DOVADOLA
Paese di fondovalle, segnato dal corso sinuoso del fiume Montone, che attraversa il
paese in ben due punti; tanto da giustificare il riferimento al latino “Duo vadora”,
ossia due guadi, da cui nasce, appunto, il toponimo del paese, Dovadola.
Dista 20 chilometri da Forlì ed è posta a 140 metri sul livello del mare lungo la valle
dell’Acquacheta. È circondata da verdi colline lussureggianti di vegetazione che le
conferiscono un’invidiabile immagine naturalistica. Di origine antichissima: nel
territorio sono documentate significative persistenze archeologiche di epoca etrusca,
celtica e romana.
Con ogni probabilità il primo nucleo del castello che sovrasta il paese fu costruito da
Longobardi tra il VII e VIII secolo.Successivamente l’attuale assetto urbano si è
sviluppato ai piedi di quello che diventerà il Castello dei Conti Guidi, postazione di
carattere difensivo e pregevole esempio di architettura medievale. i Conti Guidi si
deve il momento di maggior importanza del borgo tra l’XI e il XIV secolo.A del XII
secolo la cittadella appartenne agli Arcivescovi di Ravenna, nel 1100 venne ceduta al
conte Lamberto di Ravenna e quindi ai duchi Traversari; sul finire del secolo si ha
notizia certa che il castello era dei conti Guidi di Modigliana, diventati
successivamente conti di Dovadola. Ampliata e rafforzata con nuova cinta muraria
agli inizi del secolo successivo da Marcovaldo Guidi padre di Guido Guerra, nel 1351
la rocca venne conquistata dalle truppe di Cia degli Ubaldini, moglie di Francesco
Ordelaffi, signora di Forlì, e sette anni dopo fu ripresa dai Guidi.Dopo il tramonto dei
Guidi, Dovadola passò direttamente sotto il dominio della Repubblica Fiorentina
condividendone la storia fino al 1923, anno in cui il suo territorio fu aesso alla
provincia di Forlì. Il territorio provinciale si ingrandì mediante l’acquisizione dei
dodici comuni del circondario di Rocca San Casciano, parte della cosiddetta
Romagna toscana, già della provincia di Firenze. L’operazione, che era già stata
caldeggiata negli anni precedenti alla presa del potere da parte di Benito Mussolini,
ebbe un valore propagandistico, perché consentiva di situare all’interno della
provincia di Forlì le sorgenti del Tevere, il fiume di Roma, in modo da accreditare,
nell’immaginario, il percorso politico di Mussolini, che si presentava come l’ultimo
degli antichi romani, da Predappio a Roma, alla guida del Paese.La Rocca dei Conti
Guidi, che sorge sopra una rupe emergente dal fondovalle è un pregevole esempio di
architettura militare medievale ed ha rappresentato il nucleo fortificato di un sistema
difensivo assai più vasto, comprendente l’intero Castello di Dovadola e una serie di
fortificazioni sparse per il suo territorio quali Castel Ruggero, Montacuto, S. Ruffillo,
S. Martino in Avello, oltre alla torre delle Colombaie e delle Casacce.
Alta trenta metri, quarantasette dal livello stradale, svetta sull’abitato di Dovadola,
appartenne agli arcivescovi di Ravenna, agli abati di San Mercuriale di Forlì, ai
monaci di San Benedetto in Alpe e, infine, ai Conti Guidi, che col suo possesso,
diedero vita al ramo dei Guidi da Dovadola. Marcovaldo Guidi, capostipite della
famiglia e valoroso capitano,la fortificazione del castello che fu munito di cinta,
bastioni, ponti levatoi e un palazzo a uso abitativo.
La rocca è di proprietà del Comune di Dovadola. Non è ancora accessibile al
pubblico seppur da diversi anni sono in complessi e costosi lavori di consolidamento
e di restauro, particolarmente accurati tanto da restituire al monumento tutto il suo
antico fascino ed è l’esempio meglio conservato di fortificazione dei Conti Guidi in
Romagna.
EREMO DI MONTEPAOLO
opo il capitolo di Assisi, avvenuto nel maggio 1221Antoniovenne condotto in
Romagna da fra Graziano. Qui per nove mesi si ritirò in aspra penitenza nell’eremo di
Montepaolo. La presenza del Santo in questa località indusse, nel 1629, il
castrocarese Giacomo Paganelli, miracolato del Santo a far erigere accanto alla grotta
dove il Taumaturgo era solito pregare, una Chiesa. L’edificio e il luogo furono
sconvolti da numerosi fenomeni . Una successiva costruzione, lambita da un vasto
parco, fu edificata in cima al colle. La prima pietra fu posta il 29 giugno 1908 e la
nuova chiesa fu consacrata il 7 settembre 1913. E’ completamente affrescata e
conserva opere d’arte modern e contemporane. Il luogo era caro anche a Benito
Mussolini che vi si recò più volte nel corso delle sue visite in Romagna.
Testimonianza di questo attaccamento, era amico di padre Teofilo Mengoni, è il
campanile della chiesa eretto per suo interessamento, come testimonia una lapide.
Numerosi i fedeli che vi si recano in visita, soprattutto in settembre, mese dedicato al
pellegrinaggio a questo specifico Santuario. All’Eremo si giunge anche attraverso
un’antica mulattiera che parte a fianco del Castello di Castrocaro Terme.
L’Eremo di Montepaolo è il più importante Santuario antoniano in Emilia Romagna
ed è situato in posizione isolata a un’altezza di 425 metri sulle ridenti colline
dovadolesi. Immerso nella natura (non è raro, salendovi, incontrare caprioli,
scoiattoli, istrici, lepri e altri animali), Montepaolo è luogo ideale per ritemprare lo
spirito lontano da traffico e rumore. Di Sant’Antonio il Santuario conserva un’insigne
reliquia ex corpore e la “Grotta” dove il Santo soleva ritirarsi in preghiera.
All’esterno si trovano due percorsi artistici e spirituali: il sentiero della Speranza con
pannelli affrescati che rappresentano la vita del Santo e il iale dei Mosaici, che
conduce alla “Grotta”, dov’è raffigurata la storia di Montepaolo. Voluti da padre
Ernesto Caroli, uno dei fondatori dell’Antoniano e dello Zecchino d’Oro, oltre che di
opere sociali, caritative e culturali, scomparso all’età di 92 anni nel 2009 percorsi
sono stati realizzati coinvolgendo artisti italiani di fama, con una significativa
presenza di forlivesi e romagnoli
A Montepaolo vive, opera e prega per tutto l’anno una comunità di Frati Minori
francescani che estende la propria giurisdizione anche sulla chiesa di San Francesco e
sul
Monastero
delle
Sorelle
Povere
di
San
Biagio,
entrambi
siti
a
Forlì.BENEDETTA BIANCHI PORRO
Benedetta Bianchi Porro nasce a Dovadola (FC) l’8 agosto 1936. Negli anni
Cinquanta si trasferisce con la famiglia a Sirmione, dove si manifestarono i primi
segnali della malattia che l’avrebbe poi portata alla morte, il morbo di Reckinghausen
(tumore che colpisce man mano tutti i centri nervosi).
Terminato il liceo classico, all’età di 17 anni alla Facoltà di Medicina ll’Università di
Milano. La sua carriera universitaria, portata avanti con intensità e passione, viene
intervallata da lunghe degenze, ricoveri, esami e interventi chirurgici e infine
interrotta alla soglia della laurea.
A questo punto Benedetta era sorda, cieca, totalmente paralizzata: gli unici mezzi per
comunicare erano un fil di voce e la mano destra, attraverso la quale i parenti usavano
un alfabeto convenzionale.
Inferma, dal suo letto impara però che la sofferenza è il tramite che Dio usa per farla
arrivare a Lui e quindi, nonostante la malattia, canta le meraviglie della vita e
dimentica se stessa per gli altri.
Nel giugno del 1963 scrive ad un amico: “Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la
mia dimora, ho imparato che esiste una sapienza più grande di quella degli uomini.
Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione
dei secoli”.
Muore il 23 gennaio 1964 a Sirmione. Nel 1976 si apre a Forlì il processo di
beatificazione e nel 1993 Papa Giovanni Paolo II l’ha dichiarata Venerabile.
DOVADOLA E LA TRAFILA GARIBALDINA
Un’epigrafe un tempo collocata alla Badia dei Blanc-Tassinari, poco fuori Dovadola,
dettata nel 1893 da Federico Tosi, rievocava con grande efficacia la successione dei
drammatici eventi che contraddistinsero l’epica fuga di Garibaldi in quell’agosto del
1849:Giuseppe Garibaldi compiuta la meravigliosa ritirata da Roma a S. Marino
disciolta la legione in terra libera con duecento valorosi eludendo il nemico nella
notte del 31 luglio 1849 rapidamente scese dal Titano all’Adriatico. Catturate in
Cesenatico 13 arche, fece vela verso Venezia cinta d’assedio. Avviluppato dai fuochi
della squadra austriaca, trovò scampo presso Comacchio, poi subito nelle spiagge di
Ravenna, ove cercatoa morte, perseguitato come belva, dalle truppe croate fruganti
nelle valli, nei campi, nei boschi, nelle case, vide morirsi accanto né poté seppellirla
l’eroica compagna Anita. Lui profugo insieme col
Leggero difesero, nascosero,
guidarono dalla pineta a Castrocaro generosi romagnoli. Lui accolse e dal 17 al 21
agosto protesse da Pieve Salutare a Monte Acuto e Monte di Trebbo Anastasio
Tassinari con altri dovadolesi consegnandolo salvo al sacerdote Don Giovanni Verità
vero angelo custode del proscritto.
Giuseppe Garibaldi e il Leggero raggiunsero Dovadola nella notte del 17 agosto
1849. Inseguiti dall’esercito austriaco, furono accolti da Anastasio Tassinari, patriota
di Dovadola. Questi li consegnò per poche ore all’ortolano Strocchi che li nascose
nella propria abitazione presso l’orto di proprietà dei Raineri Biscia. Aiutati dal
Tassinari e da Giuseppe Bonaguri, i due fuggiaschi furono trasferiti nottetempo nel
palazzo del conte Campi e, di qui, alle quattro del mattino raggiunsero su di un
calesse la villa di Monteacuto di proprietà di Giuseppe e Domenico Gualdi. Qui il
tenente Leggero ha lasciato memoria del loro passaggio incidendo nello sguincio
sinistro di una finestra rivolta a Est, un messaggio con i caratteri segreti della
Giovane Italia che si conserva tuttora; il messaggio così recita: “stiedro qui attista
Leggero e Garibaldi dalla sera 18 agosto alla sera 21, 1849”. Difatti la sera del 21
agosto Domenico Gualdi accompagnò Garibaldi e Leggero a fondo valle per un
ultimo incontro con il Tassinari e il Bonaguri. Il Tassinari li condusse quindi oltre il
monte Trebbio dove li attendeva per condurli in salvo, il sacerdote modiglianese don
Giovanni Verità. Giuseppe Garibaldi, nelle sue memorie, ebbe parole di riconoscenza
per Tassinari: “Un Anastasio tra gli altri ci accolse e ci custodì in una sua casa dei
monti”.
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