Compiti per le vacanze sì o compiti per le vacanze no

Compiti per le vacanze sì o compiti per le vacanze no?
Alcune riflessioni su una concezione vecchista della scuola
di Elisabetta Dell‟Atti
Questioni di educazione … sotto l’ombrellone!
Costa adriatica, lido balneare frequentato per lo più da famiglie. Giornata particolarmente ventilata:
sfogliare un giornale è un lusso che non ci si può permettere. Mio figlio costruisce castelli di sabbia.
Nell‟ombrellone accanto una vivace conservazione tra quattro donne. L‟argomento mi chiama in
causa come professionista, m‟interessa molto ascoltare il punto di vista dei non addetti ai lavori ma
fruitori del servizio scolastico. Il volume delle loro voci m‟invita a farlo…
Suvvia, non siate perbenisti, non credo che non sia capitato anche a voi, almeno una volta, di
ascoltare le conversazioni dei vicini d‟ombrellone… è un problema di mancata distanza di privacy
tra un ombrellone e l‟altro, non certo di mancata discrezione di chi tende l‟orecchio!
Compiti per le vacanze sì e compiti per le vacanze no: pareri a confronto
Compiti per le vacanze No.
Una donna, madre di due ragazzi di età scolare lamenta la consueta, benché inutile – a suo direincombenza dei compiti per le vacanze. Per la verità la conversazione sull‟utilità o meno dei
compiti per le vacanze nasce quando la donna si vede costretta a chiedere la trousse all‟amica,
impegnata con una pinzetta in un impietoso eccidio dei pochi peli scampati alla recente seduta
dall‟estetista. La donna racconta con vena tragicomica che pochi minuti prima della partenza
avrebbe aperto il primo bagaglio che le era capitato davanti, ficcandovi frettolosamente qualche
libro, dei quaderni e un astuccio recuperati qua e là dalla cameretta dei figli e, rinchiuso
distrattamente il bagaglio, non si sarebbe accorta della sua trousse irrimediabilmente lasciata sul
tavolo di casa.
La donna, convinta sostenitrice dell‟inutilità dei compiti a casa e di come questi abbiano il solo
effetto d‟inseguire le famiglie per tutta l‟estate, a sostegno della sua opinione, riferisce un episodio
accaduto l‟altro pomeriggio, triste presagio – secondo lei – del rompicapo che avrebbe ossessionato
la sua famiglia, rovinando la serenità delle loro vacanze.
Il secondo dei suoi tre figli, aperto il libro delle vacanze, legge il seguente problema matematico:
“Ci sono due coppie di bilance in equilibrio perfetto, ciascuna con due pesi rappresentati da un
numero di simboli (quadrati, cerchi, triangoli). Poiché si sa che il peso del cerchio insieme a quello
del quadrato è di 10 grammi, calcola quanto pesa il triangolo.”
Il figlio, – continua la donna – smarrito, è corso incontro al padre, l‟esperto matematico di casa, che
sonnecchiava sull‟amaca. Inizialmente convinto della facilità del compito, oltre che delle sue
capacità, il padre l‟ha rassicurato e, continuando a farsi cullare dal dondolìo dell‟amaca, ha preso a
leggere con ottimistica fiducia il quesito. Dopo venti minuti era ancora lì che ragionava. A un certo
punto il figlio avrebbe cominciato a perdere la speranza che suo padre lo avrebbe potuto aiutare… e
anche l‟uomo ormai, meno ottimista sull‟immediata risoluzione del problema, si sarebbe seduto
sull‟amaca. Poi sarebbe andato in cucina, prese carta e penna inforcati gli occhiali, si sarebbe seduto
in giardino a ragionare. Concentrato e pronto a vincere la sfida, avrebbe cominciato a
scarabocchiare sul foglio. Il figlio maggiore, ormai sedicenne, rientrando di lì a poco in casa,
avrebbe trovato il vaso del pesce (ormai passato a miglior vita) pieno di fogli rabbiosamente
appallottolati. Incuriosito, ne avrebbe aperto uno e avrebbe visto strani segni per essere il 15 di
luglio: e q u a z i o n i a d u e i n c o g n i t e. Intuendo l‟imminente pericolo, sarebbe sgattaiolato in
camera sua: lui, ormai, poteva scegliere liberamente se, quali e quando svolgere i compiti per le
vacanze. Non poteva certo cacciarsi in un guaio così grande!
Il racconto della donna, che ha una certa verve comica mista ad una teatralità, cattura facilmente la
simpatia delle amiche che la stanno ascoltando, anche grazie al suo accento romagnolo. L‟amica
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che, dopo la veloce depilazione, intanto è passata a un massaggio antistress, commenta l‟episodio
come, in effetti, i problemi più difficili, i temi più noiosi, alla fine li fanno mamma o papà.
Pensiero n. 1.
I compiti per le vacanze uno di quei vecchismi se non da abolire, da riformare.
Effettivamente penso: sdoganiamo questa verità, neppure più tanto nascosta? Insomma, molti
professori sono (siamo) anche genitori? Possibile che i nostri figli siano così diligenti nel risolvere i
compiti per le vacanze? Che non incontrino difficoltà? Che, soprattutto, lo facciano con piacere?
Quante volte, all‟inizio del nuovo anno, noi stessi abbiamo snobbato i compiti per le vacanze,
immaginando in quali condizioni siano stati effettivamente realizzati? E allora perché perpetuare
questo ennesimo rito vuoto? Perché non riusciamo a prendere coraggio e a dire no a uno dei tanti
vecchismi della scuola, che ci fa sorridere quando ascoltiamo i racconti della mamma vicina di
ombrellone, perché in fondo ne condividiamo la posizione? O, forse, semplicemente ci sentiamo
accomunate dalle medesime situazioni familiari?
Maurizio Parodi, dirigente e pedagogo, noto per il suo libro “Basta compiti. Non è così che
s’impara”, in un‟intervista recentemente apparsa sul sito della Giuntiscuola, cita Italo Farnetani,
pediatra e docente, a proposito dell‟inutilità dei compiti per le vacanze. Ecco le parole del pediatra:
Si tratta di un modo di impiegare il tempo inutile e dannoso per la salute del bambino. Le scuole
non chiudono per mandare in ferie gli insegnanti, ma per far riposare gli studenti. Per il loro
benessere fisico e mentale è necessario staccare completamente dallo stress legato
all'apprendimento. E aggiunge: I ‘compiti per le vacanze sono una contraddizione in termini, un
assurdo logico, ancor prima che pedagogico, giacché le vacanze sono tali, o dovrebbero esserlo,
proprio perché liberano dagli affanni feriali: vacanza, in latino vacantia, da vacare, ossia essere
vacuo, sgombro, vuoto, senza occupazioni, e propone per le vacanze: tanto gioco e letture libere, per
liberare gli studenti almeno nel periodo festivo da ciò che definisce l‟incubo feriale dei compiti
(“Hai fatto i compiti?”, “… prima fai i compiti”, “Non hai ancora fatto i compiti…”).
Compiti per le vacanze Sì. La posizione della donna, per la verità, non convince proprio tutte le
donne che l‟hanno ascoltata… Una giovane, di origine srilanchese, che comprende ma non parla
fluidamente la nostra lingua, ha ascoltato con molta attenzione il racconto della signora. Sosta solo
temporaneamente sotto l‟ombrellone, È la baby sitter di un bambino che sta giocando con i figli
delle quattro amiche. È visibilmente sgomenta per quello che ha ascoltato; nel suo sguardo un
impeto che ben controlla, poi arrossisce mentre pare decisa a dire la sua e, quando sembra sul punto
di rinunciare, eccola che, invece, si fa forza e, con l‟imbarazzo tipico di chi sa di esprimersi in una
lingua che non padroneggia e con persone con le quali non ha molta confidenza, prende la parola…
La donna è convinta sostenitrice dell‟importanza dei compiti per “mantenere in esercizio il cervello
e per educare al sacrificio e alla disciplina”. Tanto più che i bambini sono in vacanza per oltre due
mesi, non possono solo giocare per tutto questo tempo: è la posizione della giovane! E, più in
generale, è convinta che la scuola italiana sia molto permissiva e che lo siano ancora di più i
genitori italiani che spesso deciderebbero al posto degli insegnanti cosa sia meglio per l‟istruzione
dei propri figli. La sola idea che dei genitori possano contestare i metodi educativi della scuola la
ritiene una “rovina – già, dice proprio così – per il nostro futuro”.
La romagnola mostra disappunto… La maniaca del restyling-da-spiaggia per un attimo sembra
sottrarsi alle sue amenità, ma poi riprende a massaggiarsi le caviglie… Altre due donne sembrano
spiazzate da quelle parole.
In soccorso della giovane viene una delle due donne. È la nonna del gruppo. Una nonna giovanile
con bandana in testa e tablet in mano, ma che ha un momento di nostalgia e ricorda, con un certo
rimpianto, la sua di scuola. La „scuola delle suorine. E il rigore, il senso del dovere, il rispetto
dell‟autorità, le punizioni e i castighi. L’educazione di un tempo che faceva venire su dritti,
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saldamente ancorati ai principi morali, forti e robusti, non molli come ora. “Certo che vuoi –
conclude quasi sollevata – i tempi sono cambiati, occorre adeguarsi tutti…”.
Pensiero n. 2.
Vacanze estive troppo lunghe e necessità dei compiti per le vacanze, e se fossero… autentici?
Ritornano nelle conversazioni delle donne questioni cruciali dell‟educazione. Per esempio quello
che due mesi di vacanze estive siano un tempo troppo lungo di riposo che non fa bene
all‟apprendimento è tema divenuto quasi anacronistico ormai, per quanto dibattuto. Recentemente
(maggio 2014) è stato ripreso da B. Vertecchi che cita i risultati di uno studio effettuato già da anni
negli USA. La ricerca analizza il fenomeno detto “Summer learning loss”, ovvero vacanze estive
killer. Le vacanze estive eccessivamente lunghe peggiorerebbero la capacità di apprendere dei
ragazzi, ciò sarebbe ancora più significativo in contesti familiari disagiati.
La questione vacanze-troppo-lunghe, in effetti – come quasi sempre quando si affrontano temi
pedagogici – ha evidenti risvolti etici. Ridurre le vacanze estive avrebbe un senso anche
democratico. Permetterebbe di riequilibrare quel gap di performance che è significativo in base al
backgound di provenienza, poiché contesti di vita disagiati, non offrono situazione formative
extrascolastiche stimolanti.
Ancora in questi giorni si discute della possibilità/opportunità delle scuole di restare aperte d‟estate
per contrastare la dispersione scolastica e, sul territorio nazionale, vi sono, ormai, in tal senso,
consolidate e valide esperienze di alcune scuole. Ma con la logica della macchia di leopardo, al
solito.
Dubbio? Non è che per caso i compiti per le vacanze sono anche uno dei soliti modi all‟italiana di
affrontare i problemi? Piuttosto che risolvere il problema: vacanze-troppo-lunghe e conseguenti
danni all‟apprendimento, creando esperienze formative alternative e qualificate, si offrono i compiti
come soluzione-tampone, per tenere in allenamento le menti dei ragazzi? Non è che, invece,
potrebbero determinare un pericoloso effetto collaterale, non voluto – è chiaro – di acuire tra gli
studenti la crescente disaffezione dalla scuola?
Nel vecchismo ancora ben diffuso nella scuola, i compiti delle vacanze riprendono pedissequamente
lo schema dei compiti per casa assegnati durante l‟anno: noiosi esercizi di grammatica, astratti
problemi di matematica, ripasso di argomenti di materie scolastiche, temi spesso avulsi dai contesti
di vita dei ragazzi.
Mi chiedo quanti di noi che abbiano chiesto, per esempio, come compiti per le vacanze la visita a un
museo, l‟ascolto di un concerto, la costruzione di un itinerario di viaggio, l‟osservazione del sistema
solare presso un parco astronomico, la progettazione di città di sabbia con accurati sistemi di
approvvigionamento idrico; l‟osservazione non stiamo forse rischiando di perdere il piacere
dell‟insegnare, di escogitare percorsi di scoperta del sapere che motivino, proposte di lavoro che
promuovano interessi, curiosità, desideri di scoperta… il piacere – dico sì - e non (solo,
quantomeno) il dovere…
Pensiero n. 3. Prima il piacere e poi il dovere: per una concezione motivante
dell’apprendimento. Quanti di voi avranno avuto almeno un insegnante nel loro percorso
scolastico che vi abbia costantemente ripetuto, quasi come una litania martellante, lo slogan prima il
dovere e poi il piacere. Io avevo la mia maestra delle elementari che deve avermelo ripetuto con
una tale insistenza che credo abbia inciso fortemente nello sviluppo della mia personalità! Ma ci
pensate quanti danni ha prodotto uno slogan del genere? Associare il dovere allo studio e il piacere
al gioco, al tempo libero, agli interessi extrascolastici equivale a offrire allo studente una visione
negativa dello studio. Il gioco è il gioco. L‟apprendimento è l‟apprendimento. Possibile che nella
nostra cultura (educativa) non abbia ancora piena cittadinanza l‟idea che il gioco sia
apprendimento? Ma se l‟imparare diventa un gioco, non è più coinvolgente ed appassionante? E se
il lavoro è un gioco non è meno faticoso, più stimolante, più gratificante?
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Possibile che le teorie sulla motivazione, sugli stili di attribuzione, sullo sviluppo della personalità
non abbiano inciso nella nostra concezione dell‟insegnamento?
Una concezione moralistica dello studio, da farsi non per il piacere di farlo, per il gusto personale
della scuola, per l‟adesione convinta, per scelta libera e responsabile, ma per un dovere
esternamente imposto dagli insegnanti piuttosto che dai genitori, quanto può motivare allo studio?
Non solo, quanto può essere ancora concretamente praticabile? Praticabile in una società che non
mette più in cima ai suoi principi costitutivi lo spirito del sacrificio, il senso del dovere?
Si obietterà che la scuola non può assecondare il degrado morale che per taluni è imperante nel
nostro postmoderno modo di vivere. Credo, invece, più realisticamente, che la scuola debba fare un
salto culturale, antropologico, formativo che non ha ancora fatto: costruire il proprio progetto di
formazione intorno ad una concezione motivante dello studio.
Guardate che la questione non è quella di operare una scelta lineare, del tipo out out, sul piano dei
metodi educativi, tra autoritarismo e permissivismo o, peggio lassismo.
Il contrario di dovere, infatti, è piacere, fatica che non stanca, non disimpegno, disinteresse. Il
contrario di gioco non è lavoro, ma infelicità, noia, apatia.
Qui non si tratta, allora, di scegliere se essere a favore o contrari ai compiti per le vacanze, ma
prim‟ancora di chiederci con quale senso li stiamo assegnando? E che senso ha imporli? Davvero
per mantenere in allenamento il cervello dei nostri studenti? O per adempiere all‟ennesimo rito
vuoto nel quale non crediamo più tanto neanche noi?
Qui si tratta di chiederci, quale persona e quale cittadino vogliamo formare.
Quali capacità vogliamo sollecitare nello studente, assegnando compiti durante il periodo estivo? Ci
interessa un ripasso delle nozioni, magari già superficialmente apprese durante l‟anno, o piuttosto
sollecitare la mobilitazione strategica di quanto appreso e la capacità di trasferirlo in altri contesti e
situazioni? Promuovere creatività e spirito d‟iniziativa, capacità di stare e fare assieme agli altri?
Valorizzare le attitudini personali, magari non adeguatamente accolte e sostenute nel corso
dell‟anno, per i tempi ristretti e il programma da finire? E se la risposta a questi interrogativi fosse
stata affermativa, allora ci sarebbe da chiederci: possiamo ancora continuare ad assegnare (magari,
solo) noiosi esercizi di grammatica, astratti problemi di matematica, ripasso di argomenti di materie
scolastiche, temi spesso avulsi dai contesti di vita dei ragazzi e non provare, invece, a „riformarli‟,
come dicevo prima, con qualche proposta di compiti autentici per la vacanze?
Pensiero n. 4. Pensare a ciò che si fa? Ci si potrebbe chiedere: un giro così lungo per dire che
cosa? Esattamente questo: molti i metodi, i mezzi, le scelte didattiche, le possibili soluzioni
organizzativi a disposizione di noi insegnanti e degli educatori in genere. Tutti legittimi nella
misura in cui producono gli esiti attesi. Ma scegliere uno piuttosto che un altro significa avere
chiara la finalità, sapere dove si vuole andare.
Ogni gesto di noi professionisti della formazione, dunque, dovrebbe avere sempre un‟intenzione,
dovrebbe essere sempre il frutto di scelta competente e consapevole del mezzo usato per (tentare di)
ottenere il fine desiderato.
Ogni gesto di noi professionisti della formazione porta sempre il segno di un‟antropologia di
riferimento, anche se implicita; preferire un metodo piuttosto che un altro dovrebbe comportarne,
quindi, sempre il vaglio critico, alla luce delle proprie convinzioni sull‟uomo. È la raccomandazione
di H. Arendt: pensare a ciò che si fa , perché si fa, immaginare le conseguenze delle nostre azioni
qualifica e (re)indirizza la nostra condotta.
Ma richiede una fatica, professionale e umana: un‟autoanalisi per capire le proprie scelte didattiche,
l‟habitus della riflessività – come sostiene Schon – per verificare costantemente lo iato tra teoria e
pratica e aggiustare continuamente il tiro. Una fatica superabile solo se svolgiamo il nostro lavoro
con piacere e non solo per dovere.
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