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OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
anno II - n. 3 - maggio-giugno 2008
Anno II- n. 3 - maggio-giugno 2008 - Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Avvocatidifamiglia
La consulenza tecnica nel diritto di famiglia
Figli naturali: provvedimenti e cognizione
Accordi tra coniugi
La separazione consensuale
Avvocatidifamiglia
Febbraio 2007
MENSILE INFORMATIVO SULLA PROFESSIONE FORENSE IN ITALIA
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
TARIFFA R.O.C. - Poste Italiane S.p.A.- Spedizione in Abbonamento Postale - D.l. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 - DCB Roma
AvvocatidiFamiglia
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Anno II - n. 3 - maggio-giugno 2008
Amministrazione
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Centro studi giuridici sulla persona
Via Nomentana 257, 00161, Roma
tel. 06.44242164
fax 06.44236900
Direttore responsabile
Gianfranco Dosi
([email protected])
([email protected])
Coordinamento redazionale
Cristiana Ubaldi
([email protected])
Comitato direttivo dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia
Gianfranco Dosi (Roma)
Maria Giulia Albiero (Messina)
Gianfranco Barrella (Frosinone)
Claudio Cecchella (Pisa)
Franca Ferrara (Cagliari)
Barbara Maria Lanza (Verona)
Clara Mecacci (Grosseto)
Alessandra Rosati (Prato)
Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto)
Gabriella Stomaci (Firenze)
Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli)
Milano
Hanno collaborato a questo numero:
Simona Paola Bracchi (Pisa), Maria Cristina Campagnoli (Lodi), Francesco Canevelli (Roma),
Claudio Cecchella (Pisa), Fabiola Cianci (Chieti), Maria Stella Ciarletta (Reggio Calabria), Vito
Colucci (Salerno), Emanuela Comand (Udine), Linda D’Angelo (Chieti), Angela Davide
(Chieti), Roberta di Michelangelo (Chieti), Matilde Giammarco (Chieti), Laura Landi (Salerno),
Nica Maria Larizza (Chieti), Gabriella Luccitti (Chieti), Rosanna Perilli (L’Aquila), Claudia
Romanelli (Bari), Rita Russo (Messina), Irene Saba (Pisa), Isabella Saba (Pisa), Vincenzo Sparita
(Salerno).
Stampa: Registri Velox Contabilità
Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4.3.1996
Foto di copertina: Chieti, la cattedrale.
La rivista è inviata agli avvocati in regola con i versamenti della quota associativa stabilita
annualmente dal Comitato direttivo dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia.
SOMMARIO
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
anno II - n. 3 - maggio-giugno 2008
Avvocati di famiglia | n. 3 | maggio-giugno 2008
Sommario
Anno
o III- n.. 3 - maggio
o-giugno
o 2008
8 - Spedizione
e in
n abbonamento
o postale
e 70%
% - DC Romaa
Avvocatidifamiglia
La consulenza tecnica nel diritto di famiglia
Figli naturali: provvedimenti e cognizione
Accordi tra coniugi
La separazione consensuale
Editoriale
Un esposto contro l’Osservatorio (Gianfranco Dosi) 2
Zoom
L’Osservatorio a Chieti (a cura di Matilde Giammarco) 4
Intervista al Presidente del Tribunale di Chieti, dott.
Filippo Bortone (Roberta di Michelangelo e Gabriella
Luccitti) 4
Intervista al Presidente della Corte d’Assise, dott.
Geremia Spiniello (Nica Maria Larizza e Linda
D’Angelo) 6
La realtà della giustizia ecclesiastica a Chieti (Angela
Davide) 7
L’opinione di un avvocato-mediatore: il contributo
insostituibile del percorso di mediazione familiare nel
processo per separazione dei coniugi (Fabiola Cianci) 8
Pianeta carcere: Il diritto alla famiglia e i diritti delle
famiglie. L’opinione della dott.ssa Maria Lucia
Avantaggiato direttore della Casa Circondariale di Chieti
(Matilde Giammarco) 9
Minori
La consulenza tecnica nel diritto di famiglia (Rosanna
Perilli) 12
Mediazione familiare
La mediazione familiare in Italia: quali criticità - seconda
parte (Francesco Canevelli) 16
Giurisprudenza
• Incidenti: il danno patrimoniale futuro spetta anche se
i genitori del minore investito abbiano mezzi
economicamente sufficienti. Cassazione, sentenza 3
aprile 2008, n. 8546 (Irene e Isabella Saba) 20
L’onere di contestazione tempestiva vale anche nelle
cause di famiglia (Il punto di vista Gianfranco Dosi) 24
Massimario di diritto di famiglia 37
Legislazione
Continua il dibattito in merito all’applicazione della
legge 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza
(Emanuela Comand) 42
Riflessioni sulla condizione giuridica dei minori stranieri
non accompagnati (Emanuela Comand) 44
Pari opportunità
La tutela contro le discriminazioni di genere (Claudia
Romanelli) 48
Il principio delle pari opportunità dal Trattato di Roma
ad oggi (Maria Stella Ciarletta) 50
Osservatorio giustizia
Udienza presidenziale ed ascolto del minore nella prassi
del tribunale di Salerno (Laura Landi) 52
L’ascolto del minore nei procedimenti di separazione e di
divorzio (Vito Colucci) 55
Audizione del minore presso il tribunale per i minorenni
(Vincenzo Sparita) 57
L’opinione
Figli naturali: provvedimenti e cognizione (Maria Cristina
Campagnoli) 60
Interventi
Uso ed abuso dei mezzi di correzione e di disciplina nella
famiglia islamica in Italia (Simona Paola Bracchi) 63
In Libreria
La responsabilità civile dell’insegnante, del genitore e del
tutore 64
Dossier
Accordi tra coniugi al momento della crisi coniugale
(Rita Russo) 28
La separazione consensuale tra autonomia privata e
controllo pubblico (Claudio Cecchella) 32
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 1
EDITORIALE
Un esposto
contro l’Osservatorio
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
I
l gruppo dirigente dell’Associazione italiana
degli avvocati per la famiglia e per i minori
(Aiaf) ha presentato nell’aprile 2008 ai Consigli dell’Ordine in cui ha sede una
sezione dell’Osservatorio un
esposto nel quale ha lamentato che il numero
8/2007 della nostra rivista
Avvocati di famiglia - dove è stato pubblicato l’elenco
dei soci dell’Osservatorio in regola con l’iscrizione e
che avevano autorizzato la pubblicazione del loro nominativo e recapito di studio – era intitolato “Albo di
avvocati di famiglia”. Si sostiene malevolmente nell’esposto che, dando all’elenco quella denominazione
l’Osservatorio abbia voluto indurre confusione sulla
natura della pubblicazione ed invadere arbitrariamente la competenze degli Ordini forensi, i soli a poter
pubblicare albi di avvocati. In sostanza l’Aiaf ha accusato i colleghi dell’Osservatorio i cui nomi erano pubblicati nella rivista di scorrettezza deontologica.
Il Comitato direttivo dell’Osservatorio ha immediatamente replicato all’esposto inviando ai Consigli dell’Ordine interessati la comunicazione che riproduciamo in questa pagina precisando che la denominazione
“albo” è stata utilizzata come indicativa di albo interno
all’Osservatorio secondo quanto prevede l’articolo 3
dello Statuto dell’associazione e che gli avvocati dell’Osservatorio nell’approvare la norma statutaria che
prevede la formazione e l’aggiornamento periodico
dell’albo di avvocati di famiglia non hanno mai, neanche lontanamente, pensato alla costituzione di un Albo
analogo o separato rispetto a quello tenuto dai Consigli
dell’ordine. Questa intenzione era ed è totalmente
estranea all’associazione e agli avvocati che hanno inserito il loro nominativo nell’elenco in questione.
È la prima volta che un’associazione di avvocati familiaristi scende in campo contro un’altra associazione di avvocati familiaristi utilizzando non il confronto
e la dialettica ma l’arma dell’esposto ai Consigli dell’Ordine. Anche per questo l’episodio presenta risvolti
inquietanti che non possono essere sottovalutati.
Cerchiamo di riflettere perciò sulle ragioni vere che
hanno dato origine all’esposto che, come abbiamo potuto percepire, rappresenta più il punto di vista di un
2 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
ristretto vertice dell’Aiaf che della maggioranza degli
avvocati aderenti a quell’associazione, come testimoniato dalla titubanza e quasi dall’imbarazzo con cui in
molte sedi quell’esposto è stato presentato.
In gioco vi sono, come al solito, interessi che superano le ragioni di un contrasto sempre possibile tra associazioni che perseguono i medesimi scopi. Interessi
molto evidenti che sono quelli di poter mettere in difficoltà la credibilità e la serietà di una associazione come la nostra avvertita evidentemente come fortemente concorrenziale nella gestione delle attese di aggregazione e di aggiornamento professionale nel mondo
forense nel settore del diritto di famiglia.
Abbiamo avvertito tutti in questi anni – soprattutto
dopo l’entrata in vigore del regolamento del Cnf sulla
formazione continua degli avvocati – l’aspettativa di
molti colleghi non più solo verso le potenzialità che
l’associazionismo di settore offre per la crescita culturale e professionale di ciascuno di noi nell’area in cui
ha scelto di esercitare in via prevalente la professione,
ma anche l’aspettativa verso l’organizzazione di specifici eventi di settore per assolvere agli obblighi formativi.
Gli avvocati che hanno aderito in questi anni all’Osservatorio sono tanti. Siamo un’associazione di 1500
associati distribuiti in oltre 65 sezioni territoriali. Ogni
anno si formano altre sezioni. In questi ultimi mesi ne
sono nate quattro. E ogni pubblichiamo l’elenco aggiornato. Abbiamo programmato in questi anni moltissimi
eventi formativi tutti accreditati dai Consigli dell’Ordine. Segno che siamo un’associazione viva e capace di
elaborare cultura forense.
È inutile nascondere la realtà o usare eufemismi.
L’Aiaf ha mosso all’Osservatorio un vero e proprio attacco al quale non può che rispondersi con fermezza,
leggendo nell’esposto ciò che va oltre le motivazioni
formali che lo sorreggono e cercando di coglierne il
senso politico.
La pretestuosità degli argomenti utilizzati è evidente
e quanto accaduto va purtroppo inquadrato nel contesto di una assurda pretesa di monopolio da parte dell’Aiaf della rappresentanza dell’avvocatura specialistica in un momento in cui particolarmente attraente e
seduttiva deve evidentemente presentarsi per il gruppo dirigente dell’Aiaf la gestione della formazione e
dell’aggiornamento dell’avvocatura specialistica.
L’Aiaf è una associazione forense come le altre e ha
ricevuto solo dai suoi soci, come d’altronde l’Osservatorio, il mandato di rappresentare gli iscritti. Quindi,
EDITORIALE
Il comunicato ufficiale
inviato ai Consigli
dell’Ordine in risposta
all’esposto dell’Aiaf
Roma, 5 maggio 2008
Ill.mo Sig. Presidente
del Consiglio dell’Ordine degli
avvocati
di .......................................
Sig. Presidente
nella mia qualità di Presidente
dell’Osservatorio nazionale sul
diritto di famiglia - Avvocati di
famiglia, comunico alla SV che il
Comitato direttivo della nostra
associazione, preso atto
dell’esposto datato 18 aprile 2008
presentato a diversi Consigli
dell’Ordine dall’AIAF
(Associazione italiana degli
avvocati per la famiglia e per i
minori) avverso il contenuto del n.
8/2007 della rivista “Avvocati di
famiglia” contenente l’elenco di
alcuni iscritti all’Osservatorio e
intitolato “albo di avvocati di
famiglia”, ritiene necessario
svolgere in proposito le
osservazioni che seguono.
Va innanzi tutto precisato che
l’Osservatorio nazionale sul diritto
di famiglia è un’associazione di
avvocati costituita nel 2003 tra
avvocati impegnati
professionalmente nel settore del
diritto di famiglia, distribuiti in
sezioni territoriali corrispondenti ai
circondari di tribunale, ciascuna
con un proprio responsabile.
L’associazione ha lo scopo di
favorire il dibattito e lo studio del
diritto di famiglia, organizza a tal
fine molteplici iniziative di
incontro e di aggiornamento
professionale per le quali ha in
passato più volte chiesto e
ottenuto il patrocinio del CNF e
oggi l’accreditamento da parte dei
Consigli dell’Ordine interessati.
L’associazione ha oggi 65 sezioni e
quasi 1500 soci e pubblica un
periodico (“Avvocati di famiglia”).
L’organismo deliberativo
dell’associazione - cioè il
Coordinamento nazionale dei
responsabili delle sezioni
territoriali – ha deliberato nel 2006,
una modifica dell’art. 3 dello
Statuto prevedendo che a cura del
Comitato direttivo venga ogni
anno pubblicato un elenco degli
avvocati che, all’interno del più
vasto numero di associati,
partecipano con regolarità alle
iniziative di aggiornamento
professionale promosse
dall’associazione. A questo elenco
abbiamo dato il nome di “albo di
avvocati di famiglia” la cui
distribuzione avviene soltanto
all’interno dell’associazione,
attraverso la pubblicazione
dell’elenco in un numero apposito
della rivista inviata ai soci.
L’”albo di avvocati di famiglia” – al
quale fa riferimento l’esposto
dell’AIAF - costituisce il primo e
unico elenco pubblicato
dall’Osservatorio. Contiene, in
particolare, solo i nominativi degli
associati per i quali alla sede
centrale dell’Osservatorio era
pervenuta l’autorizzazione da parte
degli interessati al trattamento dei
propri dati. In particolare, come
precisato nella seconda pagina di
copertina, “in questa prima
edizione dell’albo sono stati
inseriti per sezioni territoriali di
appartenenza tutti gli avvocati
aderenti all’Osservatorio ed in
regola con la quota associativa che
hanno autorizzato l’inserimento
del loro nominativo”.
La diffusione è destinata
esclusivamente agli associati,
attraverso la spedizione postale
della rivista associativa, come
verosimilmente avviene in tutte le
associazioni professionali e non. In
particolare si trattava del n. 8 di
questa posizione dei vertici dell’Aiaf – che trasforma la
corretta concorrenzialità in pretestuoso antagonismo
forense - è del tutto inaccettabile e porterà solo confusione e divisione tra gli avvocati.
Abbiamo a questo punto noi la responsabilità di evitare per quanto possibile questa divisione e questa
confusione.
novembre-dicembre 2007 del
periodico associativo “Avvocati di
famiglia”
La diffusione all’esterno
dell’associazione non è avvenuta in
alcun modo e non è previsto che
avvenga a differenza di quanto
avviene oggi per numerosissimi
elenchi di avvocati i cui nominativi
sono pubblicati su agende legali,
riviste o siti di varie associazioni
professionali o forensi e resi
disponibili in stampa o via internet
anche per i non associati.
Consegue da quanto sopra che
l’unica circostanza differenziale
rispetto ad analoghi elenchi di
avvocati potrebbe essere costituita
dalla denominazione “albo” che
nelle intenzioni dell’Osservatorio
era indicativa della sola
caratteristica di elenco interno
all’Osservatorio.
Mai gli avvocati dell’Osservatorio
che hanno approvato la norma
statutaria che prevede la
compilazione e l’aggiornamento
periodico dell’albo di avvocati di
famiglia hanno, anche solo
lontanamente, pensato alla
costituzione di un Albo analogo o
separato rispetto a quello tenuto
dai Consigli dell’Ordine.
Questa intenzione era ed è
totalmente estranea alla nostra
associazione e agli avvocati che
hanno inserito il loro nominativo
nell’elenco in questione ai quali
non può essere ragionevolmente
mosso alcun addebito.
Con queste precisazioni il
Comitato direttivo
dell’Osservatorio ritiene che con la
pubblicazione in questione non sia
stata violata alcuna norma
deontologica, in quanto si tratta di
una pubblicazione associativa e
interna all’associazione che non
può ingenerare confusione.
Il Presidente
(avv. Gianfranco Dosi)
Per questo l’Osservatorio nel suo progetto formativo
per il 2009 continuerà a dare alle proprie iniziative la
caratteristica di eventi aperti all’incontro e al confronto fra tutti gli avvocati nella convinzione che l’associazionismo forense non può essere strumentalizzato da
nessuno perché costituisce una risorsa per la crescita
di tutta l’avvocatura.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 3
ZOOM
Intervista al Presidente
del Tribunale di Chieti,
Dott. Filippo Bortone
DI ROBERTA DI MICHELANGELO E GABRIELLA
LUCCITTI, AVVOCATI DEL FORO DI CHIETI
L’Osservatorio
a Chieti
LA REALIZZAZIONE DELLO ZOOM DI CHIETI È AD OPERA
DELL’AVVOCATO MATILDE GIAMMARCO DEL FORO DI CHIETI
L
a sezione dell’Osservatorio sul diritto di famiglia – avvocati di famiglia – è nata nel giugno
2004 dall’interesse e dalla buona volontà di dieci colleghe le quali, da sempre, avevano avvertito la necessità di dedicare tempo ed attenzione a quella “fetta” del diritto troppe volte considerato “minore”
ma da noi ritenuto quanto mai attuale e concreto quale quello relativo alle persone, alla famiglia ed ai minori.
L’abbiamo inteso fare, fra l’altro, andando all’osservazione ed all’approfondimento non solo dei temi proposti dalle novità legislative e dalle creazioni giurisprudenziali, ma anche con un’apertura attenta e particolare a tutte le tematiche che si muovono intorno al
“mondo delle famiglie” finanche a quelle di ordine sociologico, psicologico e relazionale.
In tutto questo siamo state sempre supportate dalla
disponibilità e dall’apertura del Presidente e dei magistrati del Tribunale di Chieti nonché dai numerosi colleghi che hanno inteso aderire alla nostra associazione
nonché assicurare ai nostri incontri una fattiva e positiva presenza.
Ci auguriamo che tutto questo possa continuare e
che la nostra associazione possa dare ancora un significativo contributo, in sinergia con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, con la Scuola Forense e con le altre
associazioni alla “formazione permanente” degli avvocati, soprattutto di quelli di famiglia, nonché alla creazione di una significativa risposta ai bisogni delle persone e delle famiglie.
Incontri di studio
dell’Osservatorio
a Chieti
2008
• 28 febbraio: La deontologia
dell’avvocato di famiglia
• 14 marzo: L’amministrazione di
sostegno: riflessioni e prospettive
• 30 maggio: Violazione degli
obblighi di assistenza familiare e
4 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
La ringraziamo per la disponibilità e per il costante
interesse da Lei rivolto alle problematiche
riguardanti il diritto di famiglia e, proprio per
questo, Le chiediamo di fornirci notizie sullo stato
della giustizia teatina in materia di famiglia. Ed in
particolare vorremmo che ci illustrasse come e se
l’entrata in vigore delle leggi 54/2006 e 80/2006 ha
modificato il processo di separazione e divorzio
P
er quanto attiene alla mia esperienza la modifica più rilevante è quella afferente l’affido
condiviso della prole minore, che ha provocato
una macroscopica riduzione dell’affidamento
esercitato in via esclusiva dalla madre, come accadeva in precedenza. Ovviamente, nei procedimenti incardinati congiuntamente dai coniugi, la richiesta di
affido condiviso viene formulata da entrambi i genitori ma, personalmente, ritengo che tale forma di affidamento dei minori non possa essere contrastata
neppure in ipotesi di conflitto tra i coniugi, a meno
che non si parli di ipotesi molto particolari e, comunque residuali, dacchè il tenore delle norme attualmente in vigore appalesa chiaramente come il Legislatore abbia inteso considerare la forma condivisa
come ipotesi imprescindibile di affidamento della
prole nella crisi familiare.
Viene richiesta la difesa tecnica nelle separazioni
consensuali?
In questo Tribunale il ricorso alla difesa tecnica viene sempre attuato: statisticamente solo il 3% delle
coppie si presenta senza l’ausilio di un legale. In questi casi, comunque, cerco di illustrare alla coppia l’opportunità di rivolgersi ad un avvocato per avere maggiore ausilio tecnico giuridico.
Viene effettuata l’audizione del minore?
Personalmente non ritengo opportuno ascoltare i
minori nei procedimenti di separazione e divorzio. Ritengo, infatti, che nella fase acuta della crisi coniugale
i figli siano spesso vittime di pressioni e, pertanto, fa-
Maltrattamenti in famiglia:
orientamenti giurisprudenziali
2007
• 13 aprile: Impugnativa e
modificabilità dei provvedimenti
presidenziali
• 4 maggio: La crisi della coppia
ed i figli nella separazione in
particolare l’ascolto del minore
• 18 maggio: L’attuazione coattiva
dei procedimenti del giudice nel
diritto di famiglia
2006
• 3 febbraio: La nuova legge
sull’affido condiviso
• 18 marzo: I diritti del minore ed
il giusto processo: la tutela
giurisdizionale civile
• 31 marzo: I procedimenti civili
del Tribunale per i minorenni
• 7 aprile: Tendenze e riforme del
processo penale minorile
ZOOM
cilmente influenzabili dai genitori. Le circostanze riferite dai minori non potrebbero che essere il frutto di
manipolazioni operate dal contesto familiare e sociale
che li circonda. Mi sforzo allora di capire i loro bisogni
e la loro volontà attraverso i racconti dei genitori, peraltro uniche parti del processo, e tramite l’esame degli atti e dei documenti prodotti.
E le coppie vengono avviate alla mediazione
familiare?
Io personalmente non le ho mai avviate alla mediazione familiare. Lascio che il percorso della mediazione familiare resti estraneo al procedimento. Molte
coppie giungono alla separazione all’esito dell’intervento di molti soggetti parenti, amici, sacerdoti.
Credo che per poter applicare con esiti positivi la
mediazione familiare sarebbe opportuno che le coppie, sin dal momento iniziale della loro crisi, potessero accedere alla mediazione, sicuramente in un’epoca
molto antecedente a quella della fase giudiziale. Ho
concretamente verificato che ciò non è possibile perché una coppia in crisi riconosce di aver bisogno di
aiuto solo quando le crisi diventano effettivamente
insostenibili.
Si continua ad applicare l’affido esclusivo?
L’affido esclusivo non viene mai concesso, se non
in casi di grave e conclamata incapacità di una dei
genitori all’esercizio della potestà parentale. L’affido
esclusivo, come ho già detto, viene accordato nelle
ipotesi di abusi, maltrattamenti o, comunque, nelle
ipotesi in cui ci siano state violazioni di cui resta vittima il minore. Casi, peraltro, molto rari, all’incirca 3
o 4 l’anno.
Diversamente non ritengo di concedere tale forma
di affido neppure se richiesta, nonostante siano frequenti le richieste in tal senso soprattutto da parte
delle madri.
Le richieste di affido condiviso vengono contrastate?
Devo constatare, purtroppo, che molto spesso le
parti si accaniscono sulle modalità di affido dei minori principalmente alla scopo di farne ricadere gli effetti sull’erogazione dell’assegno di mantenimento ai
minori e sull’assegnazione della casa familiare.
Le richieste di affido condiviso, infatti, vengono
contrastate soprattutto per motivi economici: i padri,
per lo più, lo richiedono al fine di ridurre l’entità del
contributo da versare e le madri, invece, per lo scopo
inverso.
• 12 maggio: Il procedimento di
separazione e divorzio dopo le
riforme del 2005 e del 2006
• 13 maggio: La nuova legge
sull’affido condiviso: riflessioni e
prospettive.
2005
• 25 febbraio: La crisi della coppia
ed i figli nella separazione
• 9 marzo: La mediazione familiare:
analisi delle richieste ed
Quale giudizio darebbe su questi due anni di
applicazione della legge sull’affido condiviso?
A distanza di due anni dall’entrata in vigore della
legge sull’affido condiviso si è registrata una diminuzione delle istanze di modifica delle condizioni di separazione. Quelle introdotte riguardavano principalmente gli aspetti economici. La coppia cerca di voler
mantenere lo stesso tenore di vita avuto in costanza
di matrimonio, ma in molti casi si registra una vera e
propria impossibilità a che questo accada. Spesso il
mio compito è proprio quello di cercare di far ragionare le coppie in crisi sull’irragionevolezza delle loro richieste.
Soltanto dopo la legge del 2006 sono state avanzate
molte richieste di modifica relative alle modalità dell’affido condiviso, ovviamente da parte del genitore
non affidatario.
Pensa che sarebbe utile l’istituzione di una sezione
famiglia del Tribunale ordinario?
Sì, sarebbe assolutamente utile. La specializzazione
consentirebbe una trattazione più competente delle
cause di famiglia che hanno indiscutibilmente una loro complessità non solo tecnico giuridica, ma anche
relazionale. Pertanto, anche se il Tribunale di Chieti
non ha la possibilità materiale di costituire una sezione “famiglia” cerco di realizzare una specializzazione
di fatto al momento dell’assegnazione delle cause.
Quante separazioni o quanti divorzi nell’ultimo
anno?
Nel corso dell’anno appena trascorso i procedimenti di separazione sono stati in totale 349, di cui 155
giudiziali e 194 conclusisi consensualmente, mentre i
procedimenti di divorzio sono stati 164, di cui 76 giudiziali e 88 consensuali. L’anno 2006, invece, aveva visto un numero maggiore di separazioni introdotte
consensualmente 214, mentre 117 introdotte giudizialmente. I divorzi sono stati in totale 159, di cui 73
consensuali e 86 giudiziali..
I procedimenti partiti contenziosi si chiudono consensualmente?
Solo pochi dei procedimenti incardinati come contenziosi si sono chiusi consensualmente e ciò è avvenuto spesso a seguito dell’intervento decisivo del Giudice Istruttore che ha cercato di motivare le parti alla
consensualizzazione illustrando alle stesse l’opportunità di un accordo mediante reciproche concessioni.
individuazione degli obiettivi
• 17 marzo: La mediazione familiare:
dal dissenso al consenso. La
negoziazione degli accordi e le fasi
conclusive
• 30 marzo: La mediabilità e la non
mediabilità del conflitto di coppia.
La mediazione familiare e la Ctu
• 9 aprile: La mediazione nel
contesto giudiziario
• 21 ottobre: L’affidamento dei figli
nella crisi coniugale e le sue
applicazioni alla luce dell’attuale
fermento legislativo
2004
• 24 giugno: L’addebito nella
separazione dei coniugi:
orientamenti giurisprudenziali e
prospettive di riforma
• 21 ottobre: L’assegno di
mantenimento nella separazione e
nel divorzio : quali criteri per la
determinazione?
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 5
ZOOM
Alcune riflessioni sul diritto penale
della famiglia
Intervista al Presidente
della Corte d’Assise,
dott. Geremia Spiniello
DI NICA MARIA LARIZZA E LINDA D’ANGELO,
AVVOCATI DEL FORO DI CHIETI
Buongiorno Presidente, La ringraziamo per la disponibilità che ci ha voluto riservare. Secondo i dati in possesso del Suo ufficio, quali sono i reati in aumento e quali
quelli, invece, in diminuzione nell’ambito delle relazioni
familiari?
I
reati di cui maggiormente ci occupiamo sono quelli
previsti e puniti dagli articoli 570 e 572 c.p. direi in
prevalenza il 570 circa 50 casi l’anno contro i 30 casi
dell’articolo 572. Per quanto concerne il reato di abuso, in dibattimento, ne arrivano 7 o 8 casi l’anno. Il trend è
abbastanza costante, non ci sono state oscillazioni significative . Dico questo sulla scorta di una valutazione comparativa dei dati degli ultimi tre anni.
Per quanto riguarda l’applicazione dell’art. 570 c.p. vorrei dire che per far venire meno i mezzi di sussistenza va
valutato attentamente il rapporto tra la sussistenza dello
stato di bisogno dell’ avente diritto alla somministrazione
dei mezzi indispensabili per vivere, al mancato apprestamento di tali mezzi da parte di chi vi è obbligato. Di qui
scaturisce che non è la mera violazione dell’obbligo imposto dal giudice che da sola può integrare il delitto. Ne consegue che il provvedimento del giudice civile non fa stato
nel giudizio penale né in ordine alle condizioni economiche del coniuge obbligato né per ciò che riguarda lo stato
di bisogno dell’ avente diritto ai mezzi di sussistenza, circostanze queste che dovranno essere necessariamente
accertate in concreto.
A suo avviso è possibile estendere la disciplina relativa
alla violazione degli obblighi di natura economica alla
convivenza more uxorio?
È possibile in linea teorica anche se devo dire che non
mi sono occupato di casi di convivenza. Credo che la convivenza viene vista sempre in una chiave ancora molto
privatistica e comunque non viene portata all’attenzione
del giudice penale.
Vi sono casi di abuso dei mezzi di correzione? Come e
quando il Tribunale di Chieti ritiene sussistere nell’azione
del colpevole la volontà di correggere, rispetto a quella di
ledere?
Non vi sono casi di abuso dei mezzi di correzione in
senso stretto le fattispecie sono quasi sempre riconducibili alle ipotesi di abbandono, se parliamo di minori, oppure a quelle previste e punite agli articoli 582 e 583 c.p.
I maltrattamenti familiari, nella realtà teatina, chi
colpiscono, chi sono gli aggressori, chi le vittime, quale
fascia sociale interessano e da quali fattori culturali sono
originati?
Normalmente i maltrattamenti familari posti all’attenzione del giudice penale, sono quelli relativi al rapporto
6 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
coniugale. A volte riguardano rapporti endofamiliari di altra natura, soprattutto relativi a famiglie con soggetti tossicodipendenti che entrano in contrasto con i propri familiari. Per quanto concerne i casi concreti, non è necessario,
a mio avviso, che i singoli atti di maltrattamento costituiscano di per sé reato. Qualora però i singoli atti lesivi ex
at. 572 c.p. configurano reati autonomi sarà necessario valutare se vi sia concorso con il reato di maltrattamento o
siano assorbiti da esso. Si ritiene cioè che ci possa essere
continenza quando i maltrattamenti consistono in percosse, minacce, ingiurie perché il comportamento maltrattante normalmente si realizza ponendo in essere tali
comportamenti. Più problematico è il rapporto con il reato
di lesioni poiché le lesioni volontarie non costituiscono
elemento essenziale del delitto di maltrattamenti. Possono inoltre concorrere anche con il reato di violenza privata o di violenza sessuale. Laddove la violenza o le minacce
del soggetto attivo vanno adoperate nell’intento di costringere la vittima ad attuare un comportamento che altrimenti non avrebbe posto in essere volontariamente o
laddove l’autore dei maltrattamenti ha posto in essere
eventi lesivi della libertà sessuale.
Sul piano concreto lei ha trattato casi di illeciti endofamiliari o diversamente quelli esofamiliari, nel caso
concreto quali sono prevalenti nelle crisi familiari?
Nell’ipotesi di abuso, in particolare, parliamo prevalentemente, per i casi trattati da questo Tribunale, di abuso
esofamiliare in cui l’abusante fa parte del cerchio amicale
o comunque di conoscenze della famiglia ma non è soggetto interno alla famiglia stessa. Si tratta quasi sempre di
adulti conosciuti dai bambini vittime dell’abuso. I casi dicevo che arrivano in dibattimento sono sette o otto l’anno
e nell’80% delle situazioni vittime sono le bambine.
Nei processi di abuso, quali sono le iniziative di supporto
che vengono adottate per la testimonianza del bambinovittima? Si può parlare di ascolto protetto?
I bambini vengono normalmente ascoltati dal giudice, a
volte viene utilizzato lo strumento della consulenza specialistica ma solo nei casi in cui si intravede una situazione patologica. Il giudice utilizza tecniche comunicative
per far stare il bambino tranquillo e metterlo a suo agio
compreso quello di far allontanare dalla vista del bambino lo stesso imputato. Si cerca di fare il minor numero di
domande possibili lasciando che il bambino racconti la
sua storia ed al di là del detto si cerca di leggere anche il
comportamento non verbale, tutti i segnali che il bambino invia al suo interlocutore. Tutto questo se l’audizione
del minore non è avvenuta in sede di incidente probatorio.
È favorevole all’adozione di un “protocollo d’intesa” che
metta in comunicazione, secondo un linguaggio
condiviso, le diverse personalità professionali per la
valutazione di forme di prevenzione e del rischio di
recidiva nei reati in materia familiare?
Sono assolutamente favorevole alla creazione di una
rete attraverso la condivisione di un protocollo di intesa
tra i vari soggetti – magistratura, forze dell’ordine, servizi –
che possano lavorare in sinergia tra loro per dare risposte
sempre più attente, anche in ambito penale, al mondo famiglia.
ZOOM
La realtà della giustizia
ecclesiastica a Chieti
DI ANGELA DAVIDE,
I
AVVOCATO DEL FORO DI CHIETI
l matrimonio religioso più diffuso nella società italiana è quello celebrato secondo il rito della Chiesa
cattolica che fa proprio un concetto di matrimonio
molto preciso nei suoi elementi essenziali. L’impostazione personalistica del Concilio Vaticano II ha sottolineato che il matrimonio costituisce un’intima comunità di vita e di amore, nella quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono “prestandosi un mutuo aiuto e
servizio con l’intima unione delle persone e delle attività”. Il matrimonio canonico ha quindi natura contrattuale dato che si perfeziona con lo scambio del consenso
degli sposi. Requisiti a completamento della fattispecie
negoziale sono anche la capacità dei soggetti e la forma
stabilita. Tale trattazione non può prescindere, comunque, da una premessa relativa all’ordinamento giudiziario della Chiesa cattolica e agli uffici che lo compongono
con particolare riferimento alla Regione Abruzzo.
Il territorio nazionale è suddiviso in regioni ecclesiastiche che non necessariamente coincidono con le regioni politiche e in tali regioni, fin dal 1938 sono stati istituiti diciotto Tribunali di Prima istanza. Per la seconda
istanza, per ogni tribunale regionale è stato designato
un altro tribunale regionale competente a decidere le
cause d’appello fatta eccezione per i tribunali del Lazio,
della Campania, della Sardegna che fanno riferimento al
Tribunale d’appello del Vicariato di Roma.
Avverso le sentenze dei Tribunali di prima istanza è
sempre possibile ricorrere al Tribunale apostolico della
Rota Romana.
Il Tribunale ecclesiastico regionale Abruzzese, con sede a Chieti, è il Tribunale per la trattazione e definizione
in primo grado delle cause matrimoniali delle diocesi di
Avezzano, Chieti-Vasto, Lanciano-Ortona, L’Aquila, Pescara-Penne, Sulmona-Valva, Teramo-Atri, Trivento e ha
come sede di Appello il Tribunale Interdiocesano di Benevento.
Nel Codice di Diritto Canonico i giudizi di nullità del
matrimonio sono espressamente considerati processi
aventi natura pubblica dato che vanno ad incidere su
questioni riguardanti lo stato e la capacità delle persone
e sono idonei a incidere su situazioni sia di natura patrimoniale che di natura personale. Tale natura pubblica si
riflette nel novero di persone a cui è attribuita la legittimazione di adire il Tribunale ecclesiastico. Tale legittimazione spetta, infatti ai coniugi e al promotore di giustizia che è un organo nominato dal Vescovo in ogni Diocesi con il compito specifico di provvedere alla tutela
dell’interesse pubblico e per le cause penali. In particolare per quanto riguarda le cause matrimoniali, il promotore di giustizia è legittimato ad impugnare il matrimonio se la notizia della probabile nullità del vincolo si è
diffusa e si pone in contrasto con l’interesse primario
della comunità ecclesiale.
Il Tribunale ecclesiastico della Regione Abruzzo ha
quindi competenza territoriale sui matrimoni concordatari e religiosi contratti in Abruzzo (regola generale) vigendo la regola del foro del convenuto e, in alcuni casi,
quello del foro territoriale se la maggioranza delle prove
deve essere raccolta nel territorio abruzzese.
Per quanto concerne la competenza per materia, il Tribunale ecclesiastico tratta prevalentemente cause di
nullità matrimoniale. Le statistiche ci dicono che nell’anno 2006, nel Tribunale ecclesiastico di Prima istanza
con sede a Chieti, sono state introdotte 86 cause di nullità, ne sono andate a sentenza 89 di cui 79 si sono pronunciate a favore della nullità del vincolo mentre 10
hanno confermato la validità dello stesso.
La nullità del matrimonio può essere pronunciata solo
qualora il giudice raggiunga la c.d. certezza morale ovvero la convinzione che il vincolo sia invalido. La certezza
morale non può essere identificata nella certezza assoluta su quanto affermato e riscontrato nel corso dell’istruttoria ma deve essere considerata come una convinzione che per il giudicante è in grado di escludere ogni
fondato dubbio a partire dalle risultanze degli atti di
causa dato che non è possibile attingere elementi di
convincimento da fonti esterne alle prove acquisite ed
esaminate nel corso del giudizio. La certezza morale può
derivare anche da un solo documento o dalla dichiarazione di un solo teste.
Partendo dalla considerazione che ogni matrimonio
coram Ecclesia è assistito da alcune presunzioni nel senso che deve essere ritenuto valido fino a quando in giudizio non venga raggiunta la prova contraria posta a carico di colui che ne afferma la nullità, è necessario sottolineare come il matrimonio sia dotato di propri fini al
cui raggiungimento è diretto. Tali fini che devono essere
intesi quali fines ipsius operis, sono elencati dal canone
1055 §1, e si identificano nel bonum coniugum e della
generatio et educatio prolis. Accanto ai fini, il can. 1056
prevede le c.d. proprietà essenziali del matrimonio individuate nell’unità e nell’indissolubilità.
Il matrimonio è invalido quando si ravvisi un’intentio
contra substantiam matrimonii, ovvero quando ci sia da
parte del contraente un positivo atto di volontà che si riveli essere contrario ad uno o a più tra i fini e le proprietà sopramenzionate. Del pari è invalido il matrimonio che si rilevi contrario alla dignità sacramentale o che
presenti delle anomalie nella formazione del consenso
(c.d. vizi) siano esse di natura psichica o fisica.
Il capo di nullità introdotto più frequentemente nel
Tribunale di Chieti è l’esclusione dell’indissolubilità che
si verifica quando uno o entrambi i coniugi si accostano
al matrimonio con la riserva mentale che il vincolo matrimoniale possa essere sciolto. La tutela di tale proprietà parte dalla considerazione che l’esigenza di perpetuità è profondamente congruente con la verità del
vincolo coniugale dato che non si può parlare di vera autodonazione se questa non è irrevocabile.
La causa simulandi costituisce il motivo che ha spinto
il nubente a simulare il consenso e deve riguardare il
matrimonio concreto che si voleva contrarre.
Secondo la prassi comunemente adottata dai Tribunali ecclesiastici di prima istanza, per poter accedere alla
richiesta di nullità deve esserci una separazione civile o
quantomeno una richiesta di separazione dinanzi al Tribunale ordinario. Il Tribunale Ecclesiastico verifica che i
coniugi siano effettivamente separati e che comunque
abbiano residenze diverse. Deve essere certa la non convivenza che può essere accertata e dichiarata anche dal
parroco.
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ZOOM
La caratteristica principale del procedimento e quindi
l’obiettivo fondamentale è l’accertamento della verità sul
vincolo sacramentale. Non interessano né le colpe né le
dinamiche che si sono sviluppate all’interno della coppia
coniugale. Nel giudizio ordinario c’è attenzione sulla vita
coniugale al fine di dichiarare l’intollerabilità della convivenza. Nel giudizio ecclesiastico l’intollerabilità della
convivenza è solo una circostanza che va a confermare i
motivi dedotti alla base della richiesta di nullità. L’esigenza dell’accertamento della verità dà al giudice un’ampia
discrezionalità in ordine all’ammissibilità delle prove
proposte dalle parti e anche un’ampia discrezionalità nel
poter disporre d’ufficio mezzi di prova dato che è l’istruttoria, specie quella incentrata sulla fase prematrimoniale, a rappresentare il vero fulcro del procedimento.
La prova più utilizzata è la prova per testi ferma naturalmente la primaria importanza attribuita alle dichiarazioni delle parti rese in sede di interrogatorio soprattutto
se accompagnate da testimonianze concordi e da circostanze antecedenti, concomitanti e susseguenti coerenti
a quanto affermato. Nulla toglie che possano essere nominati dei periti con il compito di aiutare il giudice a raggiungere una maggior consapevolezza sulle cause che
possono aver portato all’invalidità del vincolo. La perizia,
nel caso di indisponibilità di uno dei coniugi, può essere
effettuata anche sugli atti di causa anche se il giudice
può sempre discostarsi dalle conclusioni dei periti dato
che questi non partecipano alla funzione giudicante.
L’istanza avente come fine e oggetto la pronuncia di
nullità del vincolo matrimoniale, ha fine con la sentenza
con cui il collegio dei giudici dà una risposta affermativa
o negativa ai quesiti posti.
Una figura fondamentale nel processo matrimoniale è
rappresentata dal difensore del vincolo, il cui intervento,
a norma del can.1432, è obbligatorio. Il suo compito è
propriamente quello di far valere tutto ciò che ragionevolmente può essere utile a difesa della validità del vincolo matrimoniale. Al difensore del vincolo, nominato
dal Vescovo in presenza degli stessi requisiti soggettivi
previsti per il Promotore di giustizia, è riconosciuta la
medesima posizione processuale delle parti private sia
in ordine al potere di iniziativa sia in ordine al diritto di
aver udienza (can.1434).
Esaurita la fase istruttoria, quindi, dopo il decreto di
pubblicazione degli atti e dopo il decreto di conclusione
in causa, si arriva alla sentenza che definisce il processo
e che ha una struttura particolare dato che si divide in
tre parti. Una prima parte, denominata fattispecies, è
riepilogativa dei fatti, una seconda (in iure) è diretta ad
esporre le norme, la giurisprudenza e i principi attinenti
al caso esaminato, e una terza (in facto) cerca di rispondere, attraverso ad un’attenta esposizione delle dichiarazioni, delle confessioni, delle circostanze, al dubbio formulato, quindi al capo di nullità invocato.
É principio consolidato nel diritto canonico che la sentenza di prima istanza dichiarativa della nullità del matrimonio, non produca effetti sul vincolo. Per produrre
tali effetti deve essere confermata da una pronuncia di
un Tribunale di istanza superiore. I mezzi di impugnazione, infatti, comunemente previsti, sono la querela di
nullità e l’appello che viene disciplinato in modo diverso
a seconda che la sentenza di primo grado abbia optato
per la nullità o per la validità del matrimonio.
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L’opinione di un
avvocato-mediatore:
il contributo insostituibile del
percorso di mediazione
familiare nel processo per
separazione dei coniugi
DI FABIOLA CIANCI,
V
AVVOCATO DEL FORO DI CHIETI
iviamo in un’epoca in cui i livelli di consapevolezza individuale, di informazione e di
conoscenza, sono maggiori rispetto a quelli
delle epoche passate.
Parimenti accresciuti sono gli interventi tecnici e
specialistici che, se ben utilizzati, consentono di tutelare e di migliorare la propria esistenza e quella
dei propri figli.
Per dare un esempio concreto a queste mie considerazioni generali, “gioco” ad immaginare e ad avvicinare due sistemi posti al servizio dell’uomo che,
sebbene distanti tra loro, funzionano secondo identica metodologia: il lavoro ad “incastro” di esperti professionisti. Mi permetto di affiancare l’attività dei
medici che lavorano in equipe a quella degli operatori della giustizia che si occupano delle separazioni
dei coniugi.
Ed infatti, come il povero paziente che deve sottoporsi ad un intervento chirurgico è assistito dal chirurgo, dall’anestesista, dal ferrista, dal cardiologo,
dall’infermiere e da altri professionisti e/o tecnici,
così i coniugi ovvero una coppia di fatto, una coppia
genitoriale, che si trova nella contingenza di volersi doversi separare, possono essere seguiti da varie figure qualificate: il giudice, l’avvocato, lo psicologo,
l’assistente sociale, il mediatore familiare.
Ciò che mi preme mettere in evidenza è che, in
ciascuno dei due ambiti, quello “medico” e quello
“giuridico”, il contributo apportato da ciascun professionista non è complementare e accessorio a
quello di un altro, bensì insostituibile, unico.
Scopriamo, a questo punto, seppur assai succintamente, le ragioni per le quali l’intervento del mediatore familiare, nell’ambito separativo, a mio modesto
avviso, è insostituibile e non accessorio a quello del
giudice, degli avvocati, e degli altri collaboratori della
giustizia.
Nel ciclo vitale della coppia può accadere, infatti,
che ci si allontani per poi riavvicinarsi, oppure, ci si
allontani fino a perdersi. In quest’ultimo caso la distanza, la solitudine, la paura della perdita, spesso
non vengono elaborate. Il dolore che diventa intollerabile si trasforma in silenzio; il silenzio in giudizio e
pregiudizio dell’uno verso l’altra. Le richieste manifestate in modo sbagliato diventano offese. Le emozioni sono intrappolate. La coppia soffoca, non vive
più, non interagisce. Il rapporto si pietrifica.
ZOOM
Il processo per separazione senza l’apporto dell’attività di un esperto mediatore priva i configgenti, innanzi tutto, della possibilità di dare voce alle loro
emozioni nascoste. Ogni confliggente è “tanti io”: si
è madre, donna, amante, padri, mariti uomini, delusi, offesi. Il mediatore presta attenzione e dà voce, ai
tanti io e spinge gli antagonisti ad impegnarsi, in prima persona a “provvedere” ed a “decidere” del loro
avvenire e di quello dei loro figli. La mediazione è
un’esperienza di riflessione, di pausa, di elaborazione, di ricostruzione di un rapporto diverso.
I dati raccolti a seguito di ricerche svolte all’estero,
in particolare in America, dove la mediazione viene
praticata da almeno un ventennio, segnalano un elevato livello di soddisfazione tra chi ha sperimentato
la mediazione, sia dal punto di vista dei risultati ottenuti che per il processo vissuto. L’esperienza positiva di comunicazione nel processo di negoziazione
con l’ex-coniuge, crea i presupposti per una possibile
intesa anche in futuro, qualora ci saranno da affrontare nuovi problemi legati all’educazione dei figli. Altri dati (di provenienza canadese – Università di
Montreal) sostengono che nel 97% dei casi ove è stata utilizzata la mediazione, gli alimenti sono stati
pagati regolarmente, mentre, laddove è stata seguita
la procedura tradizionale, questo obiettivo è stato
raggiunto solo nel 66 % dei casi.
Inoltre, il percorso mediativo fa da contrappeso al
sistema giudiziario nel senso che alleggerisce il livello emotivo che grava su magistrati, avvocati e consulenti tecnici i quali, spesso, sono costretti a decidere
in maniera superficiale e affrettata del destino di figli e genitori. Inoltre esso riduce il ricorso alle perizie
e, soprattutto, rende più responsabili i genitori che
sono chiamati ad essere tali proprio in un momento
di massima crisi familiare, quando i figli hanno più
bisogno di loro due insieme.
Conclusivamente proprio perché sono profondamente convinta della estrema necessità ed utilità
dell’intervento del mediatore nel processo di separazione di una coppia, esorto i lettori affinché aiutino
le parti a considerare una sconfitta il fatto che altri,
sia pure in buona fede e con le migliori attenzioni,
decidano del loro avvenire e di quello dei loro figli. Il
momento della mediazione deve avvenire prima dello jus dicere e i genitori dovrebbero essere aiutati a
comprendere i vantaggi di potere essere, insieme,
protagonisti assoluti dell’avvenire della loro famiglia.
So bene che non tutto è mediabile e che certe situazioni di violenza e umiliazioni non sono negoziabili ma non ci si deve stancare, in tutti gli altri casi,
di cercare alternative pacifiche alle dispute.
Pianeta carcere: Il diritto alla
famiglia e i diritti delle
famiglie
L’opinione della dott.ssa
Maria Lucia Avantaggiato
direttore della Casa
Circondariale di Chieti
DI MATILDE GIAMMARCO,
AVVOCATO DEL FORO DI
CHIETI
In che senso possiamo parlare di diritti delle famiglie
o di diritto alla famiglia in carcere?
Il sistema penitenziario italiano è regolato dalla legge
354/75 - come via via, più volte ed in tempi successivi
modificata - e dal suo regolamento di esecuzione Dpr
230/2000.
Detto impianto normativo di riferimento, a sua volta,
è conforme alla Costituzione italiana e ne rappresenta
la massima applicazione, con particolare riguardo ai
diritti fondamentali della persona, in un ambito d’intervento, qual è, per l’appunto, quello del carcere, in cui
particolarmente subdola ed allettante potrebbe essere
la tentazione di negare e violare i diritti fondamentali
della persona, posto che, spesso, i detenuti ospiti, con
le loro criminali condotte, molto hanno dimostrato in
termini di disumanità ed antisocialità.
Alla luce di tale contesto normativo, dunque, non solo “possiamo”, ma “dobbiamo” parlare di diritti alla famiglia e della famiglia e riconoscere a tali posizioni la
più ampia tutela garantita dal nostro ordinamento.
Le chiedevo appunto cosa fanno gli operatori
penitenziari per garantire tali diritti?
Agli operatori penitenziari è richiesto molto. È richiesto loro di andare oltre il momento del mero ed astratto riconoscimento dei diritti alla famiglia e della famiglia. È richiesto loro di creare per il detenuto le migliori
condizioni possibili di esercizio del diritti relativi alla
famiglia e, dunque, di consentire in via fattuale l’esercizio di tali diritti.
E vi è di più: gli operatori penitenziari, ove, rinvengano nella storia personale e sociale del detenuto, delle
criticità nelle relazioni familiari, hanno l’obbligo di intervenire e di attivare risorse per il recupero od il ripristino di adeguate condizioni familiari.
Il riconoscimento della famiglia nel sistema penitenziario non si limita, quindi, solo al riconoscimento dei
diritti della famiglia, ma si estende anche all’ambito
dei doveri nella famiglia, al dovere di conservazione dei
rapporti familiari, al dovere di mantenimento anche
economico delle figure parentali significative e, dunque, per quanto possibile, al dovere di “accudimento”
dei legami affettivi.
Un sistema complesso quello del penitenziario anche per altro verso; infatti, il riconoscimento dei diritti
e dei doveri familiari non riguarda solo ed esclusivamaggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 9
ZOOM
mente la famiglia fondata sul matrimonio, ma si estende sino ad abbracciare le famiglie di fatto, le convivenze ed, in generale, le relazioni affettivamente significative.
Quali i principi ispiratori di tale intervento?
Lasciando a fondamento di tutto il nostro discorso i
principi fondamentali sanciti nella carta costituzionale
il principio del rispetto della persona, il principio di
uguaglianza a parità di condizioni e l’obbligo di trattamento rieducativo sono esplicitati nell’art. 1 della legge
penitenziaria.
In particolare, è ribadito nel diritto positivo speciale
l’obbligo di tendere al reinserimento sociale dei condannati , in base al criterio della individualizzazione
del trattamento stesso e delle specifiche condizioni
soggettive. Sono affermazioni essenziali quelle contenute nell’art. 1 della legge 354/75 ed approfondite, poi,
con l’art. 13 ( individualizzazione del trattamento) sulle
quali fondare il diritto alla famiglia, tipica situazione
soggettiva e formazione sociale per eccellenza .
L’art. 4 della stessa legge prevede che i detenuti esercitino personalmente i diritti derivanti loro dalla legge
e compatibili con lo stato di detenzione . È così sancito
il fondamento normativo del diritto alla famiglia di certo non incompatibile con la detenzione, se si fa, evidentemente eccezione, per la impossibilità di convivenza familiare .
E che sia insopprimibile il diritto alla famiglia, sia pure in regime di detenzione, è sancito con particolare vigore dall’art. 14quater dell’ordinamento penitenziario.
L’articolo citato prevede contenuti assai restrittivi del
regime di sorveglianza particolare e salva, però, dalle
restrizioni di trattamento (“in ogni caso le restrizioni
non possono riguardare…”) proprio i colloqui con coniuge, convivente, figli, genitori, fratelli.
In particolare i rapporti con la famiglia come sono
regolamentati dalla legge penitenziaria?
I rapporti con la famiglia sono individuati, innanzitutto, dall’art. 15 della legge tra gli elementi rieducativi
del trattamento.
I colloqui e la corrispondenza con i familiari ricevono, poi, dettagliatissima disciplina nell’art. 18 della legge , nonché 37, 38, 39 e 40 del regolamento. È questo un
capitolo fondamentale, infatti, per la rieducazione del
condannato. È noto che alla base dei comportamenti
criminosi sia spesso un irregolare rapporto familiare
che ha condizionato la crescita dell’individuo ed è opinione largamente condivisa che, al contrario, la famiglia può , nel suo complesso, esercitare un’influenza
positiva per la rieducazione ed il reinserimento della
persona. Da qui la necessità avvertita dal legislatore di
favorire, attraverso i colloqui e la corrispondenza, il
riavvicinamento alla famiglia ed il ruolo positivo ad essa riconosciuto nella risocializzazione del condannato.
I colloqui devono essere sempre autorizzati dal Direttore, ma essi costituiscono un diritto del detenuto e,
pertanto, il provvedimento del direttore non è assolutamente discrezionale.
Particolare attenzione viene accordata dal legislatore
ai locali nei quali devono svolgersi i colloqui, rispetto ai
10 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
quali, poi, pur non venendo meno il diritto-dovere di
controllo, lo stesso è decisamente moderato , in quanto
meramente visivo, quale garanzia per la privacy e l’intimità comunicativa.
L’ordinamento penitenziario dedica, inoltre, cura al
mantenimento dei rapporti con i figli minori attraverso
le dettagliate previsioni dell’art. 21bis (assistenza all’esterno di figli minori), dell’istituto della detenzione domiciliare (47ter) e della detenzione domiciliare in casi
speciali (47quater), del beneficio dei permessi premio
per coltivare interessi affettivi, dei permessi di necessità in caso di imminente pericolo di vita di un parente
o familiare.
Anche il dovere di mantenimento economico trova
riconoscimento e disciplina nell’ordinamento penitenziario. Si vedano, in proposito, gli articoli in tema di invio di denaro ai familiari e di corresponsione di assegni
familiari per i detenuti lavoranti con familiari a carico
(art. 23)
Esplicita ed incisiva la previsione dell’art. 28 dell’ordinamento penitenziario: «particolare cura è dedicata a
mantenere , migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie», ambito nel quale opera con
competenza esperta ed esclusiva un servizio sempre
dipendente dal Ministero della Giustizia, già denominato Centro di Servizio Sociale ed attualmente Uepe
(Unità di esecuzione penale esterna).
Da non dimenticare nel settore del mantenimento
dei rapporti con la famiglia il contributo offerto dal volontariato, così come previsto e disciplinato dagli articoli 17 e 78 della legge penitenziaria.
In base al principio del mantenimento, da parte del
detenuto, dei rapporti con la famiglia espressamente
enunciato nell’articolo 28 l. cit. è stato anche previsto
dall’articolo 29 l. cit. che le persone introdotte in un
carcere debbano essere poste nelle condizioni di informare tempestivamente i familiari, come pure nelle
condizioni di conoscere, eventi luttuosi o gravi infermità che abbiano interessato loro o i familiari stessi.
Il diritto alla famiglia è ulteriormente supportato anche dalla previsione dell’articolo 42 della legge 354/75
che sancisce il principio di favorire in caso di trasferimento dei detenuti istituti prossimi alla residenza delle
famiglie.
In carcere è consentita la celebrazione di matrimoni
ed il riconoscimento di nascite e conseguente genitorialità con la particolare “delicatezza” della omissione
negli atti di stato civile della avvenuto accadimento in
carcere (si veda l’articolo 44 della legge).
E per concludere questa sintetica carrellata sulle norme fondanti il riconoscimento del diritto alla famiglia
nel penitenziario, il riferimento all’articolo 45 ordinamento penitenziario, che prevede l’azione di assistenza
alle famiglie dei detenuti, finalizzata a conservare e
migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari ed a
rimuovere le difficoltà che possono ostacolarne il reinserimento sociale, in collaborazione con enti pubblici e
privati qualificati nell’assistenza sociale.
Un impianto normativo ben sistematizzato, dunque,
completo e complesso che sulla base della Costituzio-
ZOOM
ne fonda il riconoscimento del diritto alla famiglia e
della famiglia nel penitenziario, ne fissa i principi, ne
riconosce gli istituti essenziali e ne individua anche gli
operatori chiamati a creare le effettive condizioni di
applicazione di quei principi : operatori penitenziari,
esperti psicologi, assistenti sociali, volontari, enti pubblici e privati.
So che questa direzione è molto attenta alle
dinamiche familiari. Cosa fa o potrebbe fare
l’amministrazione penitenziaria per salvaguardare o
agevolare le relazioni familiari dei detenuti?
Nel sistema penitenziario il servizio funzionale alla
tutela delle relazioni familiari dei detenuti è un servizio complesso, in cui intervengono più componenti, talune attinenti alla struttura (edilizia penitenziaria), altre alle risorse umane disponibili (personale di polizia,
educativo e di servizio sociale) ed alla loro formazione,
altre ancora al piano delle relazioni (detenuto-istituzione, detenuto-personale penitenziario, detenuto-familiari, familiari-istituzione, familiari-personale penitenziario, familiari-detenuto), altre, infine, al piano dell’organizzazione interna.
Mi piace paragonare il servizio rapporti dei detenuti
con la famiglia ad un puzzle; infatti, detto servizio è
formato da tanti “pezzi” giustapposti e tali da essere
tutti necessari ed essenziali al servizio in parola.
Il servizio colloqui detenuti-familiari è, però, al tempo stesso, molto più di un puzzle, in quanto i vari “pezzi” - identificabili in: struttura, personale, detenuti, familiari, organizzazione interna – non si limitano ad essere giustapposti, come appunto nel puzzle, ma sono
fortemente interconnessi tra di loro, si influenzano vicendevolmente e sono in continua relazione ed interelazione. In altri termini, la struttura sul colloquio, incidono la struttura, l’organizzazione ed anche, le relazioni tra personale e detenuti. È quasi intuitivo, poi, comprendere come quanto sopra detto si amplifichi nel caso in cui la relazione familiare preveda la presenza al
colloquio in carcere di figli minori.
Tale premessa reputo sia essenziale per rispondere
alla domanda postami, in quanto l’amministrazione
penitenziaria per salvaguardare ed agevolare le relazioni familiari in carcere deve intervenire su tutte le componenti sopra elencate. È infruttuoso un intervento che
voglia essere di salvaguardia del diritto alla famiglia
per i detenuti e che, al tempo stesso non intervenga sui
luoghi della struttura definiti e dedicati all’ accoglienza
dei familiari, alla loro identificazione, al loro controllo,
al deposito dei pacchi portati, allo svolgimento del colloquio, nonchè sul personale penitenziario, sulla sua
formazione e sull’organizzazione interna del servizio.
Un servizio colloqui può dirsi rispondente al principio di legalità, perché conforme alle previsioni normative della Costituzione, della legge penitenziaria e del
diritto comunitario, solo nella misura in cui predispone
spazi adeguati di accoglienza dei familiari dei detenuti,
spazi adeguati allo svolgimento del colloquio stesso,
momento delicatissimo in cui la persona reclusa rientra, sia pure, nel tempo brevissimo concessogli, in contatto con gli affetti, i legami, le emozioni; l’attenzione
per gli spazi deve poi essere tanto più profusa, quanto
più si pensi alla presenza di figli minori.
Ritengo che il concetto di adeguatezza degli spazi si
sostanzi, in definitiva, nella predisposizione di luoghi
anche nella forma rispettosi della persona, perché puliti, non angusti, funzionali ai bisogni del controllo, senza per questo essere lesivi della dignità umana. Spesso
l’indisponibilità di risorse economiche diviene pretestuosa per l’amministrazione penitenziaria. La carenza
di fondi per la ristrutturazione delle sale colloqui , sacrosanta e cronica, finisce con l’essere ostativa anche
per la realizzazione di quegli interventi minimi, ma essenziali. Più che specifici stanziamenti sono necessarie
attenzione, sensibilità ed un po’ di creatività quantomeno per tinteggiare le pareti delle sale colloqui con
colori rasserenanti, piuttosto che di tetro grigio.
Per l’accoglienza dei familiari, alla carenza di stanziamenti per ristrutturazione dei locali, si potrebbe
sopperire con l’adozione da parte del personale di polizia di modalità comportamentali e relazionali improntate al rispetto della persona ed alla professionalità,
piuttosto che al pregiudizio ed all’arroganza sull’errato
presupposto che i parenti dei detenuti sono anche essi
poco affidabili.
Un’amministrazione penitenziaria che vuole e deve
agevolare le relazioni familiari dei detenuti deve investire in formazione del personale, con ricaduta positiva
certa sia sull’organizzazione interna che sulle relazioni.
Quali progetti sono stati portati avanti da questa
amministrazione per raggiungere tali obiettivi?
Innanzitutto è stato realizzato un luogo per i colloqui
tra detenuti e figli minori. Una stanza, che abbiamo
chiamata “allegra”, uno spazio colorato e ricco di giochi
dove il genitore possa interagire con il proprio figlio
nella maniera più diretta possibile. La stanza con i colori dell’arcobaleno eviterà ai bambini, che nessuna
colpa hanno per le scelte dei padri, il trauma dell’impatto con l’ambiente carcerario. La stanza allegra è la
prima fase di un progetto più ambizioso volto a fornire
ai padri ed alle madri detenuti l’opportunità di riflettere sulla possibilità di vivere, anche all’interno dell’istituto, una genitorialità più consapevole e responsabile.
A tale progetto ha aderito parte del personale di polizia
penitenziaria perché, come spiegavo, qualsiasi attività
svolta all’interno dell’istituto per giungere ad un buon
risultato, deve trovare un’utile sinergia tra tutte le componenti presenti.
Parte del personale ha aderito a dei laboratori sulla
genitorialità consapevole, che li ha visti impegnati ad
una riflessione sulla propria genitorialità nonché all’acquisizione di tecniche di osservazione e di comunicazione assolutamente utili alla costruzione di una significativa relazione, nell’ottica che siamo andati evidenziando, con i genitori detenuti e le loro famiglie.
Il progetto vedrà come momento conclusivo l’istituzione di un punto di ascolto permanente, con la collaborazione di personale qualificato, in Istituto che possa
dare utili risposte ed accompagnare i detenuti, madri e
padri, e le loro famiglie verso una gestione consapevole
della propria genitorialità.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 11
MINORI
La consulenza tecnica nel
diritto di famiglia
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Sezione di Pescara
Incontro del 4 aprile 2008
DI ROSANNA PERILLI, AVVOCATO DEL FORO DE L’AQUILA
L’evoluzione della CTU nel diritto di famiglia
L
a consulenza tecnica nel diritto di famiglia ha da
sempre trovato il suo naturale spazio di operatività nella fase istruttoria dei giudizi di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti
civili del matrimonio, la cui natura di giudizi a cognizione piena ha consentito lo svolgimento di tutti i mezzi
di prova ammessi dal codice di procedura civile.
Più raramente, pertanto, la CTU è stata utilizzata nella fase presidenziale di detti procedimenti, ai fini dell’emanazione dei provvedimenti provvisori assunti nell’interesse dei figli minori.
Il terreno più fecondo per lo sviluppo della CTU è stato, tuttavia, quello dei procedimenti di competenza del
Tribunale per i minorenni, direttamente incidenti sui
diritti fondamentali del minore e dei suoi parenti, in via
gradatamente più intensa, da quelli de potestate sino a
quelli per la dichiarazione dello stato di adottabilità.
Chiaramente si è sempre fatto un largo uso della CTU
nelle azioni di stato, nelle quali, però, viene in rilievo un
profilo scientifico di tipo biologico che non attiene alla
nostra indagine, ristretta ad un profilo scientifico di tipo psicologico.
L’evoluzione della CTU nel diritto di famiglia ha fortemente risentito dello stravolgimento del quadro normativo nazionale e sovranazionale verificatosi negli ultimi anni che ha elevato il minore da oggetto a soggetto
di diritti.
Mi riferisco, in particolare, alla Convenzione sui diritti
del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con la legge 176/91 ed alla Convenzione
europea sull’esercizio dei diritti dei minori stipulata a
Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata dall’Italia con la
legge 77/2003, le quali hanno affermato il diritto del minore al pieno sviluppo della personalità e ne hanno assicurato l’effettiva esplicazione, prevedendo, all’uopo,
tutta una serie di prerogative sostanziali e processuali.
Altra novità dirompente nel panorama costituzionale
è stata la modificazione dell’articolo 111 Cost. ad opera
della legge costituzionale del 23 novembre 1999, n. 2,
che ha reso operante il principio del giusto processo in
12 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
ogni più recondito angolo della giurisdizione.
L’introduzione di tali principi generali ha determinato la legge 54/2006; tra le nuove disposizioni introdotte
nel codice civile dall’articolo 1 della legge, quella che
più direttamente ci riguarda è l’articolo 155sexies, intitolato “Poteri del giudice e ascolto del minore”.
La predetta norma consente al giudice di assumere,
anche nella fase presidenziale, ad istanza di parte o di
ufficio, mezzi di prova, limitatamente all’adozione dei
provvedimenti relativi all’affidamento dei figli minori
ed al contributo per il mantenimento dei figli, specificando, per quest’ultimo obbligo, all’articolo 155 u.c., un
particolare mezzo di prova, l’accertamento tributario
sui redditi e sui beni dei genitori.
Il campo della nostra indagine si restringe, dunque, ai
mezzi di prova volti a determinare i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli minori, tra i quali spicca,
per importanza ed utilità, la CTU psicologica.
L’articolo 155sexies è stato inserito nella disciplina
codicistica della separazione giudiziale; tuttavia, per
espresso dettato dell’articolo 4 della novella 54/2006,
esso trova applicazione anche nei giudizi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ed in quelli relativi ai figli di genitori non coniugati; più in generale, utilizzando il ragionamento a similia, si estende a qualsiasi procedimento in cui viene
in considerazione la possibilità di decidere sull’affidamento, anche provvisorio,di un minore.
Nel silenzio del legislatore deve ritenersi, perciò, che
l’articolo 155sexies sia applicabile anche al procedimento di separazione personale, poiché:
a) la CTU è pacificamente ammessa nei procedimenti
di volontaria giurisdizione;
b) l’articolo 155 comma 2 riconosce cittadinanza ai
patti tra genitori riservando, però, al giudice un controllo di opportunità, lo stesso che gli riserva nel procedimento di separazione consensuale e che il giudice ben
può esercitare avvalendosi dell’ausilio di un consulente
tecnico;
c) la fase presidenziale del procedimento di separazione giudiziale è sostanzialmente identica al procedimento di separazione consensuale.
Con l’ovvia limitazione che il giudice della separazione consensuale, nel valutare la conformità dell’accordo
sull’affidamento all’interesse dei figli minori, non potrà, a differenza del giudice della fase presidenziale della separazione giudiziale, imporre ai coniugi un provvedimento provvisorio reso nell’interesse del minore, ma
potrà solamente:
a) omologare la separazione consensuale;
b) negare la omologazione;
c) riconvocare i coniugi ai sensi dell’articolo 158,
comma 2 c.c.; tale norma dimostra che al giudice è conferito un controllo sugli accordi che non è di sola legalità ma si estende all’opportunità, alla valutazione dell’interesse indisponibile del minore; è proprio in quest’ipotesi che trova spazio l’espletamento della CTU
psicolgica, finalizzata ad individuare il reale interesse
del minore ed a proporre ai genitori la scelta di nuovi e
più efficaci accordi in ordine al suo affidamento.
Il legislatore tace sull’ammissibilità della previsione
di cui all’articolo 155sexies anche nella disciplina del
nuovo sub-procedimento introdotto con l’articolo
MINORI
709ter c.p.c., ribattezzato come procedimento de potestate.
Presupposti applicativi di tale procedimento, volto a
garantire l’effettività dei provvedimenti resi nell’interesse del figli minori e dell’esplicazione dei rapporti genitoriali sono:
a) l’emanazione di un provvedimento di affidamento
provvisorio;
b) l’attualità del procedimento nel quale è stato adottato il provvedimento;
c) l’insorgenza di controversie in ordine all’esercizio
della potestà genitoriale o alle modalità di affidamento.
All’esito di tale sub-procedimento il giudice, che è il
medesimo del procedimento principale, adotta le misure opportune o modifica il provvedimento provvisorio
in vigore; l’eadem ratio sottesa ai due procedimenti,
cioè la piena ed effettiva tutela dell’interesse del minore, giustifica l’applicazione analogica dell’articolo
155sexies c.c. anche al procedimento di cui all’articolo
709ter c.p.c. ed è, comunque, desumibile dall’ordinamento il principio che ogni volta che il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di opportunità in relazione ad un interesse di primaria importanza, è necessario e doveroso prevedere l’espletamento di un’ampia
attività istruttoria, in assenza della quale la tutela dell’interesse verrebbe, di fatto, frustrata.
Numerosi sono i mezzi di prova di cui ci si può avvalere in tutti i procedimenti, dalla prova documentale alla prova testimoniale, dall’inchiesta dei servizi sociali
alla CTU di tipo psicologico.
I larghi poteri officiali che l’articolo 155sexies riconosce al giudice rappresentano uno sviamento dai principi della domanda, dell’onere della prova e della terzietà
del giudice ai quali è saldamente improntato il processo civile: può accadere, infatti, che i momenti logicamente distinti della richiesta, dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione della prova si concentrino
tutti in capo al giudice, che è pure lo stesso soggetto
che decide la controversia.
L’apparente anomalia del sistema è, tuttavia, ampiamente giustificata dal rilievo primario dell’interesse del
minore al pieno sviluppo della personalità che è un interesse di natura pubblicistica (Cassazione 5719/04 ed
8424/04) effettivamente tutelabile solo nella misura in
cui viene sottratto alla disponibilità delle parti in conflitto.
Occorre sottolineare che l’articolo 155sexies prevede
che il giudice può assumere mezzi di prova anche ad
istanza di parte, con ciò volendo, oltre che assicurare il
diritto processuale delle parti-genitori alla massima attuazione della difesa, innanzitutto evidenziare il loro
diritto-dovere di perseguire, in primis, l’interesse materiale e morale dei figli.
I contenuti della CTU psicologica
In conformità a quanto previsto dagli articoli 61 e 62
c.p.c., anche la CTU psicologica, volta a contribuire all’emanazione del provvedimento sull’affidamento dei
figli minori, può essere di due tipi:
a) la c.d.”consulenza deducente”, prevista dall’articolo 61 c.p.c., nella quale il giudice può farsi assistere da
esperti ai quali chiede di effettuare delle valutazioni
tecniche, quali quella sulla capacità genitoriale piutto-
sto che quella sull’esistenza di una patologia; occorre
tenere ben presente che il consulente, col mettergli a
disposizione le proprie conoscenze scientifiche, presta
al giudice gli occhiali, ma sarà pur sempre compito del
giudice “leggere” l’indagine peritale e decidere in base
al principio del libero convincimento.
Quello del CTU è un ruolo di semplice assistenza al
giudice, il quale è peritus peritorum: egli, infatti, potrà
fare proprie le valutazioni tecniche fornitegli dal CTU,
motivando de relato, oppure potrà, alla luce di risultanze probatorie acquisite aliunde, discostarsene in tutto
od in parte e, in tal caso, dovrà fornirne adeguata motivazione;
b) la c.d. ”consulenza percipiente”, prevista dall’articolo 62 c.p.c., nella quale il consulente compie le indagini demandategli dal giudice e procede, pertanto, all’accertamento di fatti, quali i disagi psicologici presentati dal minore o la costituzione di altro nucleo familiare da parte di un genitore; in tal caso il giudice è obbligato a tenere in considerazione i fatti per come accertati e ricostruiti dal CTU e potrà solo compararli con quelli raccolti in seguito ad altri mezzi di prova.
Nella prassi i due tipi di CTU tendono ad omogeneizzarsi poiché il giudice spesso chiede al consulente di
esprimere giudizi tecnici ed anche di accertare dei fatti;
tale prassi, racchiusa nella formula generica e stereotipata dell’“accertato ogni fatto ed elemento utile, dica il
CTU se...” è condivisibile nella misura in cui venga disposta per esigenze di economia processuale e sempre
che i fatti dei quali viene demandato l’accertamento
siano specifici e strettamente necessari alla formulazione del giudizio tecnico richiesto, pena l’inquinamento dell’obiettività e della serenità di giudizio del consulente.
Il conferimento di una CTU globale, di tipo deducente
e percipiente, non esclude, tuttavia, il dovere del giudice di mantenere distinti i ragionamenti logici sui quali
fonda il proprio convincimento: quello sulla valutazione dei fatti accertati e quello sulla bontà del giudizio
tecnico espresso dal suo ausiliario.
La CTU psicologica dev’essere, infine, nettamente distinta dall’inchiesta dei servizi sociali che è il mezzo di
prova utilizzabile per acquisire al procedimento informazioni sulle dinamiche familiari.
Sulla scorta dell’accennata prassi che tende ad omogeneizzare le differenti tipologie di CTU, si tende oggi a
demandare al consulente anche tale accertamento sociale, che si colloca a metà strada tra l’accertamento di
fatti e l’espressione di un giudizio tecnico formulato essenzialmente in via prognostica; si ammette, infatti,
che possa essere conferito al CTU il quesito sull’opportunità dell’affidamento del nucleo familiare ai servizi
sociali (Cassazione 1032/1986).
Non pare, invece, apprezzabile la prassi di porre a
fondamento delle decisioni sull’affidamento dei minori
le valutazioni di tipo psicologico di cui spesso ridondano le relazioni dei servizi sociali, se non altro per l’ovvia
considerazione che i servizi sociali non sono ausiliari
del giudice.
Finalità della CTU psicologica
Il fine precipuo della CTU psicologica è l’emersione
del reale interesse del minore, difficilmente afferrabile
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 13
MINORI
nella sua effettiva consistenza, specialmente in situazioni a così alta densità di conflitto come quelle legate
alla crisi genitoriale.
L’essenzialità e la delicatezza di tale interesse è tale
da richiedere, sin dalla sua iniziale messa in pericolo,
una valutazione oggettiva e seria che può realizzarsi
solamente dopo l’espletamento di una soglia minima
di attività istruttoria, dal momento che lo stesso non
potrà mai emergere dalle contrastanti ed imparziali
prospettazioni delle parti-genitori.
Nei procedimenti che coinvolgono l’affidamento del
minore l’interesse in gioco è talmente alto che nessuno
dei soggetti coinvolti - che dovrebbero essere tutti dotati, ad iniziare dai difensori, di particolari competenze
tecniche psicologiche - può permettersi di compiere degli errori; è vero che il provvedimento provvisorio sull’affidamento dei figli può essere in ogni momento modificato, anche se non siano mutati i presupposti di fatto sui quali è fondato, ma ciò che dobbiamo realmente
chiederci è se corrisponda al reale interesse del minore
che ciò accada: spesso, infatti, il rimedio si rivela peggiore del male poiché, anche quando la modifica non
appare rilevante, considerata dal punto di vista del minore, rischia di provocare uno sconvolgimento di relazioni affettive che poggiano su equilibri delicati ed
oscuri.
Sono sempre più convinta che se il provvedimento
provvisorio di affidamento necessita di essere modificato, il più delle volte significa che qualcuno ha sbagliato nel prospettare o nel valutare l’interesse del minore:
ecco perché dobbiamo tutti assumere l’impegno di incrementare le nostre conoscenze tecniche e di rispettare le regole deontologiche, utilizzando tutti gli strumenti a nostra disposizione, oltre a tutta la nostra sensibilità, per far sì che il provvedimento provvisorio sull’affidamento diventi, almeno nei suoi tratti essenziali, un
progetto di vita serio e duraturo per il minore e per i
suoi parenti, sul quale il giudice possa ricalcare la sentenza che definisce il procedimento.
Al fine di evitare continue modificazione degli equilibri familiari, l’articolo 155sexies ha introdotto un istituto nuovo, la facoltà del giudice di differire l’udienza presidenziale per consentire alle parti di “rinegoziare” l’assetto degli interessi mediante la mediazione familiare e
per assumere un provvedimento provvisorio serio e
stabile, in quanto concordato.
Ci auguriamo tutti che la CTU esperita nella fase presidenziale porti all’assunzione di un provvedimento
provvisorio che soddisfi gli interessi di tutte le parti in
causa, anche alla luce delle modifiche processuali apportate ai procedimenti di separazione e di
“divorzio”dalla legge 80/2005 che ha espressamente
avallato il così detto “rito romano” nella convinzione
che il rito bifasico sia il più adatto a perseguire la riconciliazione delle parti.
Occorre, d’altro canto, evidenziare che la CTU espletata nella fase presidenziale, dunque prima della costituzione in giudizio delle parti, è finalizzata esclusivamente all’ottenimento del provvedimento provvisorio e
che, perciò perde efficacia nella fase del giudizio ordinario (Dosi G., L’affidamento condiviso, in www.minoriefamiglia.it, pag. 11 e ss.).
14 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
Le tecniche volte ad ottenere la massima emersione
del reale interesse del minore
Possiamo passare all’esame delle tecniche più adatte
ad ottenere la massima emersione del reale interesse
del minore nell’ambito dell’espletamento della CTU
psicologica.
Innanzitutto occorre valutare tale interesse ponendosi esclusivamente dal punto di vista del minore; la giurisprudenza, nazionale e sovranazionale, è costantemente improntata in tale direzione, soprattutto in tema
di rapporti c.d. “significativi”, considerando tali quei
rapporti che siano carichi di contenuti affettivi per il
minore e non per i suoi familiari.
Quali quesiti potranno essere formulati al consulente? Sarà utile che egli riferisca in ordine ai seguenti
aspetti:
a) sulla valutazione della personalità del minore, in
particolare sul suo grado di maturità; occorre qui prestare la massima attenzione affinché l’accertamento
del consulente non si estenda a valutare il grado di credibilità del minore, poiché tale giudizio deve essere formulato all’esito dell’acquisizione di tutti gli elementi
probatori e, pertanto, è demandato esclusivamente al
giudice.
Per tale ragione sarebbe inutile e scorretto porre al
consulente un quesito sull’attendibilità delle manifestazioni di volontà e delle dichiarazioni del minore;
b) sull’individuazione dei sintomi c.d. ”aspecifici”,
cioè di quei disturbi che il minore presenta (ansia, depressione, disturbi del sonno, del comportamento, dell’alimentazione, rabbia, sensi di colpa, tendenza ad isolarsi, sfiducia negli adulti, ecc..) non direttamente ricollegabili ad una specifica situazione di pregiudizio che,
infatti, ben può sussistere in assenza di sintomi; in tal
caso il consulente sarà chiamato a formulare una diagnosi di compatibilità tra sintomi e fatti pregiudizievoli,
affermando se i disturbi riscontrati nel minore siano
compatibili o meno con una situazione di pregiudizio
imputabile ai genitori od a terzi, ma non potrà spingersi a ravvisare un nesso causale tra i riscontrati sintomi
di sofferenza psicologica e determinati fatti pregiudizievoli, sia pure nell’ipotesi che l’accertamento di tali
fatti gli sia stato demandato nell’ambito della medesima CTU; se così fosse, infatti, il consulente si sostituirebbe al giudice nella valutazione delle risultanze probatorie, identificando il giudizio tecnico, che necessariamente dev’essere connotato da un certo grado di
astrattezza, col giudizio decisorio che è un giudizio di
valore. Come già rilevato sub n. 2), quando il consulente
è chiamato ad accertare dei fatti non può anche valutarli;
c) sulla valutazione della capacità genitoriale, intesa
come insieme di validi affetti e relazioni e come idoneità dei genitori, anche in via prognostica, di soddisfare l’interesse materiale e morale del figlio; essa non costituisce un giudizio assoluto, in quanto tale coniato su
astratti modelli di genitore e di figlio, ma si risolve in
un
giudizio
relativo
al
rapporto
di
“quel
genitore”con“quel figlio”: può accadere, infatti, che la
capacità genitoriale sussista rispetto ad un figlio e
manchi rispetto ad un altro figlio dello stesso genitore
o addirittura della stessa coppia genitoriale.
Al fine esclusivo di consentirgli la valutazione della
MINORI
capacità genitoriale sarà opportuno sottoporre al consulente dei quesiti relativi alla descrizione della personalità dei genitori, all’individuazione di particolari situazioni di fatto, quali la condizione di tossicodipendenza o di alcolismo, la diagnosi di una malattia mentale, la sussistenza di comportamenti devianti; sarà,
inoltre, certamente utile demandargli l’indagine sul vissuto dei genitori e sul loro ambiente di vita.
Con l’ovvia considerazione che, anche con riguardo
agli accertamenti relativi alla capacità genitoriale, spetterà sempre al giudice valutare se l’accertato stato di
tossicodipendenza non sia di per sé ostativo all’affidamento dei figli, poiché, ad esempio, il genitore ha intrapreso un serio progetto di recupero e può fare affidamento su un sostegno familiare e sociale, oppure se la
malattia di mente, ancorché grave, sia o meno idonea
ad invalidare il rapporto affettivo genitore-figlio;
d) sulla formulazione di un giudizio tecnico relativo e
alle dinamiche di coppia e familiari ed ai loro riflessi
sul figlio, quali la presenza di atteggiamenti di seduzione o di sudditanza, piuttosto che di rapporti simbiotici
o violenti;
e) sulla formulazione di un giudizio tecnico sulla disponibilità dei genitori, che non attiene alle condizioni
economiche dei medesimi, all’accertamento delle quali
sono deputati altri mezzi istruttori, ma concerne la capacità di prendersi cura del minore e di intuirne i bisogni, da quelli elementari del cibo, dell’igiene e degli affetti, a quelli più complessi della sua realizzazione futura.
La considerazione dell’interesse del minore dal suo
esclusivo punto di vista ci porta, a contrario, ad espellere dalla CTU ogni considerazione dell’interesse dei genitori; inutile e fuorviante sarà, pertanto, formulare al
consulente dei quesiti relativi a condizioni personali
dei genitori che non incidano direttamente sul rapporto con il figlio, né quando esse rilevino in bonam partem, né quanto esse rilevino in malam partem: ad
esempio, se si fa emergere che un genitore è un ottimo
educatore, ciò non significa che quel genitore sia migliore dell’altro, che magari è proprio quello che, con il
suo comportamento contrario all’obbligo di fedeltà, ha
dato causa alla separazione.
Mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile il
ruolo degli avvocati in questa materia, chiamati a ricercare un punto di equilibrio tra il dovere di fedeltà assunto col mandato difensivo conferito dal cliente-genitore, ed il dovere di rispettare l’interesse superiore del
minore.
L’individuazione del reale interesse del minore è un
giudizio di valore che il giudice deve formulare facendosi guidare dal criterio giurisprudenziale del «minor
danno che al minore può derivare dalla separazione dei
genitori» (Cassazione 2694/88) a prescindere dalle loro
richieste - si è già detto come il principio della domanda abbia in materia una rilevanza limitata - e persino
dai loro accordi in ordine all’affidamento dei figli, che
l’articolo 155 comma 2 incoraggia, ma sottopone pur
sempre al vaglio del giudice.
pre una fotografia della situazione del minore in un determinato momento storico, tra i più critici della sua
esistenza poiché coincidente con la separazione dei genitori.
Il rischio è quello che la valutazione tecnica del
consulente aderisca ad un astratto modello educativo
medio che si preoccupi sostanzialmente della protezione del minore; l’interesse del minore non coincide,
però, con quello minimo, di natura meramente conservativa, della sua protezione, ma con quello massimo, di natura propulsiva, dello sviluppo della sua personalità.
Cosa possiamo fare per ovviare a tale rischio? Come
possiamo contribuire a far sì che la decisione sull’affidamento del minore si risolva in un giudizio prognostico che tenga conto del migliore futuro possibile immaginabile per il medesimo?
Molto si può fare già con gli strumenti che l’ordinamento ci mette a disposizione, tra i quali:
a) la necessità di unire alla CTU, ove possibile, l’ascolto del minore degli anni dodici o di età inferiore,
ove capace di discernimento, come previsto dall’articolo 156sexies, comma 1 c.c.;
b) il diritto-dovere del difensore di concorrere col
giudice e con le altre parti alla corretta formulazione
dei quesiti da sottoporre al consulente tecnico; il diritto-dovere del difensore di nominare, ove necessario, un proprio consulente di parte; il diritto-dovere di
chiedere l’assunzione di tutte le prove utili affinché
l’interesse del minore venga valutato a 360 gradi;
c) la promozione delle professionalità, degli avvocati, dei consulenti, dei curatori speciali e soprattutto
dei giudici favorendo, de iure condendo, l’istituzione
delle sezioni specializzate per la famiglia nei Tribunali
ordinari ed una migliore utilizzazione degli esperti
non togati nei Tribunali per i Minorenni che, con le loro competenze tecniche, potrebbero occuparsi della
situazione del minore durante tutto il corso del procedimento fino alla discussione in camera di consiglio;
d) l’adesione, senza pregiudizi, alla mediazione familiare, affinché il conflitto che inevitabilmente caratterizza la separazione dei genitori si trasformi per il
minore da fonte di pregiudizio in un’occasione di recupero e valorizzazione del rapporto genitoriale.
Oggi si registra nei Tribunali una diversità di prassi
in ordine all’utilizzazione della CTU psicologica, considerata da alcuni giudici la regola, in quanto mezzo
istruttorio privilegiato per l’emersione del reale interesse del minore, da altri, a causa del forte impatto
emotivo sul minore, come extrema ratio cui ricorrere
solo in caso di elevato grado di conflittualità o di insufficienza delle informazioni allegate dalle parti, parallelamente a quanto previsto dal legislatore in tema
di indagini fiscali all’articolo 155 u.c. c.c..
È presto perché si possa formulare un giudizio sereno sul punto, ma è certo che la decisione sull’opportunità di ammettere la CTU psicologica dev’essere comunque rimessa, al pari di tutte le valutazioni in questa delicatissima materia, al giudizio di opportunità
del giudice in relazione al caso concreto.
I rischi conseguenti all’espletamento della CTU
Per quanto la CTU possa essere svolta correttamente
e con competenza tecnica, essa rappresenta pur semmaggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 15
MEDIAZIONE FAMILIARE
La mediazione
familiare in Italia:
quali criticità
Seconda parte
(La prima parte è stata pubblicata sul n. 2,
marzo-aprile 2008 di Avvocati di famiglia)
DI FRANCESCO CANEVELLI
PSICHIATRA, PSICOTERAPEUTA,
MEDIATORE FAMILIARE, PAST
PRESIDENTT SIMEF (SOCIETÀ ITALIANA
DI MEDIAZIONE FAMILIARE),
DIRETTORE CENTRO PER ETÀ
EVOLUTIVA, ROMA
L’invio e la richiesta di mediazione
N
el proseguire l’analisi
delle modalità con le
quali i genitori separati
possono arrivare alla
mediazione familiare, prenderemo
in esame altre due “categorie” di invianti, nel tentativo di sottolineare
sia le opportunità che i possibili
ostacoli insiti in ciascun tipo di invio.
Opportunità e ostacoli che sono
in gran parte connessi con le aspettative che le diverse figure professionali hanno nei confronti della
mediazione e con la maggiore o
minore adeguatezza delle aspettative stesse nei confronti di ciò che
un percorso di mediazione può effettivamente offrire.
L’invio del Giudice
È esperienza costante di questi
ultimi anni quella di un incremento degli “invii” in mediazione da
parte dell’Autorità giudiziaria, sia
in modo diretto da parte dei Giudici
del Tribunale Ordinario o del Tribunale per i Minorenni, sia in modo
indiretto, tramite i Servizi Sociali o i
Consulenti Tecnici, sempre all’interno delle procedure giudiziarie.
L’approvazione della legge 54/06
16 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
ha poi ulteriormente dato impulso
a questo tipo di invio, che con una
certa frequenza assume forme di
tipo “prescrittivo”. In altri casi, invece, l’invio del Giudice si esprime
attraverso un “consiglio” o una sollecitazione nei confronti dei genitori, affinché intraprendano un percorso di mediazione.
I casi in cui la mediazione familiare venga inserita come “prescrizione” all’interno del provvedimento del Giudice risultano, nella mia
esperienza, del tutto impraticabili,
almeno fino a che l’elemento “coattivo” resta immodificato e non lascia il campo ad una motivazione
più autentica.
Nei fatti, la prescrizione del Giudice attribuisce alla mediazione familiare il significato di uno strumento al servizio del contesto giudiziario, fraintendendone completamente le finalità e le caratteristiche.
Il mediatore rientra in quel caso
nel novero delle figure “ausiliarie”
del Giudice, cui viene richiesto di
“relazionare” circa l’andamento del
percorso di mediazione, venendo
così completamente a perdere
quelle caratteristiche di estraneità
al contesto giudiziario, di autonomia e di riservatezza che in tutto il
mondo e nelle Dichiarazioni degli
organismi internazionali sono unanimemente riconosciute come inscindibili dalla figura del mediatore
e come qualificanti lo spazio della
mediazione.
Se quindi risulta del tutto infondata e impropria la “prescrizione”
di un percorso di mediazione da
parte del Giudice (che del resto appare in contrasto con i limiti fissati
dalla stessa legge 54, pur nell’estrema sinteticità del suo enunciato in
merito), occorre sottolineare come
anche il “consiglio”, la “raccomandazione” espressa dal Tribunale o
da una delle figure ausiliare del
Giudice nell’esercizio dei suoi compiti, può dar luogo a diversi aspetti
critici.
È infatti esperienza comune dei
mediatori quella di una grave carenza di motivazione spesso riscontrabile in questi casi: il problema principale, però, non è tanto la
scarsa motivazione rispetto alla
“spontaneità” della richiesta di mediazione, quanto il prevalere, all’interno delle motivazioni stesse, di
aspettative del tutto improprie rispetto alle caratteristiche del percorso di mediazione e ai suoi obiettivi. Si fa qui riferimento ad aspettative di tipo “strumentale”, quali
quelle legate al bisogno di mostrarsi compiacenti nei confronti dell’invito del Giudice, o alla prospettiva
di ottenere “vantaggi” ai danni dell’altro da un percorso extragiudiziale, o ancora all’idea di incontrare
un ulteriore “terzo” con funzioni
valutative e giudicanti.
Naturalmente, non si intende affermare che la presenza di tali
aspetti nelle motivazioni della richiesta esclude la praticabilità della
mediazione: gli stessi aspetti possono infatti essere presenti anche
quando l’invio non proviene dall’Autorità giudiziaria. È tuttavia significativo come, nell’esperienza,
questi aspetti tendano ad essere
prevalenti nei casi che giungono a
chiedere una mediazione dietro
sollecitazione del Giudice o di una
delle figure ausiliarie, fino a strutturarsi a volte in modo talmente rigido da non consentire una “riconversione” della richiesta con l’introduzione di motivazioni più coerenti
con il tipo di “offerta” propria del
percorso di mediazione.
Queste considerazioni, basate sui
riscontri che l’esperienza continuamente propone, portano a considerare come l’atteggiamento più adeguato che il Giudice e le figure a lui
collegate possono assumere per favorire in modo autentico l’avvio di
percorsi di mediazione è quello che
fa riferimento alla lettera del testo
legislativo e che riguarda la possibilità per il Giudice stesso di “sospendere” il procedimento per “consentire” alle parti di intraprendere un
percorso di mediazione.
Viene quindi salvaguardato il
principio dell’autonomia della mediazione da altri ambiti, ma viene
anche sottolineato come la mediazione stessa non si proponga come
spazio “alternativo” a quello della
tutela dei diritti, bensì si integri con
esso a condizione che entrambi gli
spazi riconoscano le prerogative e
le caratteristiche dell’altro e non si
MEDIAZIONE FAMILIARE
crei una condizione di “subalternità”.
È del resto constatazione comune all’interno dei percorsi di mediazione, nonché “regola” cui deve
ispirarsi la formazione e la prassi
del mediatore, quella della necessità di una “ricollocazione”, che
può giungere appunto fino alla
temporanea sospensione, delle
procedure giudiziarie per “dare
tempo” alle persone di riappropriarsi di alcuni aspetti della vicenda della separazione sui quali
esercitare la “competenza” e sperimentare la possibilità di un autentico spazio negoziale.
Credo risulti allora ancora più
chiaro il ruolo fondamentale che
l’avvocato può svolgere per favorire e sostenere questo tipo di opportunità, in un contesto che resta
comunque garantito, proprio dalla
sua presenza, rispetto al tema fondamentale della salvaguardia dei
diritti individuali con particolare
attenzione alle posizioni più “deboli”.
L’invio dei professionisti
dell’ambito socio-sanitario
Resta infine da considerare un
ulteriore ambito di possibile invio
alla mediazione familiare, che è
quello rappresentato dall’area degli
operatori del mondo socio-sanitario.
Si è già sottolineato come l’invio
alla mediazione che proviene dall’ambito dei Servizi socio-sanitari
che agiscono all’interno di quel caso su esplicito mandato dell’Autorità giudiziaria debba essere considerato con le caratteristiche proprie
dell’invio del Giudice.
Si è infatti in presenza di una
“autorità” che mantiene funzioni
valutative e giudicanti, e che è collegata al contesto giudiziario da
precisi obblighi che non possono e
non devono essere minimizzati o
addirittura mistificati.
Al tempo stesso però, gli operatori dei Servizi socio-sanitari hanno il
compito di favorire nei propri utenti la crescita di una maggiore consapevolezza rispetto alle diverse
opportunità e riguardo all’importanza dell’assunzione di responsabilità rispetto a percorsi di gestione
più funzionale delle relazioni familiari anche in regime di separazione. Il Servizio territoriale è infatti titolare di una proposta progettuale
che non può semplicemente ridursi
all’esercizio di una funzione valutativa di tipo ausiliario nei confronti
della magistratura.
Ecco quindi che il mandato ricevuto dal Giudice va ad intrecciarsi
con il mandato istituzionale di sostegno alla cittadinanza e di elaborazione di progetti mirati alla crescita dei singoli cittadini, con particolare riguardo ai soggetti che possono trovarsi in condizioni di maggior disagio o di elevato rischio evolutivo.
L’invio ad un percorso di mediazione familiare, nei casi in cui questo può essere ritenuto necessario,
può quindi rappresentare un momento significativo per la presentazione di un progetto che, tenuto
conto del sussistere delle funzioni
ausiliarie del Servizio nei confronti
della Magistratura, proponga agli
interessati l’obiettivo di una graduale assunzione di competenza,
almeno parziale, rispetto a questioni di estrema importanza nel percorso di vita proprio e dei propri familiari.
In questi casi, il compito del Servizio sarà quindi quello di individuare le modalità più funzionali affinché siano rispettate entrambe le
esigenze: da un lato quella derivante dal mandato della magistratura
connesso con la valutazione della
situazione e con la proposta di idonei interventi di tutela delle figure
deboli o ritenute “a rischio”, dall’altro quella di una sollecitazione delle capacità negoziali autonome degli ex-partner, in direzione di una
maggiore funzionalità delle relazioni familiari. Si tratta di un compito
complesso, sia dal punto di vista
meramente organizzativo, considerate le difficoltà e la penuria di risorse che caratterizzano i Servizi
socio-sanitari territoriali, sia da un
punto di vista concettuale, dal momento che è necessario operare al
tempo stesso una distinzione e una
sintesi tra funzioni di tutela/controllo e funzioni di propulsione/autonomizzazione.
Sul piano organizzativo è necessaria l’attenta distinzione tra gli
spazi e le figure deputate alla mediazione e quelli incaricati della
funzione ausiliaria nei confronti
della magistratura: tale distinzione,
che può essere ritenuta agevole
sulla carta, risulta spesso impervia,
vuoi per carenze organizzative, ma
soprattutto per la difficoltà di mantenere un’autentica, non semplicemente formale, differenziazione tra
percorsi e modalità di lavoro che
hanno finalità del tutto distinte e
che si fondano su presupposti diversi: la sfida di una reale integrazione di aspetti e funzioni è effettivamente di grande portata e necessita probabilmente di tempi idonei
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 17
MEDIAZIONE FAMILIARE
di evoluzione e di condizioni culturali e legislative (nonché di risorse)
maggiormente favorevoli.
LA DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI
NELLA GESTIONE DELLA FASE
INIZIALE
Il riconoscimento dell’altro come
interlocutore
Le persone, dunque, accedono alla mediazione attraverso la rete degli invii. Rete che, come abbiamo visto, va costantemente curata affinché chi si rivolge al Servizio riponga aspettative coerenti con il percorso stesso. Sondare, esplicitare
queste attese fa parte del lavoro
preliminare di definizione degli
obiettivi. Questa fase iniziale è pertanto molto critica e richiede una
notevole quota di energie per adattare il più possibile gli strumenti
della mediazione a tante situazioni
diverse. I problemi tipici che caratterizzano questa fase riguardano
infatti sia le interruzioni precoci,
sia l’impossibilità di coinvolgere
uno dei due genitori.
Per questo motivo, l’articolazione
degli obiettivi di ogni percorso di
mediazione, visto caso per caso, richiede attenzione, cautela, ma soprattutto grande elasticità. Se all’inizio dell’incontro il mediatore propone troppo rapidamente la finalità
dell’accordo rischia, senza accorgersene, di demotivare le persone.
Trovare degli accordi è un tema di
oggettiva difficoltà, lontanissimo
dalla mente di chi sta appena
esplorando la possibilità di “dirsi
due parole”. Tanto più che non è
detto che la mediazione debba necessariamente arrivare alla formulazione conclusiva di accordi ben
strutturati, anche se questo è sicuramente un obiettivo molto importante: può essere comunque un
buon lavoro l’aver creato le premesse di un dialogo tra gli ex-partner.
Un altro aspetto che richiede
estrema attenzione riguarda anche
i tempi necessari a ciascuno per
poter stabilire o ristabilire un dialogo con l’altro. Ci sono persone che
possono arrivare alla mediazione
avendo già un’abitudine a parlarsi
seppure in termini conflittuali e di18 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
struttivi. Il problema, in questo caso, non è tanto parlarsi ma sintonizzarsi su degli obiettivi condivisibili. Ce ne sono altre che arrivano
alla mediazione senza essersi parlati da tanto tempo: il blocco dei canali comunicativi può derivare da
un “raffreddamento” necessario al
mantenimento della distanza, oppure può essere legato all’utilizzo
di terzi coinvolti nel conflitto, che
non viene gestito in prima persona,
ma appunto “affidato” ai propri “alleati” in una “guerra di schieramenti”.
E’ chiaro che per le persone che
si trovano in una di queste due
condizioni, caratterizzate dall’assenza o dalla scarsità di comunicazioni dirette, è prematuro proporre
fin da subito la ricerca di un’intesa.
Inoltre il nostro problema non è
che le persone si mettano d’accordo, non si tratta infatti di riproporre
modalità tipiche delle classiche
“separazioni consensuali”, ma che
questo eventuale accordo scaturisca da un processo interattivo in
cui si attivino dinamiche di tipo autenticamente negoziale. Da questo
punto di vista, ci sono percorsi di
mediazione che ritengo soddisfacenti anche se non producono accordi particolari o confermano
quelli esistenti.
La gestione più attenta e appropriata di questa prima fase consiste
allora nel sottolineare la prevalenza
del tema del dialogo sul tema degli
accordi mirando soprattutto al “riconoscimento dell’altro come interlocutore”, pur nella necessità
imprescindibile di arrivare a definire quelli che saranno gli obiettivi
del percorso di mediazione.
Il lavoro sulla motivazione
personale
A partire da queste considerazioni si è consolidata l’idea che uno
spazio di ascolto individuale sia
importante per approfondire la
motivazione, chiarire gli obiettivi
che permettono di intraprendere il
percorso con maggiori possibilità di
riuscita. Sappiamo che le persone
hanno difficoltà, scetticismi, paure
nel pensare di riaprire il dialogo
con l’altro. La gestione iniziale della
richiesta e delle condizioni per ini-
ziare una mediazione va quindi
coltivata in un ambiente in cui si
possa acquistare un po’ di fiducia
senza rigide scansioni di tempo. In
tal modo la mediazione non sarà
riservata solo a coloro che riescono
ad arrivare rapidamente all’incontro di coppia e a porsi di fronte all’altro senza eccessivi problemi.
Il tema centrale della prima fase
della mediazione, come si sottolineava in precedenza, è verificare
insieme se è possibile “parlarsi” e
avere qualche obiettivo, anche minimo, in comune. Dobbiamo infatti
tenere sempre presente che la mediazione è un percorso per due persone ben distinte e ormai separate
o che comunque stanno affrontando la separazione e non un lavoro
su una coppia, per cui l’attenzione
alle motivazioni personali deve essere massima.
Dobbiamo immaginare dei contesti che siano adattabili di fronte
ai modi con cui le persone stanno
reagendo e organizzando il proprio
adattamento e la relazione tra di
loro nella separazione.
Da questo punto di vista, prevedere come momento preliminare
del percorso quello dell’incontro individuale con ciascuno dei partner
si sta rivelando uno strumento prezioso, proprio nella direzione di
una maggiore attenzione alle motivazioni personali, di una loro più
ampia considerazione e analisi, di
una verifica più attenta della compatibilità delle aspettative e dei bisogni di ciascuno con le caratteristiche proprie della mediazione.
Le condizioni di disparità
Un ulteriore tema che assume
una notevole importanza nella fase
iniziale della mediazione, e che può
creare considerevoli problemi rispetto alla definizione corretta degli obiettivi e anche alla stessa possibilità di avvio del percorso, riguarda le condizioni di disparità degli
ex partner.
Questi aspetti costituiscono spesso dei nodi che possono condizionare pesantemente la possibilità di
riconoscere l’altro come interlocutore. Mi riferisco sia a disparità di
ordine “concreto” che di ordine
emotivo.
MEDIAZIONE FAMILIARE
• La disparità rispetto alle condizioni concrete della separazione riguarda le questioni economiche e il
rapporto con i figli. È noto che le
condizioni di disparità, o di percepita disparità, sono assolutamente
la regola in tutte le separazioni, ossia è più frequente che si percepisca una disparità che una parità.
Il rapporto con i figli, viene comunemente sentito in maniera dispari dall’uno e dall’altro, analogamente la questione dei beni, dell’abitazione, dell’assegno di mantenimento. Questi aspetti possono rappresentare un ostacolo per una serie di motivi: da una parte può esserci l’idea che la mediazione possa
far perdere qualcosa a cui ci si aggrappa in un momento di grande
insicurezza; dall’altra può esserci
un atteggiamento rivendicativo per
cui la disparità è fonte di attacco, di
ricerca di soddisfazione, di riappropriazione di aspetti che si ritengono usurpati, arbitrariamente sottratti.
Si tratta di due atteggiamenti
complementari che possono essere
altamente ostacolanti e che ripropongono la necessità di graduare
gli obiettivi del nostro lavoro. L’impatto eccessivo con il tema degli
accordi è estremamente preoccupante o comunque fuorviante, perché rischia di fare della mediazione
o il contesto della rivincita o il contesto della rinuncia.
Il lavoro preliminare sulle aspettative dell’uno e sulle paure che po-
trebbe avere l’altro, richiede di graduare con molta accortezza il tema
degli accordi, anche lasciandolo
sullo sfondo per tutta la fase iniziale. Intanto si possono incoraggiare
l’uno e l’altro a parlarsi, prospettando chiaramente che si porrà il
tema degli accordi, rispettando
però i tempi e la libertà di scelta
delle persone.
• La disparità emotiva è più sottile nelle sue modalità di presentazione, e, per certi versi, più complicata da affrontare. Accade frequentemente di avere di fronte due persone di cui una in preda al pieno
dolore e al vissuto abbandonico e
l’altra che si sta già da tempo riorganizzando una vita. E’ comprensibile, vivendo esperienze emotivamente significative, che la possibilità di riconoscimento dell’altro come interlocutore, passaggio che,
come si sottolineava, riteniamo
condizione fondamentale per la
prosecuzione del percorso, sia offuscata da aspetti che la condizionano.
Minore è infatti la disponibilità a
mettersi in gioco, si è più aggrappati alle certezze anche se sono piccole certezze, quelle di quel giorno,
come il proprio dolore o la propria
voglia di una progettualità libera,
non ostacolata da impacci di nessun tipo.
Si tratta di condizioni molto difficili, anche se non impossibili, per
avviare una mediazione: si può verificare un rifiuto secco, ma anche
il rischio, più subdolo, dell’accettazione ambigua del percorso di mediazione, basata sulla speranza,
non dico di ricongiungimento, ma
di mantenere se stesso agganciato
all’altro. Da parte del partner, invece, può esserci il desiderio di “tenere buono” l’altro, di attenuare i sensi di colpa e sentire che non è troppo forte lo strappo della propria
esistenza. Fa parte del bisogno di
sicurezza quando si mettono in atto delle scelte di rottura radicale o
di diversa progettualità nella nostra
vita.
Quindi su questo incastro ambiguo, ed anche un po’ collusivo, di
bisogni può ovviamente anche avviarsi una mediazione. La difficoltà,
pur nel protrarsi degli appuntamenti con il mediatore, consiste in
un contesto che tende allo stallo.
Anche in questo tipo di problema
occorre quindi un lavoro sulle motivazioni personali che tenga conto
dei livelli di disparità emotiva e che
cerchi di ricondurli alla possibilità
di un dialogo con l’altro e al ridimensionamento delle aspettative.
Potrebbe essere utile il ricorso a
piccoli accordi su un piano pratico,
per consentire alle persone, nel loro
interagire, di sganciarsi dalla modalità abbandonato-abbandonante,
che ripropongono ripetitivamente.
La mediazione, dunque, è necessariamente da intendersi come
spazio duplice, dove alla possibilità
del recupero e del mantenimento
del dialogo, si associa il raggiungimento di alcuni obiettivi, concreti e
verificabili, che consentano una
migliore organizzazione complessiva della vita delle persone.
In altri termini, è caratteristica tipica della mediazione quella di
un’attenzione a due categorie di
obiettivi: da un lato quelli che possiamo definire “pragmatici”, intendendo con ciò la necessità che il
percorso giunga alla definizione di
accordi su alcuni aspetti della separazione, dall’altro quelli legati alla necessità di un’evoluzione della
relazione tra gli ex partner, che
consenta una sia pur parziale acquisizione di una dimensione negoziale nel rapporto.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 19
GIURISPRUDENZA
Incidenti: il danno
patrimoniale futuro spetta
anche se i genitori del minore
investito abbiano mezzi
economicamente sufficienti
Cassazione, sezione terza, 3 aprile
2008, n. 8546
Presidente Varrone – Relatore Frasca
[Omissis]
Motivi della decisione
[Omissis]
3. Il terzo motivo denuncia, in relazione all’articolo 360 n.
5, c.p.c. «contraddittoria motivazione circa un punto
decisivo della controversia inerente il mancato
riconoscimento del danno patrimoniale futuro in capo ai
genitori». Si censura la motivazione della sentenza
impugnata per avere negato l’esistenza di tale danno
perché “la costruzione proposta dagli appellanti” sarebbe
stata del tutto “teorica ed ipotetica” e perché non
avrebbe tenuto conto neppure a livello di semplice
allegazione della possibile presenza di altri figli e di un
possibile stato di bisogno. La motivazione sarebbe
contraddittoria perché ai fini della dimostrazione di
quest’ultimo sarebbe stata allegata documentazione ed
in particolare il documento n. 4 rappresentato dalla
iscrizione alla lista di disoccupazione, mentre già in
primo grado era stato specificato che l’unica fonte di
reddito era rappresentato dal lavoro di U.L.R. , poi
venuto meno nel corso del giudizio di appello per il suo
licenziamento, che si era richiesto di provare per testi in
appello, senza che la richiesta fosse accolta. Ne
seguirebbe che «l’attività giudiziaria di parte e la
documentazione in atti contrasterebbero pertanto in
maniera evidente con quanto motivato dalla Corte
d’appello» e per tale ragione sussisterebbe la
contraddittorietà di motivazione sull’an del danno in
questione. Nel quantum la prova di simile specie di
danno andrebbe data a mezzo di presunzioni e nella
specie sarebbe stato del tutto verosimile che il figlio,
raggiunta l’età adulta, avrebbe contribuito ai bisogni
20 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
della famiglia. Si invoca ancora Cassazione 2962/02, là
dove ha ritenuto che il danno patrimoniale futuro
sussisterebbe anche allorquando i genitori abbiano
redditi sufficienti ai propri bisogni, dovendosi escludere
solo se dalla valutazione del caso concreto risulti che tali
redditi resteranno invariati in futuro. Poiché il L.R.U. era
disoccupato e la R. casalinga, tale situazione non sarebbe
ricorsa.
3.1. La motivazione con cui la sentenza impugnata ha
negato il risarcimento - questa volta evocata
dall’esposizione del motivo - è esattamente la seguente:
«quanto alla mancata liquidazione del danno
patrimoniale futuro in capo a genitori, una volta
individuato tale danno nel venire meno delle aspettative
dei genitori di poter beneficiare di un contributo
economico da parte del figlio secondo un criterio di
normale causalità, rileva la Corte che la infondatezza di
tale motivo di doglianza viene a coincidere con la
considerazione secondo la quale la costruzione proposta
dagli appellanti appare del tutto teorica ed ipotetica e
non tiene conto, neanche a livello di semplice
allegazione, della possibile presenza di altri figli né di un
altrettanto indimostrato stato di bisogno».
La critica a questa motivazione, per come articolata
nell’esposizione del motivo, non è del tutto fedele alla
sua intestazione. Essa, conforme a quest’ultima, si
muove effettivamente su questo piano, là dove fa
riferimento all’omessa considerazione di risultanze
probatorie che sarebbero state indicate per dimostrare
tale danno. Tuttavia, nella seconda parte della sua
esposizione, pur riferendo la deduzione alla liquidazione
del danno, piuttosto che alla sua dimostrazione, il
motivo, là dove richiama il precedente di questa Corte
poco sopra citato, in realtà censura la motivazione della
sentenza impugnata perché essa ha sostanzialmente
violato il principio di diritto che viene in rilievo - sotto il
paradigma normativo di cui all’articolo 1223 c.c., che si
deve sostanzialmente ritenere invocato proprio per il
tramite della invocazione di quel precedente - ai fini del
riconoscimento di un danno patrimoniale futuro ai
genitori. Sotto quest’ultimo aspetto, che è preliminare,
avuto riguardo alla motivazione enunciata dalla Corte
territoriale, il motivo è fondato, con la conseguenza che
resta assorbita la censura effettivamente riconducibile al
n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. Con specifico riferimento al
danno patrimoniale futuro dei genitori per lesione
invalidante subita dal figlio, questa Corte ha, infatti,
affermato che «la circostanza che i genitori di persona
rimasta gravemente minorata in conseguenza dell’altrui
atto illecito non abbiano, fino al momento delle lesioni,
avuto bisogno dell’aiuto economico della vittima, non è
da sola sufficiente ad escludere l’esistenza di un danno
patrimoniale futuro in capo ai congiunti. La liquidazione
di tale danno dovrà invece essere accordata dal giudice
quando risulti, anche in base a fatti notori e dati di
comune esperienza, che una contribuzione della vittima
in favore dei genitori sarebbe stata possibile e
verosimile, tenendo conto anche delle somme liquidate
al leso a titolo di risarcimento del danno da perduta
capacità di produrre reddito» (Cassazione 13358/99).
GIURISPRUDENZA
Questo principio ha - quanto al presupposto di
individuazione del danno - avuto numerose conferme a
proposito di danno da morte del figlio, essendosi
precisato che un risarcimento del danno patrimoniale
futuro compete qualora questo, sulla scorta di oggettivi
e ragionevoli criteri rapportati alle circostanze del caso
concreto, di parametri di regolarità causale (Cass.
4791/07). Cassazione 8333/04 ha affermato, in
particolare, che «i genitori di persona minore d’età,
deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito, ai fini
della liquidazione del danno patrimoniale futuro
provocato.... dalla frustrazione dell’aspettativa ad un
contributo economico da parte del familiare
prematuramente scomparso, hanno l’onere di allegare e
provare che il figlio deceduto avrebbe verosimilmente
contribuito ai bisogni della famiglia. A tal fine la
previsione va operata sulla base di criteri
ragionevolmente probabilistici, non già in via
astrattamente ipotetica, ma alla luce delle circostanze del
caso concreto, conferendo rilievo alla condizione
economica dei genitori sopravvissuti, alla età loro e del
defunto, alla prevedibile entità del reddito di costui,
dovendosi escludere che sia sufficiente la sola
circostanza che il figlio deceduto avrebbe goduto di un
reddito proprio». Cassazione 2962/02, citata dai ricorrenti
(i quali erroneamente le attribuiscono rilievo ai fini non
del riconoscimento dell’esistenza del danno, bensì della
sua liquidazione), ha affermato, in una logica non
dissimile che «il diritto al risarcimento del danno
patrimoniale subito dai genitori di un minore deceduto
in conseguenza di un fatto illecito si sostanzia nel venir
meno delle aspettative di un contributo economico che,
secondo un criterio di normalità, la vittima avrebbe
destinato a loro beneficio. A tal fine non rileva che i
genitori stessi dispongano, al momento dell’evento, di
fonti di reddito tali da rendere inutile qualsiasi
contributo del figlio, salvo che la valutazione
complessiva non consenta di presumere, al riguardo,
l’assenza di mutamenti del quadro nel corso degli anni».
Ora, alla luce di tali principi e specie in considerazione
della circostanza della sussistenza nella specie di una
notevole gravità dell’invalidità conseguita alle lesioni, la
motivazione della sentenza impugnata è errata in diritto,
là dove ha attribuito rilievo decisivo alla mancanza di dati
sulla presenza di altri figli e alla mancata dimostrazione
di uno stato di bisogno, che nel silenzio della
motivazione, va inteso come attuale. L’incertezza
sull’esistenza di altri figli, infatti, può giocare solo ai fini
della determinazione dell’ammontare del danno ma non
può assurgere a circostanza che ne esclude
automaticamente la sussistenza. La mancanza di uno
stato di bisogno attuale è elemento non ostativo a
quest’ultima, atteso che essa si proietta nel futuro. La
sentenza impugnata dev’essere, dunque, cassata quanto
al rapporto processuale fra i ricorrenti genitori ed i
convenuti e la corte di rinvio procederà, nei limiti
consentiti dalla natura del giudizio di rinvio ed in
applicazione dei principi di diritto sopra richiamati ad
accertare se sia configurabile un danno patrimoniale
futuro dei detti genitori.
[Omissis]
PQM
La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso
e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in
relazione ai motivi accolti in riferimento al rapporto
processuale fra i ricorrenti L.R.U. e T..R. da un lato ed i
resistenti dall’altro, rinviando all’uopo alla Corte
d’appello di Milano in diversa composizione anche per le
spese del giudizio di cassazione. Compensa le spese nel
rapporto fra il ricorrente T.L.R. ed i resistenti.
IL PUNTO DI VISTA
DI IRENE E ISABELLA SABA,
AVVOCATI DEL FORO DI
PISA
V
a risarcita la famiglia del minore che resta gravemente ferito in un incidente stradale anche
per il probabile contributo economico che il
ragazzo, una volta adulto, avrebbe dato alla famiglia. E ciò anche se al momento del sinistro le entrate
erano sufficienti per tutti.
È con questo principio di diritto che la Cassazione
(sentenza 8546/08 pubblicata a p. XX) si allinea con il
nuovo orientamento di legittimità che - distaccandosi
completamente da quello dei giudici di merito - riconosce agli stretti congiunti il risarcimento sia del danno
morale, sia del danno patrimoniale futuro, anche se al
momento dell’evento questi ultimi disponessero di fonti di reddito tali da rendere inutile qualsiasi contributo
del figlio.
L’excursus della giurisprudenza di merito
In merito al risarcimento del danno patrimoniale futuro dei genitori da morte o lesioni subite dal figlio, la
prevalente giurisprudenza di merito (Trib. Firenze, 19
agosto 1992, su Arch. Circ. 1993, 544; Trib. Viterbo, 22 febbraio 1996 in Rassegna Dir. Civile 1997, 401; C. Appello
Bologna, 7 ottobre 1995 in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1997,
111; Trib. Milano, 2 settembre 1993 in Nuova Giur. Civ.
Comm. 1994, 680), afferma che i genitori possono risentire di tale danno derivante dai minori introiti che il figlio, secondo il costume sociale, avrebbe potuto versare,
una volta divenuto economicamente indipendente, ai
genitori, a condizione però che questi, una volta divenuti anziani, avessero avuto bisogno dell’aiuto del figlio.
In sostanza, affinché detto danno possa essere risarcito, i genitori debbono dimostrare, anche per presunzioni, che: 1) il figlio avrebbe iniziato un’attività lavorativa; 2) che parte dei proventi dell’attività del figlio sarebbero stati destinati ai genitori.
Trattandosi di probativo diabolica, la giurisprudenza
ammette il ricorso alle presunzioni semplici (articolo
2727 c.c.) nonché la possibilità che il giudice ricorra al
fatto notorio (articolo 115 c.p.c.) entrambi ricollegati alle
concrete circostanze del caso quali: l’età del figlio, i redditi dei genitori.
Ovviamente, qualora i genitori, alla morte del figlio,
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 21
GIURISPRUDENZA
siano benestanti ed in salute difetta l’elemento di fatto
cui ancorare dette possibilità di prova.
È, infatti, da escludersi che, in tali circostanze il figlio
destini parte dei propri redditi ai genitori.
Quindi, il contributo del figlio deve essere sempre “ragionevolmente prevedibile”.
L’excursus dei giudici di legittimità: i due contrastanti
pensieri
La giurisprudenza di legittimità si presenta suddivisa
in due diversi orientamenti.
Alcune sentenze affermano che il danno patrimoniale futuro da decesso del figlio può essere riconosciuto ai
genitori soltanto se si dimostri che, al momento del fatto illecito, il figlio contribuiva effettivamente ai bisogni
della famiglia (v. Cassazione 4980/06; 3549/04; 13336/99).
L’orientamento prevalente e più recente, invece, non
si fossilizza soltanto sull’apporto economico effettivo
dato dal figlio ai genitori, ma, proprio perché trattasi di
danno futuro da lucro cessante che implica una valutazione degli effetti prevedibili nel tempo, pone l’accento
sulla necessità di compiere una valutazione prognostica
e di verosimiglianza del danno, basata su elementi concreti in relazione ai quali compiere un accertamento
presuntivo.
Peraltro, si è ritenuto (M. Rossetti, Guida pratica per il
calcolo di DIR, Ipsoa -2006, 158) che la Sc abbia un orientamento più elastico della giurisprudenza di merito nel
riconoscere il danno futuro ai congiunti, giacché essa
ha cassato sentenze di merito che negavano il risarcimento ai genitori nel caso in cui il figlio minore deceduto fosse di tenera età in considerazione del fatto che
non era prevedibile in modo certo che lo stesso minore
avrebbe apportato in futuro redditi alla famiglia.
In particolare, la Cassazione ha stabilito che «ai genitori di un minore deceduto per un fatto illecito spetta il
diritto al risarcimento del danno patrimoniale futuro,
consistente nella perdita delle aspettative del contributo economico della vittima, indipendentemente dalle
loro condizioni (ad es., adeguate fonti di reddito) al mo22 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
mento dell’illecito, essendo sufficiente che in base a
fatti notori e di comune esperienza risulti verosimile il
danno relativamente ai bisogni futuri» (cfr. Cassazione
11236/97 - Magnani c. Soc. La Fondiaria assicur. e altro
in Foro it. 1998, I, 54). Detta pronuncia ha precisato che
il danno futuro subito dai genitori di un minore deceduto in conseguenza di un fatto illecito si sostanzia nel
venir meno delle aspettative di un contributo economico a loro beneficio, e non trova ostacolo, quanto alla
sua concreta configurabilità, nella circostanza che i genitori stessi abbiano, al momento dell’evento, adeguate
fonti di reddito, dovendo ritenersi, all’uopo, sufficiente
che la complessiva valutazione degli elementi del caso
concreto (con il ricorso a dati ricavabili dal notorio e
dalla comune esperienza), evidenzi il suddetto pregiudizio in termini di verosimiglianza e possibilità, secondo un criterio di “normalità causale” in relazione ai futuri, presumibili bisogni. Pertanto, versandosi in tema
di danno patrimoniale regolato dal principio dell’id
quod interest (e, cioè, di una valutazione soggettiva del
danno delineata dall’emergere di un interesse del creditore - danneggiato dotato di una veste costituzionalmente garantita), del tutto legittimo appare, nella specie, il ricorso a criteri ispirati a prudente apprezzamento equitativo, secondo una equità “circostanziata” che
assicuri la reintegrazione anche patrimoniale del danno gravissimo subito dai genitori (in senso conforme:
Cassazione 11189/05; 14845/07; 18177/07; 3260/07;
10480/96; 1474/96; 1959/95).
In sostanza, il voler riconoscere il danno patrimoniale
da lesioni o morte del congiunto soltanto nel caso in cui
vi sia un effettivo apporto economico significa privare i
familiari del risarcimento allorché la vittima sia il figlio
minorenne che non produce reddito, magari perché ancora studente e non ancora in condizione di lavorare.
Si evidenzia, in proposito, la sentenza della Corte di
cassazione 870/08, che ha ritenuto (in parte motiva) che
«per quanto concerne il danno patrimoniale da perdita
di aiuti economici futuri va rilevato che la prova di tale
specie di danno è presuntiva ed utilizza i dati ricavabili
dal notorio e dalla comune esperienza, adeguandoli alle
peculiarità della fattispecie. La prova è raggiunta quando in base ad un criterio di normalità fondato su tutte
le circostanze del caso concreto si possa ritenere che la
vittima avrebbe destinato una parte del proprio reddito
futuro alle necessità dei genitori o avrebbe, comunque,
apportato agli stessi utilità economiche, pur senza che
ne avessero bisogno. La circostanza che i genitori in atto
godano di fonti di reddito tali da rendere inutile ogni
contributo della vittima non rileva, salvo che la valutazione complessiva non consenta di presumere che
mancheranno mutamenti nel corso degli anni (Cassazione 2962/02, in motivazione».
Pertanto, se non si può desumere l’esistenza del danno in capo ai genitori dalla mera considerazione per cui
il figlio è tenuto all’obbligo alimentare nei confronti degli stessi (giustamente si è obiettato che l’obbligo alimentare sorge esclusivamente nel momento in cui i genitori si trovino in stato di bisogno), è però dato di comune esperienza quello per cui il figlio che convive con
GIURISPRUDENZA
il genitore, nel caso in cui lavori, offre un concreto apporto economico alla famiglia, mentre nel caso in cui
studi, è prevedibile che lo offrirà in futuro (cfr. Cassazione 8333/04).
La sentenza 8546/08
Nello specifico, venendo alla sentenza in commento,
essa è di particolare interesse in quanto ha previsto la
risarcibilità del danno patrimoniale futuro in capo ai genitori di un minorenne che non era deceduto ma aveva
subito lesioni gravissime.
Il fatto. Il Giudice di appello, nel caso di specie, aveva
negato il risarcimento di detto danno ai genitori affermando che la costruzione del medesimo era del tutto
teorica ed ipotetica perché non avrebbe tenuto conto,
neppure in via di allegazione, della presenza di altri figli
e di un possibile stato di bisogno dei genitori.
La Sc ha cassato detta decisione del giudice di merito
poiché, in realtà, lo stato di bisogno era stato documentato, in quanto il padre, a causa dell’evento dannoso subito dal figlio, aveva perduto il lavoro. Quanto alla prova
del quantum del danno, la Corte ha affermato che essa
dovrebbe darsi per presunzioni, essendo verosimile che
il figlio, raggiunta la maggiore età, avrebbe contribuito ai
bisogni familiari.
Il decisum. I Supremi giudici hanno ribadito un principio, già espresso in precedenti decisioni, secondo cui il
fatto che i genitori della vittima gravemente minorata a
seguito delle lesioni subite non abbiano avuto bisogno
dell’aiuto economico della stessa è irrilevante ai fini del
riconoscimento del danno patrimoniale futuro. Ciò che
conta e che appaia verosimile, anche in base a fatti notori o dati di comune esperienza, che il figlio avrebbe
contribuito ai bisogni della famiglia, tenuto anche conto
delle somme liquidate al figlio iure proprio a titolo di risarcimento del danno e della sua perdita della capacità
di produrre reddito (conforme, Cassazione 13358/99).
In sostanza, il riconoscimento del danno futuro si basa su criteri di carattere probabilistico: ai genitori basterà allegare e provare che il figlio avrebbe verosimilmente contribuito ai bisogni della famiglia, dimostrando
la condizione economica dei medesimi, l’età loro e del
figlio, la prevedibile entità del reddito dello stesso. Non è
peraltro sufficiente la circostanza che il figlio avrebbe
fruito di un reddito proprio, così come non rileva che i
genitori dispongano di un reddito tale da rendere inutile
qualunque contributo del figlio, salvo che si debba presumere in base ad altri elementi che non ci sarebbero
state variazioni di reddito nel corso degli anni.
Neppure è rilevante, alla luce di questa recentissima
giurisprudenza, che non sussista uno stato di bisogno
dei genitori al momento del fatto lesivo.
Detta pronuncia conferma l’indirizzo già espresso
dalla pronuncia 870/2008 sopra citata.
I criteri di quantificazione e liquidazione del danno
futuro
In ordine alla quantificazione del danno ed alla liquidazione dello stesso, la giurisprudenza di legittimità
(Cassazione 4242/96) ha affermato che «nella liquida-
zione del danno patrimoniale spettante ai genitori per
la morte, cagionata dal fatto illecito di un terzo, del figlio minore, devono compensarsi la somma dovuta a
tale titolo e gli esborsi che i genitori avrebbero sostenuto per il mantenimento del figlio fino al raggiungimento
della indipendenza economica. Trova applicazione, in
tal caso, il principio della compensatio lucri cum damno in quanto il fatto illecito del terzo è causa immediata
e diretta sia delle conseguenze pregiudizievoli sia di
quelle vantaggiose che si producono in capo ai genitori.
Questi ultimi, invero, tenuti, in base al rapporto di filiazione all’istruzione, all’educazione e al mantenimento
del figlio minore, con la morte di questi ancora in tenera età vengono liberati dai doveri inerenti al rapporto di
filiazione. Quest’ultimo elemento deve essere valutato
ai fini della quantificazione del pregiudizio economico
subito dai genitori»
Dunque, in caso di decesso del minore, nel liquidare il
danno ai genitori si deve tener conto dei minori oneri di
mantenimento, istruzione ed educazione del figlio premorto. Tale criterio, evidentemente si ribalta nel caso di
lesioni del figlio in quanto, in tale caso, appare evidente
che gli oneri per i genitori saranno verosimilmente incrementati, dovendo gli stessi accudire e curare il figlio,
soprattutto nel caso in cui le lesioni riportate dallo stesso siano gravissime.
Sempre in tema di liquidazione del danno futuro, si
deve tenere conto del momento in cui il minore avrebbe
verosimilmente iniziato a lavorare ed a guadagnare e,
quindi, della quota di reddito (da determinarsi in via
equitativa) che, probabilmente, lo stesso avrebbe destinato ai genitori. Detta quota, poi, deve essere capitalizzata in base ad un coefficiente di capitalizzazione vitalizia corrispondente all’età dei genitori al momento in
cui presumibilmente gli stessi avrebbero ricevuto le erogazioni dal figlio. Il risultato dovrà essere moltiplicato
per un coefficiente di capitalizzazione anticipata per
tenere conto del fatto che il danno si sarebbe verificato
“in futuro”, ovvero al momento in cui il figlio avrebbe
percepito reddito.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 23
GIURISPRUDENZA
L’onere di contestazione
tempestiva vale anche nelle
cause di famiglia
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Cassazione sezione prima, 27 febbraio
2008, n. 5191
Ogni volta che sia posto a carico di una delle parti
(attore o convenuto) un onere di allegazione (e
prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato
nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza,
ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la
controparte del relativo onere probatorio, senza che
rilevi la natura di tale fatto.
L
a sentenza della prima sezione civile della Cassazione 5191/08 del 27 febbraio scorso, è tornata ad occuparsi – stavolta nell’area del diritto di
famiglia - dell’onere di contestazione a carico
delle parti nel processo civile.
La vicenda
La Corte d’appello di Roma aveva revocato l’assegno
divorzile stabilito dal tribunale a carico di un medico.
La beneficiaria dell’assegno si era rivolta alla Cassazione per censurare la decisione. Una vicenda come tante
altre. Anche per questo la sentenza non ha avuto grande risonanza. Sennonché uno degli argomenti che la
Corte d’appello aveva utilizzato per revocare l’assegno
era costituito dal fatto che la donna non aveva contestato alcune affermazioni dell’ex coniuge concernenti
il tenore di vita nel corso del matrimonio. E poiché
quelle affermazioni non erano state contestate la Corte le aveva ritenute ammesse. La donna si era lamentata di questa conseguenza del suo asserito contegno
processuale di non contestazione, sostenendo tra i
suoi motivi di ricorso che nel nostro ordinamento non
esisterebbe un obbligo di contestazione.
Come si vede dal passo della sentenza che si riproduce, la Cassazione la pensa diversamente.
L’argomentazione della sentenza
«... va osservato che, sul cd. principio di non contestazione, alla iniziale giurisprudenza di questa corte,
cui si rifà la ricorrente, è poi seguita la sentenza delle
Sezioni unite 761 del 2002 (e le conformi pronunce delle sezioni semplici nn. 112010/2003, 405/2004,
2299/2004, 100341/2004, 19260/2004, 28381/2005), la
24 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
quale, facendo leva sull’onere del convenuto- previsto
dall’articolo 416 c.p.c., per il rito del lavoro, e dall’articolo 167, primo comma, c.p.c. (come novellato dalla
legge 26 novembre 1990, n. 353), per il rito ordinario –
di prendere posizione, nell’atto di costituzione, sui fatti
allegati dall’attore a fondamento della domanda, ha
affermato che il difetto di contestazione di quei fatti
ne implica l’ammissione in giudizio se si tratta di fatti
c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato,
mentre per i fatti c.d. secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, c.p.c.
A questa fondamentale apertura sono seguiti ulteriori sviluppi, con l’affermazione del più ampio principio
secondo cui l’onere di contestazione tempestiva non è
desumibile solo degli articoli 167 e 416 cp.c., ma deriva
da tutto il sistema processuale ( come risulta dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena; dal sistema di preclusioni, che
comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare,
fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la
materia controversa; dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto
riguardo al novellato articolo 111 Costituzione); conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una
delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione
(e prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato
nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte
del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura
di tale fatto (Cassazione 12636/2005, preceduta da Cassazione 3245/2003, riferita solo al processo del lavoro, e
seguita da Cassazione 1540/2007, che ha esteso il principio al processo tributario).
Alla descritta evoluzione della giurisprudenza di
questa corte il collegio – pur prendendo atto di coeve
pronunce che confermano acriticamente il precedente
orientamento (v. Cassazione 2959/2002, 13830/2004,
5488/2006) – intende dare continuità, confermando la
sussistenza di un onere, per la parte costituita, di contestare tempestivamente i fatti allegati dalla parte avversaria, che altrimenti è esonerata dal fornire la prova” (da Cassazione sez. I, 27 febbraio 2008, n. 1591).
Le principali sentenze conformi richiamate
CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE LAVORO, 5 MARZO
2003, N. 3245
Il sistema di preclusioni su cui fonda il rito del lavoro
(come il rito civile riformato) comporta per entrambe le
parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute
processuali, a circoscrivere la materia controversa,
evidenziando con chiarezza gli elementi in
contestazione; ne consegue che ogni volta che sia posto a
carico di una delle parti (attore o convenuto che sia) un
onere di allegazione (e di prova), il corretto sviluppo
della dialettica processuale impone che l’altra parte
GIURISPRUDENZA
Il decalogo delle Sezioni
Unite sul principio di
non contestazione
Cassazione Sezioni unite, 23
gennaio 2002, n. 761
Il difetto di contestazione:
1) può avere rilievo solo quando:
A) si riferisca a fatti e non
semplicemente alle regole legali o
contrattuali di elaborazione dei
conteggi; l’applicazione di queste
regole, infatti, si colloca pienamente
ed interamente nell’ambito
dell’esercizio dei poteri del giudice,
tenuto alle necessarie valutazioni,
anche in difetto di specifiche
contestazioni delle parti;
B) e sempre che si tratti difatti non
incompatibili con le ragioni della
contestazione sull’an;
2) rileva diversamente, a seconda
che risulti riferibile a fatti giuridici
costitutivi della fattispecie non
conoscibili di ufficio, ovvero a
circostanze dalla cui prova si può
inferire l’esistenza di codesti fatti:
A) nella prima ipotesi il
comportamento della parte
costituisce manifestazione
dell’autonomia riconoscibile alla
parte in un processo dominato dal
principio dispositivo, con la
conseguenza che il fatto non
contestato non ha bisogno di prova
perché le parti ne hanno disposto
vincolando il giudice a tenerne
conto senza alcuna necessità di
convincersi della sua esistenza; si
tratta, quindi, di un ambito di
incidenza estraneo alla
determinazione del doma
probandum ed inerente soltanto
alla determinazione del tema di
fatto che è a base della
controversia;
B) nella seconda ipotesi (cui può
assimilarsi anche quella di difetto di
contestazione in ordine
all’applicazione delle regole tecnico
- contabili), nonostante la
mancanza di controversia sulla
specifica circostanza, si è fuori del
dominio esclusivo dell’autonomia
delle parti ed è pur sempre
necessario un controllo probatorio,
ai fini del quale il comportamento
tenuto dalle parti può essere
utilizzato dal: giudice come
argomento di prova ex articolo 116,
secondo comma cod proc. civ, non
per escludere che, in ordine
all’esistenza di quella circostanza
egli debba formarsi un
convincimento;
3) si caratterizza, inoltre, per un
diverso grado di stabilità a seconda
che investa fatti dell’una o dell’altra
categoria, perché:
A) se concerne fatti costitutivi del
diritto, si coordina al potere di
allegazione dei medesimi e
partecipa della sua natura, sicché
simmetricamente soggiace agli
stessi limiti apprestati per tale
potere; in altre parole, considerato
che l’identificazione del tema
decisionale dipende in pari misura
dall’allegazione e dall’estensione
delle relative contestazioni,
risulterebbe intrinsecamente
contraddittorio ritenere che un
sistema di preclusioni in ordine alla
modificabilità di un tema siffatto
operi poi diversamente rispetto
all’uno o all’altro dei fattori della
detta identificazione; e, pertanto:
Aa) il limite della contestabilità dei
fatti costitutivi originariamente
incontestati si identifica, nel rito del
lavoro, con quello previsto
dall’articolo 420, primo comma, cod
proc. civ per la modificazione di
“domande eccezioni e conclusioni
già formulate”;
Ab) trattasi di preclusione
argomentabile dal sistema e non di
decadenza ex articolo 416 cod. proc.
civ., norma che commina tale
sanzione per le sole domande
riconvenzionali e per le eccezioni
processuali e di merito non rilevabili
di ufficio e proposte oltre il limite
temporale, assegnato alla memoria
difensiva;
Ac) ai fini della tempestività della
contestazione, non rileva la tardività
della costituzione in giudizio,
potendo un problema di preclusioni
alla contestabilità porsi soltanto nel
presupposto (non configurabile nel
solo fatto della contumacia:
Cassazione 28 giugno 1984, n. 3796;
Id., 4 dicembre 1986, n. 7186; Id., 28
giugno 1984, n. 3796) della rilevanza
di un originario atteggiamento di
non contestazione;
B) se investe circostanze di rilievo
istruttorio, trova, invece, più ampia
applicazione il principio della
provvisorietà, ossia della
revocabilità della non
contestazione, vessandosi, come si
è detto, in un ambito nel quale il
controllo probatorio è, in ogni caso,
necessario e l’atteggiamento
difensivo del convenuto ed i suoi
eventuali mutamenti rilevano solo
come “argomenti”, da valutarsi, nel
concorso delle ulteriori risultanze
istruttorie, ai fini della formazione
del convincimento del giudice; nè
ciò contrasta con la struttura
propria del rito speciale in quanto:
Ba) una tardiva contestazione dei
fatti probatori non comporta alcuna
alterazione del sistema difensivo
che l’attore deve, in ogni caso,
avere approntato secondo il
principio di eventualità (vale a dire
formulando - già nell’atto
introduttivo del giudizio, sotto pena
di preclusione - le proprie istanze
istruttorie con la completezza che si
imporrebbe in presenza di
un’integrale contestazione ad opera
della controparte) e che, quindi, già
appartiene potenzialmente al tema
istruttorio della causa;
Bb) le sopravvenute contestazioni
che implicano modificazioni del
tema istruttorio, non essendo
colpite da specifica sanzione di
decadenza ex art, 416 cod proc. civ,
possono essere assoggettate ad un
sistema di preclusioni solo nella
misura in cui procedono da
modificazioni dell’oggetto della
controversia le quali, come si è
detto, si correlano al potere di
allegazione ed ai limiti che lo
governano;
Bc) è caratteristica precipua del
detto rito speciale il
contemperamento del principio
dispositivo con le esigenze della
ricerca della “verità materiale”, di
guisa che, quando le risultanze di
causa offrano significativi, dati di
indagine, il giudice, ove reputi
insufficienti le prove già acquisite,
non può limitarsi a fare meccanica
applicazione della regola formale di
giudizio fondata sull’onere della
prova ma ha il potere - dovere di
provvedere di ufficio agli atti
istruttori sollecitati da tale
materiale ed idonei a superare
l’incertezza sui fatti costitutivi dei
diritti in contestazione,
indipendentemente dal verificarsi di
preclusioni o decadenze in danno
delle parti (v., fra le numerose altre
conformi, Cassazione 6 marzo 2001,
n. 3228; Id., 20 maggio 2000, n.
6592; Id., 3 ottobre 1998, n. 9817;
Id., 12 febbraio 1997, n. 1304; Id., sez.
un., 13 gennaio 1997, n. 262).
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 25
GIURISPRUDENZA
prenda posizione in maniera precisa rispetto alle
affermazioni della parte onerata, nella prima
occasione processuale utile (e perciò nel corso dell’udienza
di cui all’articolo 420 c.p.c., se non ha potuto farlo nell’atto
introduttivo), atteso che il principio di non
contestazione, derivando dalla struttura del processo e
non soltanto dalla formulazione dell’articolo 416 bis c.p.c.,
è applicabile, ricorrendone i presupposti, anche con
riguardo all’attore, ove oneri di allegazione (e prova)
gravino anche sul convenuto. (Fattispecie in tema di
licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del
lavoratore).
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAV., 14 GENNAIO 2004, N.
405
L’attore può essere esonerato dall’onere di provare
i fatti costitutivi della domanda o se il convenuto tiene
un comportamento omissivo, nel qual caso la non
contestazione dei fatti costituisce, quale inadempimento
dell’onere processuale previsto dall’articolo 416, comma
3, c.p.c., un comportamento univocamente rilevante ai
fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, ovvero
se la parte che avrebbe interesse a negare quei fatti li
abbia esplicitamente ammessi ovvero abbia impostato il
proprio sistema difensivo su circostanze e
argomentazioni logicamente incompatibili con il
disconoscimento di un fatto che, ricorrendo tali
condizioni, può ritenersi pacifico tra le parti; il giudice che
assume la qualità incontroversa dei suddetti fatti ha il
dovere di specificare la natura della causa che conferisce
ai fatti tale qualità (ammissione o non contestazione),
nonché la fonte processuale di tale qualificazione.
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. III, 6 FEBBRAIO 2004, N. 2299
La mancata specifica contestazione di un fatto
costitutivo del diritto dedotto da uno dei contendenti lo
rende incontroverso e non più bisognoso di prova, in
quanto l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla
stregua della regola di condotta processuale di cui
all’articolo 167, comma 1, c.p.c., che impone al
convenuto di prendere posizione in comparsa di
risposta sui fatti posti dall’attore a fondamento della
Le sentenze difformi
che non ritengono
esistente un obbligo di
contestazione specifica
CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE
TERZA, 28 FEBBRAIO 2002, N. 2959
Perché un fatto allegato da una
parte possa considerarsi
“pacifico”, si da essere posto a
base della decisione ancorché non
provato, non è sufficiente la sua
sola mancata contestazione, non
esistendo nel nostro ordinamento
processuale un principio che
vincoli la parte alla contestazione
specifica di ogni situazione di
fatto dichiarata dalla controparte.
26 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
domanda, espunge il fatto stesso dall’ambito degli
accertamenti richiesti; non sussistono tali presupposti
qualora lo stesso attore - ad esempio - introduca il tema
probatorio concernente la titolarità attiva del rapporto,
ancorché parte convenuta si sia difesa avanzando
argomentazioni logicamente successive alla questione
della titolarità, ma non incompatibili con il diniego
della stessa. (Fattispecie relativa a giudizio risarcitorio in
cui era controversa l’appartenenza del veicolo
danneggiato all’attore; la S.C ha negato che si fosse
formata non contestazione sul punto, in quanto l’attore
stesso aveva prodotto una dichiarazione sostitutiva di
atto notorio volta a superare le risultanze del registro
automobilistico e la compagnia assicuratrice convenuta
aveva contestato la sussistenza “dei presupposti e
delle condizioni dell’azione”, negando la sussistenza della
responsabilità extracontrattuale del convenuto nel sinistro,
senza con ciò riconoscere che ove dell’illecito
fosse stato ritenuto responsabile l’assicurato, titolare
del diritto al risarcimento sarebbe stato l’attore).
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. III, 25 MAGGIO 2004, N. 10031
L’articolo 167 c.p.c., imponendo al convenuto l’onere
di prendere posizione sui fatti costitutivi del
diritto preteso dalla controparte, considera la non
contestazione un comportamento univocamente
rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del
giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che
dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio
del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, in
quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il
fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti.
(Nella specie, relativa ad azione risarcitoria a
seguito di diffamazione, il giudice d’appello, con la sentenza
cassata dalla S.C., aveva negato che vi fosse in atti la
prova che una lettera di contenuto diffamatorio
fosse stata consegnata anche ad un secondo
destinatario, sebbene l’attore nell’atto di citazione
avesse affermato di averla consegnata a questi,
chiedendo l’ammissione di prove orali sul punto, e
la circostanza non fosse stata oggetto di contestazione nel
corso del primo grado di giudizio).
Occorre invece che lo stesso sia
esplicitamente ammesso dalla
controparte, ovvero che questa,
pur non contestandolo in modo
specifico, abbia impostato il
proprio sistema difensivo su
circostanze ed argomentazioni
logicamente incompatibili con il
suo disconoscimento.
CASSAZIONE CIVILE. SEZIONE
TERZA, 23 LUGLIO 2004, N. 13830
Nel vigente ordinamento
processuale i fatti allegati da una
delle parti vanno considerati
“pacifici” - e quindi possono
essere posti a fondamento della
decisione - quando siano stati
esplicitamente ammessi dalla
controparte oppure quando
questa pur non avendoli
espressamente contestati abbia
tuttavia assunto una posizione
difensiva assolutamente
incompatibile con la loro
negazione, così implicitamente
ammettendone l’esistenza. (Nella
specie la S.C ha confermato la
sentenza di merito che aveva
accordato la rivalutazione
monetaria del credito sul
presupposto che la qualità di
imprenditore dell’attore risultasse
provata dal fatto che controparte
aveva agito contro di lui per
violazione concorrenziale ex
articolo 2598 c.c., attribuibile solo
a un imprenditore).
DOSSIER
Accordi tra coniugi in fase di
separazione e divorzio
A cura di Rita Russo, magistrato tribunale Messina
• Relazione tenuta al Convegno del 22 febbraio 2008 organizzato dalla Sezione
di Messina dell’Osservatorio sul diritto di famiglia
Sommario
• La separazione consensuale. Accordi omologati e non omologati
• La separazione consensuale
• Gli accordi in vista della pronunzia di divorzio
• Assegno post-matrimoniale, ed autonomia privata. La rinunzia all’assegno di
divorzio
• Assegno post-matrimoniale, ed autonomia privata. Gli accordi accessori.
Natura contenuto e modificabilità
La separazione consensuale
tra autonomia privata e
controllo pubblico
A cura di Claudio Cecchella, professore, avvocato del Foro di Pisa
• Relazione tenuta al Convegno del 22 febbraio 2008 organizzato dalla Sezione
di Messina dell’Osservatorio sul diritto di famiglia
Sommario
• Il consenso e l’omologa
• Inderogabilità della disciplina e indisponibilità dei diritti, il diverso regime dei
patti di separazione consensuale
• I patti su affidamento e mantenimento dei figli
• I patti sul mantenimento dei coniugi
• I patti accessori in materia disponibile e non soggetta a norme imperative.
• In particolare i patti traslativi di diritti reali
• La revoca del consenso
• La riconciliazione
• Il mutamento del titolo della separazione
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 27
DOSSIER
Accordi tra coniugi in fase di
separazione e divorzio
RITA RUSSO, GIUDICE TRIBUNALE DI MESSINA
Relazione tenuta al Convegno del 22 febbraio 2008 organizzato dalla Sezione di Messina dell’Osservatorio sul diritto di
famiglia
La separazione consensuale. Accordi omologati e non
omologati
Particolare attenzione riserva l’ordinamento alla libertà
del consenso matrimoniale che non è in alcun modo
coercibile, ma una volta contratto il matrimonio e fondata la famiglia si crea una situazione giuridica complessa
di diritti ed obblighi che non sono più liberamente disponibili dalle parti (articolo 160 c.c.: gli sposi non possono
derogare né ai diritti né ai doveri previsti per effetto del
matrimonio).
Dato il rilievo sociale del rapporto coniugale l’ordinamento ne controlla la sorte anche quando esso entra in
crisi, e vengono promossi dai coniugi i giudizi di separazione e divorzio. L’autonomia negoziale dei coniugi nella
gestione e soluzione dei momenti di crisi matrimoniale
non è totalmente soppressa (1), essa piuttosto si esplica
con dei limiti funzionali ad assicurare il rispetto e la tutela degli interessi superindividuali che vengono in evidenza e sotto il controllo giurisdizionale; il primo e più penetrante limite che si può individuare alla autonomia negoziale dei coniugi nella gestione della crisi coniugale, è
quello relativo agli interessi dei figli. Consolidata giurisprudenza ci indica infatti che i provvedimenti relativi alla prole vengo assunti anche d’ufficio ed anche disattendendo le stesse domande dei genitori sicchè si può anche
affermare sulla base di questi principi consolidati che in
tema di regolamento delle questioni che riguardano la
prole l’autonomia dei coniugi si esplica essenzialmente
in una funzione propositiva di soluzioni che il giudice deve tuttavia attentamente vagliare e valutare, anche ascoltando le ragioni dei diretti interessati (articolo 155sexies
c.c.) Vero è che la riforma appare oggi molto attenta a favorire gli “accordi dei genitori” dei quali il giudice “prende
atto” se non contrari all’interesse dei figli. Ciò non perché
si declini al principio che gli interessi dei minori sono indisponibili, ma si vuole piuttosto intendere e che i genitori sono i primi soggetti (prima ancora del giudice ) investiti delle responsabilità di dare ai figli un assetto di vita
soddisfacente anche nella crisi coniugale. In genere tutta
la riforma operata dalla legge 54/2006 tende ad una valorizzazione delle responsabilità genitoriale, muovendo dal
principio che la separazione o il divorzio non dovrebbero
incidere sulla funzione genitoriale.
La separazione consensuale
Riconosciuta la rilevanza degli accordi nella gestione
della famiglia, pur con l’ovvio limite di cui all’articolo 160
c.c. nulla osta a che la separazione consensuale venga
considerata sotto il profilo della struttura, un accordo e
precisamente un negozio familiare, anzi secondo una de-
28 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
finizione ripresa anche dalla giurisprudenza, uno dei momenti più significativi di emersione nella negozialità nel
diritto di famiglia (2). Il ricorso per separazione consensuale è pertanto un atto processuale ma contiene anche
le clausole di un negozio familiare, in quanto le parti si
scambiano il consenso su determinate condizioni che
contengono un regolamento dei rapporti economici e
personali in regime di separazione. A differenza però del
comune negozio di diritto privato esso non spiega effetti
immediati ed in virtù del solo scambio del consenso, se
non -secondo alcuni autori- limitatamente ai diritti disponibili; in particolare non è raggiunto per il solo fatto
dell’accordo il fine primario che è quello di far conseguire
alle parti lo status di coniuge separato con le sue conseguenze di legge, ad esempio lo scioglimento della comunione legale (3).
Lo status matrimoniale non è infatti liberamente disponibile dalle parti e nel nostro ordinamento non è consentito sciogliersi dal matrimonio in ragione del mutuo
dissenso, dovendosi invece accertare che la comunione
morale e materiale di vita tra i coniugi è cessata per una
delle cause tipiche previste dall’articolo 3 legge 898/70:
allo stesso modo non basta il mutuo dissenso per conseguire lo status di coniuge separato con la correlativa modificazione degli obblighi matrimoniali, ma occorre un
accertamento giudiziale sulla intollerabilità della convivenza.
Il giudice ha l’obbligo di accertare il fatto oggettivo che
determina la intollerabilità della convivenza (4) , anche se
oggi la Cassazione parla di diritto a conseguire la separazione la convivenza divenga intollerabile anche ex uno
latere (5).
In genere il riconoscimento più o meno ampio della
negozialità di detti accordi comporta l’applicazione alla
fattispecie alcuni dei principi fondamentali in materia di
negozi giuridici: ad esempio l’accordo di separazione è
annullabile quando il consenso di una delle parti risulti
viziato (6); al tempo stesso però pone all’interprete il problema se gli accordi non omologati o non ancora omologati possano spiegare qualche effetto. Per prospettare
una soluzione al quesito occorre porre mente alla finalità
del controllo giudiziale su questo specifico negozio familiare: finalità rappresentata in primo luogo dall’esigenza
di evitare che le parti dispongano liberamente dello status ed in secondo luogo dalla necessità di un controllo
sugli interessi indisponibili connessi al matrimonio ed alla famiglia, quali ad esempio gli interessi indisponibili
dei figli minori.
Per questo motivo si è affermata l’opinione che l’accordo tra coniugi ha effettivo valore negoziale quando le
condizioni riguardino materie non protette dall’ordinamento vale a dire disponibili e che manchi di tale valore
quando pretenda di disciplinare con la fissità del contratto materie indisponibili. (7)
Sulla scorta di queste considerazioni la Sc ha ritenuto
che in tema di separazione consensuale, le modificazioni
pattuite dai coniugi antecedentemente o contemporaneamente all’accordo omologato sono operanti soltanto
se si collocano in posizione di non interferenza rispetto a
quest’ultimo o in posizione di maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato, mentre le modificazioni pattuite successivamente alla omologazione trovando fondamento nell’articolo 1322 c.c. devono ritenersi valide ed
DOSSIER
efficaci anche a prescindere dallo speciale procedimento
disciplinato dall’articolo 710 c.p.c. quando non varchino il
limite di derogabilità consentito dall’articolo 160 c.c. (8). È
bene comunque precisare che eventuali accordi non
omologati in materie disponibili hanno comunque solo
efficacia contrattuale, mentre la separazione consensuale omologata costituisce titolo esecutivo.
Gli accordi in vista della pronunzia di divorzio
Particolare attenzione ha in dottrina e giurisprudenza
la questione della rilevanza dell’autonomia privata in
materia di rapporti economici allo scioglimento del matrimonio in seguito a pronunzia di divorzio. Si tratta degli
accordi raggiunti dai coniugi in un tempo antecedente
l’avvio del procedimento di divorzio, nonché della convenzione di corresponsione dell’assegno in unica soluzione, della rinunzia del diritto all’assegno, della transazione delle controversie che hanno per oggetto l’assegno
stesso. Su alcuni di questi argomenti è vivace il dibatto
ed il contrasto segnatamente tra dottrina e giurisprudenza. Poche le perplessità, sulla possibilità che l’autonomia
privata trovi manifestazione in tema di determinazione
dell’ammontare dell’assegno: i coniugi possono convenzionalmente stabilire il quantum spettante all’ex-coniuge beneficiario dell’assegno, tanto in sede di divorzio a
domanda congiunta, che in sede di divorzio contenzioso.
Maggiori contrasti invece sulla questione degli accordi
preventivi di divorzio. Si tratta di accordi, spesso trasfusi
nelle condizioni della separazione consensuale diretti a
disciplinare in anticipo gli assetti economici del futuro
(ed eventuale) divorzio, molto conosciuti in alcuni paesi
europei e nella cultura giuridica nordamericana ove
spesso sono anche stipulati prima del matrimonio. Si
tratta, in altri termini, di verificare la validità, alla luce dei
principi sui quali si fonda l’istituto della famiglia in Italia,
di quelli che vengono definiti, in senso lato, con un’espressione di derivazione anglosassone, prenuptial o postnuptial agreements in contemplation of divorce. La
prevalente giurisprudenza di legittimità valuta con netto
sfavore gli accordi preventivi di divorzio anche se contenuti in clausole omologate di separazione consensuale:
secondo questo orientamento a dette clausole non si potrebbe riconnettere l’effetto di regolare in via preventiva
il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, accordo considerato nullo per illiceità della causa, stante la
natura assistenziale dell’assegno di mantenimento per
l’ex coniuge, ritenuto indisponibile e la conseguente nullità gli accordi diretti, implicitamente o esplicitamente, a
circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio. È singolare tuttavia che il suddetto orientamento si
confermi nonostante la esplicita adesione della giurisprudenza più recente alla tesi privatistica in tema di accordi adottati dai coniugi per regolare la crisi matrimoniale. In tema di separazione consensuale infatti una nota sentenza (9) in parte motiva, ripercorre gli orientamenti principali sulla natura giuridica dell’accordo di separazione, dalla impostazione prettamente pubblicistica secondo la quale il consenso costituisce mero presupposto
del provvedimento giudiziale cui va attribuito il ruolo di
unico fatto costitutivo della separazione, tesi ormai superata, alla tesi della fattispecie a formazione progressiva,
fino alla prospettiva più marcatamente privatistica, sorretta da una complessiva valutazione della evoluzione
storica della normativa del diritto di famiglia, secondo la
quale la causa della separazione sta nella volontà dei coniugi, mentre la omologazione agisce come mera condizione legale di efficacia dell’accordo. Nella predetta sentenza la Suprema corte aderisce esplicitamente a quest’ultima tesi (10).
Nonostante queste premesse la Cassazione giunge in
tema di accordi preventivi di divorzio alla conclusione
della nullità per illiceità della causa, come se fosse cioè
illecito disporre convenzionalmente di (alcuni) diritti che
nascono dal matrimonio e quindi contraddicendo la affermazione della rilevanza della autonomia negoziale dei
coniugi (11) vero è tuttavia che di recente la cassazione
precisa come indisponibile non sia l’assegno di mantenimento in sé quanto il diritto a richiederlo (con riferimento al futuro). «Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in
sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento
all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa,
avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno,
previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’articolo 5 comma 8 legge 898 del 1970 nel
testo di cui alla legge 74 del 1987 - a norma del quale, su
accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta
equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli
accordi di separazione, dovendo essere interpretati secundum ius, non possono implicare rinuncia all’assegno
di divorzio» Cassazione 5302/06.
Tuttavia l’osservazione della realtà consente di notare
che non sempre e non necessariamente l’accordo preventivo di divorzio ha finalità di incidere su interessi specialmente tutelati dall’ordinamento, ovvero di limitare la
libertà di difendersi in giudizio: e quanto a quest’ultimo
punto si deve osservare che la illiceità dell’accordo riguarderebbe certamente la preventiva limitazione del diritto di difesa con riferimento allo status, ma non anche
la preclusione con riferimento alla contesa giudiziale su
diritti patrimoniali propri del coniuge, quantomeno nei
limiti in cui essi non pregiudichino il mantenimento della solidarietà coniugale successiva al divorzio, ma servano a determinarne in concreto il contenuto. È stato acutamente osservato in dottrina che “gli accordi preventivi
circa le conseguenze della separazione e/o del divorzio
non vedono normalmente (né lo potrebbero), quale loro
oggetto diretto, lo status coniugale, come avverrebbe se,
per esempio, le parti stipulassero impegni in termini
quali «mi obbligo a non divorziare», «mi impegno a non
chiedere la separazione», «prometto di non far valere alcuna eventuale causa di invalidità del nostro matrimonio», ecc. . La contrarietà di un siffatto patto ai principi
dell’ordine pubblico non può oggi essere revocata in dubbio . Ma ciò che l’opinione dominante si preoccupa di impedire è che le determinazioni dei coniugi circa il loro
stato (di persone, appunto, coniugate o meno) siano anche solo indirettamente influenzate dagli accordi economici in precedenza stipulati. Tale preoccupazione non ha
però ragione di sussistere, ogni qual volta le parti si limitano a prevedere le conseguenze dell’eventuale scioglimento del matrimonio, senza impegnarsi a tenere com-
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DOSSIER
portamenti processuali diretti ad influire sullo status coniugale” (12).
Per quanto riguarda i figli minori si deve comunque rilevare che le parti non possono disporre dei loro diritti
ma solo proporre un regolamento dei loro interessi che il
Tribunale deve in ogni caso valutare, adottando i provvedimenti che riguardano i minori con esclusivo riferimento all’interesse dei minori e previa una adeguata verifica
delle condizioni patrimoniali dei genitori, anche -se il caso- stabilendo diversamente da come i genitori hanno
concordemente prospettato. Invece per quanto riguarda
l’assegno in favore del coniuge, gli accordi adottati in sede di separazione ed omologati possono essere considerati idonei a spiegare effetto anche nel giudizio di divorzio, pur nell’ambito del limite rappresentato dalla indisponibilità della funzione solidaristica ed assistenziale
che l’assegno di divorzio assolve.
In questi termini non si può disconoscere l’importanza
delle considerazioni rese da Cassazione 8109/00 che pur
ribadendo in linea di massima il principio sopra enunciato della nullità degli accordi preventivi di divorzio, ha ritenuto nel concreto la validità di un accordo sottoposto
al suo esame in quanto il giudice del divorzio deve tenere
conto delle attribuzioni pattizie già effettuate «al pari di
tutte le altre voci, attive e passive, della situazione reddituale delle parti» ed ha altresì ritenuto la validità degli
accordi transattivi che possono essere trasfusi nella condizioni di separazione consensuale, distinguendo l’accertamento avente «ad oggetto l’astratta esistenza del fatto
costitutivo del diritto all’assegno divorziale», da quello
che «ha ad oggetto la validità ed efficacia di un concreto
accordo» giungendo quindi a conclusioni concrete che ad
opinione di chi ha commentato la sentenza appaiono alquanto in contrasto con il mantenimento in astratto del
granitico principio della nullità degli accordi preventivi di
divorzio (13).
Allo stesso modo non si possono ignorare le vivaci critiche mosse dalla dottrina più recente all’orientamento
di giurisprudenza tradizionale (14), che in particolare appaiono convincenti nel rilievo che non può ritenersi del
tutto indisponibile un diritto, quale quello all’assegno di
divorzio, che, per poter essere riconosciuto, necessita comunque della domanda di parte e dell’assolvimento dell’onere della prova sulla sussistenza dei suoi presupposti;
ed altresì nel rilievo che solo in presenza di un diritto disponibile si può concepire una disciplina convenzionale
dei rapporti tra gli ex coniugi quale quella consentita dall’articolo 4, comma 13 legge 898/70 in caso di procedimento camerale su domanda congiunta, sia pur essa
soggetta ad un controllo da parte del Tribunale.
Deve inoltre rilevarsi che in ogni caso la giurisprudenza ritiene che l’assetto convenzionale degli interessi economici tra le parti stabilito in sede di separazione consensuale omologata presuppone la manifestazione di un
giudizio da parte dei coniugi sulla idoneità di quelle condizioni a garantire ai coniugi un tenore di vita analogo a
quello goduto in costanza di matrimonio e detto accordo
rappresenta un limite all’intervento del giudice il quale
può conferirgli efficacia se lo ritiene legittimo e rispondente all’interesse della prole, ovvero respingerlo, ma
non modificarlo; e una volta omologate, anche in sede di
divorzio le condizioni di separazione costituiscono un
punto di riferimento pur se l’assegno di mantenimento
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disposto o concordato in sede di separazione ha natura e
funzione parzialmente diversa da quello di divorzio (15).
Assegno post-matrimoniale, ed autonomia privata. La
rinunzia all’assegno di divorzio
Questione rilevante e di certa frequenza nella prassi, è
la questione della rinunziabilità del diritto all’assegno. È
infatti necessaria, al fine del riconoscimento effettivo del
diritto all’assegno, la domanda dell’interessato, ma tuttavia la sua mancanza, non può essere interpretata come
tacita, definitiva rinunzia a far valere il diritto, potenziale,
del beneficiario. Non può escludersi, infatti, che, anche
successivamente alla pronunzia di scioglimento del matrimonio, l’ex-coniuge possa proporre istanza per la corresponsione dell’assegno, dovendo però in tal caso far
valere la sopravvenienza di fatti nuovi. Inoltre pur se la
giurisprudenza è tradizionalmente orientata a considerare illecite le rinunzie preventive all’assegno, come esposto nel paragrafo che precede è rinunziabile l’oggetto del
diritto all’assegno, una volta che sia entrato nel patrimonio del beneficiario. Le prestazioni maturate dopo la pronunzia di divorzio, altro non sono che oggetto di diritti di
credito entrati in quel patrimonio, e quindi disponibili,
non solo, ma riguardo ad essi matura anche la prescrizione.
Infine deve ricordarsi che le condizioni di divorzio stabilite in sentenza possono essere convenzionalmente
modificate dai coniugi, i quali possono ricorrere anche
congiuntamente alla procedura prevista dall’articolo 9 l.
div. e che per accordo tra i coniugi può anche essere assegnata, quale componente dell’assegno di mantenimento la casa coniugale pur in assenza di figli (16).
Assegno post-matrimoniale, ed autonomia privata. Gli
accordi accessori. Natura contenuto e modificabilità
Non di rado il ricorso per divorzio è una occasione per
regolare anche le questioni patrimoniali tra coniugi che
non sono di norma oggetto del giudizio di divorzio, prime
fra tutte quelle relative ai beni in comunione legale. Infatti solo con il passaggio in giudicato della sentenza di
separazione (ovvero quando diviene definitivo il decreto
di omologazione) si scioglie la comunione legale, ma ciononostante, non è ammessa almeno secondo la tesi sino
ad oggi prevalente, la trattazione unitaria della domanda
di divorzio con la domanda di divisione beni comuni per
difetto di connessione forte o per subordinazione (17). Di
conseguenza non pochi scelgono la sede divorzile per regolare i rapporti patrimoniali ancora pendenti e segnatamente quelli relativi alla casa coniugale che ove assegnata al coniuge affidatario o domicliatario dei figli minori,
perde di fatto, in virtù della trascrivibili del titolo, le sue
potenzialità commerciali. È però necessario distinguere
tra accordi autonomi o accessori e accordi aventi invece
per oggetto la regolamentazione c.d. necessaria conseguente al divorzio e cioè l’affidamento e mantenimento
prole, l’assegno divorzile.
Infatti l’accordo mediante il quale i coniugi pongono
consensualmente termine alla convivenza, ovvero regolano il divorzio può racchiudere una pluralità di pattuizioni, oltre a quelle che integrano il suo contenuto tipico
e che a questo non sono immediatamente riferibili. In
questo senso si distingue , tra contenuto “necessario”
(siccome collegato direttamente al rapporto matrimonia-
DOSSIER
le) e contenuto “eventuale” (o “accessorio”) dell’accordo
di separazione o divorzio (siccome collegato in via soltanto estrinseca con il patto principale), è suscettibile di
riguardare negozi i quali, pur trovando la loro occasione
nella separazione consensuale, non hanno causa in essa,
risultando appunto semplicemente “occasionati” dalla
separazione medesima senza dipendere dai diritti e dagli
obblighi che derivano dal perdurante matrimonio. Sicchè
per un verso tali negozi non si configurano come convenzioni matrimoniali ex articolo 162 c.c. (caratterizzate da
un sostanziale parallelismo di volontà e interessi, nonché
postulanti lo svolgimento della convivenza coniugale ed
il riferimento ad una generalità di beni, anche di futura
acquisizione), ma costituiscono espressione di libera autonomia contrattuale, sempre che non comportino una
lesione di diritti inderogabili.
Deve osservarsi tuttavia che il medesimo negozio di
trasferimento (ad esempio della proprietà di un immobile) può assolvere all’una ovvero all’altra funzione, poiché
la giurisprudenza ammette che il trasferimento di un immobile costituisca adempimento, totale o parziale, secondo i casi dell’obbligo di mantenimento del coniuge o
dei figli. Si intende che nel caso in cui siffatta clausola riguardi il mantenimento dei figli deve comunque valutarsi se il patto è idoneo a soddisfare, nella complessiva valutazione delle capacità dei genitori e di come essi contribuiscano alle esigenze della prole, le necessità di mantenimento, cura istruzione ed educazione; in altre parole
se pur costituendo un vantaggio patrimoniale tuttavia la
sostituzione in tutto o in parte dell’assegno perequativo
periodico con una prestazione una tantum e peraltro non
liquida, non pregiudichi nel contro l’interesse della prole.
Diversamente se componente dell’assegno divorzile è
una attribuzione patrimoniale e nel caso in cui rappresenti un versamento una tantum il patto dovrà superare
il giudizio di equità di cui all’articolo 5 comma VIII (18). Il
patto tuttavia può anche essere indipendente dalle pattuizioni necessarie del divorzio e rispondere soltanto alla
esigenza di sistemare i rapporti patrimoniali ancora pendenti. Ciò appare ancora più evidente quando i trasferimenti sono reciproci e quindi non determinano nel concerto un significativo spostamento di ricchezza ma raggiungono il fine di rendere i coniugi effettivamente indipendenti l’uno dall’altro in vista del divorzio. Si pensi ad
esempio al caso, anche questo abbastanza frequente in
cui i coniugi abbiano acquistato in regime di comunione
legale due case di cui una costituente casa coniugale e
quindi ad esempi assegnata ad uno di essi, e l’altra (non
necessariamente di valore minore) la c.d. casa della vacanze. In questo caso una ragionevole sistemazione dei
rapporti, (e ciò indipendentemente dal diritto del coniuge
più debole all’assegno divorzile e anche dall’esistenza
stessa di una disparità economica tra le parti) può avvenire con reciproco trasferimento delle quote comuni, sì
da rendere l’uno esclusivo proprietario della casa coniugale e l’altro esclusivo proprietario della seconda casa,
conseguendo altresì l vantaggio economico di trasferire
un immobile in pratica senza spese, poiché il processo di
divorzio non prevede neppure il versamento del contribuito unificato per spese di giustizia
La Corte in una sentenza affronta il problema della
modificabilità di siffatte clausole rilevando che l’accordo
mediante il quale i coniugi, nel quadro della complessiva
regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscano il trasferimento di beni immobili dà vita ad un contratto atipico, il quale, volto a
realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’articolo 1322 c.c., nonché caratterizzato da propri presupposti e finalità senza risultare, del resto, necessariamente collegato alla presenza di
uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento
ai tratti propri della donazione, risponde, di norma ed in
occasione della separazione ovvero con ancora maggiore
tipicità in occasione del divorzio, alla esigenze di dare un
assetto a tutta un’ampia serie di rapporti (anche del tutto
frammentari) aventi significati patrimoniali maturati nel
corso della quotidiana convivenza matrimoniale. Pertanto ove la pattuizione in ordine alla vendita dell’immobile
già assegnato come casa coniugale, provvedimento opponibile ai terzi in virtù di trascrizione anche oltre i nove
anni, considerato che il suddetto terzo acquirente è tenuto, negli stessi limiti di durata di tale opponibilità, a rispettare il godimento del coniuge del suo dante causa, si
può configurare come pattuizione del tutto “autonoma”
rispetto al regolamento concordato dai coniugi in ordine
alla assegnazione, della casa coniugale (cui si può attribuire la natura di contenuto necessario delle pattuizioni
di divorzio ove vi siano figli minori o maggiorenni non
autosufficienti) e che soggiace quindi, alla regola dell’immodificabilità, nelle forme e secondo la procedura di cui
agli articoli 710 c.p.c. ovvero ex articolo 9 legge div. (19)
Note
1. Secondo alcuni autori sarebbe più corretto parlare non di autonomia negoziale ma di esercizio di funzioni nell’interesse della famiglia. Per un approfondimento cfr. Cian in Commentario alla
riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro Oppo, Trabucchi p. 7
e Santoro Passarelli ibidem p. 216
2. Cass. 657/94 e 2270/93
3. La comunione legale tra coniugi si scioglie al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione o della omologazione definitiva della separazione consensuale (Cassazione
2844/01)
4. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, l’intollerabilità della convivenza, che giustifica la pronuncia di separazione dei coniugi ai sensi dell’art. 151 c.c. va ravvisata «in circostanze obbiettive,
non predeterminate nominativamente dalla legge e rimesse all’attenta e prudente valutazione del giudice, commisurata alle regole
di comportamento proprie dell’ambiente sociale in cui la famiglia
e’ inserita e desumibile secondo razionali criteri di comune esperienza» (Cassazione 1304/83)
5. Pur dovendo la separazione dei coniugi trovare causa e giustificazione in situazioni di intollerabilità della convivenza oggettivamente apprezzabili e giuridicamente controllabili, per la sua pronuncia non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti. Il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso
il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione e a prescindere
da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l’esistenza, anche in un
solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale
da rendere incompatibile, allo stato, la convivenza. Ove tale situazione d’intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, questi ha diritto di chiedere Ia separazione. Cassazione
21099/07
6. cfr. il caso rappresentato in Cass. 1008/76 si trattava di un caso di
violenza ex art. 1434 1435 c.c. il marito aveva ceduto dei beni alla
moglie per conseguire la remissione di una querela da lei presentata
7. Finocchiaro F. “Matrimonio ” in Commentario del Codice civile
Scialoja Branca tomo II p. 465
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 31
DOSSIER
8. Cassazione 7029/97
9. Cass. 17607/03
10. L’accordo di separazione ha natura negoziale e a esso possono
applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime
contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio
giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti
Cassazione 17607/03
11. Gli accordi preventivi tra coniugi sul regime economico del divorzio sono affetti da radicale nullità, per illecità della causa, avendo sempre l’effetto, se non anche lo scopo, di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status, in un
campo, cioè, in cui la libertà di scelta ed il diritto di difesa esigono
invece di essere indeclinabilmente garantiti; nè a diverso avviso
può indurre la possibilità - innovativamente introdotta dall’art. 4 l.
74/1987 - di proporre congiuntamente la domanda di divorzio, poiché in questa evenienza le intese raggiunte dalle parti sul relativo
assetto economico attengono ad un divorzio che esse hanno già
deciso di conseguire, e quindi non semplicemente prefigurato.
Cassazione 9494/92
12. G. Oberto Relazione presentata al convegno sul tema «La crisi
coniugale tra contratto e giudice», organizzato dal Comitato Regionale Notarile Toscano, 2007
13. Gli accordi con i quali i coniugi fissano, in via preventiva, il regime giuridico patrimoniale del futuro ed eventuale divorzio sono
nulli per illiceità della causa. Tale principio non trova applicazione
qualora l’autorità giudiziaria accerti che l’accordo (in parte, recepito nel verbale di separazione) aveva la funzione di porre fine ad alcune controversie insorte fra i coniugi, senza alcun riferimento,
esplicito o implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti all’eventuale pronunzia di divorzio. Parimenti il suddetto
principio non trova applicazione qualora sia invocato dal coniuge
che avrebbe potuto essere onerato dell’assegno divorzile, al fine di
ottenere l’accertamento negativo dell’altrui diritto Cassazione
8109/00
14. Doria, Autonomia privata e “causa” familiare, Milano 1996; t.;
Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti
familiari, Padova 1997; Comporti, Autonomia privata e convenzioni
preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, IV, 106 ss.
15. L’assetto economico stabilito all’atto della pregressa separazione personale costituisce solo un elemento utile di valutazione nel
contesto degli ulteriori dati presuntivi emersi, suscettibili di essere
apprezzati in favore della parte richiedente l’assegno, per il principio di acquisizione presente nel vigente ordinamento processuale
- in base al quale le risultanze istruttorie comunque ottenute concorrono alla formazione del convincimento del giudice - anche in
assenza della prova da parte del richiedente stesso della sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per l’attribuzione dell’assegno in questione Cassazione 15728/05.
16. In materia di divorzio, il giudice non può, in assenza di figli
conviventi, procedere all’assegnazione della casa coniugale in
comproprietà fra i coniugi, salvo che ricorra un accordo (anche tacito) tra le parti affinché la casa sia assegnata al coniuge avente diritto all’assegno di mantenimento quale componente di questo.
Cassazione 266/00
17. Cass. 19447/05; Cass. 26158/06
18. È di per sé valida la clausola dell’accordo di separazione che
contenga l’impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al
mantenimento del figlio minore, di trasferire, in suo favore, la piena proprietà di un bene immobile, trattandosi di pattuizione che
dà vita ad un contratto atipico, distinto dalle convenzioni matrimoniali e dalle donazioni, volto a realizzare interessi meritevoli di
tutela secondo l’ordinamento giuridico, ai sensi dell’art. 1322 c.c.
Cass. 11342/04
19. La clausola inserita in una separazione consensuale con la
quale i coniugi prevedono la futura vendita della casa familiare è
autonoma rispetto agli accordi oggetto di omologazione, e quindi
non è modificabile con il procedimento disciplinato dall’art. 710
c.p.c. perché non incide su diritti indisponibili quale quello della
minore a mantenere l’abitazione nella casa in cui è nata ed ha
sempre vissuta. Cassazione 24321/07
32 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
La separazione consensuale
tra autonomia privata e
controllo pubblico.
CLAUDIO CECCHELLA,
PROFESSORE, AVVOCATO
Relazione tenuta al Convegno del 22 febbraio 2008 organizzato dalla Sezione di Messina dell’Osservatorio sul diritto di
famiglia
1. Il consenso e l’omologa
Il tema generale dell’incontro di studio, costituito
dalle manifestazioni dell’autonomia privata nella regolamentazione della crisi, fuori e prima della separazione, nonché nel corso e dopo la separazione consensuale, viene nell’economia della presente relazione limitato esclusivamente al secondo profilo, ovvero alle
espressioni del consenso dei coniugi nell’ambito del
procedimento di separazione consensuale e dopo la
sua omologa.
Sotto questo particolare profilo è preliminare una disamina, alla luce della disciplina di legge applicabile, dei
due elementi che contraddistinguono l’iter procedimentale di una separazione consensuale: il consenso dei coniugi, da un lato, espresso nel ricorso e ribadito a verbale innanzi al presidente e il decreto di omologa d’altro.
Detta disamina, muovendo proprio dalla lettera degli
articoli 711, comma 4 c.p.c. e 158, comma 2, c.c. consente di individuare giuridicamente l’elemento essenziale
della fattispecie che costituisce la separazione nel consenso, rispetto al quale l’omologa si pone come elemento esterno, mera condizione di efficacia di un istituto
che ha matrice esclusivamente nell’accordo dei coniugi.
L’omologa del tribunale viene infatti inquadrata come
mera condizione di efficacia dell’accordo e lo stesso ambito di sindacato consentito al giudice è esplicitamente
limitato alla verifica di una corretta regolamentazione
dell’interesse dei figli negli accordi di separazione, articolo 158 comma 2 c.c. Pertanto la stessa cognizione dei
presupposti della separazione, ovvero la intollerabilità
della prosecuzione della convivenza o il grave pregiudizio alla educazione della prole è esclusa dalle verifiche
compiute in sede di omologa (e costituisce una valutazione lasciata alla autonomia dei coniugi).
Deve particolarmente evidenziarsi la diversità rispetto al divorzio introdotto congiuntamente dai coniugi,
ove il rito si esprime come contenzioso e al giudice è
affidato un giudizio sui presupposti dello scioglimento
del matrimonio che si conclude correttamente con una
sentenza. Vi è poi da aggiungere che qualora il tribunale in sede di divorzio è adito da un’istanza congiunta
dei coniugi, nell’eventualità ritenesse violati gli interessi dei figli, non si limita a convocare i coniugi per favorire una pattuizione diversa, ma converte il rito da cameral-contenzioso a contenzioso ordinario, applicandosi il comma 8 dell’articolo 4 legge 898/70 (cfr. rinvio
del comma 16).
DOSSIER
Al contrario nel procedimento per separazione consensuale, innanzi ad una verifica negativa di una corretta regolamentazione dei rapporti con i figli, il giudice
non può sostituirsi alla volontà delle parti e decidere
con un giudizio che sostituisce il consenso, ma deve curare la convocazione dei coniugi per favorire una diversa soluzione consensuale; in difetto di adesione dei coniugi deve semplicemente non omologare la separazione consensuale (articolo 158 comma 2, c.c.).
È pertanto corretto inquadrare il procedimento di separazione consensuale nell’ambito della volontaria giurisdizione, ove, fermo restando che la fattispecie produttiva di effetti è il negozio, nel nostro caso il patto tra coniugi, al giudice è data la facoltà, con precisi limiti, di
verificare la coerenza dell’accordo con interessi generali
implicati nella regolamentazione operata sul piano negoziale (nella specie quello di proteggere i figli), e quindi
di rimuovere una condizione di efficacia della fattispecie.
La separazione consensuale coincide quindi con un
negozio giuridico, di cui assume inevitabilmente per derivazione dalla qualificazione il regime giuridico relativo, in ordine alla sua validità ed efficacia, pur con le necessarie attenuazioni dovute dalla indisponibilità di
parte degli interessi trattati.
Inoltre, come avremo modo di verificare, il patto di separazione, pur contenendo clausole di rilievo economico-patrimoniale, nel suo nucleo essenziale regola interessi e profili personali, quale in primis l’effetto di sospendere l’obbligo della convivenza regolandone le conseguenze in ordine ai rapporti personali tra i coniugi e i
coniugi e i figli. Con questo si intende sottolineare i
principi e le regole dettate in materia contrattuale non
possono trasferirsi, senza i necessari distinguo, nell’ambito dell’accordo di separazione.
2. Inderogabilità della disciplina e indisponibilità dei diritti,
il diverso regime dei patti di separazione consensuale
(1) È opportuno inoltre, sempre in sede di inquadramento generale, evidenziare come alcune pattuizioni
che possono esprimersi nell’accordo di separazione
consensuale non potrebbero essere assunte dai coniugi,
per i limiti di oggetto imposti all’autonomia privata
quando interviene su situazione indisponibili.
In questi casi la pattuizione è priva in assoluto di effetti, appunti per limiti attinenti al suo oggetto.
È il caso, per la previsione espressa contenuta nell’articolo 158, comma 2, dei patti e accordi che riguardano
l’affidamento in senso lato (quindi anche il diritto di visita del coniuge non affidatario oppure le determinazioni sul domicilio prevalente o l’esercizio delle sue prerogative nel caso di affidamento condiviso) e il mantenimento del figlio.
È opportuno evidenziare che tali patti non si limitano
solo alle previsioni sull’affidamento, la potestà e la modalità e la misura del contributo di mantenimento del
figlio, ma anche possono manifestarsi anche in relazioni a profili diversi che pure coinvolgono intensamente
gli interessi del minore, tanto da essere regolati proprio
in funzione di questi ultimi. È il caso della previsione
sull’assegnazione della casa familiare, che già nella giurisprudenza, ma particolarmente dopo la legge 54 del
2006 che è intervenuta introducendo l’articolo 155quater, era ed è regolata secondo gli interessi del figlio.
Nel caso di figlio maggiorenne, per il quale non si pone più un problema di affidamento, ma solo di mantenimento, con la previsione di un’azione autonoma e di
una corrispondente legittimazione ex articolo 155quinquies, c.c., è da ritenere che il patto fuoriesca dai limiti
di indisponibilità evidenziati e l’accordo rientri piuttosto
nella disciplina dei patti soggetti a norma imperativa (v.
infra, par. 4).
Non è casuale la previsione espressa sul piano legislativo di un controllo in sede di omologa che riguarda
esclusivamente tale profilo, dove deve ritenersi il tribunale è munito di un potere di sindacato che dalla legittimità della pattuizione spazia sino al suo merito, ovvero
ai contenuti della disciplina consensuale degli interessi
del minore. Il potere di sindacato nel merito è la riprova
che la materia può essere oggetto di un atto di autonomia solo nella particolare sede in cui è esercitato, ovvero quella del procedimento di separazione consensuale.
(2) Diversa è l’ipotesi invece dei patti che intervengono su interessi e rapporti che non sono in assoluto indisponibili, bensì interferiscono in modo più o meno accentuato con norme di legge inderogabili. In questi casi
il patto non subisce un divieto assoluto di oggetto, ma
pur potendosi validamente perfezionare, subisce una limitazione di contenuto, dovendosi esprimere necessariamente secundum legem, in difetto potendo essere
impugnato da chiunque vi abbia interesse. Questo è il
caso delle pattuizioni che riguardano i rapporti personali e patrimoniali dei coniugi. In tali casi la legge tace, ovmaggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 33
DOSSIER
vero non riconosce un potere di sindacato del tribunale
in sede di omologa. È certa, e raccoglie un’unanime opinione, l’insidacabilità nel merito delle soluzioni adottate
dai coniugi, potendosi al massimo ipotizzare un controllo di stretta legalità (nel caso estremo in cui si neghi
un contributo di mantenimento in presenza dei presupposti o si regoli fuori dai criteri di proporzionalità con i
redditi dell’obbligato, articolo 156, comma 1 e 2, c.c.).
Certa è la nullità del patto, che tuttavia può essere perfezionato anche al di fuori della sede del procedimento
di separazione consensuale, quando viola la norma imperativa.
(3) Esiste infine un settore di pattuizione avente per lo
più rilievo economico, di carattere accessorio, che trova
nella separazione l’occasione di esprimersi, ma che potrebbe perfezionarsi anche al di fuori di quella sede e
non interviene quindi su situazioni indisponibili in assoluto o in aree non interessate a norme di legge imperative. In quest’ultimo caso il patto non incontra né un
limite di oggetto nè un limite di contenuto, si esprime
liberamente sul piano dell’autonomia, non è sindacabile
nel merito nè sul piano della legittimità, salvo il rispetto
delle regole sulla corretta formazione della volontà contrattuale.
Questa distinzione è assolutamente centrale ai nostri
fini.
3. I patti su affidamento e mantenimento dei figli
Se la pattuizione, come nel caso della regolamentazione degli interessi di un figlio, ha un limite di oggetto,
l’accordo avulso dall’omologa, ovvero dalla contestualizzazione con un procedimento di separazione consensuale, non solo è privo di effetti, ma è radicalmente nullo, anche se assunto prima o dopo la separazione e anche se coerente con il dettato di legge.
In questo caso forse è da proporre, sul piano sistematico, un inquadramento paritetico di consenso e omologa, come elementi entrambi necessari della fattispecie a
formazione successiva.
Lo si ripete, senza il contesto del procedimento di volontaria giurisdizione e l’esito dell’omologa, il patto è
giuridicamente irrilevante.
Ne deriva una forte limitazione della estensione dei
principi in materia di autonomia privata e di negozio
giuridico: non si potrà ipotizzare l’ammissibilità di un’azione di annullamento per vizio del consenso (in particolare dolo o errore) oppure di un’azione di simulazione, poiché la pattuizione è elemento da collocare sullo
stesso piano dell’omologa.
Se il tribunale ha dato il suo benestare al patto, non è
pensabile che esso possa essere invalidato con una qualunque azione di impugnativa del contratto.
Ne risulta, ancora, la piena applicazione delle regole
della volontaria giurisdizione e in particolare del rito camerale.
Il patto omologato sui figli sarà reclamabile ex articolo 739 c.p.c., per favorire un nuovo sindacato nel merito
della Corte di appello, entro dieci giorni dalla comunicazione (ché il procedimento deve ritenersi non contenzioso e quindi dato nei confronti di una sola parte, ma il
34 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
reclamo dovrà muovere solo dalla ragione di una rinnovazione del sindacato di merito, per l’errata valutazione
anche da parte del tribunale degli interessi del minore e
non lamentando un vizio del volere, un incapacità, una
simulazione o un qualunque vizio contrattuale).
Sarà modificabile ex art 710 c.p.c. per sopravvenienze
(regola dettata dall’articolo 711, u.c. c.p.c. prevalente sulla regola generale dell’articolo 742 c.p.c. che consente
una generale modificabilità e anche una revocabilità,
qui impensabile), sempre per una nuova verifica nel
merito delle soluzione adottate. Quindi per il carattere
prettamente di volontaria giurisdizione non formerà
mai giudicato.
È tuttavia bene evidenziare che il procedimento di
modifica ex articolo 710 c.p.c., benché sia ricondotto alle
forme camerali, è di carattere contenzioso e quindi in
sede di modifica, le parti non possono più determinare
un elemento della fattispecie mediante l’accordo, ma
devono integralmente soggiacere al giudizio del tribunale, il quale non interviene più con un potere di semplice omologa, ma con il potere di imperio di esprimere
un giudizio ed imporlo alle parti. La soluzione che avvilisce in modo incoerente l’espressione della volontà dei
coniugi in sede di modifica, merita un ripensamento de
iure condendo.
4. I patti sul mantenimento dei coniugi
È stato possibile, in par. 2, evidenziare come questi
patti possano efficacemente e validamente concludersi
anche fuori dal procedimento di separazione, poiché
non sono soggetti ad un limite di oggetto, bensì di contenuto, e perciò sono solo soggetti al rispetto della normativa imperativa nelle loro determinazioni contenutistiche.
Non è quindi postulabile un astratto divieto di pattuizioni fuori dalla separazione, prima o dopo che si sia
conclusa, poiché l’unico limite che le contraddistingue è
quello del rispetto della norma imperativa di legge
(quindi, possono esprimersi liberamente, fuori dal contesto istituzionale della separazione consensuale, ma
sono soggette alla impugnazione per violazione di norma imperativa).
Sotto questo profilo merita qualche riflessione il caso,
che, a parer mio, si scontra con la previsione imperativa
sul mantenimento, della previsione pattizia di una prestazione una tantum del contributo di mantenimento
non munito della clausola rebus sic stantibus, qualche
volta manifestata attraverso la cessione di un bene
(spesso immobile). È noto infatti come alla separazione
giudiziale è stato estesa la possibilità di una determinazione con prestazione unica dell’obbligo di mantenimento, anziché con prestazione periodica (articolo 5,
comma 8, legge 898 del 1970). È infatti vero che la disposizione per il processo divorzile discende dalla necessità
di un accordo delle parti, ma è anche vero che questo
accordo deve ritenersi “equo dal tribunale”, ciò per l’effetto preclusivo di future azioni di contenuto economico. Ora non pare che i limitati poteri del tribunale in sede di omologa possano consentire il giudizio di equità
fissato dalla norma, poiché l’oggetto del controllo giudi-
DOSSIER
ziale sono soltanto le disposizioni e i patti che riguardano i figli. È perciò fortemente dubitabile la validità di un
contributo di mantenimento coniugale pattuito con una
prestazione unica con rinuncia a qualsiasi pretesa economica successiva, potendo l’eventualità prodursi solo
a seguito di un giudizio di separazione consensuale. Per
cui la conseguente rinuncia dovrebbe valere solo rebus
sic stantibus (tra le tante, Cassazione 4794/96; 4748/99).
In questo ambito, invero, non vi è motivo per escludere una generale riconduzione alla disciplina del negozio
giuridico e, tra le norme imperative che possono avere
rilievo, deve postularsi l’applicazione della normativa
protettiva di una libera e consapevole formazione del
consenso e di una sua effettività.
Non vi è dubbio perciò sotto questo profilo che la separazione consensuale sia impugnabile mediante le
azioni di nullità ex articolo 1418 c.c. e di annullabilità
per incapacità o vizio del consenso ex articoli 1425 e
1427 c.c.; infine per simulazione ex articoli 1414 e ss. c.c.
Non vi è infatti ragione - e recentemente il giudice di
legittimità lo ha finalmente riconosciuto (cfr. Cass.
7681/86 per l’azione di simulazione, ma in senso contrario v. Cass. 17607/03, e Cass. 17902/04, in senso favorevole per l’azione di annullamento) - per escludere
l’applicazione del regime del negozio giuridico, poiché
l’omologa non aggiunge nulla ad una fattispecie che si
identifica appunto in un negozio giuridico e perché, tra
l’altro, in questo particolare ambito l’omologa non ha
modo di intervenire. Anche a volere ammettere, come
la giurisprudenza di merito, che in sede di omologa il
giudice possa condurre un controllo di legittimità preventivo di tali patti, le scelte di merito sulla regolamentazione degli interessi sono abbandonate alla volontà
dei coniuge, che deve formarsi in modo libero e consapevole. La riprova di quanto veniamo dicendo è che
correttamente il giudice di legittimità non ha ritenuto
che la sede per l’esercizio delle azioni di impugnativa
contrattuale sia il reclamo ex articolo 739 c.p.c. oppure
il procedimento di modifica dell’articolo 711 c.p.c., bensì quella dell’ordinario processo di cognizione ove vengono comunemente esercitate le azioni di impugnazione del contratto (cfr. Cass. 24321/07, in Avvocati di famiglia, 2008, n. 1, 32).
L’azione di simulazione, per i ben noti limiti sul piano
probatorio (articolo 1417 c.c.) pone il problema della
contestualizzazione con una manifestazione di volontà
dissimulata mediante scrittura separata e con l’efficacia
che a quest’ultima deve essere attribuita, purché in linea con il disposto di legge imperativo. Orbene proprio
questo regime particolare giustifica la validità ed efficacia anche di un accordo della crisi assunto al di fuori del
procedimento di separazione.
Vi infine da aggiungere che, proprio per il mancato
sindacato in sede di omologa, tali patti riguardanti vicende per lo più patrimoniali che interessano i coniugi
conservano la loro efficacia (se questa non è rimossa da
una declaratoria di nullità per violazione di norma di ordine pubblico), anche nel caso in cui l’omologa sia rifiutata.
5. I patti accessori in materia non disponibile e non
soggetta a norme imperative
Si tratta di patti accessori, sulla divisione del patrimonio comune quale effetto della separazione, relativi ad
effetti traslativi di diritti reali su beni mobili o immobili
o alla costituzione di diritti personali di godimento, sino
addirittura a veri e propri negozi di accertamento sulla
titolarità di un diritto oppure accordi transattivi con i
quali vengono regolati, ad esempio, i danni provocati ad
un coniuge dalle condotte o omissioni dell’altro, che
hanno assai spesso accesso agli accordi di separazione
consensuale e che dimostrano una ben diversa apertura
del procedimento per separazione consensuale rispetto
al procedimento per separazione giudiziale, il cui oggetto normalmente non consente l’ingresso a domande diverse.
In questi casi la riconduzione piena e senza limiti al
regime della libera autonomia, sinanche in alcuni casi al
regime dei veri e propri contratti, ne giustifica la applicazione senza limiti del relativo regime, dalle azioni di
impugnativa per vizi del contratto sino alle azioni di
manutenzione o risoluzione del contratto, tutte esperibili nei modi e nelle forme ordinarie (non essendone
certamente interessati i messi speciali del reclamo contro il decreto di omologa e delle modifiche ai patti di separazione). Quanto a quest’ultimo aspetto è oltrettutto
discutibile che l’accordo di natura contrattuale, destinato a creare un vincolo obbligatorio tra le parti che non
può essere sciolto unilateralemente, possa essere privato di effetti fuori dalle eccezionali ipotesi che consentono una risoluzione del contratto, il profilo sarà particolarmente esaminato nel par. 7, sulla revoca del consenso.
Si deve aggiungere che l’accertamento dei presupposti di intolleranza della convivenza, riservata alla libera
valutazione delle parti, per quanto sia espressione di
autonomia insindacabile, può realizzarsi sooltanto in
sede di verbale di separazione consensuale e in nessun
altra sede: pertanto in questa parte il negozio ha forma
solenne dovendo essere raccolto a verbale in sede di
udienza presidenziale.
6. In particolare i patti traslativi di diritti reali
Se invero possono avere accesso negli accordi di separazione consensuale patti accessori di natura patrimoniale senza limiti, qualche dubbio pongono i patti con
effetti reali o obbligatori, traslativi di diritti reali, propendendo la giurisprudenza di merito per la negativa in
modo incoerente con contemporanee e contrarie pronunce del giudice di legittimità.
Non tanto i patti aventi portata obbligatoria, discendendo da essi un semplice obbligo a perfezionare l’atto
tralsativo vero e proprio (e tutelati in forma specifica
con sentenza costitutiva ai sensi dell’articolo 2932 c.c.),
per i quali si rende necessaria la sola forma scritta che
certamente è raggiunta nel patto raccolto a verbale d’udienza innanzi al presidente del tribunale.
I problemi sono tutti per il caso di un contratto di natura reale, che realizzi subito il trasferimento della proprietà oppure la costituzione del diritto reale minore.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 35
DOSSIER
Infatti non sembrano realizzabili gli oneri necessari
per la pubblicazione e quindi la opponibilità ai terzi ed
inoltre il giudice viene investito di funzioni notarili di
assistenza che non corrispondono ai suoi fini istituzionali (tanto che l’atto rischia di recare con sé l’incertezza
della sua invalidità).
(a) Sotto il primo profilo, non pare che né il giudice, né
il cancelliere sono in grado di attribuire, agli effetti della
trascrizione, quella pubblicità necessaria che l’atto deve
avere sul piano formale (l’autentica delle sottoscrizioni;
ciò che non toglie che in astratto il verbale può avere il
valore della scrittura privata);
(b) sotto il secondo non è pensabile che il giudice acquisisca - in sede di volontaria giurisdizione ove deve
solo sindacare l’interesse del figlio nella regolamentazione negoziale - le certificazioni e le dichiarazioni necessarie ad accettare la regolarità e quindi la commerciabilità dell’immobile secondo la legislazione amministrativa e fiscale.
Se il secondo profilo appare invero insuperabile, il primo non sembra incontrare particolari difficoltà, poiché
almeno una funzione certificatrice dell’autenticità delle
sottoscrizioni il giudice deve avere e una scrittura autenticata o verificata è titolo valevole per la trascrizione
nei registri immobiliari (al limite preceduta da una domanda di accertamento della autenticità delle sottoscrizioni).
Peraltro oggi il verbale di separazione consensuale
non è solo titolo esecutivo, ma anche è anche titolo per
l’iscrizione di ipoteca (le cui formalità non differiscono
da quanto è richiesto per la trascrizione), dopo Corte cost. 186/88.
7. La revoca del consenso
Si è detto di una generalizzata revocabilità del consenso alla separazione consensuale, ma i dubbi restano
sul momento ultimativo di esercizio di siffatta straordinaria facoltà.
Ora tale facoltà di recesso unilaterale non corrisponde
al diritto dei contratti e dei negozi giuridici, per i quali
vale il contrario principio della obbligatorità degli effetti
della manifestazione negoziale. Nella fattispecie, tuttavia, il carattere personale dei contenuti necessari del
consenso alla separazione, che devono essere di necessità tradotti in un verbale reso innanzi al presidente del
tribunale, impone una deroga al diritto dei contratti.
Non mi pare tuttavia che i coniugi possano modificare le loro pattuizione (e quindi eventualmente recedere
dall’accordo) oltre la udienza presidenziale, poiché nella
fase successiva non vi è luogo del procedimento ove
possano intervenire, se non l’ambito favorito dallo stesso tribunale che convoca le parti per una modifica degli
accordi. Qualora alla udienza una delle parti, anche soltanto rifiutando di sottoscrivere il verbale, neghi l’adesione, il tribunale deve procedere alla archiviazione del
procedimento per mancanza di un suo elemento essenziale e ai coniugi non resta che la via del rito contenzioso.
Questo a valere per i patti essenziali: la presa d’atto
sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza,
36 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
i patti riguardanti l’affidamento e il mantenimento.
Non ritengo possa valere per quelle clausole c.d. accessorie, per le quali il diritto dei contratti prende pieno
vigore e in esso l’efficacia obbligatoria dello scambio
adesivo dei consensi: concluso il contrattro nessuna
delle parti può sottrarsi ai suoi effetti.
8. La riconciliazione
Diversa dalla revoca è la riconciliazione, regolata nell’ambito della separazione giudiziale, ma con previsione
estensibile (arg. ex articolo 154 c.c.).
Come gli effetti della domanda (o della sentenza ex
articolo 157 c.c.), anche gli effetti della separazione consensuale omologata vengono meno per volontà bilaterale espressa di riconciliarsi, ovvero ridare vigore alla
convivenza e alla comunione sprituale e materiale tra
coniugi, espressa anche mediante comportamento concludente (ancora arg. ex articolo 157 c.c.). In tal caso il
recesso concerne esclusivamente la volontà di separarsi
e non pare che alcuna pattuzione in qualche modo collegabile alla crisi familiare possa sopravvivere alla cessazione degli effetti.
Non pare tuttavia applicabile l’articolo 157, comma 2,
c.c., che ammette la parte ad una nuova domanda di separazione personale solo se interviene in relazione a
condotte successive, riferendosi evidentemente la norma solo alla separazione giudiziale, poiché in quella
consensuale i presupposti sono lasciati alla determinazione dell’autonomia privata.
9. Il mutamento del titolo di separazione
Una volta che il consenso è stato prestato per una soluzione concordata di separazione e il tribunale ha
omologato, è possibile ipotizzare una revoca della volontà, non tanto diretta ad escludere gli effetti della separazione, quanto diretta - mediante introduzione di un
giudizio - all’accertamento dell’addebitabilità della separazione, con i suoi effetti sul mantenimento e sui diritti successori.
Il profilo, che attiene evidentemente per i suoi limitati
riflessi patrimoniali, al rapporto tra i coniugi, nonostante una certa chiusura della giurisprudenza (da ultimo
Cass. 9317/97; 6566/97, che consente l’accertamento solo
e rigorosamente in sede di separazione; ma con illustri
contrasti, cfr. Cass. 9287/97), deve a parere mio inquadrarsi eventualmente nell’annullamento del patto per
errore vizio del volere, se il coniuge che ne è vittima
prova di essersi determinato per il consenso alla separazione misconoscendo i fatti e le condotte addebitabili
all’altro coniuge. Il tutto potrebbe avere accesso in un
ordinario giudizio, nel quale all’annullamento segua
l’accertamento dell’addebito.
Se poi la condotta addebitabile è successiva all’omologa (ché la separazione non libera i coniugi da tutti gli
obblighi matrimoniale, esonerandoli dal solo obbligo di
coabitazione), non vi è ancora una volta ragione per
escludere l’accertamento del diverso titolo addebitabile
della separazione.
In ogni altro caso, per la irrevocabilità del consenso
dopo l’udienza presidenziale, non sembra consentito
l’accertamento del diverso titolo di separazione.
GIURISPRUDENZA
Massimario di diritto di famiglia
ACCORDI
ADOZIONE DI MINORI
Trasferimenti immobiliari
Revoca dell’adottabilità
Gli accordi in sede di separazione e divorzio di
trasferimento della proprietà possono essere oggetto
di azione revocatoria
La revoca dell’adottabilità presuppone sia il venir
meno dell’abbandono che l’interesse del minore
Cass. sez. III, 13 maggio 2008, n. 11914
È suscettibile di revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. il
contratto con cui un coniuge trasferisca all’altro un immobile, al dichiarato fine di dare esecuzione agli obblighi assunti in sede di separazione consensuale omologata.
La domanda di revoca del contratto di trasferimento
sottopone alla cognizione del giudice anche l’esame degli accordi preliminari stipulati in sede di separazione,
che abbiano dato causa al trasferimento, senza necessità che sia proposta specifica impugnazione contro gli
stessi, sempre che siano stati dedotti in giudizio i presupposti di diritto e di fatto rilevanti ai fini della decisione.
La valutazione relativa alla sussistenza dei requisiti
per la revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. va compiuta con
riferimento sia ai preliminari accordi di separazione, sia
al contratto definitivo di trasferimento immobiliare.
ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE
Abbandono della casa coniugale
L’abbandono della casa familiare è causa di addebito
se non ha giustificazione nel comportamento dell’altro
coniuge
Cass. sez. I, 5 febbraio 2008, n 2740
L’abbandono della casa familiare, ove attuato dal coniuge senza il consenso dell’altro coniuge e confermato
dal rifiuto di tornarvi, di per sé costituisce violazione di
un obbligo matrimoniale e, conseguentemente, causa
di addebito della separazione là dove provoca l’impossibilità della convivenza, mentre non concreta una simile violazione quante volte sia stato cagionato dal
comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando risulti intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità
della prosecuzione della convivenza si sia già verificata,
e in conseguenza di tale fatto, così da non spiegare rilievo causale ai fini della crisi matrimoniale.
Cass. sez. I, 19 febbraio 2008, n. 4199
La legge 184/83, art. 21, stabilisce al comma 1 che «Lo
stato di adottabilità cessa altresì per revoca, nell’interesse del minore, in quanto siano venute meno le condizioni di cui all’art. 8...». L’ultimo comma della norma
precisa inoltre che «nel caso in cui sia in atto l’affidamento preadottivo, lo stato di adottabilità non può essere revocato». Dalla lettera della norma si ricava con
chiarezza che due sono le condizioni perchè possa farsi
luogo alla revoca dello stato di adottabilità: il venir meno dello stato di abbandono del minore, quale regolato
dalla legge 184/83, art. 8, e la sussistenza dell’interesse
del minore alla revoca. Tant’è che il legislatore vieta la
revoca quando sia in atto l’affidamento preadottivo,
presumendo in via assoluta che in tale situazione di
fatto la revoca dello stato di adottabilità non sia nell’interesse del minore.
Procedimento
Solo le sentenze della corte d’appello in materia di
adottabilità pronunciate dopo il 30 giugno 2007 sono
ricorribili per cassazione per tutti i motivi di cui all’art.
360 c.p.c.
Cass. sez. I, 4 aprile 2008, n. 8714
Avverso le sentenze sullo stato di adottabilità pronunciate dalla sezione per i minorenni della Corte
d’appello fino alla data del 30 giugno 2007, il ricorso per
cassazione continua ad essere ammesso esclusivamente per violazione di legge, secondo la disciplina contenuta nel testo originario dell’art. 17 della legge 184/83,
giacché l’entrata in vigore della nuova normativa processuale (art. 16 della legge 149/01, sostitutivo del richiamato art. 17) - la quale ha esteso l’ambito dei motivi di ricorso per cassazione avverso le dette sentenze,
comprendendovi anche il vizio di motivazione ai sensi
dell’art. 360, primo comma, numero 5), c.p.c. - è rimasta
sospesa fino alla predetta data in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 1 del Dl 150/01 {convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2001, n.
240/01), il cui termine di efficacia, dapprima fissato al
30 giugno 2002, è stato ripetutamente prorogato, e da
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 37
GIURISPRUDENZA
ultimo fino, appunto, al 30 giugno 2007, in forza dell’art.
1, comma 2, della legge 12 luglio 2006, n. 228, di conversione del decreto-legge 12 maggio 2006, n. 173.
CASA FAMILIARE
Assegnazione
L’assegnazione della casa familiare è subordinata
all’interese dei figli
Cass. sez. I, 18 febbraio 2008, n. 3934
Il previgente art. 155 del c.c., nel testo fino all’entrata
in vigore della legge, 54/2006 e il vigente art. 155quater
del c.c., in tema di separazione, come l’art. 6 della legge
898/1970, subordinano l’adottabilità del provvedimento
di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi.
In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare
sia in comproprietà fra i coniugi, sia che appartenga in
via esclusiva a uno solo dei coniugi, il giudice non potrà
adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l’art. 156 del c.c., che non prevede
tale assegnazione in sostituzione o quale componente
di mantenimento.
DIRITTO PENALE DELLA FAMIGLIA
Detenzione di materiale pedopronografico (art. 600
quater c.p.)
L’art. 269 c.c., consente di utilizzare ogni mezzo di
prova e non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale, sicché il giudice di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente fondare il
proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un
rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, senza che assuma
carattere di indefettibilità neppure la dimostrazione
dell’esistenza di rapporti sessuali tra la madre ed il preteso padre durante il periodo del concepimento
Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da
parte del giudice ai sensi dell’art. 116, secondo comma,
cod. proc. civ., anche in assenza di prova di rapporti
sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di
prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente
acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti
intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del
preteso genitore naturale, se non consente di fondare la
dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della
madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre
all’epoca del concepimento, non esclude che il giudice
possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in
particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi
agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre,
globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre (v. Cass., sent. n.
1733 del 2008, n. 6694 del 2006).
Accertamento giudiziale della paternità naturale
Non sono punibili per detenzione gli autori del
materiale pedopornografico
Cass. penale, sez. III, 14 gennaio 2008, n. 1814
Devono escludersi dal novero dei soggetti attivi del
reato di cui all’articolo 600-quater del cp coloro che
hanno prodotto il materiale pedopornografico, in relazione ai quali la detenzione costituisce un post factum
non punibile.
Il rapporto tra il reato di pornografia minorile e quello di detenzione di materiale pornografico è regolato infatti dalla espressa clausola di riserva di cui all’art. 600quater, comma 1, del cp, la quale risolve il conflitto apparente di norme in favore dell’applicazione della fattispecie più grave.
FILIAZIONE
Dichiarazione giudiziale di paternità naturale
Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini
ematologiche costituisce un comportamento
valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116,
secondo comma, c.p.c., anche in assenza di prova di
rapporti sessuali tra le parti
Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10051
38 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
L’accertamento genetico della paternità attraverso una
consulenza tecnica rientra nei poteri del giudice del
merito il quale può ritenere superfluo l’esame ove
abbia già acquisito elementi sufficienti.
Cass. sez. I, 16 aprile 2008, n. 10007
L’art. 269 c.c. non pone alcuna limitazione in ordine
ai mezzi con i quali può essere provata la paternità naturale e, così, consente che quella prova possa essere
anche indiretta ed indiziaria, a possa essere raggiunta
attraverso una serie di elementi presuntivi che, valutati
nel loro complesso e sulla base del canone dell’id quod
plerumque accidit, risultino idonei, per la loro attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità. In particolare, nell’ambito di queste circostanze indiziarie sono utilizzabili come elementi di giudizio il tractatus e la fama (consistendo il primo nell’effettivo rapporto fra l’asserito genitore e la persona a cui favore si chiede la dichiarazione giudiziale di paternità, nel senso che il padre l’abbia
trattata come figlio e abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all’educazione e all’istruzione, e
la seconda nella manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali), essendo gli stessi indicativi di
quel possesso di stato di figlio naturale, al quale già il
testo dell’abrogato art. 270 c.c. attribuiva l’idoneità a di-
GIURISPRUDENZA
mostrare la paternità naturale (Cass., Sez. I, 5 agosto
1997, n. 7193).
L’ammissione della consulenza tecnica d’ufficio rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito (Cass.,
Sez. I, 28 febbraio 2006, n. 4407) e anche nel giudizio per
la dichiarazione giudiziale di paternità naturale (dove la
consulenza tecnica non ha in realtà la semplice funzione di fornire al giudice la valutazione relativa a fatti già
acquisiti al processo, ma costituisce essa stessa fonte di
prova e di accertamento di situazioni di fatto), il ricorso
alle indagini ematologiche e genetiche è rimesso alla
valutazione del giudice, il quale può ritenerle superflue
ove abbia già acquisito elementi sufficienti a fondare il
proprio convincimento (Cass., Sez. I, 18 aprile 1997, n.
3342; Cass., Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749).
Il giudice può sempre desumere argomenti di prova
dal rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematologici
Cass. sez. I, 25 gennaio 2008, n. 1733
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se
non consente di fondare la dichiarazione di paternità
sulla sola dichiarazione della madre e sull’esistenza di
rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento, non esclude che il giudice possa desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, e in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa perfino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del
preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con la dichiarazione della madre.
Nell’accertamento della paternità naturale possono
essere valide anche le testimonianze de relato come
fonte sussidiaria di convincimento
Cass. sez. I, 25 gennaio 2008, n. 1733
L’articolo 269 del cc, secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra
questa e il presunto padre all’epoca del concepimento
non costituiscono prova della paternità naturale, non
solamente non esclude che tali circostanze, possano
essere valutate dal giudice del merito come elementi di
conferma del proprio convincimento circa la sussistenza della paternità naturale, ma a maggior ragione non
preclude l’utilizzazione, quanto meno come fonte sussidiaria di prova, di testimonianze de relato, la cui attendibilità e rilevanza vanno verificate in concreto nel
quadro di una valutazione globale delle risultanze di
causa, specialmente quando i fatti riferiti siano stati
appresi dai terzi in epoca non sospetta.
ammessa solo ove il riconoscimento possa
compromettere gravemente lo sviluppo del del
minore.
Cass. sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4
L’interesse del figlio minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’articolo 250
del cc, è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto all’identità personale nella sua precisa e integrale
dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione
al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo
abbia già effettuato il mancato riscontro di un interesse
del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in
presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a
ravvisare la forte probabilità di una compromissione
dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice di merito, le cui conclusioni,
ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
NULLITÀ DEL MATRIMONIO
Delibazione della sentenza ecclesiastica
Sussiste una violazione del diritto delle parti di agire e
resistere in giudizio solo in presenza di una
compressione della difesa negli aspetti e requisiti
essenziali garantiti dall’ordinamento dello Stato
Cass. sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186
Al giudice italiano non è precluso di provvedere ad
un’autonoma e diversa valutazione del medesimo materiale probatorio secondo le regole del processo civile
In sede di delibazione della sentenza di nullità matrimoniale emessa dal giudice ecclesiastico per esclusione del vincolo dell’indissolubilità “ex parte viri”, il giudice italiano è vincolato ai fatti accertati in quella pronuncia, non essendogli concesso né un riesame del
merito né il rinnovo dell’istruttoria con acquisizione di
nuovi materiali probatori; tuttavia, essendo diversa la
natura dei due giudizi - quello ecclesiastico teso ad accertare la “voluntas simulandi” di un coniuge e quello
italiano incentrato sulla necessità di verificare il profilo
di conoscenza o conoscibilità di tale riserva unilaterale
- al giudice italiano non è precluso di provvedere ad
un’autonoma e diversa valutazione del medesimo materiale probatorio secondo le regole del processo civile,
eventualmente disattendendo gli obiettivi elementi di
conoscenza documentati negli atti del giudizio ecclesiastico.
PENSIONE DI REVERSIBILITÀ
Riconoscimento tardivo
Ripartizione tra ex coniuge e coniuge superstite
L’opposizione al riconoscimento tardivo può essere
Per ripartire la pensione di reversibilità conta solo la
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 39
GIURISPRUDENZA
durata legale del matrimonio
Cass. sez. I, 23 aprile 2008, n. 10575
La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso
di concorso fra coniuge divorziato e coniuge superstite
aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve
essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della
durata dei rispettivi matrimoni, anche ponderando (alla
luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte
costituzionale n. 419 del 1999) ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento
di reversibilità, da individuare facendo riferimento all’entità dell’assegno di divorzio riconosciuto all’ex coniuge ed alle condizioni economiche dei due, nonché
alla durata delle rispettive convivenze prematrimoniali
(Cass. 10 maggio 2007 n. 10669, Cass. 9 marzo 2006 n.
5060, Cass. 7 marzo 2006 n. 4868, Cass. 30 marzo 2004 n.
6272); b) gli ulteriori elementi - da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale e da individuare nell’ambito dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970 sono funzionali allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l’assegno di divorzio ed il secondo sia
privato di quanto necessario per la conservazione del
tenore di vita che il “de cuius” gli aveva assicurato in vita. In quest’ambito, se deve escludersi che l’applicazione del criterio temporale si risolva nell’impossibilità di
attribuire una maggiore quota di pensione al coniuge il
cui matrimonio sia stato di minore durata, resta fermo
il divieto di giungere, attraverso la correzione del medesimo criterio temporale, sino al punto di abbandonare
totalmente ogni riferimento alla durata dei rispettivi
rapporti matrimoniali (Cass. 31 gennaio 2007 n. 2092);
La previsione normativa contenuta nell’art. 9, comma
3, della legge n. 898 del 1970, secondo cui la durata del
rapporto costituisce il criterio per la ripartizione della
pensione tra coniuge divorziato e coniuge superstite, va
riferita alla durata dei rispettivi matrimoni, coincidente
con la durata legale dei medesimi, vale a dire, quanto al
coniuge divorziato, fino alla sentenza di divorzio (Cass.
10 maggio 2007 n. 10669; vedi anche Cass. 7 marzo 2006
n. 4868, Cass. 10 ottobre 2003 n. 15164).
PROVVEDIMENTI DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI
Ricorso per cassazione
I provvedimenti della corte d’appello sulla potestà o
previsti nell’art. 317–bis del codice civile non sono
ricorribili per cassazione a norma dell’articolo 111 della
costituzione
Cass. sez. I, 5 febbraio 2008, n. 2753
In tema di tutela dei minori, i provvedimenti riguardanti la potestà dei genitori naturali o relativi agli incontri del figlio con il genitore naturale non affidatario,
ai sensi dell’art. 317–bis del codice civile resi dal giudice
di secondo grado in esito a reclamo, non sono impugnabili con ricorso per cassazione a norma dell’articolo
111 della costituzione, perché sono privi dei requisiti
40 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
della decisorietà e della definitività, essendo revocabili
in ogni tempo per motivi originari o sopravvenuti e
avendo la funzione non di decidere una lite tra due soggetti attribuendo a uno di essi un bene della vita, ma di
controllare e governare gli interessi dei minori.
RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI
Comunione legale
La comunione legale concerne gli acquisti di diritti
reali e non di diritti di credito come quelli scaturenti
dal contratto preliminare
Cass. sez. II, 24 gennaio 2008, n. 1548
La comunione legale tra i coniugi di cui all’articolo
177 del cc riguarda gli acquisti, ovvero gli atti implicanti
l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima e non quindi i
diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei
coniugi, i quali per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una res,
non sono suscettibili di cadere in comunione, con la
conseguenza che, nel caso di contratto preliminare stipulato da uno dei coniugi, nessun diritto può accampare l’altro coniuge, il quale non è neppure legittimato a
proporre domanda di esecuzione specifica ex articolo
2932 del codice civile.
SEPARAZIONE E DIVORZIO: ASPETTI PROCESSUALI
Appello
Se l’appello è introdotto con citazione l’atto deve
essere depositato nei termini e non semplicemente
notificato nei termini
Cass. sez. I, 7 marzo 2008, n. 6196
Ai sensi dell’art. 23 della legge 6 marzo 1987 n. 74,
l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo - ricorso, anziché citazione - alla decisione in camera di consiglio;
detto atto introduttivo, con la forma del ricorso, deve
essere depositato in cancelleria nel termine perentorio
di cui artt. 325 e 327 c.p.c, con la conseguenza che l’appello che sia proposto con citazione, anziché con ricorso, può ritenersi tempestivo, in applicazione del principio di conservazione degli effetti degli atti processuali,
solo se il relativo atto “risulti depositato nel rispetto di
tali termini” (così Cass. 10 agosto 2007 n. 17645, 17 novembre 2006 n. 24502 e 10 marzo 2006 n. 5304, 26 ottobre 2005 n. 20687, 22 luglio 2004 n. 13660).
Competenza territoriale
È incostituzionale la competenza territoriale in sede di
divorzio determinata dall’ultima residenza comune dei
coniugi
Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169
GIURISPRUDENZA
Benché la determinazione della competenza territoriale sia una scelta discrezionale del legislatore è del
tutto irragionevole quanto previsto nell’art. 4 della legge sul divorzio, nel testo modificato dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 secondo cui la competenza territoriale è
determinata dal foro dell’ultima residenza comune dei
coniugi. Tale norma va quindi dichiarata incostituzionale in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Mutamento del titolo
Non è ammissibile dopo la separazione consensuale o
giudiziale senza addebito chiedere l’addebito della
separazione
Cass. sez. I, 20 marzo 2008, n. 7450.
L’inammissibilità del mutamento del titolo della separazione prescinde completamente dal carattere preesistente o sopravvenuto, rispetto alla separazione consensuale, dei comportamenti costituenti violazione dei
doveri coniugali, ma attiene alla stessa struttura e funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi.
Onere di contestazione
Anche nelle cause di separazione e divorzio sussiste
l’onere di contestazione a carico delle parti
Cass. Sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5191
Ogni volta che sia posto a carico di una delle parti
(attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova),
l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale
fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale
fatto.
Provvedimenti concernenti l’affidamento e il
mantenimento dei figli
Nei giudizi di separazione e di divorzio, i
provvedimenti diretti alla tutela degli interessi
materiali e morali dei figli minori possono essere
adottati sempre anche d’ufficio.
Cass. sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1775
Nei giudizi di separazione e di divorzio, i provvedimenti necessari alla tutela e alla cura degli interessi
materiali e morali dei figli minori, comprendenti anche
quelli di attribuzione e determinazione di un contributo di mantenimento a carico del genitore non affidatario, possono essere adottati d’ufficio, essendo rivolti a
soddisfare preminenti esigenze e finalità pubblicistiche, onde restano sottratti sia al principio della domanda e l’eventuale richiesta del genitore affidatario volta a
ottenere la condanna dell’altro genitore alla corresponsione del contributo anzidetto si risolve nella mera sollecitazione al giudice della separazione o del divorzio
affinché eserciti il suo potere d’ufficio e non ricade,
quindi, sotto il divieto dello ius novorum, né con riguardo al giudizio di primo grado, né con riguardo al giudizio di appello.
SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DI MINORI
Audizione dei minori
Nelle procedure di rimpatrio il tribunale può procedere
alla valutazione del punto di vista del minore con le
modalità che ritiene più idonee.
Cass. sez. I, 15 febbraio 2008, n. 3798
L’articolo 13, comma 2, della convezione dell’Aja del
1980 sulla sottrazione internazionale di minore riguarda un’ipotesi di esclusione dell’ordine di rimpatrio che
ricorre allorché il minore vi si oppone, sempre che costui abbia raggiunto “un’età ed un grado di maturità”
tali da giustificare il rispetto della sua opinione. Nell’indagine sul raggiungimento da parte del minore di un’adeguata capacità di discernimento, al fine di esprimere
una volontà idonea a opporsi al rimpatrio, il giudice
non è tenuto a procedere all’audizione del minore secondo modalità particolari (ad esempio, procedendo all’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio), purché le ragioni del rifiuto siano adeguatamente motivate.
Concetto di residenza
In tema di sottrazione internazionale di minori la
nozione di residenza abituale del minore va
individuata con riferimento al luogo in cui il minore
anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi
Cass. sez. I, 16 febbraio 2008, n. 3798
In tema di sottrazione internazionale di minori la nozione di residenza abituale del minore, prevista dall’art.
3 della convenzione dell’Aja del 1980, va individuata
con riferimento al luogo in cui il minore, in virtù di una
durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il
centro dei propri legami affettivi, non solo parentali,
derivanti dallo svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazione, il cui accertamento è riservato
all’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile
in sede legittimità, se congruamente e logicamente
motivato.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 41
LEGISLAZIONE
Continua il
dibattito in merito
all’applicazione
della legge 194/78
sull’interruzione
volontaria della
gravidanza
DI EMANUELA COMAND,
AVVOCATO DEL FORO DI UDINE
L
a legge 22 maggio 1978 n.
194, norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, garantisce il diritto
alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita
umana fin dal suo inizio (articolo 1).
Il nostro legislatore ha operato
una scelta ben precisa gettando un
ponte tra due esigenze per taluni
inconciliabili, il diritto della madre
all’autodeterminazione ed il diritto
del nascituro.
L’interruzione volontaria della
maternità non viene considerata
come un mezzo per il controllo delle nascite, ma all’interno di un più
ampio progetto di tutela sociale della donna e del nascituro, anche in
ossequio ai dettati costituzionali
che mirano a tutelare la famiglia e
la prole (articoli 29 e 30 della Costituzione).
Tutto l’impianto normativo è permeato dalla difficoltà di coniugare
esigenze ed istanze diverse, dall’inizio dell’iter ospedaliero, passando
attraverso tutta una serie di informazioni che il medico deve alla
donna in relazione alla possibilità
sia di accedere alle strutture sanitarie al fine di portare a termine l’interruzione di gravidanza nella più
completa sicurezza, sia dei mezzi
alternativi all’aborto, fornendo chia-
42 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
rimenti e mezzi qualora la donna
receda dalla richiesta (articolo 5).
Da allora molti decenni sono passati, la legge è stata sottoposta al
vaglio del referendum e di numerosi
interventi della Corte costituzionale,
la scienza medica è andata avanti, è
stata approvata la legge 19 febbraio
2005 n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita che ha riaperto il
dibattito, mai sopito, sulla tutela
dell’essere umano in formazione
essendo state considerate alcune
sue norme in contrasto con la 194.
L’articolo 13 n. 1 e 2 lett. ab della
legge n. 40 vieta infatti ogni forma
di selezione dell’embrione con la
conseguenza che può essere obbligatorio l’impianto dell’embrione anche in caso di potenziale patologia
del medesimo; questa normativa
appare più restrittiva di quella contenuta nella legge n. 194 che considera se non lecito sicuramente non
contra legem l’interruzione della
gravidanza per grave malformazione del feto sino a gravidanza avanzata (articolo 6 della 194).
Il dibattito che ha attraversato
con particolare foga le piazze italiane negli ultimi mesi, non è tuttavia
una prerogativa italiana. Ciò sta a
testimoniare che i problemi che
lambiscono direttamente o indirettamente questioni etiche, sono forse il vero problema che dovremo affrontare nei prossimi decenni. La
scienza avanza portando con sé una
serie di questioni scientifiche che
investono il diritto e non sempre
esiste la possibilità di distinguere
nettamente tra ciò che è meramente scientifico da ciò che è giuridicamente lecito. Non è compito dello
scrivente analizzare questo dibattito, ma è interessante notare che le
leggi aventi ad oggetto il diritto alla
salute ed alla propria conservazione, nonché quelle che implicano
una manipolazione della vita in formazione o già esistente, non esauriscono mai il dibattito che ha accompagnato la loro formazione e la
loro approvazione. Dobbiamo aspettarci per il futuro un diritto “fluido”
che segua o contrasti la scienza?
Domanda interessante, ma allo stato senza risposta.
La conferma che anche in Europa
il problema è fortemente sentito ci
viene da una risoluzione dello scorso aprile.
L’Assemblea parlamentare del
Consiglio d’Europa con 102 voti a fa-
vore e 69 contrari nella seduta del
16 aprile 2008 ha approvato una risoluzione che invita i 47 Stati membri a depenalizzare l’aborto e a garantire alle donne l’accesso all’intervento legale e senza rischi. Benché
la Risoluzione non sia vincolante
per gli Stati membri si inserisce all’interno di un dibattito che travalica concetti giuridici, etici e sociali
proprio quando in Italia si rimette
in discussione non solo l’interpretazione e l’applicazione della legge,
ma il diritto stesso della donna ad
interrompere una gravidanza non
voluta.
La Risoluzione considera l’aborto
come extrema ratio, richiama l’esigenza di offrire alla madre cure e
sostegno materiale, psicologico e finanziario, ricorda che l’aborto non
può essere considerato un mezzo di
pianificazione familiare, ma reprime qualsiasi rigurgito anti-abortista
sottolineando che debbono essere
rimossi gli ostacoli e le condizioni
che restringono la possibilità di
abortire senza rischi per la salute
della donna. Da ultimo auspica che
nelle scuole sia obbligatoriamente
inserita l’educazione sessuale e
sentimentale, nel rispetto dell’età e
del sesso al fine di evitare gravidanze indesiderate.
La Risoluzione richiama parzialmente i principi “programmatici” e
di educazione sociale, già enunciati
nei lavori preparatori e introduttivi
alla legge 194.
La legge italiana nacque in ossequio a principi di bilanciamento tra
il diritto della madre all’autodeterminazione, nei limiti tuttavia in cui
sussista una giusta causa accertata
da un medico ed un termine (novanta giorni o più ed in teoria sino
al momento del parto fisiologico,
con l’unico limite dato dalla possibilità di vita autonoma del feto) ed il
diritto dell’embrione.
Nei decenni successivi la scienza
medica ed in particolare la genetica
hanno ampliato le conoscenze in
merito all’individuazione del momento in cui inizia la vita umana e
sono aumentate le tecniche onde
consentire la sopravvivenza del feto
anche prima della 24° settimana, limite al di sotto del quale all’epoca
della 194 ciò era difficilmente ipotizzabile. Poiché la legge fu il frutto
di un intenso travaglio sociale, contrapponendosi due scuole di pensiero che da un lato consideravano
LEGISLAZIONE
preminente il diritto della persona
umana vivente, dall’altro il diritto
dell’essere umano in formazione, è
evidente che la sua vita giuridica
sarà comunque sempre ostaggio
delle due diverse concezioni. Inoltre
l’introduzione della cosiddetta “pillola abortiva” RU486 che consente
l’interruzione farmacologica della
gravidanza, introdotta da tempo in
alcuni paesi europei ma ancora in
fase di sperimentazione in Italia, ha
gettato una luce nuova sul diritto,
da taluni considerato indiscriminato, di interrompere la gravidanza.
L’associazione dei medici europei
ha aderito al documento che denuncia la pericolosità del metodo
farmacologico per l’interruzione
della gravidanza, associando il suo
uso ad un aumento del rischio sulla
salute delle donne e collegandolo
ad un aumento del tasso di mortalità in misura dieci volte superiore
rispetto al metodo chirurgico (studio presentato alla Camera dei Deputati a cura della Società medico
Scientifica Interdisciplinare Promed
Galileo nel dicembre 2007).
In tale contesto non stupisce che
l’attenzione dei media sia stata sollecitata dalla vertenza tra il Tribunale Amministrativo Regionale della
Lombardia e la giunta regionale che
ha dettato nuove linee guida della
194, fissando a 22 ( + 3 giorni) le settimane di gravidanza al di sotto delle quali non è più possibile intervenire chirurgicamente. Il 1° maggio il
Tar della Lombardia ha accolto la richiesta di sospensiva della legge regionale che stabiliva nuove linee
guida, presentata da un gruppo di
medici e dalla Cgl. Si è contestata
l’ammissibilità dell’intervento normativo, considerato illegittimo in
quanto avrebbe invaso un area coperta da riserva di legge, posto che
l’articolo 117 della Costituzione consente solo al legislatore statale di
porre le norme necessarie ad assicurare a tutti i cittadini il godimento
delle prestazioni sanitarie garantite
e la legislazione regionale non può
limitarle o condizionarle (i ricorrenti
hanno richiamato la sentenza 282
del 2002 e 387 del 2007 della Corte
costituzionale).
In verità la sentenza del 2002 della Corte costituzionale chiarisce che
«la nuova formulazione dell’articolo
117 ...esprime l’intento di una più
netta distinzione tra la competenza
regionale a legiferare in queste ma-
terie e la competenza statale , limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina. Ciò
non significa che i principi possano
trarsi solo dalle leggi statali nuove,
espressamente rivolte a tale scopo».
( testo tratto da La Legge plus Ipsoa
pag.5/6).
Il dibattito era già stato sollecitato
il 22 aprile 2008 quando alcuni quotidiani nazionali avevano pubblicato
la relazione annuale sull’attuazione
della legge 194, riferita agli anni
2006 e 2007 e trasmessa dall’allora
Ministro della Salute Livia Turco, al
Parlamento. Secondo i dati ufficiali
più recenti in Italia le interruzioni di
gravidanza sono calate del 3% rispetto al 2006 e del 45,9% rispetto al
1982. In cifre ciò significa che si è
passati da 131.018 casi di interruzione di gravidanza nel 2006 a 127.038
casi nel 2007, con un decremento
considerevole rispetto all’anno 1982
(circa 234.018 casi).
La diminuzione interessa tuttavia
principalmente le donne italiane,
mentre per quanto riguarda le donne straniere si verifica la tendenza
contraria (+4,5% rispetto al 2006).
Il dato sembra confermare che
una maggiore informazione ed un
rapporto più stretto con le strutture
sanitarie locali determinano una riduzione dell’utilizzo dell’aborto come alternativa alla contraccezione,
mentre tra soggetti più deboli e
spesso disinformati l’aborto viene
praticato più frequentemente. Opinioni ovviamente difficili da condividere o confutare, presupponendo
una indagine alquanto più approfondita delle reali condizioni
delle donne fruitrici delle strutture
pubbliche. Non si può infatti affermare che il fenomeno degli aborti
clandestini sia scomparso: c’è chi
sostiene che ai numeri ufficiali debba sommarsi un numero di interruzione di gravidanze pari a 60.000 casi in più, effettuati al di fuori delle
strutture pubbliche.
I dati sulla diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza
non sono un fenomeno solo italiano: in Germania il numero delle IVG
nel 2007 è diminuito del 2,4% rispetto al 2006 e si nota una diminuzione
del 6% per quanto riguarda le ragazze infrasedicenni. In Svizzera invece
il numero rimane stabile, ma la diminuzione ha interessato gli anni
precedenti passando da 7,0 a 6,8 interruzioni ogni 1000 donne dai 15 ai
44 anni tra il 2005 e il 2006.
Stabile anche il numero di IVG in
Inghilterra, Belgio, Spagna, Paesi
Bassi dove si registrano tassi compresi tra 7,2 e 17,0 interruzioni di
gravidanza per 1000 donne. D’altro
canto il confronto tra i paesi in cui
l’aborto è legalizzato e la diminuzione delle donne che lo utilizzano in
strutture pubbliche, potrebbe essere
confermato dall’aumento degli
aborti clandestini nei paesi in cui
l’aborto è considerato illecito o in
quelli che hanno leggi particolarmente restrittive. Anche su questo
punto è intervenuta La Corte europea dei diritti dell’Uomo a Strasburgo che nella seduta del 20 marzo
2007 ha condannato la Polonia a
versare un risarcimento di 25.000,00
euro a una donna alla quale era stato negato l’aborto a causa del rifiuto
dei medici di rilasciare il certificato
richiesto. La Corte ha rilevato che la
legge polacca sull’aborto non contiene meccanismi utili per le donne
che vogliano contrastare le decisioni dei medici ed ha rilevato che tale
comportamento costituisce violazione del diritto all’integrità psicofisica di un soggetto. Il dibattito
sembra destinato a continuare. Il
parlamento del Cantone di Lucerna
ha respinto una proposta di legge
che chiedeva di vietare gli aborti negli ospedali del Cantone; in Spagna
si è proposto nel marzo del 2007 di
legalizzare l’aborto nelle prime 14
settimane su semplice richiesta della donna. In Portogallo il 60% dei
portoghesi ha votato in sede referendaria (11 febbraio 2007) a favore
della revisione della legge sull’aborto che consentiva l’aborto nelle prime 10 settimane, mentre nel passato era consentito solo in caso di pericolo di vita della donna. Anche
l’Inghilterra che è sempre stata considerata un’antesignana rispetto ad
altri paesi, mostra ora una certa
propensione al revisionismo, con
una proposta di legge già bocciata
in passato che dovrebbe abbassare
il termine per le interruzioni di gravidanza da 24 a 21 settimane, ma
nel contempo con la bocciatura da
parte del Parlamento britannico di
una proposta di legge che voleva
rendere obbligatorio l’assenso dei
genitori per le minori infrasedicenni
che volessero utilizzare la contraccezione o abortire. In tema di diritto
comparato si ricorda che in Italia il
consenso dei genitori non solo non
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 43
LEGISLAZIONE
è indispensabile per l’interruzione
di gravidanza di una minorenne,
ma può addirittura essere assente o
contrario se il Giudice Tutelare autorizza l’intervento (articolo 12 della
194).
Sotto il profilo del rapporto tra
medici ed obiezione di coscienza,
(articolo 9 della 194) si deve rilevare
un incremento degli obiettori di coscienza. I ginecologi obiettori in Italia nel 2007 hanno raggiunto quasi il
70%, contro il 58% dell’anno 2003;
gli anestesisti sono passati dal
45,7% dell’anno 2003 al 50,4%del
2007; il personale non medico dal
38;6% al 42,6%. Dal punto di vista
geografico il fenomeno dell’aumento del numero degli obiettori di coscienza è più evidente e sensibile in
alcune regioni del sud (Campania,
Sicilia), ma anche in alcune regioni
del nord come il Veneto l’aumento
degli obiettori è consistente (circa il
79,1% dei medici, il 49,7% degli anestesisti e il 56,8% del personale non
medico).
Ora poiché il diritto all’obiezione
di coscienza è stato definito come
un comportamento non violento di
coloro che si rifiutano di osservare
una norma giuridica ,autorizzando
il personale medico a non effettuare
l’interruzione volontaria di gravidanza , è evidente che l’aumento
degli obiettori di coscienza -che peraltro esercitano legittimamente un
loro diritto-inciderà sensibilmente
sulla capacità di risposta a livello
statale rispetto alla domanda di interruzione di gravidanza.
L’Organizzazione Mondiale della
Sanità ha pubblicato nel novembre
2006 uno studio sulla salute sessuale e riproduttiva che evidenzia il fenomeno della morte di circa mezzo
milione di donne all’anno per complicanze collegate alla gravidanza
ed al parto. Lo studio riporta altri
dati che andrebbero analizzati: su
80 milioni di gravidanze non desiderate, 45 milioni sono interrotte,
ma 19 milioni di queste sono a rischio, concludendosi per almeno
68.000 donne con il decesso e con
un numero imprecisato di menomazioni per le donne.
Anche in questo caso il consiglio
dei ricercatori è in linea con le indicazioni europee: l’utilizzo dei metodi contraccettivi e l’aborto legalizzato possono evitare molti decessi.
Il dibattito rimane sicuramente
aperto.
44 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
Riflessioni sulla
condizione
giuridica dei
minori stranieri
non accompagnati
DI EMANUELA COMAND, AVVOCATO
DEL FORO DI UDINE
L
’ordinamento giuridico italiano tutela i minori italiani
presenti sul nostro territorio
che vivono privi di aiuto e
cioè privi di genitori viventi o considerati non idonei all’esercizio della
potestà. Al fine di ovviare alla stato
di abbandono dei minori,da tempo
immemorabile, sono stati creati
istituti giuridici a ciò preordinati
quali la tutela, regolata dagli articoli
343 e seguenti del codice civile, l’adozione e l’affido, la cui disciplina è
contenuta nella legge del 5 giugno
1967 n. 431, poi modificata parzialmente dalla legge del 28 marzo
2001 n.149.
L’aumento dei flussi migratori da
e per l’Italia ha determinato un incremento della domanda di protezione nei confronti dei minori,
creando problemi interpretativi ed
applicativi con specifico riferimento
ai minori stranieri non accompagnati.
Dall’anno 2000 in poi - quando
entrarono in Italia circa 5.000 minori provenienti in prevalenza dall’Albania, Marocco, Romania e dall’ex
Jugoslavia - il numero dei minori
stranieri è lievitato sino a determinare secondo alcune ricerche il superamento, del numero dei minori
italiani in stato di abbandono. Tale
fenomeno è destinato ad aumentare e da ciò la necessità di verificare
chi siano i minori stranieri non accompagnati, chi debba occuparsi
della loro protezione, quali siano le
autorità competenti.
Leggi di riferimento
L’identificazione dei soggetti giuridici di cui al commento, non è
sempre agevole perchè la materia è
disciplinata da norme internazionali e comunitarie, nonché dalla legislazione interna italiana, spesso
non armonica rispetto alle prime.
Vi sono tuttavia alcune leggi di riferimento convenzioni, regolamenti
e direttive che consentono di effettuare un’indagine più attendibile in
ordine alla individuazione dei soggetti da tutelare:
• La Costituzione Italiana garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e
dell’infanzia senza distinzione tra
cittadini italiani e stranieri ( articolo
2) , garantendo all’infanzia ed alla
gioventù l’impegno delle istituzioni
per la realizzazione di tali diritti (articolo 10). È opportuno citare anche
l’articolo 3 (pari dignità a coloro che
si trovano sul territorio italiano a
prescindere dalla razza, sesso, religione, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali) e l’articolo 29
(tutela della famiglia ) nonché l’articolo 30 (tutela della prole legittima
e naturale).
• La Risoluzione del Consiglio dell’Unione europea del 26 giugno 1997
stabilisce che sono minori stranieri
non accompagnati i cittadini di
paesi terzi (ovviamente rispetto al
paese che li accoglie) di età inferiore
a 18 anni che giungono nel territorio degli Stati membri , non accompagnati da un adulto per essi responsabile in base alla legge o alla
consuetudine e fino a quando non
ne assuma effettivamente la custodia un adulto per essi responsabile,
nonché i cittadini minori di paesi
terzi , rimasti senza accompagnamento successivamente al loro ingresso nel territorio degli Stati
membri.
• La Convenzione dei diritti del
Fanciullo di New York del 20 novembre 1989 ratificata in Italia dalla
legge 176 del 1991, garantisce i diritti dei fanciulli ovunque si trovino e
l’articolo 20 prevede che ogni fanciullo temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente
naturale abbia diritto ad una protezione e ad aiuti speciali da parte degli Stati membri.
• La Convenzione dell’Aja del
1961, ratificata dalla legge 742 del
1980, in materia di protezione dei
minori all’articolo 5 dispone che le
decisioni in materia di rimpatrio del
minore dal territorio dello Stato
membro, avanzate dalle autorità
straniere, siano adottate dal Tribunale per i minorenni del luogo ove
risiede il minore.
• La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori di Strasburgo, adottata dal Consiglio d’Europa il 25 gennaio 1996 precisa all’articolo 1 che la Convenzione si
applica ai minori di anni 18 senza
ulteriori distinzioni.
• L’articolo 33 e 37bis legge 184
LEGISLAZIONE
del 1983 modificata dalla legge 149
del 2001 in tema di adozione e affidamento dei minori estende le norme sull’adozione, affidamento e
provvedimenti necessari in caso di
urgenza anche al minore straniero
che si trovi nello Stato in stato di
abbandono, attribuendo la relativa
competenza anche in questo caso
al Tribunale per i minorenni competente.
• il Dpr 22 settembre 1988 n. 448
estende le norme applicabili nel
processo penale minorile a tutti i
giovani che delinquono, senza distinzione di razza, colore, lingua,
nazionalità.
• l’articolo 19 comma 2, lett. a)
legge 26 luglio 1998 n. 286 in tema
di immigrazione stabilisce che i minori di anni 18 non possono essere
espulsi, salva la loro facoltà di seguire i genitori o l’affidatario espulso.
• la legge 26 luglio 1995 n. 218 ha
modificato le norme relative al diritto internazionale privato e postula la protezione anche dei minori irregolari presenti sul nostro territorio.
• il D.Lgs 113 del 13 aprile 1999 ha
esteso le competenze del Comitato
per i minori stranieri, organo interministeriale, istituito dal precedente D.Lgs 286 del 1998, che ora vigila
non solo sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri, ma adotta
anche i provvedimenti di rimpatrio
e provvede al censimento dei minori presenti sul nostro territorio non
accompagnati. L’articolo 1 del regolamento del Comitato per i minori
stranieri contiene una definizione
di minore straniero non accompagnato che chiarisce ulteriormente le
sue caratteristiche. Si tratta di un
minorenne non avente cittadinanza
italiana o di altri Stati dell’Unione
Europea che, non avendo presentato domanda d’asilo, si trova per
qualsiasi causa nel territorio dello
Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di
altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti
nell’ordinamento italiano.
• La legge 189 del 2002 (Bossi-Fini)
• gli articoli 343 e seguenti del codice civile stabiliscono l’obbligatorietà dell’apertura della tutela ove vi
sia un minore senza rappresentanza legale o assistenza.
• gli articolo 403 del codice civile
detta misure urgenti di protezione
per i minori.
• La direttiva dei Ministeri dell’Interno e della Giustizia del 7 dicembre 2006 , ha emanato alcune linee
guida in ordine alla condizione giuridica dei minori stranieri non accompagnati che chiedono asilo politico che si possono così sintetizzare: a) obbligo per tutti i pubblici ufficiali e enti che svolgono attività sanitaria o di assistenza di segnalare
la presenza dei minori stranieri non
accompagnati e di fornirgli informazioni sulla possibilità di chiedere
asilo politico b) attivazione , nel caso di richiesta, di tutti gli organi
competenti, questure, servizi sociali
dei comuni, Tribunali per i minorenni, giudici tutelari.
Soggetti giuridici destinatari delle
norme
Dalla disamina coordinata delle
leggi citate possiamo formulare un
elenco più preciso ma sicuramente
non definitivo o esaustivo della categoria definibile “ minore straniero
non accompagnato”
1. minori non accompagnati che
hanno richiesto asilo politico
2. minori non accompagnati che
non chiedono asilo politico
3. minori profughi di guerra o sfollati
4. minori accolti temporaneamente
nello Stato per usufruire di programmi di solidarietà
5. minori ricongiunti con i genitori
6. minori nomadi
7. minori apolidi
8. minori cosiddetti della seconda
generazione ovvero figli di immigrati con o senza permesso di soggiorno che si trovino in stato di abbandono
9. minori stranieri che per qualsiasi
motivo si trovino sul nostro territorio senza rappresentanza legale o
assistenza o minori con genitori
non in grado di provvedere loro. In
tale categoria possono anche rientrare in base alla legge sull’adozione
i minori affidati a parenti oltre il 4°.
Principi guida
Dall’individuazione delle norme
regolatrici e dei soggetti cui sono
destinate , si può ipotizzare un percorso normativo utilizzabile partendo dalla considerazione che il concetto di minore straniero non accompagnato non sempre coincide
con quello di minore italiano , che
si trovi in stato di abbandono.
1) In materia di protezione di minori il giudice italiano ed i servizi
predisposti all’assistenza dei minori
debbono adottare tutte le misure di
protezione previste dal diritto italiano che si rendano necessarie per
tutelare adeguatamente i minori
che risiedono in Italia , qualunque
sia la loro cittadinanza.
In tal modo si individua il criterio
di collegamento tra minore e Stato
che deve farsi carico della loro protezione ,rappresentato dalla residenza abituale del minore, da intendersi quale presenza del minore
in un determinato luogo che si protragga per un certo periodo di tempo ovvero il luogo in cui il minore
abbia costituito il centro della propria vita e dei propri interessi.
Così stabilisce l’articolo 42 legge
del 1995 che richiamando la Convenzione dell’ Aja , stabilisce che le
disposizioni in essa contenute si
applichino anche ai minori che
hanno residenza in Italia .
2) Nel conflitto tra legge dello Stato di appartenenza e quello dello
Stato di residenza, possono prevalere le norme dello Stato di appartenenza e tali norme verranno applicate al minore anche dallo Stato in
cui risiede.
Tuttavia quando il minore sia minacciato da un pericolo serio che
abbia ad oggetto la sua persona o i
suoi beni , l’autorità dello Stato di
residenza abituale del minore può
adottare misure di protezione sino
a quando sussista la minaccia.
L’articolo 31 legge 286 del 1998 in
materia di immigrazione (che richiama l’articolo 9 della Convenzione dell’Aja) è dunque la norma sicuramente applicabile dall’autorità
giudiziaria ed amministrativa italiana per consentire tutti gli interventi
a protezione dei minori stranieri
non accompagnati , anche quando
siano sconosciute le loro generalità
e la loro provenienza.
3) Quando la legge italiana sia
difforme dalla legge straniera dello
Stato di appartenenza del minore
non accompagnato, le norme italiane andranno comunque applicate
in considerazione del loro oggetto e
scopo (articolo 17 della legge n. 218
del 1995). Ci si riferisce in particolare
alla legge sull’adozione, alle norme
sulla tutela dei minori ed ai provvedimenti ablativi della potestà. In tale
contesto si può verificare una dilatazione della giurisdizione del giudice italiano coincidente in questo caso con il concetto di competenza, a
volte contrastata da alcuni autori ed
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 45
LEGISLAZIONE
interpreti. Il principio che viene
messo in discussione è il nazionalismo giuridico, considerato un’arbitraria ed indiscriminata estensione
della nostra legislazione interna anche a soggetti che sotto l’aspetto del
diritto internazionale privato non
dovrebbero o potrebbero essere presi in considerazione quali destinatari delle nostre norme.
Tale considerazione potrebbe essere condivisa se non vi fosse la
previsione che in presenza di un
minore straniero non accompagnato e comunque in situazione di potenziale pericolo ed abbandono, lo
Stato di residenza non dovesse come primo provvedimento tentare il
rimpatrio del minore nel suo Stato
di appartenenza. Qualora tuttavia
l’autorità italiana non ricevesse
adeguate garanzie sulle modalità di
rientro nella terra d’origine del minore o non fosse noto lo Stato di
appartenenza, dovrà provvedere
applicando la legge del luogo di residenza. Tale disciplina è tuttavia
contenuta nella circolare dell’11
gennaio 2001 del Comitato per i minori stranieri che prevede il diniego
al rimpatrio con affidamento del
minore all’autorità giudiziaria minorile ai sensi della legge 184 del
1983. Ciò ha sollevato dubbi di incostituzionalità per violazione della
riserva di legge contenuta nell’articolo 10 della Costituzione, perchè in
questo caso un regolamento amministrativo, può incidere sulla libertà
personale di un soggetto previa valutazione discrezionale dell’interesse superiore del minore, sostituendo l’autorità giudiziaria.
4) In tema di giustizia minorile è
opportuno ricordare che il nostro
ordinamento è permeato dal concetto di interesse materiale e morale del minore , per taluni concetto
metagiuridico, per altri equiparabile
ad un diritto soggettivo, per altri ancora superiore anche a quest’ultima
categoria. Tralasciando la numerosa
giurisprudenza e disputa dottrinaria
su quale sia nel concreto vivere del
minore il perseguimento del suo interesse, possiamo limitarci a ricordare che per alcuni corrisponde alla
possibilità di assicurare al minore il
miglior sviluppo possibile della sua
personalità in un contesto di vita
che corrisponda alle sue esigenze
materiali , morali e psicologiche
(Corte D’Appello del Tribunale per i
minorenni di Milano del 19/06/2001)
per altri è il diritto allo sviluppo ar-
46 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
monioso della persona ad essere
educato, mantenuto, istruito, secondo le disposizioni della nostra Costituzione (Corte d’appello del Tribunale per i minorenni di Genova
04/01/2001).
Misure di protezione
I minori stranieri non accompagnati che si trovino sul nostro territorio e versino in stato di abbandono o comunque si trovino in pericolo hanno diritto all’accoglienza, all’assistenza sanitaria , all’istruzione,
alla nomina di un tutore quando ne
siano privi. Le misure di protezione
in realtà non sono elencate nella
Convenzione dell’ Aja, ma viene
considerata misura di protezione
ogni intervento dell’autorità amministrativa e giudiziaria volta a eliminare le condizioni pregiudizievoli al
minore , causate da trascuratezza,
incapacità, o dalla cattiva condotta
dei genitori oppure dalla giovane
età del minore. Trasportando l’analisi dalla previsione teorica alle concrete misure di protezione applicabili nel nostro ordinamento , ne individuiamo alcune.
Provvedimenti ablativi della potestà
Gli articoli 330 e 333 del codice civile (decadenza e sospensione della
potestà e condotta pregiudizievole
dei genitori ) impongono una analisi
approfondita delle condizioni di vita
del minore con riferimento alla capacità genitoriale. È evidente che in
questo caso lo stato di abbandono
sussiste laddove esista un genitore
in Italia e trattandosi di potestà , si
dovrà far riferimento alla legge nazionale del minore. Pensiamo ad
esempio al diritto islamico ove sussiste in alcuni casi solamente la potestà del padre, con la conseguenza
che nel caso di revoca in capo a
questi, pur in presenza della madre,
il minore rimarrebbe privo di assistenza perlomeno sotto il profilo
tecnico-giuridico; il rischio è che il
minore possa essere dichiarato in
stato di adottabilità. In questo caso
un rimedio efficace è stato quello di
nominare tutrice la madre.
La valutazione del pregiudizio del
minore e dunque l’applicazione di
questa misura di protezione andrà
contemperata dalla mediazione posta in essere dal giudice italiano,
che individuerà senza pregiudizi, i
rapporti tra genitori e figli anche alla luce della loro etnia, religione,cultura.
Adozione
Per il nostro ordinamento la legge
applicabile al minore è la legge nazionale dell’adottando se comune
all’adottante; se manca, la legge ove
i soggetti sono residenti; in ultima
battuta la legge dove si è svolta prevalentemente la vita matrimoniale
o comunque della famiglia.
L’articolo 38 della legge sull’adozione introduce una deroga a tale
principio nel senso che si applica
sempre il diritto italiano quando è
richiesta l’adozione legittimante,
cioè l’adozione che crea un rapporto irreversibile equiparabile a quello
della filiazione legittima.
Il minore straniero non accompagnato sotto tale aspetto trova la medesima protezione del minore italiano che si trovi in stato di abbandono con la conseguenza che avremo coincidenza tra stato di abbandono e minore straniero non accompagnato, circostanza non sempre pacifica.
Tutela
È l’istituto che trova maggior applicazione con riferimento ai minori
stranieri non accompagnati. L’articolo 343 del codice civile non lascia
dubbi; se entrambi i genitori sono
morti o non possono esercitare la
potestà si apre la tutela presso il Tribunale del circondario ove si trova
la sede principale degli affari ed interessi del minore.
Competenze concorrenti
La Risoluzione del Consiglio d’Europa del 1997 ha dettato alcune direttive per mediare tra il diritto degli Stati membri di regolamentare i
flussi migratori ed il diritto del minore ad essere comunque tutelato.
Si è tentato di coniugare due esigenze complesse: da un lato il contenimento di presenze irregolari sui
territori degli Stati membri (non si
dimentichi che i minori stranieri
non accompagnati sono spesso utilizzati dalla delinquenza organizzata per essere sfruttati nei più vari
ed orribili modi possibili!) dall’altro
la tutela dei diritti dei minori.
Anche il legislatore italiano ha seguito con la citata legge 286 sull’immigrazione questa impostazione,
sancendo all’articolo 3 il diritto del
minore al perseguimento del suo
interesse materiale e morale in tutti
i procedimenti amministrativi e
giudiziari, il diritto all’assistenza sanitaria, al rispetto della salute , nonché il diritto all’istruzione dei fan-
LEGISLAZIONE
ciulli comunque presenti sul nostro
territorio.
La conseguenza è che il minore di
anni 18 straniero non accompagnato non può essere espulso dal nostro paese, a meno che non segua
volontariamente i propri genitori o
affidatari espulsi.
In questo modo si è optato per
una politica legislativa più elastica
rispetto ad altri paesi , contemperando l’esigenza ormai imprescindibile di regolare gli ingressi irregolari con la tutela del minore.
Ciò ha aperto il varco ad una serie di problematiche, di non sempre
facile risoluzione.
Premesso quanto detto in merito
alla negata possibilità di espulsione
del minore (salva l’ipotesi di un minore pericoloso per la società e ciò
ai sensi dell’articolo 13 della legge
286), dobbiamo richiamare l’articolo
28 del regolamento del Dpr 394 del
1999, che prevede l’ipotesi del minore non espellibile, per il quale non
sia possibile procedere all’iscrizione
nel permesso di soggiorno dei genitori o affidatari per motivi familiari.
In questo caso sarà possibile rilasciare un permesso di soggiorno sino al compimento della maggiore
età, ma la situazione dovrebbe essere segnalata al competente Tribunale per i minorenni. Poiché il legislatore non definisce la condizione giuridica del minore straniero non accompagnato ,non è neppure chiaro
in ultima analisi quale organo giurisdizionale debba farsene carico.
Se il minore straniero irregolare
convive con parenti entro il 4° grado, poiché non scatta l’obbligo della
segnalazione, non è necessario l’intervento formale del Tribunale per i
minorenni. La conseguenza è che il
minore straniero non si trova in stato di abbandono, non viene aperta
una tutela e dunque il minore non
può usufruire del permesso di soggiorno per minore età previsto dalla
legge sull’immigrazione. Il Ministero dell’interno tuttavia si s è pronunciato in una circolare del 2000,
in mancanza di un provvedimento
formale del Tribunale per minorenni ed in mancanza dell’apertura di
una tutela, a favore della concessione del permesso di soggiorno per
minore età. La distinzione tra concessione di un permesso di soggiorno per minore età e per ricongiungimento familiare non è di lana caprina: il minore che ha ottenuto un
D.Lgs 25 luglio del 1998 n. 286 nella
parte in cui non prevede la competenza del Tribunale per i minorenni
in ordine ai ricorsi contro i provvedimenti del Comitato per i minori
per violazione dell’articolo 3 della
Costituzione).
La Corte costituzionale con sentenza del 23 maggio 2003 n. 198 ha
parificato inoltre i minori stranieri
non accompagnati sottoposti a tutela, ai minori privi di un provvedimento formale di affidamento con
la conseguenza che a prescindere
dal tipo di permesso di soggiorno
concesso, al raggiungimento della
maggiore età tutti potranno ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, familiari o di studio.
permesso di soggiorno in quanto
non espellibile , secondo l’autorità
amministrativa , non potrebbe convertire tale permesso in uno che gli
consenta, ad esempio di lavorare
(circolare Ministero degli Interni del
13 novembre 2000). Di diverso avviso l’autorità giudiziaria che ha stabilito in più di una sentenza (per
tutte Tribunale per i Minorenni di
Torino ordinanza del 23 novembre
2001) che non si può negare il permesso di soggiorno ad un minore
divenuto maggiorenne , a seconda
del tipo di permesso di soggiorno
precedentemente ottenuto, perchè
ciò contrasta con il principio della
gerarchia delle leggi non potendo
una circolare ministeriale modificare o sostituire norme giuridiche.
Non è ammissibile negare il permesso di soggiorno ad un minore
essendo ciò in contrasto con la
Convenzione di New-York e con
l’articolo 10 della Costituzione atteso che al minore deve essere garantito il diritto di effettuare tutte quelle attività che contribuiscono al suo
sviluppo. Si profila in tal modo un
contrasto tra autorità amministrativa e giudiziaria, ben delineato in alcune pronunce che hanno dichiarato l’incompetenza del Tribunale
Amministrativo Regionale a decidere sui ricorsi avverso i provvedimenti di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, pronunciati dal Comitato per i minori, optando decisamente per l’attribuzione
in senso funzionale della competenza all’autorità giudiziaria (ordinanza del 7 giugno 2000 del Tribunale di Vercelli che ha sollevato ad
esempio la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 33 del
Conclusioni
I minori stranieri non accompagnati hanno diritto, se si trovano sul
territorio italiano:
• ad essere immediatamente assistiti dall’Ente Locale competente,
ovviamente quasi sempre il Comune;
• ad essere inseriti nel più breve
tempo possibile in una comunità
famiglia o in una famiglia affidataria o con provvedimento del Tribunale per i minorenni o dei servizi
sociali con decreto di esecutività del
Giudice Tutelare a prescindere dalla
decisione del Comitato per i minori;
• hanno diritto alla nomina di un
tutore se privi di un genitore esercente la potestà e comunque in ottemperanza ai criteri previsti dall’istituto della tutela dei minori;
• possono usufruire di tutte le misure di protezione di cui godono i
minori italiani in stato di abbandono o privi di assistenza materiale e
legale. Contemporaneamente la loro presenza andrà segnalata alla
Procura della Repubblica presso il
Tribunale per i minorenni competente, al Giudice Tutelare e al Comitato per i minori stranieri. In condizioni di non espellibilità “dovrebbero“ ottenere il permesso di soggiorno per minore età ed al compimento del loro 18° anno di età “dovrebbero“ ottenere la conversione di
detto permesso in un permesso di
soggiorno per motivi di lavoro, studio o per motivi familiari che gli
consenta un definitivo inserimento
nella nostra società.
Questo sarebbe il percorso ottimale e comunque rispettoso dei
principi della Costituzione Italiana
e della Convenzione di New-York.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 47
PARI OPPORTUNITÀ
La tutela contro le
discriminazioni di genere
DI CLAUDIA ROMANELLI,
AVVOCATO DEL FORO DI
BARI
I
l principio della parità uomo-donna, desumibile
dagli articoli 3 e 37 della Carta costituzionale, viene esplicitata per la prima volta nell’articolo 119
del Trattato Cee e nelle Direttive Cee del 10 febbraio 1975 n. 117 e del 12 febbraio 1976 n. 207, quindi
recepite dalla nostra legge 903/77 ed in particolare
dall’articolo 15 che articolava il procedimento di repressione delle condotte discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro, modulato su quello dell’articolo 28 dello statuto dei lavoratori con due differenze
in termini di legittimazione e di tutela in esecuzione
specifica:
• legittimati ad agire, oltre al lavoratore, erano le organizzazioni sindacali;
• oltre alla tutela inibitoria e reintegratoria, come
stabilito dall’articolo 28, vi era anche la condanna del
datore di lavoro al risarcimento del danno sia patrimoniale che non patrimoniale.
Intervenne successivamente l’articolo 4 legge
125/91 che segna un tappa fondamentale nel cammino intrapreso dalle donne verso la parità di trattamento e l’uguaglianza dei diritti perché finalmente il
legislatore si discosta nettamente dalle leggi fondate
sul concetto classico di uguaglianza formale più
orientate quindi a garantire una identità di posizioni
tra i sessi, che una valorizzazione di genere. Ed è per
questo che la legge 125 diviene invece fautrice di una
uguaglianza sostanziale perché stabilisce e promuove
trattamenti differenziati per sesso proprio con il fine
di rimuovere le disparità tra i due sessi, con interventi
(le azioni positive) volti a ripristinare l’uguaglianza
delle condizioni di partenza e dei percorsi lavorativi,
concretizzando quindi la parità di chance nell’accesso, nella progressione di carriera e nelle retribuzioni.
Con le azioni positive si tenta di assicurare alle donne
pari opportunità nell’inserimento sociale e lavorativo,
economico e politico combattendo le forme di discriminazione dirette ed indirette che minacciano da
sempre quella parità sostanziale tanto professata dalla ampissima normativa richiamata, e di recente raccolta, nel “codice delle pari opportunità tra donna e
48 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
uomo” (D.Lgs 198 dell’11 aprile 2006).
Le discriminazioni per sesso
Nell’ambito del ridetto codice delle pari opportunità, l’articolo 25 richiama l’articolo 4 della legge 125
che definisce le nozioni di discriminazioni che qui di
seguito si riportano:
• costituisce discriminazione diretta qualsiasi atto,
patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici e i lavoratori
in ragione del loro sesso e comunque il trattamento
meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o lavoratore in situazione analoga
• costituisce discriminazione indiretta quando una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto
un comportamento, apparentemente neutri, mettono
o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto
ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Si tratta di una condotta o un atto apparentemente
neutro e sottile, ma che in realtà produce un trattamento deteriore per genere e che ricorre quando l’autore della condotta pregiudizievole, pur non violando
apparentemente il principio di parità uomo donna,
adotti dei criteri che poi di fatto sono destinati ad incidere in modo diverso e non imparziale su lavoratori
e lavoratrici.
Sebbene siano veramente limitate le pronunce in
materia, ne riportiamo qualcuna per meglio chiarire il
concetto di discriminazione indiretta. È ravvisabile discriminazione indiretta per sesso nell’ambito della
progressione di carriera, la richiesta, ai fini del conseguimento della qualifica superiore del IV livello di un
titolo di studio di scuola tecnica superiore, trattandosi
di un requisito che, seppure apparentemente neutro,
è riferibile solo al personale di sesso maschile (Trib
Catania 22 novembre 2000). E ancora costituisce discriminazione indiretta adottare un regolamento che
vieta l’uso del part time nel corpo di polizia Municipale laddove due vigilesse, al rientro dalla maternità, si
erano viste rifiutare il part time richiesto. Veniva
quindi annullato il regolamento ed eliminata la clausola dai bandi di concorso che stabilivano l’inapplicabilità del suddetto regime (Tar Cagliari 29 novembre
2007).
La tutela processuale
Sotto il profilo processuale, l’articolo 4 della legge
125 modificato dall’articolo 8 D.Lgs 196/2000 quindi
trasfuso negli articoli 36 e ss del codice delle pari opportunità, aggiunge alla legittimazione della lavoratrice o del lavoratore leso dalla discriminazione, anche
quella della o del consigliere di parità regionale o nazionale, che può promuovere l’azione a difesa della lavoratrice o di un gruppo di loro. La/il consigliere di parità può agire a tutela di una lavoratrice individuale
ma anche di una collettività o addirittura di soggetti
PARI OPPORTUNITÀ
non bene identificati. Pertanto se si tratta di lesioni
individuali l’azione potrà essere intrapresa direttamente dal lavoratore o dal consigliere di parità, se l’azione è collettiva per la plurioffensività della condotta
discriminante, l’iniziativa spetterà esclusivamente alla consigliera di parità.
Innovativa è poi la previsione che in alternativa al
ricorso giudiziale, la consigliera può chiedere all’autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine di centoventi giorni, sentite, nel caso in cui l’autore sia un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali. Se il piano di rimozione è considerato
idoneo alla rimozione delle discriminazioni la consigliera definisce la procedura con il tentativo di conciliazione il cui verbale acquista l’efficacia di titolo esecutivo mediante decreto dinanzi il Tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Diversamente se non si ritiene di avvalersi della
procedura conciliativa, la consigliera di parità o la lavoratrice discriminata, depositano ricorso giudiziale
al giudice del lavoro o al tribunale amministrativo, dipende dalla competenza, il quale deve accertare la discriminazione ed oltre a provvedere al risarcimento
del danno patrimoniale e non, sempre se richiesto, ordina al resistente di elaborare il piano di rimozione
delle discriminazioni per la cui attuazione il giudice
fissa termini e criteri inderogabili. Nei casi ritenuti urgenti si prevede una procedura non cautelare ma
d’urgenza (già stabilita dall’articolo 15 legge 903/77)
ed il giudice adito, dopo sommarie informazioni, accertata la sussistenza della discriminazione, con decreto motivato ed esecutivo, oltre al risarcimento danni, ordina all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni
altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti
della discriminazione accertata, ivi compreso l’ordine
di elaborare il piano di rimozione.
La eventuale inottemperanza dei suddetti provvedimenti pronunciati ai sensi dell’articolo 38 del codice
pari opportunità, e quindi anche del piano di rimozione, fa sorgere la responsabilità penale in capo all’autore ai sensi dell’articolo 650 c.p. oltre al pagamento
di una somma pari ad 51,00 per ciascun giorno di ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti giudiziali da
versarsi in un Fondo speciale nonché alla revoca immediata di tutti i benefici quali eventuali agevolazioni
creditizie o finanziarie o concessioni di appalti per
servizi e forniture ad enti pubblici.
L’inversione dell’onere della prova
Caratteristica veramente pregnante della normativa
antidiscriminatoria per sesso, già prevista dall’articolo
4 comma 6 legge 125/91, quindi trasfuso nell’articolo
40 del codice delle p.o., riguarda l’inversione dell’onere della prova grazie al quale, in deroga ai principi
processuali secondo cui chi formula una domanda
deve darne prova, la lavoratrice o la consigliera di parità deve fornire al giudice solo gli elementi di fatto
desunti anche da dati di natura statistica riferiti alle
assunzioni, mansioni, qualifiche, retribuzioni, progressione di carriera, trasferimenti e licenziamenti,
idonei a fondare la presunzione precisa e concordante
(e non anche grave come stabilisce l’articolo 2729 c.c.)
dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori
in ragione del sesso. La novità, già proveniente dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia europea, conferisce alla prova statistica grande rilevo perché abbandona la valutazione del nesso di causalità, per approdare alla prova presuntiva della sussistenza del fatto
contestato. Inoltre in dottrina, piuttosto che di inversione dell’onere della prova si parla di alleggerimento
dell’onere probatorio per la parte ricorrente che si tutela dalla discriminazione mediante l’uso di presunzioni meno rigide di quelle previste dall’articolo 2729
c.c., poiché, oltre ai caratteri della precisione e concordanza non è richiesto quello della gravità. Alcuni autori le definiscono presunzioni anomale perché sono
diverse sia dalle presunzioni legali che da quelle semplici.
Spetterà poi al resistente-datore di lavoro, l’onere di
provare la insussistenza della condotta discriminante,
altrimenti il ricorso sarà accolto e la condotta discriminante sarà ritenuta provata.
Il ricorrente infatti dovrà provare solo i fatti in forza
dei quali presumere l’esistenza di una discriminazione senza neanche dimostrare l’atteggiamento soggettivo del datore di lavoro al quale invece compete l’incombenza di dimostrare che i motivi eventuali di disparità economiche praticate tra i dipendenti di sesso
maschile e quelli di sesso femminile consistono in ragioni diverse da finalità discriminatorie sessuali, quali
ad esempio una diversa adattabilità del dipendente
ad orari e luoghi di lavoro.
Concludendo va segnalato che ad una legislazione
nazionale ed europea piuttosto attenta ed ampia, corrisponde invece un modesto ricorso pratico alla tutela
contro le discriminazioni di genere tanto che i precedenti giurisprudenziali sono indubbiamente scarsi.
Le motivazioni vanno ricercate anche nelle difficoltà di individuare le discriminazioni indirette da
parte delle lavoratrici sebbene siano frequenti. E allora andrebbe elaborata una politica preventiva che rimuova ogni rischio di discriminazione perché se l’azione è individuale, difficilmente potrà beneficiarne la
collettività come invece potrà avvenire in caso di
azioni collettive. E ancora i piani di rimozione che poi
corrispondono a vere e proprie azioni positive, di provenienza giudiziaria, sono sollecitate-ordinate solo a
seguito delle azioni collettive. Per loro natura, prevedendo un obbligo di fare, la loro piena e regolare attuazione sarà difficilmente coercibile. Ne deriva quindi la possibile inefficacia di tali strumenti che andrebbero quindi sostituiti da sanzioni economiche, come
quella già stabilita dall’articolo 37 del codice delle p.o.
in caso di inottemperanza del decreto o della sentenza, ovvero da provvedimenti pregiudiziali nei confronti del titolare dell’azienda laddove sia inottemperante
quale il sequestro dell’azienda come ha proposto
qualche autore.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 49
PARI OPPORTUNITÀ
Il principio delle pari
opportunità dal Trattato
di Roma ad oggi
DI MARIA STELLA CIARLETTA,
AVVOCATO DEL FORO
DI REGGIO CALABRIA E CONSIGLIERA DI PARITÀ REGIONALE
Lo scorso decennio ha rappresentato una svolta per le
politiche comunitarie di pari opportunità. Negli anni ’90,
l’Unione Europea ha adottato un’agenda politica sulle
questioni di genere sempre più vasta che ha superato la
prospettiva “lavoristica” dell’eguaglianza di genere basata sull’acquisizione dei diritti di parità salariale e di trattamento nel posto di lavoro.
L’evoluzione delle politiche di pari opportunità si può
riassumere in tre macro categorie: l’eguale trattamento,
le azioni positive e il mainstreaming di genere. Il primo,
la parità di trattamento tra donne e uomini, rappresenta
un principio fondamentale dell’Ue fin dalla sua costituzione. La sua applicazione ha preso forma con l’adozione, nel Trattato di Roma del 1957, dell’articolo 119 sulla
parità salariale e di una serie successiva di direttive.
Benché tale principio abbia rappresentato un’importante acquisizione nel campo della parità di genere, tuttavia, è stato soprattutto con il superamento dell’intervento limitato ai diritti formali delle donne lavoratrici
che si è riusciti ad imprimere uno scatto in avanti al riconoscimento dell’ineguaglianza tra i sessi all’interno
della società europea. Il successivo approccio delle azioni positive abbraccia, infatti, una serie di strategie per
incidere sulle disuguaglianze di genere all’interno e all’esterno del luogo di lavoro, dal welfare, alla politica, alla violenza di genere, etc. Con le azioni positive dall’uguaglianza di accesso ai diritti e alle opportunità l’enfasi
si sposta sulle reali condizioni che facilitano un’uguaglianza di risultato.
Il terzo approccio, sul quale mi soffermerò maggiormente per la sua stringente attualità, è quello cosiddetto del mainstreaming di genere. Un termine difficilmente traducibile nelle diverse lingue e che figurativamente
significa “stare nella corrente principale”. Volendo superare le azioni positive che hanno prodotto specifici programmi e specifiche unità organizzative per le donne, la
nuova strategia intende integrare le questioni di genere
in tutte le politiche e le istituzioni dell’Ue.
Il Trattato di Maastricht del 1993 apre, nell’asse dedicato alla Giustizia e Affari Interni,uno spazio per nuove
azioni e politiche sulla violenza contro le donne; nel
1997 nel Trattato di Amsterdam l’eguaglianza tra donne
e uomini non solo diventa un obiettivo esplicito dell’Ue,
ma obbligatorio. Negli articoli 2 e 3 la Comunità è obbligata a promuovere l’eguaglianza tra i sessi in tutte i suoi
programmi ed attività. Il nuovo Trattato ha promosso la
strategia del mainstreaming di genere anche come elemento-chiave delle politiche per l’occupazione e dei Regolamenti dei Fondi Strutturali per il periodo di programmazione 2000-2006.
L’importante ruolo della Ue a Pechino, in occasione
della IV Conferenza Mondiale sulle Donne promossa
dalle Nazioni unite nel settembre del 1995, spiega la
nuova enfasi sulla strategia del mainstreaming a partire
dal IV Programma d’Azione sulle pari opportunità tra
donne e uomini (1996-2000) la cui adozione fu seguita,
nel febbraio del 1996, da una Comunicazione della Commissione europea «Integrare l’uguaglianza di opportunità tra le donne e gli uomini nel complesso delle politi50 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
che e delle azioni comunitarie», dedicata interamente al
nuovo e ambizioso approccio.
I Fondi Strutturali
La forte sinergia instaurata tra gli obiettivi di eguaglianza e quelli di sviluppo, competitività e occupazione
cui concorrono le politiche strutturali dell’Unione, trova
la sua motivazione nella risonanza tra i diversi policy
frame. Non è semplice spiegare, infatti, come sia possibile integrare il mainstreaming di genere emerso negli
anni ’90, con quelli dominanti nelle istituzioni dell’Ue,
in maggior parte di matrice neo-liberale. Tale risonanza
è rintracciabile in alcuni campi maggiormente che in altri. Il caso dei Fondi Strutturali è considerato emblematico di una buona applicazione del nuovo approccio alle
pari opportunità, benché nella riprogrammazione di
medio-termine nel 2003 si sia manifestata la consapevolezza che l’integrazione degli obiettivi di pari opportunità era concentrata per lo più nelle politiche dell’occupazione e delle risorse umane, finanziate principalmente dal Fondo sociale europeo.
In un’ottica comunitaria, fallire nell’obiettivo di rimuovere gli ostacoli all’eguale e piena partecipazione
delle donne e degli uomini alla vita economica, significa
pregiudicare il raggiungimento obiettivi di crescita,
competitività ed occupazione. Al fine di sostenere l’opportunità di integrare le pari opportunità nella programmazione e negli obiettivi dei FS le argomentazioni
più usate sono quelle dell’efficacia e dell’efficienza,
piuttosto che l’eguaglianza. Coerentemente all’obiettivo
principale dei FS in termini di pari opportunità, cioè la
partecipazione femminile nel mercato del lavoro, anche
le politiche di conciliazione tra vita e lavoro vengono viste come strumento per facilitare la partecipazione attiva delle donne nel mercato del lavoro e non come un
obiettivo di eguaglianza in se stesso legittimo.
L’innovativo paradigma per le pari opportunità utilizzato nei FS viene generalmente ritenuto più adeguato di
quello delle azioni positive, rispetto ai compiti di miglioramento dell’efficacia e di equità dei programmi. La
nuova “politica di cornice” non intende risolvere i problemi di ineguaglianza e disparità che ancora continuano ad esistere tra uomini e donne, intervenendo solo o
principalmente sulle donne, per recuperare la loro presupposta “debolezza” in termini di qualificazione, esperienza, o in termini di pregiudizi da parte dei datori di
lavoro o di altri attori economici e sociali. Le disparità,
infatti, continuano ad esistere. Il nuovo approccio individua piuttosto nei processi politici indifferenti alle disuguaglianze di genere, nella “neutralità” dei sistemi,
delle procedure, delle organizzazioni, i meccanismi
strutturali che riproducono vantaggi diseguali. Le differenze di genere si manifestano in modi molto diversi a
secondo della loro declinazione con altre differenze sociali, economiche e culturali che sono spesso all’origine
di discriminazioni - come la classe, l’origine etnica, la
disabilità, l’età, etc.. Queste diverse differenze richiedono approcci complessi che tengano conto della loro
multipla influenza sulle diverse situazioni di disuguaglianza.
Con il mainstreaming di genere, quindi, ciò che si
vuole indicare è che la questione dell’eguaglianza di genere deve essere trattata come uno standard, una componente “regolare” della programmazione, dall’analisi
iniziale alla formulazione degli obiettivi e della strategia,
fino alla valutazione finale. In altre parole, l’adozione
del mainstreaming implica che le pari opportunità non
debbano più essere considerate un’area di intervento
separata, ma una parte “normale” ed integrata nel dise-
PARI OPPORTUNITÀ
gno e nella implementazione di tutte le priorità e di tutti gli interventi.
Le politiche per l’occupazione e di conciliazione lavoro e
famiglia
Dalla metà degli anni ’90, con l’introduzione dell’Employment Title nel Trattato di Amsterdam del 1997, le
politiche per l’occupazione, primaria responsabilità dei
governi nazionali, furono maggiormente coordinate a livello europeo. La Direzione Occupazione e Affari Sociali,
infatti, responsabile delle linee guida per l’occupazione,
esprimeva un policy frame chiaramente orientato verso
le questioni sociali e, in particolare verso le questioni di
genere. Fu così che l’Employment Title divenne facilmente campo di applicazione per il mandato della Commissione sul mainstreaming di genere. La Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), lanciata nello stesso anno – il 1997 - sulla base del Trattato di Amsterdam, fu
costruita su quattro pilastri: 1) migliorare l’occupabilità;
2) sviluppare l’imprenditorialità e la creazione di posti di
lavoro; 3) incoraggiare l’adattabilità dell’impresa e dei
lavoratori; 4) rafforzare le politiche per le pari opportunità tra donne e uomini. La Commissione presenta l’obiettivo strategico per le pari opportunità non solo come
questione sociale, ma in termini di efficienza economica.
La Commissione incoraggia non solo gli stati nazionali ma anche i partner sociali a promuovere politiche e
interventi in favore della conciliazione lavoro e famiglia,
in termini di: 1. incrementare i servizi all’infanzia in
modo che siano accessibili - in senso economico - e di
alta qualità; i servizi e l’assistenza di persone a carico,
nonché i regimi relativi ai congedi parentali e ad altri
congedi; 2. attenzione al reinserimento lavorativo dopo
periodi di assenza per la cura dei figli; 3. interventi di
flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro.
Ripercorrendo gli indirizzi e le sollecitazioni già contenute nel Libro Bianco di Jacques Delors e negli atti della
Commissione da lui guidata dal 1988 al 1993, si può ricostruire la cornice europea delle politiche di conciliazione e l’intreccio con le politiche del lavoro. Il Libro
Bianco di Delors stabilisce, infatti, un approccio strategico a lungo termine per promuovere l’occupazione attraverso lo sviluppo di politiche attive del lavoro.
Oggi, dopo oltre un decennio da quel primo documento politico, le politiche di conciliazione entrano come
priorità strategiche delle pari opportunità. La Ue ha fissato con la Agenda di Lisbona l’obiettivo di portare l’occupazione femminile al 60% per il 2010.
Nonostante la consapevolezza sul concetto di genere
sia in crescita, spesso le politiche nazionali esitano ad
introdurre azioni innovative e benché le pari opportunità ricevano meno attenzione di altre politiche, l’aspettativa è che il nuovo paradigma dell’eguaglianza di genere, motore di una azione modernizzatrice dell’Ue,
continui ad esserlo in modo sempre più coerente, coordinato e sistematico, ed anche per altri livelli di governo.
Tabella di marcia per la Parità e Patto europeo per la parità
di genere
La parità tra donne e uomini nell’Unione europea ha
conosciuto due importanti avvenimenti nel corso del
2006: l’adozione da parte della Commissione di una Tabella di marcia per la parità per il periodo 2006-2010 e
l’adozione da parte del Consiglio europeo del Patto per
la parità di genere.
Con l’adozione della prima il 1° marzo 2006 la Commissione ha definito le sue priorità e il suo quadro d’azione per la promozione della parità fino al 2010, prose-
guendo così la missione di promuovere la parità tra
donne e uomini e assicurare che tutte le sue politiche
contribuiscano a tale obiettivo. La Tabella di marcia rappresenta l’impegno della Commissione di continuare e
intensificare la sua azione in tale campo.
Durante il Consiglio europeo del 23 e 24 marzo 2006
gli Stati membri hanno approvato un “Patto europeo per
la parità di genere”. Il Patto segna la volontà degli Stati
membri di impegnarsi decisamente per l’attuazione delle politiche che hanno lo scopo di promuovere l’occupazione delle donne e garantire un equilibrio migliore tra
la vita professionale e la vita privata allo scopo di rispondere alle sfide demografiche. A tale scopo è essenziale lo sviluppo dei servizi di custodia dei bambini per
realizzare gli obiettivi di Barcellona.
Il quadro legislativo della parità tra donne e uomini è
stato considerevolmente migliorato con l’adozione della
direttiva 2006/54/Ce che semplifica e modernizza la legislazione comunitaria esistente sulla parità di trattamento tra donne e uomini in materia di occupazione. La migliore chiarezza delle norme dovrebbe favorirne una migliore applicazione, contribuendo in tal modo all’obiettivo di “legiferare meglio”. Il regolamento 1922/2006/Ce
prevede la creazione di un Istituto europeo per la parità
di genere. L’Istituto dovrà apportare un sostegno tecnico
importante allo sviluppo delle politiche di parità tra
donne e uomini.
Il 2006 ha visto anche l’adozione della nuova regolamentazione dei fondi strutturali e degli orientamenti
strategici comunitari in materia di coesione per il periodo 2007-2013, che prevedono sia azioni specifiche che
l’integrazione di una prospettiva di parità in tutte le
azioni previste. La loro attuazione sarà principalmente
di responsabilità degli Stati membri mediante i quadri
di riferimento strategici nazionali e i programmi operativi. Il regolamento del Fondo europeo di sviluppo rurale
integra inoltre il principio di parità tra donne e uomini
nella politica di sostegno allo sviluppo rurale. Peraltro il
programma comunitario Progress comprende una sezione dedicata alla parità tra donne e uomini che sosterrà
l’azione della politica comunitaria di parità di genere
nel settore dell’occupazione e della solidarietà sociale.
L’acquis comunitario in materia di parità uomo-donna ha largamente contribuito ai progressi realizzati negli ultimi cinquant’anni e continua ad evolvere e a modernizzarsi per essere sempre più chiaro ed efficace. È
tuttavia importante garantire un’attuazione effettiva
della legislazione che va al di là del solo recepimento
dell’acquis. A livello nazionale ci vuole un sostegno attivo dell’attuazione di tale legislazione allo scopo di garantire una piena applicazione del diritto.
È necessario prendere misure volte a rafforzare le capacità in materia di parità tra donne e uomini nell’ambito del sistema giudiziario, in particolare dei giudici e
degli avvocati, affinché dispongano della formazione e
dell’assistenza tecnica necessarie per trattare le questioni legate alla parità uomo-donna nelle loro attività.
Gli Stati membri e le parti sociali devono sostenere
attivamente l’attuazione effettiva della legislazione relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne e
creare le condizioni che permettano di rispettarla.
In Italia è necessario recepire prontamente la direttiva
2006/54/Ce riguardante la parità di trattamento tra uomini e donne, la cui autorizzazione al recepimento è
stata già inserita nella legge Comunitaria 2006, mentre
con legge 196/2007 è stata recepita la direttiva
2004/113/Ce relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi
e la loro fornitura.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 51
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
Udienza presidenziale
ed ascolto del minore
nella prassi del tribunale
di Salerno
Apriamo questa nuova sezione “Osservatorio giustizia”
analizzando minuziosamente come viene affrontata
dal Tribunale di Salerno l’audizione del minore.
Qui di seguito pubblichiamo, prima di tutto la
Relazione presentata e distribuita all’Assemblea
Nazionale degli Osservatori sulla Giustizia - che si è
tenuta a Salerno l’1 e il 2 giugno 2008 - con il
commento dell’avvocato Laura Landi, Coordinatrice
del Gruppo famiglia dell’Osservatorio sulla Giustizia
del Distretto di Salerno. Inoltre per un quadro più
completo l’avvocato Landi ha chiesto al dottor Vito
Colucci - Consigliere della prima sez. civile del
Tribunale di Salerno - e al dottor Vincenzo Sparita Giudice del Tribunale per i minori di Salerno - di poter
pubblicare i loro interventi che si sono tenuti agli
incontri di studio del gruppo famiglia
dell’Osservatorio sulla Giustizia nel Distretto di
Salerno.
L
e udienze presidenziali sono tenute, su delega
del presidente, dai sei giudici della prima sezione civile (in tutto, attualmente, operano
quattro sezioni civili di cui una si occupa di
fallimenti ed esecuzioni) ripartiti in due unità operative. La prima sezione si occupa, oltre che di famiglia,
di contenzioso della pubblica amministrazione, societario e locazioni. Dopo l’udienza di comparizione coniugi, il presidente f.f. dovrebbe assegnare all’istruttore seguendo un criterio per numerazione: assegnando
i numeri dispari alla prima unità operativa ed i numeri pari alla seconda. Ma il criterio non è rigido e qualche giudice non ci fa neanche caso quando assegna a
se stesso il procedimento per la prosecuzione istruttoria.
L’aspetto positivo che si ravvisa nella prosecuzione
delle procedimento con il giudice che ha tenuto l’u52 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
dienza di comparizione coniugi, come Presidente facente funzioni, sta nel fatto che da un lato conosce
già la questione e dall’altro è un deterrente ai fini di
richieste di modifiche fondate su meri tentativi. Non
dimentichiamo, infatti, che innanzi a motivi “fondati”
vi è il rimedio in appello ex articolo 708.
“Tempi d’attesa”
Che sia più semplice liberarsi del coniuge che dell’inquilino è ormai un dato che trova riscontro nell’aumento negli anni delle procedure di separazione
su tutto il territorio nazionale. Salerno segue l’andamento nazionale che si legge nei seguenti numeri. Separazioni consensuali iscritte a ruolo nel 2001 risultano 410, con un picco nel 2006: 739 e 533 nel 2007; separazioni giudiziali iscritte a ruolo nel 2001 risultano
395, nel 2007 sono 432 mentre nel 2006 sono state poco in più: 450.
Di gran lunga inferiore è il numero dei divorzi congiunti: 126 nel 2001 e 206 nel 2007 (198 nel 2006); i divorzi giudiziali vanno da 183 nel 2001 a 217 nel 2007.
Le udienze presidenziali di separazione si tengono
otto volte al mese (quelle di divorzio quattro) e nel giro di due anni sono passate da 15 a 25 i procedimenti
trattati per udienza (tra separazioni consensuali e
giudiziali).
I procedimenti non sono chiamati ad orario o a fasce orarie proprio per il numero elevato che non consente di organizzare questa incombenza.
Il termine entro cui dovrebbe essere tenuta l’udienza presidenziale, che l’articolo 706 comma 3 indica in
novanta giorni, a Salerno è più che mai “canzonatorio” consistendo in 6-8 mesi per le separazioni consensuali 10-14 per le giudiziali; 5-6 per i divorzi.
Cause
Ai problemi locali determinati dalla carenza di organico ed una quantità di udienze insufficiente alle
richieste, è da aggiungere che, ormai, l’udienza presidenziale molto spesso non si risolve in una singola
seduta (per la necessità di fissare l’audizione del minore o avviare gli accertamenti a mezzo polizia giudiziaria) e questo comporta un ingrossamento del ruolo.
Rimedi
Interpellati gli stessi magistrati sul rimedio, questi
prospettano una varietà di soluzioni che si possono
così elencare:
• Una sezione specializzata che si occupi esclusivamente di contenzioso persone e famiglia. Gli stessi
giudici, però, aggiungono che è un’utopia (in un Tribunale ove si tende a ridurre le sezioni per assegnare
magistrati alla sez. distaccata di Eboli che per i numeri meriterebbe diventare tribunale autonomo);
• Una “specializzazione interna alla sezione, attribuendo la materia di famiglia esclusivamente ad una
delle due unità operative (ma si determinerebbe uno
squilibrio nel far ricadere solo su tre magistrati materie come societario, locazioni e pubblica amm.);
• Assegnare le deleghe a trattare le udienze presidenziali a tutti i magistrati delle sezioni civili (ma qui
si obietta che la sensibilità necessaria alla materia si
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
matura anche e soprattutto con l’esperienza costante
che si acquisisce con la continuità a trattare questa
disciplina);
• L’utilizzazione anche del turno feriale per la trattazione delle udienze presidenziali (ma in proporzione sarebbe poco significativo).
Particolari della prassi salernitana riguardo
all’udienza presidenziale
• Il Decreto di fissazione d’udienza non prevede
l’ordine dell’esibizione della dichiarazione dei redditi
ed altri documenti utili; non dispone la comparizione
del minore, non chiama il procedimento ad orario fisso né per fascia oraria. In altre parole è molto scarno
e non sente l’influenza delle recenti novelle.
• Il convenuto che compare senza patrocinio del difensore all’udienza presidenziale viene comunque
ascoltato e gli si dà la possibilità di consensualizzare
la separazione [nell’esercizio del potere ufficioso di
assumere informazioni, ciò anche con il conforto della giurisprudenza che ammette l’interrogatorio libero
del contumace - Cassazione 2818/82 ]
• Riguardo alla consensualizzazione del procedimento in fase istruttoria c’è diversità di prassi tra le
due unità operative: la prima invita a rassegnare conclusioni conformi, la seconda unità operativa fa ritransitare la causa per l’udienza Presidenziale (di solito alla settimana successiva) perché ritiene che il consenso debba essere espresso innanzi al presidente o
al giudice facente funzioni munito all’uopo di delega.
• Per l’intervento di terzi in giudizio, non si ritiene
ammissibile l’intervento dei nonni (Vedi Giurisprudenza Trib. Sa del 29.04.081)
Ascolto del minore - (prassi)
Se Solo uno dei magistrati su sei, ascolta sempre il
minore ultradodicenne. Tutti gli altri ammettono di
non ascoltare sempre i minori ultradodicenni, men
che meno gli infra dodicenni, e di questi solo uno motiva quando non lo ascolta o riserva successivamente
l’ascolto alla fase istruttoria come clausola di salvaguardia.
Uno dei magistrati utilizza l’ascolto come misura
persuasiva all’individuazione di accordi. In alcuni casi, infatti, “minaccia” i genitori di ascoltare i minori
per smussare le rigide posizioni di reciproche pretese
sull’assegno di mantenimento che talvolta si concretizzano anche solo in un litigio su 50 euro in più o in
meno.
Quando. I magistrati che non ascoltano il minore di
regola, lo fanno solo su istanza di parte, e per la maggior parte richiedono una istanza comune, ritenendo
non genuina e strumentalizzata la richiesta quando
viene da una sola delle parti. Quasi tutti (solo uno è di
avviso contrario, ritenendo ideale l’invito a comparire
già nel decreto di fissazione di comparizione parti) ritengono preferibile che il minore non compaia direttamente alla prima udienza, fissando l’ascolto ad
udienza successiva per appurare prima i termini della
questione.
Procedimenti. L’ascolto è utilizzato esclusivamente
in procedimenti giudiziali. Innanzi ad un regolamento
di separazione consensuale particolarmente “impegnativo” per il minore, per esempio che prevede un affido alternato a tempi brevi come trascorrere uno o
due giorni da un genitore ed alternativamente con
l’altro, il magistrato preferisce discutere con le parti la
disciplina al fine di far mutare i termini, ma non interpellare il minore.
Oggetto. Il minore è ascoltato solo quando si verte
sull’affidamento. La quasi totalità dei magistrati non
ascolta il minore quando c’è accordo sull’affidamento
restando il contenzioso solo sul mantenimento dello
stesso
Dove. è ascoltato nell’aula del tribunale con la cautela dell’orario fisso e “senza attesa”. Alcuni, particolarmente sensibili al “trauma da aula di tribunale” per
il minore, specialmente se infradodicenne, auspicano
un intervento del legislatore che preveda la costituzione di un ufficio (comprensivo di giudice e cancelliere) che possa recarsi in orari non di ufficio presso
l’abitazione del minore.
Modalità. Tutti i magistrati ritengono preferibile non
delegare l’ascolto (prassi spesso adottata dal Tribunale per i minori dove frequentemente si ricorre ai giudici onorari che abbiano particolari competenze in
psicologia, neuropsichiatria infantile ecc.).
Sulla presenza dei difensori e/o parti all’audizione
si riscontra un atteggiamento diverso a seconda della
peculiarità del magistrato. Chi predilige il processualismo ascolta il minore alla presenza silenziosa e più
mitigata possibile (in fondo all’aula) delle parti; chi
(sono la maggioranza) sente di dover applicare maggiormente un “sapere sapienziale” e meno formale, ritiene di dovere ascoltare il minore da solo.
Cosa. Nessuno dei magistrati chiede previamente ai
difensori gli argomenti da sottoporre al minore ma
nessuno esclude la possibilità di farlo qualora i difensori rappresentino la necessità.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 53
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
Le domande non sono specifiche. Si parte da temi
generali per scendere via via al particolare. Mai domande dirette che comportino una assunzione di responsabilità del genere “Con chi vuoi stare”. Hobby,
sport, squadra per cui tifa. Descrizione della cameretta, dei fratelli e rapporti con questi per poi scendere a
particolari come “Se hai un brutto voto a chi lo dici?
Se hai una problema? Qual è il ricordo più bello che
hai di mamma o di papà? A chi chiedi il permesso per
uscire?”
Garanzie di difesa. Non viene chiesto né messo a
verbale - qualora il minore sia ascoltato da solo - il
previo consenso dei difensori a lasciare l’aula. L’ascolto viene effettuato alla presenza del cancelliere che
verbalizza e del cui verbale i difensori potranno prendere visione. Il verbale viene sottoscritto dal minore.
IL PUNTO DI VISTA
DI LAURA LANDI AVVOCATO DEL FORO DI SALERNO
D
all’esame dei dati raccolti emerge che l’ascolto del minore non viene applicato con rigidità ma con una discrezionalità che la norma
non fa intendere. Varie possono essere le
cause. Non è da escludere il condizionamento dell’impronta data dalla legge sul divorzio che introdusse nel
nostro ordinamento - anche prima dell’antesignana
Convenzione di New York che risale al 1989 - il principio dell’ascolto del minore. All’articolo 4 comma 8 legge 898/70 si legge «il presidente sentiti i coniugi ed i rispettivi difensori, nonché, qualora lo ritenga strettamente necessario anche in considerazione della loro
età, i figli minori…».
Da un punto di vista processuale, due possono essere
i motivi. Come facce della stessa medaglia. Incide il fatto che, senza dubbio, l’ascolto del minore non è un
mezzo di prova e come tale, esulando dalla tipicità delle forme processuali previste, non porta “l’ansia da disapplicazione” tanto che la maggior parte dei magistra-
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ti che non ascoltano il minore non si preoccupano di
motivare, o riservare l’ascolto in seguito [pur essendo
però espressamente previsto in sede presidenziale], come clausola di salvaguardia. Quando lo ascoltano senza la presenza dei difensori non si occupano di raccogliere l’assenso di costoro a lasciare l’aula. Il minore
non è teste e non è parte (nei giudizi di separazione e
divorzio), dunque alla luce di ciò si comprende il perchè dell’approccio discrezionale e possibilista attualmente ancora diffuso verso l’utilizzo dell’ascolto.
Proprio perché, come innanzi sottolineato, non è una
figura processuale tipica, manca il conforto che nasce
della pedissequa applicazione di legge che dà tranquillità all’operato del giudice.
Ancora non è da escludere una sorta di diffidenza. Si
legge tra le righe quando il magistrato si rifiuta di
ascoltare il minore “portato” (o anche detto “a sorpresa”). Infatti si ritiene che quando viene offerto l’ascolto
“su un piatto d’argento” da uno dei genitori, questi l’abbia “preparato” per cui preferisce che vi sia una istanza
congiunta all’ascolto, o quanto meno l’accordo di entrambi i genitori.
Comprensiva è la diffidenza, ma chi sta “dall’altro lato” sa anche che ci sono casi in cui l’altra parte non
chiederà mai che venga ascoltato il minore temendo
che possano emergere circostanze “spiacevoli”. Allora
non è sbagliato vincolare l’audizione del minore alla richiesta congiunta, quando chi ha interesse contrario si
guarderà bene dal proporla? Qui, d’altronde, alla preoccupazione del giudice potrebbe sopperire la presenza
di un tecnico che meglio saprebbe discernere tra il
“detto vero” ed il “detto suggerito” del minore.
Da ultimo, ma non meno importante, di fronte alle
problematiche che coinvolgono un minore che vive la
crisi familiare, ci si sente inadeguati, indiscreti, quasi
irriverenti: quella persona, suo malgrado, già sta subendo il disorientamento ed il dolore della rottura della diade genitoriale. C’è da segnalare, però, che se da
un lato si riscontra spesso il senso di protezione dei
genitori - che intendono tenere lontano dai tribunali i
propri figli su cui fa leva il giudice che riesce a “consensualizzare” una separazione - dall’altro ci sono casi
in cui i questi non hanno remore a mettere in difficoltà il proprio figlio di dodici anni intimato a testimoniare sulla relazione extraconiugale del padre e regolarmente ammesso dal giudice anche in presenza di
altri tre testi maggiorenni (sic!).
Sul dovere dell’ascolto. Abbiamo guardato il bicchiere mezzo vuoto ora guardiamolo mezzo pieno e diciamo che ci sarà pure un motivo se le convenzioni internazionali richiedono l’ascolto. Articolo 12 Convenzione
di New York (resa esecutiva con legge 176/91): «…si
darà al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in
ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo
concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile
con le regole di procedura della legislazione nazionale». La convenzione di Strasburgo (resa esecutiva in
Italia con legge 77/03) consacra il minore come soggetto di diritti processuali, perché gli riconosce il diritto a
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
ricevere ogni informazione pertinente al processo in
cui è coinvolto; essere consultato ed esprimere la propria opinione; essere informato delle eventuali conseguenze di ogni decisione. La pregnanza dell’ascolto,
però, si intravede anche nel Regolamento 2201/2003
dove all’articolo 23 tra i motivi di non riconoscimento
delle decisioni relative alla responsabilità genitoriale è
prevista l’ipotesi che «salvo i casi di urgenza, la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la
possibilità di essere ascoltato…». D’altronde benché
con uso “disarmonico” (per quanto riguarda l’individuazione dell’età minima) lo stesso codice civile già da
tempo vi faceva ricorso. Si pensi all’articolo 145 cc, ove
nell’ambito delle “misure di funzionamento” della famiglia è prevista l’audizione dei figli conviventi ultrasedicenni ed all’articolo 316 cc dove, nelle controversie
sull’esercizio della potestà, è prevista l’audizione dei
minori ultraquattordicenni.
Alle proclamazioni del diritto del minore ad essere
sentito su circostanze che lo riguardano, si deve aggiungere una rigorosa lettura dell’articolo 155 cc. Il
cuore della riforma introdotta dalla legge 54/06 si legge
nella dichiarazione di principio che apre l’articolo155
c.c.: «Anche in caso di separazione personale dei genitori, il figlio minore ha diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi…»,
detto “principio della bigenitorialità” che è e deve essere, la chiave di lettura di tutta la normativa sull’affidamento condiviso. Alla luce di ciò, in combinato con
l’interesse del minore, parametro sempre immanente,
si deve intendere l’ascolto del minore quale strumento
per valutare come, quando ed in che termini, in attuazione dell’interesse del minore, il figlio dovrà avere
rapporti continuativi con i rispettivi genitori.
Certo è che nel doveroso ascolto del minore si richiede al giudice un sapere sapienziale (espressione
molto cara ad uno dei giudici che si occupa della materia presso il Tribunale di Salerno: dr Antonio Scarpa)
più che giuridico, croce e delizia insita nel desiderio di
avere le sezioni specializzate, composte da tutti operatori (magistrati e avvocati) di elevata sensibilità che
sappiano contemperare l’interesse del minore con il
rispetto del principio di legalità.
Per concludere, a parere di chi scrive, non lasciando
discrezionalità la normativa, il minore va ascoltato,
ma va ascoltato anche e soprattutto perchè il “minore”
dei nostri tempi è un soggetto ben più consapevole
rispetto al minore di quarant’anni fa e rivendica con
forza i suoi diritti ed il suo spazio nella famiglia e nella società. È impensabile che non possa esprimere le
sue opinioni, il suo vissuto ed il suo sentire nel procedimento finalizzato ad incidere nella sua quotidianità
e nel suo assetto emotivo. È rimesso alla capacità e
sensibilità del giudice, attraverso un ascolto empatico,
comprendere e far comprendere, unitamente al fatto
che quello che quello che il minore dirà non vincolerà
le sue decisioni, ciò anche al fine di sgravarlo dall’inevitabile peso di responsabilità.
L’ascolto del minore nei
procedimenti di separazione
e di divorzio
DI VITO COLUCCI,
CONSIGLIERE DELLA PRIMA SEZ.
CIVILE DEL TRIBUNALE DI SALERNO
Intervento tenutosi agli incontri di studio del gruppo
famiglia dell’Osservatorio sulla Giustizia nel Distretto
di Salerno - sulla legge 54/2006.
S
i può assumere quale punto di partenza del discorso sull’ascolto del minore, nell’ambito dei
procedimenti di separazione e di divorzio,
quanto statuito dalla legge 54/2006 all’articolo
155sexies c.c., il quale dispone quanto segue:
Articolo 155sexies. – (Poteri del giudice e ascolto del
minore).
«Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria,
dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può
assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età
inferiore ove capace di discernimento.
Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le
parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una
mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli».
Ritengo che si possa procedere, per comodità di
esposizione, all’esame della tematica dell’ascolto del
minore in relazione a tre punti fondamentali:
• il “se” dell’audizione del minore
• il “quando” dell’audizione del minore
• il “come” dell’audizione del minore
Il “se” dell’audizione del minore
La norma prevede la obbligatorietà dell’audizione
del minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche
di età inferiore ove capace di discernimento.
La difficoltà di stabilire quando il minore di età inferiore ai dodici anni sia “capace di discernimento” renderà, forse, problematica la individuazione dei casi in
cui l’audizione di tale minore sia opportuna.
L’audizione, peraltro, non è un mezzo di prova: lo si
desume chiaramente dalla netta distinzione fatta sul
punto dall’articolo 155sexies c.c.; la norma, infatti, dice
«… dispone, inoltre, l’audizione …», dopo aver parlato
dei mezzi di prova.
L’audizione, quindi, va utilizzata non come strumento di prova, ma come strumento per realizzare l’interesse del minore.
Sembra, pertanto, non opportuno procedere all’audizione quando questa è contraria all’interesse del minore.
Quando si può ritenere che l’audizione sia contraria
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 55
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
anche in casi in cui dalla audizione dei genitori e dagli
atti processuali emerga una sostanziale inutilità dell’audizione del minore stesso.
Per compiere queste valutazioni è opportuno, ovviamente, che il giudice proceda innanzi tutto alla audizione dei genitori e compia una valutazione comparativa e integrata di quanto dichiarato dai genitori stessi.
Il “quando” dell’audizione del minore
L’articolo 155sexies c.c. dispone che l’audizione del
minore può avvenire «Prima dell’emanazione, anche in
via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo
155, … ».
Se ne desume che l’audizione del minore può, in definitiva, essere espletata in qualsiasi momento occorra
emettere provvedimenti di cui all’articolo 155 c.c..
Questa audizione, peraltro, può essere non proficua
nella fase presidenziale, qualora il clima di scontro fra
i coniugi sia ancora talmente acceso da rendere altamente probabile che uno dei genitori (o entrambi) abbia (o abbiano) tentato di influenzare il minore.
Una audizione del minore nella fase presidenziale,
però, presenta il vantaggio di evitare il consolidarsi di
situazioni poi difficilmente rimuovibili in seguito.
Se vi è notevole conflittualità fra i coniugi, però, potrebbe essere opportuno differire l’audizione del minore a una fase successiva del procedimento, quando gli
animi si potrebbero essere acquietati e adattati alla
nuova realtà “familiare”, successiva alla crisi del rapporto fra i coniugi.
Il “come” dell’audizione del minore
all’interesse del minore?
È preferibile, innanzi tutto, che i genitori concordino
sulla opportunità dell’audizione.
Se fra i coniugi vi è disaccordo sarà, di regola, preferibile non procedere all’audizione o, almeno, occorrerà
valutare se l’ascolto del minore possa essere effettuato
senza che sul minore stesso possa incidere in maniera
indebita l’influenza di uno dei genitori (valutazione da
compiersi, ovviamente, caso per caso).
Se vi è accordo fra le parti, poi, è preferibile accertare
se i genitori/coniugi siano realmente interessati alla
audizione e se vi sia uno specifico interesse del minore, di cui garantire la turala, in relazione ai provvedimenti da adottare, per evitare che il minore abbia un
inutile contatto con l’ambiente giudiziario.
In definitiva va evitato, a mio avviso, sia che l’audizione del minore sia uno strumento brandito da un genitore nei confronti dell’altro, sia che l’audizione coinvolga inutilmente il minore nella vicenda giudiziaria
56 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
Mi pare opportuno che, di regola, il minore sia ascoltato dal solo giudice (salva la necessaria presenza dell’assistente, e salvo il problema dell’assenza dell’assistente in taluni tipi di udienze).
Non ritengo opportuna la presenza dei genitori, che
potrebbe condizionare il minore.
Neppure mi sembra opportuna la presenza dei difensori, dato che, se il minore è in condizioni da poter
essere ascoltato, di norma è anche in grado di rendersi
conto del fatto che i difensori potranno senz’altro riferire tutto (atteggiamenti, tenore delle risposte) ai rispettivi assistiti.
Per quel che concerne l’ipotesi di procedere ad audizioni con specchi o meccanismi simili che consentano
di vedere l’audizione senza essere visti, ritengo che tale forma di audizione non sia opportuna: o, infatti, si
avverte previamente il minore, e in tal caso l’utilità dei
predetti strumenti è in pratica vanificata; o nulla si dice al minore, e in tal caso si tradisce la fiducia del minore stesso, e se, poi, il minore viene a scoprirlo, perché magari gli viene detto da un genitore (magari non
soddisfatto dei provvedimenti giudiziali) per ripicca
nei confronti dell’altro genitore, il minore stesso almeno perderà ogni fiducia nell’operato del giudice e presumibilmente non si potrà più procedere a utili audizioni nei suoi confronti.
L’audizione, peraltro, va verbalizzata, ma ritengo sufficiente e opportuna una sommaria verbalizzazione.
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
L’importante è che resti adeguata traccia di quanto dichiarato dal minore. Eventuali atteggiamenti particolari del minore nel rispondere potranno essere verbalizzati, ma solo se appaiono veramente significativi e,
magari, univocamente interpretabili.
Ritengo, quindi, non opportuno l’uso di apparecchi
di videoregistrazione o simili, in quanto la quantità del
materiale utilizzabile potrebbe, in definitiva, accrescere
la possibilità di strumentalizzazioni e di interpretazioni contrastanti. Per quel che riguarda l’uso di tali strumenti, reso noto o non reso noto al minore, richiamo
quanto più sopra detto in relazione all’uso di specchi o
meccanismi simili.
Mi sembra, poi, opportuno, in generale, evitare di
“drammatizzare” eccessivamente l’audizione del minore, anche per garantirne, nei limiti del possibile, la
genuinità.
Occorre, poi, interrogarsi, sulla utilità dell’intervento
di esperti, Al momento è, forse, presto per capire se e
quando tale intervento sia utile; l’esperienza pratica
che mano a mano andrà maturando potrà sicuramente fornire delle indicazioni interessanti.
Un giudice che abbia sufficiente esperienza della
materia familiare e che abbia una adeguata sensibilità
potrà, comunque, probabilmente a fare a meno di
esperti nel corso dell’audizione del minore. Se, invece,
il giudice non dovesse sentirsi pronto per procedere da
solo alla audizione del minore potrà valutare la opportunità di farsi assistere da esperti, salvo il problema di
individuare la corretta forma processuale in cui incanalare l’operato degli esperti, e salvo il problema delle
eventuali contestazioni che potrebbero provenire dalle
parti in ordine a possibili condizionamenti dell’esperto
nei confronti del minore.
Il perché dell’audizione del minore. Conclusioni
Ai tre punti suddetti io ne aggiungerei un quarto: il
perché dell’audizione del minore.
Il minore va ascoltato, a mio avviso, perché possa
contribuire a rendere provvedimenti che incidono sul
suo futuro.
Questo comporta che il minore deve apparire sufficientemente maturo e sufficientemente indipendente
dai genitori e da terzi in generale (nonni, altri parenti)
per poter contribuire a determinare il suo futuro.
La valutazione sul punto andrà rimessa al giudice il
quale dovrà analizzare la concreta situazione sottoposta al suo esame.
In definitiva io ritengo che si possa concludere in
questi termini: l’audizione del minore va espletata il
più possibile, ma, nel dubbio, ritengo che sia preferibile
non fare un’audizione piuttosto che farla male o farla
comunque in condizioni in cui il frutto dell’audizione
possa essere strumentalizzato da uno o da entrambi i
genitori.
L’esperienza pratica ci dirà, poi, quanta fortuna l’istituto avrà nella nostra realtà giudiziaria.
Audizione del minore presso
il tribunale per i minorenni
DI VINCENZO SPARITA,
GIUDICE DEL TRIBUNALE PER I
MINORI DI SALERNO
Stralcio dell’intervento al gruppo di studio
dell’Osservatorio sulla giustizia di Salerno
L
a legge sull’affidamento condiviso contiene,
secondo me, un elemento di novità essenziale,
una vera e propria rivoluzione copernicana del
nostro sistema giuridico. Tale elemento è rappresentato dall’ascolto del minore; questa legge ha finalmente compreso che il giudice deve avere un approccio di tipo assembleare rispetto alla gestione della crisi, che non è crisi della coppia, ma crisi dell’intero nucleo familiare. Ciò significa che finalmente si è
compreso che è un dovere specifico del giudice ascoltare tutte le voci di parti che sono portatrici di litigio o
di interessi nell’ambito del procedimento separativo.
Il giudice deve praticamente sentire i genitori e
‘‘ascoltare’’ il minore.
La differenza terminologica ha una valenza ben
precisa: un illustre autore ha detto che sentire è una
ricezione passiva dell’intelletto, ascoltare invece, viene dal verbo latino coles che significa coltivare e dall’etimo europeo aus o as, quindi ascoltare significa
coltivare con la mente, con l’intelletto ciò che passa,
che viene filtrato attraverso le orecchie.
Il giudice deve porre attenzione a ciò che dice il minore in quanto parte del processo. Se è così perché
porre delle delimitazioni nell’ascolto del minore?
Nella dottrina e in buona parte della giurisprudenza
è un dato acclarato (anche nel Protocollo dell’Osservatorio di Milano), quello secondo cui, nel momento in
cui interviene un accordo (in corso di separazione
consensuale) tra i genitori su un progetto educativo
futuro del minore, automaticamente non c’è la necessità da parte del giudice di sentire il minore; più specificatamente in questi casi si dice che è opportuno
che il giudice non senta il minore. Così facendo, secondo me, si confonde la patologia con la psicologia.
L’interpretazione, che tende ad escludere in questa
ipotesi l’audizione del minore, subisce il pregiudizio o
la difficoltà che hanno i giudici nell’ascoltare il minore. è naturale che il giudice debba prestare una particolare attenzione, che debba usare cautela, che debba
avere preparazione adeguata, semmai facendosi coadiuvare da esperti in psicologia, ma da qui a dire che
in alcuni casi il giudice può prescindere, mi sembra
un dato non soltanto non acclarato, ma soprattutto
non rispondente con il dettato normativo.
In qualità di giudice per i minori posso confermare
che molte volte ci sono accordi tra genitori che apparentemente sembrano rispettare appieno il diritto alla
bigenitorialità, però il minore potrebbe avere necessità e desiderio di esprimere la sua in merito a questo
accordo, infatti c’è una parte che rimane sommersa.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 57
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
Poiché da un punto di vista dottrinale si ritiene che
l’accordo raggiunto sia espressione dell’autonomia familiare, si tutela più l’autonomia del genitore che
quella del minore. Quanto detto si collega ad un’altra
riflessione: se questa premessa è veritiera ne discende che il legislatore del 2006 ha posto in essere una
disparità di trattamento tra i figli legittimi e i figli naturali perché mentre per i figli legittimi comunque c’è
sempre l’intervento del giudice, anche laddove vi è un
accordo, una separazione consensuale. Intervento del
giudice che se non altro almeno va a verificare se l’accordo raggiunto corrisponde o meno all’interesse del
minore. Invece nell’ambito della famiglia di fatto tutto
questo non accade perché in questo caso viene chiamato a decidere il Tribunale per i minorenni soltanto
se vi è contrasto tra i genitori. Oppure può accadere
che pur in presenza di un accordo, uno dei due genitori decide autonomamente di rivolgersi al Tribunale
per sapere cosa ne pensa di quel dato accordo e se risulta corrispondente all’interesse del minore. Dunque
per le questioni che riguardano le famiglie di fatto,
quando c’è un accordo raggiunto in piena autonomia
tra i due genitori, si possono verificare casi in cui nessuno effettua un controllo sul tipo di accordo. Ritengo
che laddove si parla di vincoli, tutela, di rapporti di
convivenza, si deve prestare particolare attenzione ai
diritti dei figli che nascono da rapporti di convivenza.
La giurisprudenza italiana sembra aver recepito in
parte questi messaggi. La Cassazione (in un provvedimento del 2007) ha affermato che il giudice può evitare di ascoltare il minore solo quando l’audizione
pregiudica i suoi interessi motivando chiaramente tale sua scelta. Si tratta di un’esclusione che è condizionata soltanto dalla salvaguardia dell’interesse che è
sotteso all’ascolto. Questo in via sistematica come interpretazione di principi che vengono dalla Convenzione Internazionale.
Un altro problema da affrontare riguarda la valenza
processuale, ossia la rilevanza dell’ascolto. Sicuramente da un lato esso non è un mezzo di prova nel
senso che il giudice non può corroborare come riscontro intero quanto affermato da una delle due parti utilizzando esclusivamente la dichiarazione del minore.
La valenza processuale dell’ascolto dipende, a mio
giudizio, dalla peculiarità della posizione del minore
nell’ambito del procedimento di separazione. Il minore è una parte, in quanto comunque è portatore di interessi propri all’interno del processo, però è una parte che non si costituisce. Nel fare una riflessione più
approfondita dobbiamo tener conto delle Convenzioni
Internazionali ed in particolare della Convenzione di
New York che prevedeva un diritto più ampio riguardo
ai minori, cioè un diritto di partecipare nell’ambito
dei processi in cui entravano in gioco i loro interessi.
La Convenzione di Strasburgo, successivamente, ha
un po’ limitato tutto questo sancendo soltanto il diritto all’ascolto.
L’interesse del minore è preminente rispetto a quello delle altre parti ed il giudice deve farsi carico di tutelarlo anche tenendone conto nelle motivazioni dei
58 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
suoi provvedimenti. Ciò significa che dopo aver ascoltato il minore il giudice può disattendere le sue aspettative solo motivando adeguatamente. Questo è quanto affermano i principi delle Convenzioni Internazionali.
Altro aspetto particolare riguarda la natura delle caratteristiche dell’ascolto: in questi casi tali aspetti sono imprescindibilmente connessi con le finalità del tipo di attività processuale che si pone in essere. Quando si parla di ascolto del minore occorre fare delle distinzioni, innanzitutto bisogna chiedersi in relazione
al tipo di procedimento quale è la finalità dell’ascolto
perché da ciò derivano delle considerazioni. Potremmo distinguere tra l’ascolto in materia civile e quello
in materia penale.
Nel caso civile si è detto, in maniera molto generica,
che ascoltare un minore significa conoscere qualcosa
della sua psiche, cioè andare ad approfondire le sue
inclinazioni rispetto ad un determinato fenomeno o
fatto di natura spesso relazionale, ossia un rapporto
tra il minore ed altri soggetti. Nel caso penale invece
l’ascolto del minore ha una finalità diversa perché il
giudice tende a conoscere un fatto storico, infatti l’ascolto del minore è sempre e comunque una testimonianza rispetto ad un fatto. La prima conseguenza che
balza agli occhi è che nell’ascolto in materia civile la
reiterazione dell’ascolto è utile, ossia l’approfondimento consente di conoscere meglio le dinamiche relazionali, che sono poi lo scopo, spesso e volentieri,
dell’ascolto del minore. Nel sistema penale è il contrario, l’ascolto reiterato è un fenomeno che in via
concettuale è deleterio perché ciò che il penale tende
a fare è un giudizio di attendibilità, allora l’ideale è un
ascolto del minore fatto in maniera esaustiva, una sola volta e bene. Questo è un pò lo scopo a cui tende il
legislatore nel 1996, con la riforma, ossia la possibilità
di procedere, o meglio l’obbligatorietà di procedere all’ascolto con incidente probatorio per evitare la reiterazione. Spesso l’ascolto viene fatto per la prima volta
dall’assistente sociale o nella scuola da chi riceve la
prima denuncia del minore, poi viene ritirato dalla
polizia giudiziaria da parte del Pubblico Ministero che
ha delegato l’audizione del minore. Questo resta di
fianco all’attendibilità del minore perché laddove il
minore deve riferire su di un fatto storico, sorge il problema di valutare l’attendibilità estrinseca ed intrinseca del minore, soprattutto quando è persona offesa
visto che alla giurisprudenza è chiaro che anche la
deposizione della sola persona offesa può essere sufficiente quando ha determinate caratteristiche. Va
però detto che praticamente non c’è una differenza
qualitativa tra una persona offesa maggiorenne o una
minorenne una volta che c’è la capacità di discernimento di raccontare i fatti, però sicuramente queste
dichiarazioni devono essere corroborate non solo da
attività intrinseche (querele, discorsi, assenza di contraddizioni) ma anche da riscontri di carattere esterno.
Per quanto riguarda la tematica dell’ascolto in sede
civile dobbiamo distinguere tra l’ascolto del minore
OSSERVATORIO GIUSTIZIA
su un fatto che non fa parte della sua intimità e un
fatto comunque esteriore rispetto alla sua psiche, cioè
rispetto all’affidamento, all’adozione, al maltrattamento o all’abuso. Quando un giudice deve sentire il
minore, sa che il minore dovrà parlare di relazioni con
altri soggetti o riportare la sua opinione, il suo mondo
interiore rispetto a qualcosa di diverso dal suo intimo.
Nell’ambito invece dei giudizi di separazione la faccenda si complica enormemente perché la parola
mamma e papà sono parole evocative di una nostra
intimità profondissima. Ad esempio se ognuno di noi
dovesse esprimere un giudizio davanti ad un magistrato e dovesse dire che cosa pensa del rapporto che
ha avuto con i suoi genitori e che cosa pensa sui rapporti tra mamma e papà, noi che siamo delle persone
adulte, che hanno raggiunto una certa autonomia
concettuale, una certa esperienza di vita, avremo una
grossa difficoltà ad esprimere davanti ad un organo
terzo quello che è il nostro modo di pensare rispetto a
questi fenomeni relazionali. È li che si coglie la delicatezza dell’ascolto nell’ambito delle procedure di separazione o di divorzio e si evidenzia la necessità, soprattutto nella fase iniziale nella quale il giudice non
ha ancora approfondito le tematiche della psicologia
relazionale, dell’intervento di esperti in modo tale da
consentire al giudice di avere un filtro nel modo di
porre domande al minore; allo stesso tempo il giudice
si può dedicare con maggiore attenzione alla verbalizzazione del risultato dell’audizione, ma soprattutto
l’esperto, nel momento in cui stende la sua relazione
può indicare il cosiddetto “non detto”.
Ascoltare il minore non significa soltanto riportare
in forma riassuntiva, con terminologia non propria
del minore, quello che egli ha detto. È fondamentale
anche descrivere l’atteggiamento e il comportamento
del minore, lo sguardo, la sudorazione delle mani, il
tremore quando gli vengono formulate altre domande: queste sono delle conoscenze che il giudice normalmente non ha.
Un altro rischio connesso all’audizione del minore è
il “conflitto di lealtà”. Accade che il minore è portato
ad essere psicologicamente iperprotettivo nei confronti del genitore con cui convive in quel momento,
che è visto quasi sempre come la vittima della crisi di
coppia; quindi per paura di disilludere, di fare del male al genitore con cui convive, è portato spesso ad
esprimere delle opinioni che non sono proprie. Questo è un fenomeno molto diffuso, infatti, secondo me,
è opportuno che il minore non venga mai ascoltato a
sorpresa: il minore viene ascoltato dal giudice quando
questi lo ritiene opportuno e non quando lo decide la
madre. Inoltre quando si ascolta un minore, questo è
ciò che si apprende dalla giurisprudenza penale, le
domande devono essere generali, bisogna far sentire
il minore a proprio agio in modo tale che il racconto
sia libero, solo in caso contrario si parte da domande
dirette.
Un grosso rischio che si corre nell’ascoltare il minore, rischio che io reputo gravissimo, si riferisce a quei
bambini che si responsabilizzano prima del tempo,
diventando adulti precocemente, caricandosi di pesi
che non sono di loro spettanza; ad esempio nei casi di
violenza sulle donne madri i bambini imparano a mediare e quindi hanno una posizione difficile anche
giudizialmente. L’utilizzo successivo di una consulenza è quindi fondamentale.
Altra variabile importante da considerare è il tipo di
linguaggio che si utilizza durante l’ascolto del minore, difficoltà enorme per noi magistrati, perché esso
deve variare non solo in base all’età ma anche al tipo
di minore che abbiamo di fronte. Effettivamente entrare in empatia con un adolescente, salvo nei casi in
cui si ha un’esperienza diretta, è molto difficile. “ Io
ho la sensazione che il mondo corre troppo velocemente e che quindi tra me (quarantenne) e un ragazzo (14-16 anni) non ci sono tre generazioni di differenza ma probabilmente dieci!. La mia è una grossa difficoltà, infatti spesso e volentieri ricorro ai giudici onorari; credo che è nella sensibilità di ogni magistrato
comprendere i propri limiti; tante volte l’adolescente
assume nei confronti del giudice un atteggiamento di
sfida e il giudice può mal interpretare tale atteggiamento.
L’adolescente molto spesso vive rapporti di conflittualità con il genitore più responsabile, può sembrare
assurdo ma è un fenomeno che si verifica spesso;
tante volte è proprio il genitore che pone delle regole,
che ha più attenzioni per il figlio, quello che viene penalizzato: ciò ha delle conseguenze importanti perché
disattendere quella che è la volontà di un adolescente
è estremamente difficile se non addirittura pericoloso. Il giudice quindi prima di prendere una decisione
deve cercare di approfondire quello che è il rapporto,
l’unione tra l’adolescente e i suoi genitori. Occorre fare un lavoro sulla psicologia, capire se un dato atteggiamento del minore verso uno dei due genitori è di
facciata o è veritiero e che tipo di radici ha questo atteggiamento di contrarietà nei confronti di uno dei
due genitori.
Ulteriore problema riguarda l’età: dai 12 anni in su
l’ascolto è obbligatorio, mentre al di sotto dei 12 anni
diventa obbligatorio quando il minore ha la capacità
di discernimento (questo è deciso dall’avvocato che si
serve dell’opinione di uno psicologo o psichiatra). In
relazione a questo problema mi sono preso la briga di
vedere cosa significa giuridicamente capacità di discernimento. Ebbene nel nostro ordinamento il codice
penale prevedeva che la capacità di essere responsabile delle proprie azioni dipendeva dalla sua capacità
di discernimento, che all’epoca non veniva definita
dal legislatore. Il giudice è tenuto ad approfondire la
questione nel senso che, anche quando ritiene che il
bambino abbia capacità di discernimento deve motivare tale cosa e, poiché è un diritto del minore di essere ascoltato, tutte le volte che il giudice non riesce
ad appurare le capacità cognitive del minore è opportuno che si preoccupi di allegare agli atti una relazione di un esperto che possa corroborare la tesi di capacità o incapacità del minore.
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 59
L’OPINIONE
Figli naturali: provvedimenti
e cognizione
DI MARIA CRISTINA CAMPAGNOLI,
AVVOCATO DEL
FORO DI LODI
I
n seguito all’entrata in vigore della legge 54/2006,
una delle questioni interpretative maggiormente
dibattute attiene all’individuazione del giudice
competente a decidere in ordine alle controversie
tra genitori non uniti in matrimonio, limitatamente all’affidamento, all’esercizio della potestà ed al mantenimento della prole. Al di là, infatti, degli aspetti pratici
attinenti la concreta attuazione, il provvedimento legislativo de quo, sin dalla sua entrata in vigore, non ha
mancato di creare complesse problematiche relativamente alla “regolamentazione” delle statuizioni a beneficio della cd. “prole naturale”.
Affidamento condiviso e famiglia di fatto: organo
giudiziario di competenza
Come noto, nel sistema modificato dalla riforma del
1975, l’affidamento dei figli in occasione dei giudizi di
separazione e divorzio veniva – di norma – disposto dal
giudice in favore dell’uno o dell’altro coniuge, quantunque l’articolo 155 c.c. – nel prevedere l’opportunità
di adottare ogni altro provvedimento e di disporre diversamente con riguardo all’esercizio esclusivo della
potestà – consentiva forme di affidamento congiunto.
Non a caso, la consapevolezza dell’importanza di permettere al figlio di conservare significativi rapporti con
entrambe le figure familiari, anche dopo la disgregazione del nucleo, non mancò di indurre il legislatore ad
esplicitare modalità differenti, contemplando – in un
quadro di condivisione delle comuni responsabilità
educative – possibilità di “affidamento congiunto” ed
“alternato”, quali fattibili variazioni rispetto a quello
“monogenitoriale”. Al di là, comunque, delle numerose
critiche e riserve, da subito appuntatesi verso la “forma” alternata, giudicata passibile di compromettere
l’equilibrio del minore, un immediato interesse fu, invece, riscosso dalla “figura” congiunta, sostanziantesi
in un esercizio in comune della potestà sui figli, mantenuti, istruiti ed educati sulla base di unico ed uniforme progetto, concordemente domandato in totale assenza di conflittualità ed in forza di omogenei stili di
vita; il tutto, nonostante, tali ultimi rigorosi presuppo60 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
sti determinassero un “utilizzo” pressoché limitato, costituendo condizioni non sempre rinvenibili in una
realtà che, sovente, voleva aspro il conflitto tra i coniugi.
Sulla scorta degli orientamenti emersi anche in sede
internazionale, il legislatore ha, nondimeno, deciso di
“voltare pagina”, intervenendo con la normativa
54/2006 che, oltre ad essere tesa ad una piena attuazione del diritto del minore ad un rapporto equilibrato e
continuativo con entrambi i genitori, ha pure considerato un “meccanismo” che consenta loro di partecipare
attivamente alla vita del figlio anche successivamente
il disfacimento del nucleo familiare, così abbandonando la tradizionale distinzione di ruoli tra genitore che
si occupa del figlio e genitore “del tempo libero”; naturalmente, sforzandosi di offrire alla prole una tutela
uniforme indipendentemente dalla natura dell’unione
tra i genitori medesimi.
L’entrata in vigore della legge in parola, ha, in ogni
caso, coinciso con l’acuirsi della problematica inerente
l’individuazione del giudice competente a decidere in
ordine alla potestà dei genitori naturali; da qui, l’alternarsi di due contrapposte scuole di pensiero: la prima
indicata dallo stesso Tribunale per i minorenni e, la seconda, fornita dall’Autorità ordinaria. Il Tribunale per i
minorenni di Milano (decreto 12 maggio 2006), facendo
sfoggio di una raffinata argomentazione giuridica, ha –
dal canto suo – abbracciato un’interpretazione estensiva della legge 54/2006, tale da ritenere applicabile ai figli di genitori non coniugati tutta la riforma e, dunque,
anche le norme processuali. Premettendo, invero, che
l’articolo 261 c.c. estende ai genitori naturali gli stessi
diritti e doveri previsti per i genitori legittimi, il giudicante de quo, non ha – quindi – avuto dubbi a reputare
estensibile alle procedure di affidamento dei figli naturali le statuizioni contenute nella riforma in esame,
caldeggiando, appunto, un’attribuzione in favore del
giudice ordinario. Diametralmente opposta la “teoria”
espressa dal Tribunale di Milano – Sez. IX Civ. – (sentenza 21-28 giugno 2006, n. 7111), secondo la quale – se
è vero che l’articolo 4 della legge 54/2006 estende l’applicazione della novella anche «ai procedimenti relativi
ai figli di genitori non coniugati» - altrettanto vero è
che la riforma non contiene alcuna disposizione
espressa in tema di competenza giurisdizionale a conoscere delle controversie ivi contemplate, con la conseguenza che – completamente apodittica – è la conclusione per cui, la nuova normativa, avrebbe unificato
la competenza “imponendola” al giudice ordinario che
già si occupa della separazione e del divorzio.
In una posizione perfettamente speculare a quella
fatta propria dal Tribunale per i minorenni di Milano, si
è – tuttavia – inserita l’ordinanza pronunciata dal Tribunale di Monza (11 ottobre 2006), per mezzo della
quale – non senza rilevare l’uniformità sostanziale della disciplina in tema di affidamento dei figli - ha, difatti, reputato assolutamente improponibile il pregresso
sdoppiamento di competenze tra Tribunale per i minorenni e Tribunale ordinario, così avvalorando un precedente iter motivazionale assunto dal medesimo Ufficio
L’OPINIONE
giudiziario in data 29 giugno 2006. Ad ogni buon conto
e, in punto di distribuzione della competenza, l’ulteriore problematica profilatasi – in quanto strettamente
correlata – ha coinvolto il profilo meramente economico, afferente cioè il mantenimento e l’assegnazione
della casa familiare nella cd. coppia di fatto. Un primo
orientamento in proposito è pervenuto dal Tribunale
per i minorenni di Napoli (29 settembre 2006) che, pur
sul presupposto del permanere della tradizionale suddivisione di competenze tra Giudice minorile (per affidamento e potestà) e Giudice ordinario (per “l’aspetto
patrimoniale”), ha finito per conferire al primo la cognizione sull’attribuzione della casa “coniugale”. Invero, essendo la disciplina in materia (articolo 155quater
c.c.) trattata in modo distinto dalla determinazione
dell’assegno periodico di “sostentamento” (articolo 155
comma 5 c.c.), l’“Autorità specializzata” napoletana ha
optato per una netta distinzione delle due “facciate”,
dovendo la decisione sull’abitazione essere dettata
dalla prioritaria verifica dell’interesse del minore, quale condizione imprescindibile per determinare, non solo la misura ed il modo di contribuzione ma, altresì,
per stabilire i tempi e le modalità della presenza del
minore medesimo presso ciascun genitore (cfr. Cassazione 5714/02).
L’intervento risolutivo della Suprema corte
Soltanto di recente la Cassazione, attraverso un’importante quanto necessaria ordinanza (8362 del 3 aprile 2007), è intervenuta a risolvere i susseguitisi dubbi
sorti negli ambienti giudiziari all’indomani dell’entrata
in vigore della più volte menzionata legge 54/2006, riconoscendo la competenza del Tribunale per i minorenni in ordine alle controversie sull’affidamento dei
figli naturali ed attribuendo allo stesso giudice anche
quelle sul mantenimento, fino ad oggi tipiche dell’Autorità ordinaria. Ciò posto, l’Esimio Consesso ha affrontato due questioni interpretative inerenti l’abrogazione, o meno, dell’articolo 317 bis c.c. e, l’attribuzione, o
meno, al Tribunale per i minorenni della competenza a
provvedere anche limitatamente alle domande sul
contributo di mantenimento dei figli naturali, proposte
contestualmente a quelle di affidamento degli stessi.
Con riferimento alla prima delle due questioni, la Cassazione ha ritenuto che con l’espressione “procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati” si è inteso ampliare il significato, all’evidente scopo di assicurare alla filiazione in parola forme di tutela identiche a quelle riconosciute alla filiazione legittima. Dunque, così argomentando, il Collegio ha tratto la conclusione per cui “l’ingresso” della legge 54/2006 ha semplicemente comportato un “riempimento” del contenuto
precettivo della disposizione ex articolo 317bis c.c.,
quale unico referente normativo della potestà e dell’affidamento nei casi di cessazione della convivenza more uxorio. Per la seconda delle questioni interpretative,
invece, “l’alto Consiglio” ha risolto l’impasse convergendo il proprio orientamento sulla regola della inscindibilità della valutazione relativa all’affidamento da
quella concernente il profilo economico, dal momento
che, l’unicità delle competenze rappresenta la soluzione maggiormente orientata alla realizzazione del
“principio di uguaglianza”, dovendo i minori pretendere dall’ordinamento un trattamento analogo, indipendentemente dalla sussistenza del vincolo matrimoniale tra i genitori. Ritiene, del resto, il Collegio che «vi sarebbe un trattamento deteriore per il figlio naturale allorquando questi ricevesse una risposta normativa frazionata con la perdita di quell’esame globale che soltanto una cognizione estesa anche alle conseguenze
patrimoniali dell’affidamento può assicurare». Inoltre,
prosegue sempre la Corte lo sdoppiamento di competenze comporterebbe un evidente sacrificio del principio di concentrazione delle tutele, peraltro, aspetto
centrale della ragionevole durata del processo. L’ordinanza in esame non ha poi omesso di fornire utili indicazioni processuali atte ad orientare l’operatore nella
direzione di una corretta ed efficace esegesi delle norme. In primis e, nella sola ipotesi di contestualità delle
domande di affidamento e di contributo al mantenimento, oltre che di assegnazione della casa familiare, il
Tribunale per i minorenni è tenuto a provvedere in relazione a tutte le richieste, stante “l’attrazione” delle
domande in capo al medesimo Giudice specializzato;
conseguentemente e, ai sensi dell’articolo 148 c.c., la
competenza dell’Autorità ordinaria è destinata a permanere – solamente – avverso le domande di natura
esclusivamente economica proposte dai genitori non
coniugati. Sempre con l’ordinanza 8362/07, la Cassazione ha, altresì, reputato utilizzabili dal Tribunale per i
minorenni i poteri istruttori facenti capo al Giudice
della separazione, compreso quello di disporre gli accertamenti sui redditi e sui beni oggetto della contestazione anche se intestati a soggetti diversi. Ulteriormente “adattabile” al giudizio radicato avanti il “Giudice ad hoc” è stato ritenuto l’articolo 709ter c.p.c. in presenza di gravi inadempienze o di atti che arrechino
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 61
L’OPINIONE
pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento.
L’omologabilità degli “accordi” tra genitori naturali
Sempre in tema di filiazione naturale una certa rilevanza deve essere – inoltre – accordata allo specifico
interesse per i genitori naturali a veder autoritativamente confermate le intese raggiunte contestualmente alla cessazione del rapporto, onde parificare la separazione personale tra i coniugi all’interruzione della
convivenza more uxorio. Del resto, nonostante il legislatore sia riuscito a dimostrare l’importanza della distinzione tra “famiglia naturale” e “famiglia di fatto” creando una previsione legislativa riguardante l’esercizio della potestà genitoriale, quanto la tutela nell’interesse dei minori – completamente sforniti di regolamentazione sono rimasti i rapporti dei conviventi tra
di loro. Il vuoto normativo è andato, però, colmandosi
in seguito a ben precise “prese di posizione” giurisprudenziali, che, ponendosi in linea ad altrettanti e precedenti orientamenti di merito (Tribunale per i minorenni de l’Aquila, sentenza 31 gennaio 1994, Tribunale per
i minorenni di Reggio Calabria, sentenza 17 ottobre
1994), hanno ritenuto legittima ed ammissibile l’omologazione degli accordi raggiunti dai genitori naturali
in occasione della loro separazione (Corte d’appello di
Milano, Sez. minorenni, decreto 4 dicembre 1995).
Siffatta soluzione – immutata malgrado l’entrata in
vigore della legge 54/2006 – è stata, tuttavia, riveduta
dal tribunale di Roma, che, con il recente decreto 22
settembre 2006, diversamente argomentando, ha ritenuto inammissibile il ricorso congiunto presentato da
due genitori naturali, richiedente la semplice “presa
d’atto” delle determinazioni tra di loro concordate in
merito alle figlie minori, limitatamente alle modalità
di affidamento, di collocamento presso ciascun genitore, oltre che con riguardo all’entità della contribuzione
a titolo di sostentamento. Nello specifico, invero, l’Autorità giudiziaria capitolina fonda la sua decisione aderendo ad un isolato orientamento contenuto nel provvedimento 20 aprile 1991, n. 4273 emesso dalla Cassazione civile, Sezione 1, secondo cui l’intervento del
Giudice, in caso di crisi della relazione tra persone non
coniugate, è da reputarsi decisamente superfluo. Tale
ed unico decisum è stato – comunque – sminuito dalla
Corte d’appello di Roma, la quale con - decreto 17 luglio 2006 – ha, definitivamente, segnato un importante
traguardo in materia, evidenziando come nella sentenza 4273/1991, la Suprema corte non abbia affatto escluso la possibilità per i genitori naturali di rivolgersi all’Autorità giudiziaria ma, al contrario, si sia limitata ad
affermare che, mentre per le coppie sposate la pronuncia giurisdizionale è sempre necessaria, codesta necessità non sussiste per quel che riguarda i figli naturali.
D’altronde anche la Corte costituzionale nella sentenza 166/98 – pur non mancando di osservare che la convivenza more uxorio in quanto espressione di una libera scelta, non consente di per sé stessa l’automatica
estensione di quelle regole previste per la coppia coniugale – ha nondimeno considerato invocabile l’inter62 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
vento del giudice ai fini della tutela dei figli di genitori
non coniugati, espressamente asserendo che tale giudicante «è tenuto alla specifica valutazione dell’interesse del minore». A giudizio della medesima Corte
d’appello è proprio la natura pubblicistica dell’interesse dei minori che rende ineludibile l’intervento giudiziale non solo quando la richiesta promana da uno solo dei genitori ma, anche, quando la domanda proviene da entrambi congiuntamente, in ossequio, peraltro,
alle osservazioni poste dalla Cassazione a fondamento
della già citata ordinanza 8362/07, che – tra l’altro – ha,
esplicitamente, fatto salva la possibilità per i genitori
non coniugati di rivolgersi al Tribunale per i minorenni
per la verifica della non contrarietà all’interesse dei figli di quanto tra loro convenuto.
Ricorribilità, o meno, avanti la Corte di cassazione dei
decreti pronunciati dalla Corte d’appello sui turni di
visita dei figli naturali
Ai fini che qui rilevano, un’ulteriore problematica
meritevole di qualche osservazione attiene, infine, all’ammissibilità o meno di un ricorso straordinario ex
articolo 111 Costituzione avverso i provvedimenti pronunciati dalla Corte d’appello in materia di affidamento e regolamentazione del diritto di visita dei figli naturali. Un interrogativo – questo – rispetto al quale, non
senza rifarsi ad un proprio consolidato orientamento,
il Supremo consiglio, con la pronuncia 19904/07, né ha
dichiarato l’inammissibilità, tenuto conto che i provvedimenti in tema di disciplina di visita del figlio naturale da parte del genitore non affidatario – essendo unicamente tesi a tutelare in via provvisoria l’interesse
del minore e, come tali, suscettibili di revoca e modifica in ogni momento – sono inidonei ad acquisire autorità di cosa giudicata e, pertanto, non sono ricorribili
per Cassazione. Del resto e, in argomento, la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che il principio di diritto in forza del quale lo stabilire i tempi ed i criteri di
frequenza in favore del genitore non affidatario è questione rimessa alla discrezionale valutazione del giudice di merito, il quale deve avere come parametro di riferimento il preminente interesse del minore stesso ed
il suo diritto a mantenere vivo il rapporto con ciascuno
dei genitori, ricevendo cura, istruzione ed educazione
da entrambi (Cassazione 10094/07).
Conclusioni
Dall’analisi dei punti sopra esposti e dalle soluzioni
prospettate si evidenzia come, al di là delle altalenanti
ed antitetiche “prese di posizione” iniziali, immediatamente manifestatisi all’indomani dell’entrata in vigore
della legge 54/2006, la Cassazione ha, finalmente, risolto la questione afferente la competenza a decidere sull’affidamento dei figli naturali, schierandosi dalla parte
di coloro che hanno ritenuto perfettamente compatibile in subiecta materia la cognizione del giudice “specializzato”, giungendo ad ampliare la “conoscenza” anche al profilo patrimoniale.
INTERVENTI
Uso ed abuso dei mezzi di
correzione e di disciplina
nella famiglia islamica in
Italia
DI SIMONA PAOLA BRACCHI,
AVVOCATO DEL FORO
DI PISA
Il codice penale italiano comprende una particolare
norma a tutela dei minori; trattasi dell’articolo 571 c.p.,
il quale testualmente recita: «Chiunque abusa dei mezzi
di correzione o di disciplina in danno di una persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni
di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel
corpo e nel mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se
dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le
pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo;
se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».
Il legislatore ha individuato, quale soggetto attivo della norma, in primis, il genitore, facendo riferimento al
ruolo di educatore nei confronti della prole. Diverso discorso, invece, per il rapporto intercorrente tra marito e
moglie, non sussistendo, nel nostro ordinamento, uno
jus corrigendi, con riferimento al consorte, per il quale,
pertanto, non può realizzarsi detta fattispecie criminosa
(1).Trattasi di un articolo di legge il cui precetto normativo è legato al concetto di esercizio della cosiddetta “funzione correttiva” e delle modalità con cui viene espletata, ma sempre – si ripete – nei confronti della prole, purché minore (2).
Tuttavia, notevoli sono i problemi che possono insorgere nell’applicazione della norma, quando si è in presenza di nuclei familiari osservanti rigidamente i principi ed i dettami contenuti nel Corano. Come è noto, la famiglia (integralista) islamica poggia su principi assai diversi – e per certi aspetti, quasi aberranti – per la società
italiana e, più in generale, per la comunità europea. Invero, qualsiasi membro della famiglia, moglie o figli che
siano, non è esente – rectius, è soggetto - dall’utilizzo di
mezzi di correzione e di disciplina da parte del maritogenitore. Tale marito-genitore è colui che è preposto alla
conduzione disciplinata dei rapporti interpersonali nell’ambito familiare (marito-moglie, genitore-figli) e, in
virtù di questo ruolo, è autorizzato ad utilizzare qualsiasi mezzo – a suo giudizio – idoneo a fini “educativi” per i
membri del nucleo. Ciò poiché Allah ha stabilito che
l’uomo ha una posizione di preminenza rispetto alla
donna; più precisamente «… gli uomini sono un gradino
più in alto (rispetto alla donna, N.d.A.) …» (3).
Il Corano, ne “La Sura delle donne” (4), insegna: «… Gli
uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro
beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio
è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei
loro letti, poi battetele …». Tale condotta, prescritta dal
Corano, integrerebbe il reato di maltrattamenti, se caratterizzato da una pluralità di azioni vessatorie reiterate
nel tempo, di cui all’articolo 572 c.p. (5).
È evidente che l’elemento religioso assume, in questi
casi, una particolare importanza, giacché investe uno
dei requisiti fondamentali della fattispecie, ossia l’elemento psicologico. Si, può, infatti, ritenere irrilevante il
convincimento dell’agente di rispettare dei precetti religiosi, nel caso di specie, coranici, e, anzi, tradurlo in una
consapevolezza, in una dolosità (6) della propria azione?
In proposito, la Suprema Corte ha indicato uno scrimen,
ossia: «In base all’articolo 571 c.p. sono leciti i mezzi di
correzione tradizionali, mentre vanno puniti solo gli eccessi che possono mettere in pericolo l’incolumità del
soggetto passivo e cagionargli un concreto danno alla
persona, sempre che il motivo determinante dell’agente
sia quello disciplinare e correttivo». (7)
Ma, anche dal punto di vista oggettivo, sussistono alcuni problemi di natura ermeneutica, con riferimento
all’espressione “mezzo di correzione”; che dire, ad
esempio, del classico schiaffo sulla nuca del minore, assai in uso nelle famiglie di religione islamica (e non solo,
in verità): trattasi di condotta lecita od illecita? A parere
di chi scrive, è troppo generica l’indicazione di “mezzo
di correzione”, poiché è rappresentativa di una categoria
indefinita e soggetta ai cambiamenti ed all’evolversi
della società, prestandosi, pertanto, ad interpretazioni
che possono collidere con il cosiddetto principio di tassatività che permea il nostro sistema di diritto penale.
Pertanto, sovente, è dovuto intervenire il Supremo collegio, come – a mero titolo esemplificativo – nella fattispecie sopra proposta del ceffone, stabilendo: «L’abuso
dei mezzi di correzione può commettersi trasmodando
nell’impiego di un mezzo lecito, sotto gli aspetti sia della forza fisica esercitata in un singolo gesto punitivo,
che della reiterazione del gesto stesso. Perciò, anche un
solo schiaffo, quando sia vibrato con tale violenza da cagionare pericolo di malattia, e sufficiente a far avverare
l’ipotesi criminosa prevista dall’articolo 571, comma primo, c.p. …» (8). La Cassazione ha inoltre sancito che: «In
tema di abuso di mezzi di correzione (articolo 571 c.p.), il
termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione e presuppone che tali mezzi, tra i quali può farsi
rientrare un pur occasionale ed opportuno “ceffone”,
possa farsi un uso consentito e legittimo che però, trasmodando in apprezzabile eccesso, si trasforma in illecito, così integrando la figura dell’abuso …» (9).
Ma così argomentando, si attribuisce implicitamente
una liceità ad una condotta, che – comunque – ha un’indubbia connotazione violenta, poiché solo, davanti ad
una trasmodazione dell’azione, si è in presenza del reato di cui all’articolo 571 c.p.. In altri termini, si attribui-
maggio-giugno 2008 | Avvocati di famiglia | 63
IN LIBRERIA
rebbe ad un gesto violento (quale è lo schiaffo, anche se
dato con un minimo di forza fisica) una qualità di mezzo educativo. E, conseguentemente, la Cassazione, in
proposito, ha statuito: «L’uso della violenza non può mai
ritenersi finalizzato a scopi rieducativi, specie oggi che
l’ordinamento e la coscienza sociale attribuiscono anche al minore dignità di persona e titolarità di diritti,
senza più considerarlo semplice destinatario di azioni
protettive. A ciò dovendosi aggiungere la considerazione
del cosiddetto “principio di non contraddizione”, il quale
impone di escludere che valori educativi possano radicarsi nella personalità del minore con l’uso di un qualsiasi mezzo violento …» (10).
Nel caso, comunque, della famiglia islamica, vi è da
considerare che, mentre la madre riveste il ruolo di custode dei figli, il padre esercita l’autorità parentale e
questa, per costumi e tradizioni e considerato che viene
esercitata da un uomo, si estrinseca in atti fisici aventi
natura repressiva o coercitiva (e, proprio perché tali, richiedenti l’uso di vis, ossia di forza fisica); il tutto, poi,
con la convinzione di una legittimazione da parte del
Corano.
In una società, come quella italiana, che si presenta,
nel secondo millennio, con una componente, ormai radicata, sempre più massiccia di persone islamiche, l’applicazione dell’articolo 571 c.p. appare assai ostica, alla
luce delle brevi considerazioni dianzi svolte.
Basti pensare, all’uopo, ad un caso straordinariamente
attuale: il genitore (islamico) che costringe la figlia, “a
suon di ceffoni”, a portare lo “chador”: commette o non
commette il reato di cui all’articolo 571 c.p.. La soluzione, a riflettere bene, non è né semplice né scontata.
Note
1. cfr. Cass. Pen., sez. VI, sentenza 5530 del 12 agosto 1974
2. cfr. Cass. Pen., sez. VI, sentenza 8273 del 6 ottobre 1984, nella
quale si legge: «… Non è configurabile il reato di abuso di mezzi di
correzione, qualora soggetto passivo sia il figlio già divenuto maggiorenne ancorché convivente, trattandosi di persona non più sottoposta all’autorità del genitore …»
3. ved. “La Sura della vacca” ne “Il Corano” – I Classici della BUR –
Biblioteca Universale Rizzoli (traduzione di Alessandro Bausani)
4. ved. “Il Corano” – I classici della BUR – Biblioteca Universale Rizzoli (traduzione di Alessandro Bausani)
5. Articolo 572 c.p. «Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli –
Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, maltratta
una persona, o un minore degli anni quattordici, o una persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una
professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica
la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventanni.»
6. per il reato di cui all’articolo 571 c.p. è sufficiente il dolo generico
7. cfr. Cass. Pen., sez. VI, sentenza 1451 del 16 febbraio 1983
8. cfr. Cass. Pen., sez. I, sentenza 1935 del 22 febbraio 1966; ved. anche Cass. Pen., sez. VI, sentenza n. 11344 del 26 novembre 1982,
nella quale si legge: «… Ai fini del reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina, costituisce malattia qualsiasi contusione o alterazione, sia pure lievissima, dell’integrità fisica personale …»
9. cfr. Cass. Pen., sez. VI, sentenza 4934 del 9 gennaio 2004
10. cfr. Cass.Pen. , sez. VI, sentenza 44621 del 26 ottobre 2004; «La
Corte, nel rigettare il ricorso avverso una condanna per il reato di
lesioni personali volontarie, pronunciata nei confronti di un padre
che aveva provocato alla figlia infraquattordicenne dei lividi, colpendola con una bacchetta sull’orecchio e sui glutei, ha escluso la
qualificabilità della condotta nella meno grave ipotesi delittuosa
dell’abuso dei mezzi di correzione, prevista dall’articolo 571 del codice penale»
64 | Avvocati di famiglia | maggio-giugno 2008
In libreria
La responsabilità civile
dell’insegnante, del genitore
e del tutore
I
l tema trattato da Alfredo Ferrante nel libro «La responsabilità civile dell’insegnante, del genitore e
del tutore», é di pregnante e recentissima attualitá
anche in relazione ai continui fenomeni di bullismo. Il libro assume ancor piú interesse in virtú delle
considerazioni che vengono fatte in relazione ai genitori separati e divorziati e alla relazione intercorrente
tra l’articolo 2048 e la potestá genitoriale. Questo anche alla luce della sentenza della Cassazione civile
7050/2008, dello scorso marzo, che condanna i genitori
indipendentemente dalla coabitazione con il minore.
L’attuale struttura sociale agevola il compimento di
fatti illeciti da parte di un soggetto, il minore, che, ad
una progressiva autonomia ed indipendenza di movimento, non associa una indipendenza patrimoniale;
da ciò scaturisce la necessità di individuare un soggetto responsabile che tuteli il terzo danneggiato (si pensi
appunto ai fenomeni di bullismo).
Un complesso di più di settecento sentenze, nonché
la predisposizione di una serie di schemi riassuntivi
relativi al possibile differente riparto della responsabilità tra genitori separati o divorziati (anche in virtù della legge sugli affidamenti condivisi) e alla differente responsabilità tra insegnante di scuola pubblica e privata
offrono, tanto al professionista quanto allo studioso,
una visione completa delle problematiche sollevate
dagli articoli 2047 e 2048 c.c..
L’opera si arricchisce di riferimenti all’esperienza
comparatistica. La tematica relativa alla responsabilità
dell’infermo di mente, la responsabilità dell’istruttore
sportivo e la possibilità di ridurre la responsabilità dell’insegnante dinnanzi all’azione di rivalsa dello Stato
sono solo altri dei molteplici profili sviluppati in un’opera che si propone di offrire agli operatori del diritto
un quadro chiaro e puntuale.
Alfredo Ferrante
La responsabilità civile dell’insegnante, del genitore e
del tutore
Giuffrè (Il diritto privato oggi - Schede a cura di Paolo
Cendon), 2008.
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Avvocati di famiglia
Le sezioni territoriali
dell’Osservatorio
nazionale sul diritto
di famiglia
Alessandria
Ancona
Arezzo
Ascoli Piceno
Asti
Avellino
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Barcellona Pozzo di Gotto
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Caltagirone
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Civitavecchia
Crema
Cuneo
Firenze
Foggia
Frosinone
Genova
Grosseto
La Spezia
Larino Termoli
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Lucera
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Massa
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Nola
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Reggio Emilia
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Rossano
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Trani
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Verona
Vibo Valentia