appunti sull`Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak

Ricerche slavistiche 12 (58) 2014: 5-50
STEFANO MARIA CAPILUPI
IL SALVACO!DOTTO E LE OPERE !ARRATIVE:
APPUNTI SULL’ITALIA E SULLA FILOSOFIA
DI BORIS PASTERNAK
Dell’influenza del Rinascimento italiano sulla famiglia di Pasternak
ha scritto esaurientemente Lazar Fleishmann nel saggio biografico
Boris Pasternak, in cui osserva che, se “il mondo dell’avanguardia
europea esercitò un’influenza enorme sul giovane Boris Pasternak,
[…] egli fu sempre un tenace e coerente assertore del ruolo decisivo
della famiglia nella formazione artistica”.1 Il padre, Leonid Pasternak, studiò da vicino le opere dei maestri italiani nel 1904, durante il
suo primo viaggio in Italia. Rimase colpito soprattutto da Venezia e
dalla sua somiglianza con Odessa. Fece poi il suo viaggio successivo in Italia, insieme alla famiglia, nel 1912, e le impressioni che il
figlio Boris ebbe di Venezia sono appunto descritte con vivacità ne
Il salvacondotto (1931). “Majakovskij mi è sempre piaciuto. È come
una continuazione di Dostojevskij. O meglio, è una lirica scritta da
qualcuno dei suoi personaggi più inquieti”.2 Perché iniziare un’analisi del significato poetico e filosofico ricoperto dall’Italia per il Pasternak de Il salvacondotto con questo parere dello scrittore, o meglio del suo personaggio più noto, sul celeberrimo connazionale?
Buona parte della risposta si troverebbe già leggendo opere come Il
tratto di Apelle o pagine dello stesso Salvacondotto, ma ciò che interessa qui è ricordare subito chi abbiamo di fronte: ossia l’artista nel
quale effettivamente il percorso delle ultime generazioni della Russia zarista e di quelle della prima era sovietica trova una delle sue incarnazioni più evolute e, nello stesso tempo, una rielaborazione oltremodo disincantata. È proprio su questo doppio filo di passione e di(1) Lazar Fleishmann, Boris Pasternak. Bologna 1993, p. 13.
(2) Boris Pasternak, Il dottor "ivago. Milano 199519, p. 144.
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sincanto intrecciati che è possibile guardare anche all’Italia in Pasternak, Italia come luogo fisico e come luogo dell’anima. Qui si intende affrontare tale discorso non tanto secondo un iter strettamente cronologico-biografico, ma seguendo piuttosto un particolare ordine individuabile all’interno della stessa creatività pasternakiana.
“Una di quelle sere di settembre in cui […] tutta la Toscana […]
esala l’odore di una foglia di lauro sfregata tra le dita”:3 così comincia Il tratto di Apelle. L’opera venne composta nella primavera del
1915 e inviata senza successo alle riviste “Russkaja mysl’” e “Letopis’”. Pasternak la propose poi alla terza raccolta di “Centrifuga”, curata da S. P. Bobrov. Il racconto venne pubblicato per la prima volta
nel 1918 sulla rivista “Znamja truda”, col titolo in italiano. Il tratto
di Apelle si alimenta delle impressioni del viaggio in Italia compiuto
da Pasternak nel 1912, impressioni che già avevano dato origine a
diverse poesie e che si ritroveranno al centro de Il salvacondotto, il
bellissimo racconto autobiografico scritto nel 1930. S’avverte senz’altro forte l’influenza di Kleist e della novella romantica in genere.
Lo stesso Salvacondotto racconta come nell’estate del ’14 il poeta e
romanziere fosse impegnato nella traduzione della commedia rappresentata da Goethe a Weimar nel 1808: “Per il Kamernyj, sorto da
poco, stavo allora traducendo La brocca rotta di Kleist”.4 È noto
quanto fosse sentito dal grande scrittore russo il ruolo del Romanticismo, soprattutto all’interno della tensione e della lotta con quella
attitudine dello spirito che lui chiamava invece “della collaborazione
con la vita reale”. Attitudine, va aggiunto, che Pasternak stesso considerava un tutt’uno con un autentico e razionale spirito di matura
“ribellione”. Il suicidio di Majakovskij alla fine degli anni Venti avrà per Pasternak un doppio significato: da un lato la rivoluzione bolscevica sacrificava il suo figlio più grande e più fedele, avendo creato nell’animo suo una contraddizione inconciliabile. Dall’altro, lo spirito romantico, per l’ennesima volta, debitamente istigato da amici e
nemici, come già in Pu!kin e in altri grandi artisti, trionfava su ogni
(3) Cfr. Boris Pasternak, Il tratto di Apelle, in L’infanzia di !enja Ljuvers e altri
racconti. Trad. it. di C. Coïsson, B. Osimo, L. Lamberti. A cura di V. Strada. Milano 1993, pp. 9-33, passim.
(4) Boris Pasternak, Il salvacondotto. Roma 1980, pp. 132-133.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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altro istinto, con tutta la sua carica distruttiva. Ne Il tratto di Apelle
però il romanticismo non ha ancora quella connotazione negativa,
chiaramente presente invece nella successiva produzione pasternakiana, e l’Italia appare senz’altro come scenario ideale per le gesta
di un personaggio romantico. Confermano questo due pagine de Il
salvacondotto, in cui, quando l’autore afferma che “nessuna cultura
europea si è avvicinata all’Italia quanto quella inglese”,5 aggiunge
poco dopo una citazione dal Childe Harold’s Pilgrimage di George
Gordon Byron.
Sorprendentemente il protagonista de Il tratto di Apelle non è, come farebbero credere le prime righe dell’opera, l’italiano Relinquimi
(“voi siete lasciati”, in latino). Tale personaggio scompare quasi subito, tanto da confondersi quasi in una sorta di alter ego del suo rivale Heinrich Heine. Reliquimi, quindi un Emilio Relinquimi senza
la ‘enne’, è un personaggio presente già nelle cosiddette giovanili
Prime prove di Pasternak, dove peraltro trovava una raffigurazione
diversa e sicuramente più ampia, anche se non per questo meno vaga: tanto da far dubitare se sia il caso o meno di parlare di uno stesso
personaggio; mentre anche altri nomi italiani appaiono ne Il tratto di
Apelle e nei primi Frammenti (Salieri solo in Alla porta Dorogomilovskaja, Angelica e, soprattutto, Rondolfina ed Enrico in maniera
più diffusa), ma sono davvero solamente nomi e di certo non possono dirsi personaggi. Da una lettera ad Aleksandr !tikh del 10 luglio
1914 si evince che sempre con un nome evocante il verbo latino relinquo Pasternak aveva firmato le sue prime poesie e l’aveva definito come il proprio “pseudonimo-emblema”. Reliquimi stesso, in Si
sta già facendo buio, frammento appartenente appunto alle Prime
prove, dice testualmente: “[…] io sono figlio di un pittore […]”.6 La
pittura appunto: un fatto centrale nella vita, nella poetica e nello stile
di Pasternak, a cominciare dall’influenza inequivocabile operata dal
padre Leonid. Lo stesso Tratto di Apelle presenta, prima ancora del
(5) Ivi, p. 105.
(6) Risalente presumibilmente al 1910 e pubblicato per la prima volta in Juvenilia Borisa Pasternaka, di Anna Junggren, Stoccolma 1984. Cfr. Anna Ljunggren,
Juvenilia B. Pasternaka: 6 fragmentov o Relikvimini. Almquist and Wiksell International, Stockholm 1984. Cfr. Boris Pasternak, Opere narrative. Milano 1994, p.
1338.
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racconto, un frammento in caratteri più piccoli, a mo’ di iscrizione:
“Si racconta che un giorno l’artista greco Apelle, non avendo trovato in casa il suo rivale Zeusi, […]”.7 È la breve storia di una sfida instauratasi fra i due pittori greci del IV secolo a. C. Apelle cerca Zeusi, non lo trova e quindi gli lascia sul muro di casa una linea. Zeusi
tornato riconosce la mano del rivale: per vendicarsi si reca alla casa
di Apelle in sua assenza e gli lascia a sua volta il suo segno, “divenuto simbolo dell’arte”.8 Analogamente si dipana la rivalità fra Emilio Relinquimi e Heinrich Heine (dove del poeta tedesco è ripreso
solo il nome, e il racconto, occorre sottolinearlo, viene collocato ai
primi del Novecento). Relinquimi manda a Heine un biglietto con la
sola traccia di una sua goccia di sangue. Da questo, dice il racconto,
il vestfalico riconosce “l’autore del celebre poema Il sangue” (dove
sangue è in italiano nel testo, come già nel racconto Rim di Nikolaj
Gogol’) e anche l’anonimo che pochi giorni prima gli aveva mandato una singolare sfida, chiedendogli come Zeusi “la laconicità del tratto di Apelle”,9 per esprimere artisticamente il sentimento dell’amore. In tutta risposta, Heine fa riconsegnare il tutto tramite un cameriere al legittimo proprietario, parte da Pisa e raggiunge Ferrara, città
natale di Relinquimi. Qui decide di stare solo un giorno, anche perché teme che il rivale sia già, per così dire, sulle sue tracce. Mette
quindi un annuncio su “La Voce”, dichiarando di avere trovato un
manoscritto del poeta italiano pronto per la pubblicazione e invitando lui stesso, o chi per lui, a venire a riprenderselo. Il calcolo di Heine è basato appunto sul fatto che a Ferrara Relinquimi possiede sicuramente un’abitazione e un giro di relazioni. L’intera truffa si rivela
uno stratagemma per sedurre, con indubbia eleganza e incredibile
rapidità, una bellissima amica del Relinquimi. Heine ha dato quindi
la sua risposta al rivale. La forza e la sincerità del sentimento che
nasce però fra i due amanti, insieme a una presenza estremamente esile del personaggio italiano all’interno della storia, riducono la schermaglia fra i due contendenti quasi a un conflitto giocoso presente all’interno del solo Heine.
(7) Cfr. Boris Pasternak, Il tratto di Apelle, cit., passim.
(8) Ivi, passim.
(9) Ivi, passim.
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La torre di Pisa si era aperta un varco attraverso la catena delle fortificazioni medievali. Nella via il numero delle persone che la vedevano dal ponte cresceva di minuto in minuto […] Le strade si gremivano di ombre capovolte, altre si battevano ancora con la sciabola
nei passaggi angusti […].10
La musica del paesaggio italiano diurno in Pasternak, privilegiando gli accordi della penombra autunnale o vespertina e della calura
estiva, finisce quasi col riprodurre plasticamente il doppio filo del
disincanto e della passione, o meglio del disincanto trasformato in
sostanza di una più matura e rinnovata passione, che anima tutta la
sua produzione letteraria. Troviamo ancora prima in Si sta già facendo buio: “[…] l’orizzonte palpita e comincia a nascondersi […]
che cos’è la creazione se non pietà e compassione per le ombre?
[…] il crepuscolo è come un’infinita inquietudine senza casa”.11 In
un frammento del 1912 poi, lo stesso anno del viaggio in Italia, Pasternak dichiara che è “l’autunno” ciò che “accade al pittore” e “quello che invece sperimenta il musicista […] è l’inverno”:12 pensieri
che si rivelano ancora più significativi se si considera che quei mesi
erano il momento in cui lo scrittore, superate ormai sia la stagione
della musica che quella della filosofia, orientava decisamente passionalità e progetti verso la letteratura, passando però attraverso una
forte riflessione sulla pittura in genere, e un incontro ravvicinato con
quella italiana in particolare. Nel ’17 scriverà: “la vita è colma di
minuzie / come il silenzio autunnale”.13 In Vorrei parlare prima di
tutto della realtà è ancora il crepuscolo ad essere investito di una
particolare rilevanza, essendo il momento nel quale è possibile “indebolire la realtà o allentare le bende […] della cultura, […] delle opere scientifiche e morali […]”, l’atmosfera più vicina quindi, anche
se insufficiente, a quel “caos” che solamente può completare “l’ultimo piede del verso”, quello “non accentato”: “i fatti” danno “la sillaba forte”, ma c’è “una sorta di saggezza canora” che richiede “la
seconda metà”. Quando lo scrittore ha deciso di parlare della realtà,
(10) Ivi, passim.
(11) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., pp. 1338-1339.
(12) Boris Pasternak, Vorrei parlare prima di tutto della realtà, in Id., Opere narrative, cit., p. 1421.
(13) Angelo Maria Ripellino, Poesia russa del ’900. Milano 19794, p. 52.
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questa è già “alla vigilia dell’ispirazione”, ed è compenetrata dall’“avidità […] dell’apeiron”, da un desiderio di illimitato e “dalla volontà fremente di essere femminile”, ossia “non accentata”.14 “Allentare le bende […] della cultura, […] delle opere scientifiche e morali”: questo ricorda in maniera evidente il “fare epoché” di cui parla
Husserl, il fondatore della fenomenologia. Per questi infatti fare epoché significava sospendere il giudizio su tutto quello che innanzitutto ci dicono le dottrine filosofiche, le scienze, su quello che ognuno di noi afferma e presuppone nella vita quotidiana, cioè sulle credenze e le cosiddette verità.
Brani del genere, nella loro stessa complessità e nel richiamo eloquente a una certa, necessaria “indefinitezza” di pensiero, aiutano a
capire l’intera personalità pasternakiana: “per Pasternak la vita era
ambigua ed enigmatica: tutte le verità potevano trasformarsi in falsità, tutte le concezioni nel loro contrario”.15 Particolare risonanza possiede anche il concetto di pazienza e di sopportazione:
Sulle lastre dei marciapiedi, sulle piazze asfaltate, sui balconi e sui
lungarni i pisani avevano appiccato il fuoco all’olezzante notte toscana […]. Queste scintille facevano traboccare la coppa della pazienza degli italiani […]. E come la città inerte si decomponeva supinamente in quartieri, case e cortili, così l’aria notturna era formata
da singoli immobili incontri, esclamazioni, litigi, conflitti sanguinosi, mormorii, risatine e bisbigli […]. Tutto questo era ai limiti della
sopportazione umana. Tutto questo si poteva sopportare.16
Il compianto poeta italiano contemporaneo Pier Luigi Bacchini
scriveva, ad esempio, in maniera esplicita in una lirica del suo Visi e
foglie che la forza e la contagiosa tenerezza dello spettacolo naturale
ed umano che va contemplando superano “una capacità di sopportazione umana”.17 Pasternak scriveva all’amico Aleksandr !tikh in una lettera del 26 luglio 1912, riguardo alla collezione di Rembrandt
conservata nella galleria di Kassel e visitata insieme al padre il giorno prima: “Rembrandt è come una serie di rese di fronte a una sorta
(14) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., p. 1423.
(15) Lazar Fleishmann, Boris Pasternak, cit., p. 214.
(16) Cfr. Boris Pasternak, Il tratto di Apelle, cit., passim.
(17) Cfr. Pier Luigi Bacchini, Visi e foglie. Milano 1993.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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di fiumana che lo assediava. Egli non è in grado di difendersi”.18 La
visita alla galleria Kassel, va detto qui per inciso, convinse finalmente Pasternak a partire per l’Italia. In una variante de Il salvacondotto si troverà scritto: “[…] l’immortale […] tutti sentono questo,
tutti lo sopportano […] Ma poiché lo sopportano tutti insieme, vuol
dire che in questo serraglio ci deve essere anche qualcosa che nessuno vede e sente. È questa la goccia che fa traboccare il vaso della pazienza del genio”.19 Sono parole che Pasternak usava per spiegare il
genio del Tintoretto e, sia pur indirettamente, anche dell’“amico-nemico” Majakovskij. E diversi anni prima, in un frammento del 1910,
il futuro “recluso di Peredelkino” scriveva:
Resisteva sempre più debolmente anche la primavera […] riuscì a resistere per poco anche l’oscurità […] e concesse all’anima un […] lasciapassare per il cielo; ma il cielo era introvabile: non avendo più la
forza di resistere, aveva abbandonato le strade […] nuovi spazi si aprivano davanti […].20
C’è quindi un limite e al contempo un’esuberanza che lo oltrepassa sia nella natura che in chi la riproduce; o meglio ancora, seguendo la logica più matura dello stesso Pasternak, in chi alla natura
espone l’immagine autentica dell’umanità. In ambedue i casi “capacità di sopportazione”, “pazienza”, costituiscono delle vere e proprie
parole-chiave e appaiono intimamente legate al tessuto di emozioni
suscitato in Pasternak dallo spettacolo della natura e, come si vedrà
ne Il salvacondotto, dell’arte italiane. Lo stesso brano sopra citato de
Il tratto di Apelle, come altri di quegli anni, sembra davvero rappresentare pittoricamente questa sensibilità, sia pure in un’ottica strettamente naturalistica e, in un certo senso, carnale: ché man mano, quasi senza avvertirlo, la sottile inquietudine e lo sfinimento della natura e dei personaggi ritratti nell’afa estiva e nel sollievo notturno diventano sensazione e commozione traboccanti dal cuore stesso dell’artista.
(18) Citato in Elena Pasternak, Boris Pasternak, in Vittorio Strada, I russi e l’Italia. Milano 1995, p. 212.
(19) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 167.
(20) Boris Pasternak, Quando Reliquimi ricordava la propria infanzia, in Id., Opere narrative, cit., pp. 1359-1360.
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Esclama Heine di fronte alla donna che va impetuosamente corteggiando: “[…] noi siamo tutta la vita sul palcoscenico, e sono ben
pochi gli uomini capaci di quella naturalezza che, come una parte teatrale, viene imposta a ognuno sin dalla nascita”.21 Come ha sostenuto in maniera assai persuasiva Michel Aucouturier,22 al centro de
Il tratto di Apelle stanno le riflessioni di Pasternak sulla natura teatrale del poeta e sull’essenza teatrale della poesia, come pure la doppia visione dell’arte presentata poi compiutamente ne Il salvacondotto. Al carattere “passivo” (che in questo caso sta più per “ricettivo”, “sofferente”, “autocosciente”) di un certo genere di uomo e di
artista (in cui Pasternak si è spesso riconosciuto) è contrapposto quel
tipo di poeta che non abbandona mai il palcoscenico. Il salvacondotto identificherà quest’ultimo in Vladimir Majakovskij e lo assocerà
alla concezione romantica dell’arte. Difatti, proprio come sarebbe
accaduto con Il salvacondotto, ne Il tratto di Apelle l’attenzione si
concentra su quella terra di confine situata tra l’arte e la vita, il poeta
e l’uomo, il testo e la realtà. È la terra in cui dimorano di più l’artista
e lo scrittore. E questa terra può essere assai facilmente l’Italia stessa. Lo è come luogo d’ispirazione e di riflessione per il filosofo: in
Italia Nietzsche scrisse molte delle sue opere più importanti. Lo è
come teatro verosimile di una storia, e tale apparve anche ad un altro
grande scrittore del XX secolo: Thomas Mann. È a Venezia, simbolo di un’epoca e di una civiltà ormai tramontate da più di un secolo,
che Gustav von Aschenbach trova difatti l’ultima passione e la morte; è a Palestrina che Adrian Leverkuhn, il protagonista del Doctor
Faustus, incontra o crede di incontrare il diavolo, e cede alla fatale
proposta, destinata a farlo impazzire.
Pasternak e Thomas Mann
Sono molte le analogie possibili fra Thomas Mann e Boris Pasternak. Innanzitutto, l’epoca della storia d’Europa in cui sono vissuti:
Mann nasce quindici anni prima, ma muoiono entrambi alla fine degli anni Cinquanta. Il grandissimo significato che avevano per en(21) Cfr. Boris Pasternak, Il tratto di Apelle, cit., passim.
(22) Cfr. Michel Aucouturier, The legend of the Poet and the Image of the Actor
in the Short Stories of Pasternak, “Studies in Short Fiction”, 3 (1966), pp. 225-235.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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trambi le tradizioni familiari. Le comuni origini ebraiche, sebbene
siano più sentite da Pasternak. L’esperienza universitaria in Germania nella stagione del pieno Neocriticismo e della crescente Fenomenologia. La coincidenza quindi, dal punto di vista filosofico, di importanti punti di riferimento quali la scuola di Cohen e Natorp a Marburgo, quella di Windelband e Rickert nel Baden e quella di Husserl
a Friburgo e Gottinga. Nonché, dalla Francia, quella dell’evoluzionismo spiritualistico di Bergson. Il nodo che entrambi sentono di dover sciogliere nei confronti della eredità decadente e del pensiero di
Nietzsche, anche se con un’intensità e una drammaticità, per diverse
ragioni, maggiori in Thomas Mann. Ambedue poi soffrono sulla propria pelle l’appartenenza a nazioni incarnanti i miti totalitari del XX
secolo. Entrambi vincono il premio Nobel, con il profondo imbarazzo dei regimi in fieri o già affermatisi nella propria patria. Infine, a
tacere d’altro, sia per Mann che per Pasternak grande significato ebbe il Faust di Goethe, rielaborato per una nuova opera dal primo,
tradotto magnificamente dal secondo.
Nello scrittore tedesco sembra di assistere alla nascita sofferta di
una nuova razionalità borghese: il decadentismo e il vitalismo nietzschiano, anche se considerati un passaggio necessario e vivificati dal
potere sconfinato dell’arte, sono destinati a loro volta al fallimento,
all’alienazione, alla malattia, alla morte. Passando a Pasternak, l’estraniamento, la malattia, lo spigliato indulgere in impulsi che testimoniano, anche se non esprimono ancora, un’ambiguità nascosta,
sono temi presenti senz’altro ne Il tratto di Apelle e nelle cosiddette
Prime prove (per non parlare della compiuta presenza di questi temi
ne Il dottor !ivago).
L’Italia quindi è scenario ideale della decadenza, della rovina, ma
anche, e qui sta, come vedremo, la peculiarità di Pasternak, dell’oltre-passamento (per dirla con Nietzsche) di cui è capace solo l’oltreuomo, del trasgredire nel suo significato addirittura biblico, come
strumento inevitabile di crescita e come unica possibilità per l’uomo
di entrare nella storia: l’uomo che deve prima o poi mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, anche se gli è stato
proibito. Lo stesso padre Leonid diceva al figlio di fronte ai quadri
di Rembrandt della galleria Kassel poco prima del viaggio di Boris
in Italia: “Devi liberarti […] vai incontro al piacere [in italiano nel
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Stefano Maria Capilupi
testo, N.d.T.] nella bohème letteraria oppure al diavolo, mica vorrai
diventare un tipico ebreo sintetico, mille miglia lontano dai crepuscoli e dalle leggende dell’arte!”23 Parole di un padre che conosce
bene suo figlio e sa che le proprie parole non potranno essere volgarmente equivocate. Scriverà Pasternak ne Il salvacondotto:
Ci sono al mondo la morte e la prescienza. Ci piace l’incognito, è spaventoso saper tutto in anticipo, e ogni passione è un salto alla cieca
con cui si cerca di evitare l’inevitabile. Le specie viventi non avrebbero dove esistere e riprodursi se la passione non avesse modo di
deviare dalla strada comune […].24
L’arte stessa altro non è che quella “forza terribilmente pratica ed
esperta” che sorveglia “con il suo sguardo intelligente” i giovani di
ogni nuova generazione, “per nasconder loro l’ambiguità della corsa
attraverso l’ineluttabile”, affinché non escano “di senno, abbandonando il lavoro intrapreso e impiccandosi con tutto il globo terrestre”. Un’arte “terribilmente simile alla vita”, che la tollera “in sé”
proprio “per questa somiglianza”.25 “Il limite della cultura lo tocca
l’uomo che cela in sé un Savonarola domato”:26 così si esprimerà Pasternak parlando del genio ribelle di Michelangelo; e c’è “qualcosa
che nessuno vede e sente” in quel “ruggito leonino di una falsa immortalità”, in quelle “redini leonine” del potere che pure tutti sentono e sopportano: è “la goccia che fa traboccare il vaso della pazienza
del genio”, ovvero, ad esempio, l’essenza stessa della genialità di un
Tintoretto.27 In Thomas Mann l’attenzione appare concentrata sulle
conseguenze nefaste che derivano da tale ribellione. L’Italia è tradizionalmente il paese dell’amore, ma anche la patria degli “eunuchi”
(e Pasternak stesso scrive ne Il topo, frammento risalente probabilmente al 1910: “Il Cremlino […] con una voce in falsetto da castrato
del Vaticano, sguinzagliò i tre quarti dell’ora”28), quegli “eunuchi” un
tempo praticamente istituzionalizzati dallo Stato Pontificio, e il cui
(23) Cfr. Elena Pasternak, Boris Pasternak, cit., p. 211.
(24) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 119.
(25) Ivi, p. 120.
(26) Ivi, p. 113.
(27) Ivi, p. 167.
(28) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., passim.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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canto allietò Napoli e le maggiori città italiane fino alla fine del secolo XVIII: quindi l’atmosfera perfetta dove scoprire in età senile una passione omosessuale (La morte a Venezia, 1912). Ed è il posto ideale per incontrare il diavolo e perdere l’anima e il senno (Il dottor
Faustus, 1947). Trasgressione diventa perciò, quasi automaticamente, sinonimo di perversione. In Pasternak invece, come già detto, il
richiamo, anche se quantitativamente più limitato, è molto più ottimistico e prelude alla grande sintesi che lo scrittore esprimerà nella
produzione successiva. Bisogna aggiungere: senz’altro più ottimistico che in Thomas Mann, ma non del tutto positivo. La stessa scelta
del nome Heine per il protagonista de Il tratto di Apelle è significativa, perché vuol dire servirsi del nome di un poeta che nell’ambito
della storia del movimento romantico ebbe un ruolo contraddittorio:
tardo adepto del Romanticismo, fu egli stesso a ridicolizzarlo e, in
un certo senso, a distruggerlo. “Ciò che contava per Pasternak non
era né il romanticismo nel senso puro della parola né il suo contrario”, ma piuttosto “la possibilità stessa di oscillare fra i due poli […]
nel contesto dello stesso sistema letterario”, nonché quella “di annullamento dei poli opposti all’interno della stessa persona o personaggio”.29 È giunto quindi il momento di parlare più dettagliatamente de Il salvacondotto.
Il viaggio in Italia e la filosofia tedesca
Gli anni 1928-’30 furono segnati da un rapido indurimento del regime nella direzione inquisitoria. La pubblicazione all’estero di !oi di
Zamjatin e di Mogano di Pil’njak scatenò le ire della stampa sovietica; bisognerà aspettare Il dottor "ivago del 1958 perché un altro scrittore ripetesse tale gesto. La campagna intrapresa dai dirigenti della
Rapp non era rivolta solo contro Pil’njak e Zamjatin, ma contro l’intero schieramento dei cosiddetti “compagni di strada”. Gli attacchi si
estesero irreversibilmente e nuovi nomi vi venivano menzionati ogni
giorno: Platonov e Bulgakov, Kly!kov e Mariengof, Vsevolod Ivanov ed Erenburg. L’atmosfera inquisitoria contaminò altre aree culturali: l’Accademia delle Scienze, i teatri e le università. Il 1º settembre Luna!arskij fu rimosso dalla carica di Commissario dell’I(29) Lazar Fleishmann, Boris Pasternak, cit., p. 112.
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struzione per aver mantenuto una linea di politica culturale troppo
debole. Durante questa caccia alle streghe, Majakovskij si schierò
dalla parte dei persecutori. Eppure non riuscì con questo a dissipare
l’atteggiamento scettico delle autorità nei confronti della sua ortodossia ideologica. Nell’autunno del ’29, per la prima volta nella sua
vita, a Majakovskij fu rifiutato il permesso di recarsi all’estero.
Questa dimostrazione pubblica di sfiducia nei suoi confronti lo
ferì profondamente. Annunciò lo scioglimento del LEF e si unì alla
RAPP. Fu l’unico a confluire, rinunciando all’appoggio dei suoi amici più intimi. Ma anche questo passo non riuscì a proteggerlo dalle accuse. Il suo ultimo dramma, Il bagno, fu definito una calunnia
contro la realtà sovietica. Il 14 aprile 1930 il grande poeta della rivoluzione si suicidò.
La reazione di Pasternak prese varie forme. Inizialmente, durante
i primi attacchi sistematici contro i compagni di strada nell’autunno
del 1928, smise di scrivere. Ma nel gennaio del 1929, spinto dalla
premonizione di un’imminente fine di ogni vera attività letteraria,
Pasternak si affrettò a finire tutte le opere che aveva già progettato o
iniziato. Uno di questi libri era Il salvacondotto ed è anch’esso collegato, come altre opere sue del momento, a un improvviso aumento
di elementi autobiografici nella scrittura di Pasternak. Il poeta iniziò
a lavorarvi nel 1927. La notizia della morte di Rilke, il grande poeta
tedesco tanto influenzato da Nietzsche, lo indusse a tentare di formulare una concezione dell’arte. Fu questo il periodo della sua rottura sofferta con il LEF e con Majakovskij. L’opera, tra autobiografia e stile da saggio critico, aveva un intento profondamente polemico. Il LEF aveva dichiarato che la “letteratura dei fatti” era non solo
la forma letteraria più progressiva, ma anche l’unica appropiata date
le nuove condizioni sovietiche. Pasternak si dedicò a una forma inseribile fra quelle raccomandate (memorie, reportage, diari, appunti
di viaggio, resoconti giornalistici), ma ne fece un uso tale da offuscare il confine tra realtà e finzione. Anche il titolo del nuovo libro
aveva un carattere polemico: Ochrannaja gramota. Questo termine
risaliva al vocabolario dei primi anni della rivoluzione, quando il
governo russo rilasciava documenti che confermavano l’inviolabilità
delle collezioni culturali private di valore, in modo da salvaguardarle dal saccheggio della folla e dalla nazionalizzazione. Utilizzando
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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tale termine, che alla fine degli anni Venti era già anacronistico, Pasternak istituiva un parallelo eloquente tra i primi anni della rivoluzione, quando anche in condizioni di estremo disagio l’arte non era
stata degradata, e la situazione contemporanea, in cui l’arte sembrava priva di difese di fronte agli attacchi del LEF e della RAPP.
Simultaneamente alla pubblicazione de Il salvacondotto, Pasternak pubblicò la sua traduzione dei due Requiem di Rilke, peraltro le
prime traduzioni di Rilke da lui date alle stampe. E il nucleo ‘rilkiano’ della filosofia di Pasternak è assai presente nella prima parte de
Il salvacondotto, ossia quella dedicata soprattutto a Marburgo. La
seconda sezione del libro è incentrata sul viaggio in Italia del 1912.
La notizia della morte di Majakovskij precedette la stesura della terza parte, che verte in maniera quasi esclusiva sul poeta futurista.
“Non si può sopravvalutare il significato che nella vita di Boris
Pasternak ebbe il breve viaggio in Italia nell’agosto del 1912”. Così
introduce Elena Pasternak le sue riflessioni su Il salvacondotto e su
alcuni altri segni evidenti lasciati nell’opera dello scrittore dalla sua
“avventura” italiana. Ciò nonostante, come dimostra la stessa Elena
Pasternak già nelle righe immediatamente successive della propria analisi, sarebbe altrettanto disonesto sottovalutare tale significato. Qui
si cercherà inoltre di sottolinearne un aspetto probabilmente non ancora abbastanza considerato.
Già nel secondo capitolo de Il salvacondotto Pasternak, parlando
di uno dei suoi primi incontri con Skrjabin durante l’infanzia, comunica al lettore il motivo di fondo del libro: il rapporto con la “tradizione”. Una tradizione che viene da ciascuno e promette “un volto”,
mantenendo sempre, in forme diverse, “la sua promessa”. Una tradizione che “non s’è mai appagata, trincerandosi dietro il nome d’un
ambiente, dell’immagine sommaria creata sul suo conto, ma ci ha
sempre inviato una delle sue eccezioni più spiccate”. Nel contesto
del brano è evidente il riferimento a Skrjabin, ma in maniera analoga
all’interno dello stesso libro lo scrittore svilupperà il suo ragionamento sui grandi artisti del Rinascimento italiano.
Pasternak ci racconta che poco prima di ricevere “una mattina
d’aprile” la buona notizia da parte della madre riguardo a quei duecento rubli messigli a disposizione per “un viaggio all’estero”, si era
ritrovato una sera di febbraio a conversare con Loks e Samarin al
18
Stefano Maria Capilupi
Kafè Grek sul viale Tverskoj, lo stesso caffè in cui un giorno litigherà e si riconcilierà con Majakovskij. Qui Samarin gli parlò di
Marburgo, la città sui cui “selciati” Lomonosov fece la sua “quinquennale passeggiata” iniziata “con una lettera per Christian Wolff,
discepolo di Leibniz”;30 l’università in cui, come scrive in un altro
punto sempre Pasternak, “conoscevano la storia alla perfezione e non
si stancavano mai di estrarre un tesoro dopo l’altro dagli archivi del
Rinascimento italiano”.31 Coincidenza sorprendente per lo scrittore,
che potrà a distanza di un mese progettare per l’estate un semestre di
studio in quella stessa cittadina tedesca che gli sembrava un mese
prima incredibilmente attraente, ma al contempo raggiungibile solamente nelle parole dell’amico. Non meno interessante però il fatto
che quella stessa sera Loks “strada facendo” cominciasse “più volte
a parlare del suo tema preferito, Stendhal”, ostacolato dall’ostinato
silenzio di Pasternak. Eppure da Marburgo Pasternak raggiungerà appunto l’Italia, scenario de La certosa di Parma (1839). Le “non-gesta” del romantico protagonista di questo libro non possono che avere avuto un grande significato anche per il lettore-Pasternak: le aspirazioni personali di verità, libertà e grandezza di Fabrizio Del Dongo sono sconfitte da una società che è già la rappresentazione del dispotismo moderno.
La sua particolare attenzione per le coincidenze e per i cosiddetti
“segni del destino” e una certa sua “passività” nei confronti di questi
ricordano poi da vicino lo stesso Jurij !ivago. Stendhal inoltre, com’è noto, considerò l’Italia sua patria d’adozione e in Italia, interessandosi soprattutto di musica e pittura (le due prime grandi passioni
artistiche di Pasternak), passò gran parte della propria vita. Storia
della pittura in Italia (1817), Roma, !apoli e Firenze (1817), una
biografia di Rossini (1823), Passeggiate romane (1829): sono queste
le prime opere dello scrittore francese e hanno tutte un carattere chiaramente saggistico. Lo pseudonimo di Henri Beyle non compare quindi per caso fra le prime pagine de Il salvacondotto, nonostante così
sembri voler far credere Pasternak: mentre Loks quella sera tentava
di parlargli di Stendhal, lui taceva “aiutato dalla bufera” e con il pen(30) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 52.
(31) Ivi, p. 49.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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siero a Marburgo, ossia a “quella cittadina” che stimava di non poter
mai vedere, “proprio come accade con le proprie orecchie”.32
“All’inizio di agosto, i miei si trasferirono dalla Baviera in Italia
e m’invitarono a Pisa”:33 siamo sempre nel 1912 e così comincia concretamente l’avventura italiana di Pasternak. Pochi giorni dopo, al
caffè Vetter di Marburgo, si ritrovò a discutere del progetto con il
capocameriere e gli amici con cui divideva il tavolo, “due tedeschi e
un francese”, secondo la lettera del 20 maggio 1927 a Raisa Lomonosova in risposta al suo invito a Sorrento;34 il solo “G.” secondo Il
salvacondotto. In realtà la proposta di andare in Italia Pasternak l’aveva ricevuta dai genitori già a metà luglio, ma in una lettera a !tikh
del 17 scriveva: “[…] andare in Italia con uno straccio al posto del
cuore! Sarebbe un vero disastro”.35 Ciò che è chiaro è che Pasternak
aveva passato nei mesi precedenti un momento davvero critico: scopriva di non sentire una vera vocazione per la ricerca filosofica in
ambito universitario, nonostante la grande fiducia dimostratagli dal
vecchio decano Hermann Cohen, fondatore riconosciuto del neokantismo. Cosa più drammatica, pativa le sofferenze di un grande amore
rivelatosi non corrisposto. “[…] Al mondo c’è anche l’atteggiamento cosiddetto elevato verso la donna […] C’è una sfera sconfinata di
fenomeni che inducono al suicidio nell’adolescenza”.36 Osserva Elena Pasternak: “La salutare forza dell’arte riportò la vittoria sulle giovanili tendenze suicide, il che […] trovò conferma in Italia nel contatto con la pittura del Rinascimento”. A smuovere definitivamente
Pasternak sembra sia stata l’improvvisa venuta del padre a Marburgo e la comune visita alla galleria di Kassel.
Come si andava già dicendo sopra, quindi una sera dell’agosto del
1912 Pasternak pianificò improvvisamente su un tavolo del caffè Vetter la partenza per l’Italia, che, incoraggiato dagli amici, intraprese
quella notte stessa: “Tutto questo aveva il carattere di una simpatica
bravata studentesca”.37 Lo spettacolo del valico delle Alpi produsse
(32) Ivi, p. 45.
(33) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 88.
(34) Cfr. Elena Pasternak, Boris Pasternak, cit., p. 211.
(35) Cfr. ibid.
(36) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 64.
(37) Cfr. Elena Pasternak, Boris Pasternak, cit., p. 212.
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Stefano Maria Capilupi
su Pasternak un’impressione indelebile: “[…] le cieche cornee edipiche delle Alpi, sulla vetta la perfezione demoniaca del pianeta. All’altezza del bacio che esso, come la notte michelangiolesca, si depone qui amorosamente sulla propria spalla”.38
A Milano rimase solo mezza giornata e gli restò “soltanto una vaga impressione del Duomo, che mutava continuamente aspetto”, mentre gli si avvicinava “sostando a contemplarlo dai crocevia che lo
svelavano sempre diverso. Come un ghiacciaio che si strugga, esso
più d’una volta si aderse sullo strapiombo azzurro della calura d’agosto, e pareva alimentare con il ghiaccio e con l’acqua i molti caffè
di Milano”. Quando finalmente si ritrovò nella piazza “non troppo
larga” dov’è situata la chiesa, “il Duomo precipitò” su di lui “con
tutto il fruscio corale dei pilastri e delle guglie, come un ingorgo di
neve nel gomito di una grondaia a primavera”.39
Arrivato a Venezia, davanti ai palazzi del Canal Grande, questi
gli apparvero come “castelli incantati […] tappeti di marmo colorato, a strapiombo sulla laguna notturna, come sull’arena di un torneo
medievale”. Si sentiva circondato da “un singolare oriente, da albero
di natale, […] l’oriente dei preraffaelliti”.40 Tutta Venezia gli sembrava “una città abitata da edifici”, dove “non sono rimasti dei vuoti” neanche “nei palazzi vuoti” e dove “ogni spazio è pieno di bellezza”. Dovunque s’ode “la parola impressa nella pietra dagli architetti”.41 Tutto questo, unito ad altri elementi ancora, conferiva all’ambiente che si presentava davanti agli occhi di Pasternak un “aspetto
stranamente familiare”.42 Per certi versi è naturale che un russo colto
appena giunto a Venezia, città dal passato bizantino, possa sentirvi
quasi un’aria di casa. C’è da soffermarsi ancora sul momento dell’arrivo di Pasternak nella città lagunare, descritto ne Il salvacondotto: il viaggio sul battello di notte, la sensazione di una misteriosa festa infantile, il Fondaco dei Turchi intravisto a destra dietro la curva
del Canal Grande, il Fondaco dei Tedeschi sulla riva sinistra, il pon(38) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 94.
(39) Ivi, p. 95.
(40) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 96.
(41) Ivi, p. 104.
(42) Ivi, p. 100.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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te di Rialto. Lo stesso suono della parola Fondaco ricorda a Pasternak i funduk, noci tipiche del Caucaso e della Crimea. L’intero paesaggio gli appariva “una superficie di noce dorata, spruzzata di paraffina blu”.43 Osserva Elena Pasternak:
furono forse le impressioni della Venezia notturna illuminata e dei
suoi riflessi sull’acqua che crearono quella costante combinazione
di colori preferita da Pasternak – lillà intenso su giallo acquoso e
nocciola pallido – unione che più volte poi lo colpì, fino alla fine della
sua vita.44
L’aspetto poi mutevole e marmoreo dei palazzi che tanto colpì Pasternak è lo stesso tono coloristico, chiaroscurale dell’architettura veneziana affermatasi nel secondo Quattrocento. È questa, in fondo, la
caratteristica comune alle opere peraltro tanto diverse del Rizzo, del
Lombardo e del Codussi. Essi non vollero le forme limpide e cristalline o le superfici stabili dei fiorentini, ma pareti traforate, forme vibranti e mosse, fatte apposta per specchiarsi nell’acqua dei canali con
effetti di caleidoscopio. Proprio queste caratteristiche inoltre accomunano l’architettura veneziana alla pittura veneta coeva. Prima di
passare però alle impressioni suscitate in lui dai magnifici dipinti di
Venezia, Pasternak indugia nel capitolo XVI della seconda parte del
libro in ragionamenti che hanno un forte sapore storico-politico. L’immagine dell’antica flotta della potenza marinara, il ricordo del tormento e dell’oppressione che esercitava sul resto della città: non è
certo Pasternak uomo da fermarsi, come dice Elena Pasternak, ai “retorici entusiasmi di meraviglia dei viaggiatori”,45 dimentichi della
storia umana celata nell’arte. Si potrebbero tentare però delle critiche riguardo alla correttezza storica di alcune riflessioni fatte in questa sede da Pasternak. “Quella flotta era l’evidenza non immaginaria
di Venezia, il prosaico retroscena della sua favolosità. Paradossalmente si può dire che il suo tonnellaggio fluttuante era la terraferma
della città, il suo fondo terriero, il sottosuolo mercantile e penitenziario”.46 In realtà, quella veneziana del XV-XVI secolo, ossia del pe(43) Ivi, p. 97.
(44) Elena Pasternak, Boris Pasternak, cit., p. 212.
(45) Ivi, p. 213.
(46) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 106.
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Stefano Maria Capilupi
riodo in cui nacque la stragrande maggioranza delle opere d’arte contemplate dal Pasternak, è una potenza marinara già in crisi. Il patriziato veneto convertiva decisamente le proprie ricchezze di natura
commerciale in investimenti di carattere fondiario nella terraferma
veneta. Lo dimostrano eloquentemente la natura dei paesaggi ritratti
sullo sfondo dal Bellini, la sensibilità naturalistica del Giorgione (elementi che divennero quasi ordinari nei loro coevi e successori), nonché la dislocazione e i committenti delle celebri ville del Palladio e
delle decorazioni del Veronese. Era quella stessa aristocrazia inoltre
che orientava in un senso filosofico e ricercato la scelta e le modalità
di rappresentazione dei soggetti religiosi e pagani. Fatto sta che non
è certo questo il terreno che ci rende capaci di apprezzare la poesia
di Pasternak e al contempo una sottile e coraggiosa polemica ivi celata. La presenza di una committenza, un artista lo sa, è qualcosa che
può, ad ogni modo, schiavizzare la creazione: è questo il punto. Eppure a Venezia l’arte seppe ingannare “il suo committente”;47 e “la
fessura dove si deponevano le denunce segrete, sulla scala dei censori vicino agli affreschi del Veronese e del Tintoretto, era fatta come le fauci di un leone”.48 Osserva Elena Pasternak a proposito di
questo riferimento alla tristemente famosa “bocca di leone”: “la comparsa nel testo de Il salvacondotto di questa fessura per le delazioni,
non descritta nei cataloghi e nelle guide del Palazzo dei Dogi, si spiega con l’analoga atmosfera di terrore a Mosca nel periodo della stesura del racconto”. Addirittura le varianti presenti nelle ultime edizioni riguardo ai “ceffi di leone che balenano in ogni luogo, che si
infilano in tutte le cose intime, che fiutano tutto […]”49 sono in realtà passaggi che erano parte integrante del racconto e che i censori
sovietici si preoccuparono accuratamente di espungere dall’edizione
del 1931: mantennero così il testo sostanzialmente corrispondente alle
parti già pubblicate sulle riviste “Zvezda”, “Krasnaja Nov’” e “Literaturnaja gazeta” a partire dal 1928. Giustamente Michel Aucouturier50 ha associato questi passi all’arresto e alla fucilazione del giovane giornalista Vladimir Sillov: lettere di Pasternak a Nikolaj !u(47) Ivi, p. 107.
(48) Ibid.
(49) Ivi, p. 167.
(50) Michel Aucouturier, The legend of the Poet…, cit., passim.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
23
kovskij e ai genitori stanno a testimoniare la sostanziale coincidenza
dei giorni della stesura di quei brani con gli ultimi di vita di Sillov
(marzo-aprile 1930), nonché l’evidente commozione dello scrittore,
venuto a conoscenza di tale terribile vicenda.
Giungeva alfine il momento di parlare della pittura veneziana:
Il sapore delle sue sorgenti lo conoscevo fin dall’infanzia attraverso
le riproduzioni e le tante opere dei musei. Dovetti però capitare nel
luogo dov’erano nate, per vedere non i singoli quadri ma la pittura
stessa come una palude dorata, ribollente sotto i passi, come un linguaggio particolare, come uno degli abissi primordiali della creazione.51
Ci sono secondo Pasternak tre passaggi della maestria del pittore,
quasi a ripercorrere la strada fatta dall’arte veneziana dalla seconda
metà del XV secolo al pieno fiorire del XVI. Il primo è quello dell’immagine:
Io vidi che cosa colpisca anzitutto l’istinto pittorico. Come d’un tratto si riesca a coglierlo, che cosa divenga visibile, quando si cominci
a vederlo. La natura, così osservata, cede il passo alla docile ampiezza della narrazione, e in questo suo stato viene trasferita silenziosamente come in sonno, sulla tela. Bisogna vedere Carpaccio e
Bellini per capire che cosa sia l’immagine.52
Perfetto il sintetico giudizio del Pasternak. Unica obiezione possibile: l’ordine dei nomi andrebbe invertito, perché Bellini viene storicamente prima del Carpaccio. Pasternak non poteva che rimanere profondamente colpito dalla serenità religiosa dei paesaggi di Giovanni
Bellini, per il quale fondamentale fu anche il recupero dell’elemento
spirituale bizantino, sebbene in una modalità maggiormente tesa verso
l’espressione. Ancora prima di partire per l’Italia lo scrittore russo aveva affrontato, nei quasi-monologhi di un facondo e a volte, in apparenza, farneticante Reliquimi, riflessioni sulla pittura e su Dio, ovvero su entrambi in strettissima unione. In Si sta già facendo buio
Dio, viene detto, non può essere semplicemente “un tratto di matita,
[…] il confine dei suoi adoranti, il confine della preghiera”, perché
(51) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 108.
(52) Ivi, p. 109.
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Stefano Maria Capilupi
in tal modo risulta “un arcaico, eterno disegno di arcaiche, vecchie
preghiere”, quando la preghiera ormai non è più “nuova”, né “guizzo”, né “barbaglio”.53 Solo da bambini ciò è concesso,
quando i fatti della vita sono ancora pieni di ritualità; i sentimenti,
l’entusiasmo e la tristezza, hanno un oggetto: è come se noi fossimo
una distesa di fiori ondeggianti che ha come Dio la propria rappresentazione in linee e segni. Pensate alla vostra infanzia e vi sembrerà che le inquietudini e gli avvenimenti che avete vissuto come l’agitarsi di una mano nello spazio di una vita meravigliosa siano solo
un disegno che vi è stato ordinato di eseguire.54
Difatti nella Bibbia è scritto: “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato” (1 Cor, 13; 11). La
maturità quindi porta la concezione di un altro Dio, che “c’è o non
c’è, e se c’è non è una linea, perché è proprio in questa confusione
di ombre che Dio può orientarsi come unità nel caos, Dio è dappertutto”.55
È quindi un senso panteistico, o meglio panenteistico (non Dio-ètutto, ma Dio-è-in tutto) della natura ad avvicinare la pittura del Bellini all’animo di Pasternak; e già si sarebbe “tentati” di sottolineare
qui le radici giudaico-cristiano-ortodosse della visione del mondo
pasternakiana, nel rapporto particolarmente intimo e dinamico che si
riscontra nella teologia orientale fra le entità dell’uomo, del cosmo e
di Dio. Ma altri momenti di questa analisi porteranno da sé ad approfondire meglio tale ragionamento. Rimane un fatto indubbio quale molteplice risonanza suscitasse nello scrittore l’evidente desiderio
del Bellini di rappresentare un rapporto armonioso tra l’uomo e il
creato, corrispondente alle concezioni religiose immanentistiche, ottimistiche, scevre da drammatici contrasti, tipiche dei veneziani. Un
Bellini il quale, pur non dimenticando il mistero della Passione e della
Morte di Cristo, anzi ritraendolo in tutta la sua lacerante umanità,
approdava comunque per l’appunto alla serenità di una sintesi armoniosa, di una verità religiosa che non doveva confrontarsi in ultima
(53) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., pp. 1332-1333.
(54) Ivi, p. 1335.
(55) Ivi, p. 1337.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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analisi con la storia, ma con la natura. “Bisogna vedere Carpaccio e
Bellini per capire che cosa sia l’immagine”: nel fatto stesso di dare
quest’importanza al Carpaccio, ponendolo insieme e prima del Bellini, Pasternak denota però anche un gusto di finissimo intenditore.
Difatti era usuale, solo fino a qualche decennio fa, contrapporre Giovanni Bellini a Carpaccio: il primo era la mente, il secondo l’occhio;
oppure il primo richiamava la sintesi e la razionalità, il secondo l’empirismo e l’analisi. Carpaccio, pur molto apprezzato, era visto come
un piacevole descrittore di paesaggi, usi e costumi veneziani, buoni
per illustrare, isolando ed estrapolando particolari dai suoi quadri, le
storie della moda, del mobile, della navigazione, della casa. Uno svagato narratore insomma; non si sospettava, o non si voleva vedere,
quanta ricerca intellettuale comportasse invece la costruzione delle
impalcature compositive che gli permettevano poi di effondere, senza rischio di dispersione, la miriade dei particolari pittoreschi. Pasternak seppe cogliere, prima ancora di molti storici dell’arte, il vero
miracolo che stava dietro alla già prodigiosa ricchezza dei quadri del
Carpaccio: ossia il legame unitario che serra quel brulicare di vita, restituendolo alla logica e all’armonia. Questo colse Pasternak contemplando probabilmente il ciclo delle Storie di sant’Orsola, conservato nelle Gallerie dell’Accademia, o le tele della Scuola di San
Giorgio degli Schiavoni, fra cui la famosissima Visione di sant’Agostino. Eppure, all’aprirsi del XVI secolo le conquiste coloristiche dell’anziano Bellini e del giovane Giorgione (destinato quest’ultimo a
una rapidissima, ma breve carriera, finita con la morte nel 1510), aprivano nuovi campi di ricerca che a Carpaccio rimasero preclusi: la
fusione delle tinte, la rappresentazione dello spessore atmosferico,
della natura libera. Scrive Pasternak:
appresi più tardi quale sincretismo si associ alla fioritura della grande arte, quando, raggiunta l’identità tra l’artista e l’elemento pittorico, diventa impossibile dire chi dei tre si esteriorizzi sulla tela con
maggiore potenza: l’esecutore, l’esecuzione o l’oggetto di essa. Bisogna vedere Veronese e Tiziano per capire che cosa sia l’arte.56
Tiziano fu storicamente la personalità centrale fra tutti i pittori dell’Umanesimo e del Rinascimento veneziano. La sua lunghissima car(56) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 109.
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Stefano Maria Capilupi
riera partì dall’insegnamento di unitaria luminosità del Bellini, giungendo fino alla svolta manieristica d’ispirazione tosco-romana incarnata, nella sua forma definitiva, dal Tintoretto. Il primo vero innovatore però, non citato dal Pasternak, fu un altro allievo del Bellini, ossia Giorgione.
Avvicinandosi a un giudizio di sintesi sul significato che aveva
tratto dalla contemplazione dell’arte italiana, Pasternak scrive che i
pensieri più utili in questo senso si erano formati “ancor più intensamente a Firenze”.57 In realtà, sappiamo bene dalla testimonianza
di Olga Frejdenberg, che giunse in Italia una settimana dopo Pasternak e che insieme a lui visitò Pisa, quanto serio e scrupoloso fosse lo
scrittore nell’esaminare “con la guida in mano […] tutti i dettagli della cattedrale, tutte le figure dei bassorilievi, tutti i cornicioni e i portali”, tanto da mandare addirittura “in bestia” la cugina.58 Era questa
la scuola del padre Leonid e sicuramente con identica serietà e identica scrupolosità il giovane Pasternak visitò Venezia e Firenze. Ciascun luogo d’Italia visto non poté quindi che provocare un’impressione assai profonda nell’animo di Pasternak. Appare perciò contraddittorio che lo scrittore dichiari di aver avuto sensazioni più intense proprio a Firenze, quando in realtà ne Il salvacondotto parla
diffusamente ed esclusivamente dell’arte e dell’ambiente veneziani
(escludendo semmai solo un breve riferimento di natura quasi esistenziale al genio e al carattere di Michelangelo). Solo nel successivo saggio autobiografico Uomini e posizioni Pasternak dirà qualcosa
in più di Firenze:
[…] feci un viaggio in Italia. Vidi Venezia, tutta rosa mattone e verde acquamarina, simile alle pietruzze diafane che il mare getta sulla
riva, visitai Firenze, oscura, angusta, armonica – estratto vivente delle
terzine dantesche. Per vedere Roma non mi bastarono i soldi.59
D’altronde, l’autore fa tale affermazione a proposito delle sensazioni più intense provate a Firenze, parlando di un progresso interiore di presa di coscienza e di una sorta di rielaborazione, che si consolidarono “per essere più esatti a Mosca, negli inverni che seguiro(57) Ivi, p. 111.
(58) Elena Pasternak, Boris Pasternak, cit., p. 212.
(59) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., p. 880.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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no al mio viaggio”.60 Appare quindi ad ogni modo fuori di discussione la predilezione di Pasternak per una visione della pittura che
non può essere esclusivamente quella legata al classicismo e al manierismo tosco-romano: anche lì dove risulta esaltarlo, sentì comunque il bisogno della sintesi, della luminosità e del temperamento veneti. Torna in mente la contrapposizione tradizionale, già viva nel Quattrocento, fra il colorito veneziano e il disegno fiorentino.61 Pasternak
appare costituzionalmente incline a un genere di gusto che prediliga
il primo: già diversi passi della prima produzione e de Il salvacondotto finora citati testimoniano infatti la sua tensione filosofica e letteraria verso uno stato di indefinitezza, di chiaroscuro appunto; nonché l’enorme attenzione per il colore e per la natura. Ma al contempo altre ragioni ci illumineranno per capire il fatto che lo scrittore dia
comunque infine la palma del migliore al Tintoretto, cioè all’artista
veneto piu vicino al disegno fiorentino. Pasternak, come già detto,
nomina Tiziano come rappresentante tipico, insieme al Veronese, di
quel grado di maestria che chiama “arte” per antonomasia. Del cadorino lo scrittore poté vedere probabilmente nelle Gallerie dell’Accademia i pochi lacerti superstiti della decorazione del Fondaco dei tedeschi (1508-’09), nei quali però si riconosce comunque quale personalità il Vecellio seppe esprimere già nel suo primo lavoro, compiuto per di più a fianco del Giorgione, di quest’ultimo velocemente
assimilando e superando lo stile.
Dell’arte più matura del Tiziano Pasternak ebbe invece, tra l’altro,
l’opportunità di vedere a Venezia l’Assunzione della Vergine e la
Pala Pesaro in Santa Maria Gloriosa dei Frari. Qualche giorno dopo
invece, a Firenze, sarà la volta dei ritratti di Eleonora Gonzaga, di
Francesco Maria della Rovere e, dipinto commissionato da un altro
esponente della famiglia roveresca, la cosiddetta Venere di Urbino.
Pasternak finisce quindi con l’esprimere il suo giudizio più lusinghiero nei confronti di quell’arte veneta che seppe comunque accogliere,
trasformandolo, l’elemento fiorentino. Fu però soprattutto l’inquietudine dei soggetti del manierismo a fare presa sugli artisti venezia(60) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 111.
(61) Sarebbe da lasciare naturalmente alla critica dell’arte il compito di esprimersi sulla minore o maggiore validità gnoseologica di queste categorie; qui interessa solo un tentativo di indagine sulla sensibilità artistica di Pasternak.
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ni: non tanto quindi a firmare una capitolazione di carattere formale,
quanto a condividere un senso della storia e del destino ormai universalmente mutato. Ossia a dire che anche l’armoniosa serenità veneziana non poteva non rimanere turbata dagli sconvolgimenti del secolo. E tale inquietudine fu anche presumibilmente la finestra che pose Pasternak in comunicazione diretta con questa versione del classicismo romano.
Già l’arte di Tiziano, a partire dal 1540 in poi, ne dà testimonianza. Pasternak poté notare la misura di tale violenta svolta espressiva
nelle enfatiche impaginazioni, nei movimenti caricati e negli audaci
scorci delle Scene bibliche dipinte dal cadorino per la chiesa veneziana di Santo Spirito in Isola e conservate nella sacrestia di Santa
Maria della Salute. Nella fase conclusiva della sua carriera l’eccelso
pittore fu sempre di più intento a una solitaria meditazione sul senso
tragico dell’esistenza umana. Questo è chiaramente evidente in diverse tele conservate a Boston e a Madrid, ma proprio a Venezia Pasternak poté osservare l’opera che, nella sua forte tensione drammatica, prelude a quest’ultima svolta e costituisce al contempo un importante punto di contatto con i pittori della nuova generazione, tra i
quali il prediletto da Pasternak, Tintoretto: Il martirio di san Lorenzo, pala conservata nella Chiesa dei Gesuiti. L’accostamento del Veronese a Tiziano da parte di Pasternak chiarisce decisamente la dinamica del suo pensiero, che peraltro, come già detto, ripercorre quasi
cronologicamente l’evoluzione dell’arte rinascimentale a Venezia.
In apparenza tale accostamento potrebbe addirittura essere giudicato
arbitrario: Tiziano è l’artista completo, dalla carriera lunghissima e
mutevole, che abbraccia un’intera epoca; Veronese è un pittore altrettanto importante, ma che si inserisce nell’ambiente veneziano solo all’inizio del 1550, opera per un trentennio e non abbandona mai
lo stile abbracciato all’inizio, quello del manierismo veneto, con un
animo per di più mille miglia lontano dal tormento spirituale dell’ultimo Tiziano.
Per certi versi ci si aspetterebbe di più, in virtù della comune origine manieristica, un accostamento fra il Veronese e il Tintoretto,
peraltro popolare già alla loro epoca, in quanto considerati entrambi
gli innovatori per eccellenza nel campo della grande decorazione di
soffitti. Oppure fra il Tiziano e il Tintoretto, per la comune dramma-
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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ticità dei contenuti. Eppure sono le parole stesse di Pasternak ad aiutarci: “[…] quando, raggiunta l’identità tra l’artista e l’elemento pittorico, diventa impossibile dire chi dei tre si esteriorizzi sulla tela con
maggiore potenza: l’esecutore, l’esecuzione o l’oggetto di essa […]”.
Effettivamente l’epoca del Veronese e dell’ultimo Tiziano è quella
in cui l’arte e la società veneta raggiungono una particolare unità
d’intenti: non c’è più alcuna forma di tensione o di incomprensione
fra il committente e l’artista, e questo non può che rispecchiarsi nello spirito della creazione. Non ci può essere di conseguenza neanche
più alcuna reticenza o distanza o violenza fra l’artista e la propria opera. E con Veronese si abbandona lo scenario del dramma religioso
per entrare nel tempio della gloria mondana, nel fasto di una società
laica per la quale presente e passato, sacro e profano si confondono
in una sintesi fantastica, dove la natura è un dato sempre presente e
tangibile, che non si trasfigura nel tormento spirituale. Fu soprattutto
nel Palazzo Ducale che Pasternak poté ammirare la maestria del Veronese: sue le decorazioni nella sala del Consiglio dei Dieci, sue quelle ancora più celebri nella sala del Collegio. Senza dimenticare poi,
nel soffitto della chiesa di San Sebastiano, le tele con le Storie di Ester.
Procedendo due pagine oltre verso le considerazioni generali sul
significato dell’arte, Pasternak pone l’attenzione su quel “fenomeno
insolito” dello “scontro della fede nella resurrezione con il secolo del
Rinascimento” e si domanda: “Chi, poniamo, non ha notato l’anacronismo spesso immorale, nella trattazione dei temi canonici di tutte
queste Presentazioni, Ascensioni, !ozze di Cana e Ultime cene, con
la loro sfrenata sontuosità mondana?”62
Ebbene – aggiunge – proprio in questo anacronismo mi si rivelò una
caratteristica millenaria della nostra cultura […] Capii […] che la Bibbia non è un testo sicuro, quanto il diario dell’umanità. Capii che così accade con tutto ciò che è eterno. Che l’eterno è vitale non quando è obbligatorio, ma quando si rivela suscettibile di tutte le rassomiglianze che scoprono in essi i secoli successivi. Capii che la storia
della cultura è una catena di equazioni in immagini, che a coppie
connettono il noto con l’incognita; che l’elemento noto e costante è
(62) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 111.
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Stefano Maria Capilupi
una leggenda posta a fondamento della tradizione, e che l’incognita,
ogni volta rinnovata, è il momento attuale della cultura.63
Queste riflessioni spiegano ancora di più il posto di particolare
importanza che Pasternak conferì al Veronese, il pittore che subì addirittura un processo da parte dell’Inquisizione per la sconveniente
redazione dell’Ultima Cena eseguita per il convento veneziano dei
Santi Giovanni e Paolo. L’artista eluse l’obbligo fattogli di modificare il dipinto, cambiando il titolo dell’opera in Convito in casa di
Levi (tela conservata nelle Gallerie dell’Accademia) e ottenendo ancora prestigiosi incarichi da parte della Serenissima negli ultimi decenni della sua attività.
Tiziano quindi, nel suo essere simbolo di un’epoca, e il Veronese, interprete di una società, sono entrambi, sia pur con modalità diverse, “l’arte” secondo Pasternak. La serenità dei contenuti e l’unitaria luminosità dei quadri del Veronese, che in questo senso ricordano il Bellini; la contiguità stilistica con il Tintoretto: sono questi forse gli elementi che danno però a Paolo Caliari di Verona una probabile priorità nei confronti del Tiziano, come espressione dell’“arte”
secondo Pasternak. Ma forse maggiore importanza ha la drammaticità dei contenuti propria dell’ultima fase del cadorino nel passare invece, sempre all’interno del giudizio pasternakiano, al terzo e ultimo
grado della maestria.
Infine, pur avendo valutato inadeguatamente queste impressioni, appresi quanto poco occorra al genio per esplodere. Chi lo direbbe? Il
trionfo dell’esecutore, dell’esecuzione e del suo oggetto o, in senso
più lato, la trasposizione degli assi di forza dell’oggettività, ecco che
cosa fa infuriare il genio. Quasi fosse uno schiaffo dato a lui per l’intera umanità. Nelle sue tele irrompe la tempesta che purifica il caos
creativo con gli slanci possenti della passione. Bisogna vedere il Michelangelo veneziano, il Tintoretto, per capire che cosa sia un genio,
cioè un artista.64
Molto indicativo che Pasternak definisca Tintoretto “il Michelangelo veneziano”. Molti testi di storia dell’arte peraltro, pur riconoscendo al Tintoretto le medesime peculiarità, non danno di certo al(63) Ivi, pp. 111-112.
(64) Ivi, pp. 109-110.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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l’artista lo spazio che un giudizio in linea con quello di Pasternak esigerebbe.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto è, anche a vedere la data della
sua morte, l’ultimo, in ordine cronologico, dei grandi pittori veneti
del ’500. La tensione e l’energia esplosive di cui parla Pasternak hanno un solido fondamento storico: il pittore si pose all’avanguardia
nel rinnovamento dell’iconografia sacra, sentito ormai come necessario nel clima religioso post-tridentino. Ma a questo compito, ed è
ciò che probabilmente colpì e sentì Pasternak, Tintoretto non si piegò per opportunismo politico, ma piuttosto aderì intimamente in quanto lui stesso interprete di un’autentica devozione. In un certo senso
lo scrittore poteva vedervi rispecchiato il proprio destino nella Russia sovietica, quando financo nell’opera più esplosiva, Il dottor !ivago, mai disconoscerà una bontà di fondo nel primo empito rivoluzionario del ’17, e sempre cercherà di rimanere vicino alle esigenze
più autentiche del proprio popolo. Un altro brano de Il salvacondotto conferma e chiarisce quest’analisi:
Quando papa Giulio manifestò la sua insoddisfazione per la povertà
cromatica della cappella Sistina, Michelangelo per giustificarsi ribattè che quel soffitto rappresentava la creazione del mondo con le
figure che le si addicevano: – A quei tempi non ci si vestiva d’oro.
Le persone, qui raffigurate, non erano ricche. Ecco il linguaggio tonante e puerile degli uomini di quello stampo. Il limite della cultura
lo tocca l’uomo che cela in sé un Savonarola domato. Un Savonarola indomito la distrugge.65
Per certi versi tali pensieri ci fanno tornare in mente come financo Nietzsche deponesse di fronte al Rinascimento italiano la propria
avversione nei confronti non solo del Cristianesimo in genere (dove
sui rapporti fra Nietzsche e il Cristianesimo tout-court esiste una sequela a parte di interpretazioni), ma addirittura di quello cattolicoromano in particolare: “[…] sul seggio papale non stava più l’antica
corruzione, il peccatum originale […] Piuttosto la vita! Piuttosto il
trionfo della vita! Piuttosto il grande sì a ogni cosa elevata, bella, temeraria! […]”;66
(65) Ivi, pp. 112-113.
(66) Fredrich Wilhelm Nietzsche, L’Anticristo. Milano 1975, p. 198 e sgg.
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Stefano Maria Capilupi
Il Rinascimento italiano racchiuse in sé tutte le forze positive a cui
si deve la cultura moderna: ossia liberazione del pensiero, disprezzo
dell’autorità, vittoria nell’istruzione contro l’alterigia della schiatta,
entusiasmo per la scienza e per il passato scientifico degli uomini,
affrancamento dell’individuo, un ardore di verità e un’avversione per
le apparenze e i meri effetti (un ardore che divampò in tutta una folla di caratteri artistici, i quali nelle loro opere pretesero da sé con somma purezza morale perfezione e nient’altro che perfezione); sì, il Rinascimento ebbe in sé quelle forze positive che finora, nella nostra
cultura moderna, non sono ancora ridiventate così potenti. Esso fu l’età aurea di questo millennio […] Il grande compito del Rinascimento non poté essere portato a termine; lo impedì la protesta della germanicità […] Lutero sarebbe stato bruciato come Huss – e l’aurora
dell’Illuminismo sarebbe forse sorta un po’ di tempo prima e con una luce più bella di quel che oggi possiamo immaginarci.67
Pasternak era uomo che, per gli stessi studi fatti, conosceva bene
la storia e la teneva come punto di riferimento per la vita. Ne Il dottor !ivago dichiarerà: “[…] i fatti sono privi di senso se non se ne dà
loro uno […]”.68 Già parlando di Marburgo aveva scritto che “ogni
biografia di Giordano Bruno [la] citava […] tra le città dove il filosofo aveva tenuto discorsi durante il viaggio fatale da Londra in Italia”.69 E la stessa cosa avrebbe ricordato nel futuro Uomini e posizioni. Saggio autobiografico: “[…] di passaggio qui durante un viaggio
all’estero, prima di tornare in patria e morire sul rogo a Roma, aveva
tenuto una lezione sulla sua nuova astronomia Giordano Bruno”.70
Non dimenticava quindi come anche la Serenissima non rimanesse esente dalle feroci contraddizioni del Rinascimento e, soprattutto,
della Controriforma. Le sue parole sulla “furia” e sull’“impazienza”
del Tintoretto (come del Michelangelo e dell’“artista” in genere) sono peraltro ancora più esplicite nel brano espunto dai censori sovietici: poiché tutti insieme sopportano “il ruggito leonino di una falsa
immortalità […] vuol dire che in questo serraglio ci deve essere an(67) Fredrich Wilhelm Nietzsche, Umano, troppo umano, in Id., Opere filosofiche, III. Torino 2006, p. 198.
(68) Boris Pasternak, Il dottor !ivago, cit., p. 102.
(69) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 51.
(70) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., p. 880.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
33
che qualcosa che nessuno vede e sente. È questa la goccia che fa traboccare il vaso della pazienza del genio”.71 Tutt’altro quindi che un
ingenuo panegirico di carattere sentimentalistico od estetizzante: piuttosto parole che scavano in un’intima e insanabile tensione. La tensione e l’interiore conflitto, in ultima analisi, di chi crede, o meglio,
alla luce e in forza del suo particolare carisma, vede e sente ciò che
il potere, o almeno buona parte di esso, intende solo strumentalizzare. Non si rivela assolutamente casuale quindi il fatto che la terza e
ultima parte de Il salvacondotto (finendo la seconda con le immagini
di “un concerto con luminarie” tenutosi “la sera, alla vigilia della
[…] partenza” da Venezia) passi direttamente a parlare, in forma
quasi esclusiva, di Vladimir Majakovskij: ossia di un artista che sempre credette negli ideali del ’17, a tal punto da temere che il nuovo
potere dubitasse della sua sincerità. Qualcosa dentro di lui, più forte
di lui, il suo genio, lo rendeva sospetto; ed egli preferì suicidarsi, come non tollerando più o temendo la tensione crescente nel suo animo fra il “Savonarola domato” e quello “indomito”. Questo almeno
scrive fra le righe Boris Pasternak.
Visione sofianica
Per capire perché Pasternak consegnasse la palma del più grande al
Tintoretto, cioè all’artista veneto più vicino al “disegno” tosco-fiorentino, può essere utile un altro brano di Si sta già facendo buio, il
lungo frammento del 1910. Quando gli uomini hanno abbandonato
la sfera dell’infanzia e sono entrati in quella della maturità, Dio, come già detto, non può essere più semplicemente un “tratto di matita”, “il confine dei suoi adoranti”,72 ma piuttosto “unità nel caos”,
perché “Dio è dappertutto”.73 È solo l’artista allora che incurante, o
meglio non intellettualmente interessato a “dio nella vita, nella morale e nella verità” concepisce “dio come la configurazione, la sagoma entro i confini della quale si muovono le vostre gioie e i vostri
dolori, tutta quella ricchezza di relazioni e sentimenti che sono il variopinto sangue dell’esistenza”.74
(71) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 167.
(72) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., p. 1332.
(73) Ivi, p. 1337.
(74) Ibid.
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Stefano Maria Capilupi
L’artista, il pittore nella fattispecie (e il Reliquimi di questo lungo frammento è “figlio di un pittore”) possiede infatti “un altro tipo
di circolazione sanguigna”, una costituzione che, proprio perché perfettamente pura, è altra da questa istintiva, ma ancora caotica tensione umana verso il divino, e quindi anche la più predisposta a cogliere come dall’esterno tale intreccio di segni. Cosicché quando la cornice divina, pur essendo “non soggiogabile dal potere di alcunché”,75 è rimasta “contagiata dalla vita stessa” che racchiudeva ed “è
diventata come lei”, allora si è reso necessario che gli artisti, “die
Gotter die Liebe”76 (‘gli dei dell’amore’ – in tedesco nel testo), “chiudessero in una nuova cornice tutti i confini della vita” (“alle Rahmen
die Leben geworden umrahmen”77 – in tedesco nel testo). Almeno
questa è la traduzione della frase che la persona che ha curato l’edizione delle Opere narrative, ossia Margherita Crepax, propone. In
realtà, più che una traduzione, è una lettura di ciò che probabilmente
intendeva dire Pasternak. Questo perché la frase a quanto pare non è
una citazione, ma un tentativo di Pasternak di esprimere un suo pensiero in tedesco. Se così è veramente, dal punto di vista linguistico il
tentativo dello scrittore russo è del tutto scorretto, in quanto parte
dal presupposto, errato, che in tedesco esistano le infinitive (in questo caso infinitive-soggettive) secondo l’antico modello della lingua
latina (la frase intera è: “und man muss die Gotter die Liebe, alle
Rahmen die Leben geworden umrahmen”; e la traduzione, verosimile nel senso, ma linguisticamente impossibile, proposta dai curatori
del testo è: “È necessario che gli dei dell’amore chiudano in una cornice tutti i confini della vita”). Tutto questo però ha in fondo scarsa
importanza. È degna di nota invece, nell’insieme dei brani citati da
Si sta già facendo buio, la sintesi fra elementi di origine culturale estremamente eterogenea. La concezione della semplicità infantile come qualcosa di particolarmente legato alla sfera della ritualità; l’attitudine degli artisti a riscoprire, anche se in una forma totalmente
nuova, tale dimensione, in quanto “perfettamente puri”; il fondamento di tale purezza basato su una sorta di estraneità all’intreccio
(75) Ivi, p. 1338.
(76) Ibid.
(77) Ibid.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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di segni intercorrente fra l’umano e il divino; la concezione del divino come qualcosa a sua volta di totalmente altro rispetto alla vita
del mondo.
Questa serie di elementi ci descrive un concetto di purezza che
non ricorda tanto da vicino quello occidentale e cristiano di santità o
di perfezione morale, quanto piuttosto quello ebraico ed orientale di
“pulizia” e di “purificazione” dal contatto col divino, col sacro, ovvero con tutte le sfere più essenzialmente generatrici della vita, sia a
livello rituale (ad esempio, la Bibbia), sia a livello fisiologico e sessuale. In senso decisamente analogo l’artista appare perfettamente
puro e capace addirittura di riedificare con la propria arte l’ordine
perduto del cosmo, quasi a riconquistare, trasfigurandola, la semplicità dell’infanzia. Qui si aggiungono elementi di ispirazione superomistica (vorremmo dire meglio: “oltre-omistica”), insieme ad altri di
più chiara origine evangelica, legati alla cosiddetta “fede dei piccoli” (Mt 19, 13-15; Mc 10, 13-16; Lc 9, 47; Lc 18, 15-17). Tornando
al Tintoretto, “artista” per eccellenza, dovrebbe ora apparire più chiaro perché Pasternak, dopo aver palesato una generale preferenza per
il chiaroscuro, l’unitaria luminosità e il colorito, consegni a lui, come già detto, la palma del migliore. È al genio che tocca quel passaggio ulteriore precluso agli uomini semplicemente “maturi”: quel
passaggio in cui il disegno e il colore si fondono nella sintesi più adatta per avvicinarsi a Dio. Fu dallo studio dell’opera di Michelangelo e degli scritti teorici di Sebastiano Serlio che Jacopo Robusti
trasse spunto per quell’elemento scenico e teatrale che divenne uno
dei dati più caratteristici dei suoi dipinti. Tale aspetto non poteva non
avere una grande risonanza nell’animo di Pasternak. Il dinamismo, i
forti contrasti di luce, la concezione drammatica e visionaria, il tema
dell’intervento soprannaturale, la regia sapiente delle emozioni sono
elementi presenti in tutte le opere del Tintoretto che Pasternak poté
ammirare a Venezia: dal Miracolo di san Marco conservato all’Accademia fino ai cinquanta teleri dei tre cicli della Decorazione della
Scuola di san Rocco; senza dimenticare l’Ultima Cena nella chiesa
di San Giorgio o i Cicli pittorici di palazzo Ducale, ricostituiti questi
ultimi dal Tintoretto per incarico della Serenissima dopo gli incendi
del 1574 e del 1576. Pasternak predilesse il Tintoretto forse proprio
perché, mutatis mutandis, passando dalla tecnica alla filosofia e vi-
36
Stefano Maria Capilupi
ceversa, “l’amore sopravanza il sole”, ovvero “l’evidenza della forza
[…] oltrepassa l’evidenza della luce”.78
“L’essenziale che ognuno ritrae da un incontro con l’arte italiana
è il senso della tangibile unità della nostra cultura, comunque l’abbia
vista o definita”:79 ecco, in conclusione della seconda parte de Il salvacondotto, la sintesi delle riflessioni di Pasternak:
ecco di che cosa m’interessavo allora, che cosa capivo e amavo. Amavo l’essenza vivente del simbolismo storico, o, in altri termini,
quell’istinto con il cui aiuto noi, come rondini, abbiamo costruito il
mondo: un nido enorme, fatto di terra e cielo, di vita e di morte e di
due momenti, il presente e il passato. Capivo che, se esso non si disgrega, lo deve alla forza di collisione, racchiusa nella diafana immagine di tutte le sue particelle.80
Cos’è questa “forza” e questa “diafana immagine” di cui parla Pasternak? In cosa consiste l’“essenza vivente del simbolismo storico”? Da cosa infine è attratto concretamente l’“istinto con il cui aiuto noi, come rondini, abbiamo costruito il mondo”?
Già in due punti precedenti de Il salvacondotto, nel capitolo III e
nel capitolo VII della seconda parte, Pasternak tenta di “comporre
un’estetica”.81 L’arte “non s’interessa all’uomo, ma alla sua immagine. E quest’immagine, a quanto pare, vale più dell’uomo. La si può
concepire soltanto in movimento, e per giunta non in ogni moto”, ma
“soltanto nel trapasso dalla mosca all’elefante”.82 Ossia nella progressione dal più piccolo al più grande, in un’ottica di evoluzione, di crescita. Quando “un uomo onesto […] dice soltanto [in corsivo nel testo] la verità […] il tempo passa, e durante questo tempo la vita procede. La verità di quell’uomo rimane indietro e diventa un inganno”.
Solo “nell’arte l’uomo tace, comincia a parlare l’immagine. Soltanto
[in corsivo nel testo] l’immagine può, quindi, tener dietro ai progressi della natura”.83 L’arte non si limita a dire la verità, perché coglie
(78) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 77.
(79) Ivi, p. 111.
(80) Ivi, p. 112.
(81) Ivi, p. 77.
(82) Ivi, p. 66.
(83) Ibid.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
37
qualcosa di più grande ancora: la bellezza. Osserva a tal proposito
Elena Pasternak:
Già da adolescente Pasternak aveva sperimentato il risveglio del sentimento del bello; nelle lettere del 1907 chiamava la bellezza il suo
sancta sanctorum e soffriva per non riuscire a rispondere ai suoi richiami. La passione giovanile lo spingeva all’analisi, nello studio della filosofia egli voleva decifrare il mistero della bellezza.84
La bellezza di Venezia, a quanto pare, seppe illuminarlo a dovere
e la sua ricezione “passò attraverso la comprensione della grandezza
della sua storia”.85
Soltanto [in corsivo nel testo] l’arte, parlando dell’amore nel corso
dei secoli, non è a disposizione dell’istinto per integrare i mezzi che
complicano la sensibilità. Superata la barriera di un nuovo sviluppo
spirituale, una generazione custodisce la verità lirica, non la ripudia,
sicché da una distanza molto grande si può credere che proprio nell’immagine della verità lirica l’umanità si evolva attraverso le generazioni. Tutto questo è straordinario. Irto di seducenti difficoltà. Il
gusto educa la morale, e la forza educa il gusto.86
Le ultime parole in particolare ricordano il giudizio tratto da Si sta
già facendo buio: l’artista non si occupa “di un dio nella vita, nella
morale e nella verità […]”.87 Qualche riga più sopra invece la disamina “dell’istinto che complica”, evidentemente diverso dall’istinto
“delle rondini”, ricorda in maniera impressionante quel “fare epoché”
di Husserl, sulle credenze (le cosiddette verità di cui diceva più sopra Pasternak) che intessono appunto quello che Husserl chiama atteggiamento naturale. Questo atteggiamento naturale è “l’istinto che
complica” di Pasternak. Scrive sempre ne Il salvacondotto Pasternak: “[…] l’amore sopravanza il sole […] l’evidenza della forza […]
oltrepassa l’evidenza della luce”.88 Aggiunge in modo più esplicito:
Se […] volessi oggi comporre un’estetica, la costruirei su due concetti: sulla forza e sul simbolo. Dimostrerei che, mentre la scienza
(84) Elena Pasternak, Boris Pasternak, cit., p. 213.
(85) Ibid.
(86) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 66.
(87) Boris Pasternak, Opere narrative, cit., p. 1337.
(88) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 77.
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Stefano Maria Capilupi
osserva la natura nella sezione di un raggio di luce, l’arte s’interessa
alla vita nel momento in cui è trapassata da un raggio di forza […]
Spiegherei che nell’ambito dell’autocoscienza la forza si chiama sentimento.89
Solo adesso Pasternak può usare questa parola, ‘sentimento’, senza
paura che il proprio pensiero possa essere sminuito o male inteso. Difatti, quando valutiamo un’opera d’arte solo “come la rappresentazione di una passione forte, sottovalutiamo il contenuto”. Questo contenuto “è più ampio” ed è “il tema stesso della forza. Da questo tema
nasce l’arte”. E l’arte “è più unilaterale di quanto si pensi. Non la si
può orientare a proprio piacimento, come un telescopio”. C’è qualcosa quindi di più forte ed oggettivo sia della passione, che della
scienza, ad animare l’arte, la vera arte. “Puntata sulla realtà, che viene trasposta sul sentimento, l’arte non fa che registrare questa traslazione, ricalcandola sulla natura”.90 Trasponendosi la natura, “i particolari guadagnano in ricchezza quel che perdono in autonomia di significato”.91 Mutatis mutandis, usando termini ancora più strettamente
filosofici (la stessa cosa che farà Pasternak dopo qualche riga, come
si avrà modo più avanti di mostrare), ci sono tutti gli atti fenomenici
separati, ma c’è un’intuizione di un unicum, di un continuum che supera e sfonda la separatezza degli atti. Tale senso di un’estetica e al
contempo ontologica unità-varietà della natura e dell’arte insieme si
ritrova in una bellissima poesia del 1917, congiunta per altro con
un’immagine addirittura “storico-politica” del divino che ha molto
di “cattolico-romano”:
Lasciamo cader le parole
[…]
Non è necessario spiegare
[…]
Tu chiederai chi disponga
che l’agosto sia grande,
a chi nulla sembri minuto,
chi sia immerso nella rifinitura di una foglia di àcero
e chi dai giorni dell’Ecclesiaste
(89) Ivi, p. 78.
(90) Ibid.
(91) Ibid.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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abbia continuato a digrossare
senza posa l’alabastro.
Tu chiederai chi disponga
che soffrano le labbra settembrine
delle margherite e delle dalie.
[…]
Tu chiederai chi disponga.
– L’onnipossente Dio dei dettagli,
l’onnipossente Dio dell’amore,
degli Jagelloni e delle Edvigi.
Non so se sia stato risolto
l’enigma dell’oltretomba,
ma la vita è colma di minuzie
come il silenzio autunnale.92
Questa poesia ha molte cose sorprendenti ma, a prescindere dalla sorpresa sempre viva che desta la bellezza in sé, le ha soprattutto per
chi non volesse riconoscere la presenza di molteplici elementi di cristianesimo (e di filosofia religiosa) in Pasternak. Un verso in particolare colpisce chiunque: quello che parla del Dio “degli Jagelloni e
delle Edvigi”. Ossia il Dio che benedisse l’unione fra Jagellone di
Lituania ed Edvige dei Piasti di Polonia nel 1386: unione che precedette l’unificazione ufficiale ed effettiva dei due troni sotto Casimiro
IV nel 1447. Ovvero un Dio protettore della dinastia cattolico-latina
e anti-russa per eccellenza.
Tornando alla sintesi di filosofia estetica che Pasternak pone ne Il
salvacondotto come frutto più maturo delle sue riflessioni sull’arte italiana, è necessario ora, per poterla meglio comprendere ed apprezzare, ripercorrere brevemente le informazioni note sull’iter filosofico dello scrittore. Lazar Fleishmann, nel suo Boris Pasternak, offre
in merito un ricco materiale. Gli interessi dei contemporanei di Pasternak erano suddivisi fra tre tendenze: l’evoluzionismo spiritualistico, la fenomenologia e il neokantismo. Il più popolare in Russia
era Henri Bergson. Ma i documenti pervenuti non sembrano attestare per costui un interesse particolare da parte di Pasternak durante
gli anni universitari. Lo stesso Fleishmann riconosce invece che molto
più vicine al poeta erano le idee di Husserl. Proprio in quegli anni
(92) Angelo Maria Ripellino, Poesia russa del ’900, cit., p. 52.
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per altro un suo seguace, Gustav !pet, cominciò ad insegnare all’Università di Mosca e ad inserirsi vivacemente nei circoli filosofici
della città. Pasternak perlomeno seguì il seminario di !pet su Hume.
Anche nelle prime opere letterarie di Pasternak è possibile trovare
un’affinità con Husserl. Contemporaneamente però egli intraprese uno studio sistematico delle opere del neocriticismo di Marburgo. Da
una testimonianza di Andrej Belyj sappiamo che “Cohen e Rickert
regnavano fra i muri dell’università”.93 Ambedue gli indirizzi del neokantismo quindi, sia quello di Marburgo, che quello di Baden, raggiungevano indirettamente, ma poderosamente, l’Università di Mosca. Il semestre estivo in Germania di Pasternak appare perciò ancora meno casuale di quanto alcuni particolari de Il salvacondotto potessero suggerire. Nello stesso libro d’altronde lo scrittore dichiara:
[…] alla scuola di Marburgo interessa soltanto che cosa pensi la
scienza nella sua ininterrotta creazione di venticinque secoli, dai
principi primi ai risultati delle scoperte mondiali. In questa situazione, sancita in qualche modo dalla storia, la filosofia ritorna giovane
e rinsavisce tanto da sembrare irriconoscibile, perché da disciplina
problematica diviene una disciplina dei problemi, come appunto dev’essere.94
Sembra di sentire le parole di Paul Natorp: “[…] il fatto della
scienza deve essere inteso solo come fieri […] tutto l’essere che la
scienza cerca di assodare (fest-stellen) deve risolversi di nuovo nella
corrente del divenire”.95 Anche Natorp si ispirava in questo senso al
Faust di Goethe: “Im Anfang war die Tat” (“All’inizio era l’azione”). Prosegue Pasternak:
La seconda peculiarità della scuola di Marburgo derivava direttamente dalla prima e consisteva nel suo atteggiamento severo e scrupoloso verso il retaggio storico […] Queste due caratteristiche (l’autonomia e lo storicismo) non rivelano il contenuto del sistema coheniano, ma […] ne spiegano la forza d’attrazione96
(93) Lazar Fleishman, Boris Pasternak, cit., p. 47.
(94) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 49.
(95) Giovanni Reale, Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. III. Brescia 199417, p. 341.
(96) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., pp. 49-50.
Appunti sull’Italia e sulla filosofia di Boris Pasternak
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che esercitò sullo scrittore e su molti suoi contemporanei. A spingere Pasternak verso Marburgo furono quindi soprattutto un bisogno di
rigore epistemologico e il desiderio di conoscere da vicino i teorici
sempre citati e chiamati in causa dai mentori letterari della sua generazione, da Andrej Belyj a tutti gli altri simbolisti. All’Università di
Marburgo, a rafforzare i legami dell’istituzione con la Russia, c’era
Nicolai Hartmann. Costui diverrà uno degli esponenti più importanti
della filosofia del nostro secolo. La sua “ontologia critica”, che potremmo definire rozzamente come sintesi di neokantismo e fenomenologia, è stata forse il frutto più completo di entrambe le scuole, sia
di quella di Cohen, che di quella di Husserl. E sembra effettivamente anche la stella polare verso cui si orientava il sostrato logico della
scrittura pasternakiana. In realtà il neokantismo, lo storicismo, la fenomenologia, la filosofia di Bergson, nonché la filosofia religiosa russa, sono tutte correnti che, contrapponendosi più o meno polemicamente sia al positivismo, che ad ogni apriorismo idealistico, si inserivano con modalità diverse in quel vasto movimento di pensiero caratterizzato dalla tendenza “verso il concreto”. Soprattutto in Occidente di tutte queste correnti, e anche di alcune successive come l’esistenzialismo, vero e proprio lievito fu l’approccio fenomenologico.
Scrive Heidegger in Essere e tempo: “l’espressione fenomenologia
significa anzitutto […] un motto: torniamo alle cose stesse!” Ovvero: zu den Sachen selbst! (‘andiamo alle cose stesse!’). La prima vera “cosa”, il dato indubitabile, il cosiddetto “residuo fenomenologico” è la coscienza; e coscienza da sempre è sinonimo di unità (delle
percezioni). L’esistenza della coscienza è immediatamente evidente.
Oggetto di tale coscienza non sono i fatti, ma le essenze. In polemica con tutto l’empirismo, il fenomenologo sostiene che per comparare più fatti bisogna aver colto già un’essenza, un aspetto cioè per cui
sono simili. E questo si estende alla morale, all’arte, al diritto, alla
religione, alla cultura. Come si è visto, Pasternak scrive ne Il dottor
!ivago: “i fatti sono privi di senso se non se ne dà loro uno”97 (dove
rieccheggia anche la polemica con chi a suo tempo lo voleva costringere a occuparsi di memorie, reportage, diari, appunti di viaggio, resoconti giornalistici, ossia il LEF, che, come già ricordato nel pre(97) Boris Pasternak, Il dottor !ivago, cit., p. 102.
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sente articolo, aveva dichiarato che la “letteratura dei fatti” era non
solo la forma letteraria più progressiva, ma anche l’unica appropiata
date le nuove condizioni sovietiche); e ancora prima, nello stesso romanzo: “Lara […] era lì […] per dare un nome alle cose e, se le sue
forze non fossero bastate, per generare dei figli che l’avrebbero fatto
in sua vece”.98 Restava da vedere, come osserva Sofia Vanni-Rovighi, se “dare significato” vuol dire creare il significato o rivelarlo. Il
maestro Husserl, anche se con forti indecisioni ed ambiguità, si orientò verso la prima direzione, quella cosiddetta idealistica, in cui la
coscienza, unica realtà, costituisce il senso del mondo. La maggior
parte dei suoi prosecutori tuttavia mosse decisamente verso una visione “realistica”: così i vari Max Scheler, Nicolai Hartmann, Rudolf Otto, Gerard van der Leeuw e la “serva di Dio” e martire Edith
Stein.
Nicolai Hartmann, tedesco dei paesi baltici, aveva studiato in
scuole di lingua russa e tedesca sia a Riga, dov’era nato, che a Pietroburgo. Nel 1907 discusse la propria tesi a Marburgo e vi iniziò la
carriera di docente. Al tempo in cui Pasternak arrivò a Marburgo era
già possibile individuare nell’orientamento filosofico di Hartmann
un moto di allontanamento da Cohen in direzione della fenomenologia husserliana. Fra i corsi offerti dal dipartimento di filosofia Pasternak scelse due seminari, quello di Cohen sull’etica e quello di Hartmann sulla logica. Il suo lavoro per il corso di Hartmann lo portò, al
ritorno in Russia, ad una tesi di laurea su Leibniz.
L’“autocoscienza” (ciò che Husserl avrebbe definito il doveroso
e nobile “autocomprendersi” dell’umanità); il senso netto dell’unità
della cultura umana; una spiccata tendenza a ricondurre tutto alle considerazioni sull’arte: sono questi forse i tre punti che animano e spiegano gli interi studi filosofici di Pasternak (1909-’13). In linea con
Paul Natorp, Pasternak giudicava l’arte e la psicologia metodologicamente correlate. Ma l’arte è “più psicologica della psicologia” ed
è più vasta, in quanto maggiormente attinente alla sfera della conoscenza oggettiva. Addirittura il “movimento dell’idea” stessa ha origine nella complessità del linguaggio artistico.99
(98) Ivi, p. 66.
(99) Cfr. Lazar Fleishmann, Boris Pasternak, cit., p. 57.
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La cugina Ol’ga Frejdenberg dichiarerà nelle proprie memorie che
a vent’anni Boris sembrava nato per una carriera di studioso. Che
Pasternak, nonostante il suo grande talento, non fosse destinato però
a diventare né un filosofo, né un docente universitario, pur non essendo chiaro allora, è addirittura lapalissiano oggi. Per questo appare leggermente superflua la sottolineatura di Fleishmann sul fatto
che Pasternak non sia mai stato attratto successivamente “dalla generazione più giovane di Marburgo, Natorp e Hartmann” (peraltro
quasi opposti fra di loro, continuando nel neokantismo il primo, approdando nella fenomenologia più “realistica” il secondo). In realtà
semplicemente non poté seguirne il percorso, in forza di altri interessi e degli stessi sconvolgimenti politici. Non è un caso che anche
Fleishmann registri più avanti la grande attenzione e il sentimento di
affinità che Pasternak mostrò a partire dagli anni Quaranta nei confronti del “personalismo” nella sua veste inglese. Ossia nei confronti
dell’unica corrente filosofica dell’Europa, fra quelle a lui spiritualmente vicine, con cui lo scrittore, per vicissitudini varie, poté entrare
in contatto, dopo essere stato “isolato dalla vita culturale dell’occidente nel corso degli anni trenta”.100 Il personalismo, giova qui ricordarlo, nacque in Francia nel 1932 con l’uscita del primo numero
della rivista “Esprit”, fondata da Emmanuel Mounier. Il personalismo è stato, com’è noto, una corrente intimamente legata alla fenomenologia, all’esistenzialismo, nonché al pensiero di Sergej Bulgakov e di Nikolaj Berdjaev (e anche, a posteriori, di Pavel Florenskij). La diaspora russa di Parigi fu anzi una vera e propria musa ispiratrice e colonna d’appoggio per i giovani filosofi della cerchia
dell’“Esprit”. In particolare Berdjaev collaborò anche ai quattro numeri di “Transformation”, la rivista del Personalist Group che Pasternak ebbe modo di leggere, trovandovi una forte ispirazione per
le idee espresse poi ne Il dottor !ivago, soprattutto a proposito del
cristianesimo. Lavorò per questo giornale anche Stefan Schimanski,
profondo ammiratore dello scrittore e autore di un articolo rivoluzionario su di lui pubblicato durante la guerra nella rivista “Life and
Letters Today”; articolo che per la prima volta vedeva Pasternak non
come un prodotto raffinato del socialismo russo, ma come un suo
(100) Ivi, p. 343.
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perseguitato. È noto poi come i filosofi religiosi russi del cosiddetto
“secolo d’argento” siano gli stessi venerati padri e zii presenti, esplicitamente o in controluce, in quasi tutte le pagine de Il dottor !ivago.
In particolare, sempre Berdjaev è considerato, per diverse ragioni, il referente principe. Ma c’è dell’altro, e ci riporta direttamente agli anni dell’università di Pasternak, al viaggio in Italia e a Il salvacondotto: negli anni 1911-’13 anche Nikolaj Berdjaev fece un viaggio in Italia, toccando Roma, Firenze e Assisi. Durante questo viaggio concepì un’opera a cui lui stesso attribuirà sempre somma importanza: Smysl tvor"estva (Il significato della creatività), pubblicato
nel 1916. La lettura di questo testo permette di comprendere ancora
meglio le sfaccettature di quel concetto di libertà spirituale che costituisce l’epicentro del pensiero berdjaeviano. L’affinità e la parentela con le riflessioni de Il salvacondotto è fin troppo evidente: “C’è
l’arte. Non s’interessa all’uomo, ma alla sua immagine. E quest’immagine vale più dell’uomo. La si può concepire soltanto in movimento […] Soltanto l’immagine può […] tener dietro ai progressi
della natura”;101 e ancora oltre:
Amavo l’essenza vivente del simbolismo storico, o, in altri termini,
quell’istinto con il cui aiuto noi, come rondini, abbiamo costruito il
mondo: un nido enorme, fatto di terra e di cielo, di vita e di morte e
di due momenti, il presente e il passato […] se esso non si disgrega,
lo deve alla forza di collisione, racchiusa nella diafana immagine di
tutte le sue particelle.
Lo stesso Fleishmann sottolinea quanto fu importante la conoscenza di Dmitrij Samarin, Sergej Mansurov e Nikolaj Trubeckoj per il
giovane Pasternak, tutti e tre appassionati aderenti ai “circoli filosofico-religiosi”. Pasternak assegna all’incontro con Samarin un’importanza fondamentale per la decisione di andare a Marburgo e nello
stesso racconto Samarin appare come un individuo estremamente edotto sulle tematiche neokantiane. In una lettera poi del 1959 a uno
dei suoi corrispondenti stranieri, Pasternak stesso confermerà la validità del parallelo già fatto da qualcun altro in Occidente fra il personaggio di !ivago e Dmitrij Samarin. Lazar Fleishmann considera
(101) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 66.
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questi dati sorprendenti, perché “è difficile immaginare due opposti
più reciprocamente contraddittori della filosofia scientifica della scuola di Cohen e dei filosofi religiosi russi dell’inizio del secolo”.102
Ma ci sono quel comune movimento “verso il concreto” e l’approccio tutt’altro che ingenuo alla conoscenza del mondo e alle credenze umane ad attenuare con evidenza “la sorpresa”. Nonché, soprattutto prendendo in considerazione gli sviluppi di Hartmann, la
comune percezione e il rispetto, indiscutibili, dell’Altro e del Tutto.
Senza dimenticare poi che una particolare “percezione-del-Tutto”
era già la caratteristica principale degli slavofili come Kireevskij e
Chomjakov. Lazar Fleishmann aggiunge che pur avendo la filosofia
religiosa russa attratto sicuramente la sua attenzione “quando iniziò
a scrivere Il dottor !ivago”, “tutti i documenti disponibili non lasciano alcun dubbio sul fatto che [essa] non ebbe alcuna influenza
sul giovane Pasternak”.103 In realtà alcuni momenti della prima produzione, compresa la poesia Lasciamo cader le parole, le pagine de
Il salvacondotto e le forti somiglianze riscontratevi con Il significato
della creatività di Berdjaev stanno invece a dimostrare che qualcosa
dentro, più o meno silenziosamente, progrediva. E non c’è in ultima
analisi bisogno di trovare nello scrittore citazioni esplicite di nomi o
di sistemi filosofici per comprovare una storica, sia pur umanamente
indiretta, vicinanza del giovane Boris a quel determinato ambiente;
vicinanza e affinità che il maturo Pasternak riconosceva serenamente. E in questo senso giova anche ricordare come nella seconda metà
degli anni Venti prendessero corpo i due poemetti di Pasternak, Il
luogotenente Schmidt e 1905. Nel primo si riscontra evidente un senso
del sacrificio tipicamente cristiano. Nel secondo si riscopre una verginità dell’empito rivoluzionario non nel ’17, bensì proprio nel cuore
delle riforme liberali e dei fermenti filosofici dei primi anni del Novecento.
È nel prisma di Florenskij, di Berdjaev e anche di Sergej Bulgakov che è possibile comprendere pienamente le implicazioni e i significati filosofici di molte considerazioni pasternakiane. Com’è vero che la considerazione della filosofia religiosa russa, da una parte,
(102) Lazar Fleishmann, Boris Pasternak, cit., p. 51.
(103) Ibid.
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e delle coeve scuole occidentali, dall’altra, consente di leggere realmente l’intera dimensione filosofica in Pasternak.
“L’arte è realistica come l’attività e simbolica come il fatto”.104
“È realistica perché non ha inventato da sé la metafora, l’ha solo trovata nella natura e riprodotta con fedeltà”. È realistica perciò perché
i fatti non hanno senso se non se ne dà loro uno, quindi non sono
reali se non nella forma in cui sono riconosciuti tali dalla coscienza.
Ed è simbolica perché l’uomo è un animale simbolico e quindi fuori
dai simboli non è possibile alcuna comunicazione:
[…] l’arte, è il simbolo della forza. A rigore, soltanto la forza ha bisogno del linguaggio delle prove materiali. Le parti residue della coscienza sono longeve di per sé e conducono direttamente alle analogie visive della luce: al numero, alla nozione esatta, all’idea. Ma la
forza, il fatto della forza, la forza che balena soltanto nel fenomeno
non possono esprimersi se non con il linguaggio dinamico delle immagini, che è il linguaggio dei segni concomitanti. Il discorso diretto del sentimento è allegorico e insostituibile.105
Sotto molti punti di vista, tale modo di ragionare ricorda da vicino quello di un altro illustre allievo della scuola di Marburgo: Ernst
Cassirer. Questi, autore anche di Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento (1927), sostenne che lo sviluppo del pensiero scientifico ci costringe oramai a passare finalmente dal concetto di sostanza a quello di funzione. Ciò che conta sono le relazioni funzionali fra
gli oggetti, ricercando le quali non si cade in nessuna forma di relativismo, ma si accede piuttosto all’unica oggettivazione possibile. Ed
è l’uomo a plasmare il mondo con la propria attività simbolica. “Il
mito e l’arte, il linguaggio e la scienza sono […] impronte che tendono a realizzare l’essere” e sono parte organica quindi della medesima attività simbolica dell’uomo. L’uomo è per l’appunto animal
symbolicum. Con questa sua attività ha superato “i limiti della vita
organica”. “Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di
questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza. Ogni progresso nel campo
del pensiero e dell’esperienza rafforza e affina questa rete”. “L’arte
(104) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 78.
(105) Ivi, pp. 78-79.
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è realistica come l’attività e simbolica come il fatto”, diceva Pasternak. E ancora prima, in una poesia del 1912, troviamo versi come
questi: “Vicino a me, a livello della mia candela / sono sospesi universi fioriti”.106 Non è un caso che Cassirer, oltre a essere discepolo
di Marburgo, fosse anche, come Pasternak, di famiglia ebraica. È la
vocazione umana stessa descritta dalla Genesi a trasformarsi in un
aggiornato sistema filosofico. Ma quest’ultima riflessione, più che a
Cassirer, ci porta già nella filosofia di Max Scheler. Come già detto,
infatti, per comprendere pienamente Pasternak, si fa sempre inevitabile il passaggio all’insegnamento fenomenologico, e privilegiatamente nella sua direzione realistica. Cassirer, dal canto suo, poneva
infine una gerarchia all’interno delle varie forme dell’attività simbolica, dove il primo posto spettava decisamente alla scienza. Ciò, per
quanto rispettabilissimo e condivisibile dal punto di vista epistemologico, ci sembra una visuale limitativa rispetto a quella intuita invece da Pasternak. In tre momenti del sistema di Scheler si trovano altresì rispecchiati altrettanti punti fondamentali del pensiero pasternakiano. In polemica con Kant, Scheler sosteneva che non è il dovere a
costituire il concetto fondamentale dell’etica, bensì il valore. E Kant
non ha distinto i beni dai valori. I beni sono cose che hanno valore; i
valori soltanto sono essenze nel senso husserliano. Bene quindi è un
dipinto, ma lo è per il valore della bellezza. E i valori non sono oggetti di attività teoretica, ma di un’intuizione emozionale, alias del
sentimento. L’uomo poi è persona proprio in quanto è in rapporto con
l’io dell’altro; ma soltanto l’amore è capace di superare effettivamente i limiti della semplice simpatia che si instaura fra i simili. La
forma più alta di socialità è quindi la comunità d’amore, cioè la Chiesa, da non intendersi certo come questa o quell’altra istituzione ecclesiale.
Ho detto all’inizio de Il salvacondotto che a tratti l’amore sopravanza il sole. Mi riferivo a quella evidenza del sentimento che primeggiava ogni mattina su tutto con l’autenticità della sua novella, confermata per la centesima volta. Rispetto a quella evidenza, persino la
levata del sole era soltanto una novità cittadina, sensazionale ma in
(106) Boris Pasternak, Come di bronzea cenere, in Angelo Maria Ripellino, Poesia russa del ’900, cit., p. 4.
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attesa di conferma. Pensavo, insomma, all’evidenza della forza che
oltrepassa l’evidenza della luce.107
Sembra qui di riascoltare le parole di Berdjaev: l’amore creativo di
Dio si manifesta soprattutto nella novità e il compito di inserire elementi di novità nella natura spetta, per delega divina, all’uomo. Per
usare le parole di Pasternak, l’uomo ha il compito di affiancare alla
luce della natura la forza dell’arte. Sembra inoltre che Pasternak faccia con la letteratura quello che Rudolf Otto fece con la sistematizzazione filosofica: tornare con maggiore maturità del passato al senso stupefatto del Tutto, e riscoprire per altra via l’importanza centrale del “sentimento di essere creatura”, già dei romantici e di Schleiermacher.
In ultima analisi perciò, se la riflessione sulle scuole filosofiche
coeve dell’Occidente permette di comprendere il lessico e lo stile usati da Pasternak riguardo all’arte italiana ne Il salvacondotto, il riferimento alla filosofia religiosa russa consente invece di cogliere degli stessi brani il messaggio più profondo. Ci si poneva difatti più
sopra la domanda su cosa fosse questa “forza” e cosa quest’“immagine” (“immagine” che ha in questo caso un significato diverso da
quello quasi tecnico inteso nel riferirla al Bellini e al Carpaccio).
L’immagine dell’uomo è più grande dell’uomo e l’arte ce la racconta: ogni energia più elevata dell’uomo è all’inseguimento di questa
dinamica immagine. Rimane da spiegare la “forza” (e anche la “luce”) che nutre questo dinamismo. La forza è movimento ed energia.
Una percezione affine e cristianissima d’una energia unitaria presente nella natura e in dialogo con l’uomo va dall’esicasmo di san Basilio di Cesarea nel IV secolo alle dynameis divine fra il V e il VI secolo in Dionigi l’Areopagita e fra il VI e il VII in Massimo di Crisopoli, detto il Confessore, per arrivare infine alla sintesi del palamitismo, proclamata dal Tomo sinodale del 1351.108 Ogni ascesi umana
è calamitata dalla bellezza divina: “Indicibile è la bellezza del Verbo
[…] la forma di Dio nel suo aspetto. Beati coloro che, con tutto il lo-
(107) Boris Pasternak, Il salvacondotto, cit., p. 77.
(108) Cfr. Maurizio Paparozzi, Gregorio Palamàs, in Ancilli e Paparozzi, Mistica. Roma 1984, pp. 419-460.
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ro desiderio, contemplano la vera bellezza!”109 “Il gusto educa la morale, e la forza educa il gusto”: così scriveva Pasternak ne Il salvacondotto. Perché nella bellezza consistono la spiritualità, la santità e
la purezza del creato. Una bellezza quindi che quando è autentica non
è semplicemente esteriore, ma sostanziale. “Tutto il resto è orpello,
sfoggio di vestiti”.110
È quindi nella visione sapienzale e sofiologica che si trova la chiave definitiva per leggere in profondità le considerazioni di estetica
morale e religiosa presenti ne Il salvacondotto di Pasternak. Ed è la
considerazione dell’intera tradizione cristiana orientale che permette
di scoprire anche un’altra cosa interessante di Pasternak. Si era fatto
più sopra, parlando de Il tratto di Apelle, un confronto fra Thomas
Mann e Pasternak, ovvero fra una visione pessimista ed una invece
ottimista delle conseguenze ultime a cui va incontro l’eversione artistica e “oltre-omistica” dell’individuo. In fondo è proprio il fatto di
essere tedesco che non consentiva a Thomas Mann un vero ottimismo in merito. È oramai nota infatti la contraffazione praticata sui
manoscritti del fratello da parte della sorella di Nietzsche, Elizabeth
Forster-Nietzsche, in una direzione fortemente nazionalistica e razzista. Il superuomo di Nietzsche era ed è invece il filosofo che annunzia una nuova umanità, un’umanità che, liberandosi da antiche catene, va “al-di-là del bene e del male” (e tra queste antiche catene
Nietzsche annoverava anche l’idolatria dello stato). Scriverà Pasternak ne Il dottor !ivago: “Come si dice in un cantico dell’Annunciazione, Adamo voleva diventare Dio e sbagliò, non lo divenne; ma ora Dio diventa uomo per fare di Adamo Dio (– Dio si fa uomo e fa
Adamo Dio –)”.111 È l’antico e celebre adagio dei Padri della Chiesa. In questo senso forse solo un ebreo-cristiano-russo della sensibilità di Pasternak era capace di apprezzare il significato più profondo
e meno appariscente delle considerazioni di Nietzsche (valutando
anche il fatto che per la teologia ebraica non esiste neppure l’ombra
di una concezione del peccato originale, ché Dio ha fatto l’uomo da
(109) Massimo il Confessore, Omelia sul salmo 44, da Olivier Clément, Alle fonti con i padri. Roma 19922, p. 316.
(110) Pavel Aleksandrovi! Florenskij, La colonna e il fondamento della verità.
Trad. it. di P. Modesto. Milano 1974, p. 414.
(111) Boris Pasternak, Il dottor !ivago, cit., p. 334.
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subito capace sia di bene, che di male: la sua destinazione finale è
un altro discorso). In fondo tutto ciò si avvicina anche al giudizio di
chi ha detto che in Pasternak si trovano espressi insieme l’occidentalismo e lo slavofilismo, nonché il superamento di entrambi, come già
in altro modo era avvenuto in Dostoevskij. La citazione di un altro
brano de Il dottor !ivago permette ora di chiudere nella maniera forse più coerente queste riflessioni sul significato dell’arte nel pensiero di Pasternak:
Ed ecco che in quell’orgia pacchiana d’oro e di marmi, venne lui,
leggero e vestito di luce, ostentatamente umano, volutamente provinciale, galileo, e da quel momento i popoli e gli dei cessarono di
esistere e cominciò l’uomo, l’uomo falegname, […] l’uomo pastore
tra un gregge di pecore al tramonto, […] l’uomo celebrato con riconoscenza da tutte le ninne-nanne materne e da tutte le gallerie di pittura del mondo.112
ABSTRACT
Lazar Fleishmann wrote extensively about the influence of the Italian Renaissance
on Pasternak’s family in his biographical essay Boris Pasternak; he notes that if
“the world of the European Avant-garde had enormous influence on the young Boris Pasternak, […] he was always a strong and consistent advocate of the role of the
family in artistic formation”. His father, Leonid Pasternak, studied closely the works
of the Italian masters in 1904, during his first trip to Italy. He was especially struck
by Venice and its similarity to Odessa. He made his next trip to Italy, together with
his family, in 1912, and the impressions his son Boris received by Venice are precisely and vividly described in Safe Conduct (1931). In a comparative analysis of
this and also other works by Pasternak, such as The stretch of Apelles or It is already getting dark, we see the artist in Pasternak, in which the actual path of the
latest generations of Tsarist Russia and of the first period of Soviet Union found one
of its more evolved incarnations and, at the same time, an extremely disenchanted
reprocessing. On this double strand of twisted passion and disenchantment we can
also watch Italy in Pasternak as a physical place and as a place of the soul. Here we
intend to follow not so much a strict chronological-biographical process, but a particular philosophical and aesthetic order we can identify in Pasternak’s creativity.
(112) Ivi, p. 41.