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Sezione Prima
Domande a risposta sintetica
1. Quali sono le forme in cui si esplica il principio democratico nel nostro ordinamento? 
L’art. 1 Cost. afferma il principio democratico, che si sostanzia nel riconoscimento della sovranità in capo al popolo.
Negli ordinamenti liberali contemporanei il popolo, partecipando attivamente alla vita politica, esercita la sovranità in via principale attraverso la
scelta dei propri rappresentanti, innanzitutto nel Parlamento nazionale,
ma anche in tutti gli organi rappresentativi delle diverse comunità territoriali (Regioni, Comuni etc.) in cui si articola la Repubblica (cd. «democrazia partecipativa»).
Tuttavia, poiché la sovranità appartiene al popolo, non si può ritenere che
vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si
possa esaurire, né classi sociali che, in base al loro censo o altro tipo di privilegio, possano costituirne i depositari privilegiati.
Nei sistemi di democrazia rappresentativa, infatti, tutto il popolo concorre
alla formazione della volontà politica anche attraverso la partecipazione ai
partiti politici. Il carattere tendenzialmente rappresentativo del sistema
italiano non esclude neppure la previsione costituzionale di alcuni istituti
di democrazia diretta come il referendum (art. 75 Cost.), l’iniziativa legislativa popolare (art. 71 Cost.) e il diritto di petizione (art. 50 Cost.), nei quali il
popolo fa sentire direttamente la sua volontà senza la mediazione dei propri rappresentanti.
La sovranità popolare, pur essendo il fondamento della Repubblica, non
può tuttavia trasformarsi in tirannide della maggioranza.
L’ordinamento impone, infatti, alcuni limiti al suo esercizio, tra i quali la
rigidità della Costituzione, il divieto di mandato imperativo e l’esclusione dei principi supremi dell’ordinamento da qualsiasi forma di revisione
costituzionale.
In tale contesto assume rilievo fondamentale anche la presenza della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale
delle leggi e degli atti aventi forza di legge, la presenza di un ordine giudiziario autonomo e indipendente dagli altri poteri per la tutela delle violazioni delle leggi, la creazione di autorità amministrative indipendenti chiamate a regolare e controllare settori particolarmente delicati della vita eco-
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Parte Seconda
nomica e sociale in maniera neutrale e indipendente dall’influenza del potere politico.
Domande collegate
1.1 Il lavoro come fondamento della Repubblica 
L’art. 1 della Costituzione pone il lavoro a fondamento della Repubblica; il principio lavorista rappresenta, quindi, la prima specificazione del principio democratico.
Il lavoro è principio costitutivo e distintivo della forma di Stato, che implica la preminenza ed il riconoscimento di una posizione di tutela privilegiata di ogni forma
di attività lavorativa (autonoma o subordinata) nel sistema dei diritti e dei doveri
delineato dalla Costituzione.
Il lavoro si pone come mezzo necessario allo sviluppo della personalità e, allo stesso tempo, come strumento del progresso materiale e spirituale della società; in esso si realizza la sintesi fra il principio personalista, in cui è implicita la pretesa all’esercizio di una attività lavorativa e il principio di solidarietà, che conferisce a questa
attività carattere doveroso per ogni cittadino per il progresso economico e sociale
della Repubblica.
1.2 Il significato del lavoro nella Costituzione repubblicana 
Il lavoro assurge a fondamento sociale della Repubblica (art. 1 Cost.: «L’Italia è
una Repubblica democratica fondata sul lavoro»), destinato a condizionare l’interpretazione della Costituzione stessa e delle leggi, ­e principio caratterizzante della forma di Stato, non più basata sui privilegi dinastici o di classe, né tanto meno
sul potere teocratico della Corona.
La Repubblica, in particolare, riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e si
fa carico di promuovere le condizioni che rendano effettivo tale diritto attraverso
una politica di sviluppo e di massima occupazione volta a favorire il benessere di
tutta la comunità.
Corollario di tale diritto è il riconoscimento dei diritti sociali: la tutela di ogni
forma di lavoro (art. 35 Cost.), l’elevazione professionale dei lavoratori (art. 35
Cost.), il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36 Cost.), alle
ferie, al riposo settimanale (art. 36 Cost.), all’assistenza sociale (art. 38 Cost.) etc.
1.3 Il lavoro è un diritto o un dovere per il cittadino? 
Il diritto-dovere al lavoro, che la Costituzione riconosce nel 1° comma dell’art.
4, non dà luogo ad un diritto soggettivo perfetto ad ottenere automaticamente il
posto di lavoro da parte dei cittadini, bensì indica un principio fondamentale che
indirizza il legislatore ordinario a promuovere l’effettività di tale diritto con una
politica del pieno impiego e con la lotta alla disoccupazione.
Esso è, quindi, un diritto sociale, che si concretizza nella pretesa ad una occupazione retribuita (per realizzare la quale sono richieste specifiche prestazioni ai pubblici poteri), ed, allo stesso tempo, un diritto di libertà, che si concretizza nell’asten-
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sione da qualsiasi interferenza esterna nella scelta, nel modo d’esercizio e nello
svolgimento della propria attività lavorativa.
Il cittadino, pur essendo tenuto a svolgere un’attività lavorativa, deve essere libero di sceglierla e, comunque, anche se il 2° comma dell’art. 4 Cost. parla di dovere, esso non è un dovere giuridico, bensì un dovere esclusivamente morale. Questo dovere è espressione del principio di solidarietà, che impone a coloro che ne
abbiano la possibilità ed i mezzi di adoperarsi per dare il proprio contributo alla
collettività.
Gli istituti di previdenza ed assistenza e i cd. «ammortizzatori sociali», in quest’ottica solidaristica, sono infatti predisposti a favore di chi sia privo di mezzi o inabile al lavoro (art. 381 Cost.) o temporaneamente senza occupazione.
2. Cosa si intende per principio personalista? 
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.
Tale affermazione di principio, contenuta nell’art. 2 della Costituzione,
chiarisce che la persona umana è il centro d’imputazione (in quanto tale o
all’interno di formazioni sociali) di una serie di situazioni giuridiche soggettive, preesiste allo Stato e ne determina il limite e il fine dell’agire.
Non solo, infatti, l’intervento dei pubblici poteri non può superare il confine invalicabile dei diritti inviolabili dell’uomo, ma addirittura esso deve essere indirizzato ad assicurare la protezione degli stessi diritti contro le aggressioni provenienti da qualsiasi soggetto o autorità.
L’uomo, peraltro, non può trovare la sua piena realizzazione sociale, giuridica, economica, etc. vivendo isolato dagli altri individui: la sua natura
intrinsecamente socievole nonché l’esigenza di cooperare con i propri simili per il conseguimento di fini comuni lo portano, infatti, ad integrarsi
in comunità dove vive e si sviluppa la sua personalità.
La società democratica è, dunque, soprattutto una società pluralista, in
cui la personalità umana si sviluppa e si arricchisce per la costante interazione dell’individuo con i propri simili all’interno di formazioni sociali,
intermedie fra la persona fisica e lo Stato di cui sono titolari i singoli individui (scuola, famiglia, partiti politici, sindacati, confessioni religiose etc.).
Ai singoli, dunque, è riconosciuta la più ampia libertà di aggregarsi o meno
per il perseguimento delle proprie finalità in formazioni sociali delle dimensioni ritenute più opportune (vedi libertà di associazione), cui sono riconosciute le stesse libertà assicurate a ciascun individuo.
L’autonomia organizzativa di tali formazioni, peraltro, non può definirsi assoluta, perché
l’espressa previsione di specifiche limitazioni alla libertà di associarsi è necessaria per garantire il giusto contemperamento tra il principio personalistico e la tutela di interessi costituzionali di pari rango (come l’ordine pubblico).
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Parte Seconda
Negli ordinamenti democratici, pertanto, a differenza che nei regimi totalitari, la persona umana rappresenta sempre un fine e non uno strumento
dell’azione dello Stato, come tale mai sacrificabile nell’interesse di entità
superindividuali come la persona dello Stato, la nazione o la classe.
3. Principio di eguaglianza e giudizio di ragionevolezza
delle leggi. 
La Repubblica riconosce il principio per cui tutti i cittadini sono eguali
davanti alla legge.
Nella sua formulazione estrema, il principio di eguaglianza formale (art.
3 Cost., comma 1) imporrebbe l’obbligo per il legislatore di disporre sempre in via generale ed astratta, ossia con norme che andrebbero applicate
nella generalità delle fattispecie concrete e nei confronti di soggetti non predeterminati. Sarebbero quindi illegittime, per contrasto con il principio di
eguaglianza, le leggi ad personam, che vengono indirizzate a soggetti determinati, e le norme speciali, che derogano alle leggi generali con riferimento
a specifiche sottoclassi di soggetti o di fattispecie.
In realtà, non sempre trattamenti differenziati sono di per sé illegittimi. La
stessa Costituzione prevede la necessità di interventi che, rimuovendo gli
ostacoli di ordine economico e sociale, etnico, religioso, linguistico etc. che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana, mirino a realizzare compiutamente l’eguaglianza attraverso specifiche misure che possono configurarsi, prima facie, come altrettante forme di disparità di trattamento fra situazioni o fra soggetti.
È il caso questo, per esempio, dell’art. 6 Cost., che così recita: «la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche» (vedi domanda seguente): in questo caso un eventuale
trattamento «di favore» di tali comunità non crea un privilegio rispetto al principio di uguaglianza, ma in ossequio al principio di pluralismo e non discriminazione, la Repubblica si
impegna ad azioni positive a tutela di tali minoranze.
L’eguaglianza formale, cioè, va coniugata con la tendenza all’eguaglianza sostanziale o di fatto circoscritte più allo sviluppo della persona umana e alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale
del Paese; concedendo, così, a tutti pari opportunità nel vivere e crescere nello Stato italiano. Ciò dà vita ad un’interpretazione più articolata del principio di eguaglianza, secondo la quale il legislatore deve trattare situazioni eguali in modo eguale e situazioni diverse in maniera razionalmente diversa.
In questo modo il principio di eguaglianza si risolve nel giudizio di ragionevolezza delle leggi. Ogni trattamento differenziato introdotto per legge
deve trovare una sua giustificazione in termini di razionalità, coerenza, pro-
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porzionalità, ma sono suscettibili di un giudizio di irragionevolezza anche
le leggi che arbitrariamente equiparano tra loro situazioni strutturalmente
diverse.
4. Sono costituzionalmente legittime le norme a tutela
delle minoranze linguistiche? 
La Repubblica riconosce e tutela le minoranze linguistiche che per ragioni storiche sono presenti sul territorio delle Regioni italiane.
La presenza di minoranze linguistiche è maggiore nelle Regioni di confine
come la Val d’Aosta e il Trentino Alto Adige, i cui Statuti, che hanno la
forza di leggi costituzionali, prevedono diverse norme a tutela delle stesse.
Gli interventi più rilevanti sono rappresentati dalla parificazione degli idiomi delle minoranze alla lingua italiana, considerati entrambi come «lingue
ufficiali» nella Regione; dalla possibilità di usufruire dell’insegnamento linguistico nella lingua materna; dal principio della proporzione linguistica nell’assegnazione dei pubblici uffici, per cui gli stessi sono distribuiti fra i diversi
gruppi in funzione della loro consistenza.
Tali interventi si pongono apparentemente in contrasto con il principio di
eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., soprattutto se si considera che il nucleo forte di tale norma vieta proprio le discriminazioni fondate sulla lingua.
Tuttavia, è la stessa Costituzione, all’art. 6, a riconoscere la necessità di
trattamenti differenziati a favore delle minoranze linguistiche, in quanto
il patrimonio linguistico e culturale delle minoranze è un patrimonio di tutta la Nazione e deve essere salvaguardato anche al fine di rimuovere gli
ostacoli che impediscono ai soggetti appartenenti a tali formazioni sociali locali di esprimere a pieno tutte le proprie potenzialità.
Ciò in ossequio al principio pluralista e a quello di non discriminazione, in forza del quale la «lingua» non può costituire un elemento di discriminazione (tutela delle minoranze alloglotte).
5. In che modo venivano tutelati i diritti di libertà nello
Statuto albertino? Differenza con la loro attuale tutela
costituzionale. 
Nella forma di Stato liberale i diritti di libertà erano concepiti e riconosciuti come libertà negative, ossia come libertà dallo Stato, e si configuravano come strumenti di tutela dell’autonomia individuale da possibili in-
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Parte Seconda
gerenze dei poteri pubblici. Il riconoscimento e la codificazione degli stessi in un testo costituzionale rappresentava il passaggio dalla forma di Stato assoluta a quella liberale.
Nello Statuto albertino lo schema con cui erano disciplinati i diritti di libertà era identico
per tutti e si articolava in due parti. Innanzitutto veniva affermato e riconosciuto il diritto
in quanto tale, ma l’effettivo contenuto dello stesso e i limiti del suo esercizio erano definiti esclusivamente con legge. Si consideri, ad esempio, la formulazione dell’art. 27, dedicato alla libertà di domicilio: essa veniva definita inviolabile, ma immediatamente dopo si
precisava che «Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme che
essa prescrive».
Il rinvio alla legge si giustificava nel contesto di una forma di Stato liberale: si rimettevano
alla volontà popolare consacrata nel testo della legge i limiti all’esercizio del diritto, sottraendoli alle decisioni esclusive del potere esecutivo. In questo modo, quando durante il periodo fascista le libertà fondamentali furono ridimensionate, non fu necessario abrogare lo
Statuto, ma fu sufficiente riformulare il contenuto delle leggi che le disciplinavano.
Oggi la Costituzione repubblicana garantisce il rispetto delle libertà fondamentali, ossia i diritti basilari che fanno capo all’individuo come tale (e
non solo al cittadino) anche con un risvolto positivo: cioè se da un lato
sono garantite la segretezza della corrispondenza, la libertà di circolazione, la libertà religiosa etc. in quanto resta vietata qualsiasi ingerenza del potere
pubblico, dall’altro lato è egualmente tutelato (risvolto positivo) il diritto
a non render nota la corrispondenza, a permanere sempre nello stesso luogo, a non professare alcuna fede religiosa.
Tali libertà infine sono riconosciute anche alle formazioni sociali (non solo
ai singoli), quasi sempre a tutti (non solo ai cittadini), senza condizioni (le
limitazioni delle stesse sono eccezionali e garantite da precise direttive e
strumenti di controllo: ad esempio, atto motivato dell’autorità giudiziaria, riserva di legge etc. come nel caso della libertà personale tutelata dall’art. 13
Cost.).
6. Quali sono i presìdi posti a tutela dei diritti fondamentali nella Costituzione repubblicana? 
Le Costituzioni contemporanee, fra cui va annoverata anche la nostra, non
solo prevedono un ampio riconoscimento di libertà e diritti fondamentali, ma predispongono un articolato sistema di tutela che ne impedisca sia
l’abrogazione, sia un ridimensionamento rispetto alla portata originaria affermata nel testo costituzionale.
In tale contesto va considerato anzitutto il carattere rigido della Costituzione repubblicana, che richiede un procedimento aggravato per poter essere modificata. Pertanto, leggi ordinarie che si pongano in contrasto con
il contenuto dei diritti definito nella Carta costituzionale possono essere
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
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dichiarate incostituzionali da un organo creato a questo scopo, la Corte
costituzionale.
La Costituzione italiana, poi, riserva alla legge la predisposizione di quegli aspetti della disciplina dei diritti e delle libertà fondamentali non formulati direttamente dalla Costituzione, escludendo che fonti di rango secondario (soprattutto atti del potere esecutivo) possano intervenire in materia se
non al fine di dare esecuzione ai precetti della legge.
Il carattere rigido della Costituzione esclude che la legge possa violare la
riserva delegando la disciplina a fonti diverse, ad esempio ai regolamenti
dell’Esecutivo.
La Costituzione riserva, inoltre, al potere giudiziario in quanto autorità terza e neutrale, la decisione sulle eventuali restrizioni ai diritti fondamentali,
sottraendo o limitando la possibilità di intervento dell’autorità amministrativa.
Peraltro, la Costituzione assoggetta la pubblica amministrazione ai principi di legalità e imparzialità e all’obbligo di organizzarsi ed agire rispettando il criterio del buon andamento.
La Costituzione riconosce, infine, a tutti il diritto di agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, rivolgendosi ad un corpo di
giudici terzi ed indipendenti, soggetti soltanto alla legge, ai quali la Carta
costituzionale dedica diverse disposizioni, a presidio della loro terzietà rispetto alle parti del giudice alla legge.
Dalle considerazioni svolte, appare evidente la differenza tra Costituzione Repubblicana e Statuto albertino: essendo una Costituzione breve e flessibile, quest’ultimo si limitava soltanto a sancire le libertà fondamentali, rinviando per la concreta disciplina ad una legge successiva, ma lasciando le
stesse in balia del legislatore al quale, in effetti, non poteva essere impedito di comprimerle, ridimensionarle etc.
7. Cosa si intende per diritti inviolabili ai sensi dell’art.
2 Cost.? 
I diritti fondamentali sono definiti inviolabili in quanto non possono essere oggetto di revisione costituzionale nel loro contenuto essenziale, dal
momento che incorporano le libertà ed i valori della persona umana, come
tali irrinunciabili ed inalienabili; la loro soppressione o la distruzione del
sistema di garanzie che li tutela determinerebbe, pertanto, un sovvertimento dell’assetto democratico.
Inoltre, sono suscettibili di bilanciamento soltanto con altri valori e principi fondamentali o con altri diritti inviolabili, e il loro contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se
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Parte Seconda
non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse.
Così, ad esempio, il diritto alla riservatezza (che si ricava dal combinato disposto degli artt.
13, 14, 15 Cost. e che consiste nel diritto a non vedere divulgate situazioni e vicende personali) può essere limitato dal diritto di libertà di informazione e di manifestazione del proprio pensiero (cioè diffondere notizie o riceverne), il quale, a sua volta, è alla base del principio del pluralismo ideologico caratterizzante il nostro sistema democratico.
I diritti inviolabili sono, inoltre, indisponibili e intrasmissibili da parte dei
loro titolari, immediatamente efficaci anche nei rapporti intersoggettivi e
imprescrittibili, cioè anche se non esercitati per lungo periodo, non cadono in prescrizione. Tali diritti sono riconosciuti all’uomo sia come singolo (es. diritti della personalità) che come membro delle formazioni sociali
in cui si svolge la sua personalità: ad esempio la famiglia, la scuola, i partiti
politici.
Domande collegate
7.1 La Costituzione in materia di applicazione di diritti inviolabili distingue
tra cittadini e stranieri? 
Nella Costituzione, quando si parla di diritti inviolabili, viene usata generalmente l’espressione «tutti …» riferendosi, cioè, indistintamente a tutti gli individui.
Talvolta, il Costituente, però, usa il termine «i cittadini …» (es.: art. 16 libertà di
circolazione; art. 17 libertà di riunione; art. 18 libertà di associazione; art. 48 diritto di voto) per restringere ai soli cittadini l’applicazione di alcuni diritti fondamentali ritenuti «più delicati».
Con l’evoluzione dei tempi, la giurisprudenza ha mitigato, con numerose sentenze tale gap e le decisioni che hanno equiparato ai cittadini gli stranieri sono ormai sempre più numerose ed inoppugnabili.
La giurisprudenza costituzionale, però, non ha mai in assoluto equiparato la condizione degli stranieri a quella dei cittadini, pur riconoscendo ai primi sempre la
tutela di un nucleo irriducibile di diritti fondamentali (sent. 252/2001).
8. Come viene tutelato il diritto alla vita e all’integrità
fisica nel nostro ordinamento? 
Il diritto alla vita e all’integrità fisica non è espressamente riconosciuto
dalla Costituzione, pur costituendo la base di tutti i diritti e le libertà fondamentali.
Se non fosse garantita l’incolumità personale, infatti, non avrebbe senso alcuno il poter godere delle libertà di domicilio, di corrispondenza, di pensiero. Un richiamo implicito a tale diritto si rinviene a contrario nell’art. 27
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
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Cost. che, vietando la pena di morte in ogni caso, attribuisce alla vita umana il carattere di intangibilità, ponendola al di sopra della potestà punitiva
dello Stato.
Il diritto alla vita è riconosciuto sia alla persona già nata che al nascituro.
Tuttavia, in tale ultimo caso va evidenziato che l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito non ancora venuto ad esistenza può venire in collisione con altri beni (libertà di procreazione) che godono anch’essi di tutela costituzionale: l’esigenza di contemperare interessi contrapposti comporta che la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione.
La L. 194/1978 ha, appunto, introdotto una disciplina che realizza un bilanciamento fra i
valori in gioco, sul presupposto che in ogni caso la salvaguardia dell’embrione umano non
può essere considerata equivalente al diritto alla vita e alla salute proprio di chi è già persona, come la madre.
Per quanto riguarda i limiti alla possibilità di disporre del proprio corpo,
l’art. 5 c.c. vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Sono sempre consentiti
ed espressamente disciplinati i trapianti terapeutici di organi di cadavere,
il trapianto di rene di persone viventi, il trapianto parziale di fegato e la donazione di midollo osseo.
Il diritto alla vita e all’integrità fisica, infine, trova la sua tutela anche a livello penale, dove sono configurati come reati sia l’omicidio che le lesioni
personali.
In tal senso, sono state espressamente vietate anche le pratiche di mutilazione genitale
femminile (cfr. L. 7/2006), diffusesi a seguito dell’immigrazione di persone provenienti da
paesi in cui tali procedure sono legittimate da tradizioni secolari o da necessità demografiche, configurandole appunto come violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della
persona e alla salute delle donne.
9. Qual è la condizione giuridica dei cittadini di Stati
non appartenenti all’Unione europea? 
La disciplina relativa alla condizione dei cittadini non appartenenti all’Unione europea è contenuta nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, il Testo Unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
In particolare, l’art. 4, co. 1 e 2, consente l’ingresso nel territorio dello Stato allo straniero in possesso di:
—passaporto valido o documento equipollente;
—visto d’ingresso rilasciato dalle autorità diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine o di stabile residenza dello straniero.
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Parte Seconda
Contestualmente alla presentazione della domanda di rilascio del permesso
di soggiorno, deve essere presentato un Accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno (D.P.R.
14 settembre 2011, n. 179). La stipulazione dell’Accordo di integrazione
rappresenta condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno e la perdita integrale dei crediti determina l’espulsione dal territorio dello Stato (nuovo art. 4bis del D.Lgs. 286/1998, introdotto dalla L. 94/2009).
La ratio del provvedimento è di garantire l’effettiva integrazione dello straniero nel territorio
italiano dando impulso a quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con
il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società.
Il permesso, che viene rilasciato dalla Questura, ha di norma la durata prevista dal visto d’ingresso, che varia a seconda dei motivi per i quali lo straniero è entrato in Italia. La richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di
soggiorno, in base a quanto previsto dal co. 2ter dell’art. 5, D.Lgs. 286/1998
introdotto dalla L. 94/2009, è sottoposta al versamento di un contributo, il
cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro.
Lo straniero che sia in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di
soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito
sufficiente per sé e per i suoi familiari e di un alloggio idoneo, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti
di lungo periodo, per sé e per i familiari (art. 9, co. 1, D.Lgs. 286/98).
Il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, con
l’emanazione della L. 94/2009 (art. 9, co. 2bis del D.Lgs. 286/1998), è ora
subordinato al superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana le cui modalità di svolgimento sono determinate con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca (D.M. 4 giugno 2010).
In mancanza dei requisiti richiesti dal Testo Unico la polizia di frontiera
respinge gli stranieri che si presentano per l’ingresso ai valichi di frontiera
(art. 10, co. 1, D.Lgs. 286/1998).
10. In quali casi si può derogare alla riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.? 
L’art. 13 Cost., a tutela dell’inviolabilità della libertà personale, riserva all’autorità giudiziari il potere di assumere decisioni relative alla restrizione di tale diritto
fondamentale che è considerato un «diritto naturale» dell’individuo anche a livello
internazionale.
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
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Tuttavia, la norma consente una deroga a favore del potere esecutivo (cioè autorità di pubblica sicurezza) qualora sussistano ragioni eccezionali di necessità ed
urgenza che impediscano il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria.
La previsione di tali casi deve essere tassativamente contenuta nella legge, cui la
disposizione costituzionale riserva tale compito.
Il codice di procedura penale, infatti, disciplina l’arresto in flagranza e il fermo
di polizia, individuandone in modo dettagliato i presupposti e i limiti.
Peraltro la deroga alla riserva di giurisdizione è soltanto temporanea, in quanto i
provvedimenti adottati dalla polizia giudiziaria devono essere comunicati all’autorità giudiziaria entro 48 ore e nelle successive 48 ore devono essere convalidati.
Le considerazioni sopra esposte consentono di evidenziare le differenze rispetto
alla tutela della libertà personale prevista dallo Statuto albertino. L’art. 26 dello
Statuto, infatti, si limitava a riconoscere genericamente il principio di libertà individuale, ma rimandava poi alla legge tutta la disciplina delle limitazioni a tale diritto, senza che fosse prevista alcuna riserva di giurisdizione.
11. Cosa si intende per libertà di domicilio? 
L’art. 14 Cost. tutela la libertà personale nella sua proiezione spaziale, ossia la libertà di domicilio, che ne rappresenta una delle più importanti
espressioni in quanto inscrive in un ambito più ampio la sfera di libertà del
singolo.
Nella disciplina costituzionale tale libertà è considerata intangibile, anche
se il potere giudiziario e le autorità di polizia possono adottare misure restrittive nei soli casi ed in presenza delle particolari garanzie previsti dalla
legge.
Tale diritto consiste innanzitutto nella libertà di scegliere il luogo dove
stabilire il proprio domicilio, nonché di svolgervi ogni attività lecita che
si desideri.
Inoltre tale libertà consiste anche nel diritto di impedire a chiunque, al di
fuori dei casi consentiti, di violare il proprio domicilio.
Quest’ultimo va identificato in qualunque spazio dal quale il titolare ha il
diritto di escludere i terzi per realizzare la propria vita affettiva o i propri
interessi spirituali, culturali e sociali. Rientrano in tale definizione, pertanto, non solo la propria abitazione privata, ma anche il luogo dove si svolge la
propria attività lavorativa, una camera d’albergo o qualunque dimora occasionale (anche la stessa autovettura), purché risultino isolati dall’ambiente
esterno.
Una regola sempre valida prevista dall’art. 14, co. 3 riguarda gli accertamenti e le ispezioni dovuti a motivi di sanità e incolumità pubblica (art. 32 Cost.),
fini economici (art. 42 Cost.) e fiscali (art. 53 Cost.), che sono previsti per motivi di interesse pubblico e disciplinati da leggi speciali.
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Parte Seconda
12. In quali modi può essere limitata la libertà e segretezza della corrispondenza? 
L’art. 15 Cost. tutela la libertà e segretezza dell’espressione del proprio
pensiero a soggetti specificamente determinati, ossia la corrispondenza. In
tale ambito rientrano diverse forme di comunicazione: da quella epistolare, telegrafica e telefonica sino alle nuove tecnologie di comunicazione quali, ad esempio, la posta elettronica. La disposizione costituzionale tutela
sia la libertà di comunicare con altri soggetti, sia quella di mantenere segreta tale comunicazione.
A tutela di tale diritto la Costituzione prevede una riserva di legge e una
riserva di giurisdizione. Le limitazioni, quindi, possono avvenire soltanto nei casi e con le garanzie stabilite dalla legge e per atto motivato dell’autorità giudiziaria.
In questo caso la riserva di giurisdizione è assoluta, non essendo previsto
neppure l’intervento preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza per motivi di necessità ed urgenza. Va peraltro evidenziato che la Corte costituzionale ha riconosciuto, in tema di fermo postale di corrispondenza, la possibilità di interventi amministrativi purché presentino carattere meramente strumentale e siano diretti esclusivamente a sollecitare l’intervento del
giudice.
L’evoluzione delle tecniche di investigazione criminale ha reso già da tempo possibile il
ricorso a forme di controllo occulto delle comunicazioni private, tra le quali hanno un rilievo preminente le intercettazioni telefoniche. In base alla disciplina dettata dal codice
di procedura penale, esse possono essere autorizzate dal giudice, su richiesta del pubblico ministero, quando vi siano gravi indizi di reato e l’intercettazione risulti assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. La durata dell’intercettazione
non può superare i quindici giorni, ma può essere prorogata dal giudice, con decreto motivato per periodi successivi di quindici giorni, sempre che permangano i presupposti sopra indicati.
Per quanto concerne le ipotesi in cui la libertà di corrispondenza può essere limitata, la legge prevede casi legati alla capacità giuridica dei soggetti coinvolti, ad esempio carcerati, minori, infermi di mente, falliti, oppure
situazioni in cui viene in rilievo l’interesse pubblico a reprimere i reati e
a perseguire in giudizio coloro che delinquono.
13. I cittadini possono riunirsi pacificamente e senza
armi? 
Le riunioni sono convegni temporanei e volontari di più persone nello stesso luogo, sia esso pubblico o privato. L’art. 17 Cost. esclude la necessità del
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
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preavviso alle autorità sia per le riunioni in luogo privato che per quelle aperte al pubblico, in cui l’accesso del pubblico è soggetto a regole determinate (selezione all’ingresso, esibizione di titoli di legittimazione, orari di apertura e chiusura). Tale obbligo sussiste, invece, qualora le riunioni si svolgano in un luogo pubblico, pur essendo interpretabile come mero obbligo di
comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza (e non di richiesta di autorizzazione).
La nostra Costituzione limita il riconoscimento del diritto di riunione ai
soli cittadini ma, in considerazione della partecipazione dell’Italia a numerose convenzioni internazionali che tale diritto riconoscono, e alla luce delle previsioni del testo unico sull’immigrazione, che estendono a tutti gli
stranieri i diritti fondamentali riconosciuti dal diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti, tale diritto è ormai patrimonio di tutti coloro che risiedono in Italia.
Il Costituente, però, impone che tali riunioni costituiscano confronti civili, corretti, democratici e soprattutto pacifici, in cui i partecipanti possano essere facilmente identificati.
Domande collegate
13.1Qual è la differenza tra diritto di riunione e diritto di associazione? 
L’art. 18 Cost. disciplina il diritto di associazione, che è anch’esso costituzionalmente garantito, ma che — al contrario del diritto di riunione — non necessita
del preavviso richiesto in caso di riunione in luoghi pubblici (piazze etc.).
La Costituzione non fornisce una definizione del concetto di associazione, la cui
determinazione è pertanto affidata all’interprete. Si può dire che il nucleo essenziale di tale fenomeno è dato dalla circostanza che più persone decidano di svolgere insieme una data attività per raggiungere i fini più vari e che l’elemento distintivo rispetto alla riunione sia costituito dal carattere di stabilità che contraddistingue la cooperazione tra gli associati.
La libertà di associazione soggiace a particolari limiti posti a tutela di interessi costituzionali di pari rango, come l’ordine pubblico.
In particolare sono vietate le associazioni segrete, quelle che perseguono anche
indirettamente scopi politici mediante organizzazione di carattere militare, le associazioni sovversive e quelle antinazionali (artt. 270 e ss. c.p.).
La Costituzione menziona e disciplina due particolari forme di associazionismo,
quello sindacale (art. 39) e quello partitico (art. 49) che sono oggetto di specifiche
norme costituzionali. Su queste ultime, comunque, la dizione costituzionale è sempre piuttosto generica per consentire a tali forme associazionistiche di crescere e svilupparsi senza alcuna preclusione normativa.
66
Parte Seconda
14. Quali sono i limiti alla libertà di associazione? 
L’art. 18 Cost. riconosce e garantisce il diritto fondamentale di associazione. La nostra Costituzione è una delle più garantiste in materia, in quanto ritiene meritevole di tutela ogni associazione indipendentemente dal fine
perseguito, purché si tratti di finalità che non sono vietate dalla legge penale.
Al riguardo si noti che, mentre il regime fascista prevedeva un regime autorizzatorio da parte del Prefetto per ogni singola associazione, oggi per espresso dettato costituzionale, non è richiesta nessuna forma di autorizzazione:
la Corta Costituzionale, infatti, con sentenza del 1967, n. 114 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 210 del TULPS (773/1931) che richiedeva il controllo dell’autorità amministrativa.
Sono, quindi, ammissibili anche associazioni politiche che propugnano una
forma diversa di potere rispetto all’attuale ordinamento democratico, purché ciò non avvenga attraverso metodi penalmente illeciti o sotto forma di
associazioni segrete e sempreché l’attività di tali associazioni non inciti alla
commissione di reati. L’unica eccezione è rappresentata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione
sotto ogni forma del disciolto partito fascista.
Domande collegate
14.1 Cosa sono le associazioni segrete? 
L’art. 18 vieta, tuttavia, che l’associazione possa avere carattere di segretezza. La
L. 17/1982 ha chiarito che per associazione segreta si deve intendere quella che,
occultando la propria esistenza, anche all’interno di associazioni palesi, o tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali, ovvero rendendo sconosciuti, in
tutto o in parte ed anche reciprocamente, i nominativi dei soci, svolga attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, di enti pubblici nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale.
Il legislatore, attuando il dettato costituzionale, non ha quindi vietato le associazioni segrete in sé, ma in quanto tale segretezza sia orientata a realizzare pericolose e
incontrollabili interferenze nella vita economica, politica e democratica del Paese, come
ad esempio si è verificato con le Logge Massoniche e la P2.
14.2Il concetto di associazioni di carattere militare 
Il secondo tipo di associazione vietata è quella che persegue, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. Le associazioni
che rientrano in tale categoria, così come individuate dal D.Lgs. 43/1948, sono
quelle costituite mediante inquadramento degli associati in corpi, reparti o nuclei,
con disciplina e ordinamento gerarchico interno analoghi a quelli militari, con
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
67
l’eventuale adozione di gradi o di uniformi, e con un’organizzazione atta anche
all’impiego collettivo di azioni di violenza o di minaccia.
Il fine del divieto è quello di impedire l’esistenza di organizzazioni in cui lo spirito
individuale venga coartato e sottomesso ai fini politici dell’associazione stessa.
Il «fine politico» è, quindi, essenziale per vietare le organizzazioni paramilitari,
come si evince dal fatto che l’associazione dei Boy Scout, che persegue invece fini
solidali ed umanitari, è assolutamente lecita pur operando con uniformi e articolazioni interne di tipo gerarchico.
15. Quali sono i limiti alla libertà di manifestazione del
pensiero? 
L’art. 21 Cost. riconosce la libertà di manifestazione del pensiero, intesa
come diritto assoluto e non funzionale. Ciò comporta che il diritto di manifestare il proprio pensiero non può essere condizionato ai contenuti che
attraverso di esso si veicolano.
La Costituzione italiana ammette, cioè, il dissenso più ampio, anche quello volto a mettere in discussione l’organizzazione e i principi che reggono
la nostra Repubblica, purché ciò non si concretizzi in comportamenti penalmente rilevanti che costituiscano autonome figure di reato.
Domande collegate
15.1 Esistono particolari limiti all’esercizio di tale libertà? 
La libertà di manifestazione del pensiero, pur essendo riconosciuta in termini molto ampi, non è per questo del tutto esente da limitazioni. Una di esse è espressamente prevista dall’art. 21 Cost., che vieta le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume.
Con tale espressione si intende il comune senso del pudore e della pubblica decenza, secondo il sentimento
medio della comunità sociale. Non si tratta di un concetto morale, ma di un limite volto a garantire soprattutto coloro che, come i minori, richiedono forme di tutela più avanzata in considerazione della
loro delicata fase di sviluppo psichico e morale.
Altri limiti alla libertà di manifestazione del pensiero possono ricavarsi, a contrario, da altre norme che tutelano interessi costituzionalmente rilevanti.
Il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero non può, infatti, ledere diritti fondamentali come la dignità, l’onore, la riservatezza. Tali valori sono tutelati
sia a livello penale, attraverso la configurazione di reati come la diffamazione, l’ingiuria e l’oltraggio, che a livello civile.
Altri limiti derivano dal tipo particolare di attività cui afferiscono, come nel caso
del segreto giudiziario, giustificato dall’obbligo costituzionale di garantire il
buon andamento della giustizia e allo stesso tempo anche la reputazione degli
imputati, in omaggio al principio costituzionale della presunzione di non col-
68
Parte Seconda
pevolezza dell’indagato/imputato fino all’emanazione della sentenza definitiva
(art. 27 Cost.).
Anche l’apologia di reato costituisce un limite alla manifestazione del pensiero,
in quanto essa rappresenta un comportamento idoneo a provocare delitti e quindi penalmente illecito.
15.2 Cos’è il segreto di Stato? 
Il segreto di Stato, invece, copre tutti gli atti, i documenti, le notizie, le attività e
ogni altro dato la cui comunicazione sia idonea a recare danno all’integrità della
Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi e alla difesa militare dello Stato.
In questo caso vengono tutelati interessi molteplici, che si ricollegano al dovere di
difesa della Patria, alla sicurezza nazionale, alla saldezza complessiva delle istituzioni democratiche della Repubblica.
15.3 Il legislatore prevede forme di diffusione mediatica diverse dalla parola e
dallo scritto? 
Il Costituente, con molta lungimiranza, nel redigere il testo della Costituzione, ha
utilizzato la generica espressione «ogni altro mezzo di diffusione», che oggigiorno ci consente di ricomprendere, oltre alla stampa, tutti gli altri mass media che
l’evoluzione tecnologica è in grado di produrre.
Radio, televisione, cinema, internet costituiscono i nuovi mezzi di diffusione del
pensiero, in relazione ai quali trovano applicazione i principi democratici, pluralisti e di libertà enunciati dalla Costituzione con riferimento ai tradizionali mezzi
di espressione del pensiero.
16. Come si articola la libertà di informazione? 
La libertà di manifestazione del pensiero viene concretamente esercitata
attraverso una pluralità di mezzi, tra i quali rientrano la stampa, la telediffusione e la radiodiffusione, la pubblica affissione, gli spettacoli pubblici, le nuove
tecnologie applicate alla comunicazione (internet etc.), di cui l’ordinamento deve garantire un ampio e democratico regime di pubblicità.
La manifestazione del pensiero attraverso tali strumenti divulgativi rappresenta quel particolare aspetto del diritto sancito (anche se non esplicitamente) dall’art. 21 Cost., che viene denominato «libertà d’informazione».
Essa si articola in una pluralità di diritti: di informare, di informarsi e di essere informati.
La libertà di informazione, che rientra nella più generale libertà di manifestazione del pensiero, trova il suo fondamento costituzionale, oltre che nell’art. 21 Cost., anche in tutte quelle libertà che garantiscono una scelta (in quanto per scegliere occorre prima «conoscere»), nonché nelle disposizioni che garantiscono il pieno sviluppo della persona umana (artt. 2 e 3
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
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Cost.), l’uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.) e la partecipazione alla organizzazione del
Paese (art. 3, co. 2, Cost.).
Il principio della libertà di informazione deve, inoltre, considerarsi giuridicamente vigente
in Italia anche per effetto dell’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948), nel quale si riconosce ad ogni
individuo il diritto di ricercare informazioni e notizie servendosi di qualsiasi mezzo, anche
oltrepassando le frontiere nazionali (LOIODICE).
L’art. 21 Cost., redatto ed ideato in un’epoca in cui i mezzi di comunicazione di massa erano modesti, così come è concepito oggi non fornisce
adeguata garanzia al pluralismo dell’informazione. Con l’evoluzione dei
media, infatti, si rende necessario garantire — contro ogni tentativo monopolistico — il pluralismo dei mezzi di comunicazione per consentire a tutti di
venire a conoscenza anche delle opinioni del dissenso e di quelle non «gradite» ai detentori del potere, alle lobbies economiche, ai gruppi dominanti,
soprattutto se proprietari di importanti concentrazioni di testate giornalistiche o reti televisive.
Domande collegate
16.1 Come viene disciplinata la libertà di stampa? 
Il più antico, ma anche uno dei più importanti ed incisivi mezzi di manifestazione del pensiero, è la stampa.
L’art. 21 Cost. sancisce in materia i seguenti principi:
— esclusione di ogni forma di autorizzazione preventiva. Infatti chi intende pubblicare un libro o uno stampato non deve chiedere alcun consenso preventivo per
poterlo diffondere (art. 21, co. 2);
— esclusione di ogni forma di censura successiva alla redazione dello stampato,
ma antecedente alla sua pubblicazione (art. 21, co. 2);
— disciplina legislativa delle ipotesi di sequestro dello stampato. Questa misura
repressiva posta in essere per impedirne la diffusione, dunque, deve seguire particolari procedure a garanzia della libertà di stampa (art. 21, co. 3 e 4);
— possibilità di stabilire con legge dei controlli sui mezzi di finanziamento della stampa periodica (art. 21, co. 5).
— la previsione della facoltà del legislatore di adottare controlli preventivi e mezzi
repressivi contro la stampa che offenda il buon costume (art. 21, ult. co.).
Il sequestro delle pubblicazioni, secondo il dettato dell’art. 21, co. 3, Cost. è possibile «solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nel caso di delitti per i quali la legge
sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge prescrive per l’individuazione dei responsabili». Al di fuori di questi due casi la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo ogni tipo e forma di sequestro di stampati.
Quando vi sia una assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria,
il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che entro le 24 ore
devono fare denuncia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle 24 ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto (art. 21, comma 4, Cost.).
70
Parte Seconda
La L. 47/1948 (Legge sulla stampa) prevede, inoltre, il divieto della stampa anonima,
in quanto si pone in contrasto con i principi e le libertà costituzionali, essendo finalizzata ad occultare possibili soggetti responsabili di eventuali illeciti penali in essa
contenuti. Per questo motivo tutte le pubblicazioni devono riportare le generalità
ed il domicilio dello stampatore e dell’editore.
Il codice penale si occupa dei reati commessi a mezzo stampa negli artt. 57-58bis come
risultano dalle modifiche apportate dalla L. 127/1958.
16.2 In cosa consiste il diritto di cronaca? 
Il diritto di cronaca costituisce una specificazione della libertà di manifestazione
del pensiero (contra CHIOLA e BARILE). Infatti, il cronista non si limita solo a
riferire e diffondere le notizie, ma altresì le interpreta e le commenta.
L’attività del giornalista, cioè, non è mai «neutrale»; i fatti che vengono riferiti sono
sempre in qualche modo influenzati dalle opinioni del cronista (CRISAFULLI e
PIZZORUSSO) e, pertanto, la cronaca rappresenta, comunque, il risultato della elaborazione del pensiero dello stesso.
Il diritto di cronaca presenta però alcuni limiti interni ed esterni che non possono essere travalicati:
— i limiti interni: individuabili nella rilevanza pubblico-sociale, nella verità almeno
soggettiva dei fatti riferiti (verificati, cioè, scrupolosamente) e, inoltre, nella forma utilizzata per la narrazione che non deve concretarsi in un linguaggio di per
sé offensivo;
— i limiti esterni, invece, sono finalizzati alla tutela di altri interessi rilevanti,
come l’interesse ad una efficace amministrazione della giustizia (segreto di determinati atti o fasi processuali) o l’interesse alla difesa nazionale (segreto di Stato).
Un’importante forma di tutela di cui gode il singolo per difendersi da un uso scorretto del diritto di
cronaca è il diritto di rettifica (art. 42, L. 416/1981), che consente alla persona coinvolta dalla diffusione di notizie false o inesatte di chiedere la correzione o precisazione delle stesse.
17. La disciplina della radiotelevisione. 
Nell’ultimo mezzo secolo un importante mezzo di manifestazione del pensiero, nonché strumento di diffusione di idee e notizie, è stata la radiotelevisione.
La disciplina fondamentale di tale mezzo di comunicazione è contenuta nel
D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177 che istituiva il Testo unico della radiotelevisione
e che, ai sensi dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 44, reca il
nuovo titolo di «Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici».
L’art. 3 del D.Lgs. 177/2005, così come modificato dall’art. 17, comma 1,
lett. a), D.Lgs. 44/2010, elenca i seguenti principi fondamentali del sistema dei servizi di media audiovisivi e della radiofonia:
—la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva;
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
71
—la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, l’obiettività, la completezza, la lealtà e l’imparzialità
dell’informazione;
—la tutela dei diritti d’autore e di proprietà intellettuale;
—l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose;
—la salvaguardia delle diversità etniche e del patrimonio culturale, artistico e ambientale, a livello nazionale e locale, nel rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona, della promozione e tutela
del benessere, della salute e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, garantiti dalla Costituzione, dal diritto dell’Unione europea, dalle norme internazionali vigenti nell’ordinamento italiano e
dalle leggi statali e regionali.
Si tratta di principi faticosamente affermatisi negli ultimi decenni, frutto di un
assetto del sistema radiotelevisivo italiano che ha conosciuto una evoluzione del tutto particolare.
18. Sono ammissibili trattamenti sanitari obbligatori? 
L’art. 32 Cost. disciplina i «trattamenti sanitari», vale a dire tutte quelle
attività diagnostiche e terapeutiche volte a prevenire e curare le malattie,
di regola volontari, e le sottopone ad una disciplina rigorosa.
Innanzitutto tali trattamenti non sono finalizzati solo a tutelare la salute
del singolo individuo, ma anche a garantire lo stato di salute di terzi o
dell’intera collettività.
Questo limite non è espressamente previsto dall’art. 32 Cost., ma può implicitamente ricavarsi dalla definizione del «diritto alla salute» come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
In secondo luogo i trattamenti sanitari obbligatori possono, secondo il dettato costituzionale, essere disposti esclusivamente per legge.
Si tratta di una riserva relativa di legge, nel senso che la legge dovrà fissare le linee essenziali della materia, demandando a fonti di rango subordinato
e a provvedimenti concreti l’attuazione della disciplina.
Si tratta inoltre di una riserva rinforzata, in quanto la disciplina di legge
non potrà, comunque, mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e della sua «dignità», in quanto rientranti nella categoria dei «diritti dell’uomo».
Si tratta, infine, di una riserva di legge statale, affinché sia garantita l’uguaglianza di trattamento di tutti i cittadini a prescindere dalla Regione di residenza.
72
Parte Seconda
Domande collegate
18.1 Esiste un diritto a non curarsi? 
Sebbene esso non sia espressamente previsto dalla legge, deve ritenersi che l’individuo, in quanto capace di intendere e di volere, abbia il diritto (ad esempio per
motivi religiosi) di non accettare determinati trattamenti medici e lasciarsi morire.
Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio per una
strategia della persuasione da parte del medico, perché il compito di quest’ultimo
è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza del paziente; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale.
Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di
curarsi come principio di ordine pubblico. Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando
conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto
un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.
19. Quando si può definire «politico» un reato ai sensi
dell’art. 26 Cost.? 
L’art. 26 Cost. vieta l’estradizione del cittadino italiano che abbia commesso reati politici. La disposizione va letta in combinato disposto con
l’art. 10 Cost., che applica analogo divieto all’estradizione degli stranieri.
L’estradizione è una forma di collaborazione fra Stati per la repressione
della delinquenza consistente nell’obbligo assunto da uno Stato nei confronti di un altro di consegnare all’autorità giudiziaria straniera richiedente un soggetto, imputato o condannato per un reato commesso nel territorio dello Stato straniero, in modo che in esso abbia luogo il giudizio o l’esecuzione della pena.
L’estradizione viene distinta in attiva e passiva, avendosi riguardo nel primo caso allo Stato richiedente l’individuo da consegnare e nel secondo caso
allo Stato richiesto.
La Costituzione, tuttavia, non fornisce autonoma definizione di reato politico, che si ritrova, invece, nell’art. 8 del codice penale. Secondo questa
disposizione omnicomprensiva è delitto politico l’azione mirata ad offendere la personalità dello Stato o un diritto politico del cittadino, sia in via
diretta ed intrinseca, sia in via indiretta, attraverso azioni aventi un fine in
tutto o in parte politico.
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
73
Domande collegate
19.1 Perché vige il divieto di estradizione per motivi politici? 
La nozione di delitto politico contenuta nel codice penale (di matrice fascista) è, in
realtà, ispirata da finalità repressive volte far valere la potestà punitiva dello Stato
italiano, mentre la Costituzione, attraverso il divieto di estradizione per motivi
politici, intende proteggere gli imputati o condannati da possibili persecuzioni politiche penali da parte dello Stato estero.
I valori tutelati dall’art. 26 Cost. sembrano, quindi, essere gli stessi a fondamento
del riconoscimento del diritto di asilo, compiuto dall’art. 10, co. 3 Cost. a favore
di coloro ai quali sia impedito nel proprio paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche proclamate e garantite dalla Costituzione italiana.
Pertanto, l’assenza di una definizione di reato politico nella Costituzione è, ad opinione di una parte della dottrina, soltanto apparente, in quanto tale previsione va
ricavata dall’insieme dei principi costituzionali, ed in particolare dai co. 1 e 3
dell’art. 10 Cost., che impone all’ordinamento giuridico italiano di conformarsi
alle norme generalmente riconosciute e ai trattati internazionali.
L’estradizione va, quindi, negata tutte le volte in cui il reato politico sia commesso contro regimi non democratici, o comunque sia un fatto commesso per affermare un diritto di libertà garantito dalla Costituzione italiana.
Non possono, comunque, essere compresi nel novero dei reati politici quei reati
esclusi espressamente dalle norme internazionali, come, ad esempio, le azioni terroristiche che, costituendo un pericolo collettivo per la vita, l’integrità fisica o la
libertà delle persone o facendo ricorso a mezzi crudeli, sono considerate dal diritto internazionale come delitti contra iura gentium (crimini contro l’umanità).
È opportuno sottolineare che il legislatore, nel momento in cui ha voluto derogare alla nozione di delitto politico ricavabile dall’art. 8 c.p., lo ha fatto introducendo una norma costituzionale specifica. La L. cost. 1/1967, infatti, ha espressamente chiarito che nella nozione di delitto politico rilevante ai fini del divieto di
estradizione non possono mai rientrare i delitti di genocidio.
Ciò perché il Costituente proietta e difende sul piano internazionale, con il supporto di numerose convenzioni internazionali orientate in tal senso, l’ideale di libertà e giustizia che persegue. Ciò giustifica la
norma costituzionale che vieta di «consegnare» allo Stato straniero colui che si oppone ad un regime
non democratico che nega ai suoi sudditi le libertà universalmente riconosciute e tutelate dalle Convenzioni internazionali e che rientrano nel coacervo dei «diritti dell’uomo»; ma non può invece giustificare l’attivazione della garanzia del divieto di estradizione per reati commessi contro l’umanità, come
il genocidio.
19.2 Può concedersi l’estradizione per un reato per il quale nel Paese richiedente
è prevista la pena di morte? 
In forza dell’art. 27, comma 4, l’estradizione non può essere concessa dallo Stato
italiano anche se lo Stato estradante, che prevede tale pena, dia al nostro Stato «sufficienti assicurazioni» che al reo estradato non verrà applicata la pena di morte.
Ciò perché il bene essenziale della tutela della vita impone una «garanzia assoluta» da parte dello Stato straniero (Corte cost. 223/1996).
74
Parte Seconda
20. Chi è il giudice naturale? 
In base all’art. 25 Cost. «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge».
Per giudice naturale precostituito per legge si intende l’ufficio giudiziario
individuato dalla legge sulla base di criteri precisi e predeterminati rispetto all’insorgere della controversia.
Tali criteri sono enunciati dalle norme che regolano la competenza per materia, per valore, per territorio o funzionale, che identificano in concreto il giudice chiamato a risolvere controversie. La prescrizione normativa che identifica ex ante la figura del «giudice naturale» ha il fine di escludere che tale
individuazione possa avvenire ad opera di autorità diverse dal Parlamento
(come il Governo o i capi degli uffici giudiziari o la stessa Corte di Cassazione), e impone al legislatore di operare sempre sulla base di una disciplina a carattere generale, senza introdurre eccezioni singolari ai criteri prefissati, in vista di una determinata controversia (vedi infra amplius Parte Settima, domanda n. 2).
In tal modo il Costituente, assieme al divieto di istituire tribunali speciali, garantisce sempre la corretta terzietà della figura del giudice per ciascun processo.
21. Perché la responsabilità penale ex art. 27 della Costituzione deve considerarsi «personale»? 
La responsabilità è la relazione tra un fatto e le sue conseguenze riferite
ad un soggetto.
Come tale può anche ricadere su terzi, come quella dei genitori sui danni
dei figli, o dei datori di lavoro su quelle dei dipendenti ed è civilmente risarcibile.
Quando, però, il nesso è tra un fatto costituente reato e i suoi effetti, il nostro ordinamento richiede che la persona fisica (non giuridica) sia l’unica
responsabile per il fatto proprio con il conseguente divieto di imputare la
responsabilità a terzi.
È così venuto meno il concetto di responsabilità oggettiva che ricadeva,
ad esempio, per i reati commessi a mezzo stampa in capo al direttore responsabile per eventuali articoli diffamatori o penalmente sancibili commessi da chi redige l’articolo incriminato.
Questa, comunque, è una questione molto dibattuta, in quanto, il direttore responsabile è comunque imputabile per culpa in vigilando per non aver
controllato con attenzione il contenuto illegale dell’articolo pubblicato.
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
75
22. La Costituzione tutela la concorrenza? 
L’art. 41 Cost. riconosce la libertà di iniziativa economica privata. Tale
riconoscimento viene affermato innanzitutto nei confronti dei pubblici poteri,
che possono indirizzare e condizionare l’iniziativa economica attraverso
programmi e controlli in linea con l’indirizzo economico-finanziario previsto
dal programma di governo, ma non sopprimerla del tutto, se non nei casi e
secondo le modalità previste dall’art. 43 Cost. (fini espropriativi per pubblico
interesse).
La libertà di iniziativa economica, tuttavia, vale anche nei confronti degli
altri soggetti che intraprendono un’attività economica. In tale ottica, deve
essere negata ogni pretesa di esclusiva a vantaggio dell’imprenditore che,
per primo, ha assunto una nuova iniziativa economica. In questo modo la
garanzia dell’iniziativa economica evolve in tutela della concorrenza.
23. I sindacati operanti in Italia sono registrati? 
L’art. 39 Cost. riconosce la libertà dei lavoratori di organizzarsi sindacalmente. Tale riconoscimento, che si collega alla libertà di associazione, implica sia la libertà di costituire anche più sindacati (cd. pluralismo sindacale) per
una medesima categoria, sia la libertà dei singoli lavoratori (subordinati o autonomi) di scegliere il sindacato cui aderire o di non aderire a nessuno di essi.
La Costituzione stabilisce che l’unico obbligo che può essere imposto ai
sindacati è quello della registrazione. In realtà, più che di obbligo si tratta di un onere, adempiendo il quale i sindacati possono acquisire la personalità giuridica e stipulare contratti collettivi che acquisiscono efficacia
erga omnes, nei confronti cioè di tutti i lavoratori della categoria rappresentata, indipendentemente dalla loro adesione al sindacato.
Condizione per la registrazione è il possesso di uno statuto che sanzioni
un ordinamento interno a base democratica.
Domande collegate
23.1 Che senso ha un ordinamento interno a base democratica? 
È questo un requisito indispensabile per l’ottenimento della registrazione del sindacato, purché tale «democraticità» si traduca nell’adozione di una serie di regole
interne che consentano la piena partecipazione di tutti i lavoratori iscritti, la tutela
delle «voci minoritarie», il carattere elettivo delle cariche sociali, il rispetto del principio di maggioranza.
Le previsioni costituzionali in tema di registrazione non hanno, tuttavia, mai trovato attuazione, e pertanto i sindacati che operano attualmente in Italia costitu-
76
Parte Seconda
iscono, come del resto i partiti, associazioni non riconosciute prive di personalità giuridica. Tale scelta è stata storicamente motivata anche dal timore che, attraverso l’introduzione di una disciplina di controlli finalizzati a verificare il carattere democratico degli ordinamenti interni in vista della registrazione, si consentisse qualsiasi forma di ingerenza statale nell’organizzazione e nell’attività dei
sindacati.
23.2 Cosa sono i contratti collettivi con efficacia obbligatoria? 
I contratti collettivi stipulati da tali associazioni sono, quindi, contratti di diritto
comune i quali, come tutti i contratti, hanno efficacia soltanto per le parti che li stipulano.
Tuttavia, per evitare disparità di trattamento fra i lavoratori, l’efficacia di tali contratti, malgrado la mancata registrazione, almeno per quanto riguarda la retribuzione, viene, di fatto estesa a tutti lavoratori della categoria; tali contratti acquistano così
un’efficacia erga omnes, consentendo a tutti i lavoratori di beneficiare dei vantaggi
derivanti dalla stipula (Cassaz. 2490/80, 5576/80, 190/81).
Il fondamento giuridico di tale estensione trova riscontro nel combinato disposto
dell’art. 36 Cost., che riconosce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, e dell’art. 2099 c.c., che attribuisce al giudice il compito
di definire la misura della retribuzione in assenza di accordo fra le parti. Il giudice, infatti, fa riferimento alle previsioni dei contratti collettivi di categoria, in particolar
modo di quelli sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, per
integrare il parametro costituzionale dell’art. 36 Cost. che richiede una retribuzione proporzionata al lavoro svolto e, comunque, sufficiente ad assicurare al prestatore
e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
24. La Costituzione riconosce il diritto di sciopero senza
alcun limite? 
Lo sciopero consiste nell’astensione collettiva e concertata dal lavoro e rappresenta una forma di autotutela collettiva che i lavoratori hanno a disposizione per tutelare i propri interessi collettivi e sostenere le proprie rivendicazioni sociali ed economiche.
Esso, in particolare, rappresenta un diritto soggettivo pubblico di libertà
che trova tutela anche a livello europeo (art. 28 Carta dei diritti fondamentali dell’UE), e tende a restituire al lavoratore, contraente più debole nel
contratto di lavoro, almeno una parte della sua capacità contrattuale.
La titolarità di tale diritto spetta a ciascun prestatore di lavoro (sia pubblico
che privato), che lo può esercitare a prescindere dall’eventuale benestare
dei sindacati.
Lo sciopero è quindi un diritto individuale quanto alla sua titolarità, ma
collettivo quanto al suo esercizio.
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
77
Di fronte a tale fenomeno, l’ordinamento giuridico può in astratto considerarlo un’attività penalmente illecita sanzionandolo, oppure reputarlo un’attività lecita ma non riconosciuta, e, quindi, non tutelata.
Traducendosi in una sospensione dell’adempimento degli obblighi contrattuali, lo sciopero potrebbe essere sanzionato civilmente dal datore di lavoro.
La Costituzione riconosce un vero e proprio diritto di sciopero, per cui il
lavoratore che vi aderisce non solo non è penalmente sanzionabile, ma non
può neppure essere oggetto di alcuna sanzione da parte del datore di lavoro.
L’art. 40 Cost. riserva alla legge il delicato e difficile compito di disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero. Ciò è avvenuto, esclusivamente con riferimento ai servizi pubblici essenziali, da parte della L. 146/1990: in tale
settore, infatti, una disciplina di tale diritto appariva improcrastinabile in
quanto entrano in gioco valori costituzionalmente rilevanti come i diritti
della persona alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione. In caso di violazione dei suddetti vige in capo al Governo un diritto cd. di precettazione, ovvero l’ordine obbligatorio ai lavoratori di prestare la propria opera nonostante l’indizione dello sciopero.
Del resto, ogni riconoscimento di un diritto fondamentale impone un bilanciamento fra valori ed interessi costituzionalmente rilevanti, nessuno
dei quali può essere integralmente sacrificato a favore dell’altro.
Domande collegate
24.1 Possono esercitare il diritto di sciopero indistintamente tutte le categorie
di lavoratori? 
No, è inammissibile per alcune categorie di lavoratori (militari, forze di polizia etc.),
la cui eventuale astensione può ledere fondamentali e irrinunciabili beni e diritti costituzionalmente protetti (difesa dello Stato, libertà dei cittadini, ordine pubblico
etc.). Così la L. 382/1978 all’art. 8 fa divieto ai militari di esercitare il diritto di sciopero e la L. 121/1981 fa altrettanto per gli appartenenti alla Polizia di Stato.
24.2 Qual è la differenza tra sciopero e serrata? 
Dalle considerazioni su esposte, appare evidente la differenza, dal punto di vista
costituzionale, fra lo sciopero e la serrata, ossia l’interruzione unilaterale delle attività produttive e delle prestazioni contrattuali da parte del datore di lavoro, consistente nella chiusura degli opifici e di tutti i luoghi dove si svolge normalmente
l’attività produttiva.
La serrata, in passato, era considerata vietata ex art. 520 c.p. Con sentenza 29/1960
la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale tale norma, definendo la serrata «atto penalmente non vietato», ma, a differenza dello sciopero, privo di alcun riconoscimento costituzionale (artt. 505, 506, 507 c.p.).
78
Parte Seconda
25. Quali sono i criteri che ispirano il sistema tributario
italiano? 
L’art. 53 Cost. afferma che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in
ragione della loro capacità contributiva e che il sistema tributario è informato a
criteri di progressività.
La disposizione in esame rappresenta una specificazione dei doveri inderogabili di solidarietà richiamati dall’art. 2 Cost., in quanto consente alla
Repubblica di usufruire, attraverso il prelievo fiscale, delle risorse necessarie per predisporre servizi pubblici atti a rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.
Se il potere impositivo costituisce un sacrificio economico per il cittadino,
è pur vero che questi trae vantaggio dalla contribuzione in quanto essa consente di finanziariare l’erogazione dei servizi pubblici che consentono la
vitalità e lo sviluppo della società.
Domande collegate
25.1 Cosa si intende per capacità contributiva? 
Il principio della capacità contributiva esprime la regola fondamentale che presiede alla creazione ed alla ripartizione dei tributi tra i consociati: esso vincola il legislatore a rapportare l’imposizione tributaria all’attitudine economica di ciascuno a
sostenerne il peso, in modo che ognuno concorra alle spese pubbliche in ragione
dell’attitudine medesima.
La capacità contributiva presuppone, dunque, una certa ricchezza in capo al contribuente. Ne deriva che essa può essere riconosciuta ad un soggetto solo sulla
base di indici obiettivi (quali il reddito complessivo, il patrimonio, etc.) che ne
consentano l’adeguata valutazione.
Il presupposto di ciascun tributo deve essere attuale ed effettivo.
«Attuale» significa che l’imposizione tributaria non può legittimamente colpire redditi o patrimoni che,
pur economicamente valutabili, non siano più in grado, a causa della loro collocazione temporale, di
assicurare al soggetto passivo le risorse con le quali adempiere l’obbligazione tributaria posta a suo carico.
«Effettivo» significa, invece, che la base imponibile deve essere valutata secondo un riscontro di elementi reali e concreti e non secondo criteri e metodi di determinazione dell’imponibile elaborati in termini astratti e forfettari o su medie.
La capacità contributiva rappresenta, quindi, un limite alla discrezionalità del legislatore, anche se il controllo della Corte costituzionale si limita al profilo della non
arbitrarietà e non irrazionalità dell’intervento legislativo.
Il legislatore ed il Governo godono, quindi, di un ampio margine di scelta sia rispetto alla tipologia delle imposte che alla loro misura, in quanto tali determinazioni scaturiscono da una valutazione complessiva della situazione economica
del Paese e delle esigenze della spesa pubblica oltre che dalla ideologia del governo, cioè se orientato a privilegiare i prestatori di lavoro o le classi più abbienti.
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
79
25.2 Cosa si intende per progressività dell’imposta? 
Il principio della capacità contributiva (che rappresenta la misura della partecipazione di ciascun contribuente alla spesa pubblica) costituisce l’applicazione in campo tributario del principio di eguaglianza formale, in quanto richiede una imposizione eguale per situazioni omogenee e un trattamento tributario diseguale per
redditi diversi.
Il principio di progressività, al contrario, si ispira al principio di eguaglianza sostanziale in quanto sulla sua base è possibile prevedere che l’obbligo impositivo non
sia stabilito solo in misura proporzionale al reddito individuale delle persone fisiche, bensì sia funzione crescente della capacità contributiva del contribuente singolo.
La progressività deve interessare non i singoli tributi, ma il sistema tributario nel
suo complesso in ossequio al dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione.
25.3 Anche gli stranieri sono tenuti a pagare i tributi? 
Con l’espressione «tutti» il Costituente accoglie il principio della universalità della imposta, in quanto l’obbligazione tributaria colpisce indistintamente cittadini,
stranieri e apolidi purché producano redditi in Italia e limitatamente alla produzione di essi e senza applicare aliquote discriminatorie.
Nessuna discriminazione, comunque, può essere fatta a svantaggio degli stranieri
imponendo ad essi imposte specifiche legate alla loro condizione di estraneità.
26. In che modo è possibile oggi adempiere al sacro dovere della difesa della Patria? 
Tra i doveri inderogabili di solidarietà politica menzionati nell’art. 2 della
Costituzione va menzionato in primis il dovere di difesa della Patria proclamato dall’art. 52 Cost.
In particolare, il co. 1 dell’art. 52 definisce tale dovere di solidarietà come
«sacro» non connotandolo però di alcun significato religioso, dovendosi intendere piuttosto come condivisione del nucleo fondante dei principi intangibili da parte dei cittadini.
In questo senso la difesa della Patria può essere adempiuta anche con forme di solidarietà nei confronti della comunità diverse dal servizio militare
armato (ad es. il servizio civile).
Il dovere di difesa della Patria si traduce, ex art. 52, co. 2, nell’obbligo di
prestare il servizio militare nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. Tale
obbligo, cioè, non può pregiudicare la posizione del cittadino «lavoratore»
nei suoi diritti politici.
Con L. 14 novembre 2000, n. 331 è stato introdotto il servizio militare professionale e sospeso il servizio di leva obbligatoria (attuato con L. 23 agosto 2004, n. 226) per cui il ser-
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Parte Seconda
vizio civile sostitutivo si è trasformato nel servizio civile nazionale (istituito dalla L. 6 marzo 2001, n. 64 e attuato con il D.Lgs. 5 aprile 2002, n. 77) che offre la possibilità ai giovani
di ambo i sessi, di età compresa fra i 18 e i 28 anni, di dedicare un anno della propria vita
ad attività sociali.
La normativa richiamata ha subito un’importante riorganizzazione ad opera del D.Lgs. 15
marzo 2010, n. 66, recante il Codice dell’ordinamento militare.
27. La famiglia di fatto è compatibile con il concetto di
famiglia enunciato dalla Costituzione? 
L’art. 29 Cost. riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Tale formulazione ha fatto in un primo tempo ritenere che la famiglia rappresentasse una formazione sociale preesistente al
diritto, centro autonomo di situazioni giuridiche che i suoi membri esercitano non in quanto individui, bensì come appartenenti al gruppo.
Questa società naturale, inoltre, sarebbe unicamente quella fondata sul matrimonio, per cui ogni forma di convivenza che non fosse legittimata dal crisma sacramentale (matrimonio religioso) o dal riconoscimento legale dello stato civile (matrimonio civile), sarebbe confinata nel giuridicamente irrilevante.
Tuttavia, l’interpretazione delle norme costituzionali ha subìto nel tempo un’evoluzione in
coerenza con l’evoluzione sociale dei rapporti familiari. In particolare, si è ritenuto che la
nozione di famiglia richiamata dall’art. 29 Cost. debba necessariamente risentire della concezione della stessa nei diversi momenti storici in cui la norma viene chiamata ad operare.
Da ciò discende che i diritti della famiglia riconosciuti dalla Costituzione
non sono i diritti della famiglia intesa come istituzione, ma costituiscono,
invece, un’espressione sintetica per indicare i diritti dei singoli nell’ambito della relazione familiare.
La famiglia, cioè, costituisce una delle formazioni sociali in cui si realizza lo sviluppo della personalità umana ai sensi dell’art. 2 Cost., a prescindere dall’evento-matrimonio.
Questa evoluzione della nozione di famiglia ha reso possibile un nuovo
orientamento sulla rilevanza giuridica delle famiglie di fatto, ossia di quelle convivenze non fondate sul matrimonio, ma pur sempre caratterizzate
da stabilità dei rapporti ed eventualmente dall’assunzione di obblighi di mantenimento, educazione ed istruzione della prole.
La Corte costituzionale ha riconosciuto in alcune sue pronunce la posizione di privilegio attribuita dall’art. 29 Cost. alla famiglia legittima, individuando in essa una forma giuridicamente organizzata di convivenza, caratterizzata da certezza, stabilità di rapporti e serietà d’impegno, che si contrappone alla convivenza di fatto fondata, invece, sulla libera e sempre revocabile scelta di convivere, senza necessaria corrispettività di diritti e doveri.
Tuttavia, la Corte ha anche ritenuto la famiglia di fatto meritevole di tu-
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
81
tela qualora sia caratterizzata da un legame consolidato di stabilità, non
risultando irragionevole una disciplina di rango legislativo che, pur riservando a tale forma di convivenza un’ampia autonomia, responsabilizzi i
soggetti che ne fanno parte per tutelare in particolare i più deboli, soprattutto per gli aspetti patrimoniali.
Domande collegate
27.1 I coniugi, in veste di educatori dei propri figli, sono in posizione di eguaglianza? 
La disciplina del codice civile (1942) in passato si presentava fortemente discriminatoria in quanto la figura paterna, in veste di capofamiglia, era considerata, in
primis, responsabile dell’educazione dei minori, come tale era esclusivo titolare
della cd. «patria potestà».
Con la riforma del diritto di famiglia (1975) è stato stabilito il piano di assoluta parità dei genitori che sono contitolari, allo stesso modo, della potestà parentale
nell’esecizio della potestà sui figli e nel diritto-dovere all’assistenza dei figli minori.
In conseguenza a tale principio si parla più frequentemente di imporre al figlio in
aggiunta a quello del padre, anche il cognome della madre, come del resto da tempo in uso in numerosi paesi stranieri.
27.2 Qual è il valore delle unioni omosessuali? 
Per quanto concerne le unioni tra omosessuali, si è fatto ricorso all’art. 3 per evidenziare
una disparità di trattamento. Esse, in effetti, rappresentano comunque una comunità di vita
e di affetti (rientrerebbero, infatti, nelle formazioni sociali tutelate dalla Costituzione), ma non
ricevono nessun tipo di tutela, a causa del diffuso senso di riprovazione sociale che accompagna tali legami nella visione di una consistente parte dei cittadini di orientamento cattolico presente nel nostro Paese.
Con sent. 138/2010 la Corte costituzionale ha affermato che l’unione omosessuale deve
considerarsi «formazione sociale» in quanto è idonea a consentire lo sviluppo della persona
nella vita sociale: se tale forma di unione costituisce una stabile relazione di convivenza pari
a quella della coppia non è, comunque, equiparabile al matrimonio dal momento che una
disciplina più dettagliata di tale forma di unione costituisce un compito del Parlamento.
Con una recente sentenza la Cassazione (4184/2012) ha stabilito che due persone dello stesso sesso non possono contrarre matrimonio né tantomeno possono trascrivere il contratto
all’estero (Cass. 4182/2012), tesi condivisa dalla Corte costituzionale (sent. 4/2011,
138/2010, 167/2010) e dalla CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo).
Nel gennaio 2013 è stata, infine, pubblicata la sentenza 601/2012 della prima sezione civile della Corte di Cassazione che ha riconosciuto alle coppie omosessuali, che danno le adeguate garanzie, la possibilità di allevare i minori in quanto non è scientificamente dimostrato che l’orientamento sessuale comporti un condizionamento per l’equilibrato sviluppo
di un minore.
In particolare eventuali ripercussioni negative, per assurgere a legittimi motivi discriminatori da tale diverso contesto familiare, devono essere dimostrate. Questa sentenza non ha
carattere normativo, ma disciplina un caso concreto che, comunque, potrà in futuro influenzare positivamente o negativamente il legislatore.
82
Parte Seconda
28. La libertà di insegnamento e la libertà di istituire
scuole 
L’art. 33 Cost. riconosce la libertà di insegnamento, intesa come libertà
personale del docente, detta «autonomia didattica», ossia libertà diretta a
promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena
formazione della personalità degli alunni, pur nel rispetto della loro libertà di coscienza senza esercitare pressioni ideologiche o politiche.
Il docente, cioè, è libero di professare qualsiasi tesi o dottrina e di svolgere
l’insegnamento con un proprio metodo.
In quanto tale, la libertà di insegnamento è funzionale non tanto al docente,
quanto ai discenti e più in generale alla società che, attraverso tale forma di
pluralismo, può progredire e rinnovarsi.
La libertà di insegnamento si sostanzia nella:
— libertà di manifestare il proprio pensiero (art. 21 Cost.) con ogni mezzo possibile di
diffusione;
— libertà di professare qualunque tesi o teoria si ritenga degna di accettazione;
— libertà di svolgere il proprio insegnamento secondo il metodo che appaia opportuno
adottare.
È riconosciuta al docente la libertà di esercitare le sue funzioni didattiche
e di ricerca scientifica senza vincoli di ordine politico, religioso o, comunque, ideologico.
La libertà di insegnamento trova tuttavia dei contemperamenti allorché si esplichi nelle scuole private di tendenza, ossia in quelle particolari organizzazioni scolastiche o universitarie che
sono portatrici di precisi fedi religiose o particolari indirizzi culturali. In tal caso, l’insegnante di una di queste scuole, ideologicamente caratterizzata, è limitato necessariamente dalle finalità perseguite dall’ente. Sulla libertà di insegnamento, quindi, prevale in questi casi
la libertà della scuola.
Sezione seconda
Test a risposta multipla
1. Quali sono i «diritti inviolabili dell’uomo», riconosciuti e garantiti dall’art. 2
della Costituzione?
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
I principi contenuti nelle Disposizioni sulla legge in generale.
I principi della c.d. «Costituzione materiale».
I diritti garantiti dai primi 54 articoli della Costituzione.
I diritti e le libertà considerati essenziali, in quanto insiti nella natura dell’uomo, che connotano la nostra forma di Stato.
Principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini
83
2. Esistono limiti alla libertà personale?
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
No.
Sì, ma coperti da riserva assoluta di legge.
Sì, ma coperti da riserva relativa di legge.
Sì, ma solo in casi di violazione di norme costituzionali.
3. Per quali riunioni è previsto l’obbligo di dare preavviso alle autorità di pubblica sicurezza?
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Per le riunioni in luogo chiuso.
Solo per le riunioni a carattere politico o propagandistico.
Per le riunioni in luogo pubblico.
Solo per le riunioni in luogo aperto al pubblico.
4. Quali, tra queste associazioni, non sono vietate dalla Costituzione?
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Le associazioni sindacali.
Le associazioni segrete.
Le associazioni aventi fini vietati dalla legge penale.
Le associazioni a carattere militare che perseguono scopi politici.
5. Quale elemento differenzia la manifestazione del pensiero, tutelata ex art.
21 Cost., dalla comunicazione del pensiero contemplata, invece, dall’art.
15 Cost.?
❑❑ A) Il requisito formale, in quanto la «manifestazione» del pensiero consiste
nella divulgazione delle proprie idee per iscritto.
❑❑ B) Non vi è alcuna differenza.
❑❑ C) I destinatari, essendo la «comunicazione» del pensiero indirizzata a persone determinate, mentre la «manifestazione» del pensiero è rivolta a
una pluralità indeterminata di soggetti.
❑❑ D) La differente disciplina dettata dalla Costituzione.
6. Il diritto alla salute del cittadino è tutelato:
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Come diritto individuale.
Come diritto collettivo.
In entrambe le forme.
Non è tutelato affatto dalla Costituzione.
7. Nel nostro ordinamento è ancora obbligatorio prestare servizio militare?
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Sì, è esplicitamente previsto dall’art. 52 Cost.
Sì, ma solo fino al 2007.
Si, ma solo per determinate categorie di cittadini.
No, il servizio militare obbligatorio è stato soppresso a decorrere dal 1º
gennaio 2005.
8. I sindacati hanno la personalità giuridica?
❑❑ A) Sì.
❑❑ B) Sì, tranne determinate eccezioni.
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Parte Seconda
❑❑ C) No, né potrebbero acquistarla.
❑❑ D) No, ma potrebbero acquistarla in caso di registrazione.
9. In riferimento alla sfera religiosa, la Costituzione:
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Tollera le religioni diverse da quella cattolica.
Impone la fede cattolica come «religione di Stato».
Ignora del tutto l’argomento nell’ottica della laicità della Repubblica.
Afferma la libertà di fede religiosa.
10. La Costituzione riconosce i diritti della famiglia, intesa come:
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Società naturale fondata sul matrimonio.
Unione di persone basata su vincoli di affinità.
Società naturale fondata sulla comunanza di vita ed affetti.
Società fondata sulla convivenza dei coniugi.
11. Secondo l’art. 40 Cost., il diritto di sciopero:
❑❑
❑❑
❑❑
❑❑
A)
B)
C)
D)
Deve essere esercitato nell’ambito delle leggi che lo regolano.
È disciplinato dai contratti collettivi di lavoro.
È previsto solo con riferimento allo sciopero economico.
Può essere esercitato con il limite dell’ordine pubblico.
12. Che differenza sussiste tra il diritto di riunione e il diritto di associazione?
❑❑ A) Il diritto di riunione è disciplinato dalla Costituzione, mentre quello di associazione no.
❑❑ B) Viceversa rispetto alla precedente risposta.
❑❑ C) Non esiste nessuna differenza.
❑❑ D) La riunione ha un carattere temporaneo, l’associazione un carattere stabile.
Soluzioni:
1. D
5. C
9. D
2. B
6. C
10. A
3. C
7. D
11. A
4. A
8. D
12. D
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