La polarizzazione territoriale nella New economic Geography

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Sviluppo Economico corso progredito – 2° modulo
a.a. 2012-2013
La polarizzazione territoriale nella New economic
Geography – modello semplificato
Introduzione
L’interdipendenza delle economie (la integrazione internazionale) può avere
un notevole impatto sui processi di crescita e sviluppo economici. Un modo di
affrontare questo soggetto è quello dei modelli core-periphery, o, con espressione in italiano, centro-periferia: la “centralità” e la “perifericità” economica
di aree diverse risulta essere un prodotto del processo di sviluppo stesso.
Un’occhiata alle statistiche fornite dalla World Bank è sufficiente a chiarire i
primi termini della questione (tabella 1):
Tabella 1 – Il problema “Nord-Sud” per grandi aggregati di paesi: PIL, PIL pro
capite e popolazione nel 2011
PIL pro-capite
(PPP 2005)
LIC - Economie a basso reddito
MIC - Economie a
medio reddito
HIC - Economie ad
alto reddito
PIL pro-capite
(HIC =100)
Popolazione
(mondo = 100)
PIL (PPP 2005)
(mondo = 100)
1190
4%
12%
1%
6232
19%
72%
45%
33533
100%
16%
54%
Fonte: World Development Indicators 2012, World Bank.
Questi dati, pur nell’imprecisione di cui soffrono tutte le stime statistiche,
mettono in luce con notevole crudezza l’entità delle differenze di reddito procapite tra le diverse aree del mondo: 16% della popolazione della popolazione
mondiale ha un reddito pari al 54% di quello prodotto in tutto il mondo, con un
reddito pro capite che è pari a 25 volte quello dei paesi più poveri, che, a loro
volta, hanno una popolazione complessiva di circa 850 milioni di persone, il 12
della popolazione mondiale 1.
1
I confronti di reddito sono espressi in “potere di acquisto equivalente” (stime PPP: Purchasing Power Parities) poiché confronti in valuta corrente (di solito dollari) soffrono di diversi li-
81
Ancora più interessante, nonostante la maggior approssimazione dei dati utilizzati, risultano le considerazioni che possono essere dedotte dalla tabella 2 qui
sotto riportata, dalla quale può essere analizzata la dinamica passata e il cui risultato finale è quello appena discusso
Tabella 2 – Tendenza del PNL pro capite reale delle principali aree geografiche e del
mondo (in dollari e prezzi USA 1960)
PNL totale (miliardi)
1750
1800
1830
1860
1880
1900
1913
1928
1938
1950
1960
1970
1977(a)
PNL pro capite (dollari)
Paesi
sviluppati
Terzo
Mondo
Mondo
Paesi
sviluppati
Terzo
Mondo
Mondo
35
47
67
118
180
297
430
568
678
889
1.394
2.386
3.108
112
137
150
159
164
184
217
252
293
335
514
800
1.082
148
183
218
277
344
480
646
819
971
1.224
1.909
3.185
4.190
182
198
237
324
406
540
662
781
856
1.054
1.453
2.229
2.739
188
188
183
174
176
175
192
194
202
203
250
308
355
187
191
197
220
250
301
364
405
433
490
633
868
1.001
PNL pro capite in dollari a prezzi USA 1960
Paesi sviluppati
Totale
1750
1800
1830
1860
1913
1950
1960
1970
1977(a)
A
182
198
237
324
662
1.054
1.453
2.229
2.737
Maggiormente sviluppati
B
230
240
360
580
1.350
2.420
2.800
3.600
4.220
Divari tra paesi sviluppati
e Terzo Mondo
Terzo mondo
Totale
Meno sviluppati
C
188
188
183
174
192
203
250
308
355
D
130
130
130
130
130
135
140
140
145
A/C
1.0
1.1
1.3
1.9
3.4
5.2
5.8
7.2
7.7
B/C
1.2
1.3
2.0
3.3
7.0
11.9
11.2
11.7
11.9
B/D
1.8
1.8
2.8
4.5
10.4
17.9
20.0
25.7
29.1
miti, derivanti dal fatto che i tassi di cambio tra valute tengono conto dei prezzi dei beni economici commerciati (ma non tutti lo sono).
82
Fonte: Bairoch, Levy-Leboyer (1981).
Prima ancora di commentare i dati, va sottolineato: anzitutto che le stime di
così lungo periodo e per un così ampio spettro di paesi sono poco affidabili e
che se ne possono trarre poche indicazioni generali; in secondo luogo che
l’immagine di sostanziale, che emerge dai dati della tabella, di uguaglianza dei
livelli di sviluppo di tutti i paesi a metà del ’700 non è pienamente condivisa
(p.es.: Maddison,1995), anche se, oggigiorno, confermata da diverse analisi.
La principale indicazione che emerge dalla tavola èe la seguente: il divario
tra ricchi e poveri è un fatto da imputare, almeno contabilmente, al processo di
sviluppo economico; l’allargamento della forbice è in buona sostanza tutto successivo alla rivoluzione industriale: mentre il reddito pro-capite dei paesi oggi
sviluppati ha continuato a crescere a ritmi costanti, quello dei paesi sottosviluppati è rimasto stazionario, nei casi più negativi, o comunque è cresciuto più lentamente in quelli migliori. Insomma il processo di sviluppo economico, che ha
avuto nei primi decenni una fase di rapida diffusione tra i paesi dell’Europa
centro settentrionale, è rimasto un fenomeno caratteristico solo dei paesi sviluppati.
Anche in parte della letteratura recente questo punto viene ribadito, in contrapposizione a quell’ipotesi di “convergenza” cui si è già accennato: “la divergenza nei livelli di produttività relativa e negli standard di vita è la caratteristica
dominante della storia economica moderna” (Pritchett, 1997); “il ventesimo secolo ha visto crescere ad un ritmo stupefacente la distanza economica relativa
fra economie diverse” (De Long, 1999).
Nel lavoro di Pritchett appena citato vengono forniti i seguenti dati, che dimostrano come l’idea di fondo della divergenza come prodotto dello sviluppo economico sia del tutto fondata (si tratta di calcoli sui dati elaborati da Maddison, 1995).
L’autore presenta due diverse statistiche. La prima, che fornisce alcuni dati
generali sul fenomeno, si basa sull’assunzione di tre ipotesi: che le stime correnti dei redditi relativi tra paesi siano corrette, che siano egualmente corrette le
stime dei tassi di crescita dei paesi avanzati, infine che il reddito pro capite non
possa scendere sotto certi livelli (nello specifico l’autore propone $250 a prezzi
del 1985).
Sotto queste condizioni il risultato che emerge è illustrato dalla tabella 3.
83
Tabella 3 – Redditi pro capite relativi 1870-1990
Rapporto del reddito pro capite del paese più ricco rispetto al più povero
Deviazione standard dei logaritmi naturali del PIL pro capite
Deviazione standard dei PIL pro capite/
Differenza assoluta nel PIL pro capite tra la media dei paesi poveri e il
paese più ricco
1870
8.7
0.51
459
1990
45.2
1.06
3.998
1.286
12.662
Fonte: Pritchett (1997).
Si può sicuramente affermare che risulta evidente anche da queste cifre, che
si riferiscono sia ad un arco temporale più limitato rispetto a quelle di Bairoch,
che in media i paesi poveri hanno sempre perso terreno rispetto ai paesi industrializzati. Si noti che questi dati indicano chiaramente che tale perdita è stata
assai consistente sia in termini assoluti che relativi.
In generale e in media, dunque, non si può parlare di diffusione dello sviluppo; il fenomeno opposto, quello della concentrazione territoriale, appare del tutto evidente.
Tuttavia va precisato che non sono mancati fenomeni di diffusione localizzati: tra la fine dell’ottocento e l’inizio di questo secolo, infatti, sia il Giappone,
sia i Paesi dell’Europa meridionale, tra cui l’Italia, hanno sperimentato la loro
fase di “decollo”, e sono stabilmente entrati nel novero dei paesi sviluppati.
Soprattutto, però, si deve sottolineare che negli ultimi decenni un processo
di intensa crescita economica ha coinvolto una vasta e significativa area asiatica
a partire, in ordine cronologico, dalle cosiddette quattro tigri (Taiwan, HongKong, Singapore, Korea), fino al consistente e assi dibattuto “fenomeno” cinese
(ma anche Indiano e di molti altri paesi).
Questi episodi, pur importanti, di diffusione dello sviluppo non intaccano,
nella sostanza, l’immagine di una sostanziale polarizzazione territoriale dello
sviluppo economico a livello mondiale, ma la situazione sta evolevndo in modo
interessante 2. Come è stato osservato (De Long, 1999, cap. 1, p. 9), la situazione è sicuramente ambivalente: anche riferendosi al lungo perido sono possibilie
una lettura negativa, che sottolinea l’ampliarsi continuo del differenziale di sviluppo e di benessere e il fatto che molte centinaia di milioni di persone vivono
tuttora in economie al limite della sussistenza e stagnanti; però è anche possibile una interpretazione positiva, che vede nei tassi di crescita comunque positivi
2
Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte con riferimento all’analisi interregionale
piuttosto che internazionale. Si pensi all’esperienza di sviluppo economico delle regioni italiane,
cui sono dedicate alcune specifiche pagine più avanti.
84
e sensibilmente più elevati che nei secoli passati di gran parte dei paesi del
“sud” un aspetto comunque di grande cambiamento e speranza.
Come detto poco sopra, comunque, la situazione mostra dei lati del tutto
nuovi, diretta conseguenza dello sviluppo economico asiatico (assai significativo in quanto coinvolge enormi masse di popolazione).
Il cambiamento di fondo può essere visualizzato nella figura XX, dove i dati
della tabella 2 sono stati aggiornati (dopo 1970, compreso, in avanti) con dati
presi dalla più recente versione dei World Development Indicators della World
Bank.
Figura 1
Il grafico è costruito su dati non pienamente comparabili: i due raggruppamenti di paesi (paesi ad ricchi e paesi in via si sviluppo) sono parzialmente diversi, i dati sono deflazionati su base diversa (1960 per Bairoch, 2000 per
WDI); tuttavia è possibile utilizzarlo per poche osservazioni molto generali: il
reddito relativo dell’insieme dei paesi (oggi) poveri è costantemente diminuito,
ma questa trend negativo è progressivamente rallentato e, negli anni recenti, si è
addirittura stabilizzato: un possibile indizio di un cambiamento profondo e di
opposta direzione a quanto accaduto in passato. Naturalmente questo non basta
85
a scalfire l’immagine di una polarizzazione sostanziale dello sviluppo economico a livello internazionale, nel complesso e per i 200 anni passati.
Può, infine, essere interessante seguire Bairoch nella sua proposta di analisi
storica della diffusione (o meno) dello sviluppo economico. Infatti, a prescindere
dai fenomeni più recenti sopra discussi, si può dire che è esistito un momento di
rapida diffusione dello sviluppo economico anche in passato: esso coincide con i
primi decenni del secolo XIX, cioè con le prime fasi dello “sviluppo economico
moderno” (nella definizione di Kuznets). È infatti noto che, nelle prime fasi, lo
sviluppo economico, cominciato in Inghilterra, si sia poi rapidamente diffuso ai
paesi dell’Europa centro-settentrionale e al nord America (senza dimenticar
l’Australia, economia, peraltro, molto piccola): secondo Bairoch (1976, pp. 6163) un solo paese era stato toccato dalla rivoluzione industriale alla fine del settecento, con una popolazione pari all’1% di quella mondiale, ma ben 11 alla metà
del secolo successivo, con una popolazione del 14% di quella mondiale; Bairoch
pensa che questa rapida diffusione sia dipesa da una combinazione di alti costi di
trasporto e di basse economie di scala (bassi costi del capitale). Il capitale necessario a stabilire una nuova impresa era, all’inizio dell’800, mediamente piuttosto
piccolo, mentre i costi di trasporto erano invece piuttosto elevati: è la combinazione di questi due elementi che ha stimolato la diffusione della produzione “moderna” a nuove aree dell’Europa. Queste condizioni sono poi mutate col trasformarsi dell’economia: le dimensioni delle imprese sono cresciute e i costi di trasporto ridotti. Per conseguenza l’iniziale fenomeno diffusivo si è arrestato.
Proprio questi elementi sono quelli che emergono dai modelli che saranno esaminati nelle sezioni seguenti.
Infine, se si sposta l’attenzione dalla prospettiva internazionale a quella interregionale, i risultati non sono dissimili. Nella figura successiva. Fig. 2, è infatti
illustrato un rapporto analogo a quello della figura 1 ma relativo alle regioni
d’Italia: in questo caso si ha l’andamento del rapporto tra Pil pro capite delle regioni meridionali e del resto del paese (fonte: Daniele, Malanima, 2007). È del
tutto evidente che se ne possono trarre indicazioni qualitativamente analoghe a
quelle precedenti: il divario era nullo prima dello sviluppo economico moderno
(il “decollo” economico dell’Italia è datato sul finire del XIX secolo); il Sud ha
poi progressivamente perso terreno rispetto al Nord, anche se il divario non è paragonabile, per entità, a quello internazionale; questo trend negativo sembra essersi fermato negli ultimi decenni, pur con alcuni alti e bassi.
86
Figura 2
PIL pro capite Italia - SUD/NORD
1861-2004
120
110
100
90
80
70
60
50
1999
1993
1987
1981
1975
1969
1963
1957
1951
1945
1939
1933
1927
1921
1915
1909
1903
1897
1891
1885
1879
1873
1867
1861
40
Fonte: Daniele,Malanima, 2007
Modelli centro periferia
Possiamo a questo punto richiamare le principali “regolarità” della polarizzazione, così come sono emerse dalla discussione precedente:
1. l’entità delle disuguaglianze interregionali, in senso lato, per la maggior
parte è conseguenza del processo di crescita: all’epoca della rivoluzione industriale esse erano molto ridotte se non assenti;
2. le differenza misurabili, in termini di PIL pro capite, sono dell’ordine di
varie decine di volte tra i paesi più ricchi e più poveri;
3. sono individuabili processi di “inseguimento” di successo di limitata ma
crescente entità (Giappone, Europa meridionale da un punto di vista storico; area asiatica nell’ultimo trentennio).
87
Esiste una lunga tradizione, sebbene intermittente, di studi cosiddetti di tipo
“centro-periferia”, che hanno affrontato questo tipo di problematiche da una
angolazione teorica.
Essi mettono in rilievo il carattere endogeno della polarizzazione territoriale
dello sviluppo: esistono forze, tipiche di un processo di sviluppo economico,
che spingono nella direzione della creazione di “nord” e “sud” (in senso economico). In questo senso la presenza del “sud” è una conseguenza del processo
di sviluppo; tuttavia ciò non significa che il basso livello di vita della popolazione dei paesi poveri dipenda dall’aumento degli standard di vita della popolazione dei paesi ricchi: la povertà, nelle sue forme classiche di malnutrizione,
diffusione di epidemie, ecc., è stata la normale compagna del genere umano a
partire dalla sua nascita.
I modelli di questo tipo, però, tendono a dire qualcosa di più: infatti tendono
a sottolineare come la presenza di un “nord” ricco e sviluppato possa rimandare
o diminuire le speranze di decollo del “sud”: in questo senso la povertà del sud,
o di parte di esso, può essere una “responsabilità” del nord. D’altra parte, come
si vedrà più avanti, la presenza di un nord sviluppato può anche costituire uno
stimolo e una accelerazione per i processi di crescita del sud (come’ d’altra aprte, sottolineato da tutti i modelli di catching-up).
Un periodo di notevole fecondità nel campo degli studi sullo sviluppo economico è stato quello compreso tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni
’60. Gli studiosi che più di altri hanno legato il loro nome a questo periodo sono certamente Myrdal (1959) e Hirshman (1958).
In estrema sintesi nei loro studi si afferma la tendenza dell’economia a produrre squilibri regionali permanenti, in quanto rappresentano un fenomeno di
tipo cumulativo. Le aree in espansione attireranno una sempre maggiore quantità di risorse da altre aree, in conseguenza della presenza di economie crescenti
di scala (statiche e dinamiche). Myrdal conia l’espressione, assai usata nel seguito, di causazione circolare cumulativa.
Gli autori non negano l’esistenza di effetti di diffusione, ma, nella loro analisi, gli effetti di riflusso appaiono nettamente prevalenti: tali effetti opererebbero attraverso vari canali, legati all’emigrazione della popolazione, ai movimenti
internazionali di capitali, alla dinamica del commercio con l’estero. L’analisi di
Myrdal e Hirshman era fortemente polemica nei confronti dell’approccio prevalente in economia, e il conflitto è del tutto evidenziato dalla “previsione” di necessario riequilibrio territoriale dell’approccio ortodosso, laddove la tesi di questi autori è quella di una organizzazione territoriale dell’attività economica necessariamente, invece, dicotomica.
Ai loro occhi il difetto era insito nell’utilizzo del concetto di equilibrio stabile, verso cui l’economia tenderebbe, tipico di un modello neoclassico: “nelle
88
dottrine e nelle predilezioni tradizionali della teoria economica il concetto di
equilibrio stabile costituisce la cerniera del sistema”, e tale concetto è ideologicamente legato alle “principali predilezioni della teoria economica: l’idea dell’armonia di interessi, l’inclinazione anti-statale e anti-organizzativa e la presunzione che esista il libero scambio” (Myrdal, 1959, pp. 179-182).
Da questo punto di vista sembra che l’autore confonda la nozione analitica
di equilibrio (come soluzione di un modello) con quella di tipo politico (o etico). In particolare l’unica accezione di equilibrio (analitico) cui si riferiscono le
frasi appena citate è quella di equilibrio statico globalmente stabile, secondo il
modello del pendolo; la nozione di equilibrio dipende dall’assunzione che
“quando un cambiamento provoca altri cambiamenti come reazione, questi
cambiamenti secondari sono di direzione opposta al cambiamento primario”,
mentre “di norma un cambiamento provoca non cambiamenti in senso contrario, ma, all’opposto, continuamente complementari, i quali spingono il sistema
nella stessa direzione del cambiamento primario … in forza di questa causazione circolare un processo sociale tende a divenire cumulativo”, ma possono esistere “nuovi mutamenti esogeni, i quali abbiano la direzione e la forza necessaria per indurre il sistema ad arrestarsi. La posizione delle forze in equilibrio che
in questo modo viene a determinarsi non è, tuttavia, il risultato naturale del
giuoco delle forze all’interno del sistema” (ibidem, pp. 23-26).
L’analisi che segue metterà bene in luce che una situazione di squilibrio territoriale può ben essere una situazione di equilibrio nel senso tecnico: possono
cioè esistere forze che indirizzano endogenamente l’economia verso un assetto
di polarizzazione territoriale. I modelli di tipo centro-periferia cui ci riferiamo,
però, sono ben lungi dall’essere modelli con equilibrio unico: la presenza di feedback positivi causa anzi il tipico emergere di equilibri multipli.
Si può però affermare che economisti come Myrdal e Hirshman avevano individuato nella presenza sostanziale di feedback positivi la causa dei processi di
polarizzazione territoriale; nella terminologia di allora, Myrdal affermava che
nel funzionamento dell’economia non sono presenti, prevalentemente, meccanismi del tipo “utilità marginale decrescente” o “produttività marginale decrescente”, che indicano che al crescere delle quantità di beni o fattori il loro effetto al margine va scemando, ma invece che, normalmente, “quando il sistema è
sottoposto a degli shock, le variazioni delle forze agiscono nella stessa direzione … Ciò accade perché le variabili sono così interconnesse in un meccanismo
di causazione circolare che un cambiamento in una di esse fa variare le altre in
modo tale che questi cambiamenti secondari rafforzino il primo, con effetti terziari simili sulle variabili modificatesi per prime, e così via” (1959, p. 31): come si vede, si tratta esattamente della definizione, benché un po’ confusa e inutilmente complicata, di feedback positivi.
89
Oltre al fatto che questi autori non avevano compreso appieno la piena portata di questo tipo di concetto, un altro problema è costituito però dal fatto che
questi contributi risultano molto potenti nello spiegare i processi di polarizzazione, non anche quelli di crescita di aree late-comer.
È vero che, come abbiamo osservato nelle pagine precedenti, l’affermazione
che il mondo è organizzato in un Nord e un Sud economici è tuttora la più conforme alla realtà; è anche vero, inoltre, che la presenza di processi di tipo diffusivo non sia, in principio negata (Myrdal riconosce esplicitamente la presenza di
“spread effects”, che possono essere assimilati ai processi di “gocciolamento” o
“trickling down” di Hirshman) anche se vengono ritenuti assolutamente poco efficaci; tuttavia in generale, abbiamo l’esperienza storica, soprattutto recente, ci
impedisce di considerare del tutto marginali, quindi trattabili come eccezioni irrilevanti, i processi di diffusione dello sviluppo.
Fra l’altro nei paesi industrializzati oggi è diffuso il timore, forse non del tutto
giustificato, di una fuga di capitali verso i paesi a basso reddito emergenti e di
perdite di competitività nel commercio internazionale nei riguardi degli stessi; si
tratta di un timore, si vede bene, che contrasta con le “previsioni” di un processo
di divergenza cumulativo che favorirebbe i paesi più ricchi. È vero che tale timore è basato in parte su una conoscenza approssimativa e a volte errata del funzionamento dell’economia, tuttavia tale timore evidenzia una connessione possibile
tra l’emergere di nuovi paesi a forte dinamica economica e trasformazioni nell’economia dei paesi ricchi 3.
Di recente sono stati sviluppati alcuni modelli che sono riusciti a catturare
una parte dello spirito dei lavori pionieristici degli anni ’50.
Un primo lavoro (Murphy, Shleifer, Vishny, 1989), cui faremo solo un breve
accenno, tenta di formalizzare le idee espresse da Rosenstein-Rodan (1943): in
pratica l’idea di fondo è che i vari settori dell’economia siano legati da forti
complementarità, fattore questo, che definisce un evidente processo di retroazione positiva (fra l’altro si può rimarcare un certo contrasto con l’analisi neoclassica che tende a sottolineare piuttosto le componenti di sostituibilità tra beni
e fattori produttivi); una conseguenza è che un processo di “decollo” per un paese sottosviluppato, richiede uno sforzo coordinato per l’appunto di molti settori. L’analisi di Murphy e altri ha reso evidente la presenza di almeno due equilibri: uno di sottosviluppo e uno di crescita. La spiegazione è che per nessuna
impresa, presa da sola, risulta conveniente fare investimenti, ma questi sono invece profittevoli se vengono intrapresi contemporaneamente dall’insieme delle
imprese.
3
Il timore di ripercussioni negative coinvolge aspetti della vita sociale che vanno ben al di là
di quelli puramente economici. Si veda, per esempio “Quadrare il cerchio” di R. Dahrendorf
(Laterza, 1995).
90
Nel dibattito di allora il lavoro di Rosenstein-Rodan attirò alcune critiche
perché proponeva quello che fu definito un modello di sviluppo “equilibrato”,
ma nella sostanza esso proponeva un problema rilevante e del tutto ragionevole:
quello, appunto, della presenza di diffuse complementarità nell’economia.
Il contributo formale che però ha suscitato maggiore dibattito, in tempi recenti, è stato sicuramente quello di Krugman (1991a e 1991b), che ha ripreso
l’analisi dei modelli centro-periferia, chiarendo anche alcune questioni che erano rimaste in ombra; nelle sezione successiva ne sono presentati i tratti principali, seguendo da vicino il modello originale. Un libro che sistematizza la materia è quello di Fujita, Krugman, Venables (1999).
Sviluppi recenti: il modello semplificato di “geography and trade”
La versione originale del modello fu proposta con chiari intenti generali, ma
anche come schema di interpretazione dell’esperienza americana relativa alla
cosiddetta “cintura manifatturiera” dell’area nordorientale del paese. Il modello,
in una versione semplificata utilizza due funzioni: una prima, espressa nei grafici sottostanti dalla spezzata II, che definisce la distribuzione territoriale
dell’industria in funzione della distribuzione territoriale della popolazione (che
rappresenta la domanda) e una seconda, rappresentata dalla linea PP, in cui,
all’opposto, è la distribuzione territoriale della popolazione ad essere funzione
della distribuzione territoriale dell’attività industriale. Il modello assume l’esistenza di costi di trasporto ed di economie di scala crescenti; il suo funzionamento, in estrema sintesi, è definito dalla presenza di una esternalità (che costituisce un feedback positivo) che emerge dall’interazione tra, appunto, costi di
trasporto, economie di scala e domanda: per sfruttare le economie di scala le
imprese preferiscono fare gli impianti in un’unica localizzazione, per minimizzare costi di trasporto la localizzazione preferita è quella dove c’è maggiore
concentrazione della domanda, ma la domanda risulta essere maggiore proprio
dove è localizzata la maggior parte dei produttori.
In simboli e nel dettaglio il modello, con due settori (industria e agricoltura)
e due regioni (Nord e Sud), può essere espresso come segue. Popolazione ed
occupati si equivalgono (cioè L = N). Gli addetti del settore industriale possono
spostarsi fra le due regioni mentre gli addetti all’agricoltura, essendo legati alla
risorsa “terra” sono supposti immobili da un punto di vista territoriale. L’ipotesi
di mobilità territoriale dei fattori produttivi, in particolare dei lavoratori
dell’industria, risulta decisiva nel determinare le conclusioni del modello; questo sarà meglio chiarito nel paragrafo successivo.
91
Dato π (quota di occupati nell’industria nell’economia nel suo complesso),
supposto che gli agricoltori siano equamente suddivisi nelle due regioni, per cui
(1 – π)/2 è la quota di occupati agricoli in ogni regione, e definite MS e PS come
le quote di occupazione manifatturiera e totale a Sud, risulterà che
PS = (1 – π)/2 + π MS
è la funzione PP.
Se si riflette al significato dei simboli, essa risulta una utile presentazione di
una semplice identità algebrica, che può essere rapidamente identificata con
semplicissimi passaggi algebrici.
La rappresentazione grafica della PP è quella mostrata qui sotto.
Figura 3
PS
1–
1–π
2
Curva PP
1–π
2
MS
• La quota di popolazione al Sud PS sarà determinata solo dalla quota di
popolazione agricola nella regione (1 – π)/2 qualora l’occupazione industriale
non sia presente perché concentrata tutta al Nord (MS = 0): questa è l’intercetta
sull’asse PS.
• PS crescerà al crescere della quota di occupati industriali che si localizzano nell’area; questo è rappresentato dall’inclinazione positiva della funzione. Tale inclinazione è pari a π (come si vede dalla funzione che è quella di
92
una retta) e dunque è minore di 45 gradi (in quanto π è necessariamente inferiore ad 1).
• Infine il valore massimo di PS verrà raggiunto quando MS = 1, cioè quando al sud sarà presente tutta la popolazione del paese meno la quota di popolazione agricola che risulta esogenamente allocata al Nord, cioè sarà dato da 1 –
[(1 – π)/2], che può essere ovviamente espresso nella forma (1 + π)/2.
Per definire la II si devono fare le seguenti considerazioni, sapendo che x
costituisce la produzione tipica di un’impresa, t sono i costi di trasporto per unità di merce e F i costi (fissi) per impiantare un nuovo stabilimento:
a) è più conveniente servire Sud da Nord finché PS xt < F
infatti la parte sinistra della disuguaglianza determina il costo, per ogni impresa, di servire il mercato del Sud a partire dal Nord (PS x non è altro che la
quantità di beni che una impresa, che produce x unità, dovrà inviare al Sud, dato che la quota di domanda proveniente dal Sud è espressa dalla sua quota di
popolazione PS). Ciò sarà conveniente fintantoché risulterà meno costoso che
fare un nuovo impianto di produzione al Sud (F)
b) è più conveniente servire nord da Sud finché (1 – PS)xt < F
esattamente per considerazioni speculari a quelle appena fatte.
c) infine, si faranno impianti in entrambe le regioni in caso diverso, se cioè
non sono soddisfatte né la prima né la seconda condizione.
formalizzando, e operando alcune semplici trasformazioni algebriche nelle disequazioni, si ottiene:
MS = 0 se PS < F/xt
MS = 1 se PS >1 – F/xt
MS = PS se F/xt < PS < 1 – F/xt
(cond. a)
(cond. b)
(cond. c)
La lettura di queste semplici relazioni ci indica che la quota di occupazione
industriale al Sud risulta identica alla quota di popolazione complessiva che ivi
risiede (condizione c), cioè l’offerta industriale “soddisfa” la domanda che viene da tutti i consumatori di una certa regione dalla regione stessa, a meno che
questa popolazione non sia troppo esigua (quando vale la condizione a, cioè), e
allora conviene servire la regione da qualche altra localizzazione, oppure se la
popolazione regionale (a rigore, la sua quota) è davvero alta (condizione b), e
allora tutta l’industria vi si concentra.
Possiamo ora rappresentare la funzione II nella figura 4: essa risulterà essere
uguale alla bisettrice (MS = PS) entro un intervallo determinato dai due punti di
93
discontinuità oltre i quali valgono la prima e la seconda delle condizioni appena
discusse.
Figura 4
1
PS
1–
F
tx
Curva MM
F
tx
MS
1
Infine è possibile considerare l’interazione delle due funzioni che abbiamo
esaminato.
Un primo caso generale è costituito dalla possibilità che le forze che, potenzialmente, potrebbero portare ad una polarizzazione territoriale dell’economia
non siano sufficientemente forti. In questo caso, rappresentato nella figura 5,
esiste un unico equilibrio che corrisponde alla situazione di diffusione dello sviluppo.
94
Figura 5
1
1–
PS
F
tx
1–1–π
2
E1
Curva PP
1–π
2
Curva II
F
tx
MS
1
Il punto E1 costituisce infatti l’unica posizione di equilibrio stabile
dell’economia. Se la PP si trova sopra la II, come a sinistra di E1, allora per
ogni grado di industrializzazione relativa del Sud le imprese richiedono, per essere in equilibrio, una quota regionale di popolazione (determinata dalla II) più
bassa di quella che invece si verifica (quella determinata dalla PP): al Sud c’è,
in qualche modo, una specie di eccesso di domanda; quindi altre imprese sono
incentivate a muoversi verso il Sud, fino al raggiungimento dei valori di PS e
MS che definiscono il punto E1.
D’altronde, se la PP giace sotto la II, come a destra del punto di equilibrio,
allora succederà l’opposto, cioè si determina un deficit di domanda, per cui le
imprese usciranno da quel mercato. La dinamica del sistema è dunque illustrata
dalle frecce.
Tuttavia potrebbe verificarsi un caso diverso e, ai nostri fini, più interessante, illustrato nella figura 6.
95
Figura 6
1
E2
PS
1–1–π
2
1–
E1
F
tx
F
tx
1–π
2
E0
MS
1
Come si vede facilmente, in questa nuova situazione esistono cinque punti di
equilibrio, tutti quelli, cioè, in cui la II e la PP si intersecano; di questi, però,
solo tre sono stabili, E0, E1, E2, esattamente per le stesse ragioni per cui risultava stabile il punto E1 del caso precedente.
Una conseguenza è che in questa situazione esiste la possibilità che il sistema economico si configuri secondo un equilibrio di tipo centro periferia; infatti
sia E0 sia E2 definiscono casi di perfetta polarizzazione territoriale dell’attività
industriale: nel primo caso (E0) il Sud risulta completamente agricolo e tutta
l’industria è concentrata al Nord, nel secondo (E2) avviene l’opposto ed è il
Sud ad attrarre tutta l’attività industriale.
Nel modello nulla si dice quale sarà l’equilibrio che il sistema selezionerà;
se però un equilibrio centro periferia si verifica per qualsiasi ragione, il modello
ci dice che nell’economia ci sono forze che tenderanno a perpetuare questa situazione. Per utilizzare termini già visti nelle prime sezioni, quello che conta, in
una configurazione di questo genere, sono le “condizioni iniziali”: da dove si
parte è rilevante per sapere dove si andrà a finire. In altri termini “la storia conta”: la sequenza degli eventi determinerà se l’economia si indirizzerà verso un
assetto di tipo diffusivo o meno (path-dependence), l’emergere poi delle economie esterne di scala, dipendenti dall’interazione di costi di trasporto, economie di scala a livello d’impianto e domanda, costituisce l’elemento di rinforzo,
o feedback positivo, che rende permanente l’assetto emerso (lock-in) indirizzando l’economia verso uno dei suoi equilibri stabili.
96
Dall’osservazione del grafico si vede con facilità che la presenza o meno di
equilibri multipli dipende, dal lato formale, dalla grandezza relativa delle due
espressioni (1 – π)/2 e F/xt
Gli equilibri saranno multipli se
(1 – π)/2 < F/xt
se cioè ci troviamo in un caso analogo al secondo dei due appena illustrati graficamente e discussi. La condizione può essere riscritta in altro modo, cioè:
F > xt(1 – π)/2
Questa è la condizione che rende possibili equilibri di tipo centro-periferia,
che i costi fissi superino una certa soglia determinata da alcuni parametri.
Krugman mette dunque in luce che la probabilità che un equilibrio centro periferia si verifichi dipende da una combinazione di questi fattori:
• forti economie di scala (alto F);
• bassi costi di trasporto (basso t);
• forte domanda di beni industriali (alto π).
Si può osservare che lo sviluppo economico è stato caratterizzato proprio da
una dinamica che è andata in questa direzione, cioè al processo generale di crescita del prodotto si sono accompagnate la crescita delle dimensioni d’impianto,
la diminuzione dei costi di trasporto e l’aumento della quota di settori industriali nell’economia, a scapito di quelli agricoli.
La conclusione è che se il grossolano modello presentato riflette alcune caratteristiche di fondo del sistema economico, allora possiamo dire che il fenomeno della polarizzazione territoriale dell’attività economica è un fenomeno
endogeno, è cioè il prodotto del processo di crescita economica.
Sebbene si sia già indicato l’effetto di variazioni delle variabili del modello
sull’esito finale, sembra utile illustrare alcuni casi paradigmatici e esemplificativi.
Cominciamo con due casi estremi.
Il primo di questi casi è relativo al parametro π, il grado di industrializzazione dell’economia (la quota di occupazione industriale).
Supponiamo che il valore di π sia zero: nell’economia esiste solo il settore
agricolo. In questo caso, ovviamente, avremo un unico possibile equilibrio, in
cui la popolazione sarà semplicemente distribuita esogenamente tra le due regioni, ognuna delle quali avrà il 50%.
Un risultato analogo (equidistribuzione) lo otteniamo nel caso di assenza di economia di scala (F=0) o altissimi costi di trasporto (t=∞): questi casi rende-
97
rebbero la II uguale alla bisettrice e, in caso di curva II “normale” si avrebbe un
solo equilibrio diffusivo, analogamente al quanto visto nella figura 4.
Un altro caso, mostrato nella seguente figura 7, in cui π risulti “al limite”
uguale ad 1, l’intercetta (1 – π)/2 sarebbe pari a zero e la curva PP coinciderebbe con la bisettrice. Quindi ciò rende assai probabile l’esistenza di un equilibrio
centro periferia. La esistenza di equilibri di tipo polarizzato è pienamente assicurata nel caso limite ma, per di più, esisterà un tratto di sovrapposizione tra le
due funzioni PP e II, in cui PS = MS, con un numero infinito di punti di equilibrio, tutti instabili.
Figura 7
Un altro caso interessante riguarda le posizioni estreme che si raggiungono
per valori bassi dei costi di trasporto o alti dei costi fissi (figura 8)
98
In entrambi i casi variazioni di F e di t comportano modificazioni alla curva
II, in particolare modificano il valore della popolazione per cui si verifica la discontinuità nella curva.
Nel caso in cui F/tx risulti pari a 0,5 si verifica l’esistenza di solo 2 equilibri
stabili entrambi di tipo centro-periferia, cioè con attività economica polarizzata.
In questo caso si otterrebbe una figura come quella qui sotto, in cui l’equilibrio
di tipo polarizzato è l’unico possibile.
Figura 8
Un caso che può sembrare paradossale è quando t=0: in questo caso F/tx = ∞
per cui la II risulta coincidere con due semirette verticali in corrispondenza di
Ms=0 e Ms=1. La interpretazione possibile di questo caso (che dimostrerebbe,
strettamente parlando, instabilità estrema) sarebbe di una indifferenza localizzativa: con costi di trasporto nulli si può servire un mercato grande da un altro
piccolo senza aggravi di costo. Piuttosto che instabilità la soluzione va interpre-
99
tata come una diffusione dello sviluppo (anche se lo schema utilizzato, molto
semplificato, non sembra adatto a valorizzare questa ipotesi)
Infine, risulta piuttosto agevole mostrare come nei modelli con equilibri
multipli il processo di cambiamento risulti più complesso che in quelli con
equilibri unici. Abbiamo già indicato due possibili caratteristiche di questi
processi: effetti permanenti di fenomeni temporanei, effetti discontinui di fenomeni continui.
Lo schema utilizzato sotto, nella figura 9, è particolarmente adatto a mettere
in luce queste caratteristiche.
Supponiamo di partire da una situazione di polarizzazione territoriale con
l’attività industriale tutta concentrata al Nord e, inoltre, che per qualche ragione
i costi di trasporto subiscano un progressivo e, alla fine, consistente aumento,
per poi tornare alla situazione di partenza (potrebbe trattarsi di uno “shock petrolifero” prolungato e successivo ridimensionamento).
Ovviamente la variazione dei costi di trasporto modifica il valore di F/tx:
come visto, aumenti di t fanno diminuire il rapporto e viceversa. La curva II si
modifica, identica rimanendo la PP (figura 4.10).
L’aumento di t fa abbassare progressivamente il rapporto F/tx, ma se l’equilibrio del sistema è E0, questo rimane inalterato, cioè all’aumento progressivo
dei costi di trasporto non corrisponde una modifica dell’assetto territoriale della
produzione. Questo però è vero solo finché rimane valida la condizione, già vista, che determina la presenza di equilibri multipli. Supponiamo però che i costi
di trasporto continuino ad aumentare fino a t1, partendo da t0. Nel grafico ciò
determina che si parte da una situazione in cui (1 – π)/2 < F/xt0 mentre si arriva
ad una situazione in cui avviene il contrario: (1 – π)/2 > F/xt1.
In altre parole, il progressivo aumento di t provoca il venir meno della condizione che assicura la presenza di equilibri multipli.
Se traduciamo l’analisi algebrica in parole, ciò vuol dire che l’equilibrio
centro periferia, che caratterizzava la nostra ipotetica economia, rimane inalterato solo fintantoché non viene superata un certa soglia, passata la quale il
sistema cambia radicalmente, visto che l’unica possibilità di equilibrio si identifica in E1, cioè l’economia si ristruttura verso un assetto territoriale di
tipo diffusivo.
100
Figura 9
1
PS
E1
1–
F
t1x
1–
F
t0x
E2
E0
F
t0x
F
t1x
1
MS
Naturalmente il livello “critico” di t che determina il cambiamento è più alto
di t1: infatti esso corrisponde a quel livello che determina l’uguaglianza
(1 − π ) =
2
F
t*x
(4.7)
Finché t è inferiore a t* allora l’economia rimane bloccata nel suo assetto di
tipo centro-periferia; non appena t supera il livello t* ecco che E0 non è più un
punto di equilibrio e l’economia si ristruttura rapidamente verso l’assetto diffusivo identificato da E1. L’aumento progressivo di t non determina inizialmente
nessuna variazione, ma, superata una certa soglia, il cambiamento (verso E1) è
repentino: si tratta di un effetto discontinuo di un fenomeno continuo. Si supponga ora che, una volta che l’economia si è stabilizzata in E1, i costi di trasporto invertano il loro andamento, diminuendo esattamente fino al valore iniziale t0. Questo ritorno al passato, comporta che l’assetto polarizzato prevarrà di
nuovo? La risposta è no. Infatti, benché vengano ripristinate le condizioni per
l’esistenza di equilibri multipli, in questo caso E1 continua a rimanere un equilibrio stabile del sistema; non succede niente, nel sistema economico, che renda
obsoleto l’assetto diffusivo: il ritorno alle condizioni iniziali (stessi valori di F,
t, x) non determina un ritorno al passato anche per quanto riguarda l’assetto territoriale. Il processo diffusivo che si è verificato nell’economia, dovuto ad un
passeggero aumento dei costi di trasporto, costituisce dunque l’effetto perma101
nente di un fenomeno temporaneo (o, con terminologia da matematica del caos,
una “catastrofe”). Come abbiamo detto, queste potenziali caratteristiche riguardano i modelli con equilibri multipli, che nel nostro caso sono determinati dalla
presenza di feedback positivi dovuti alle esternalità positive, a loro volte un
prodotto della interazione tra domanda di beni industriali, costi fissi e costi di
trasporto.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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