Voce per Treccani 2001
L’euro
Dopo essersi chiesti a lungo se l’Italia ce l’avrebbe fatta a far parte dell’euro, molti ora, alle
prese con la nuova moneta, si staranno forse chiedendo “ma chi ce l’ha fatto fare?”. Il passaggio
dalla lira all’euro comporta in effetti una serie di inconvenienti – soprattutto moltiplicazioni e
divisioni, per 1936,27 che ci fanno perdere di vista la portata dell’evento storico, che coinvolge
circa 300 milioni di europei. Solo alla fine del percorso, quando “ragioniamo” in euro e avremo
dimenticato la vecchia lira, ci si renderà veramente conto dei vantaggi e di quanto era complesso
avere 12 o più monete in Europa; ci si sarà completamente dimenticati degli inconvenienti della
transizione, come una madre dimentica i dolori delle doglie appena vede il neonato.
Cerchiamo allora di alleviare le doglie, non solo abituandosi rapidamente alla nuova moneta
ma anche mettendo in prospettiva gli inconvenienti di breve periodo, rispetto ai vantaggi che si
ottengono con la moneta unica. Per fare questo, pensiamo per un attimo a come sarebbe il vivere in
un mondo ipotetico in cui i paesi europei misurano le distanze ognuno con un metodo diverso: un
paese con il sistema metrico, un altro con quello delle miglia marine, un terzo con le miglia terrestri,
e via dicendo. In questo mondo immaginario, saremmo obbligati, ad ogni valico di frontiera, ad
aggiustare il contachilometri per calcolare le distanze o a usare un convertitore. Non solo,
immaginiamo che il tasso di conversione tra i vari sistemi possa cambiare in qualsiasi momento, su
decisione di uno dei paesi. Un tale mondo ci sembrerebbe assurdo. “Ma perché non adottano tutti lo
stesso sistema?” – ci chiederemmo, senza pensare che passare dall’uno all’altro potrebbe creare per
un certo periodo una serie di inconvenienti – moltiplicazioni e divisioni, per l’appunto.
Parimenti, tra qualche tempo ci sembrerà assurdo aver vissuto in Europa per tanti anni con
monete diverse, franchi francesi, franchi belgi, pesete, dracme, ecc, e averle dovute cambiare
ogniqualvolta si viaggiava in un paese diverso. Il passaggio all’euro ci sembrerà una scelta naturale,
come oggi ci sembra logico che vi sia un sistema di misurazione unico in tutta Europa.
La scelta di adottare una moneta comune ha ovviamente una portata più importante di quella
di un sistema di misurazione unico. Il motivo è che per tanti anni, per secoli, la moneta è stata uno
strumento di potere politico, esercitato a livello nazionale, talvolta direttamente dallo stesso
sovrano, per finanziare i propri debiti. Rinunciare alla propria moneta significa dunque rinunciare a
una parte della propria sovranità, decisione che non può essere presa a cuor leggero.
La decisione di adottare un moneta unica in Europa è stata invece meno drammatica di
quanto si possa pensare, almeno per la gran parte dei paesi, per due ordini di motivi.
Il primo motivo è che in questi paesi europei la moneta è stata progressivamente
“depoliticizzata”. Il potere di battere moneta è stato staccato da quello politico e attribuito a Banche
centrali indipendenti. Si è giunti a questa decisione dopo aver verificato che, nelle mani
dell’esecutivo, lo strumento monetario era stato troppo spesso utilizzato a fini politici di breve
periodo, in particolare prima di elezioni, per il finanziamento della spesa pubblica o per lo stimolo
dell’economia, ma con effetti controproducenti nel più lungo periodo sull’economia. Questo è
andato a scapito della stabilità finanziaria e ha prodotto inflazione, riducendo i risparmi dei
cittadini.
Per resistere alla tentazione di usare in modo inadeguato lo strumento monetario, la maggior
parte dei paesi ha deciso, negli anni di attribuirne la competenza della politica monetaria a banche
centrali rese autonome dal potere politico. Alla politica monetaria è stato attribuito un obiettivo
prioritario: la stabilità dei prezzi. Altri obiettivi, come il sostegno dell’attività economica e lo
sviluppo, possono essere perseguiti solo nella misura in cui la stabilità monetaria non è messa a
repentaglio.
Il fatto che il potere monetario fosse in gran parte già stato devoluto ad autorità indipendenti,
all’interno dei vari paesi, ha reso meno difficile trasferirlo poi dalle autorità nazionali a una autorità
sopranazionale, la Banca centrale europea, anch’essa indipendente dal potere politico e con
l’obiettivo prioritario di mantenere la stabilità monetaria in Europa.
Il secondo motivo che ha reso meno traumatico il trasferimento della sovranità monetaria è
che è molto difficile, in un’area economica integrata, esercitare il potere monetario a livello di
singolo paese. In un’area come quella europea, in cui i paesi sono relativamente piccoli e molto
integrati tra di loro, le condizioni monetarie dei singoli paesi risentono inevitabilmente delle
politiche svolte dagli altri. Senza un elevato grado di cooperazione, le politiche messe in atto dagli
uni rischiano di creare effetti indesiderati sugli altri, e viceversa. Si possono verificare variazioni
repentine dei rapporti di cambio tra le diverse monete, con effetti fortemente distorsivi sulla
competitività delle merci esportate dagli uni e importate dagli altri.
L’esperienza ha mostrato che in un area economica integrata come quella europea, con
libertà di movimento dei beni, dei servizi e dei capitali, è in pratica impossibile perseguire politiche
monetarie autonome e al contempo mantenere la stabilità dei rapporti di cambio tra le monete. Le
variazioni dei tassi di cambio sono state utili fin quando hanno consentito di compensare le
divergenze tra le economie europee, in termini di crescita economica e d’inflazione, soprattutto
dopo gli shock petroliferi degli anni settanta. Con la progressiva convergenza delle economie, negli
anni 1980-90, le variazioni dei rapporti di cambio sono diventate non solo difficili da giustificare
ma anche fautrici di distorsioni competitive tra produttori e consumatori.
Al contempo, l’esperienza degli accordi di coordinamento, in particolare all’interno del
Sistema Monetario Europeo, ha mostrato come è difficile mantenere la stabilità dei rapporti di
cambio in un contesto di piena integrazione finanziaria. La crisi del Sistema, negli anni 1992-93,
con successivi attacchi speculativi, aumenti dei tassi d’interesse e svalutazioni, ha convinto i paesi
europei dei costi elevati che comporta il mantenimento della sovranità monetaria.
Il coordinamento tra le autorità monetarie europee si è così progressivamente intensificato,
basandosi sulla politica del paese con maggior tradizione in termini di stabilità monetaria, la
Germania e con la Banca centrale più autonoma, la Bundesbank. Il proseguimento di questo
processo di convergenza avrebbe portato l’Europa, nel tempo, ad adottare la politica monetaria, e la
moneta, della Germania.
Questo sviluppo non era sostenibile, per ovvi motivi politici. L’Europa non può unificarsi
adottando l’istituzione di uno dei suoi membri, ma creando istituzioni proprie. Alla fine degli anni
1980 si decise dunque di rivedere il Trattato di Roma per consentire la creazione di una moneta
europea, l’euro, gestita da una istituzione europea, la Banca Centrale Europea. Il Trattato che ha
modificato quello di Roma è stato firmato a Maastricht, nel 1991 (riquadro 1).
Il proseguimento del processo di convergenza ha creato le condizioni per decidere, nel
maggio 1998, di avviare l’Unione monetaria a partire dal 1° gennaio 1999. Le banconote e monete
in euro sono entrate in circolazione 3 anni dopo, dal 1° gennaio 2002, per consentire alle banche,
alle imprese, alle amministrazioni pubbliche e ai cittadini di prepararsi in modo adeguato e con
largo anticipo.
In sintesi, la creazione dell’euro è stata agevolata dalle forze di convergenza economica tra i
paesi dell’Unione Europea e dal fatto che la maggior parte dei paesi aveva comunque rinunciato, di
fatto, alla propria sovranità monetaria e deciso di legare il tasso di cambio delle rispettive monete al
marco tedesco. Anche se i paesi avessero mantenuto ancora a lungo i loro segni monetari nazionali,
la politica monetaria sarebbe comunque stata gestita dalla banca centrale tedesca. Continuare a
mantenere la sovranità monetaria in queste condizioni avrebbe avuto solo un significato simbolico,
limitato al mantenimento del nome della moneta e al disegno delle banconote, ma senza sostanza.
L’importanza dei simboli non va comunque sottovalutata. Spiega in parte perché il Regno
Unito, la Svezia e la Danimarca hanno deciso di non partecipare all’Unione monetaria sin
dall’inizio (riquadro 2). Tutte e tre le monarchie, con l’effigie del regnante sulle rispettive
banconote e monetine, meno integrate economicamente con il resto dell’Europa e con Banche
centrali tra le più antiche del mondo, per loro il passo verso l’euro appare ancora più lungo della
gamba. Paradossale è la posizione della Danimarca, che pur mantenendo la sua moneta, la Corona,
ha deciso di legarla all’euro in un accordo di cambio vincolante. La Danimarca aderisce di fatto
all’Unione monetaria, senza esserne membro e senza partecipare ai meccanismi decisionali.
Non va sottovalutata nemmeno la dimensione politica della decisione di unire le monete
nell’euro. Vi sono altre regioni del mondo in cui i paesi sono fortemente integrati tra di loro e
subiscono nondimeno le conseguenze negative delle oscillazioni dei tassi di cambio, senza per
questo decidere di adottare una moneta comune e di rinunciare alla loro sovranità monetaria, come
invece hanno fatto i paesi europei. I fattori di convenienza economica non sono dunque sufficienti
per capire il passaggio storico, senza precedenti, che sta attraversando l’Europa.
L’Unione monetaria è una delle tappe del processo di integrazione politica, in atto, in modo
pacifico, dall’ultimo dopoguerra. In 50 anni, l’unificazione dell’Europa ha compiuto passi enormi in
tutta una serie di settori, economici e politici. I paesi membri hanno rinunciato alla loro sovranità
sulla politica commerciale, la concorrenza, sulla politica industriale e li aiuti di stato. L’Unione
monetaria non è che un tassello di questo processo.
Altre politiche, come quelle della tassazione o di bilancio, sono rimaste di competenza
nazionale perché non è emersa l’esigenza di unificarle. La decisione se accentrare o meno una
politica viene presa dal Consiglio Europeo, in base al principio di sussidiarietà che porta ad
accentrare solo quelle competenze che non possono essere svolte in modo più efficiente a livello
decentrato. Contrariamente a quanto viene spesso denunciato, l’Unione europea non è centralizzata.
Anche l’accusa di eccessiva burocratizzazione cozza contro l’evidenza di una Commissione
europea per cui lavorano circa 20 mila funzionari, meno di quelli impiegati dal comune di una
qualsiasi grande città europea.
Molte competenze non sono state accentrate perché non vi è accordo tra gli stati membri
sulla necessità di rinunciare alla sovranità. Ad esempio, nel settore della tassazione, molti paesi
vorrebbero passare dall’attuale sistema di decisione all’unanimità a uno di maggioranza, ma per
altri, in particolare il Regno Unito, questo equivarrebbe a rinunciare alla sovranità in un settore
essenziale, che è sempre stato una prerogativa dello Stato nazionale.
Nonostante i progressi compiuti, sembra mancare una visione chiara del percorso ancora da
fare e dell’obiettivo da raggiungere, non solo in questo decennio, ma tra 10, 20 e 39 anni. La visione
dei padri fondatori, di creare una Unione federale, a immagine e somiglianza degli Stati Uniti o di
altri paesi federali, è svanita col tempo. Sebbene molti dei passi finora compiuti, inclusa l’Unione
monetaria, siano coerenti con tale fine, la realizzazione di uno stato federale europeo non è più
all’ordine del giorno. La stessa parola “federale”, o “federalismo”, è diventata un tabù. I massimi
pensatori, intellettuali, politici, si stanno scervellando per pensare a un nuovo modello di
aggregazione tra gli stati europei, da sottoporre ai cittadini come modello per il futuro.
Nel frattempo la costruzione europea è sottoposta a forti pressioni, sia centripete, che
spingono ad andare avanti, sia centrifughe, che spingono verso la disgregazione.
Le forze centrifughe sono simili a quelle che, a livello mondiale, portano ad interrogarsi
sugli effetti della globalizzazione. Nonostante la cresciuta integrazione economica e politica, i
cittadini europei non hanno una percezione chiara della loro partecipazione al processo decisionale
europeo, che incide in modo crescente sulla loro vita quotidiana, non sanno chi sia responsabile
delle varie politiche, con chi prendersela quando non sono d’accordo. Il sistema politico europeo è
reso complesso non solo dalla divisione di competenze tra il livello nazionale e quello europeo, e a
volte anche il livello regionale o comunale, ma anche dalla divisione dei poteri a livello europeo. A
pochi cittadini sono chiare le responsabilità rispettive del Parlamento Europeo, del Consiglio, della
Commissione, anche perché queste cambiano, per effetto delle revisioni successive del Trattato di
Roma, effettuate con frequenza crescente. Non era ancora finita la conferenza intergovernativa per
il Trattato di Nizza, nel dicembre 2000, che già veniva indetta la successiva, per rimediare alle
insufficienze dell’ultima.
Nell’incertezza sulle effettive responsabilità, si tende a scaricare la colpa sul livello
sopranazionale, su Bruxelles. I cittadini si sentono lontani dai centri decisionali, non hanno
l’impressione di essere adeguatamente rappresentati. Di conseguenza, non accettano volentieri
ulteriori passi avanti nel processo di integrazione europeo. Ne è dimostrazione ultima la risposta
negativa dei cittadini irlandesi, tradizionalmente molto europeisti, al referendum sul Trattato di
Nizza. In assenza di maggior chiarezza, anche in tema di allargamento, vi è il rischio di una crisi di
rigetto da parte dei cittadini, con conseguenze potenzialmente devastanti.
La principale forza di aggregazione dell’Unione è, per certi versi la sua debolezza. Finora,
ad ogni crisi, economica o politica, è emersa la comune valutazione della insufficiente unità di
risposta dell’Europa e della necessità di rafforzare il coordinamento tra i paesi membri. Ad ogni
passo verso l’ulteriore integrazione in un settore, sono nati nuovi elementi di fragilità in altri, dato
l’elevato livello di interconnessione tra i processi economici e politici. Questo ha accentuato i rischi
di crisi. Si è menzionato sopra come l’aumentata integrazione dei mercati dei capitali nel corso
degli anni 1980 ha reso più difficile la gestione delle politiche monetarie a livello nazionale e ha
portato, nel tempo, all’Unione monetaria.
La stessa Unione monetaria ha a sua volta creato una nuova serie di squilibri, in particolare
nelle materie rimaste nell’alveo delle responsabilità nazionali. Ad esempio, i primi anni di vita
dell’euro hanno evidenziato la necessità di un maggior coordinamento tra le politiche di bilancio dei
paesi membri. Non si tratta di conferire il potere di bilancio all’Unione ma di esercitare meglio le
prerogative nazionali, nell’ambito del quadro di riferimento comune definito dal Patto di Stabilità e
Crescita, che impone ai bilanci pubblici di rimanere in equilibrio nel corso del ciclo economico.
Un altro esempio riguarda le politiche di vigilanza sugli intermediari e sui mercati finanziari.
L’Unione ha la caratteristica peculiare di avere un mercato finanziario sempre più integrato, una
moneta comune e una politica monetaria unica, ma politiche di vigilanza esercitate a livello
nazionale, sebbene sempre più coordinate. Infine, l’euro svolge un ruolo importante nel sistema
finanziario internazionale, ma le politiche finanziarie estere, in particolare nell’ambito delle
istituzioni internazionali come il Fondo monetario, sono rimaste prerogative nazionali. In tutti
questi settori, vi è una riflessione continua su come allocare le varie competenze, tra il livello
nazionale e quello europeo, che si arricchisce con l’esperienza.
L’euro è un traguardo di un lungo processo di convergenza, ma anche una nuova partenza
verso una più forte integrazione dell’Europa. E’ importante che questo processo coinvolga
pienamente i cittadini e i popoli europei.
Lorenzo Bini Smaghi
Alcune tematiche trattate in questo articolo sono approfondite nel volume “L’euro, con la nuova
moneta in tasca”, Il Mulino, 3° edizione, 2001.
Box 1
Paesi che hanno adottato l’euro
Austria
Belgio
Finlandia
Francia
Germania
Grecia (dal 1.1.2001)
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Paesi Bassi
Portogallo
Spagna
Paesi che non hanno ancora adottato l’euro
Danimarca
Regno Unito
Svezia
Box 2
Principali tappe dell’adozione dell’euro
1991
Dicembre. Consiglio Europeo di Maastricht. Adozione del Trattato di
Maastricht
1992-93
Ratifica del Trattato di Maastricht da parte dei Parlamenti nazionali o con
referendum
1994
Gennaio. Costituzione dell’Istituto Monetario Europeo, con il compito
di preparare la Banca Centrale Europea
1998
Maggio. Decisione sui paesi che adottano l’euro
1999
Gennaio. Avvio della terza e ultima fase dell’Unione Monetaria e
introduzione dell’euro sui mercati finanziari
2002
Gennaio. Introduzione delle banconote e monete in euro
2002
Marzo. Le monete e banconote denominate in valute nazionali non hanno più
valore legale