NUOVA LEGGE IN BIRMANIA: CHI SI CONVERTE AL CRISTIANESIMO DEVE AVERE L'APPROVAZIONE DELLO STATO di Marco Tosatti Il Parlamento birmano ha approvato nella sua Camera Alta una legge che richiede a chiunque voglia passare da una religione a un’altra l’approvazione di un comitato governativo formato da undici persone. La Legge sulle Conversione Religiosa richiederà anche a coloro che desiderano convertirsi di fornire una lista molto ampia di informazioni personali agli “Uffici di Registrazione”, chiedendo anche di rispondere a domande molto personali; e di attendere tre mesi per una risposta. La legge non lo dice, naturalmente, ma il problema di cui si occupa “Christian.Aid” un’organizzazione americana evangelica, sono soprattutto i cristiani; quei missionari che si recano nei villaggi e oltre svolgere un lavoro di alfabetizzazione, contribuiscono a diffondere il Vangelo. La legge prevede anche che chi si vuole convertire «con l’intenzione di insultare, mostrare disprezzo, distruggere o danneggiare una religione» possa essere punito con una pena fino a due anni di prigione. Non è specificato, però, in quale modo possa essere provata questa «intenzione»; tanta vaghezza lascia intuire che da parte della religione abbandonata, e dei suoi seguaci, vi sia un ampio e comodo spazio per iniziative legali contro i transfughi. Come è naturale la legge è stata criticata dagli organismi per la difesa dei Diritti umani, e in particolare dalla Commissione Usa per la Libertà religiosa internazionale (USCIRF). Anche perché l’atmosfera generale del Paese fa pensare che i ricorsi e le cause penali della religione abbandonata troverebbero orecchie favorevoli. Già adesso, e prima che il provvedimento abbia trovato applicazione, le difficoltà dei missionari – tutti nativi del Myanmar – nei villaggi sono notevoli: minacce, ostilità e violenza da parte dei monaci buddisti, dei seguaci delle religioni animistiche e delle autorità civili dei villaggi. Come ha dichiarato a Christian.Aid il responsabile di una nuova chiesa, fondata nello Stato di Shan, a Pin Da Zah, che istruisce e invia missionari, bisogna «pregare per loro, perché le loro vite sono minacciate». La storia che ha raccontato è esemplare. La missionaria è giunta nel villaggio e si è offerta di dare lezioni a casa sua a circa quindici bambini. In questo modo ha conosciuto genitori e parenti, e a poco a poco ha fatto in modo di far conoscere loro il cristianesimo. In seguito, insieme con altri missionari, hanno aperto una «chiesa domestica» con il coinvolgimento di tre famiglie del posto. Immediatamente è scattata la reazione, provocata dai monaci buddisti e dagli animisti del posto. «Le autorità locali l’hanno convocata due volte, intimandole di insegnare solo materie scolastiche, ma niente canzoni o elementi di fede cristiana» Ci sono però anche fattori di progresso. La libertà di movimento è maggiore che in passato, anche se questi operatori pastorali devono comunque muoversi con grande cautela. «In passato i monaci hanno installato un altoparlante davanti alla chiesa. E cominciavano a cantare alle quattro del mattino» Nelle località in cui la presenza è più radicata, un numero crescente di genitori entra in contatto a livello più profondo con i missionari, e le opportunità di scambio sono maggiori. Ma i problemi più grandi riguardano le aree remote e più isolate. Non c’è dubbio comunque che in generale – e la legge sulla conversione ne è l’esempio lampante – il Myanmar sta diventando un terreno delicato e problematico per quanto riguarda la libertà religiosa dei cristiani. Ne è una conferma l’elenco di Paesi stilato da «Open Doors», quell’organizzazione statunitense che monitora il grado di libertà di fede. Myanmar è arrivato al 25° posto nella lista dei “cattivi” passando dal 46° posto occupato nell’anno 2013. Un salto di ventuno caselle in soli dodici mesi, analogo a quello vissuto dal Kenya; dove però si sono verificati, nel nord del Paese, fatti di sangue a causa di fondamentalisti islamici. Secondo Christian. Aid le autorità permettono un eccesso di azioni ostili ai buddisiti, e considerano i non buddisti come una minaccia alla stabilità sociale. da «Vatican Insider»