica (con sito web, motore di ricerca, links, banca dati, forum on line, news letter, ecc.), che sia in grado di orientare e guidare lavoratori, imprese, sindacati e istituzioni nel grande mercato unico del lavoro europeo. In conclusione, nonostante l’amara lezione di Jacques Delors secondo cui di un mercato comune «non ci si può innamorare», possiamo sostenere che 20 Le statistiche Eurostat segnalano un basso tasso di mobilità, specie geografica, dei lavoratori dell’Unione europea, solo del 1,5 % (che si abbassa all’1,2% per l’Italia). Tuttavia, seppur il valore è rimasto invariato negli ultimi 30 anni, è significativamente cambiato il tipo di lavoratori che si spostano in uno Stato diverso da quello di origine: non più soggetti con basso grado di preparazione, bensì giovani e qualificati. 21 Il convegno, organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Udine, si pone a conclusione del progetto di ricerca PRIN 2004, intitolato “Le politiche del lavoro tra regionalismo e allargamento dell’Unione europea”, condotto dalle Università di Udine e di Trieste. 8 M. BROLLO, L’ITALIA NEL CONTESTO EUROPEO grazie ad esso ci si può conoscere meglio, dialogare e crescere assieme, affrontando le sfide di un vero mercato unico europeo del lavoro, che appare sempre più globale e, al contempo, sempre più locale. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE G. AMATO, Nel futuro della Ue l’elogio della diversità, in Il Sole-24 ore del 14 agosto 2005, pp. 1 e 6. G. 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