1 - Methodos

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1. Introduzione alle relazioni pubbliche
1.1
La giornata di Mario Rossi
Mario Rossi vive e lavora a Milano, ha moglie e due figli di 18 e 20 anni, è impiegato presso Banca Intesa, tifa
per l’Inter, legge Il Giornale e vota Forza Italia. Si sveglia alle sette, vive in un appartamento affittato alle
Generali, dorme su un letto Ikea, vestaglia e pantofole acquistate in Rinascente, si lava in un bagno con sanitari
Ideal Standard e si pulisce i denti con Colgate. Beve un caffè illy e indossa un vestito Marzotto. Prima di salutare
la moglie, raccomanda al figlio Giacomo, maturando, di andare in Bocconi per l’incontro di orientamento, poi
dice al maggiore, Giorgio, primo anno allo Iulm e interessato alla comunicazione finanziaria, di osservare con
attenzione l’evoluzione della fusione TIM-Telecom: in banca si sussurra che sia in vista un importante accordo
internazionale. Si dirige verso l’edicola, compra Il Giornale, prende la metropolitana, legge un articolo sui
rapporti Bush-Putin, scorre un pezzo sul dibattito D’Alema-Rutelli-Ulivo, guarda come vanno le sue azioni AEM,
vede se Moratti ha completato bene la campagna acquisti, si ricorda che in serata deve passare alla Vidas dove è
volontario, e arriva in banca per iniziare la sua normale giornata di lavoro. Fermiamoci.
Anche sua moglie, assistente in una boutique di prêt-à-porter, e i suoi figli, nel breve periodo compreso
fra le sette e le nove di mattina, entrano in qualche relazione con almeno una ventina di organizzazioni
complesse. E questo senza contare i pensieri che nel frattempo occupano la loro attenzione, i tanti messaggi che
ricevono distrattamente ascoltando la radio del vicino, dando un’occhiata alle affissioni in metropolitana oppure
sentendo le chiacchiere delle due ragazze in piedi vicino all’edicola che confrontano i rispettivi profumi.
Nel corso di una qualsiasi giornata, una persona che vive in città entra in relazione con centinaia di
organizzazioni complesse (alcuni recenti studi parlano di migliaia). Queste “relazioni” possono essere
consapevoli e volute; consapevoli ma subite; oppure inconsapevoli e, quindi, anche in questo caso subite. Non
serve procedere oltre, se non per concludere che, per ciascuna di quelle organizzazioni, la sia pur fuggevole – ma
non sempre è tale – relazione intrattenuta con Mario Rossi e con altri come lui, costituisce un momento
importante della loro attività primaria: quella che sempre più frequentemente gli analisti indicano come essenziali
per la creazione di valore, la ragione stessa per cui esistono e che si può chiamare “missione”; diversa dalla
“visione”, che è l’immagine del futuro che l’organizzazione si impegna a trasformare in realtà, e che – a sua volta
– si differenzia dai “valori guida”, le regole comuni e condivise alla base del patto, più o meno esplicito, che
impegna chi lavora all’interno di, con e per una organizzazione.
Per compiere consapevolmente e in modo programmato il tragitto dalla “missione” alla “visione”,
l’organizzazione identifica e attua una “strategia” il più possibile chiara e condivisa che, a sua volta, si compone
di “programmi” che vengono attuati applicando specifici “strumenti operativi”.
Si comprende dunque come la gestione consapevole dei sistemi di relazione con tutti coloro che possono
aiutare o ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti abbia oggi assunto un peso crescente per ogni
organizzazione1. Questa gestione costituisce il compito principale assegnato alle relazioni pubbliche. All’interno
1
Per avere successo una organizzazione deve integrarsi armonicamente ed entrare in relazione con tutti gli elementi
dell’ambiente in cui intende operare. Partendo da questo presupposto il più reputato studioso internazionale delle relazioni
pubbliche, James Grunig, sostiene che il cuore della professione sta proprio nella relazione. In questi ultimi anni la scuola
di una organizzazione e intorno a essa, molte persone impegnano una parte rilevante del loro tempo e delle loro
competenze professionali per sviluppare relazioni – dirette e indirette – volte a influenzare, orientare, modificare
o consolidare le opinioni, i comportamenti, gli atteggiamenti e le decisioni di Mario Rossi. Accrescere dunque il
valore della relazione con Mario Rossi costituisce oggi la finalità di ogni organizzazione. Attraverso questa
relazione infatti, è possibile “ascoltare” e interpretare le opinioni, le aspettative e i desideri di Mario Rossi,
definire obiettivi realistici, progettare e realizzare iniziative che ne facilitino il raggiungimento e infine, misurare
se le iniziative intraprese siano state efficaci. Quando tali relazioni si propongono di orientare un comportamento
di acquisto, le attività di relazioni pubbliche agiscono, normalmente, in supporto alla pubblicità, ma anche –
come vedremo più avanti parlando di comunicazione integrata – alla promozione e al direct response. Sono
invece queste altre discipline a essere applicate in supporto alle relazioni pubbliche, quando le relazioni con
Mario Rossi si propongono di orientare i suoi comportamenti, le sue opinioni o le sue decisioni, diverse dal
semplice consumo di un prodotto o servizio: per esempio, partecipare o meno domani allo sciopero dei bancari,
votare ancora per Forza Italia, pensare che la Fiat abbia fatto bene a staccarsi dalla General Motors, concordare
con Enzo Biagi che sarebbe bene introdurre forti incentivi anche per le aree depresse del Nord.
1.2
Pervasività
Le relazioni pubbliche sono quelle attività consapevoli che una organizzazione -sociale, pubblica o privataintraprende per entrare e/o restare in relazione con i suoi pubblici influenti 2: quelli che il suo gruppo dirigente (la
“coalizione dominante”) ritiene possano agevolare oppure ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti.
Così intese, le relazioni pubbliche sono divenute pervasive nella società contemporanea e la loro finalità è di
contribuire a generare in quei pubblici specifici opinioni, comportamenti e decisioni che consentano
all’organizzazione di raggiungere i suoi obiettivi con un migliore rapporto costi/benefici, e agli stessi pubblici
influenti di ricavare un misurabile valore aggiunto dall’avere aiutato l’organizzazione 3.
Raramente una persona “normale” viene consapevolmente esposta a queste attività che si rivolgono – di
norma – a soggetti attentamente preidentificati e selezionati: leader di opinione, giornalisti, decisori pubblici,
personaggi influenti della comunità economica o finanziaria, personalità della cultura, dello sport e dello
spettacolo; persone che possiedono le “chiavi del cancello”, i cosidetti gatekeeper che filtrano, reinterpretano e
trasferiscono all’opinione pubblica, con il peso della loro autorevolezza, i messaggi elaborati dalle stesse
organizzazioni.
relazionale/sistemica di Grunig si è diffusa fino ad avere la prevalenza fra gli studiosi e nella comunità professionale più
consapevole.
2 Il concetto di pubblico/pubblici (publics, in inglese) – sebbene fondamentale per le relazioni pubbliche – è stato oggetto
finora di poche riflessioni teoriche che comunque rispecchiano in larga parte la “teoria situazionale” (Grunig e Hunt, 1984;
Grunig e Repper, 1992). Secondo questa, i pubblici si aggregano quando percepiscono un problema (una conseguenza indotta
dalle attività dell’organizzazione) su di una determinata questione (issue). Non tutti gli stakeholder diventano publics. È
Freeman, nel lontano 1984, a utilizzare per primo il termine stakeholder indicando quei soggetti sui quali l’organizzazione,
nel perseguire finalità istitutive e obiettivi operativi, produce conseguenze e – per converso – coloro i cui atteggiamenti,
opinioni, comportamenti e decisioni, producono conseguenze sull’organizzazione. I publics possono invece rimanere allo
stato latente (non percepiscono il problema), oppure evolvere e diventare – nell’ordine – pubblici consapevoli (riconoscono il
problema, ma non sono interessati ad agire), oppure pubblici attivi (coinvolti e interessati alla risoluzione del problema).
Negli ultimi tempi questa teoria è oggetto di osservazioni critiche che sottolineano la passività attribuita all’aggregazione dei
pubblici che si formano solo in conseguenza di determinati comportamenti organizzativi riferiti a una particolare e specifica
questione.
3 Le organizzazioni più efficaci raggiungono le finalità perseguite e queste sono, a loro volta, più facilmente raggiungibili se e
quando sono negoziate proattivamente con i pubblici influenti. (Grunig, 1992). È la simmetria tendenziale della relazione, il
cui fine è la comprensione delle reciproche aspettative e la inclusione di queste – ove ritenute accettabili – negli obiettivi
operativi della organizzazione. Questo produce una conseguente accelerazione dei tempi di attuazione. Anche la
consapevolezza precoce delle aspettative ritenute non accettabili, consente all’organizzazione di anticipare (e prepararsi al)le
potenziali crisi: e questo concorre ulteriormente a diminuire i tempi attuativi, con un miglior rapporto costi/benefici.
Capita talvolta, però, che non ne siano consapevoli neppure i soggetti influenti a cui quelle attività sono
dirette. E questa è una delle ragioni principali per cui le relazioni pubbliche sono spesso accusate di essere
“occulte”.
Nel primo caso, non è utile, né opportuno, attribuire al relatore pubblico la responsabilità di esplicitare
erga omnes le attività svolte, gli interessi rappresentati e gli obiettivi perseguiti... sarebbe come obbligare un
commerciante a informare ciascun abitante del circondario di ogni vendita e di come sia stata conseguita!
Piuttosto, è lo stesso soggetto a cui l’attività viene diretta a dover valutare se – e fino a che punto – sia necessario
od opportuno informare i “pubblici di riferimento” che i suoi atteggiamenti e comportamenti, le sue decisioni e
opinioni possono anche essere, di volta in volta, influenzate dal lavoro di relatori pubblici.
È un comportamento, quest’ultimo, per alcuni aspetti inverosimile e per altri, al contrario, auspicabile.
Da un lato, infatti, è normale che un leader d’opinione venga orientato da un numero sempre più ampio di “agenti
di influenza” e che, in ogni caso, questo possa avvenire con frequenza più intensa rispetto a una persona normale.
Il renderne fedelmente conto ai rispettivi “influenzati” o “influenzabili” sarebbe dunque complesso e
verosimilmente tedioso al punto da complicare gli stessi flussi comunicativi sociali fino a renderli indecifrabili.
Dall’altro, è anche vero che un leader di opinione è tale proprio in quanto riscuote la fiducia dell’influenzato e un
rapporto di fiducia si basa, normalmente, sulla trasparenza e sulla credibilità della relazione.
Appare dunque chiaro come non sia possibile definire regole generali valide per tutti e in ogni circostanza.
L’influente dovrà valutare caso per caso, tenendo ovviamente conto del fatto che il suo interesse prioritario
risiede, di norma, assai più nel mantenere e consolidare la fiducia dell’influenzato che non nel soddisfare le
aspettative di un relatore pubblico. Peraltro, l’influente sa anche bene che, se si indebolisce il suo potere di
influenza, rischia anche, e inevitabilmente, di perdere l’interesse e l’attenzione dello stesso relatore pubblico.
Nel secondo caso invece (quando è lo stesso influente a non essere consapevole delle attività del relatore
pubblico) è bene dire subito e a scanso di equivoci che, di norma, un operatore che non attiva una relazione
trasparente con il suo interlocutore è un operatore scorretto, che viola i codici deontologici della professione,
danneggia la credibilità sua, quella dell’interesse che rappresenta e, più in generale, quella delle relazioni
pubbliche come professione. Questa precisazione, che assomiglia a un “anatema”, risulta necessaria poiché la
trasparenza del relatore pubblico4 è (ma le eccezioni esistono sempre) condizione imprescindibile di efficacia.
Come è possibile, infatti, immaginare un influente orientato nel medio-lungo periodo da un operatore il quale,
nell’esercizio della sua attività, non agisce in modo trasparente, non esplicita i suoi interessi e neppure gli
obiettivi che persegue? E ancora: come si può pensare che un operatore, conosciuto nella sua comunità
professionale per svolgere la sua attività con modalità non trasparenti e comunque discutibili, possa raggiungere
quel minino di consenso sociale che gli permetta di operare in via continuativa con successo? Naturalmente,
questa “condizione di efficacia” vale soltanto per chi svolge l’attività professionale in modo continuativo.
Dunque, se gli influenti avessero piena consapevolezza della diversità sostanziale fra un dilettante e un
professionista, e delle implicazioni deontologiche e operative di tale diversità, l’identità percepita delle relazioni
pubbliche sarebbe assai diversa da quella che è, e molte signore “bene”, ex politici, ex giornalisti, ex consulenti,
ex avvocati non affollerebbero la professione come fanno oggi in misura crescente. Del resto, è impensabile,
anche se sono in molti a desiderarlo, il fatto di porre oggi una barriera all’ingresso per l’esercizio delle attività di
relazioni pubbliche. Essendo queste, come vedremo meglio più avanti, strettamente connesse alle dinamiche del
“discorso pubblico” in una qualsiasi società democratica, una barriera all’ingresso assumerebbe un insopportabile
sapore corporativo, non dissimile dall’esistenza, per fortuna, soltanto in Italia, Brasile, Panama, Perù e Nigeria, di
4
Una relazione può dirsi trasparente in presenza dei seguenti passaggi:
- dichiarazione della propria identità;
- dichiarazione del soggetto che si rappresenta (questo vale non solo per i consulenti);
- dichiarazione dell’obiettivo che si persegue.
C’è anche un quarto, ulteriore passaggio applicabile solamente ove non si corra il rischio di divulgare informazioni utili alla
concorrenza: ed è la dichiarazione delle modalità con cui si intende perseguire l’obiettivo.
Il contenuto delle informazioni deve, inoltre, essere tempestivo, veritiero e attenersi come minimo alle norme di legge.
Ma questi ultimi passaggi hanno a che fare con altre caratteristiche della comunicazione e attribuirli al concetto di trasparenza
rischia di generalizzarlo e di svilirlo nella sua importanza.
un Ordine dei Giornalisti, istituito per legge5. Assai diverso sarebbe invece il riconoscimento che l’opinione
pubblica più informata potrebbe attribuire a chi, nello svolgere la propria professione, entrasse a fare parte di una
associazione professionale come, per esempio, la FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), perché:
– ha maturato almeno cinque anni di esperienza professionale dimostrabile;
– ha superato un colloquio di ammissione con una commissione di pari;
– si è impegnato, pena il decadimento dell’iscrizione, ad accumulare ogni triennio crediti di formazione e
aggiornamento professionale, insieme a una verifica (sempre condotta da pari) dell’effettiva permanenza dei
requisiti professionali che, a suo tempo, ne avevano consentito l’accettazione.
Considerando questo ragionamento preliminare, forse un po’ semplicistico ma, crediamo, sufficientemente
razionale, l’annosa questione delle relazioni pubbliche come strumento di persuasione occulta perde una parte
consistente della sua forza, anche se, chiaramente, non tutta. Infatti, occorre considerare che gli iscritti alla FERPI
sono 1.000, contro una stima di 70.000 operatori in Italia: 40.000 dei quali operativi nel settore pubblico (uffici
stampa, uffici del portavoce e uffici relazioni con il pubblico); 10.000 nel settore privato (imprese); 5.000 in
quello associativo (terzo settore) e altrettanti nelle società di consulenza, studi professionali oppure liberi
professionisti. La situazione non è molto diversa nel resto del mondo. Si calcola infatti che siano almeno 3
milioni i relatori pubblici attivi, ma che non più di 250.000 partecipino a una delle diverse associazioni
professionali esistenti, che possono essere suddivise in associazioni:
-
nazionali di persone (come la FERPI in Italia o la PRSA negli Stati Uniti);ù
nazionali di imprese (come Assorel in Italia o la PRCA in Inghilterra);
internazionali di persone (come la IPRA o la IABC);
regionali di persone (come CERP in Europa o CONFIARP in America Latina);
settoriali (come INRI per la relazione con gli investitori o IACP per la comunicazione politica);
globali (come la Global Alliance for Public Relations and Communication Management, unica nel
mondo che si propone come organizzazione “ombrello” per tutte le altre, ma che poggia le sue basi sulle
associazioni nazionali di persone).
In sintesi, quindi:
-
la trasparenza è necessaria fra il relatore pubblico e il suo diretto interlocutore;
il fatto che il lettore comune di un qualsiasi giornale, un cittadino normale che intenda giudicare
l’operato di un decisore pubblico o un consumatore che decida di acquistare un qualsiasi prodotto o
servizio possano maturare un’opinione, oppure compiere una scelta, anche perché orientati da persone
che ritengono influenti, le quali -a loro volta- possono essere state influenzate da attività consapevoli di
relatori pubblici, è un problema che riguarda unicamente il rapporto fra l’influente e i suoi influenzati.
Se si interpreta in questo modo la questione non è chiaro dove possa risiedere la persuasione occulta.
5
Sulla questione della regolazione è in corso un vivace dibattito (http://www.globalpr.org) tra regolazione della professione
di per sé e/o regolazione delle pratiche specifiche della professione che maggiormente impattano sull’interesse pubblico.
Nella prima rientrano i casi di Brasile, Nigeria, Panama e Peru in cui una legge dello Stato disciplina l’esercizio della
professione. Nella seconda rientrano i casi di quei tanti Paesi, a partire dall’Italia, che in misura maggiore o minore,
prevedono la regolazione per legge (hard) o per regolamento (soft) di alcune attività delle relazioni pubbliche, come la lobby,
le investor relations, la comunicazione politica… Una interessante ‘terza via’ alla questione della regolazione e alla tutela
dell’interesse pubblico si è aperta nel Febbraio 2005 con la concessione da parte del Governo britannico di un riconoscimento
giuridico alla associazione professionale inglese (CIPR). Attraverso questo riconoscimento, che la Ferpi italiana persegue dal
1970, l’associazione professionale rappresenta la professione, definisce e regola i criteri deontologici e di accreditamento
professionale e partecipa attivamente ai processi decisionali che tendono a regolare le specifiche pratiche professionali che
maggiormente impattano sull’interesse pubblico.
Naturalmente il problema non è così semplice, ma se non si parte da questo approccio di base si rischia di
assumere posizioni irragionevoli.
1.3
Manipolazione
È curioso ricordare come l’espressione “persuasore occulto”, resa popolare quasi cinquant’anni fa dal saggio di
Vance Packard, The Hidden Persuaders, del 1957, fosse diretta a indicare gli operatori della pubblicità e non
delle relazioni pubbliche. È curioso, poiché è difficile trovare un’altra attività così palese ed esplicita come la
pubblicità. Oggi, fa sorridere l’idea che potesse suscitare scandalo un libro in cui si “rivelavano” nozioni come
l’immagine di prodotto o la fedeltà di marca. Ma in quegli anni lo scandalo ci fu, e come. Fino ad allora infatti, la
pubblicità – disciplina della comunicazione d’impresa che si propone soprattutto di creare e rafforzare una
immagine di marca (brand image o brand identity) – aveva attirato soltanto un interesse secondario fra gli
studiosi sociali. Fu il prorompente avvento della televisione negli Stati Uniti degli anni Cinquanta ad offrire alla
pubblicità uno straordinario canale espressivo che, grazie anche a una positiva congiuntura economica, fece
incrementare vertiginosamente – per la prima volta e con modalità consistenti e durature – i consumi di massa
con l’affermazione dei supermercati e degli FMCG (fast moving consumer goods). Di qui, dalla constatazione
oggettiva di una vistosa modifica dei consumi indotta in larga parte dalla pubblicità televisiva, le preoccupazioni
di molti analisti e critici sociali, fra i quali Vance Packard. Nel suo pamphlet egli svela e mette a nudo per la
prima volta i segreti di una attività che si propone di convincere i consumatori a compiere azioni non sempre
volute e, magari neppure consapevolmente desiderate. Packard considera “oscena” l’idea che la sola differenza
tra due prodotti possa consistere in una loro diversa “immagine” trasferita dalla pubblicità. Il fatto, poi, che un
pubblicitario possa addirittura condurre ricerche di natura psico-sociale sui consumatori prima di creare il
messaggio, al fine di pre-testarne l’accoglienza, gli suonava “sinistra”. Per capire quanta acqua sia passata sotto i
ponti da allora, si pensi che già dal 1986 gli investimenti delle imprese in ricerche per conoscere l’impatto della
comunicazione dei prodotti/servizi hanno superato quelli in ricerche per conoscere cosa i consumatori pensino
degli stessi prodotti/servizi.
Nelle società postindustriali di oggi – con qualche occasionale ritorno di fiamma proibizionista di soggetti
talvolta anche influenti della comunità politica e sociale – la pubblicità è attività generalmente accettata e
riconosciuta, e la conoscenza dei suoi principali processi interni abbastanza diffusa. È una attività in cui si
stabilisce una relazione fra:
– l’inserzionista, il quale acquista lo spazio di un “mezzo” per trasmettervi un messaggio, normalmente
elaborato da una agenzia di pubblicità. Questo spazio viene venduto direttamente dall’editore del mezzo
oppure da un suo concessionario, più o meno esclusivo;
– l’editore, il quale vende uno spazio su un proprio mezzo, immediatamente riconoscibile come pubblicità dal
lettore, direttamente o tramite un concessionario a un inserzionista rappresentato da una agenzia di pubblicità
o da un centro media (sorta di gruppo di acquisto);
– il consumatore del mezzo il quale lo acquista sapendo bene che vi troverà anche la pubblicità, e che questa è
pagata dall’inserzionista.
Più trasparente di così! I due anelli della catena, l’inserzionista e il destinatario del messaggio pubblicitario, si
trovano accomunati da un patto esplicito e palese: il primo utilizza nel suo messaggio immagini, metafore,
iperboli, evoca sentimenti, emozioni e trasferisce informazioni – unidirezionali, meticolosamente controllate,
asimmetriche ed erga omnes – che si propongono di rafforzare una identità di marca e/o di stimolare un
comportamento di acquisto; il secondo ne è del tutto consapevole e, in qualche caso, anche divertito e
compiaciuto.
Assai diverso invece è l’ambito di intervento delle relazioni pubbliche, che si trascinano da sempre un’ombra
di disciplina “manipolatoria” proprio perché in molti casi le loro attività non sono palesi al grande pubblico. Non
passa giorno che, su qualche giornale o rivista, le relazioni pubbliche non vengano accusate delle peggiori
nefandezze.6 Per lo più, le critiche derivano da un equivoco di base: pochissimi infatti sanno che le attività di
relazioni pubbliche, normalmente, si rivolgono a pochi soggetti, selezionati perché ritenuti influenti, affinché
assumano decisioni, oppure orientino opinioni, atteggiamenti e comportamenti di altri, in merito a questioni
rilevanti per le organizzazioni che a quelle attività danno vita.
Detto ciò, non v’è dubbio che vi siano comunque diversi margini di ambiguità.
1.4
Ambiguità
Il tema dell’ambiguità è sicuramente importante ed è bene affrontarlo subito, affinché sia chiaro che ci inoltriamo
su un terreno ricco di sfumature, dove è arduo distinguere il bianco dal nero, ma anche – e forse proprio per
questo – un terreno affascinante. Ci si propone, infatti, di delineare i connotati di una professione che si realizza
nel pieno della contemporaneità, là dove vanno a incrociarsi i sistemi di relazione fra la società politica (i partiti,
le istituzioni, i gruppi di interesse, i movimenti della società civile), la società economico-finanziaria (le imprese,
le loro associazioni, i sindacati, i gruppi di pressione, i mercati finanziari) e la società dell’informazione (le
agenzie, i quotidiani, i periodici, le radio, le televisioni, i new media, gli operatori della cultura e
dell’educazione). È un incrocio assai friabile e, per molti aspetti irto di asperità, fra quelle che possiamo definire
le tre principali componenti della nostra vita associata e che, per molteplici ragioni, si trovano a essere in rapida e
imprevedibile trasformazione e sovrapposizione. È utile parlarne se non altro perché ciò consente di capire
meglio il mondo in cui viviamo, di averne maggiore consapevolezza e di governare con più efficacia le relazioni
che intratteniamo con la società. È utile parlarne anche perché ci permette di imparare a riconoscere le relazioni
pubbliche quando queste vengono dirette verso di noi e con noi chiedono di aprire o sviluppare un dialogo oppure
– e succede anche questo – quando esse vengono dirette contro di noi per modificare, senza essere sempre
esplicite e immediatamente percepibili, qualche nostra opinione o comportamento. Oggi viviamo in un mondo in
cui retorica ed esagerazione (gli anglosassoni parlano più crudamente di hype, “iperbole”) tendono a prevalere e a
sostituirsi a quella che una volta sembrava, o comunque si chiamava “sostanza”: un mondo in cui una notizia non
esiste se non viene accompagnata da uno “pseudoevento”, che si trasforma nella vera notizia 7.
Non si capisce perché le relazioni pubbliche debbano/possano sfuggire alla dannazione dell’ambiguità in
una società in cui la “comunicazione” ha assunto valenze strutturali; in cui le sue leggi scandiscono il tempo
dell’agenda politica, sociale e culturale del Paese; in cui il sistema dei media si è trasformato in un
impressionante impasto di marmellata ove informazione, pubblicità, comunicazione, retorica, reality, trash e
relazioni pubbliche si intrecciano e giornalisti, editori, pubblicitari, relatori pubblici, politici, imprenditori,
analisti e investitori valicano costantemente i rispettivi confini professionali.
Scrive Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un network di ambientalisti: “di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del
XX secolo, la più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazoni pubbliche!!!”. Ancora, una recente ricerca della
Public Relations Society of America (2002) – sebbene mai pubblicata – ha evidenziato come le relazioni pubbliche siano la
professione verso cui gli americani provano minor fiducia e sicurezza. La Global Alliance, tramite l’approvazione del
Protocollo Globale sull’Etica avvenuta nel 2003, si muove per tutelare l’interesse pubblico affermando anche che, laddove un
relatore pubblico si trovi a rappresentare un interesse privato in conflitto con quello pubblico, deve privilegiare quest’ultimo.
È un concetto di difficile interpretazione e di difficilissima applicazione, ciò non di meno è una affermazione importante.
7 Nel lontano 1962 lo storico americano Daniel Boorstin, nel suo pamphlet The image… or what happened to the American
Dream, aveva rivolto una pungente critica sociale alla consuetudine di organizzare un evento ad hoc per diffondere una
notizia, al punto che è poi l’evento stesso a fare notizia, oscurando l’eventuale informazione originaria. Per l’autore eventi
(nel vero senso della parola) sono da considerarsi i maremoti, gli uragani, le guerre….mentre quelli costruiti artificialmente
sono da considerarsi “pseudoeventi”, iniziative inventate dalle organizzazioni esclusivamente per attirare l’attenzione di uno o
più pubblici. In quell’opera Boorstin critica la pervasività di questi “pseudoeventi” poiché contribuiscono a sovraccaricare in
maniera irresponsabile l’ambiente comunicativo affollando di byte effimeri il sistema dei media e la testa delle persone.
6
1.5
Sostanza
Le relazioni pubbliche sono oggi, a tutti gli effetti, una disciplina della comunicazione organizzativa e fanno
parte della scienza del management la quale, a sua volta, si occupa della gestione delle organizzazioni complesse.
Affermare che le relazioni pubbliche sono parte integrante della scienza del management significa attribuire loro
un ruolo che si realizza prevalentemente nell’ambito delle organizzazioni complesse (governi, enti locali,
organismi sovranazionali, imprese, associazioni, non profit, enti).
È una scelta certamente discutibile che rischia anche di “tagliare fuori” alcuni segmenti storici delle relazioni
pubbliche come, per esempio, la press agentry oppure le celebrity pr: attività che vedono l’operatore
rappresentare, soprattutto presso i giornalisti, un “cliente-persona”, un attore, uno scrittore, un politico, con
particolare attenzione alla cosiddetta “visibilità”, alla “creazione” della notizia, o dell’evento che fa notizia. Fra
le tante espressioni usate dai critici per definire i relatori pubblici – ma Sir Tim Bell, grande professionista
inglese, afferma di non sentirsi offeso quando viene chiamato così – è quella di “spin doctor”, ove l’uso del
termine doctor implica comunque una specializzazione, un’applicazione, un impegno, una competenza, mentre
spin deriva dal linguaggio della fisica, poi trasferitosi al baseball (la spin ball: una palla cui il lanciatore imprime
un effetto speciale). Dunque, spin doctor come esperto che aggiunge un effetto speciale (alla realtà). A questo
proposito, uno degli studi più accurati della storia delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e delle interrelazioni
di queste con la cronaca politica, sociale ed economica, a cura di Stuart Ewen, è intitolato proprio PR! A Social
History of Spin. Nella storia americana delle relazioni pubbliche, Phineas T. Barnum, famoso impresario di circhi
equestri della seconda metà dell’Ottocento, è il più illustre esempio di press agent. Egli era dotato di uno
straordinario talento per attirare l’attenzione delle prime pagine dei giornali nelle città in cui si avviava a
presentare il suo spettacolo, creando di giorno in giorno storie fantasiose sulla vita privata dei suoi animali, al
punto che ancora oggi “a Barnum and Bailey world (just as phony as it could be)” – dai versi di una nota canzone
americana degli anni Trenta del secolo scorso (Paper Moon) – è un modo per indicare un mondo falso, di
cartapesta, inventato. Del resto, il primo dei quattro modelli di relazioni pubbliche razionalizzati da James Grunig
nel 1984 (si veda il capitolo 5), quello della “press agentry”, prescinde nei suoi postulati persino dalla
verosimiglianza delle informazioni che vengono trasferite ai media.
Tuttavia, pur confermando che anche la press agentry e le celebrity public relations ne sono parte legittima e
importante, preferiamo sostenere un’impostazione di taglio prettamente sistemica, manageriale e organizzativa
delle relazioni pubbliche dato che, dal secondo dopoguerra, e con intensità crescente negli ultimi trent’anni, le
attività di relazioni pubbliche si sono strettamente insediate al centro della gestione delle organizzazioni
complesse, e non sembrano esservi particolari segnali di un’inversione di tendenza. E ancora, le stesse attività di
press agentry e di celebrity public relations si sono molto evolute negli anni fino a diventare attività rilevanti,
quando non addirittura dominanti, anche nelle organizzazioni complesse. L’ufficio stampa o relazioni con i
media, come l’ufficio immagine, sono infatti quasi sempre presenti nelle organizzazioni importanti e i loro
responsabili sono sempre più frequentemente parte della coalizione dominante. Le celebrity pr, per alcuni
studiosi, sono addirittura diventate una vera e propria disciplina, al punto che l’autorevole Philip Kotler ha loro
dedicato un libro8 e sui mercati anglosassoni le celebrity public relantions rappresentano un segmento del
mercato in grande crescita, al punto che la coalizione di associazioni professionali che ha dato vita al progetto
XPRL (Extensible Public Relations Language, un progetto per creare un linguaggio informatico universale
dedicato alle relazioni pubbliche) le include fra le attività prevalenti della professione 9.
È però importante sottolineare l’appartenenza delle relazioni pubbliche alla gestione delle organizzazioni
perché ancora oggi, persino fra diversi operatori, esse vengono considerate in modo riduttivo come una funzione
8
Kotler P., Rein I., Stoller M., High Visibility: the Professional Guide to Celebrity Marketing, McGraw Hill, New York
1988; trad. it. Alta Visibilità: marketing delle celebrità, Isedi, Torino 1990. In questo libro gli autori enfatizzano il concetto di
visibilità da intendersi come acceleratore di successo in presenza di un mercato altamente competitivo in cui i soggetti che
aspirano a emergere sono tantissimi.
9 . Il concetto di celebrità non è da considerarsi solo ed esclusivamente con riferimento allo star system ma rientrano in
un’accezione estensiva anche i leader aziendali, politici, sociali e culturali.
di organizzazione di eventi e cerimoniale, in contrapposizione alle relazioni esterne, alla comunicazione o
immagine: tutti termini equivalenti e accomunati soltanto dalla reticenza di molti operatori e di molte
organizzazioni a usare in ogni specifica situazione quello più appropriato. D’altra parte, è importante ricordare
che non vi è proprio nulla di riduttivo nell’organizzare un evento o nell’applicare il cerimoniale. In entrambi i
casi, si tratta di attività che richiedono una elevata professionalità e rispetto alle quali si sono formati, negli anni,
corposi bagagli di conoscenza, proprio come è avvenuto per l’ufficio stampa e la lobby oppure per le relazioni
culturali e quelle internazionali e così via, tutte attività specialistiche che, come vedremo, declinano le attività di
relazioni pubbliche.
Questa insistente, patetica e perfino grottesca “febbre” degli operatori nel volersi definire diversamente da
“relatori pubblici”, considerato termine screditato – e ora anche di molti docenti e studiosi cui viene riservato a
livello accademico (e per le stesse ragioni) il medesimo ostracismo – sconta una davvero paradossale
incompetenza professionale. Non può sfuggire infatti che non è cambiando nome e continuando a comportarsi
come prima che si può pensare di recuperare reputazione e credito professionale. Se è vero (come è -almeno
questo- fuori di dubbio) che relazioni pubbliche efficaci a medio termine sono quelle che comunicano i
comportamenti effettivi, assume allora priorità assicurare che i comportamenti siano coerenti almeno con quanto
l’interesse pubblico può legittimamente attendersi. E questo compito non può che spettare allo stesso interesse
pubblico (attraverso una legge erga omnes che imponga comportamenti sostenibili), oppure alla comunità
professionale (ed è quello che, pare di capire, la maggioranza degli operatori preferirebbe). Sfuggire a questa
realtà cambiando nome, rifiutando di farsi assimilare a colleghi che fanno esattamente le stesse cose, costituisce
una inconsapevole e anche abbastanza colpevole fuga dalla realtà e dalle proprie responsabilità.
Alle relazioni pubbliche vengono oggi attribuite dagli studiosi tre (talvolta quattro, a seconda delle scuole)
diversi ruoli professionali:
– ruolo tecnico o operativo, che consiste nell’attuazione di programmi di relazioni pubbliche, normalmente già
progettati e definiti;
– ruolo gestionale o manageriale, per svolgere il quale l’operatore necessita, oltre che delle competenze già
indicate, di una capacità di coordinamento delle risorse tecnico-operative;
– ruolo strategico, in relazione al quale l’operatore partecipa alla “coalizione dominante” dell’organizzazione e
contribuisce a definire quelle strategie che consentano di raggiungere gli obiettivi perseguiti interpretando –
tramite un’attenta fase di ascolto preventivo – le aspettative e gli obiettivi dei cosiddetti “pubblici influenti”.
Per gli studiosi Betteke Van Ruler e Dejan Vercic10, il ruolo strategico assume due profili diversi da tenere
distinti: da un lato un ruolo “riflettivo” (reflective) che implica un continuo negoziato all’interno della coalizione
dominante a tutela di una corretta interpretazione delle aspettative dei pubblici influenti; dall’altro un ruolo
“educativo” per cui il relatore pubblico assiste gli altri componenti della coalizione dominante nella gestione dei
rispettivi sistemi di relazione con i pubblici influenti assicurando la coerenza dei messaggi e la diffusione delle
competenze relazional-comunicative, innescando una dinamica virtuosa che porterà quella organizzazione a
‘migrare’ dall’essere solamente ‘comunicativa’ ad essere pienamente ‘comunicante’.
Rimane tuttavia, e bisogna prenderne atto, se non altro per capirne fino in fondo le ragioni, il fatto che
l’espressione “relazioni pubbliche” non riscuote gradimento nei “piani alti” delle gerarchie aziendali, fra gli
stessi operatori, nell’accademia e neppure fra i consulenti di organizzazione, coloro i quali disegnano gli
organigrammi e definiscono i vari “titoli” delle funzioni della coalizione dominante.
Le ragioni sono diverse e alcune vengono indicate di seguito per dare il sapore della discussione che da
molti anni si agita in tutto il mondo su questa questione (the naming issue)11.
10
Dejan Vercic e Betteke van Ruler sono gli autori di Bled Manifesto on Public Relations, 2002 (scaricabile da
http://www.bledcom.com), un importante tentativo della scuola europea per evidenziare e razionalizzare le specificità
continentali rispetto alla tradizionale matrice anglo-americana nella pratica delle relazioni pubbliche.
11 È curioso notare come già al congresso europeo delle relazioni pubbliche tenutosi a Roma nel 1986, lo svedese Goran
Sjoberg sottolineava una auspicabile omogeneità nella definizione della funzione svolta dai relatori pubblici.
L’espressione “relazioni pubbliche” viene comunemente utilizzata per indicare le attività più diverse e
non esiste alcuna protezione dal suo abuso, che è continuo, e non solo nel nostro Paese (il PR di discoteca, la PR
massaggiatrice, il PR portaborse). In Italia, inoltre, si usano indifferentemente le due espressioni “pubbliche
relazioni” e “relazioni pubbliche”. La prima dizione è errata e deriva da un’impropria traduzione dell’espressione
inglese “public relations” (nel senso di relazioni con i pubblici influenti). Questa anomalia ha lasciato del tutto
indifferenti gli stessi operatori, che – anzi – sono i primi a non curarsi del nome della loro attività professionale: è
il classico caso del ciabattino che gira con le scarpe rotte. A nessun francese verrebbe in mente di chiamarle
publiques relations, nessun spagnolo le chiamerebbe publicas relationes in Italia invece…
Del resto, è anche un fatto che i relatori pubblici sono stati, e sono ancora oggi, responsabili o complici
di comportamenti e decisioni discutibili sul piano etico, culturale, sociale, economico e, last but not least,
estetico. Ciò permette di comprendere la titubanza di alcuni ad utilizzare tale nome per indicare attività che,
invece, per la maggior parte, sono serie, legittime, rilevanti, eticamente irreprensibili. Inoltre, i giornalisti, ben
consapevoli di quanto il loro lavoro dipenda dalle relazioni pubbliche, ma prigionieri del mito del giornalismo
indipendente e contro il potere, non sempre gradiscono che i lettori ne siano al corrente, e questo crea un certo
astio. Così, gli operatori di relazioni pubbliche -quelli che non fanno i buttafuori di discoteca, il portaborse del
politico o il massaggio di appartamento- cercano, privi di senso del ridicolo, di distinguersi definendosi con un
altro nome. Non a caso, quindi, la questione del nome emerge periodicamente all’attenzione degli organismi di
rappresentanza professionale. Quando tale quaestio terminerà di riemergere nel dibattito pubblico a intervalli
irregolari, spesso indotta da fatti di cronaca, vorrà dire che la professione avrà finalmente raggiunto la sua piena
maturità.
1.6
Cerniera
Le prime a fare un uso organizzato, disciplinato, consapevole e diffuso delle relazioni pubbliche sono, agli inizi
del XX secolo, le imprese private, che affidano a operatori provenienti, per la maggior parte, dal giornalismo o
dalla avvocatura12 il ruolo di “cerniera” con due sistemi di interlocuzione decisivi per gli obiettivi perseguiti e
divenuti, con l’avvento della società industriale, troppo complessi per essere gestiti in prima persona
dall’imprenditore: la decisione pubblica (il governo, il parlamento, l’amministrazione pubblica, i partiti) e
l’opinione pubblica (la stampa, la radio, gli altri media e i leader di opinione). Di per sé, questo ruolo di cerniera
assume necessariamente connotazioni ambigue e il suo successo stesso dipende, in gran parte, dalla capacità del
relatore pubblico di accreditarsi, di rendersi credibile, e quindi anche di integrarsi presso questi due sistemi di
interlocuzione, fino quasi a rendersi da loro indistinguibile. Questo però senza mai rinunciare alla piena e
trasparente enunciazione degli interessi rappresentati. Un compito non sempre agevole, talvolta impossibile,
sovente delicato e difficile. Vedremo infatti più avanti come fiducia e credibilità – condizioni ineludibili di una
relazione che consenta di produrre un cambiamento consapevole e condiviso – siano strettamente legate alla
trasparenza degli interessi rappresentati. E il tutto viene ulteriormente complicato dal fatto che il sistema
economico, il sistema politico e il sistema dell’informazione, fortemente intrecciati (si pensi solo al caso italiano
di Berlusconi), misurano la rispettiva legittimità con indicatori diversi: il profitto, il voto e il numero di copie
vendute.
Eppure, tutti e tre i sistemi hanno egualmente bisogno di essere credibili e di attirare il consenso di:
– azionisti e consumatori, per quanto riguarda le imprese;
– elettori, per i politici;
– lettori, per i giornali.
12
Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la prima agenzia operativa di relazioni pubbliche è stata la Publicity Bureau
di Boston nel 1900. Nel 1902 è stata la volta dell’agenzia dell’avvocato William Wolff Smith a Washington che per primo
iniziò a svolgere in maniera sistematica l’attività di lobbying. Nel 1904 Ivy Ledbetter Lee fonda la Parker & Lee, agenzia
specializzata in relazioni con i media.
In sostanza si tratta sempre delle medesime persone, osservate da diversi punti di vista, le cui opinioni, i cui
atteggiamenti, i cui comportamenti e le cui decisioni vengono influenzate da diversi agenti economici, politici e
sociali, per di più in frequente conflitto fra di loro. Di qui anche la constatazione che nelle relazioni pubbliche, e
in generale nella comunicazione delle organizzazioni, la competizione non si limita soltanto a organizzazioni
concorrenti attive nello stesso settore, ma si estende a tutte quelle che, con maggiore o minore consapevolezza, si
sforzano di occupare lo “spazio di voce” (share of voice) nei media e, soprattutto, lo “spazio di attenzione” (share
of mind) di azionisti, consumatori, elettori e lettori.
Negli anni Sessanta e Settanta, l’impatto comunicativo di una organizzazione, soprattutto per quanto
riguardava i beni di largo consumo, veniva misurato in termini di percentuale, di share of voice: fatto 100 lo
spazio occupato sui media da parte di una determinata categoria di prodotti (per esempio, i detersivi o i saponi),
lo share of voice di una marca ne rappresentava l’x per cento. E in quegli anni, la quota di mercato effettiva di
una marca corrispondeva, almeno in proporzione relativa, abbastanza fedelmente allo share of voice. La
situazione in questi anni è fortemente cambiata a causa del cosiddetto “clutter”: lo straordinario affollamento di
media e messaggi13, che ha finito per determinare una sorta di assuefazione (mitridatizzazione?) generale. Le
organizzazioni hanno quindi spostato l’attenzione comunicativa dallo share of voice, che rimane pur sempre
determinante, se non altro in chiave difensiva (“se perdo punti in percentuale rischio anche di perdere quote di
mercato”), allo share of mind. Oggi, come già detto, siamo sommersi dal diluvio informativo e dalla
comunicazione apparente e spettacolare. Attirare l’attenzione, lo share of mind, è dunque diventato l’obiettivo
prioritario per le organizzazioni, al punto che autorevoli analisti economici e sociali sostengono che siamo entrati
in una “economia dell’attenzione”.
L’ambiguità delle relazioni pubbliche risiede dunque nel fatto che esse si occupano delle interrelazioni fra
comunità economica, politica e dell’informazione e, inoltre, agiscono come “sale” della dinamica sociale, che per
definizione è tutt’altro che chiara, cristallina e prevedibile. In questa dinamica ogni soggetto dichiara una propria
identità e, dichiarandola, sviluppa con altri relazioni ritenute funzionali al raggiungimento degli obiettivi che
persegue. L’efficacia di queste relazioni è correlata, soprattutto, alla familiarità dei contenuti dei messaggi
trasferiti e alla fiducia/credibilità ispirata dal soggetto fonte di quel messaggio, ma anche, com’è ovvio, dal
relatore pubblico che se ne fa portavoce. I contenuti del messaggio rispondono a un criterio, per così dire,
oggettivo, mentre la fiducia suscitata dalla fonte primaria o secondaria è quasi interamente soggettiva. Risulta
quindi facile comprendere come sia arduo definire regole valide per tutti, comportamenti sempre accettabili e
metodologie applicabili in qualsiasi situazione. Comunque, un tentativo in tal senso è stato fatto -e da molti annidalle associazioni professionali e, in qualche caso, anche da leggi, norme e raccomandazioni di diversi Stati e
Authorities. Ma è evidente che si tratta, comunque e sempre, di indicazioni di ordine generale, quando non
generiche. A questo si aggiunga -per sottolineare la questione della ambiguità- che, come anticipato all’avvio di
questo capitolo. la relazione fra i soggetti che interloquiscono ha assunto un valore fondamentale nella creazione
del valore prodotto di una organizzazione. E questo impone l’adozione di indicatori condivisi di valutazione della
relazione capaci di dare alle coalizioni dominanti delle organizzazioni e ai loro stakeholder una idea convincente
dell’efficacia di una attività, le relazioni pubbliche, che assorbe risorse sempre più rilevanti. Ne parleremo nel
dettaglio più avanti.
A riprova di questo sovraccarico info-comunicativo citiamo l’evidenza riportata da alcuni ricercatori dell’Università
californiana di Berkeley, attenti a valutare il flusso di comunicazione/informazione che circola ogni anno nell’ambiente
circostante (dal nome del progetto, How Much Info?): nel 2003 ciascun essere umano ha ricevuto/ritrasmesso 800 milioni di
byte info-relazionali, con un incremento costante (dalla prima valutazione del 2001) del 30% annuo!
(http://www.sims.berkeley.edu/research/projects/how-much-info-2003)
13
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