ESTRATTO LIBRO

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Presentazione
La conoscenza della storia e delle opere degli uomini che si sono occupati
con passione della crescita dell’agricoltura italiana, dal Risorgimento ad oggi,
rafforza la nostra capacità di guardare avanti con altrettanta dedizione ed ottimismo.
Solo con la consapevolezza che il nostro lavoro segue i passi di chi è stato
pioniere di idee di modernità e di applicazioni illuminate, riusciamo ad avere
una visione complessiva della crescita dell’affermazione di un settore in continua evoluzione.
E’ questo il nobile obiettivo de ”I Solchi”, il progetto culturale organizzato dal
Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali che ha avuto, tra l’altro,
il merito di far conoscere al pubblico, attraverso gli incontri che si sono tenuti
nel corso del 2005, la Biblioteca del Ministero, con il suo straordinario ed
unico patrimonio librario costituito da una collezione di circa un milione di
volumi le cui materie spaziano dall’agricoltura alle scienze, dal diritto alla letteratura, affermando così senza ombra di dubbio la sua attualità.
Docenti universitari, studiosi, storici e appassionati delle materie si sono susseguiti nella testimonianza anche personale che, partendo da accurate ricerche documentaristiche, ha affrontato aspetti tecnici, analisi politiche ed economiche in un linguaggio semplice ed immediato, capace di suscitare l’interesse e il dibattito, di stimolare nuove riflessioni, ma soprattutto di dar vita ad
un incontro autentico con quelle figure straordinarie che hanno portato un
contributo prezioso all’agricoltura.
Ripercorrendo il susseguirsi degli eventi, si comprende che dietro la storia
delle istituzioni e della società ci sono le riforme che questi uomini hanno contribuito ad applicare. Sono leggi e scelte che hanno tracciato il paesaggio
agrario, lo sviluppo zootecnico, la garanzia della qualità e della sicurezza alimentare, il miglioramento progressivo della qualità della vita.
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Oggi i colloqui de “I solchi” escono dalla Biblioteca del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e raggiungono il pubblico, rivolgendosi in
egual misura agli operatori del settore come gli studenti delle scuole per essere spunto di studi, di riflessione e di crescita, agli impiegati del Ministero stesso come ai ricercatori; categorie tra loro profondamente differenti ma riunite
da un unico denominatore comune, quello della conoscenza e dell’approfondimento della storia della nostra agricoltura.
Dalla storia e dall’analisi della vita economica e sociale del nostro Paese possiamo, ogni giorno, acquisire lezioni di modernità che aprono all’Europa e ci
aiutano a trovare strumenti che appartengono alla consolidata capacità di
coniugare innovazione e tradizione, per proiettare l’agricoltura italiana nel più
ampio ed importante contesto internazionale.
E’ un impegno che può rendere ciascuno di noi protagonista: quando infatti
prestiamo attenzione e conoscenza ai documenti che ci hanno lasciato gli
uomini del passato, diamo loro “nuova voce” permettendogli, attraverso il passato, di rivivere e rinnovarsi, arricchita in una contemporaneità che sa cogliere gocce di saggezza per crescere.
Paolo De Castro
Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali
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Introduzione
Questo volume, sintesi dei colloqui in Biblioteca, viene presentato dall’
Onorevole Ministro, Prof. Paolo De Castro, nella storica Sala dei Consigli
Superiori, meglio nota come Parlamentino, ed intitolata proprio alla memoria
del primo dei Ministri dell’Agricoltura, Camillo Benso conte di Cavour.
Nell’aula, a forma di emiciclo, la più importante del Palazzo, domina dall’alto
il suggestivo dipinto di Andrea Petroni raffigurante, tra i solchi di un campo
arato, l’immagine, ormai quasi dimenticata e consumata dal tempo, del
Seminatore. Figura solitaria e solenne che, nella sua semplicità, con un gesto
lento ed antico, sparge i semi affinché la terra li accolga, così come molte tra
le personalità ricordate in questo volume lasciarono tracce profonde nella storia rurale del nostro Paese, ognuno con concrete ed energiche testimonianze della propria opera per la promozione e lo sviluppo dell’agricoltura italiana.
I Solchi. Attraverso queste pagine, si è cercato di ricostruire, almeno in parte,
la storia della nostra agricoltura in un’ideale cammino lungo i circa 150 anni
dall’istituzione, nel 1860 a Torino, dell’allora Ministero di Agricoltura, Industria
e Commercio.
Cammino fatto al fianco di alcuni tra i personaggi che furono tra i più alti e
significativi rappresentanti di questa Amministrazione, oltre che del mondo
scientifico e politico, la cui storia è gelosamente custodita, nella sua interezza, nei locali della Biblioteca Storica.
Biblioteca che, nel corso degli anni, ha conosciuto periodi di alterne vicende;
recentemente ha ritrovato rinnovate energie per una nuova ascesa e valorizzazione, tornando ad essere ciò che da sempre è stata considerata: una delle
Biblioteche più importanti d’Italia, che consacra alla storia il valore significativo di una struttura forte e vitale e non una necropoli libraria, come per molto
tempo è stata creduta. Una vera e propria città dei libri che, come sosteneva
il Prof. Paolo Sylos Labini, indimenticato Direttore di questa Biblioteca Storica,
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deve divenire “viva per una cerchia sempre più ampia di persone”.
Il progetto “I Solchi ”, anche attraverso il materiale presente nella Biblioteca e
messo al servizio di questa importante opera, non resta tuttavia un progetto
fine a se stesso, ma desidera essere una testimonianza rivolta a tutti coloro
che desiderano approfondire le loro conoscenze e i loro studi in materia, non
limitandosi a mere disquisizioni tecniche ma addentrandosi anche nelle problematiche e nelle tematiche che hanno caratterizzato le varie epoche e i
diversi contesti storici in cui l’agricoltura italiana ha visto la sua crescita, decadenza e rinascita, dando a chi legge l’idea di uno spaccato di vita dell’Italia di
ora e di allora.
La domanda che sicuramente può sorgere è “Perché un libro?”; forse perché,
in un’epoca in cui la tecnologia e l’informatica hanno un ruolo mediatico predominante, il libro è invece quanto di più concreto possiamo stringere tra le
mani, come concreta è la terra di cui parla, quella che, da secoli, è coltivata
dai Seminatori, solco per solco.
Rivolgo, deferente, il mio ringraziamento all’Onorevole Prof. Paolo De Castro,
Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, per il costante interesse
ed incoraggiamento affinché questo progetto trovasse la sua concretizzazione, come testimonianza della nostra storia e non meno per l’alta attenzione al
futuro della Biblioteca Storica e dell’Emeroteca e, particolarmente, per il loro
rafforzamento e valorizzazione.
Desidero poi esprimere viva riconoscenza al Signor Capo del Dipartimento
delle Politiche di Sviluppo, Giuseppe Ambrosio, e al Signor Direttore Generale
dell’Amministrazione, Giuseppe Cacopardi, per la sensibilità mostrata verso
l’idea della realizzazione di un volume che trasmettesse, con parole semplici
e dirette, il trascorso e il futuro dell’agricoltura italiana, nonché per il perseverante sostegno a tutte le attività ed iniziative che hanno già avuto realizzazione e per molte che attendono d’essere concluse all’interno della Biblioteca
Storica.
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Da ultimo, manifesto pubblica gratitudine ai colleghi Dirigenti di questo
Ministero, Giuseppe Sallemi e Milvio Sviben, cui va il merito dell’avvio del progetto e del rilevante impegno profuso a favore dell’intera iniziativa che oggi
vede la luce, nonché indistintamente a tutti i collaboratori e curatori che hanno
prestato la loro opera con apprezzabile dedizione.
Giovanni Piero Sanna
Direttore della Biblioteca Storica
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Guido Pescosolido:
"Camillo Benso conte di Cavour "
Sandro Fontana:
"Carlo Cattaneo"
Maria Giovanna Missaggia:
Guido Melis:
"Stefano Jacini"
"Francesco Saverio Nitti"
Simone Vieri:
Piero Bevilacqua:
"Arrigo Serpieri"
"Manlio Rossi-Doria"
Corrado Barberis:
"Giuseppe Medici"
Marco De Nicolò:
"Fausto Gullo"
Gian Tommaso Scarascia Mugnozza e Giovanni Paoloni:
Franco Cazzola:
Tommaso Fanfani:
Gianni Borsa:
"Emilio Sereni"
"Antonio Segni"
"Amintore Fanfani "
"Giovanni Marcora"
Arcangelo Lobianco:
"Lorenzo Natali"
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GIUSEPPE MEDICI
Corrado Barberis
Quale biografo ufficiale di Giuseppe Medici non posso che rimandare a quanto già scritto su Il
Parlamento italiano per illustrare la straordinaria figura di un professore che, tra il 1948 e il 1976,
sedette per ventotto anni in Senato, ricoprendo – durante una loro buona metà – incarichi ministeriali. Una carriera che lo portò dalla cattedra universitaria, conseguita a ventisei anni, e dai
prestigiosi incarichi affidatagli nell’ambito del Piano Marshall fino all’incontro con Chou-En Lai,
da ministro degli Esteri.
In questa sede mi preme però mettere in luce il contributo dato dal Nostro alla definizione della
politica agraria italiana e al suo cruciale passaggio: la riforma fondiaria del 1950. In quale contesto economico si muoveva l’azione politica?
1) L’agricoltura forniva solo il 25 o 28% del prodotto interno lordo ma occupava ancora il 42 o
44% della popolazione. Era quindi evidente che anche piccole quote di reddito agricolo trasferito movimentavano strati non infimi della popolazione. Di qui, in una spregiudicata ottica di conservatorismo borghese, l’interesse a scegliere l’agricoltura come campo di riforme per accontentare i più concedendo il meno;
2) le indagini su La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia e su I tipi di impresa nell’agricoltura italiana, condotti in porto dall’Inea proprio sotto la presidenza di Medici, dimostravano
a) l’enorme frammentazione della proprietà che investiva dai nove ai dieci milioni di italiani, molti
dei quali contadini, moltissimi però ancora di estrazione borghese;
b) una cospicua presenza contadina al vertice delle strutture fondiarie pur dominate ancora da
una preponderanza borghese ragguagliabile nel 60% delle proprietà.
In questa situazione un politico riformatore, ad evitare che la riforma degenerasse in rivoluzione, doveva quanto mai circoscrivere l’ambito della propria azione. Come appunto fu fatto concentrando gli espropri su circa 700.000 ettari siti in aree dove il monopolio terriero delle classi
dominanti era così forte da impedire una spontanea formazione di proprietà coltivatrice quand’anche i contadini avessero avuto i mezzi economici per l’acquisto.
La riforma fondiaria di cui Medici fu insieme propugnatore ed esecutore fu dunque una riforma
fondamentalmente liberale: volta a creare un mercato della terra dove non c’era e non già a suggerire esperimenti socialistici. E difatti, quando uscirono i risultati de La riforma fondiaria trent’anni dopo (Angeli, 1979) si dimostrò che la formazione spontanea di proprietà coltivatrice tra i
censimenti del 1961 e del 1970 era stata più intensa proprio dove maggiormente avevano inciso gli espropri, i quali avevano creato un meccanismo di autopropagazione.
Riforma liberale, mai lo si ripeterà abbastanza. Il colpo di ariete, o colpo di rottura come lo chiamava Medici e, dietro a lui, Einaudi allora presidente della Repubblica, apparteneva a quegli
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interventi che un economista liberale dell’epoca, il Roepke, definiva “conformi” proprio perché
volti a creare una concorrenza dove non c’era.
A fronte di questo piglio decisionistico limitato ad alcune aree la prudenza politica consigliava di
lasciare stare le altre cose. Niente riforma della cascina lombarda, già teatro nel primo dopoguerra delle sperimentazioni miglioline. Niente riforma dei patti agrari, lasciati al libero gioco sindacale. Gli articoli di Medici su “La stampa” sono inequivoci: mentre testimoniano un’alleanza
con l’industria desiderosa di piazzare trattori nei comprensori di riforma. Compiere una riforma
da conservatore: ecco il suo capolavoro.
Certo, occorse proprio per questo respingere gli inviti delle sirene che avrebbero voluto assegnare le terre solo a bonifiche compiute cioè al giorno del mai. O ripudiare un istituto – l’enfiteusi – caro alla tradizione riformistica cattolica: da Pio VI e Pio VII, ormai lontani, fino all’ancor
recente Giuseppe Micheli che negli anni Venti vi aveva imperniato il suo progetto di spezzettamento del latifondo siciliano. Anche Medici era partito con un certo favore per questo istituto che,
all’epoca, riempiva le biblioteche di avvocati e notai. Ma fece presto a liberarsene e a comprendere che nell’Italia del 1950 già bastavano i sordi rancori tra concedenti e mezzadri senza bisogno di aggiungere quelli, altrimenti inevitabili, tra direttari e utilisti ossia tra vecchi proprietari e
nuovi imprenditori. Tra passato e presente occorreva un taglio netto, nettissimo, quale solo poteva aversi trasformando il contadino in pieno possessore del suolo e riempiendo gli espropriati
di quattrinelli. Perché iniqui erano, per Medici, gli espropri non pagati dalla collettività.
Pagare gli espropriati (furono 2.700 in tutta Italia ma il clamore che fecero fa comprendere quanto sia stato saggio limitare le aree di intervento) era quanto di meno poteva fare la collettività,
principale beneficiaria del nuovo ordine sociale. Iniziò così un trasferimento di risorse dal Tesoro
all’agricoltura e dall’agricoltura verso investimenti non agricoli – ma principalmente in case – che
ebbe la sua più sensazionale applicazione allorché l’esempio della riforma convinse gran parte
della piccola borghesia detentrice del capitale fondiario a disfarsi delle terre avite a beneficio di
chi gliele comperava in danaro sonante. Sicché ai 700.000 ettari trasferiti dalla riforma nei comprensori soggetti al “colpo d’ariete” se ne aggiunsero in breve altri due milioni, completando il
passaggio dell’Italia a paese di imprese coltivatrici.
Sulla selezione degli assegnatari Medici non si faceva illusioni. Sapeva benissimo che molti,
favoriti dal parroco e dal segretario della Lega o semplicemente colpiti da qualche sventura in
corso d’opera, non avrebbero superato il deserto dal bracciantato alla proprietà. Una volta si
spinse fino a fare una stima dei presunti falliti: un terzo. Puntualmente, quando alla fine degli
anni Settanta furono intraprese le indagini su La riforma fondiaria trent’anni dopo, si accertò che
dei 120.000 intestatari originari di poderi e quote ne sopravvivevano 80.000. A tal punto il Nostro
conosceva uomini e cose dell’agricoltura italiana.
Questa conoscenza induce ad una riflessione quasi scherzosa: se Medici sia stato miglior ministro dell’agricoltura o, per esempio, del Tesoro. “Conoscere per amministrare” era il suo motto
e il nome di un suo celebre libro. Ma una conoscenza troppo dettagliata può portare alla para-
Giuseppe Medici
con Giuseppe Pella
lisi decisionale. Al Tesoro il grande economista che fu (lo dimostrano le Lezioni di politica economica redatte per gli studenti di Scienze politiche quando evase dal circuito agrario) aveva
forse qualche piccola area inesplorata che gli dava il gusto di provare, di sperimentare, di vedere come andava a finire. Nacque così l’Oscar della moneta, quando le cinquecento lire facevano aggio sull’argento che c’era dentro. Anche da ministro del Tesoro non perdeva comunque di
vista la diletta agricoltura. Risale a quella stagione la costellazione di laghetti collinari nelle regioni dell’Italia centrale e principalmente in Toscana. Al fine di offrire risorse irrigue a terre sitibonde. E “Medici del laghetto” fu il soprannome che gli rimase appiccicato per lungo tempo.
Al nome di Giuseppe Medici resta comunque legata quella che oggi è forse la più prestigiosa
fase della politica agraria italiana: quella dei prodotti tipici. In applicazione di quanto deciso alla
conferenza di Stresa dell’anno prima, il 10 aprile 1954, il presidente della Repubblica promulgava la legge delle Denominazioni di origine e tipiche dei formaggi. La firma è quella del Nostro.
Di una persona che è stata per tanti anni ministro è lecito chiedersi quali siano stati i rapporti
col partito che lo sosteneva. E qui bisogna tornare indietro, alla Sassuolo dell’infanzia medicea.
All’amico di famiglia che gli poneva il rituale cosa farai da grande? il ragazzino rispose, con sicurezza involontariamente insolente: “Il professore universitario, così sarò libero di fare politica
come il senatore Vicini”.
A sconcertare in questo modo il buon conte Cecchino Giacobazzi era lui, poco più che decen-
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Giuseppe Medici con
Arcangelo Lo bianco
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ne. E il senatore Vicini, assunto quale punto di riferimento, era – laico di strettissima osservanza – uno dei pochi facitori della vita politica di Sassuolo, la cittadina sita a sud di Modena sopra
l’unghia del colle. Fra questi vi era il reverendissimo arciprete Zanichelli, un avvocato Matteotti
di sicura fede laicistica, nonché il presidente della confraternita del Santissimo Tronco, Agostino
Medici, il quale, come padrone di casa, offriva al figlioletto Giuseppe, con la visione di ospiti così
interessanti, una iniziazione alla politica. Era infatti a casa del benestante Agostino, un ex-capomastro assurto con lavoro e virtù al rango di imprenditore edile, che talvolta si riuniva questo
singolare comitato: da nessuno nominato ma pure incaricato di vegliare sul bene comune, intuito in primo luogo come superamento del contrasto fra cattolici e liberali.
In questi incontri si giocava non solo il destino professionale ma la collocazione politica del futuro ministro: il quale, entrato a far parte del movimento di liberazione (1942) con funzioni di collegamento fra liberali e democristiani (Brosio e Cattani per primi; Campilli, Vanoni e il non ancora cardinale Dell’Acqua per i secondi), finì per trovare del tutto naturale che fossero proprio
costoro ad offrirgli di rappresentare l’Italia nella delegazione per il Piano Marshall e, successivamente, auspice soprattutto Giuseppe Dossetti, a candidarlo al Senato nel difficile collegio di
Modena. Quasi per consentire all’arciprete Zanichelli una piccola rivincita sull’amato/odiato
senatore Vicini.
Questa duplice figliolanza – dal senatore Vicini, dall’arciprete Zanichelli – fu vissuta da Medici
con la signorilità che gli era propria: comportandosi da ospite, in casa Dc, anche quando gli veniva chiesto di fare da padrone di casa. E difatti, nelle tormentate lotte delle correnti democristiane, mai una volta il suo nome fu legato ad una di esse. Perché la Dc era spirito del suo spirito
ma – forse – non carne della sua carne. Proprio a questo suo glorioso camminare sulle acque
del partito dobbiamo una perdita irreparabile. Ministro in quasi tutti i dicasteri – salvo le Poste e
i Trasporti – spettatore di vicende che lo volevano di volta involta protagonista, quel finissimo
umanista che Egli fu avrebbe potuto essere il Saint-Simon del suo secolo, una fonte inesauribile di notizie sugli uomini di cui era stato collega oltreché contemporaneo. Ma le memorie di
Medici non ci saranno, come ci furono invece quelle di Saint-Simon sul Re Sole. È l’ultimo suo
sdebitamento verso chi lo aveva accolto con tanta ammirazione. Gli storici compiangeranno la
perduta miniera di notizie. Ma il silenzio di Medici è, in un certo senso, un monumento a quanto c’era di grande nella Dc, un comportamento consono a quanto egli avrebbe voluto che essa
fosse.
Non sappiamo se Giuseppe Medici fosse un cattolico da Rosario. Certo, era un cattolico da
Pascal sul comodino da notte. E questa lettura gli fu di sicuro aiuto quando – dopo essere stato
a lungo presidente dell’ANBI, l’associazione dei Consorzi di bonifica – decise di ritirarsi nella
solitudine della sua malattia e di allontanarsi – secondo l’insegnamento dei classici - da un
mondo che si allontanava da lui.
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ANTONIO SEGNI
Gian Tommaso Scarascia Mugnozza
Giovanni Paoloni
Una trattazione sul ruolo di Antonio Segni rispetto alla Riforma Agraria richiede una presentazione di tutte le sue varie attività: di politico, di studioso e di professore universitario. E se in questo contesto l’attenzione si sofferma principalmente sulla Riforma Agraria compiuta solo a metà,
cui principalmente si lega il suo lascito come Ministro dell’Agricoltura, per comprendere bene i
lineamenti di quest’ultima e la figura di chi se ne fece promotore sarà necessario ripercorrere
alcune tappe importanti della sua biografia e della sua opera politica.
Antonio Segni nacque a Sassari il 2 febbraio 1891. Proveniva da una ricca famiglia di latifondisti del notabilato turritano, che, con i Berlinguer e i Cossiga, ha dato non poche figure di spicco
alla storia dell'Italia repubblicana del secondo dopoguerra. Si era laureato in giurisprudenza nel
1913. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, aderì, nel gennaio del 1919, al Partito
popolare italiano. Attivo nella vita del partito, partecipò ai congressi di Napoli del 1920 e di Torino
del 1923; fu consigliere nazionale del partito nel 1923-1924. Vinto nel 1920 il concorso per la
cattedra di diritto processuale civile presso l'Università di Perugia, vi insegnò fino al 1925, per
essere poi chiamato prima a Cagliari, quindi a Pavia; fece infine ritorno a Sassari nel 1930,
come ordinario di diritto commerciale. Fu autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto
processuale civile, diritto commerciale e fallimentare. Lo studio del diritto civile, e in particolare
del processo, fu l'interesse centrale della sua attività accademica e scientifica; non abbandonò
mai del tutto i suoi studi in materia, nemmeno quando le responsabilità politiche si fecero particolarmente assillanti, e riuscì a dedicarvi una parte del suo tempo perfino negli anni trascorsi
alla presidenza della Repubblica: anzi, dall'esperienza politica trasse occasione per ampliare il
suo raggio d'interesse, dedicando alcuni scritti alle questioni giuridiche collegate alla riforma
agraria e alla creazione e primi lineamenti del nuovo diritto comunitario.
A riassumere gli interessi e il valore dell'attività scientifica di Segni, che lo portò fra l'altro all'elezione come socio nazionale dell'Accademia dei Lincei nel 1958, era Salvatore Satta nella presentazione dei due volumi degli Scritti giuridici pubblicati dalla UTET nel 1965: "I volumi che
abbiamo davanti ci mostrano come Antonio Segni abbia avuto l'animo vigile di fronte alla crisi
incalzante, ma ci rivelano anche la coscienza che egli ha avuto dell'impegno assunto di fronte
alla scienza e alla vita. Segnaliamo tra gli altri due scritti. Il primo è l'analisi di un libro del tedesco Lenz, in cui si adeguava al regime politico il processo e la scienza del processo. La difesa
dei principii in cui credeva è fatta da Segni con tale preoccupato rigore che nel rileggere le sue
pagine si ha la sensazione che egli, dalla remota Sardegna, volesse non tanto rispondere all'in-
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differente straniero, quanto conservare ai giovani una verità per l'incerto domani. Il secondo è
proprio l'analisi di quel domani, giunto dopo la catastrofe con un volto che difficilmente si sarebbe potuto immaginare". Satta nota poi come le figure che maggiormente hanno influenzato la
riflessione giuridica di Segni siano stati dapprima il suo maestro Chiovenda, e successivamente Giuseppe Capograssi, anch'egli a Sassari negli anni Trenta; e conclude: "La scissione tra lo
studioso e l'uomo politico, tra il mestiere e l'ufficio pubblico, si rivela apparente, e si compone
nell'unità indissolubile dello spirito. L'uomo di stato, il capo dello Stato, appare lo svolgimento
del giurista e dell'insegnante".
Come molti esponenti del Partito popolare, con l'avvento del fascismo Segni dovette abbandonare completamente l'attività politica, e fino alla caduta del fascismo si ritirò dalla vita pubblica
nazionale e locale, anche se le cronache ricordano qualche suo intervento come oppositore del
regime. Fu, con Flaminio Mancaleoni, uno dei due docenti di Sassari non iscritti al PNF, cosa
che veniva regolarmente notata nei rapporti periodici dell'ateneo al ministero, e che ebbe qualche ripercussione negativa sulla sua carriera, in particolare bloccando nel 1932 la sua nomina
a ordinario di procedura civile nell'Università di Napoli, vanificando in tal modo la chiamata di
quella Facoltà. Dopo di allora Segni ebbe più occasione o interesse a spostare la sua sede di
servizio, fino alla nomina a Roma all'inizio degli anni Cinquanta.
In Sardegna il dopoguerra cominciò prima ancora che la guerra finisse. Al momento dell'armistizio dell'8 settembre 1943 le truppe tedesche di stanza nell'isola (25 mila uomini di una divisione corazzata, superstiti dell'Afrika Korps di Rommel) abbandonarono il campo: quando occuparono La Maddalena per garantirsi il passaggio delle Bocche di Bonifacio, un manipolo di
coraggiosi prese le armi e li attaccò. La «battaglia della Maddalena» (con 32 morti, 24 italiani e
8 tedeschi) è uno dei primi episodi della Resistenza italiana. Da quel momento, la Sardegna
uscì dal conflitto: restavano i problemi – gravissimi – dell'approvvigionamento, non soltanto degli
alimenti ma di ogni altra cosa necessaria alla vita di ogni giorno. Ma intanto la guerra, per l'isola, era finita. Di lì a poco il governo isolano fu affidato ad un Alto commissario dotato di pieni
poteri, affiancato da una Giunta composta di rappresentanti dei partiti del CLN, primo timido
esperimento di un'amministrazione autonoma della Sardegna. L'isola era totalmente separata
dal resto dell'Italia dall'interruzione delle comunicazioni: il regime alto-commissariale istituzionalizzava questa forma di isolamento e rafforzava, in quasi tutti i partiti, la rivendicazione regionalista. Su questo sfondo storico Antonio Segni fu nel 1942-1943 tra gli organizzatori della
Democrazia Cristiana. Subito dopo l'armistizio, il 9 ottobre 1943, fu nominato commissario
dell'Università di Sassari. Lo rimase fino al 10 aprile 1945, quando venne nominato Magnifico
Rettore.
Frattanto, nel dicembre 1944 era stato nominato sottosegretario all'Agricoltura nel secondo
governo Bonomi. Il 29 aprile 1945, nelle stesse ore in cui si consumavano i resti della
Repubblica di Salò, si inaugurava a Cagliari la Consulta regionale, il cui primo compito era la
scrittura di uno statuto regionale per la Sardegna: Segni ne fece subito parte; riconfermato nel
governo Parri e nel primo governo De Gasperi, nel luglio 1946 sarà chiamato al ministero
dell'Agricoltura, che terrà sino al luglio 1951, quando sarà nominato ministro della Pubblica
Istruzione. Gli incarichi politici impediscono a Segni di essere presente a Sassari, anche se
resterà rettore fino al 1951: la sua presenza nel governo, peraltro, assicura all'Università sassarese, secondo l'espressione di Manlio Brigaglia, "una protezione che, senza trasformarsi mai in
paternalismo clientelare, fa sì che i problemi dell'Ateneo siano tenuti in qualche conto". Nella DC
appena fondata Segni aveva dunque rivelato subito la statura di un leader nazionale, stabilendo un solido legame politico con De Gasperi, del quale fu l'ascoltato referente per quanto riguardava la politica agraria e le questioni regionali sarde.
Alla metà degli anni ‘40 l’Italia, paese sconfitto, doveva, come parecchi altri in Europa, affrontare il problema della ricostruzione economica e della trasformazione delle industrie belliche in
produttrici di beni strumentali e di consumo; forse fu per questo motivo che in Italia si guardò,
nella politica economica, più all’esperienza degli altri paesi europei con lo stesso tipo di problemi, che non agli Stati Uniti o all’URSS. Il prodotto interno lordo, in quegli anni, era pari al 61%
di quello pre-bellico, e tutti i settori economici, dalle infrastrutture, ai beni capitali, a quelli di consumo durevole, avevano subito distruzioni, anche se in misura diversa, portando alla diminuzione di circa un terzo del patrimonio. Il 20% degli impianti industriali, peraltro obsoleti, era stato
distrutto, ma l’agricoltura risultava essere il settore più colpito. Nonostante le morti per cause
belliche, il numero di abitanti da sfamare era cresciuto anche per il ritorno di italiani dalle colonie e per l’arrestarsi dei flussi migratori: il problema dell’alimentazione e dell’agricoltura creava
dovunque una diffusa indigenza. La situazione era veramente drammatica, e soltanto grazie ai
piani di aiuti internazionali – ingente è il soccorso del Piano E.R.P., European Recovery
Program, conosciuto anche come Piano Marshall –l’Italia poté acquistare materie prime, prodotti alimentari ed attrezzature industriali consentendo un veloce processo di ricostruzione.
La storia della politica agraria dell’età repubblicana inizia prima che il referendum del 2 giugno
1946 sancisca la nascita della Repubblica. Il segnale è una serie di moti contadini, con l’occupazione di latifondi e di terre di antico uso civico nel Mezzogiorno liberato dalle truppe alleate.
Le prime agitazioni si verificano già nel settembre 1943 a Rionero in Vulture, Melfi, Genoano in
provincia di Matera, Casabona, Melissa e Strangoli in provincia di Catanzaro. I moti si presentano inizalmente come insurrezioni spontanee al grido “la terra ai contadini”, di cui i sindacalisti,
i socialisti e comunisti cercano di assumere la guida. La polveriera contadina meridionale riesplode l’anno successivo in località diverse, tra le quali per esempio le terre dei Torlonia nel
Fucino. Il 2 aprile 1944, e quindi prima della liberazione di Roma, il secondo governo Badoglio,
composto di rappresentanti dei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, assegna il
Ministero dell’Agricoltura e Foreste al professore e avvocato Fausto Gullo, comunista. Gullo
apre il capitolo della riforma agraria approntando subito una serie di decreti e, membro allo stesso titolo del primo e del secondo governo Bonomi, il primo dell’Italia ancora parzialmente liberata, il 19 ottobre 1944, tre giorni dopo l’occupazione di terre dei Torlonia nel Fucino e la morte
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ad Ortucchio di un manifestante, sigla il decreto luogotenenziale 279. Decreto che all’articolo 1
precisa: “Le associazioni dei contadini, regolarmente costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati in relazione alle loro qualità, alle condizioni agricole del luogo,
alle esigenze colturali dell’azienda ed in relazione alle necessità della produzione agricola nazionale”. Ma l’articolo 5 aggiunge: “La durata della concessione non può oltrepassare i quattro anni
agrari”. Segni è subito coinvolto in quest’opera quale sottosegretario all’Agricoltura nel secondo
governo Bonomi (dicembre ‘44 – giugno ‘45) e come già detto è confermato sottosegretario nel
governo Parri (giugno ‘45 – dicembre ‘45), e nel primo De Gasperi, che inizia il 10 dicembre
1945.
Gli aspetti principali della legislazione Gullo possono essere così riassunti: riforma dei Patti
Agrari, in modo da garantire ai contadini almeno il 50% della produzione; permesso di occupazione di terreni incolti o mal coltivati, rilasciato alle cooperative agricole; indennità ai contadini
per incoraggiarli a consegnare i loro prodotti ai magazzini statali ribattezzati “Granai del popolo”; proroga di tutti i patti agrari per impedire ai proprietari di sbarazzarsi nell’anno successivo
dei loro fittavoli; ed infine proibizione per legge di intermediari fra contadini e proprietari.
Complessivamente, al 31 dicembre 1945, risultavano assegnati 43 mila ettari: nell’Italia del latifondo una superficie irrisoria, ed ancor più insignificante in quanto costituita da terreni molto
poveri. Peraltro tutte le terre requisite verranno poi restituite ai proprietari così ristabilendo l’autorità dello stato. L’applicazione delle leggi Gullo in più di una zona fu esitante, incerta e lenta,
a causa di interpretazioni e di more burocratiche. E allora l’esasperazione contadina riesplose
provocando per esempio agitazioni dall’Irpinia, Lacedonia, Bisaccia, Monteverde, ai territori
appulo-lucani, che raggiunsero il culmine nell’autunno del 1946 per esempio ad Andria, dove lo
sciopero venne represso con sette morti e decine di feriti. Lo scontro era aperto su tutti i fronti,
e in particolare sui contratti agrari, sulle terre incolte, sull’imponibile, ed ebbe come effetto una
crescita notevolissima delle organizzazioni contadine: Camere del Lavoro, leghe, sezioni dei
partiti di sinistra, cui si aggiunse la costituzione di oltre un migliaio – circa 1.200 – di cooperative agricole fra il 1944 ed il 1949.
Togliatti accolse con favore i decreti Gullo, e la massiccia mobilitazione che ne seguì, solo fin
quando non misero eccessivamente in pericolo l’alleanza governativa con la Democrazia
Cristiana. Ma allorché il movimento contadino giunse a mettere in discussione la legge e l’ordine, ed incrinare il diritto di proprietà, lo zelo riformatore di Gullo trovò scarsi appoggi. Ne derivò,
nel secondo governo De Gasperi (12 luglio 1946), il passaggio di Gullo dall’Agricoltura a Grazia
e Giustizia. A reggere il Ministero dell’Agricoltura venne chiamato Antonio Segni, confermato
anche nel terzo, quarto, quinto e sesto governo De Gasperi. Solo nel luglio 1951, nel settimo De
Gasperi, il Ministero dell’Agricoltura fu affidato a Fanfani e Segni passò alla Pubblica Istruzione.
Egli, pertanto, non riuscì a seguire personalmente fino in fondo la riforma che egli stesso aveva
studiato e tenacemente perseguito. L’impegno di Segni per il recupero ed il rilancio dei sistemi
agricoli italiani, cominciò dunque quando ancora il conflitto mondiale imperversava sull’Italia e
da poco Roma era stata liberata dal nazi-fascismo.
Gli anni di Segni al Ministero dell’Agricoltura furono cruciali. Lo stato dell’agricoltura è dimostrato da poche ma evidenti cifre: pur impiegando oltre il 40% della popolazione attiva, il contributo
al PIL era di poco superiore al 28%; le condizioni dei lavoratori erano particolarmente disagiate, il reddito medio di un bracciante era precario e nettamente inferiore a quello di un operaio
dell’industria. La bassa redditività della terra era dovuta a metodi di gestione errati e alla quasi
totale mancanza di mezzi tecnici soprattutto nel Mezzogiorno dove, per esempio in Calabria,
oltre un quarto della terra era diviso in poco più di duecento proprietà. Appare evidente che il
progetto democristiano sulla questione agraria esprimeva una sostanziale continuità con i programmi del Partito Popolare di Sturzo del 1920. Esso si connotava infatti per una impostazione
radicale e per i conseguenti effetti dirompenti nei confronti degli assetti fondiari secolari, specie
in un Mezzogiorno avvilito da un lungo e colpevole abbandono e con una classe contadina e
masse bracciantili viventi in condizioni spesso subumane di afflizione e di miseria. Ed il progetto si contrapponeva anche alla strategia rurale del fascismo, che aveva avuto in Serpieri il suo
artefice: ne è prova il fatto che Serpieri e gli allievi si schiereranno, appunto, contro i programmi di Segni. E mentre alla Costituente continuavano le discussioni sulla questione agraria, nel
paese permaneva esplosiva la situazione bracciantile caratterizzata anche da una disoccupazione di dimensioni imponenti.
Tra l’8 ed il 20 settembre 1947 si svolse il cosiddetto “sciopero dei dodici giorni”; secondo la
stampa moderata, però, fu uno sciopero ordinato, cioè privo di eccessi violenti, ma comandato
dall’alto. Il duro confronto assicurò ai lavoratori salariati la statuizione del principio del contratto
nazionale ed il decreto 929 che il 16 settembre sanciva l’imponibile di manodopera. Tutte le
aziende agrarie erano obbligate ad assumere manodopera salariata secondo numeri di giornate stabiliti in corrispondenza alla produttività dei terreni. Il provvedimento sarà poi annullato dalla
Corte Costituzionale nel dicembre 1958. La conflittualità tra l’organizzazione degli agricoltori
proprietari – allora si chiamava Confida – e le organizzazioni dei lavoratori della terra si attenuò
alquanto grazie ad interventi legislativi come il Lodo De Gasperi del luglio 1946 e la Tregua
Mezzadrile, legge del 24 giugno 1947, che riguardavano la proroga dei contratti, ma soprattutto della mezzadria. Il Lodo De Gasperi (impropriamente così chiamato nonostante mancasse
l’accordo preventivo tra le parti di accettare la soluzione proposta dall’arbitro, tant’è che accettato il lodo dalla parte mezzadrile non lo fu dalla parte padronale) riguardava le questioni economiche e non solo: riguardava, per esempio, anche i Consigli di Fattoria. Il lodo, comunque,
obbligava i proprietari ad erogare ai mezzadri, a titolo di compenso per i danni di guerra, una
quota, circa il 24%, del prodotto di parte padronale, ed un 10% per i lavori di miglioria. Il lodo
venne tardivamente convertito in legge nel maggio 1947 ma, siccome si profilavano nuovi scontri sulle aie, Segni riuscì nel giugno dello stesso anno a far sottoscrivere dalle parti la cosiddetta “tregua mezzadrile”, valevole per il 1947, che confermava il riparto al 50%, stabiliva la desti-
139
Antonio Segni durante una cerimonia per
l’assegnazione delle terre in Basilicata
140
nazione di modeste quote delle parti padronali a lavori di miglioria, ed impegnava le parti a concludere le discussioni sul nuovo patto di mezzadria entro il maggio 1948. Non essendo ciò avvenuto, il Parlamento prorogò di un anno la tregua con una legge del 1948, proroghe che poi continuarono fino a far scomparire, come vedremo, il contratto di mezzadria.
Tuttavia, il Lodo e la tregua erano misure tampone temporanee, che non soddisfacevano
Antonio Segni. Questi, riconfermato nel quarto governo De Gasperi, fermamente convinto della
necessità di mutare il quadro fondiario per consolidare la democrazia anche attraverso la pace
sociale e, nello specifico, attraverso il miglioramento della qualità della vita dei contadini e dei
braccianti, propugnò una soluzione della questione agraria mediante due fondamentali iniziative parallele. Un progetto di riforma fondiaria proposto al Parlamento nel dicembre ‘48 e che si
basava sull’esproprio di tutte le proprietà superiori alle dimensioni di un podere di ampiezza
media, qualunque ne fosse l’intensività di coltivazione. Ed un progetto di riforma dei patti agrari, cioè della mezzadria e colonìa, che doveva parallelamente assicurare, nelle migliorate condizioni di vita e di lavoro, la stabilità dei legami dei contadini con la terra. Insieme i due provvedimenti avrebbero avuto l’effetto di popolare le campagne di coltivatori autonomi, proprietari o
affittuari, ugualmente radicati sulla terra, lavorata nella responsabilità delle proprie azioni e
capacità. Non è forse errato identificare nel professor Antonio Segni il propugnatore del più radicale programma rivoluzionario della storia della Repubblica. Per favorire la ridistribuzione delle
espropriande terre, e per finanziare gli acquisti dei coltivatori, mediante libere contrattazioni, due
provvedimenti vennero deliberati: il 24 febbraio 1948 la legge 114 stanziava i primi fondi, ed il 5
marzo successivo, per coordinare gli acquisti, la legge 121 istituiva la Cassa per la Piccola
Proprietà Contadina. Sarà questo lo strumento di una riforma che produrrà, senza scendere a
scontri parlamentari e giornalistici, il trasferimento ai ceti rurali di migliaia di poderi: attuazione
efficace e silenziosa degli ideali democristiani della proprietà coltivatrice. In questo clima immediata fu anche l’approvazione di un disegno di legge sulla riforma dei contratti di mezzadria e di
affitto. Il pacchetto fu presentato alle camere il maggio ’48: comprendeva diversi emendamenti
fra i quali il diritto di prelazione da parte dell’agricoltore, la richiesta di una giusta causa per la
disdetta del contratto di affitto, ed una durata minima dei contratti fissata perlomeno ad un ciclo
di rotazione colturale.
Tuttavia, il progetto non diventerà mai realtà. Nell’ottobre 1949 i contadini calabresi marciarono
ancora una volta sui latifondi. Un rapporto della pubblica sicurezza segnalava che “da mesi
migliaia di contadini, a piedi e sui somari, bandiere e bande in testa, partono di buon mattino da
paesi come Strongoli, Cutro, Rocca di Nato, San Giovanni in Fiore, raggiungono proprietà incolte, si spartiscono la terra, la picchettano e cominciano a dissodarla”. Ma la mobilitazione del 24
ottobre 1949 superò ogni aspettativa anche degli organizzatori: vi presero parte 14 mila contadini dei comuni orientali della provincia di Cosenza e Catanzaro, ed il peggio avvenne il 29 ottobre a Melissa, borgo calabrese nei pressi di Crotone, con l’occupazione, la ripartizione e l’avvio
delle semine nel feudo Fragalà della famiglia del barone Berlingeri. Nel pomeriggio circa trecen-
to uomini si scontrarono con la polizia: morirono tre contadini, ma vi furono anche scariche di
mitra e lanci di bombe a mano, non in dotazione delle forze di polizia. Nelle settimane successive seguirono altre vittime: una ragazza di Nardò nel Salento, due dimostranti nel foggiano, due
ancora a Monte Scaglioso. Per mettere fine agli eccidi, il 16 novembre Scelba, Ministro
dell’Interno, si incontrò con Di Vittorio, segretario generale della CGIL, e con Ilio Bosi, sua controparte nella Confederterra. La mediazione ottenne un fermo delle agitazioni, ma la riforma non
poteva più essere rimandata. Ed infatti, nel Consiglio dei Ministri del 15 novembre 1949, Segni
presentò il Progetto Definitivo di Riforma Fondiaria ed il Piano di Provvedimenti per la Calabria
che ne costituirono l’anticipazione e l’argomento principale. Tant’è che Segni fu incaricato di presentare subito al Parlamento un disegno di legge per la distribuzione dei terreni della Sila che
si applicava a terreni con una estensione superiore a 300 ettari, e dichiarava passibili di confisca tutti i terreni di quelle proprietà su cui non fossero stati compiuti lavori di miglioria.
Questa operazione, che dava finalmente inizio alla riforma agraria, riguardò oltre 45 mila ettari
e cinquemila nuove piccole proprietà. Lo Stato, accollandosi un onere di circa venti miliardi di
lire, favorì l’esecuzione del programma che comprendeva anche opere di trasformazione e di
bonifica delle terre assegnate, ed avrebbe fornito impiego stabile a breve tempo a non meno di
ventimila contadini. Il primo provvedimento di riforma agraria, dunque, è stato la legge ricordata come “Legge Sila”, approvata il 12 maggio 1950. Fu accolta, senza distinzione di ideologie e
di partiti, come una grande conquista sociale, e De Gasperi volle assistere personalmente all’inizio dei lavori di bonifica e di avviamento della riforma per sottolineare la vicinanza dello Stato
alle regioni coinvolte. Nel frattempo anche la giunta siciliana provvedeva ad una prima bozza di
riforma. Ma il confronto sulla intera legge di riforma fondiaria continuò a procedere tra remore,
resistenze, ritardi e riprese di agitazione per tutto l’anno seguente. Finalmente il 21 ottobre 1950
venne ratificata dal Senato la legge stralcio, ultimo capitolo della tormentata ed incompleta
Legge di Riforma Fondiaria, che estese la riforma ad altri territori da individuarsi con appositi
decreti governativi e che riguardavano nel tempo la Maremma Toscana, il bacino del Fucino,
alcune aree della Campania, in particolare l’Irpinia, il comprensorio apulo-lucano, il bacino del
Flumendosa, altre zone della Sardegna, ed infine anche il delta padano. Tuttavia la legislazione sulla ridistribuzione delle terre e sulla creazione della piccola proprietà coltivatrice, difficilmente avrebbe avuto l’atteso aumento di produttività se non fossero stati istituiti, in luogo degli
esistenti consorzi – ed erano previsti nell’articolo 10 della Sila e nell’articolo 3 della legge stralcio – gli Enti di Riforma, incaricati di predisporre ed attuare i piani di trasformazione fondiaria
attraverso misure come la selezione degli assegnatari che, come disse espressamente Segni,
“non deve servire ad escludere i braccianti mediante la formazione professionale, l’assistenza
tecnica e l’appoggio economico finanziario ai nuovi piccoli proprietari”. Questi ultimi, è bene
ricordare, avrebbero avuto la piena disponibilità solo a totale pagamento delle rate del prezzo
del fondo.
La Riforma Fondiaria interessò circa il 30% della superficie agraria e forestale del paese: furo-
141
142
no espropriati o acquistati 700 mila ettari, dei quali circa 600 mila nel Mezzogiorno, assegnati
quasi 600 mila a 106 mila famiglie. Si realizzava così uno degli obiettivi politici di De Gasperi:
creare una classe di piccoli proprietari, migliorare le arcaiche condizioni dell’agricoltura in alcune parti del paese, consolidare, con una iniziativa di giustizia sociale, la costruzione della democrazia. E se la media delle assegnazioni, cinque ettari e mezzo, era inferiore alle dimensioni di
una azienda vitale, tuttavia gli enti preposti alla ridistribuzione della terra avevano facoltà di intervenire ampliando le dimensioni poderali, come avvenne, fino ad una media di otto, nove ettari,
superficie per aziende sufficientemente valide. Con l’obiettivo di completare anche la Riforma
dei Patti Agrari, Segni il 22 novembre 1950 fece approvare dalla Camera a larga maggioranza
la legge dal titolo “Disposizioni sui Contratti Agrari di Mezzadria, Affitto, Colonìa Parziaria e
Compartecipazione”. Ma questo provvedimento non giungerà mai alla discussione in Senato.
L’opposizione, alimentata da varie parti mobilitate contro il radicale ed epocale, anche se parziale, successo di una politica agraria fondata sui principi cristiani del rispetto dei diritti fondamentali di ogni cittadino, anche contadino, riuscì ad arrestare l’iter di una legge già approvata
dalla Camera da una cospicua maggioranza. In compenso, una nota positiva era rappresentata dall’opera della Cassa per la Piccola Proprietà Contadina, grazie alla quale, già nel 1952, 324
mila ettari furono distribuiti.
Ma espropriazione e assegnazione, oppure ridistribuzione e trasformazione? Su queste categorie si sono imperniate lunghe ed appassionate discussioni, contestazioni e dibattito in parlamento. Generale però fu il riconoscimento che le leggi Segni rispettavano ed applicavano il precetto costituzionale, espresso nell’articolo 44 della Carta, che prescriveva al futuro legislatore di
attuare con legge una riduzione della grande proprietà, la realizzazione di più equi equilibri
sociali, la protezione della piccola e media proprietà, un ragionevole sfruttamento della terra con
aumento della produttività. L’articolo 44 della Carta Costituzionale è l’elaborazione costituzionale della cultura del riformismo democristiano, del cattolicesimo politico di quegli anni secondo il
quale, come disse Emilio Colombo, allora Sottosegretario dell’Agricoltura, dal maggio ‘48 nel
quinto e poi nel sesto governo De Gasperi: “La tutela della proprietà si collega alla sua funzione sociale e alla sua valenza produttiva orientata al bene della società”. Non si tratta soltanto
del passaggio dall’Italia rurale a industriale, ma di un’evoluzione democratica, rispetto a quei
processi di socializzazione autoritaria che ponevano i contadini come sudditi e non cittadini,
riconoscendoli quindi protagonisti a pieno titolo della vita civile.
Le due leggi di riforma ridistribuivano dunque la proprietà terriera e non infrangevano l’istituto
della proprietà, e Segni stesso in un lucido discorso al Convegno dell’Unione dei Giuristi
Cattolici del 1952 dal titolo “Libertà economica e proprietà fondiaria”, ricco di riflessioni teoriche
e pratiche, anche con riferimento ad esperienze europee sugli ordinamenti agrari, fece notare
che “lo scorporo non è una sanzione ad inadempienze del proprietario, ma è applicazione di un
principio costituzionale, è limitazione della proprietà, ma non annullamento del diritto di proprietà, poiché nella nostra legislazione – con riferimento al codice civile e a leggi speciali anche del
periodo fascista – non è senza limitazioni il diritto di disporre e godere di una terra”. Ed infatti il
primo articolo della Legge Sila e quello della legge stralcio testualmente ponevano come scopo
“il provvedere alla ridistribuzione delle proprietà terriere e conseguente trasformazione con lo
scopo di ricavarne i terreni da concedersi ai contadini”. E Segni ulteriormente richiamò il concetto della subordinazione dell’interesse privato all’attuazione dei principi sociali contenuti nella
Costituzione: equi rapporti sociali, funzione sociale della proprietà. E aggiunse: “Attuando i principi degli articoli 1 e 3 della Costituzione, la legge fondiaria non è una legge di persecuzione e
non è nemmeno una legge che sanzioni una inadempienza. È una legge che, fondata su determinati dati obiettivi, i quali sono stati valutati dal costituente prima di essere valutati in concreto
anche dal legislatore, vuole arrivare ad operare in Italia la formazione di una nuova classe sociale, di una piccola borghesia rurale che manca in vastissime zone dell’Italia mentre è presente in
qualche regione, come per esempio in Piemonte, o è frequentissima in altre zone d’Europa specialmente nelle zone in cui la tranquillità sociale è maggiore: Danimarca, Olanda, penisola scandinava, Belgio, Svizzera, sono regioni di piccola proprietà”.
Segni affermava ancora una volta che intento del legislatore dovesse essere quello di valorizzare e diffondere in Italia la proprietà, poiché lo dicevano testualmente gli articoli 1 e 2 della
Carta, nell’affermare il principio di rendere la proprietà accessibile a tutti, e gli articoli 42 e 44
della Costituzione non erano che un corollario sintetico dei principi contenuti nei citati articoli che
considerano questi problemi in questi limiti. Queste legislazioni sono state votate dal
Parlamento, si può dire all’unanimità, i dissensi sono stati sulla misura ma non sui principi. Disse
Segni: “In questi limiti queste leggi vanno considerate e con questi scopi vanno applicate. La
loro applicazione non è un indice di regresso, non è una volontà di persecuzione, ma è invece
una volontà di miglioramento e di giustizia”. Nonostante i positivi risultati di tante battaglie condotte dalla costituente e per tutta la prima legislatura repubblicana – dal 1948 al luglio 1953 –
Segni continuerà a sostenere, pur non più Ministro dell’Agricoltura, che la legge stralcio, la cui
applicazione si era estesa su circa un sesto della superficie agraria e forestale d’Italia, non era
e non voleva essere la legge per le altre parti d’Italia per le quali, per ottemperare all’articolo 44
della Costituzione, altre leggi si dovranno fare. Continuerà però Segni anche a temere che lunghe diatribe, contestazioni, controversie, eccezioni, ricorsi di tipo giuridico, amministrativo, economico, e frodi per sottrarsi alla riforma, potessero arrestare l’attuazione della riforma stessa. In
definitiva parti di un unico disegno, le due parti della riforma, pur intraprese simultaneamente,
otterranno un’approvazione ed applicazione parziale. La riforma fondiaria, con le due leggi Sila
e stralcio, conseguirà obiettivi effettivi, anche se piuttosto ridotti. La riforma dei patti agrari troverà invece modesti risultati nel Lodo De Gasperi e nella legge di tregua, senza però risolvere
concretamente i problemi, ad esempio per la parte riguardante la mezzadria classica, che sarà
per trent’anni, per otto legislature, ragione di scontro economico e parlamentare senza conclusioni positive.
Come discordi furono i pareri nelle appassionate e lunghe discussioni agli articoli delle due leggi
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nell’iter parlamentare, così sono state discordi le opinioni di storici e studiosi nei confronti della
riforma. I critici più intransigenti contestavano gli esiti della grande operazione legislativa illustrando soprattutto i negativi risultati nelle aree siccitose e marginali, dove la superficie distribuita era in realtà insufficiente per una redditizia cerealicoltura o per una zootecnia estensiva.
Certamente la riforma non raggiunse pienamente gli obiettivi prefissati; indubbiamente però
contribuì, anche tramite le opere di bonifica, ad un aumento della produzione agricola e ad un
miglioramento delle stesse condizioni di vita in campagna. In fondo, era una legge per il latifondo assenteista, ma non per zone, come nell’Italia centrale, Emilia, Toscana, Marche, Umbria,
parte del Lazio, dove esistevano proprietà sì vaste, ma coltivate intensivamente. Degni di nota,
in proposito, vanno considerati i risultati ottenuti dall’Ente Maremma o dall’Ente di riforma Apulia
e Lucania; ma anche dagli altri, poiché, preposti alla espropriazione ed alla ripartizione dei latifondi, assolsero compiti veramente difficili per l’enormità degli interessi personali e patrimoniali
coinvolti, riuscendo altresì a trasformare definitivamente il volto secolare di intere province
dell’Italia centrale e meridionale. In fondo non è errato pensare che la riforma agraria, questo
ideale proposito di Segni, pertinacemente perseguito dal 1944 al 1951, sia stata combattuta,
ostacolata e poi fermata da una ostilità diffusa in particolare tra i grandi latifondisti, soprattutto
meridionali, alcuni dei quali purtroppo lievitanti dentro il suo stesso partito. È presumibilmente
questa una delle motivazioni per cui nel settimo governo De Gasperi, nel 1951, Segni lasciò
l’Agricoltura passando alla Pubblica Istruzione, dove rimase fino alla caduta del governo Pella
nel 1954.
Sempre nel 1951 terminò anche la sua esperienza sassarese con le dimissioni da Rettore e poi
con la chiamata all’Università di Roma. Il contributo di Segni alla sopravvivenza e allo sviluppo
dell'ateneo tra il 1944 e il 1951 è ben delineato da Manlio Brigaglia: " L'angosciosa ripetizione
dei progetti di soppressione, con cui Sassari ha dovuto convivere poco meno che negli ultimi
due secoli, si ripresenta anche con il secondo governo Bonomi, nella primavera del 1945.
Ancora una volta le autorità accademiche chiamano in aiuto gli Enti locali, segnatamente il
Comune e la Provincia, e insieme le istituzioni economiche e singoli cittadini. C'è una raccolta
popolare di fondi: offre 75 mila lire la Banca Popolare di Sassari, diverse migliaia ne raccoglie
un privato a Stintino, da un grande ballo di Carnevale la neonata Associazione Turritana
Universitaria ricava l'incredibile somma di 200 mila lire. [...] Ma nel clima di rivendicazioni e di
attese che nasce già nella fase finale della guerra viene posta anche la prima tessera del futuro sviluppo dell'Ateneo: nel dicembre 1944 un decreto legge-omnibus, che assomma una serie
abbastanza disparata di provvidenze a favore della Sardegna, prevede all'art. 14 di «assegnare lire trenta milioni per l'istituzione della Facoltà di Agraria presso l'Università di Sassari».
Occorreranno diversi anni prima di arrivare alla istituzione ufficiale della facoltà, nel novembre
del 1950. Era stato Segni, infatti, ad ottenere nel 1946 che fosse aperto, in via provvisoria, il
primo corso, seguito dagli altri negli anni successivi: così, anche se ogni anno si dovevano rinnovare, in vista dell'apertura dell'anno accademico, le richieste e le polemiche, già dal 1946-47
primi corsi avevano potuto funzionare, grazie anche ad una cospicua dotazione decisa
dall'Istituto di credito agrario per la Sardegna (il futuro Banco di Sardegna), tanto che nel 1951,
alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno accademico, erano stati festeggiati anche i primi laureati. Nel 1950 – avrebbe scritto nel 1971 il preside Mario Lucifero – «gli studenti iscritti erano 121,
numero col quale la Facoltà di agraria di Sassari si collocava, per popolazione studentesca,
avanti a parecchie delle sue più vecchie consorelle, testimoniando come la sua istituzione fosse
realmente sentita e risultasse necessaria». «Fu una felice combinazione – aveva peraltro scritto uno dei presidi della fase di fondazione, Ottone Servazzi –, ma la storia è fatta di simili combinazioni, che in quel periodo il sottosegretariato all'Agricoltura fosse retto da un illustre sassarese, Antonio Segni, [...] il quale intuì che cosa avrebbe significato per la Sardegna la istituzione di una facoltà di Agraria e se ne fece strenuo promotore». Eppure era stata necessaria l'occupazione del palazzo centrale dell'Università da parte degli studenti perché il governo si decidesse a riconoscere una realtà che esisteva (e funzionava) di fatto ormai da quattro anni: è stato
scritto più volte, peraltro, che lo stesso Segni non aveva visto di cattivo occhio la pressione esercitata dalla mobilitazione della città e della provincia, di cui si era potuto valere nei confronti dei
colleghi di governo. Nello stesso anno accademico veniva autorizzata dal Consiglio superiore
della P.I. l'istituzione della Facoltà di scienze, con un primo corso di laurea in scienze biologi-
Antonio Segni con Alcide De Gasperi
(al centro) e Emilio Colombo
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che, e nell'attesa della formalizzazione del provvedimento il ministro della Pubblica istruzione
(che era ora Segni) autorizzava le prime iscrizioni".
Alla metà degli anni Cinquanta la carriera politica di Antonio Segni fa un nuovo salto di qualità:
il 6 luglio 1955 diviene Presidente del Consiglio dei Ministri; il suo primo governo è composto da
DC, PLI, PSDI. In qualità di Presidente del Consiglio, il 25 marzo 1957, firma i trattati istitutivi
della CEE e dell'EURATOM. Il governo cade nel maggio 1958, ma dal 1° luglio 1958 è di nuovo
vicepresidente del Consiglio e Ministro della difesa nel II governo Fanfani. Nel 1959 è a capo di
un monocolore democristiano nel quale è anche Ministro dell'interno. Il 25 marzo 1960 entra nel
governo Tambroni come Ministro degli esteri e mantiene tale carica nel III e nel IV governo
Fanfani. In questa fase due sono i problemi che maggiormente polarizzano l'attenzione di Segni:
sul piano internazionale, l'avvio della costruzione europea; sul piano interno, l'esaurimento della
stagione politica del centrismo e le contrastate premesse della transizione a quello che diverrà
il centrosinistra. Ma al centro della sua riflessione politica e della sua attività di governo stanno
le questioni sociali che agitano l'Italia del dopo-ricostruzione e il modello di sviluppo economico
del Paese; essi rappresentano il suo riferimento costante tanto nella visione del futuro politico
dell'Italia quanto in quello della costruzione europea. Da questo punto di vista la figura di Segni
è stata sinora poco studiata, né d'altra parte questa è la sede per un lungo approfondimento sul
tema; tuttavia si possono senz'altro segnalare alcuni punti meritevoli di considerazione. La visione che Segni ha dell'Europa è strettamente vincolata alla realtà della guerra fredda e della solidarietà atlantica. Nei suoi discorsi, e negli scritti introduttivi ai primi manuali e alle prime raccolte di testi dedicati al diritto comunitario da collaboratori o allievi, Segni torna più volte sul tema
delle due guerre mondiali che precedono i primi passi della costruzione europea: si tratta di un
tema troppo spesso ripetuto, e ripetuto da chi è stato testimone di entrambe le tragedie, perché
lo si possa considerare un semplice luogo comune letterario. Altro tema insistito è l'identificazione della divisione dell'Europa come causa del suo declino economico e politico nella prima metà
del ventesimo secolo, e dunque l'indicazione della costruzione dell'unità economica come unico
mezzo per risalire la china: in questa visione (comune all'europeismo laico e cattolico di quest'epoca iniziale della costruzione europea) i trattati economici non sono fine a sé stessi, ma
sono il primo passo di un futuro sviluppo che deve essere anche culturale e sociale, e quindi
non può non avere, come prospettiva ultima, anche l'unione politica. Un testo di esemplare lucidità, da questo punto di vista, è il discorso tenuto da Segni nel marzo 1957, in occasione della
firma dei Trattati di Roma: "I trattati sono una cosa ben più vasta e ben più importante. Come
vedremo, essi portano ad una fusione delle economie che va al di là del semplice campo economico; portano ad una nuova entità sopranazionale per cui, trascorso il periodo preparatorio di
dodici-quindici anni, ciascun cittadino dei sei Paesi dell’Europa Occidentale si sentirà a suo agio
in qualsiasi altro Paese, avrà piena libertà di intrapresa e di movimento, potrà trovare lavoro in
qualunque Paese, e sorgeranno così — senza che forse ce ne accorgeremo — attraverso la
comunità economica europea, anche la comunità sociale e il sentimento dell’unità sociale e del-
l’unità della civiltà, i quali poi daranno luogo naturalmente alla formazione di una entità politica.
Si è discusso in questi anni se cominciare dalla formazione dell’unità politica o cominciare dall’unità economica. Inutile discussione. Se proseguiamo sul cammino che abbiamo preso, sul
cammino dell’unità economica, arriveremo fatalmente, inevitabilmente, alla creazione della
nuova entità sopranazionale, alla creazione di un nuovo Stato che sarà l’Europa Occidentale,
uno Stato nel quale le risorse intellettuali, le capacità tecniche non mancheranno.
Centosessanta milioni di abitanti uniti rappresentano una forza economica, ma anche una forza
politica, e noi abbiamo iniziato oggi un passo decisivo per l’unità europea; dirò meglio, per il ritorno all’unità europea".
Nella stessa occasione Segni rifletteva sull'arretratezza italiana e sulla straordinaria occasione
offerta dall'Europa al nostro Paese: " altri elementi ci sono nel trattato. Ricordo soltanto la banca
degli investimenti e il fondo per la qualificazione professionale. Sono due istituzioni che ci interessano direttamente, perchè la banca degli investimenti è diretta a funzionare specialmente nei
Paesi più sottosviluppati e, per quanto questa Europa Occidentale sia sottosviluppata nei confronti, per esempio, delle Nazioni del Nord dell’Europa, del Canadà e degli Stati Uniti d’America,
tuttavia in questa Europa ci sono zone ancora più sottosviluppate e, fra queste, parte dell’Italia.
Verso queste zone arretrate la solidarietà è un dovere, ma anche un interesse: la banca sorgerà con un capitale di un miliardo di dollari al quale noi partecipiamo col 24 per cento. Avrà lo
scopo di portare ad un elevamento del tenore di vita, di contribuire alla valorizzazione delle zone
e delle economie depresse. Quindi la nostra politica nazionale troverà un forte contributo non
solo di mezzi economici ma anche nell’apporto tecnico. Perchè avere un mercato di consumatori che non possono comprare è come non avere quel mercato, valorizzare le zone depresse
è nell’interesse delle zone produttrici che potranno trovare nuove fonti di clientela e nuovi collocamenti per la loro produzione". E' particolarmente significativo che il tema dello sviluppo
accompagnato da una maggiore giustizia sociale e quindi da politiche redistributive echeggi
continuamente nelle parole di Segni, non solo negli scritti e nei discorsi dedicati all'Europa, ma
anche in quelli interni, e perfino nei due messaggi di fine anno che indirizzerà al Paese nella sua
breve presidenza; e il suo significato politico è degno di rilievo, se si pensa che esso è accompagnato, in questa fase, da un continuo riferimento allo sviluppo scientifico e tecnico come fattore indispensabile dello sviluppo industriale e alla citazione di Ezio Vanoni; quest'ultimo dato
appare ancora più significativo nel discorso del marzo 1957, non solo per l'occasione, ma perché Vanoni (morto da appena un anno) è l'unico riferimento politico italiano che Segni cita insieme a De Gasperi. E a Vanoni, collega di governo per tutti gli anni dal 1944 al 1956, si devono
tanto la riforma fiscale, quanto il celebre "Schema di sviluppo" che proprio come documento di
indirizzo economico del primo governo Segni è stato redatto nel dicembre 1955, e che è avversato da una parte non piccola della DC. A Vanoni e Mattei, d'altra parte, Segni aveva dato manforte per il varo della legge istitutiva dell'ENI nel 1953.
Altro aspetto rilevante, e collegato agli altri messi in evidenza, è l'attenzione di Segni verso
Antonio Segni e Emilio Colombo
a Ferrandina (MT)
147
Il Presidente Antonio Segni
nell’azienda agraria di famiglia
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Euratom, e in genere verso il nucleare pacifico come via d'uscita dalle difficoltà dell'economia
italiana in campo energetico. Nel 1952 Segni aveva sostenuto, come ministro della Pubblica
Istruzione, la nascita del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari; nel ‘56, decaduto da un
anno il Comitato, era urgente un decreto di rinnovo nella composizione e nella disponibilità
finanziaria per poter sostenere la posizione dell’Italia nelle organizzazioni europee ed internazionali in via di costituzione dopo la mondiale assise della Prima Conferenza ONU sull’uso pacifico dell’energia atomica, svoltasi a Ginevra nell’estate ‘55. Pertanto i maggiori esponenti del
CNR – Edoardo Amaldi, Angelini e Ippolito – intendevano incontrare urgentemente il Presidente
del Consiglio dei Ministri Antonio Segni .
Il Presidente ricevette Amaldi, Ippolito e gli altri il 20 luglio ‘56 e procedette al rinnovo del
Comitato con il decreto dell’agosto dello stesso anno, superando d’autorità numerose resistenze e mettendo fine ad una situazione di stallo nociva per gli interessi italiani nel campo della
ricerca, dalle scienze fisiche e chimiche a quelle biomediche e agrarie e delle applicazioni tecnologiche energetiche ed industriali.
Segni passa poi indenne attraverso l'esperienza del governo Tambroni (in cui è Ministro degli
Esteri) e rimane alla Farnesina anche nei due successivi governi Fanfani (III e IV) che godevano della benevola astensione dei socialisti del Psi di Pietro Nenni su di un programma, concordato tra Fanfani (Dc), Riccardo Lombardi (Psi) e Ugo La Malfa (Pri), di modernizzazione
dell'Italia i cui principali obiettivi (e risultati) erano la nazionalizzazione delle aziende che producono l'energia elettrica, l'estensione dell'obbligo scolastico ai tre anni della scuola media e la
cedolare d'acconto sulle azioni. Nel 1962, il 6 maggio, il segretario politico della Democrazia
Cristiana, Aldo Moro, ottiene dal proprio partito e dal Parlamento della Repubblica l'elezione di
Antonio Segni alla carica di Presidente della Repubblica italiana (al nono scrutino con 443 voti
su 854). Carica che Segni coprirà per due anni, dimettendosi il 6 dicembre del 1964 quando una
grave malattia gli rese impossibile l’esercizio delle funzioni.
Secondo una certa interpretazione storiografica, Segni avrebbe svolto nei governi Fanfani e poi
al Quirinale una funzione di argine al centrosinistra, alla carica riformistica della nuova formula
politica. Ma l’insistenza di Segni, come abbiamo visto proprio in riferimento alla riforma agraria
ed altre iniziative, l’insistenza di Segni sugli obiettivi di sviluppo economico e di giustizia sociale sottesi alla costituzione repubblicana e alla costituzione europea rende difficile immaginarlo
come un oppositore delle politiche promosse dal primo centrosinistra. Inoltre le scelte concrete
di politica economica da lui promosse e appoggiate, come Ministro e come Presidente del
Consiglio, lo fanno apparire come un componente di quella parte della classe dirigente italiana
che nella ricostruzione e nel miracolo economico italiano seppe immaginare per il paese un
modello di crescita equo ed al passo con le esigenze delle moderne democrazie industriali. Ciò
che sappiamo della sua cultura e della sua esperienza politica non ci autorizza davvero a pensarlo avverso alla nuova fase storica dell’Italia fino a farsi coinvolgere in un disegno eversivo.
Il Presidente della Repubblica Antonio Segni lasciò la scena del mondo il 1-12-1972.
Interventi
Senatore Emilio Colombo: Sono arrivato qui non con l’idea di partecipare alla discussione, ma
piuttosto con il desiderio di ascoltare, dopo tanto tempo, una rivisitazione della politica di quegli
anni meravigliosi – io mi ostino a definirli tali – perché sono alla base dell’Italia attuale, ed anche
con la nostalgia di quanto l’Italia attuale ha distrutto di ciò che si era costruito in quegli anni. Ho
attraversato la scalinata e poi il corridoio, e sono arrivato qui, con una profonda emozione. Io
non ero più entrato in questo portone, non avevo più salito queste scale dal giorno che lasciai il
Ministero dell’Agricoltura, come Ministro dell’Agricoltura, successore quindi di Segni, nel 1958,
quando andai poi al Commercio con l’Estero e successivamente all’Industria. Quello che più mi
ha emozionato è l’ingresso. Con Segni c’era la tradizione di un lavoro intenso, pesante, e le
deleghe che lui attribuiva, come quelle che attribuì a me come Sottosegretario, non erano mai
formali: lui seguiva sì le cose ma nel senso che ne controllava di fatto l’esecuzione. Io ero molto
più giovane, essendo diventato con lui Sottosegretario, chiamato da lui, a ventotto anni. La consuetudine era che la sera io uscivo, o tentavo di uscire un po’ prima, e passavo a salutarlo nel
suo studio, il che significava scendere insieme nel cortile e lì avveniva la passeggiata, che durava mezz’ora, tre quarti d’ora, ed era come il rapporto del maestro con un giovane allievo. In
fondo lui sfogava un po’ con me la sua nostalgia per la Sardegna, perché parlava molto delle
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cose sarde, ma insieme poi delle questioni relative alla riforma agraria, le questioni generali dell’economia del paese.
Fin da allora egli, prima ancora di diventare poi Ministro degli Esteri, aveva una grande sensibilità per la politica estera, anche stando qui all’Agricoltura. Qui le grane non finivano mai, ma fondamentalmente perché le creava lui, e le creavamo insieme, nel senso cioè che andavamo a
toccare settori così delicati, così spinosi, come quelli relativi alla proprietà fondiaria, in un paese
che sotto questo profilo non aveva fatto né dal punto di vista sociale, e tantomeno dal punto di
vista giuridico, una grande evoluzione. Il vero passaggio fu l’articolo 44 della Costituzione, di cui
ci occupammo Segni, l’Onorevole Taviani, ed io, naturalmente un po’ meno intensamente, avendo allora 26, 27 anni, quindi un po’ meno credibile per una materia di tale delicatezza, e soprattutto così controversa. Ma ogni tanto, quando io entravo nella stanza del suo ufficio, mi portava
all’angolo della finestra del suo studio e parlava quasi sussurrando, e allora l’argomento non
erano i guai della Riforma Agraria, ma molte volte erano i problemi della politica estera. Pur
essendo naturalmente momenti difficili, avevamo però una linea segnata – controversa sì nel
Paese perché c’erano i due schieramenti – ma la linea occidentale era segnata: il Patto
Atlantico, di cui lui fu sostenitore, senza quei dubbi che pure vi furono nell’ambito della sinistra
della Democrazia Cristiana e della politica europea. Certamente il 5 maggio di quest’anno Segni
sarà ricordato ad Aquisgrana, perché verrà attribuito al Presidente della Repubblica Ciampi, e
meritoriamente, il premio di Aquisgrana che fu attribuito a De Gasperi, a Segni, modestamente
fu attribuito a me successivamente, e da allora non lo ha avuto nessuno più. I primi due, purtroppo, sono morti, l’unico rimasto vivente sono io. Con piacere spero di assistere alla consegna a Ciampi, ma in quella occasione si ricorderà Segni, che sotto questo profilo ebbe una grande rispettabilità nella politica estera, in Europa soprattutto, ed anche negli Stati Uniti. In Europa
il suo rapporto era molto stretto con Adenauer, allo stesso modo di De Gasperi che fece una
grande politica estera.
Quando non si poté ricostituire il quadripartito, caduto il governo Scelba, uno dei problemi fu: chi
affronta la questione dei patti agrari? C’era difatti un grande contrasto con Scelba. Proponiamo
Segni. Nel frattempo vi era una discussione dura fra Scelba ed i Liberali, i quali per poter entrare nel governo richiedevano la correzione della legge sui patti agrari. Non dimentichiamo che il
primo governo di centrosinistra nacque al Ministero di Grazia e Giustizia, essendo allora
Ministro Piccioni, il quale era stato incaricato da De Gasperi di presiedere il comitato che doveva redigere il testo definitivo della riforma stralcio e della riforma fondiaria. E partecipava per i
Liberali un galantuomo, che ricordo sempre con grande piacere, che era l’Onorevole De Caro,
liberale beneventano. Redigemmo tutto il testo e lo leggemmo. Sostanzialmente tutti d’accordo
fino a quando, messa la parola fine, De Caro, per i Liberali, si alza e dice: “Io sono stato con voi
fino a questo momento, vi ho aiutato, ho ammirato lo spirito con cui voi state lavorando, volete
lavorare in futuro, ma io non posso dare la mia adesione”. Si alzò, andò via, e naturalmente i
Liberali uscirono dal governo. Noi avevamo la maggioranza assoluta e si costituì il primo gover-
Manifestazione per l’assegnazione
delle terre - Pomarico (MT)
no di centrosinistra, cioè noi senza i liberali, socialdemocratici e repubblicani.
Allora l’Onorevole Carlo Russo ed io parlammo a Segni: per fare il governo bisognava fare qualche modifica ai Patti Agrari. Antonio Segni era un gentiluomo: lo contraddistingueva nei rapporti personali, e con gli altri, anche il modo come si presentava. Ebbene, quella volta abbiamo
corso il pericolo di essere buttati fuori dalla stanza dove stavamo, non ce lo disse ma ce lo fece
capire; e noi, di fatti, ci alzammo e ce ne andammo. Il giorno successivo gli abbiamo mandato
a dire: “Guarda che se noi perdiamo questa occasione, qui non si fa un governo con la maggioranza precostituita”, e questo era un fatto importante. In quel momento sostenevamo che era
necessario avere un governo a maggioranza precostituita, perché dopo il governo del 1954,
dopo il Congresso della Democrazia Cristiana, l’ultimo fatto da De Gasperi, e dopo la morte di
De Gasperi, alla Camera l’elezione di Gronchi a Presidente della Repubblica era stata contro il
candidato della Democrazia Cristiana, aveva scavalcato la Democrazia Cristiana e l’aveva divisa, con la destra da una parte e la sinistra dall’altra. La nostra risposta fu che i governi senza
una maggioranza precostituita e orientati soprattutto dalla volontà o dalla politica del Presidente
della Repubblica, che non ha questa funzione di costituire delle maggioranze, dovevano essere evitati e questo fu il nostro lavoro.
Ricordo che una sera ci siamo trovati in un ristorante per caso: io, Carlo Russo ed il Ministro
dell’Industria Cortese, una brava persona liberale di Napoli, vediamo ad un tavolo vicino
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Il Ministro Antonio Segni
con il sottosegretario Emilio Colombo
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Siglienti, molto amico di De Gasperi, Presidente dell’IMI, persona molto rispettabile, Visentini ed
un terzo. Ci siamo messi al tavolo insieme ed insieme abbiamo lavorato per ricostituire il governo. Voglio dire che bisogna inserire la figura di Segni nell’ambito di questa difficile gestione.
Quando si parla di Riforma Agraria con la passione con cui ne parla Segni, va notato che non
c’è il coraggio adesso di fare cose di questo genere qui: allora tutto aveva significato politico. Si
trattava cioè di compiere delle grandi trasformazioni e di dare un fondamento solido alla democrazia.
È bello il discorso fatto da Segni ai laureati cattolici, in cui definisce le ragioni, il fondamento, la
parte giuridica, e afferma però, ad un certo momento, che non si tratta solamente di una costituzione giuridica: si tratta invece di una questione di carattere sociale che entra nel vivo della
vita. In una delle sue visite in Basilicata, a Melfi, De Gasperi disse: “Ma guardate che qui non si
tratta mica di un problema di lotta di classe: è un problema di giustizia e si tratta di elevare ad
un gradino più alto quelli che non hanno lo standing necessario per partecipare alla vita democratica del Paese”.
Ed infine la politica estera. Quando ci fu la nazionalizzazione del Canale di Suez, la Germania
non poteva intervenire perché non poteva avere eserciti, Francia e Gran Bretagna decisero di
mandare una loro spedizione verso le zone del Golfo di Suez a tutela della situazione, gli americani non potevano agire con molta intensità perché, avendo negato il finanziamento della diga
di Assuan, allora erano in cattive relazioni con i paesi di quell’area. In Italia ci fu un Consiglio dei
Ministri che, con Saragat, decide per l’adesione. Non avevamo navi da mandare, avevamo soltanto un’adesione da dare.
Se ci fossimo ricordati di questa regola al momento della crisi dell’Iraq, avremmo saputo che
quando vi sono queste controversie nel Mediterraneo –controversie che possono implicare gli
Stati Uniti – prima si sta con l’Europa e poi si sta con gli Stati Uniti. Perché prima c’è la forza
dell’Unione Europea, e allora si dà un vero contributo agli Stati Uniti, altrimenti si dà agli Stati
Uniti il contributo della divisione dell’Europa, che non è quindi un contributo autentico e serio.
Ecco, guardare un poco indietro come farebbe bene.
Nel luglio del 1948 facemmo il primo incontro per la Riforma Agraria nello studio di Segni: c’erano Rossi-Doria, Mazzocchi Alemanni, Maldini ed altri. Avvenne la prima spaccatura: chi voleva
la riforma agraria con la legge Serpieri, un po’ modificata, e chi invece la voleva secondo l’articolo 44 della Costituzione. La legge Serpieri, teoricamente ottima, non aveva senso politico perché non c’era la forza necessaria per poter fare le espropriazioni al momento in cui non si fossero verificate le modifiche; e poi non conteneva il principio dell’articolo 44 della Costituzione.
Per concludere, la lettera di Segni a Moro, dice: “ti do l’incarico, anche se tu ritieni che io non
abbia simpatia per te, secondo i principi della Costituzione”. È l’ultimo scritto di Segni che abbiamo, che ripresenta quest’uomo nella sua integrità morale e nella sua lealtà nei confronti delle
istituzioni e nei confronti della Costituzione. È su questa base che dobbiamo riportare al posto
che ha nella politica italiana Segni, sia come esecutore, come iniziatore delle trasformazioni,
che anche come creatore di un patrimonio che sta ancora sepolto, che va scoperto per ridare,
soprattutto alle giovani generazioni, qualche ideale da seguire.
Onorevole Mario Segni: Io innanzitutto sento il dovere di ringraziare profondamente gli organizzatori di questa specifica iniziativa: il professor Scarascia Mugnozza, che ha fatto una bellissima relazione e non glielo dico per complimento. Consentitemi poi di fare un ringraziamento particolare e personale a Emilio Colombo, perché credo che non ci sia iniziativa o manifestazione
che abbiamo fatto per ricordare mio padre alla quale non ci sia stato, alla quale non abbia dato
il suo contributo, le sue idee: quindi è veramente una cosa che sento col cuore.
In effetti il ricordo degli uomini politici è strano, e a volte ci sono anche strane lacune. Io per
esempio ho scoperto qualche anno fa che la Camera dei Deputati, che pubblica, giustamente,
tutta una serie di discorsi parlamentari di uomini politici, non ha mai pubblicato discorsi parlamentari di Antonio Segni. Ho telefonato e ho scritto al Presidente della Camera, al Segretario
Generale, e poi a tutti i capigruppo, che assumono questo incarico, e mi hanno tutti risposto
gentilissimamente. Ma senza esito. Adesso credo che sicuramente si farà perché è stato nominato Presidente di un comitato apposito Giorgio Napolitano.
In questa opera di ricordo, doverosa, noi abbiamo fatto parecchie iniziative a Sassari. Scarascia
Mugnozza ne ha ricordato una fatta all’Università, molto bella; e poi Emilio Colombo un’altra nell’ambito, invece, di una ricerca sulla riforma agraria in Sardegna, che è stata iniziata e conclusa dalla Fondazione Antonio Segni, nel corso della quale io stesso, che naturalmente non partecipavo direttamente alle ricerche, ho saputo ed ho appreso moltissime cose. Per esempio,
interessantissimo, mi ricordo, fu il contributo di Giovanni Galloni, che era a capo dell’Ufficio
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Legale del Ministero dell’Agricoltura e che mi spiegò alcuni meccanismi giuridici della legge
molto singolari, per la verità, da un punto di vista anche costituzionale, che però effettivamente
risolsero grandi problemi. I provvedimenti di esproprio, non so se in tutta la Riforma, ma almeno in una fase, furono leggi delegate, cioè erano provvedimenti non amministrativi ma legislativi del governo che, da un punto di vista costituzionale, onestamente è un po’ forte.
Però mi disse Giovanni Galloni: “Questo ci permise di rendere inattaccabili tutti i provvedimenti
in una situazione in cui sarebbero stati travolti da una giurisprudenza oscillante e spesso contraria”. E infatti dice: “Io ero giovane, avevo la delega in tribunale; vinsi contro tutti: non c’era
niente da fare, perché da un punto di vista giuridico noi eravamo in una botte di ferro, poteva
venire il miglior collegio di avvocati del mondo. Le cose andavano per forza in quel senso”.
Ecco, di quegli anni io personalmente ricordo poco. Sì, probabilmente giocavo nei cortili... però
ricordo una cosa molto commovente. Nel 1957-58, durante una campagna elettorale mio padre
andò per due, tre giorni a fare un giro in Basilicata con Emilio Colombo ed io andai con loro. Io
ero giovane, ci andavo come turista, perché non avevo niente da fare, però mi divertii moltissimo. Ricordo, a parte il divertimento, l’interesse, alcune manifestazioni in centri agricoli, nel
potentino, con una folla di contadini veramente commossi, in cui si respirava e si toccava con
mano quella che era stata l’emozione profonda che questo mondo aveva sentito nel vedere
questo cambiamento, considerato incredibile, e nel vedere con loro quelli che erano stati i due
protagonisti, cioè Antonio Segni ed Emilio Colombo.
A proposito della riforma agraria mi viene poi in mente un episodio divertente e curioso, pensando proprio al fatto che la Camera non abbia ancora pubblicato nulla. Anni fa andai in Brasile con
una delegazione del Parlamento europeo. Fummo ricevuti da alcuni ministri del governo brasiliano, e tra questi c’era il Ministro per la Riforma Agraria, staccato dal Ministero dell’Agricoltura.
Il Brasile, come potete immaginare, ha problemi spaventosi, giganteschi, in una situazione che
mi è sembrata davvero molto confusa. Insomma, quando lui lesse l’elenco dei nomi dei partecipanti, e vide “Segni”, mi disse: “Ma, senta, ma lei per caso conosceva in qualche modo il ministro che in Italia ha fatto...?”. “Sì, io sono il figlio”. E lui si commosse e disse: “Lei rappresenta
suo padre, rappresenta l’unico caso nel mondo occidentale di una riforma fatta: noi lo ricordiamo, è stata una cosa enorme per noi, ancora un esempio”. Io rimasi veramente colpito, era sincero certamente.
Credo insomma che il periodo della Riforma Agraria sia stato uno dei più entusiasmanti fra quelli che avete vissuto voi, veramente una delle riforme più incisive, accanto all’altra, naturalmente, che è la creazione dell’Europa. Sotto questo aspetto io ricordo che pochi mesi dopo la firma
del Trattato di Roma venne in Sardegna la figlia di Adenauer col marito, in vacanza, e mio padre
li invitò a cena. Ricordo benissimo, proprio testualmente, le parole di mio padre, che disse a
questa giovane signora tedesca: “Suo padre le avrà certamente detto che il nostro vero obiettivo non è l’unione economica ma è l’unione politica”. Allo stesso modo, nel discorso del ‘57 sulla
riforma, che oggi è stato ricordato, è nettissima la volontà di prospettare l’obiettivo politico, che
allora era molto più sentito di adesso, probabilmente anche perché percepito come più facile e
più vicino.
Prof. G.T. Scarascia Mugnozza: Paoloni ed io non possiamo che ringraziare sentitamente il presidente Colombo e l’On. Segni e raccogliere i suggerimenti che sono venuti. Ad un certo punto,
quando preparavamo questo lavoro, mi veniva sempre in mente la limitazione del titolo: Antonio
Segni e la Riforma Agraria. Devo rimanere nei limiti oppure posso spaziare un po’ nella biografia di questo grande Presidente e grande uomo politico italiano? Mi è stato concesso... e quindi, pur nei limiti di tempo, ho cercato di affrontare il tema insieme a Paoloni, ma certamente considero molto preziose le vostre testimonianze. D’altronde io ricordo, Presidente Colombo, anche
le sue visite a Brindisi, mi ricordo la prima volta che l’ho incontrato fu allora. Invece il Presidente
Segni non l’ho mai incontrato, ancorché nel periodo in cui era Ministro dell’Agricoltura io fossi
borsista del Ministero. Se mi è consentito dall’uditorio di debordare un po’, io ho lavorato in questo salone sessant’anni fa per preparare la tesi di laurea in Agraria. E nel 1945-46, la tesi di laurea– allora fare una tesi di laboratorio era impossibile, erano tutte compilative - la venni a fare
soprattutto trovando materiale qui, perché la mia tesi era “I vitigni del Salento, del Brindisino”, e
sulla linea di quella che oggi si chiama biodiversità trovai documentate e ampie descrizioni di
circa 70 diversi tipi di vitigni, anche se credo che oggi parecchi siano scomparsi. Lavoro ancora sulla biodiversità, e continuo ad aggiornarmi e a intervenire su questi temi, anche se qualche
volta i professori sono degli scocciatori e testardi se non viene ascoltata o seguita la loro linea.
La mia posizione comunque è questa: noi studiosi abbiamo un compito, un diritto, un dovere
proprio etico e morale di consigliare. Poi ai responsabili della politica di scegliere e decidere,
tanto, ad un certo momento, la democrazia funziona e dovranno rendere conto. Questo è il
nostro compito, e non possiamo pretendere per forza che vengano applicate le nostre idee.
Voglio, da ultimo, ricordare, come anche nel caso dell'energia e del nucleare il presidente Segni
e poi lei, presidente Colombo, faceste moltissimo.
Un vivo ringraziamento, infine, al Direttore della Biblioteca del Ministero, Dr. Sanna, per aver
invitato il prof. Paoloni e me ad illustrare la figura di un grande uomo politico in riferimento
soprattutto ad un periodo e ad iniziative cruciali per la storia dell’evoluzione civile dell’Italia.
Note
1 Fu in questa contingenza - ricorda il coautore di questa relazione Gian Tommaso Scarascia
Mugnozza - che si verificò l’unico suo molto indiretto avvicinamento all’orbita del Presidente
Segni. Scarascia faceva allora parte da poco del primo nucleo di ricercatori del CNRN grazie alle
ricerche di radiobiologia e radiogenetica vegetale che conduceva da un paio d’anni e per le quali
era stata incluso nella delegazione italiana alla suddetta Conferenza di Ginevra. Ippolito, sapendo che il fratello Carlo, deputato DC, era vicino a membri del governo, gli chiese di incontrarlo per
prospettargli le stringenti motivazioni di un colloquio col Presidente Segni.
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