Il principio di consensualità nel governo del territorio: le convenzioni urbanistiche.
di MARZIA DE DONNO
SOMMARIO: Premessa - 1. Dalla negoziabilità del potere al regime giuridico del potere negoziato. - 2. Moduli
consensuali nell’urbanistica. - 3. Dall’urbanistica prescrittiva all’urbanistica consensuale: fine di un altro dogma. - 4.
Il moto armonico dell’urbanistica prescrittiva e la teoria delle piccole oscillazioni. - 4.1. L’elezione diretta del sindaco.
- 4.2. La destrutturazione del PRG. - 4.3. La crisi finanziaria dei Comuni. - 5. Gli accordi “a monte” delle prescrizioni
urbanistiche. - 6. Le questioni problematiche: legalità e liceità dell’azione amministrativa. - 7. Possibilità degli accordi
“a monte” nella legislazione regionale di dettaglio. - 7.1 L’art. 18 della L.r. 20 del 2000 dell’Emilia Romagna. - 7.2.
Le altre esperienze regionali: l’art. 6 della L.r. 11 del 2004 del Veneto e l’art. 11 della L.r. 11 del 2005 dell’Umbria 8. Considerazioni conclusive.
Premessa.
Cogliere il principio di consensualità in una sua possibile collocazione nell’agere
amministrativo non è uno sforzo puramente ermeneutico. Non si tratta di sondare i confini degli
strumenti giuridici vigenti nel nostro ordinamento, né di verificare come essi siano in grado di
compenetrarsi ed influenzarsi reciprocamente nella loro concreta applicazione.
Cogliere l’esistenza di moduli consensuali nell’azione amministrativa è, invece, tecnica di studio di
un nuovo modo di essere della Pubblica Amministrazione. Significa parlare dei caratteri propri del
potere amministrativo in un’epoca di profonde trasformazioni di una società, che non ammette più
quelle connotazioni di autoritarietà ed imperatività, su cui quello è stato edificato in passato. Già
vent’anni fa, si sosteneva che «in un mondo dominato dallo scambio, dove anche la reciproca
riconoscibilità dei soggetti politici e privati avviene in ragione di scambio o di contratto, sarebbe
assurdo pensare che l’amministrazione pubblica si debba, al contrario, ritirare in una sorta di esilio
monacale, per custodire gelosamente le icone del potere imperativo, dell’atto unilaterale, e via
dicendo. Queste erano e sono figure simboliche proprie di un linguaggio che si era specializzato per
dare finitezza o completezza, in tutte le sue propaggini, a un potere politico che voleva garantirsi
attraverso una appropriata e speciale giuridicità»1.
Ciò che è interessante verificare, allora, è se il principio di consensualità, specificando e
venendo in ausilio al principio di democraticità, possa davvero attenuare il principio di autorità sul
quale da sempre si regge il potere amministrativo.
Non si può nascondere, del resto, che proprio dalla trasformazione in senso democratico
dell’Amministrazione dipende la trasformazione dello stesso Stato in senso egualmente
democratico. E’ stato rilevato, infatti, che il macroparadigma statuale corrente non è né originale né
originario, ma il frutto di una combinazione di elementi, propri dello Stato di polizia e dello Stato di
diritto. Certamente, l’introduzione del principio democratico ha cominciato la sua opera erosiva
G. BERTI, Il principio contrattuale nell’azione amministrativa, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Vol. II., Milano
Giuffré Editore, 1988, pagg. 49 e segg.
1
1
rispetto a questi ultimi, ma di esso si è fatta una applicazione sostanzialmente limitata alla
rappresentanza politica, sì che esso ancora poco ha potuto controbattere al principio di autorità.
Il problema di fondo è, dunque, un altro. E’ quello della perdurante contrapposizione tra Stato e
individuo, e che si riflette, evidentemente, nella gerarchizzazione del rapporto tra Pubblica
Amministrazione e privato; mentre il vero principio di democraticità si esplica in quella
«compenetrazione del Cittadino nello Stato», che gli permette di trovare posto «con pari dignità e
pari valori» nella «collaborazione e compartecipazione ai destini comuni»2.
Ebbene, ciò è proprio quanto potrebbe realizzarsi attraverso l’incontro consensuale tra Pubblico
e Privato, avente ad oggetto l’esercizio del potere pubblico: il principio di consensualità può
insinuarsi nel principio di autorità, facendo così venir meno le contrapposizioni gerarchizzanti tra
Cittadino e Pubblica Amministrazione. Ecco, allora, che la questione della negoziabilità del potere
pubblico si innesta più propriamente in quel necessitato processo di cambiamento che vede
progredire la P.A. dal suo agire autoritativo verso pratiche di collaborazione, di concertazione e di
consultazione con i cittadini. E quasi si rovescia la prospettiva: non è più la deducibilità
dell’esercizio del potere in un’obbligazione ad essere posta in discussione, ma è lo stesso potere,
rectius, l’esercizio che del potere è stato fatto fino a questo momento, a dover raccogliere le nostre
critiche.
1. Dalla negoziabilità del potere al regime giuridico del potere negoziato.
Per spiegare questa affermazione, occorre tornare al nodo centrale della questione, che resta pur
sempre la ricerca del fondamento giuridico del principio di consensualità nell’azione
amministrativa, ossia della ratio legittimante la deducibilità del potere in moduli consensuali
pubblico-privati.
E’ questo, del resto, un tema che ha accompagnato per più di due secoli la conformazione
classica e tradizionale della P.A., e che a tratti è stato inteso come un vero e proprio paradosso
giuridico3. E’ tuttavia dato constatare, oramai, che l’indisponibilità del potere discrezionale, la non
negoziabilità dell’interesse pubblico sono espressioni diacroniche, frutto di un retaggio culturale
prima ancora che giuridico e segnate dalla scarsa propensione a liberarsi di una certa immagine
dell’amministrazione, dalla esigenza di garantire la purezza della determinazione amministrativa
unilaterale, dalla necessità, ancora, di preservare un nucleo intangibile del potere pubblicistico.
Nella direzione appena tracciata, occorre allora riprendere quelle prime ricostruzioni teoriche
tese a ricercare una negoziabilità del potere, con l’ulteriore avvertenza che proprio queste
forniranno una guida e una traccia per spiegare la consensualità nel governo del territorio, settore
dell’ordinamento che appartiene a scarso titolo ad un sistema democratico4.
F. BENVENUTI, Il ruolo dell’amministrazione nello Stato democratico contemporaneo, in Jus, 1987, pagg. 277 e segg.
Essendo impossibile nel nostro ordinamento «una obbligazione di emanare un provvedimento», M. S. GIANNINI,
L’attività amministrativa, Roma, 1962, pag. 18.
4
In questo settore, infatti, l’Amministrazione esercita un potere autoritativo che non ha pari nell’ordinamento giuridico.
In nessun luogo e per nessuna altra attività, essa dispone di un potere così forte come questo, e tale da segnare, più di
ogni altro, la primazia del soggetto pubblico rispetto alla pluralità degli individui. Lo stesso ruolo del cittadino nel
procedimento amministrativo è qui pressoché pari a zero, o comunque, è fermo a livelli molto più bassi, rispetto a quelli
fissati dal legislatore statale per altri tipi di procedimento. Cfr. A. C ALEGARI, Sul ruolo dei soggetti pubblici e privati
nel procedimento di formazione del p.r.g., in Riv. Giur. Urb., 4, 2005, pag. 281 e segg.; P. PORTALURI, La
partecipazione dei privati al procedimento di formazione del piano, in Atti dell’XI Convegno nazionale
2
3
2
Nell’insieme, queste dottrine riuscirono a dimostrare che era possibile superare le obiezioni5
rivolte in astratto contro il ricorso a strumenti propri del diritto privato nelle aree coperte
tradizionalmente dal provvedimento amministrativo, e che era altresì possibile elaborare criteri
sufficientemente precisi per distinguere tra quest’ultimo, il contratto di diritto pubblico ed il
contratto meramente privatistico dell’Amministrazione.
L’imperium, innanzitutto, è una facoltà accordata all’Amministrazione nei soli casi previsti
dalla legge. Ne deriva che essa non può, in difetto di apposita norma legislativa, procurarsi la
collaborazione dei cittadini se non mediante il loro consenso6.
Già questa osservazione appare di grande rilievo, prefigurando un più che attuale soggetto pubblico,
tenuto a ricercare il consenso dei privati nello svolgere un’attività, che, ancorché relativamente
autonoma dalla guida legislativa, resta pur sempre subordinata al perseguimento di un interesse
pubblico. Ogni qualvolta lo Stato si trova a dover agire per un fine pubblico, ma l’ordinamento non
ha all’uopo predisposto poteri imperativi, la “legge di finalità” cui è sottomesso deve integrarsi –
ma non risolversi – nella “legge di reciprocità” che governa i rapporti economici individuali. Nel
rapporto tra Amministrazione e cittadino residuerà sempre un minimum di pubblicità, che è dato
proprio da quel vincolo di scopo – la “legge di finalità” – che non può venir meno neanche durante
l’esecuzione del rapporto7.
La manifestazione del volere privato può porsi, pertanto, sullo stesso piano della volontà
dell’amministrazione «in modo da stabilire qualcosa di comune» ed originando una «fisionomia
giuridica contrattuale»8, un «rapporto fondamentalmente privato» ma che contiene in sé «un
elemento pubblico così importante da esigere quella speciale tutela che porta seco la natura
pubblica di tutto il rapporto»9.
Il contratto di diritto pubblico è, quindi, figura di carattere generale, che l’Amministrazione
utilizza quando la legge non abbia previsto l’impiego dell’atto amministrativo, manifestazione
formale di autorità. Risulta così anticipata di quasi un secolo la concezione largamente condivisa, e
poi trasfusa nella Legge sul procedimento amministrativo, secondo cui il contratto può costituire, in
taluni casi, un esito del procedimento alternativo al provvedimento amministrativo, mentre il potere
dell’amministrazione, pur rimanendo pubblicistico, non è tuttavia autosufficiente, e si avvicina sì a
schemi negoziali, ma senza, per ciò stesso, degradare in potere contrattuale.
dell’Associazione Italiana di Diritto Urbanistico (AIDU), su “I rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale”,
Verona 10 e 11 ottobre 2008, destinata agli Scritti in ricordo di Franco Pugliese.
5
Sinteticamente: quella secondo cui sarebbe inconcepibile un accordo tra soggetti di natura diversa, come
l’amministrazione ed un privato; quella secondo cui la commistione di elementi pubblicistici con elementi che
appartengono al diritto privato non può aver luogo quando lo Stato agisce curando l’utilità pubblica; l’obiezione, infine,
che solo ricorrendo al concetto di imperium si può giustificare la disposizione di un diritto di natura pubblica, giacché la
via contrattuale non renderebbe l’atto di disposizione efficace di fronte ai terzi. «Ripugna al tradizionale senso comune
giuridico concepire come contrattuali» atti come «le autorizzazioni, le concessioni, le ammissioni in istituti pubblici, la
nomina di impiegati pubblici», sosteneva F. CAMMEO, I monopoli comunali, in. Arch. Giur., 1896, pag. 7. Concependo
l’atto di concessione come «il risultato dell’incontro e dell’unione delle dichiarazioni di volontà del privato come tale e,
dell’amministrazione pubblica come tale, si va incontro alla difficoltà o di dover ammettere l’esistenza di un atto di
natura pubblica e privata insieme…, il che è assurdo, perché la natura dell’atto non può essere che una; o di dover
ammettere l’esistenza di un atto di natura né pubblica né privata ma ibrida…ed a ciò a me pare che non si debba
giungere, finché un’espressa disposizione di legge non ci obblighi ad ammetterlo. E questa disposizione io non l’ho
trovata», O. RANELLETTI, Concetto e natura delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur. It., 1894, IV,
pagg. 7 e segg.
6
G. MIELE, La manifestazione di volontà del privato nel diritto amministrativo, Roma, 1931.
7
A. DE VALLES, voce Concessione di pubblici servizi, in Nuovo Dig. it., 1938. pag. 580 e segg.
8
U. FORTI, Natura giuridica delle concessioni amministrative, in Giur. it., 1900, IV, pag. 396.
9
Ibidem, pag. 418
3
Ribadito che anche mediante l’attività di diritto privato lo Stato cura interessi pubblici,
perseguito l’obiettivo di conciliare il carattere pubblicistico dell’attività con il carattere privatistico
della forma, il dato sostanziale con quello formale10, le successive dottrine avanzano ulteriori
approfondimenti critici, in particolar modo per ciò che concerne l’elemento della causa e la
compatibilità della nozione di autonomia privata con lo statuto dell’azione amministrativa.
Esse si pongono il quesito di «quale posizione specifica l’interesse pubblico occupi rispetto al
negozio intrapreso»11, quale, in altre parole, possa essere la relazione sussistente tra interesse
pubblico e causa del negozio. Alla base di tali prospettazioni, sta la convinzione comune che, in
talune ipotesi, l’interesse pubblico non rimane più nella soggettività dell’amministrazione, ma si
presenta connaturato al negozio stesso, e con esso si compenetra, sì da caratterizzarne, appunto, la
causa12. Mentre, infatti, nei contratti di diritto privato conclusi dalla P.A., la causa è la medesima
dei contratti conclusi tra privati e, l’interesse pubblico costituisce il mero motivo presupposto della
manifestazione di volontà dell’amministrazione; nel contratto di diritto pubblico, «il singolo assume
l’interesse pubblico e gli fa posto nella propria manifestazione di volontà, così come
l’amministrazione, che è la sola competente a valutarlo, lo ha determinato»13. E’ proprio
l’accettazione del modo in cui l’autorità ha determinato l’interesse pubblico, a consentire al singolo
di conseguire l’utilità privata cui aspira. Allo stesso modo, ed in maniera assolutamente reciproca,
la parte pubblica, nel mentre tende alla soddisfazione dello scopo pubblico, deve prefiggersi di
soddisfare anche l’interesse del privato, della cui collaborazione abbisogna.
La presenza dell’interesse pubblico, nel combinarsi delle volontà pubblico-privata non
comporta la negazione della bilateralità dell’atto, ma mantiene ferma, semmai, la possibilità per
l’amministrazione di revocare il proprio atto di adesione negoziale, a fronte di una diversa
valutazione dell’interesse pubblico, mutate le condizioni di fatto. La revocabilità è un elemento
immanente della fattispecie, ed il privato non può che trovarvisi esposto, in una posizione di
immutabile disuguaglianza. Nondimeno, questa è stata una delle argomentazioni a sostegno delle
tesi demolitrici della figura del contratto di diritto pubblico14, ma evidentemente non si può
prescindere dal necessario perseguimento dell’interesse pubblico anche in un contesto consensuale
e negoziale. E’ proprio la clausola rebus sic stantibus a garantire la genuinità dell’istituto.
A. AMORTH, Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, in Arch. Dir. Pubbl., Vol. III,
1938, pagg. 455 e segg. Realmente cruciale nella ricostruzione dell’Autore è il fatto di intendere la manifestazione in
forma contrattuale della volontà dell’amministrazione, in sostituzione di una potestà pubblicistica, comunque quale
diretta estrinsecazione di tale potestà, la cui natura non subisce alterazioni dalla mera sostituzione della forma. L’attività
amministrativa di diritto privato è attività sostanzialmente amministrativa ma formalmente privatistica; è attività
«esplicata dalle Amministrazioni per realizzare le loro determinazioni fondamentali», ma regolata «da norme che
valgono pure, anzi soprattutto valgono per i comuni soggetti giuridici: persone fisiche ed enti privati» (pag. 530); è,
ancora, la «via attraverso la quale il diritto pubblico viene a condurre sotto il suo dominio anche l’attività delle
pubbliche amministrazioni svolte in regime di diritto privato» (pag. 547) e che perciò, se introduce ampiamente il
contratto privatistico nell’agire amministrativo, ancor più ampiamente introduce i caratteri propri dell’agire
amministrativo nel contratto privatistico.
11
G. FALCON, Le convenzioni pubblicistiche, Milano, Giuffré editore, 1984, pag. 94.
12
P. BODDA, Ente pubblico, soggetto privato e atto contrattuale, Pavia, 1937.
13
Ibidem, pag. 96
14
Secondo Guicciardi, per esempio, la tutela dell’interesse pubblico, nella sopravvenienza di nuove circostanze di fatto,
avrebbe cozzato nello specifico con tre principi essenziali della materia contrattuale: «il principio dell’irrilevanza
giuridica dei motivi», «il principio della eguaglianza dei contraenti» ed il «principio secondo il quale il contratto
stipulato dalle parti ha fra di esse valore di legge». Cfr. G. GRECO, Accordi amministrativi tra provvedimento e
contratto, in (a cura di) F.G. SCOCA, F.R. MONACO, G. MORBIDELLI, Sistema del diritto amministrativo italiano,
Giappichelli Editore, Torino, 2003,
10
4
Del resto l’ordinamento amministrativo è uno spazio dominato non dal principio di libertà15,
come è proprio degli spazi che occupa l’autonomia privata, ma dal potere, che, in quanto
movimento, energia giuridica, è caratterizzato da dinamiche necessitanti16. Dominata dall’impulso
interno ed immanente verso la soddisfazione dell’interesse pubblico, che nasce immancabilmente
da una norma o un principio normativo, l’attività amministrativa è, dunque, percepibile come un
agire funzionale perché rivolta al perseguimento di un interesse non dell’Amministrazione stessa
ma del pubblico, che è inizio e termine di tale attività.
Se, quindi, si assume una nozione di autonomia privata quale libera valutazione dei propri interessi
e del modo di soddisfarli, con conseguente esclusione del vincolo di scopo e di ogni forma di
attenzione per gli interessi delle controparti, è molto arduo affermare che la P.A. sia titolare di
poteri in tal senso. L’agere amministrativo, anche quando utilizza strumenti privatistici, resta
comunque attività funzionalizzata, soggetta a regole generali diverse da quelle che disciplinano la
condotta dei soggetti privati17, pur sempre connotata da quell’imparzialità derivante direttamente
dal fine pubblico18.
L’autonomia privata non si presta, del resto, ad essere considerata come «quantità di capacità» di
diritto privato, ma piuttosto come sua «qualità». Ne consegue che «l’affermazione di una capacità
generale di diritto privato dell’amministrazione non impedisce la negazione dell’autonomia
privata»19 in capo ad essa. Viene in tal modo respinta anche la tesi classica, che presuppone
un’amministrazione con le caratteristiche di un comune soggetto privato, cui si somma un
connotato di specialità allorquando le è concesso di agire come autorità20.
In definitiva, non esiste un rapporto di necessaria biunivocità tra carattere unilaterale del potere
dell’amministrazione e struttura unilaterale dell’atto, con la conseguenza che il potere
amministrativo unilaterale può trovare espressione anche in atti bilaterali21. E ciò è vero anche
quando si considera che nell’atto bilaterale, consensuale, convergono poteri per natura e disciplina
diversi, ma coincidenti nel regolamento di interessi (precetto) cui l’atto tende dare vita giuridica 22.
15
«Che si estrinseca non solo nella libera scelta dei fini, ma in un potere autoresponsabile di regolazione di interessi, il
quale, fino a quando non richieda la tutela dell’ordinamento può anche ergersi contro la legge», M.S. G IANNINI, Atto
amministrativo, ad vocem, in Enc. Dir., vol. III, Milano, Giuffré Editore, 1958, pag. 164.
16
Secondo l’insegnamento di F. Benvenuti, il potere si colloca nel momento di passaggio tra la norma e la sua
attuazione. F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento e processo, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1952, pagg.
118 e segg. ad vocem, in Enc. Dir.
17
E’ chiaro che la legge può creare spazi di vera o apparente autonomia privata: è il caso della gestione dell’impiego
pubblico privatizzato, ove si stabilisce che l’Amministrazione esercita i poteri del privato datore di lavoro. Ma resta pur
sempre necessaria una precisa disposizione di legge; ove manchi, lo statuto della attività amministrativa rimane intatto.
F.G. SCOCA, Autorità e consenso, in Dir. Amm. 3, 2002, pag. 438.
18
U. ALLEGRETTI, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965.
19
C. MARZUOLI, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982, pag.
142.
20
Così la intendeva M.S. Giannini, per il quale l’ente pubblico ha «autonomia privata sol perché è persona giuridica (in
quanto le norme sulla plurisoggettività non distinguono tra soggetti persone fisiche e soggetti persone giuridiche)». Va
precisato che il Maestro assume l’autonomia privata secondo una concezione che ne marginalizza il carattere di libertà,
e cioè come «potere di autoformazione per la regolazione dei propri interessi», con l’ulteriore precisazione che essi
sono «propri» soli in senso traslato, poiché gli interessi dell’amministrazione sono sempre comunitari. M.S. G IANNINI,
Attività amministrativa, in Enc. Dir., vol. III, Milano, 1958, pagg. 988 e segg.
21
«Allora non può dirsi che pregiudizialmente e solo per tale ragione sia da escludere che poteri amministrativi
risultino espressi da atti bilaterali». G. F ALCON, Le convenzioni, op. cit. pag. 238.
22
«Che cosa impedisce che volontà diverse nelle regole di formazione e nel regime giuridico, ma coincidenti nel
contenuto, in quanto manifestanti entrambe un consenso in relazione ad una disciplina concordata di determinati
comportamenti, diano vita insieme alle conseguenze giuridiche corrispondenti? Costituisce ciò una ragione per
escludere che le due diverse volontà, mantenendo la propria diversità, egualmente convergano nella formazione di un
rapporto pattizio?» Ibidem, pag. 243.
5
E’, anzi, proprio l’identità del contenuto precettivo a rendere possibile che il consenso sia reso
nell’esercizio di poteri diversi, il potere amministrativo della parte pubblica e l’autonomia privata
della controparte. Nulla osta alla fusione o alla convergenza di essi.
«Solo il giurista attraverso i suoi “occhiali” deformati…riesce a vedere l’esercizio del potere
pubblico come attività non dipendente da influenze esterne e soprattutto non “negoziabile”»23,
mentre «se c’è qualcosa che, per natura sua, è elastico e trasformabile in relazione alle circostanze
concrete, è invece proprio il potere»24. Perciò «gli accordi intorno all’esercizio del potere sono
possibili e validi dal punto di vista del diritto pubblico» con la sola precisazione che «ogni obbligo
il quale comporti un vincolo del potere è assunto sempre rebus sic stantibus»25. Per il resto occorre
superare l’astrazione, l’ideologia di un interesse pubblico nettamente scisso da quello privato: per
poter spiegare la negoziazione del potere amministrativo, deve piuttosto guardarsi all’interesse in
concreto, ove «l’interesse privato è elemento essenziale di determinazione dell’interesse pubblico e
viceversa»26.
2. Moduli consensuali nell’urbanistica.
Erano stati posti, in tal modo, i presupposti necessari per l’intervento legislativo di riforma del
1990: il potere unilaterale può essere esercitato anche con atti bilaterali; negli atti consensuali
l’amministrazione decide secondo le regole della discrezionalità; non c’è alcun ostacolo a che il
potere amministrativo si incontri, in un atto consensuale, con l’autonomia privata della controparte.
La legge 7 agosto 1990, n. 241 sembra dare corpo di diritto positivo ai risultati
dell’elaborazione dottrinale. Le tematiche dibattute, e fin qui riferite sinteticamente, trovano infatti
un referente normativo di carattere generale nell’art. 11, che permette alla P.A. di concludere, in
accoglimento di osservazioni e proposte presentate nel corso del procedimento, accordi con i privati
al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, ovvero in sostituzione di
esso, senza pregiudizio per i diritti dei terzi ed in ogni caso nel perseguimento dell’interesse
pubblico. L’ordinamento, finalmente, conosce quella “norma-base”, la cui assenza rappresentava
l’essenza stessa delle tesi negazioniste del contratto di diritto pubblico27. L’atto autoritativo non è
più il solo strumento della cura di interessi pubblici: «essenziale è il fine pubblico, fungibili sono gli
strumenti attraverso cui perseguirlo»28.
23
M. NIGRO, Convenzioni urbanistiche e rapporti tra privati. Problemi generali in Convenzioni urbanistiche e tutela
nei rapporti tra privati (a cura di M. COSTANTINO), Milano 1978, pag. 45.
24
Ivi.
25
Ivi.
26
E qui l’Autore sembra riprendere in qualche misura lo spunto proposto da F. P UGLIESE, in Il procedimento
amministrativo tra autorità e contrattazione, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1971, pagg. 1469 e segg., secondo il quale i
moduli negoziali impiantati su procedimenti-attività di diritto amministrativo servono ad «offrire al privato un modello
di comportamento, o di azione, o di gestione che, assieme alla soddisfazione di un interesse privato, assicura la
soddisfazione di interessi pubblici» (pag. 1486): di modo che l’amministrazione stessa ha «interesse a che l’interesse
del privato venga soddisfatto, purché ciò avvenga secondo un certo schema di condotta che non pregiudichi la
realizzazione di altri interessi pubblici o privati» (pag. 1490). Ci sembra dovuto notare come in queste parole
riecheggino le prime intuizioni del Bodda: «appagare un bisogno pubblico mediante la soddisfazione di un interesse
privato».
27
Si riteneva che mancasse nell’ordinamento un principio generale che attribuisse «efficacia vincolante al regolamento
pattizio dei rapporto tra enti pubblici autoritativi e soggetti di diritto privato», F. LEDDA, Il problema del contratto nel
diritto amministrativo, Torino, 1965, pag. 101.
28
Cons. St., Sez. VI, 15 maggio 2002, n. 2636.
6
E’ nell’art. 11, soprattutto dopo la generalizzazione dell’accordo sostitutivo29, che vanno
individuate le regole che governano la surrogabilità del provvedimento con il contratto
nell’esercizio del potere. Dal punto di vista ermeneutico, quindi, la questione andava riformulata:
non si trattava più di ricercare l’ammissibilità teorica della negoziazione del potere amministrativo,
ma di ragionare sui problemi di regime che questa negoziabilità creava30.
L’art. 11, dunque, ha definitivamente conferito legittimazione, fondamento legislativo e portata
generale alla figura degli accordi amministrativi, prima di esso, disciplinata solo da scarne
normative di settore ed in relazione a singole fattispecie31. In altri termini, la norma ha offerto una
regolamentazione generale delle manifestazioni di consensualità aventi ad oggetto l’esercizio del
potere amministrativo; ha legittimato di per sé l’utilizzo dei moduli convenzionali senza che
all’uopo debba di volta in volta soccorrere l’esistenza di una specifica disciplina di settore; ha
ricondotto ad unità le fattispecie di accordo autonomamente previste dal legislatore, garantendo agli
amministrati quel livello minimo di tutela che la L. n. 241 del 1990 assicura comunque nei
confronti del procedimento amministrativo.
L’art. 11 esercita, dunque, la sua vis attractiva anche rispetto a moduli convenzionali previsti
oggi in svariate norme di legge, e che tradizionalmente si raggruppano nella categoria generale
delle convenzioni urbanistiche, il cui prototipo è sicuramente rappresentato dalla c.d. convenzione
di lottizzazione, di cui all'art. 28, L. n. 1150 del 194232.
Per effetto dell’intervento di modifica di cui all’art. 7 della l. 11 febbraio 2005, n. 15.
Il rilancio, sul piano positivo, del modulo consensuale ha costituito, infatti, rinnovata occasione di dibattito intorno al
tradizionale problema della natura giuridica degli accordi fra amministrazione e privati, quale portato del più ampio
tema – che già in parte si è cercato di delineare – dell’ammissibilità di schemi bilaterali fondati sul reciproco consenso,
in luogo dei classici schemi unilaterali di esercizio del potere amministrativo. Nondimeno, questo dibattito di primo
acchito potrebbe sembrare sterile, quasi ozioso, se si considera che nel corso degli anni la figura in discorso ha ricevuto
da parte della dottrina un'attenzione del tutto spropositata rispetto alle applicazioni concrete che si riscontrano nella
prassi delle pubbliche amministrazioni, le quali si richiamano, peraltro, non tanto alla disposizione in parola, quanto più
a previsioni particolari, vigenti già prima dell'entrata in vigore della legge sul procedimento. Così rileva G. M ANFREDI,
La nuova disciplina degli accordi tra amministrazione e privati e le privatizzazioni dell’azione amministrativa, in Foro
amm. CDS, Vol. I, 2007, pag. 1. Ma la soluzione del problema, lungi dal costituire una questione squisitamente
dogmatica e concettuale, si riverbera sul regime giuridico degli accordi, condizionando l’identificazione della disciplina
concretamente applicabile e l’interpretazione delle singole norme di legge che di volta in volta vengono in rilievo, sì da
porsi come il vero ago della bilancia tra una disciplina prevalentemente pubblicistica, qualora si intenda accedere alla
teoria del contratto di diritto pubblico, o una, invece, di stampo privatistico, laddove, viceversa, si accolga la figura del
contratto ad oggetto pubblico. Sul punto si veda, in dottrina, F. C ARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma,
Dike giuridica, 2010; V. CERULLI IRELLI, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2010; S.
CIVITARESE MATTEUCCI, Contributo allo studio del principio contrattuale nell’attività amministrativa, Torino,
Giappichelli, 1997; M. DUGATO, Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti, Milano,
Giuffré Editore, 1996; F. FRACCHIA, L’accordo sostitutivo. Studio sul consenso disciplinato dal diritto amministrativo
in funzione sostitutiva rispetto agli strumenti unilaterali di esercizio del potere, Padova, CEDAM, 1998; P. GRAUSO,
Gli accordi della P.A. con i privati, Milano, Giuffré Editore, 2007; G. GRECO, Accordi amministrativi tra
provvedimento e contratto, in F.G. SCOCA, F.G. MONACO, F.R. MORBIDELLI, (a cura di) Sistema del diritto
amministrativo italiano, Torino, Giappichelli, 2003; V. MENGOLI, Gli accordi amministrativi fra privati e pubbliche
amministrazioni, Milano, Giuffré Editore, 2003; G. SCIULLO, Profili degli accordi fra amministrazioni pubbliche e
privati, in Dir. Amm., n. 4/2007; F.G. SCOCA, Diritto Amministrativo, Torino, Giappichelli, 2008. Significative sono
anche le pronunce: C.Cost., 6 luglio 2004, n. 204; Cass., SS. UU., 24 giugno 1992, n. 7773; Cass., Sez. I, 15 aprile
1992, n. 4572; Cons. St., Ad. Gen., 19 febbario 1987, n.7; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 28 aprile 1997, n. 35; Cons.
St., Sez. VI, 20 gennaio 2000, n. 264; Cons. St., Sez. V, 13 marzo 2000, n. 1327; Cass., SS.UU., 13 novembre 2000, n.
1174; Cons. St., Sez. VI, 15 maggio 2002, n. 2636; Cons. St., Sez. V, 10 gennaio 2003, n. 33.
31
Si pensi all’accordo alternativo al provvedimento ablatorio di cui all’art. 26 della legge 26 giugno 1865, n.2359 e
all’art. 12, legge 22 ottobre 1971, n. 865, poi trasfuso nel T.U. 327/2001.
32
Non a caso è stato affermato in giurisprudenza che «alle convenzioni urbanistiche, quando manchi una compiuta
disciplina della singola figura negoziale – deve ritenersi applicabile in via analogica ed in quanto compatibile la
disciplina dei piani di lottizzazione di cui all’art. 28 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, come sostituito
29
30
7
Si tratta di un coacervo non sempre omogeneo di moduli operativi negoziali, ma che trova la sua
essenza nella stretta finalizzazione all’esercizio della funzione pubblica di governo del territorio e
di disciplina dell’attività edilizia, e la cui consistenza effettiva sta nell’esecuzione da parte del
privato delle opere di urbanizzazione, in tutto o in parte, con possibilità di scomputare i costi degli
oneri dovuti al Comune33. Può anche dirsi, infatti, che le convenzioni urbanistiche si atteggiano,
sotto il profilo causale, in uno scambio tra beni immateriali, sotto forma di diritti edificatori di cui
l’amministrazione dispone, in base ad un potere attribuitole dall’ordinamento, e prestazioni d’opera
da parte del privato34.
Il principio di negoziabilità del potere discrezionale della P.A. e, ove possibile, il rifiuto del
potere autoritativo trovano proprio nella materia del governo del territorio la loro più frequente
applicazione, con la conseguenza che anche il potere di conformazione dei suoli e della proprietà,
nocciolo duro del potere pubblico, è esercitato mediante l’incontro della volontà pubblica e di
quella privata, ove tale incontro risponda ad un interesse pubblico generale35. Dalle più antiche
convenzioni di lottizzazione alle convenzioni nell’edilizia residenziale pubblica, dalle convenzioni
edilizie alle convenzioni di recupero, e fino ancora agli strumenti della programmazione negoziata e
della pianificazione urbanistica consensuale, tutti vanno verso un’unica direzione, verso, cioè, la
recessione dell’attività di piano intesa come attività autoritativa, ed a favore di una nuova
concezione del potere, che privilegia decisamente il consenso e la ricerca dell’accordo con il
privato.
Non è un caso, quindi, che proprio nel settore dell’ordinamento in cui maggiormente l’azione
pubblica entra in contatto con le posizioni soggettive dei privati, spesso sacrificandole al superiore
interesse pubblico, gli accordi amministrativi abbiano trovato il loro campo di elezione.
Il largo uso che se ne è fatto, e che se ne fa tuttora, ha comportato un radicale cambiamento di
prospettiva. L’interesse pubblico viene individuato attraverso un processo graduale con il soggetto
privato, attraverso momenti di contraddittorio, partecipazione, nonché di vera e propria
contrattazione delle scelte pubbliche. Gli interessi privati vengono modulati, adattati, si specificano
in concrete modalità e indirizzano l’interesse pubblico, in un processo graduale e caratterizzato da
una dialettica se non paritaria nella sostanza, almeno sempre più paritetica nella forma.
In tal modo il potere pianificatorio, né svilito, né tantomeno sostituito dall'autonomia privata,
conosce semplicemente nuove modalità di esercizio, che si distinguono dallo schema autoritativo
classico, in virtù di una sensibile e volontaria contrazione degli spazi di discrezionalità da parte
per effetto dell’art. 8 della legge 6 agosto 1967, n. 765, trattandosi di disposizioni che regolano casi simili o matrici
analoghe». Così Cons. St. Sez. IV, 30 maggio 2002, n. 3016.
33
T. GALLETTO, Convenzioni urbanistiche, in Dig. Disc. Priv., sezione civile (ad vocem), Torino, 1989, vol. IV, pag.
359 e segg.; V. MAZZARELLI, Convenzioni e accordi amministrativi: convenzioni urbanistiche, in Enc. Giur., 1988, vol.
V, pag 9.
34
S. CIVITARESE MATTEUCCI, Sul fondamento giuridico degli accordi in materia di fissazione delle prescrizioni
urbanistiche, in Presente e futuro della pianificazione urbanistica, Atti del secondo Convegno Nazionale AIDU, (a cura
di) F. PUGLIESE e E. FERRARI, Milano, Giuffrè Editore, 1999, pagg. 163 e segg. Contra G. MENGOLI, Diritto
urbanistico, op. cit., pag. 691, secondo cui «In materia di urbanistica il Comune e la P.A. in genere sono sempre in
posizione di supremazia, sicché sarebbe nullo ogni atto di disposizione del loro potere, mentre d’altro canto il Comune
non è titolare del diritto di edificare, per cui non può disporne e tanto meno vederlo con atti di carattere privatistico a
contenuto sinallagmatico. Sicché le convenzioni urbanistiche hanno in sostanza lo scopo di codificare gli obblighi che il
privato si assume unilateralmente in adempimento ad un precetto di legge».
35
T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 20 novembre 2001, n. 679. Cfr. anche Cass., SS. UU., 11 agosto 1997, n. 7452; Cass.,
SS.UU, 15 dicembre 2000, n. 1262; Cons. St., Sez. IV, 3 novembre 1999, n. 1657; Cons. Stato, Sez. V, 10 maggio 2005
n. 2337, nonché Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2005 n. 222; T.A.R. Toscana Firenze, Sez. I, 16 settembre 2009, n.
1446.
8
della Pubblica Amministrazione36. Consensualità nell’attività di piano non significa, dunque,
rinuncia tout court all'esercizio del potere pubblico tipico. Ciò che è oggetto di negozio, ciò che si
può contrattare, non è l’an, bensì il quid, o il quomodo dell'azione amministrativa.
L'amministrazione, con la convenzione urbanistica, non si obbliga ad esercitare il potere
autorizzatorio connesso con il titolo abilitativo edilizio, ma si vincola, nel caso in cui decida
discrezionalmente di rilasciare il titolo, ad attribuirgli il contenuto “programmato”, in sede
convenzionale, con il privato37.
Se, dunque, il potere può essere dedotto in obbligazione, divenendo l'oggetto di una prestazione,
se ne può definitivamente concepire l’ingresso in una fattispecie negoziale che, secondo taluni, può
definirsi “contratto ad oggetto pubblico” o che, secondo altri è preferibile qualificare come
“contratto di diritto pubblico”. Il risultato finale è il medesimo, ossia la riconduzione di tale negozio
alla disciplina dell'art. 11, L. n. 241 del 199038.
Acclarata la natura giuridica di accordi amministrativi delle convenzioni urbanistiche, si è
affermata nella dottrina la tendenza a distinguere tra due distinte categorie, una, ormai,
tradizionalmente presente nel nostro ordinamento, e l’altra frutto delle innovazioni dei tempi e delle
tendenze avanguardiste del legislatore regionale. Pur appartenendo entrambe alla pianificazione per
accordi39, sono fattispecie tra loro divise da un radicale tratto di specialità, in senso tecnicogiuridico: non solo hanno contenuti ed effetti diversi, ma si collocano anche in fasi diverse del
procedimento di pianificazione urbanistica. La prima categoria di accordi si pone in ordine agli
strumenti di pianificazione attuativa, la seconda agli strumenti di pianificazione generale.
La distinzione è stata efficacemente resa con la locuzione, rispettivamente, di accordi “a valle”
e di accordi “a monte” delle prescrizioni urbanistiche40.
36
S. CIVITARESE MATTEUCCI, Contributo allo studio del principio contrattuale nell'attività amministrativa, op. cit.,
pag. 173, secondo cui le convenzioni urbanistiche sono «atti di autolimite del potere discrezionale della P.A., che
vincolano la stessa al rispetto di una certa disciplina con rilevanza obiettiva in relazione ai successivi comportamenti».
In giurisprudenza, Cass., Sez. Un., 11 agosto 1997 n. 7452.
37
M. SOLLINI, Spunti di riflessione in punto all’adempimento di obblighi nascenti da convenzioni urbanistiche, in Riv.
giur. Ed., 2, 2007, pagg. 753 e segg. Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15 maggio 2002 n. 2636, ove si precisa che l'accordo
«può essere concluso al fine di determinare il contenuto del provvedimento finale...non quindi il provvedimento
discrezionale finale, ma il suo contenuto...e può essere stipulato se fornisce ad entrambe le parti una utilità maggiore di
quella della mera adozione del provvedimento finale".
38
E’ opportuno chiarire che la valutazione dell'essenza giuridica delle convenzioni urbanistiche è tema che divide
amministrativisti e civilisti. Questi ultimi, infatti, fondano le loro costruzioni teoriche sulla decisa negazione del
carattere sinallagmatico delle medesime, in quanto l'esercizio del potere pubblicistico di pianificazione è indisponibile
e quindi non negoziabile. Pertanto le convenzioni in parola sarebbero veri e propri contratti di diritto comune,
“accessivi” ad un atto amministrativo generale, come è proprio nel caso delle convenzioni di lottizzazione rispetto al
piano di lottizzazione. Sul punto si veda, in dottrina, M. SOLLINI, Spunti di riflessione in punto all’adempimento di
obblighi nascenti da convenzioni urbanistiche, in Riv. giur. Ed., 2, 2007, pagg. 753 e segg.; R. FERRARA, Intese,
convenzioni e accordi amministrativi, in Dig. Disc. Pubb. (ad vocem), Torino, 1993, IV ed., Vol. VIII, pag. 550; A.
CANDIAN, G. GAMBARO, Le convenzioni urbanistiche, Giuffrè, Milano, 1992, pag. 137 e segg.; Cfr. L. BARBIERI,
Sopravvenuta inefficacia di piani di lottizzazione convenzionati e responsabilità dei comuni, in Riv. dir. civ., 2001, pag.
395 e segg.
39
In proposito vanno segnalati soprattutto i contributi di P. U RBANI, Dell’urbanistica consensuale, in Riv. Giur. Urb.,
1-2, 2005; P. URBANI, L’urbanistica consensuale, la disciplina degli usi del territorio tra liberalizzazione,
programmazione negoziata e tutele differenziate, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; P. U RBANI, Pianificare per
accordi, in Riv. Giur. Ed., 4, 2005; P. URBANI, Urbanistica consensuale, “pregiudizio” del giudice penale e
trasparenza dell’azione amministrativa, in Riv. Giur. Ed, 2, 2009; P. URBANI – S. CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto
urbanistico, organizzazione e rapporti, Torino, Giappichelli, 2004; Presente e futuro della pianificazione urbanistica,
Atti del secondo Convegno Nazionale AIDU, (a cura di) F. PUGLIESE e E. FERRARI, Milano, Giuffré Editore, 1999.
40
P. URBANI, Pianificare per accordi, op. cit., pag. 178.
9
L’ipotesi nuova e più problematica è evidentemente la seconda. Gli accordi “a monte”, infatti,
collocandosi nel livello della pianificazione generale, incidono sulle dinamiche che involgono la
definizione delle scelte politiche relative all’uso del territorio, inteso nella prospettiva dell’interesse
generale e della tutela del bene collettivo. Sono innegabilmente evidenti, quindi, le esigenze
costituzionalmente sensibili coinvolte dalla fattispecie: il principio di uguaglianza, la tutela del
paesaggio, la tutela della proprietà privata e, non per ultimo, i principi di buon andamento e di
imparzialità della P.A. Del resto, si pongono anche ostacoli di carattere interpretativo circa la loro
stessa ammissibilità, e ravvisabili indicativamente nell’art. 13 della L. 241/1990.
Nonostante, quindi, il quadro si presenti così complesso, non si registra, ad oggi, un intervento da
parte del legislatore statale volto a disciplinare e razionalizzare la fattispecie. Gli accordi “a monte”
restano, così, un fenomeno sostanzialmente legato alla prassi delle amministrazioni comunali,
essendo poche anche le Regioni ad aver legiferato in materia.
Nulla quaestio, invece, nei casi in cui l’accordo è “a valle” delle prescrizioni urbanistiche. Si
tratta delle diffusissime convenzioni urbanistiche già previste e disciplinate nell’ordinamento, e che
trovano la loro ratio e funzione, notoriamente, nella formalizzazione degli obblighi del soggetto
attuatore nei confronti del Comune, per quanto concerne le opere di urbanizzazione, le relative
cessioni, le tipologie costruttive e le sanzioni convenzionali. Il contenuto dell’eventuale accordo è,
quindi, limitato essenzialmente alla specificazione degli elementi tipologici e quali-quantitativi,
lasciati indeterminati dal piano regolatore. In questi casi, pertanto, «non si mette in discussione la
cura dell’interesse pubblico, negoziando l’esercizio del potere discrezionale della P.A., poiché le
scelte sono state già prese dall’amministrazione attraverso la fissazione unilaterale delle
prescrizioni urbanistiche: il contenuto dell’accordo se c’è, è già predeterminato dal piano»41.
3. Dall’urbanistica prescrittiva all’urbanistica consensuale: fine di un altro dogma.
Le uniche convenzioni urbanistiche previste nella legislazione statale sono, dunque, quelle che è
invalso individuare col termine di accordi “a valle”.
Il legislatore ha accentuato nel corso degli anni significativamente il favor per la collaborazione
pubblico-privato nella materia urbanistica, ma riserva alla consensualità sempre e soltanto il livello
attuativo delle scelte di piano, non discostandosi in alcun modo dalla concezione tradizionale delle
potestà pianificatorie, e per un certo verso, anche dalla preservazione delle medesime 42. Per questi,
dunque, la modalità tradizionale di esercizio della funzione urbanistica di carattere generale rimane
l’unica possibile. Certamente, ma è profilo differente, è stato ampliato l’ambito applicativo e la
portata decisionale degli strumenti convenzionali vigenti, ma questa circostanza non è di per sé
sufficiente a trarre, sul piano del diritto positivo, conclusioni diverse.
Se, quindi, le motivazioni che inducono ad un allargamento della sfera dell’urbanistica
consensuale appaiono ampiamente condivise sia negli enti locali che tra gli operatori del settore, il
problema del rapporto pubblico-privato nella pianificazione urbanistica non sembra, invece, possa
trovare riscontri in una disciplina legislativa.
L’urbanistica consensuale, ovvero, la pianificazione territoriale negoziata, pur costituendo un
rilevante fenomeno dei nostri giorni, si mantiene, così, al di fuori di un preciso riferimento
41
42
P. URBANI, Pianificare per accordi, op. cit., pag. 178.
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, in Riv. Giur. Urb, 4, 2008, pag. 470 e segg.
10
normativo e sistematico. E’ stata la prassi amministrativa ad aver escogitato sempre più aggiornate
forme convenzionali, in cui pubblico e privato convergono nella gestione del territorio43.
Ciò a riprova del fatto che sono spesso la realtà e la pragmaticità delle cose, la “sensata
esperienza” ed il “cimento” le uniche a poter superare l’irrazionalità dei dogmi. “Eppur si muove”
ha, infatti, esclamato di nuovo qualcuno44.
E’, quindi, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che si è assistito alla
diffusione di moduli consensuali nella pianificazione urbanistica generale. Dapprima per casi
limitati, poi in modo sempre più diffuso, le amministrazioni comunali hanno redatto i piani
urbanistici contrattando le scelte con i proprietari privati, in modo da ottenere gratuitamente la
cessione di aree per la realizzazione di infrastrutture pubbliche, in cambio di volumetria nelle
restanti aree. Inizia così la stagione dell’urbanistica contrattata, dell’urbanistica concertata, della
cosiddetta privatizzazione dell’urbanistica.
Queste nuove tendenze si rafforzano notevolmente negli anni Novanta45, e poi a partire dal nuovo
millennio. La recessione dell’attività di piano intesa come attività autoritativa, a favore di una
nuova concezione che privilegia decisamente il consenso e la ricerca dell’accordo con il privato, è
ormai inevitabile, tant’è che si parla comunemente di “urbanistica consensuale”, espressione che
sembra turbare meno di quella di “urbanistica contrattata”.
Tutto ciò implica la necessaria presa d'atto che nel nostro ordinamento si sta compiendo il
progressivo declino del modello di azione amministrativa, fondato sulla pressoché esclusiva
configurazione dei rapporti tra P.A. e privato in termini di supremazia-subordinazione.
L’urbanistica consensuale è la manifestazione più lampante della trasformazione in senso
democratico e moderno della P.A. La diffusa tendenza a ricercare un punto di convergenza tra
interessi pubblici e interessi privati, coinvolti nella pianificazione territoriale, permette, infatti,
anche l’assunzione di scelte di più ampio respiro, non limitate alla sola disciplina dell’uso del
territorio, ma estese, significativamente, alla promozione degli effetti socio-economici, indotti dalla
pianificazione stessa. Con l’urbanistica consensuale, in altri termini, «l’amministrazione va oltre
l’urbanistica, perché interpreta al meglio il proprio ruolo di ente esponenziale, a competenza
generale preposto alla cura degli interessi di tutta la collettività»46.
Un esempio può chiarire il concetto: riqualificare un ambito urbano destinato ad attività produttive
e industriali (zona D) ormai degradate, obsolete e dismesse, e contrassegnato dalla presenza di
edifici fatiscenti e inutilizzati, e sostituirli con spazi verdi, luoghi di aggregazione sociale, edifici
Non manca, peraltro, chi ritiene che l’urbanistica consensuale abbia trovato riconoscimento giuridico in tempi non
sospetti, e di certo non troppo recenti, già a partire dalle note sentenze della Corte Costituzionale 55 e 56 del 1968, le
quali, in buona sostanza, affermano che mentre l’apposizione di vincoli paesaggistici costituisce un mero
riconoscimento della qualità intrinseca all’immobile (sentenza n. 56/1968). Invece le qualità edificatorie dei terreni non
sono di norma ad essi estrinseche, ma sono attribuite dai piani urbanistici in forza di una valutazione di interessi
generali su larga scala che possono anche prescindere dalla qualità dei terreni singolarmente considerati, risultando così
l’attribuzione di edificabilità discrezionale e costitutiva. Da ciò deriva il fatto che la partecipazione dei privati può
consistere non solo nella collaborazione intellettuale alla formazione degli strumenti urbanistici conseguente al
riconosciuto principio di partecipazione, ma anche nelle proposte di modifica del disegno originario, in quanto
corredate da particolari prestazioni da parte del privato. Cfr. G. M ENGOLI, Diritto Urbanistico, Milano, Giuffrè Editore,
2009, pag. 147.
44
P. URBANI, L’urbanistica consensuale, op. cit., pag. 56.
45
Determinante è stata la legge 7 agosto 1990, n. 241, che, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, con il suo
articolo 11 rende finalmente vincolanti quegli accordi tra P.A. e privato, che per l’innanzi erano stati descritti – secondo
la plastica immagine di M.S. Giannini – come meri accordi ufficiosi stilati intorno ad un tavolo dai funzionari
amministrativi e dal singolo cittadino.
46
P.URBANI, L’urbanistica consensuale, op. cit., pag. 76.
43
11
residenziali e a contenuto plurifunzionale (zona C e/o F)47, significa mettere in moto una dinamica
che inciderà sull’occupazione e sul tessuto sociale dell’ambito stesso; in una parola, tale intervento
ridisegnerà i profili della geografia antropica dell’ambito urbano interessato.
Ma tutto ciò non può essere più lasciato a quella dicotomia dei momenti, propria della
pianificazione tradizionale. In altre parole, la trasformazione urbana non può più essere prima
oggetto di un procedimento di variante dello strumento urbanistico, di competenza dell’ente locale,
con l’intervento del privato, finalizzato alla realizzazione di opere di urbanizzazione e di migliorie
nella dotazione dei servizi, collocato in un momento successivo, e, per di più, lasciato alla sua
libera e spontanea iniziativa. Il coinvolgimento del privato, invece, deve essere immediato e
contestuale, già nel momento stesso della programmazione generale, secondo quanto richiede
l’urbanistica consensuale, sì che l’intervento, oggetto dell’accordo, risulti ab initio già vincolante
per l’operatore, nel quando, nel quantum e nel quomodo.
Del resto, l’interesse ad un miglior assetto del territorio, allo stato attuale, va per necessità
coniugato con l’esigenza di soddisfare la domanda di opere di urbanizzazione, che le
amministrazioni locali non sono in grado di finanziare totalmente con capitale pubblico. L’accordo
pubblico-privato risponde anche a questo fine. L’intreccio che si realizza tra prescrizioni
urbanistiche e proposta del privato, confluisce, dunque, in un unico procedimento, e ciò, non solo al
fine dell’accelerazione del risultato, ma soprattutto perché la determinazione del dare e dell’avere
non ammette più alcuno hiatus, essendo necessaria la simultaneità della decisione e della sua
attuazione.
Con il che, non si può però sostenere che l’amministrazione «abdichi al proprio potere
autoritativo di determinazione unilaterale degli assetti e delle trasformazioni»48, piuttosto, l’idea di
fondo è che essa si renda disponibile a negoziare l’esercizio delle proprie potestà, per assicurarsi il
raggiungimento degli obiettivi prefissati in sede politica, con maggiore adeguatezza, effettività,
efficienza, efficacia ed economicità49. In buona sostanza, l’urbanistica consensuale è una tecnica
pianificatoria, che ha il proprio fulcro concettuale e la propria giustificazione di fondo nel
collegamento sempre più stretto tra l’azione dei pubblici poteri e l’intervento dei privati. La
consensualità, riferita alla disciplina urbanistica, richiama un diverso modo di determinare le scelte
urbanistiche strategiche per la tutela e lo sviluppo del tessuto urbano e periurbano.
Il dogma “la funzione urbanistica non si contratta” va, ormai, davvero rigettato.
4. Il moto armonico dell’urbanistica prescrittiva e la teoria delle piccole oscillazioni.
Il consenso, dunque, si è imposto sull’autorità che informa l’agire per provvedimenti unilaterali
nel governo del territorio. Ma è bene ribadirlo, «se cambia il volto del potere, cambia anche il volto
del privato: se pure il potere perde questa radicale caratteristica di indisponibilità per realizzare un
contemperamento di interessi, il privato comincia ad esercitare una funzione pubblica, ancorché
svolga un’attività imprenditoriale, che sembra a noi ancora privata»50.
47
D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 2.
P. URBANI, L’urbanistica consensuale, la disciplina degli usi del territorio, op. cit., pag. 75.
49
F. PUGLIESE, Risorse finanziarie, contestualità ed accordi nella pianificazione urbanistica, in Presente e futuro della
pianificazione urbanistica, Atti del secondo Convegno Nazionale AIDU, (a cura di) F. P UGLIESE e E. FERRARI, Milano,
Giuffré Editore, 1999, pag. 73.
50
F. PUGLIESE, Risorse finanziarie, contestualità ed accordi nella pianificazione urbanistica, op. cit., pag 72.
48
12
Ad ogni modo, è possibile credere che il graduale passaggio da un’urbanistica prescrittiva ad
una per accordi, sia da ascrivere oltre che al progressivo imporsi del principio di consensualità
nell’agire amministrativo, anche a fenomeni successivi e per un certo verso concatenati, come
l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci, la destrutturazione del PRG, la difficile congiuntura
economica attraversata dai Comuni.
In fisica il moto armonico semplice è il moto di un corpo non forzato né smorzato da forze esterne.
Tale moto è periodico, si ripete ad intervalli regolari in maniera identica. La teoria delle piccole
oscillazioni dimostra, però, che il moto in posizione di equilibrio, nell’approssimazione di piccole
oscillazioni, si altera in un numero n di moti oscillatori indipendenti l’uno dall’altro, corrispondenti
a tutte le frequenze possibili.
I fatti insegnano che le leggi della fisica non si discostano poi così tanto da quelle dinamiche,
prettamente umane, tipiche del diritto. Ed infatti, la pratica urbanistica, che si è sviluppata sulla
base degli indirizzi generali contenuti nella Legge fondamentale, n. 1150/1942, è stata negli ultimi
tempi proprio al centro di spinte contrapposte e contraddittorie, che hanno messo in crisi il suo
ultradecennale equilibrio. L’urbanistica prescrittiva ha visto, così, il suo “moto” alterato proprio da
quelle “piccole oscillazioni”, che lo hanno indirizzato verso la frequenza dell’urbanistica
consensuale. Il bilancio sulla crisi dell’attività di pianificazione in senso tradizionale non può
prescindere, allora, dall’analisi di quelle perturbazioni introdotte da forze esterne, che, si sono
rivelate spesso incisive, e che sono imputabili sostanzialmente alla modificazione delle condizioni
socioeconomiche e ambientali di contesto, oltre che alle evoluzioni in seno all’ordinamento
giuridico stesso.
4.1. L’elezione diretta del sindaco.
Nel 1993 si compie nell’ordinamento degli Enti Locali una grande rivoluzione: il sindaco si
vede riconoscere finalmente il massimo grado di legittimazione popolare51.
Il sistema di governo locale era in precedenza basato «sul dominio assoluto dei partiti. Si
eleggevano consigli comunali che, secondo un sistema rigorosamente proporzionale, li riflettevano
tutti, anche i partitini di più modeste dimensioni. E anche questi, spesso con ruolo determinante,
potevano partecipare alle intricate trattative che si aprivano dopo le elezioni per determinare gli
assetti del governo delle città»52. Spartizioni di cariche e di poltrone che potevano durare anche
molti mesi, e trattative lunghe, non da ultimo, erano anche quelle per la scelta del sindaco.
Fu quella, perciò, un’innovazione dirompente53, basata – secondo l’efficace sintesi dell’allora
Sindaco di Roma, Francesco Rutelli – «su pochi punti: individuazione di una responsabilità
personale, formazione di una squadra sotto la responsabilità di chi guida l’esperienza di governo,
legame con una maggioranza politica, ma anche autonomia rispetto a questa maggioranza,
individuazione di un programma chiaro sul quale si chiede il voto e poi se ne verifica l’attuazione,
51
Si tratta delle modificazioni introdotte nel sistema elettorale degli Enti Locali dalla Legge 25 marzo 1993, n. 81, che
sancisce l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente di Provincia, e che ha costituito una vera e propria rivoluzione
verso la personificazione della politica.
52
L. VANDELLI, Sindaci e miti. Sisifo, Tantalo e Damocle nell’amministrazione locale, Bologna, Il Mulino, 1997, pag.
7.
53
E che creò non poche difficoltà tra i giuristi ai fini della qualificazione della nuova forma di governo. Il dibattito
inizialmente propendente per il presidenzialismo – si veda Cons. St, Sez. I, parere 30 settembre1993, n. 984 – ha poi
dirottato su una soluzione «di compromesso», «singolare», «ibrida».
13
stabilità di mandato»54. Il precedente e consolidato sistema delle coalizioni di governo che
designava il sindaco nel consiglio comunale metteva in primo piano, dunque, la coalizione politica,
non il programma di legislatura, che non assumeva, pertanto, il rilievo che oggi ha con l’elezione
diretta del sindaco55. La credibilità della proposta, unita alla credibilità della candidatura e la
possibilità concreta, assai relativa con il sistema precedente, che questi due elementi possano
sovvertire le previsioni elettorali, ha contribuito a rendere il programma del sindaco il vero ago
della bilancia degli equilibri politici in seno alle Città.
Non v’è dubbio, quindi, che nella personalizzazione dell’elezione diretta del sindaco, un ruolo
decisivo lo giochi la richiesta dell’elettore – che il candidato inevitabilmente dovrà raccogliere – di
rinnovamento, di trasformazione e di mutamento degli assetti esistenti. E allora, il programma
elettorale diventa un vero e proprio programma di sviluppo locale, teso al riassetto, alla
trasformazione, alla modernizzazione, alla valorizzazione del Comune.
Un sindaco, evidentemente, non può limitarsi a gestire l’esistente, ma deve finalizzare la sua
azione di governo verso il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei suoi cittadini, verso
lo sviluppo dei servizi e delle infrastrutture, e tutto ciò dovrà farlo entro un tempo limitato, entro i
cinque anni di scadenza del mandato56. Sono obiettivi, questi, che coinvolgono inevitabilmente le
politiche urbanistiche, le quali assumono una chiara valenza sociale ed economica, non tanto diretta
alla proprietà quanto alla collettività. Ma spesso accade che una norma tecnica di piano o un
vincolo di destinazione risultino incompatibili con quei promettenti piani d’intenti politici.
In passato, per rispondere alle esigenze di cambiamento dell’elettorato, quel sindaco coerente con le
proprie promesse, avrebbe dovuto redigere un nuovo piano regolatore oppure procedere in variante
dello stesso; mentre oggi i processi accelerati di sviluppo impongono approcci più immediati, di
certo non perseguibili attraverso la defatigante redazione del PRG o di una sua variazione, che, del
resto, quando giungono a regime, mostrano già evidenti segni di ritardo.
Se, quindi, si considera che il limite di durata del mandato costituisce davvero una delle
variabili fondanti dell’attuazione del programma, si può intuire come quest’ultima seriamente si
scontri con la rigidità del piano. Sovviene a questi problemi proprio la destrutturazione del PRG.
In alcune Regioni, é stata avviata una riforma della pianificazione comunale la cui parola d’ordine è
stata “flessibilità”. Al piano regolatore unitario, si è scelto di sostituire un doppio livello di
pianificazione: un piano strutturale, al primo livello, cui spetta di delineare gli scenari generali, ed
un piano operativo, al secondo, al quale compete, invece, dare concretezza a quelle scelte territoriali
generali.
Proprio il piano operativo, per le sue caratteristiche, è individuato come “piano del sindaco”.
Non a caso la sua stessa efficacia è temporalmente limitata al mandato elettorale57. Sarà, perciò, il
L’affermazione è riportata in L. V ANDELLI, Sindaci e miti, op. cit., pag. 15.
Ed invece, oggi, al Consiglio Comunale non spetta che attuare proprio quel programma di governo del primo
cittadino, già conosciuto dall’elettorato che lo ha scelto.
56
La legge del 30 maggio 1999, n. 120 all’art. 7, che ha modificato l’art. 2 comma 1 della l.81 del 1993, ha portato a
cinque anni il periodo di durata degli organi elettivi di comuni e province, equiparandolo a quello degli organi elettivi
regionali.
57
Per esempio, l’art. 30, L.r. Emilia Romagna 20/2000, come modificata dalla L.r. 6/2009 dispone: « Il Piano Operativo
Comunale (POC) e’ lo strumento urbanistico che individua e disciplina gli interventi…da realizzare nell'arco temporale
di cinque anni. Trascorso tale periodo, cessano di avere efficacia le previsioni del POC non attuate, sia quelle che
conferiscono diritti edificatori sia quelle che comportano l’apposizione di vincoli preordinati all’esproprio». Si ritiene
che per i diritti edificatori, a seguito della decadenza delle previsioni operative, soccorra la disciplina sulle c.d. zone
bianche, ex art. 9 d.P.R. n. 380/2001. Cfr. A. B ARTOLINI, Questioni problematiche sull’efficacia giuridica della
pianificazione strutturale ed operativa, in Riv. Giur. Urb., 3, 2007, pagg. 262 e segg.
54
55
14
piano del sindaco, una volta formulato, a costituire la proposta politica ed al contempo il progetto
urbanistico che andrà in attuazione nel quinquennio.
4.2. La destrutturazione del PRG.
E’ noto che a partire dal 1995 – capofila la Toscana – alcuni legislatori regionali, sulla base di
un modello elaborato da un noto Istituto di ricerca58, hanno provveduto a modificare la struttura del
PRG, introducendo forti discontinuità rispetto al modello previsto dall’art. 7, comma 2 della Legge
17 agosto 1942, n. 1150, e spezzando, così, l’uniformità della disciplina statale59. Il risultato è stato
quello della divisione del principale atto di pianificazione comunale in due distinti provvedimenti –
il piano strutturale ed il piano operativo – il primo teso a fissare le strategie, il secondo destinato ad
attuarle in concreto60.
Le leggi regionali di ultima generazione hanno, in altre parole, separato i contenuti strutturali da
quelli operativi e programmatici ed assegnano ai primi un ruolo basilare. Cosicché, il nuovo
modello di pianificazione generale si presenta con un contenuto, quello strutturale, stabile e
sostanzialmente insuscettibile di variazioni, e con un contenuto, quello operativo, suscettibile,
invece, di essere variato e costantemente adeguato al sopravvenire di nuove esigenze di natura
urbanistica, economica e sociale. In estrema sintesi, le linee strutturali identificano i punti
fondamentali dell’assetto del territorio comunale, derivante dalla ricognizione dei caratteri peculiari
di quest’ultimo, sia sotto il profilo socio-economico, che storico, culturale ed ambientale,
determinando, al contempo, le direttrici di sviluppo dei nuovi insediamenti61. Invece, le previsioni
operative definiscono gli interventi insediativi, stabilendo le localizzazioni delle aree da
ricomprendere in successivi piani attuativi, definendo le trasformazioni fisiche e funzionali in esse
ammissibili e dettando, se del caso, i parametri (estetici, dimensionali, etc.) cui tali disposizioni
dovranno inderogabilmente attenersi62.
Il modello pianificatorio appena descritto è quello adottato proprio da Toscana, Emilia Romagna e
Lombardia, che pur tuttavia si collocano in un quadro normativo regionale assai variegato e
composito63.
Si tratta dell’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica.
Si tratta di una decina di Regioni. La tendenza legislativa è stata inaugurata dalla Toscana, con la L.r. 5/1995, art. 30.
Alcune delle leggi emanate tra il 1995 ed il 1998 sono poi state ulteriormente modificate nel 2005 al termine della V
legislatura regionale.
60
In particolare, si ritiene che la soluzione normativa più prossima al modello teorico elaborato dall’Istituto sia quella
proposta dall’Emilia Romagna.
61
Ai sensi dell’art. 28 L.r. Emilia Romagna 20/2000, come modificata dalla L.r. 6/2009: «Il Piano Strutturale
Comunale (PSC) è lo strumento di pianificazione urbanistica generale che deve essere predisposto dal Comune, con
riguardo a tutto il proprio territorio, per delineare le scelte strategiche di assetto e sviluppo e per tutelare l'integrità fisica
ed ambientale e l'identità culturale dello stesso.»
62
L’art. 30 comma 2 L.r. Emilia Romagna 20/2000 indica il contenuto del POC: « Il Piano Operativo Comunale (POC)
e’ lo strumento urbanistico che individua e disciplina gli interventi di tutela e valorizzazione, di organizzazione e
trasformazione del territorio da realizzare nell'arco temporale di cinque anni ».
63
Pressoché speculare al modello emiliano è quello introdotto dalla L. r. Basilicata n. 23/1999, che contempla il PSC, il
POC e il Regolamento Urbanistico (artt. 14, 15 e 16), del L.r. Lazio n. 38/1999, che distingue tra Piano Urbanistico
comunale Generale (PUCG - art. 28) articolato in previsioni strutturali e programmatiche, e Piani Urbanistici Operativi
Comunali (PUOC - art. 29). Segue questo modello anche la L.r. Calabria 19/2002 (artt. 20-21) che articola la
pianificazione comunale in Piano Strutturale Comunale - PSC -, Regolamento Edilizio e Urbanistico - REU - e Piano
Operativo Temporale - POT. Formalmente distinta, ma sostanzialmente affine è anche la disciplina della L.r. Puglia
24/2004, nonché della L.r. Umbria 11/2005; in entrambi i casi, pur conservandosi l’unicità formale del PRG, lo si
compone, tuttavia di due parti ben distinte, ma strettamente connesse; la parte strutturale (art. 9, comma 1 L.r. Puglia;
58
59
15
Ciò che preme sottolineare, comunque, è che PSC e POC non sono atti di pianificazione
autonomi e indipendenti l’uno dall’altro, sì che uno possa operare anche in assenza del secondo.
Come recente giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare, con specifico riferimento alla legge
regionale dell’Emilia Romagna n. 20 del 2000, «l’ambito pianificatorio finora riservato – a livello
comunale – allo strumento urbanistico generale, PRG, risulta coperto ora solo dalla
contemporanea presenza dell’insieme dei tre nuovi strumenti pianificatori, PSC, POC e RUE»64.
Il «caro, vecchio piano regolatore»65 è evidentemente in crisi. Le ragioni del fallimento si
rintracciano paradossalmente nella razionalità, per certi versi eccessiva, dello strumento, fonte di
inconvenienti non lievi e talora anche controproducente.
La tassativa divisione in zone omogenee e la determinazione della destinazione d’uso dei suoli
hanno reso il PRG uno strumento di pianificazione eccessivamente rigido, non idoneo a cogliere e a
far emergere gli effettivi, nonché mutevoli, interessi economici e sociali della collettività stanziata
sul territorio. E’ costretto a prevedere il futuro, anche lontano, pur non avendo capacità divinatorie;
è obbligato a considerare l’intero territorio comunale, stabilendo una volta per tutte le prescrizioni
urbanistiche.
Inoltre, anche se l’art. 7 della Legge Urbanistica stabilisce che «il piano regolatore generale
deve considerare la totalità del territorio comunale», il piano stesso non ha, o non ha più, questa
capacità. Non svolge evidentemente un ruolo di disciplina identico nei riguardi, rispettivamente, del
centro urbano e del territorio non urbanizzato. I poteri di governo del territorio costruito, hanno tutti
natura e oggetto diversi da quelli dell’urbanistica in senso tradizionale e di cui il PRG è la più tipica
espressione. Non a caso essi si esprimono in atti diversi. La vita della città, dunque, dipende assai
poco dal piano regolatore. Il suo ambito di elezione è diventato il territorio esterno agli abitati, il
territorio cioè per il quale è ancora possibile compiere delle scelte. Modesta è, perciò, la capacità di
governo del piano rispetto alle grandi trasformazioni territoriali, ai processi di rilocalizzazione delle
popolazioni e di riorganizzazione delle attività dell’uomo, che, oggi, sono per necessità al centro
delle politiche urbanistiche di un Comune.
Del PRG si può dire, infine, che appartenga a scarso titolo ad un sistema democratico. In nessun
luogo e per nessuna attività dell’Amministrazione si è mai avuto un dirigismo autoritativo così forte
come quello in ambito urbanistico. Prodotto di professionisti e tecnocrati, privi di qualsiasi
legittimazione sostanziale e, frutto di una mera parvenza di partecipazione popolare 66, il piano non
art. 4 L.r. Umbria) e quella operativa (art. 9 comma 2 L.r. Puglia; art. 4 L.r. Umbria). Ugualmente è a dirsi per la
regione Veneto, L.r. 11/2004. Quest’ultimo modello di pianificazione viene anche definito “a struttura orizzontale”,
contrapposto a quello “ a struttura verticale”, visto per le prime Regioni. Per un approfondimento del tema si veda M.
SOLLINI, La pianificazione urbanistica regionale allo specchio: profili comparativi sintetici e linee evolutive, in Riv.
Giur Urb. 4, 2008, pagg. 507 e segg.
64
T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 15 maggio 2006, n. 609. La questione è più ampia ed attiene alla stessa
legittimità costituzionale della destrutturazione del PRG. In altre parole, ci si è chiesti se questo sistema multilevel sia
conforme ai principi espressi dal legislatore nazionale, ed in particolare al principio di unitarietà del piano. La questione
è stata risolta riferendo il principio in parola non tanto all’atto pianificatorio quanto alla funzione di piano
complessivamente intesa. «Al legislatore nazionale non interessa che gli effetti giuridici di conformazione ed ablazione
derivino necessariamente dalla forma di piano indicata sessant’anni fa, quanto piuttosto che siano rispettati i
presupposti fondamentali riguardanti l’esercizio del potere di piano». Ne deriva che il sistema inaugurato dalle Regioni
è una «fattispecie pianificatoria complessa», composta da distinte «frazioni di piano» ed il «piano unitario è il frutto
della sommatoria delle sue frazioni». Cfr. A. BARTOLINI, Questioni problematiche, op. cit., pagg. 265 e segg.
65
P. STELLA RICHTER, Necessità e possibilità della pianificazione urbanistica, in Presente e futuro della pianificazione
urbanistica in Presente e futuro della pianificazione urbanistica, Atti del secondo Convegno Nazionale AIDU, (a cura
di) F. PUGLIESE e E. FERRARI, Milano, Giuffré Editore, 1999, pag. 83 e segg.
66
La partecipazione dei cittadini alla formazione del PRG è prevista nella sola fase di adozione del piano del piano,
mediante osservazioni che costituiscono, anche per consolidata giurisprudenza – a partire dalla nota sentenza della
16
solo non dipende dai cittadini, ma nella sostanza è sottratto pure ai suoi rappresentanti, che si
trovano a discutere di un progetto già strutturato nei dettagli e, quindi, fortemente condizionante.
E’ evidente, dunque, che le modificazioni apportate al piano regolatore comunale dal legislatore
regionale, corrispondono all’esigenza avvertita di sopperire proprio a questi suoi deficit. Al tempo
stesso, non può sfuggire che la questione della flessibilità delle scelte urbanistiche s’innesta più
propriamente nel processo di profondo cambiamento della Pubblica Amministrazione, che vede
progredire il suo agire autoritativo verso pratiche di collaborazione, di concertazione e
consultazione degli interessi in campo. Si tratta, del resto, di quegli stessi interessi pubblici e
privati, micro e macro, che possono anche ricomporsi consensualmente, in una convergenza
d’intenti tra P.A. e privati, e dalla quale possono scaturire anche i c.d. accordi “a monte”.
4.3. La crisi finanziaria dei Comuni.
Un ulteriore fattore che spinge sempre più le amministrazioni comunali a ricorrere a moduli
consensuali alternativi agli strumenti di piano tradizionali, è innegabilmente anche la carenza di
risorse finanziarie.
I Comuni italiani si trovano in grave difficoltà economica. In questi anni hanno contribuito, più
di ogni altro livello di governo, alla riduzione del deficit, rendendo un contributo eccessivamente
gravoso per il risanamento dei conti pubblici. Si pensi, poi, all’abolizione dell’ICI sulla prima casa,
e, stando ad oggi, al solo parziale adempimento, da parte del Governo, delle promesse relative alla
copertura finanziaria per i buchi nei bilanci comunali, conseguenti ai tagli fiscali. Si considerino
pure gli effetti della crisi finanziaria, diffusasi a partire dall’autunno del 2008 dalle banche
statunitensi, che, secondo un rapporto dell’ANCI del 2009, graverà maggiormente proprio sulle
spalle dei Comuni, i quali sono i primi ricettori della domanda di servizi pubblici67.
Obliterati dallo Stato, allora, i sindaci rimpinguano le casse comunali come possono, usando
anche il territorio, ossia il regime dei suoli e della loro trasformabilità, come oggetto di scambio tra
interessi pubblici e privati.
La necessità dell’ente locale di soddisfare i bisogni e le esigenze di sviluppo dei propri cittadini, cui
fa da contraltare la scarsità di risorse disponibili, fa sì che, oggi, molti dei contenuti dei PRG siano
proprio il risultato di una trattativa condotta dal Comune con gli operatori del settore. Le politiche
per il territorio urbano richiedono la soddisfazione di standards di qualità e di servizi che
un’amministrazione non è in grado di soddisfare unicamente con capitale pubblico, e così questa si
affianca al privato per ottenere fonti di finanziamento che possano garantire la realizzazione degli
interventi68.
Corte Costituzionale 20 marzo 1978, n. 23, fino alle più recenti pronunce del Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 giugno
2004, n. 4804 – meri apporti collaborativi. Cfr. A. CALEGARI, Sul ruolo dei soggetti pubblici e privati nel procedimento
di formazione del p.r.g., op. cit., pag. 281 e segg.
67
Non conforta, di certo, il quadro che ne emerge: «Per fronteggiare la crisi finanziaria il 65% dei Comuni ha ridotto
le rette e le tariffe dei servizi per le famiglie colpite da problemi occupazionali e, mediamente, le spese sociali
sono aumentate dell’8% rispetto al 2008. Ma questo sforzo non basta. La domanda di servizi sociali crescerà quest’anno
del 20%. Ciò richiederebbe un impegno ulteriore di 1,6 miliardi di euro complessivi, a fronte di una contrazione dei
bilanci comunali di 3 miliardi l’anno per i prossimi tre anni, a causa del blocco delle entrate, della riduzione dei
trasferimenti e del rinnovo del contratto del pubblico impiego». Cfr. P. TESTA, La crisi sulle spalle dei comuni, in
www.anci.it.
68
«Da una parte il potere pubblico cerca di migliorare le città e la qualità degli assetti urbani; dall’altra la crisi
finanziaria dei Comuni giustifica l’accordo con il privato». P. URBANI, Urbanistica consensuale, “pregiudizio” del
giudice penale, op. cit., pag. 49.
17
Si impone, pertanto, la questione delle risorse finanziarie quale limite dell’azione amministrativa e,
allo stesso tempo, quale giustificazione della determinazione consensuale pubblico-privato degli
assetti urbani.
In una celebre sentenza del 1993, la Corte Costituzionale, chiamata a giudicare la legittimità
dell’indennizzo espropriativo, aveva affermato che la grave congiuntura economica può conferire
un diverso peso ai confliggenti interessi oggetto del bilanciamento legislativo69. Per cui, a detta del
Giudice delle Leggi, quel dato momento storico, caratterizzato da scarsità di risorse finanziarie,
giustificava ampiamente la disciplina normativa che consentiva la liquidazione di un’indennità di
esproprio nella misura pari alla metà del valore dei suoli70. Le conclusioni che si traggono portano a
considerare le risorse finanziarie non soltanto un fatto, o un presupposto di fatto, con il quale gli
amministratori devono fare i conti, ma come esprimenti una sorta di «giuridicità condizionante»71,
al punto tale da essere determinanti, se non proprio preminenti, nelle scelte compiute dalla P.A.
Non ci allontaniamo poi molto dal vero, se riportiamo queste stesse considerazioni alle intese
tra amministrazione ed imprenditori, agli accordi tra amministrazioni e privati proprietari. Infatti,
nell’urbanistica consensuale, mutatis mutandis, il limite delle risorse finanziarie può svolgere, oggi,
la medesima funzione giustificatrice: per ottenere una adeguata urbanizzazione dell’area ed una
qualità dei luoghi di vita e di lavoro, l’amministrazione tende a ripagare l’azione dei privati con
quel do ut des proprio dell’accordo, e che si sostanzia, nella maggior parte dei casi, nella
concessione di diritti edificatori premiali, a fronte di prestazioni d’opera del privato.
5. Gli accordi “a monte” delle prescrizioni urbanistiche.
Se, quindi, fino a quindici anni fa le convenzioni urbanistiche si erano ritagliate uno spazio nella
pianificazione urbanistica attuativa, proprio per effetto di queste “piccole oscillazioni” verificatesi
nell’ordinamento, esse oggi – nella declinazione di accordi “a monte” – possono aspirare a
determinare le stesse prescrizioni urbanistiche generali, la stessa disciplina del territorio urbano. Il
salto di qualità è evidente e non di poco conto. E’ il ribaltamento di ogni assetto e di ogni ordine
precostituito.
Come già accennato, gli accordi “a monte” non hanno alcun riconoscimento giuridico a livello
statale, con la conseguenza che per ricavare una fisionomia degli stessi occorrerà fare riferimento
oltre che alle diverse esperienze regionali (infra), anche ai principi giuridici ricavabili
nell’ordinamento, con particolare riguardo all’art. 11 della L. 241 del 1990.
Per quanto riguarda i profili funzionali, un dato sembra pacifico. Gli accordi costituiscono una
modalità alternativa di esercizio del potere autoritativo. Ne deriva che essi trovano il proprio
referente giuridico nella Legge sul procedimento amministrativo e che possono essere conclusi, per
espressa previsione normativa, esclusivamente nell’ambito di un procedimento amministrativo,
ovverosia nell’ambito che è proprio del concreto esercizio del potere dell’amministrazione. Senza
69
Con la sentenza 10-16 giugno 1993, n.283 la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità costituzionale
dell’art. 5bis del D.L. 11 luglio 1992 n. 333, convertito, con modificazioni, nella L. 8 agosto 1992 n. 359, Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica. La norma è però ora stata dichiarata incostituzionale con la sentenza
C. Cost., 3 luglio 2007, n. 348.
70
Ad onor del vero, oggi, l’indennità di esproprio va individuata nel valore venale del bene.
71
F. PUGLIESE, Risorse e accordi nella pianificazione urbanistica, op. cit., pag. 71.
18
un procedimento, dunque, e senza un presupposto potere autoritativo non può esservi alcun
accordo72.
Lo stesso art. 11 presuppone, del resto, l’intervento nel procedimento. La proposta di accordo del
privato, dunque, non può determinare l’avvio del procedimento pianificatorio, ma deve presupporre
che esso sia iniziato e che il privato intervenga o mediante l’esercizio del diritto di accesso o tramite
la presentazione di osservazioni.
Dalla natura alternativa dell’attività amministrativa consensuale, rispetto ai moduli tradizionali
di esercizio del potere autoritativo, inoltre, discende la facoltà per la P.A. di ricorrere agli accordi “a
monte” solo nel caso in cui l’interesse pubblico trovi nel vincolo consensuale la migliore
soddisfazione possibile, e cioè, proprio quella che non sarebbe consentita dall’esercizio della
funzione pianificatoria secondo il modello classico73. L’accordo urbanistico, in altre parole, deve
condurre ad un risultato ulteriore e migliore rispetto a ciò che è dovuto ex lege74. Ed infatti, il
contenuto del provvedimento finale conterrà proprio quelle «clausole che, in difetto d’accordo, non
sarebbero facilmente accettate dal privato»75.
Tutto ciò implica, tanto nella prospettiva del principio di imparzialità, quanto di quello di
proporzionalità, che l’accordo deve servire a bilanciare e a contemperare al meglio l’interesse
pubblico primario con l’interesse privato, ovviamente senza dimenticare, nel bilanciamento, gli
interessi dei terzi, mentre non può mai determinare un accordo modulato sulla soddisfazione
dell’interesse privato. L’interesse pubblico urbanistico deve sempre e comunque prevalere: solo
così gli accordi “a monte” delle prescrizioni urbanistiche possono aspirare ad essere un vero
strumento di rafforzamento della competenza pianificatoria, consentendo di rendere più
complementare l’interesse privato a quello pubblico, ma non viceversa.
Ma, si badi bene, l’interesse pubblico in questi accordi non può coincidere con il mero
corrispettivo economico – in denaro o in opere pubbliche – che il privato si impegni a realizzare.
Esso al più può aggiungersi ad ulteriore rafforzamento dell’opportunità amministrativa della
stipulazione dell’accordo.
Questo tipo di accordi, in sostanza, non può ridursi ad un mero scambio tra modificazione della
previsione urbanistica ed impegno a realizzare una data opera pubblica. In un simile caso, infatti, la
tutela e la prevalenza dell’interesse pubblico non sarebbero garantite, ma sostanzialmente verrebbe
72
F.G. SCOCA, Diritto amministrativo, op. cit., pag 412; M. MAGRI, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani
urbanistici strutturali, op. cit., pag 557; D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, una introduzione, Bologna,
Il Mulino,2005, pag. 335, secondo il quale «la significativa rilevanza che ha, dunque, l’ambientazione degli accordi nel
procedimento sembra giustificare la deduzione che una loro conclusione al di fuori del procedimento potrebbe avere
conseguenze sulla validità dell’accordo e quindi sulla legittimità del provvedimento che dovesse eventualmente
seguire». In giurisprudenza: «L’accordo rivela un nesso strettissimo con la partecipazione procedimentale, tanto che
può dirsi che non vi può essere accordo senza che vi sia stato avvio del procedimento, per cui può senz’altro dirsi che
non possono concludersi accordi al di fuori e prima dell’avvio del procedimento e che non siano espressione della
partecipazione procedimentale tesa a stabilire nel caso concreto quale sia l’interesse pubblico». Cons. St., Sez. VI, 15
maggio 2002, n. 2636, in Cons. St., 1, 2002, pag. 1411.
73
«L’accordo si deve rivelare essenziale al fine di raggiungere un equilibrio sull’assetto degli interessi altrimenti non
raggiungibile per via autoritativa». Cons. St., Sez. VI, 15 maggio 2002, n. 2636, in Cons. St., 1, 2002, pag. 1411.
74
M. MAGRI, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali, op. cit., pag. 557, il quale
sostiene che «l’ammissibilità dell’accordo deriva da un giudizio prognostico, ex ante, sull’essenzialità del negozio al
fine di costituire il risultato da questo discendente, da effettuarsi con il criterio dell’eliminazione ipotetica dell’accordo,
per verificare se, senza quest’ultimo, il risultato di cui sopra avrebbe potuto ugualmente essere ottenuto dalla pubblica
amministrazione mediante l’adozione unilaterale del provvedimento».
75
Cons. St., Sez. VI, 15 maggio 2002, n. 2636. In dottrina, M. D UGATO, Atipicità e funzionalizzazione nell’attività
amministrativa per contratti, op. cit., pag. 198; N. AICARDI, La disciplina generale e i principi degli accordi
amministrativi: fondamenti e caratteri, in Riv. Trim. Dir. Pubb., vol. I, 1997, pag. 29.
19
soddisfatto solo l’interesse privato, secondo una mera logica contrattuale privatistica. Il che
realizzerebbe un effetto sicuramente contrario al principio costituzionale di uguaglianza e a quello
di imparzialità: l’interesse privato verrebbe premiato non come risultato di un bilanciamento degli
interessi, richiesto dall’art. 97 Cost., ma come conseguenza della capacità e della forza economica
del privato.
L’accordo “a monte” delle prescrizioni urbanistiche, in altre parole, non può mai trasformarsi in
un contratto a prestazioni corrispettive, ché questo significherebbe la privatizzazione della funzione
urbanistica, costituzionalmente inconcepibile e comunque non consentita neanche dalla legislazione
ordinaria76. E’ bene ribadirlo. Il ricorso all’accordo è legittimo solo se giustificato dalla cura
dell’interesse pubblico primario e non dal più generico ed indifferenziato interesse della P.A. ad
ottenere utilità77.
Benché, poi, l’art. 11 preveda due distinte fattispecie di accordo, non può ammettersi uno
stravolgimento completo del procedimento pianificatorio attraverso l’ammissibilità di accordi
sostitutivi. Innanzitutto, l’accordo tra P.A. e privati in materia urbanistica non può avere un
contenuto tale da poter sostituire la determinazione finale dell’Amministrazione competente. In
secondo luogo, gli strumenti urbanistici sono pur sempre atti generali e normativi, sì che non si
potrà mai prescindere da un procedimento che garantisca la massima partecipazione, il più ampio
contraddittorio e l’imparzialità, anche sotto il profilo della garanzia del concorso nella
determinazione delle decisioni78.
Quanto al suo contenuto, è evidente che esso sarà più ampio in occasione di un nuovo piano
regolatore, mentre più ridotto qualora si operi nell’ambito di un procedimento di variante allo
strumento urbanistico vigente. In ogni caso, l’accordo non potrà mai riguardare né le linee di
indirizzo, né le scelte di fondo, né la disciplina generale del piano (ad esempio, le norme generali di
singole zone omogenee), ma dovrà concernere aspetti circoscritti e funzionali alla fattispecie di
riferimento, cioè a quella che spinge a ricercare l’accordo.
Da un lato, dunque, l’accordo può essere uno strumento legittimo per contemperare, al meglio,
l’interesse pubblico con un determinato interesse giuridicamente rilevante del privato; dall’altro,
però, esso incontra il limite della «salvaguardia dei diritti dei terzi» e della tutela dell’interesse
superindividuale al corretto uso del territorio, inteso come bene collettivo. E proprio di questi ultimi
dovrà farsi carico il soggetto pubblico, che è l’unico in grado di poter valutare, anche nella
prospettiva di una loro tutela, l’opportunità o meno di concludere l’accordo con il privato.
E’ per questo motivo che l’accordo non può incidere sull’ambito della potestà riservata alla P.A. a
presidio dell’imparzialità della pianificazione territoriale, ma, al contrario, deve presupporre che
l’amministrazione abbia già esercitato la funzione normativa. In altre parole, l’accordo non può
concernere l’an delle potestà di piano; non è un atto fonte della disciplina urbanistica di livello
generale; non può partecipare alla scelta urbanistica, ossia alla decisione amministrativa, tesa a
determinare gli standards o le linee generali di assetto del territorio. Invece, l’accordo può incidere
76
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag 503. Contra M. MAGRI, Gli accordi con i
privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali, op. cit., pag. 562, il quale sostiene che «lo stesso ius
aedificandi, nella logica di un accordo, non viene in considerazione nella sua veste di attributo originario del diritto di
proprietà – secondo la ricostruzione ancora molto in auge in dottrina e nella giurisprudenza (anche costituzionale) – ma
diventa piuttosto la remunerazione dei vantaggi pubblici e delle prestazioni del privato di rilevante interesse
comunitario (il “rilevante interesse della comunità locale”)» dedotte nell’accordo.
77
P. URBANI, Pianificare per accordi, op. cit., pag 181, afferma che la ratio della pianificazione per accordi è la ricerca
del consenso del privato per ottenere il miglior assetto del territorio nell’interesse della collettività.
78
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 479.
20
sul quid, può contribuire alla definizione della scelta urbanistica; può inerire al programma di
attività dirette al raggiungimento delle previsioni generali prefissate dalla P.A. Un conto, infatti, è
la scelta urbanistica, atto normativo e generale; un altro è la definizione di tale scelta, ossia la
cernita delle attività necessarie per realizzare gli obiettivi strategici di uso e governo del territorio
già definiti.
Quando si ammette il ricorso agli accordi “a monte”, quindi, il primo ed il secondo momento si
dissociano e si manifestano in atti di natura diversa, benché risultino poi materialmente custoditi nel
PSC79. Se così non fosse, l’accordo si trasformerebbe in un modello di co-pianificazione
chiaramente incompatibile con gli artt. 3 e 97 Cost., in un vero e proprio atto di pianificazione,
lontano dalla fattispecie delineata dal legislatore del ’90, ossia quella di un accordo tra P.A. e
privato su taluni profili discrezionali dell’atto di pianificazione80
6. Le questioni problematiche: legalità e liceità dell’azione amministrativa.
Benché, dunque, gli accordi “a monte” permettano più alti livelli di partecipazione del cittadino,
spostando la Pubblica Amministrazione verso più consapevoli posizioni democratiche, benché essi
si collochino entro una diffusa prassi amministrativa che utilizza apertamente metodi negoziali per
la definizione dei disegni urbanistici, il legislatore statale si pone in un atteggiamento di chiusura
rispetto agli stessi. Si rifiuta di disciplinarli, lasciandoli esposti ai soli meccanismi di contrattazione,
al di fuori di ogni regola e garanzia. E la garanzia di un corretto agire della P.A. sta, invece, proprio
nella preventiva fissazione non di minori, ma di maggiori regole del gioco81.
La trattativa in vista di un accordo si svolge, infatti, normalmente secondo queste dinamiche:
l’amministrazione valuta positivamente la proposta del privato solo se essa le assicura vantaggi più
consistenti di quelli che potrebbe conseguire intervenendo in modo unilaterale. Si tenga presente,
inoltre, che nella negoziazione, la determinazione degli oneri a carico del privato non ha come
parametro di riferimento quelli previsti dalla legge, come è, invece, per il caso del provvedimento,
ma sarà piuttosto definita sulla base del libero gioco delle forze contrattuali.
In questa libera determinazione delle prestazioni, la parte debole, nella maggior parte dei casi, è
quindi rappresentata dal privato, che resta sempre esposto all’eventualità dell’esercizio non
consensuale dei poteri autoritativi da parte dell’amministrazione.
Il rischio è, dunque, quello di una pretesa da parte della P.A. – e di una accettazione da parte del
privato stesso – di prestazioni spropositate e inadeguate, sia dal punto di vista della funzione
dell’accordo, sia dal punto di vista della congruità dello scambio, solo per garantire il proprio
assenso alla conclusione del procedimento in forma consensuale ed in senso favorevole
all’interessato. Si pensi alla realizzazione di opere del tutto estranee al concetto di «opere di
79
M. MAGRI, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali, op. cit., pag. 572. A ben
vedere, il legislatore regionale, laddove ha dettato una disciplina per gli accordi a monte, non ha disposto alcuna
limitazione circa l’ambito di loro applicazione, con la conseguenza che essi possono essere conclusi tanto per la
determinazione di alcuni contenuti discrezionali del POC, tanto di quelli del PSC. Si veda, per esempio, l’esperienza del
Comune di Ravenna, che ha fatto ricorso ad un numero consistente di accordi a monte tanto per la definizione dei
contenuti del Piano operativo che di quello strutturale.
80
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 484 e segg.; giunge alle medesime
conclusioni pur partendo da presupposti diversi anche M. MAGRI, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani
urbanistici strutturali, op. cit., pag. 569 e segg.
81
P. URBANI, Urbanistica consensuale, pregiudizio del giudice penale, op. cit., pag. 50.
21
urbanizzazione», e che per la loro entità lambiscono, invece, il concetto di opera pubblica; o ancora,
alla somministrazione gratuita e periodica di beni e servizi.
Gli accordi “a monte”, perciò, a causa di un atteggiamento conservatore e poco illuminato del
legislatore statale, possono legarsi ad un fenomeno di regressione del principio di legalità 82. Scambi
ineguali possono, del resto, celare anche l’eventualità di un vantaggio illecito, «denaro o altre
utilità», «retribuzioni non dovute», «ingiusti vantaggi patrimoniali», che siano. E non è un caso che
il giudice penale abbia letto fenomeni criminali di corruzione, concussione e abuso d’ufficio dietro
ad operazioni di riconversione e riqualificazione urbana, condotte tramite moduli consensuali
pubblico-privati83.
Occorre, pertanto, una disciplina legislativa per gli accordi “a monte”, che permetta, tra l’altro,
di “misurare” l’interesse pubblico e l’equità dello scambio pubblico-privato. Sarebbe auspicabile
l’introduzione nella nostra legislazione di una disposizione analoga a quella della legge tedesca sul
procedimento amministrativo, secondo cui gli obblighi assunti dal privato con l’accordo urbanistico
devono essere «appropriati» e «in giusto rapporto» con la prestazione assunta dall’amministrazione.
Nel nostro ordinamento non esiste una disposizione che limiti in questo senso l’autonomia
contrattuale nell’accordo, ma questi criteri richiamano pur sempre la logica sottostante all’eccesso
di potere, che all’occorrenza potrebbe sopperire84.
Resta, qui, superata la tesi di M.S. Giannini, secondo cui il mero consenso delle parti costituisce
titolo sufficiente per giustificare l’assunzione di obblighi più onerosi con l’accordo, anche in deroga
al principio di legalità85. La facoltà di apporre simili clausole deve rimanere esclusa, diversamente
l’accordo si risolverebbe a tutto danno dei privati e del bene giuridico dell’imparzialità e del buon
andamento della P.A.
Pertanto, così come avvenuto per gli accordi amministrativi, in generale, e per le convenzioni
urbanistiche attuative, nel particolare, si richiede al legislatore un nuovo ed ulteriore passo in avanti
nel percorso che conduce alla piena affermazione del principio di consensualità nell’azione
amministrativa86.
Del tutto differente è, invece, la tendenza che si registra a livello regionale. Sul filo delle
molteplici innovazioni introdotte dal legislatore regionale nella materia del governo del territorio,
82
P. URBANI, Pianificare per accordi, op. cit., pagg. 178; A. TRAVI, Accordi fra i proprietari e comune per modifiche
al piano regolatore ed oneri esorbitanti, op. cit., pag. 274 e segg.
83
P. URBANI, Urbanistica consensuale, pregiudizio del giudice penale, op. cit., pag. 47.
84
A. TRAVI, Accordi fra i proprietari e comune per modifiche al piano regolatore ed oneri esorbitanti, op. cit. pag. 281.
85
Si pensi a convenzioni che comprendano la realizzazione di opere del tutto estranee al concetto di «opere di
urbanizzazione», e che per la loro entità lambiscano, invece, il concetto di opera pubblica; o ancora, a convenzioni che
prevedano la somministrazione gratuita e periodica di beni e servizi.
86
Per dovere di cronaca, vanno segnalati i primi tentativi in tal senso. Con il progetto di legge Mantini, n. 1794,
attualmente giacente nelle aule parlamentari, all’articolo 8 viene dettata la disciplina degli accordi con i privati in
materia urbanistica. In particolare, con la norma in parola, il legislatore dimostra la propria preoccupazione di voler
conciliare l’urbanistica per accordi con il principio di parità di trattamento, al fine di evitare che l’urbanistica contrattata
si trasformi in un’urbanistica diseguale: «Gli enti locali possono concludere con i soggetti privati, nel rispetto del
principio di pari opportunità e di partecipazione al procedimento per le intese preliminari o preparatorie dell’atto
amministrativo attraverso procedure di confronto concorrenziale per gli accordi sostitutivi degli atti amministrativi, al
fine di recepire negli atti di pianificazione proposte di interventi in attuazione coerente degli obiettivi strategici
contenuti negli atti di pianificazione e delle dotazioni minime di cui all’articolo 9, la cui localizzazione è di competenza
pubblica.
L’accordo è soggetto alle medesime forme di pubblicità e partecipazione dell’atto di pianificazione che lo recepisce.
Per quanto non disciplinato dalla presente legge trovano applicazione le disposizioni in materia di partecipazione al
procedimento amministrativo di accordi con i privati e di tutela giurisdizionale di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 e
successive modificazioni».
22
infatti, si inseriscono anche le recenti previsioni normative proprio sugli accordi “a monte”87. Si
tratta, in particolare, delle Regioni Emilia Romagna, Veneto ed Umbria, le quali si pongono, con
queste norme, in posizione di netta avanguardia nel panorama giuridico di riferimento.
7. Possibilità degli accordi “a monte” nella legislazione regionale di dettaglio.
La dottrina contraria alla possibilità degli accordi “a monte” delle prescrizioni urbanistiche fa
leva su due ordini di argomenti.
Il primo attiene all’assenza nella materia del governo del territorio di un principio fondamentale
in base al quale sia ammissibile una pianificazione consensuale riguardante gli strumenti urbanistici
generali; con la conseguenza che le norme regionali prima richiamate, sarebbero illegittime, per
violazione dell’art. 117 comma 3 della Costituzione88.
Il secondo riguarda l’art. 13 della L. 241 del 1990, che esclude l’applicazione del Capo III della
medesima legge – relativo alla partecipazione al procedimento amministrativo, e nel quale trova
collocazione anche l’istituto degli accordi amministrativi – dall’attività della Pubblica
Amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione89.
Al fine di chiarire, dunque, se la normativa di dettaglio delle Regioni su indicate sia o meno
conforme a Costituzione, in assenza di una legge cornice sui principi fondamentali in materia di
governo del territorio90, si pone la necessità di rintracciarli nella legislazione statale di settore91. In
altre parole, occorre verificare se nel panorama normativo statale sia rinvenibile un principio
fondamentale tale da consentire alle Regioni a Statuto ordinario la codificazione degli accordi tra i
privati e le PP. AA. con particolare riferimento alla pianificazione urbanistica generale.
Alla luce dell’analisi sin qui condotta, deve ammettersi che, effettivamente, non è possibile
individuare nella legislazione urbanistica statale una sola indicazione circa l’esistenza di un
principio, dal quale sia desumibile che anche il contenuto degli strumenti urbanistici generali può
essere definito attraverso un’intesa negoziale tra P.A. e privati. Come si è visto, il contesto tipico
rimane quello degli strumenti urbanistici di attuazione.
Occorre allora verificare se piuttosto un principio fondamentale, che renda effettivamente
praticabile la via consensuale anche per la definizione dei contenuti dei piani urbanistici di carattere
generale, non sia individuabile nella legislazione statale di disciplina generale dell’azione
amministrativa. Il procedimento di pianificazione territoriale, ferme le particolarità che lo
contraddistinguono, è pur sempre un procedimento amministrativo, e, in quanto tale, soggetto ai
principi generali desumibili dalla L. 7 agosto 1990, n. 241.
Ne offre un’analisi G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 488 e segg.
Cfr. in particolare G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 470 e segg.
89
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 474 e segg,; B. CAVALLO, Sussidiarietà
orizzontale e L. n. 241/1990 nel governo del territorio, in Riv. Giur. Urb., 3, 2006, pag. 395 e segg.
90
Benché numerosi siano stati i d.d.l. presentati, ancora nulla è emerso. Per la XVI Legislatura, sono in corso di esame
in sede di Commissione parlamentare i seguenti progetti di legge: p.d.l. Lupi, n. 438; p.d.l. Mantini, n. 1794; p.d.l.
Mariani, n. 329.
91
Questa soluzione, già accolta dal legislatore nel 1970, in occasione della prima attuazione del sistema regionale
italiano, è stata sostenuta anche dopo la riforma del Titolo V, trovando conferma nella sentenza n. 282 del 2002 della
Corte Costituzionale. La Consulta chiarisce, infatti, che in attesa dell’adozione di nuove leggi-cornice statali, la potestà
legislativa concorrente può essere esercitata dalle Regioni, a condizione che esse rispettino «i principi ricavabili dalla
legislazione già esistente». Conformemente anche le sentenze C. Cost., 27 novembre 2003, n. 353 e C. Cost. 25 marzo
2005, n.120.
87
88
23
Il rinvio ipso facto è al principio di consensualità desumibile dall’art. 11 di codesta legge. Ma
può tale articolo essere idoneo a sostenere questo compito tanto ambizioso quanto oneroso?
Di primo acchito, il rinvio alla norma de qua sembrerebbe improponibile in virtù, della
previsione di cui al successivo art. 13 comma 1. Ma sulla sua interpretazione dottrina e
giurisprudenza si sono divise.
Secondo un primo orientamento, dall’art. 13 discende l’inapplicabilità degli accordi ex art. 11
all’attività della P.A. diretta all’emanazione di atti amministrativi generali, degli atti di
pianificazione e di programmazione generale. Sarebbero evidenti le ragioni che portano ad
escludere la partecipazione pattizia a questi procedimenti amministrativi.
L’accordo endoprocedimentale, identicamente a quello sostitutivo, presuppone un rapporto
bilaterale preciso tra il soggetto pubblico e quello privato, che non è possibile rinvenire nell’atto
generale, il quale s’indirizza ad una pluralità non definibile di destinatari. Pertanto, l’art. 13
troverebbe base e giustificazione proprio nel principio espresso nello stesso art. 11, secondo cui gli
accordi si possono concludere soltanto «senza pregiudizio dei diritti dei terzi»92. E’ chiara, dunque,
la portata e la ratio dell’art. 13, che, del resto, trova lapalissiana conferma proprio nella novella
introdotta con la l. 15 del 2005, la quale ha precisato il suo ambito di applicazione, relativo a tutte le
norme sulla partecipazione, ivi incluso l’art. 11. E quindi, in claris non fit interpretatio93.
Analoga posizione ha assunto in più di un’occasione, anche la giurisprudenza, che ha, in tal
senso, operato una netta distinzione tra livelli generali e attuativi della pianificazione urbanistica.
Più precisamente nella suddivisione degli accordi ex art. 11, tra quelli che decidono come debba
essere l’assetto di una determinata area e quelli che, invece, disciplinano gli interventi per
l’attuazione di tale assetto, solo questi ultimi sono senz’altro ammissibili. Si pensi, infatti, alle
convenzioni di lottizzazione, che ne costituiscono il modello di riferimento. Invece, i primi restano
incompatibili con l’art. 13 della L. 241/199094.
Nondimeno, l’atteggiamento di chiusura di questa parte della dottrina e della giurisprudenza ha
sollevato più di una critica. Infatti, è anche stato sostenuto che l’art. 13 non istituisce alcun divieto
per l’amministrazione di ammettere una partecipazione del tipo di quella prevista per i procedimenti
individuali, anche per i procedimenti finalizzati all’«emanazione di atti normativi, amministrativi
generali, di programmazione e di pianificazione». Più semplicemente la norma si limita ad
escludere che, in questi casi, la P.A. sia tenuta a garantire livelli così elevati di partecipazione95. E
92
M. MAGRI, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali, op. cit., pag 546, secondo il
quale «il divieto per le pubbliche amministrazioni di concludere con i privati accordi integrativi della pianificazione
generale riposa su una norma costituente diretta attuazione del principio di imparzialità della pubblica
amministrazione».
93
B. CAVALLO, Sussidiarietà orizzontale e L. n. 241/1990 nel governo del territorio, op.cit., pagg. 399 e segg. In tal
senso anche G. F. SCOCA, Gli accordi, in SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, op. cit., pag. 411 e segg.
94
In questo senso, Cass. SS.UU, 15 dicembre 2000, n. 1262. In senso analogo Cass., SS.UU., 11 agosto 1997, n. 7452
in Riv. Giur. Ed., 1998 «Sicché, a proposito dei piani urbanistici attuativi, potrebbe rivelarsi problematico individuare
il fondamento di razionalità della scelta, che sarebbe stata compiuta dall'ordinamento, di prevedere l'ammissibilità degli
accordi ed al tempo stesso sottrarli alla disciplina generale dettata dai commi 2 a 5 dell'art. 11»; Cass., SS.UU., 25
novembre 1998, n. 11934 in Foro It. Rep. 1998, Voce Edil. Urb.
95
Del resto, una normativa che escludesse in toto qualsiasi partecipazione dei soggetti interessati alla formazione di
piani urbanistici con effetti conformativi della proprietà, presenterebbe aspetti di incostituzionalità sotto il profilo
dell’irragionevolezza, anche solo in considerazione del fatto che tali piani presuppongono un’attività di comparazione
tra i vari interessi, che devono essere valutati proprio attraverso l’apporto collaborativo dei soggetti coinvolti, A. FIALE,
Diritto Urbanistico, Napoli, Edizioni giuridiche Simone, 2006, pag. 66 e segg. In giurisprudenza, Cons. St. Sez. V, 16
settembre 2004, n. 6014, in Guida al dir., 40, 2004, pag. 97, «Il principio di cui all’art. 7 L. 241/1990 sul procedimento
amministrativo è generale e cede in presenza di principi aventi la medesima finalità ma forme diverse, previsti dalle
leggi speciali; la legge statale e le leggi regionali in tema di formazione degli strumenti urbanistici prevedono
24
perciò, l’adozione di queste modalità può rappresentare un qualcosa di più rispetto a quanto è
obbligatorio per legge, ma la loro previsione non comporta alcun vizio di legittimità. L’art. 13, in
altre parole, non può essere concepito in presenza di un principio di consensualità e di un principio
di partecipazione al procedimento, per i quali non è inusitato cogliere la natura di principi generali
dell’azione amministrativa, come un divieto di applicabilità degli stessi, ma al più come una sorta di
clausola di rinvio a favore della legge speciale. In quest’ottica, infatti, va valorizzata proprio
l’ultima parte della norma in commento, che riserva, appunto, ai procedimenti prodromici
all’emanazione di atti generali le «particolari» forme di partecipazione previste dalla legislazione
speciale, che ne regola la formazione.
Quanto detto, può essere chiaramente riportato alla materia del governo del territorio. E’ un
dato acquisito che di pianificazione urbanistica può parlarsi in termini di ordinamento autonomo,
dotato di sue proprie regole, erigibili a sistema96. Ed è la stessa LPA con la norma in commento ad
accreditare questa prospettiva97.
In altri termini, l’art. 13 dà prova della consapevolezza del legislatore circa la suddivisione
ordinamentale delle attività della Pubblica Amministrazione98. Ne deriva che la deroga dell’art. 13
può apparire legata proprio alla particolarità delle attività tipiche dell’ordinamento urbanistico, e
che le rende non immediatamente e complessivamente riconducibili all’ordinamento generale. Ma
ciò non impedisce affatto – qui sta il punto – che i principi desumibili dalla legge sul procedimento
interessino anche le prime. Il legislatore della 241, più semplicemente, ha ritenuto opportuno non
prevedere l’automatica applicazione degli istituti propri dell’azione amministrativa generale anche
all’ordinamento urbanistico, la cui disciplina legislativa di dettaglio spetta, del resto, alle Regioni.
E a queste è richiesto, perciò, non tanto di reintrodurre ciò che dall’art. 13 sarebbe stato escluso,
quanto di dover rispettare tutti i principi che secondo la legge sul procedimento presiedono alla
funzione amministrativa, ivi incluso il principio di consensualità99.
Del resto, i giudici amministrativi ritengono che la L. 241 del 1990 «è legge generale sul
procedimento amministrativo, non già nei termini di una codificazione dell’atto e del procedimento,
ma piuttosto come individuazione di principi fondamentali cui la successiva normazione di rango
primario e secondario deve uniformarsi»100.
Il richiamo alla competenza legislativa concorrente delle Regioni consente di completare i
rilievi testé operati, con l’art. 29 della legge de qua.
La disposizione, come modificata dalla L. 15/2005, limita l’applicazione delle norme in materia di
procedimento amministrativo ai soli procedimenti che si svolgono nell’ambito delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali; mentre per le Regioni e gli Enti Locali, nei
strumenti di partecipazione in favore del privato più garantisti dell’art. 7 L. 241/1990». In tal senso, anche Cons. St.,
Sez. IV, 24 ottobre 2000, n. 5720, in Cons. Stato, 1, 2000, pag. 2331; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 2 maggio 2000, n.
388, in Trib .amm. reg., 1, 2000, pag. 1117.
96
Questa impostazione è utilizzata da P. STELLA RICHTER, Il sistema delle fonti della disciplina urbanistica, in Riv.
Giur. Urb. 1989, pag. 607 e segg.
97
S. CIVITARESE MATTEUCCI,. Sul fondamento giuridico degli accordi in materia di fissazione delle prescrizioni
urbanistiche, op. cit., pag. 167 e segg.; P. URBANI, L’urbanistica consensuale, op. cit., pag. 86 e segg.
98
S. CIVITARESE MATTEUCCI,. Sul fondamento giuridico degli accordi in materia di fissazione delle prescrizioni
urbanistiche, op. cit., pag. 168.
99
S. CIVITARESE MATTEUCCI,. Sul fondamento giuridico degli accordi in materia di fissazione delle prescrizioni
urbanistiche, op. cit., pag. 169.
100
Cons. St., Sez. VI, 1 ottobre 2002, n. 5105, in C. CUDIA, La partecipazione ai procedimenti di pianificazione
territoriale tra chiunque e interessato, in Dir. Pubbl., 1, 2008, pag. 264 e segg.
25
rispettivi ambiti di competenza, tali disposizioni valgono – e questo è un inequivocabile portato
della riforma del Titolo V Cost. – come statuizioni di principio vincolanti.
Di tal guisa, il principio di consensualità desumibile dall’art. 11 potrebbe senz’altro essere inteso
come un principio fondamentale della disciplina del procedimento amministrativo, mentre lo stesso
non può dirsi dell’art. 13101: una deroga agli istituti della partecipazione, infatti, non può di certo
essere concepita come norma di principio vincolante la potestà legislativa concorrente delle
Regioni, e di conseguenza, «è lecito attendere ed auspicare limitazioni a tale deroga generale da
parte del legislatore regionale»102.
Deve notarsi come tali considerazioni possano trovare compiuto riconoscimento sul piano del
diritto positivo, adesso, dopo la L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha nuovamente modificato la L. 241
del 1990, anche nel suo art. 29.
Innanzitutto, il nuovo comma 1 dispone che le disposizioni di cui all’art. 11 non si applicano
più solo alle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali, ma «a tutte le amministrazioni
pubbliche»103, con il che si compie un notevole passo in avanti nel tentativo di permettere la
maggiore diffusione possibile degli accordi.
In secondo luogo, il nuovo comma 2bis, stabilisce che «attengono ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione le disposizioni
della presente legge concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la
partecipazione dell'interessato al procedimento».
A ribadire il concetto il nuovo comma 2quater dispone che «Le regioni e gli enti locali, nel
disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, non possono stabilire garanzie
inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni attinenti ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui ai commi 2bis e 2ter, ma possono prevedere livelli ulteriori di tutela»
La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, di
cui all’art. 117 comma 2, lett. m), è stata intesa dalla giurisprudenza costituzionale come la
«materia trasversale» per eccellenza. In virtù di essa la legge statale può intervenire in qualunque
materia e in tutti i livelli di competenza legislativa, quando si renda necessario garantire la fruizione
di diritti civili e sociali in condizioni di uguaglianza da parte di tutti i cittadini, in tutto il territorio
nazionale104. Per cui, da un lato la voluntas legis va nel senso di un maggiore rafforzamento di tutti
gli istituti della partecipazione nel procedimento amministrativo, ivi inclusi gli accordi ex art. 11105,
e dall’altro le norme che li disciplinano diventano cogenti anche per il legislatore regionale.
Si palesa, in definitiva, un contrasto tra l’art. 29 e l’art. 13, a meno che non si voglia davvero
concepire quest’ultimo come “clausola di salvaguardia” degli ordinamenti particolari, incluso
quello urbanistico. E c’è ormai più di un elemento che depone per una simile interpretazione.
Concludendo, l’art. 13 non può essere inteso come un ostacolo nell’ammettere l’applicabilità
dell’art. 11 anche all’azione amministrativa diretta all’emanazione di atti di pianificazione e
programmazione. E se il principio di consensualità caratterizza, senza deroga alcuna, l’attività della
P. URBANI, L’urbanistica consensuale, op. cit., pag. 81; contra P. GRAUSO, Gli accordi della pubblica
amministrazione con i privati, op. cit., pag. 20.
102
N. ASSINI - P. MANTINI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, Giuffré Editore, 2007, pag. 177.
103
«Le disposizioni di cui agli articoli 2bis, 11, 15 e 25, commi 5, 5bis e 6, nonché quelle del capo IVbis si applicano a
tutte le amministrazioni pubbliche».
104
C. Cost. 19 giugno 2002, n. 282.
105
Secondo autorevole dottrina, «quello degli accordi non è solo un istituto del procedimento amministrativo, ma è un
istituto di partecipazione al procedimento». Cfr. F.G. SCOCA, Diritto amministrativo, op. cit., pag 418.
101
26
pubblica amministrazione, «va da sé che esso debba riguardare ogni occasione di esercizio del
potere»106.
Ammettendo, dunque, che, in assenza di una legge cornice in materia di governo del territorio, al
legislatore regionale resta, nella disciplina del procedimento pianificatorio, il quadro dei principi
fondamentali desumibili dalla legge generale sul procedimento amministrativo, non vi sono ragioni
per escludere che questi possa informare la propria legislazione urbanistica anche al principio
fondamentale desumibile dall’art. 11, con la conseguenza che sono pienamente legittime le
disposizioni regionali oggetto ultimo di questa indagine.
7.1. L’art. 18 della L.r. 20 del 2000 dell’Emilia Romagna.
L’esame della legislazione urbanistica regionale porta a constatare che sono ancora poche le
Regioni a statuto ordinario ad aver legiferato in materia. Ed il risultato non cambia se si estende il
nostro campo di ricerca anche alle Regioni a statuto speciale.
L’Emilia Romagna è stata la prima ad introdurre la fattispecie nella propria legislazione, con la
L.r. 24 marzo 2000, n. 20, ed è stata anche l’unica ad avervi apportato modifiche, innovando non
poco l’istituto. Seguono, in ordine cronologico, il Veneto, con la L.r. 23 aprile 2004, n. 11 e quindi
l’Umbria, con la L.r. 22 febbraio 2005, n. 11.
La nostra analisi prenderà le mosse, pertanto, proprio dalla nuova disciplina di cui all’art. 18,
della legge urbanistica dell’Emilia Romagna. Essa, infatti, gode di un maggiore assestamento
rispetto alle incertezze causate dall’art. 11 L. 241/1990 alla materia dell’urbanistica, rappresentando
il risultato di un più compiuto processo di maturazione giuridica, che non ha eguali
nell’ordinamento regionale. Preme infatti sin d’ora sottolineare come la L.r. 11 del 2004 del Veneto
offra nel suo art. 6 l’esatto duplicato dell’ormai modificato art. 18; né si registrano, ad oggi, nella
legislazione di questa Regione interventi di modifica, a ruota di quelli emiliano romagnoli.
Concludono l’excursus le disposizioni della legge umbra, che suggeriscono, però,
considerazioni non omogenee rispetto a quelle che è possibile compiere a proposito delle prime due
esperienze regionali. Ma procediamo con ordine.
Nella Regione Emilia Romagna i c.d. accordi tra P.A. e privati “a monte” delle prescrizioni
urbanistiche hanno riscosso un immediato successo già a partire dai primi anni di applicazione della
L.r. 20. Da un lato, infatti, la possibilità di portare alla piena luce del sole le intese ufficiose di fatto
già presenti nella prassi amministrativa dei Comuni emiliano romagnoli; dall’altra la semplicità di
predisposizione degli stessi ne ha favorito la diffusione. E del resto è apparso sin da subito, il
contributo che questi accordi potevano portare per immettere nella pratica urbanistica una maggiore
concorrenzialità tra gli operatori, nonché per ridurre la rendita fondiaria, legando l’assegnazione
dell’edificabilità delle aree all’effettivo contributo dato da ciascun operatore allo sviluppo e alla
qualificazione del territorio107. La legge 6 luglio del 2009, n. 6, “Governo e Riqualificazione
solidale del Territorio”, è intervenuta per consolidare la disciplina di cui all’art. 18108.
106
S. CIVITARESE MATTEUCCI,. Sul fondamento giuridico degli accordi in materia di fissazione delle prescrizioni
urbanistiche, op. cit., pag. 167.
107
Così si legge nella Circolare illustrativa Titoli I e II della L.r. 6/2009, del 12 maggio 2010, PG/2010/23900.
108
La legge de qua costituisce attuazione dell’Intesa sancita il 1° aprile 2009 tra lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali,
che tra l’altro impegnava le Regioni ad assumere un provvedimento legislativo che incentivasse interventi di recupero e
di riqualificazione del patrimonio abitativo esistente, per favorire il rilancio dell’economia attraverso lo sviluppo
dell’attività edilizia. La scelta operata dalla Regione Emilia Romagna è stata quella di non limitarsi ad approvare misure
27
La norma nella sua formulazione vigente prevede, pertanto, che «gli Enti locali possono
concludere accordi con i soggetti privati nel rispetto dei principi di trasparenza, di parità di
trattamento degli operatori, di pubblicità e di partecipazione al procedimento dei soggetti
interessati, per assumere in tali strumenti previsioni di assetto del territorio di rilevante interesse
per la comunità locale, condivise dai soggetti interessati e coerenti con gli obiettivi strategici
individuati negli atti di pianificazione. Gli accordi possono attenere al contenuto discrezionale
degli atti di pianificazione territoriale ed urbanistica, sono stipulati nel rispetto della legislazione e
pianificazione sovraordinata vigente e senza pregiudizio dei diritti dei terzi»109.
Gli accordi tra amministrazione procedente ed i privati si ascrivono a pieno titolo, dunque, nella
categoria degli accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo, di cui all’art.
11 della legge 241 del 1990. A tale norma, del resto, l’art. 18 rinvia, per quanto non espressamente
disciplinato110. Gli accordi de quibus sono, quindi, un’ipotesi del tutto nuova di partecipazione
qualificata dei soggetti privati al procedimento di formazione ed approvazione dei piani urbanistici
e territoriali. La ratio precipua di questo strumento è, dunque, quella di permettere la partecipazione
alla determinazione dei contenuti discrezionali111 del provvedimento di pianificazione, ai destinatari
dello stesso ed a coloro che sono chiamati a darvi attuazione112. Resta sottesa a tale finalità, la
possibilità di realizzare, con questo momento di condivisone, risultati di interesse generale ulteriore,
e di più elevata qualità, rispetto a quanto è esigibile con gli ordinari precetti legislativi113.
In altre parole, il legislatore regionale, in linea con gli sviluppi dottrinali e legislativi statali
sull’istituto, ha inteso subordinare il ricorso all’accordo al caso in cui questo costituisca, di fatto,
strumento essenziale per far assumere al “privato che partecipa” obblighi che non sarebbero
imponibili tramite le prescrizioni poste autoritativamente dalla P.A.
Il primo comma precisa, quindi, le condizioni di ammissibilità cui è subordinata la conclusione
degli accordi. Le previsioni condivise di assetto del territorio devono essere, cioè, di «rilevante
interesse per la comunità locale» ed al tempo stesso non possono essere «in pregiudizio dei diritti
dei terzi»; devono altresì essere «coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di
pianificazione», nonché attenersi alle disposizioni della «legislazione e pianificazione
sovraordinata vigente».
E’ compiuto, altresì, un richiamo ai principi di imparzialità e parità di trattamento degli
operatori, di trasparenza, pubblicità e partecipazione al procedimento di tutti gli interessati. Il
anticicliche, ma di favorire il rilancio della comunità regionale attraverso un’organica riforma del governo del territorio
e dei programmi di riqualificazione. Ed in tale contesto il legislatore ha previsto che la definizione degli assetti
territoriali e degli interventi di riqualificazione, così rilanciati, possano essere accompagnati anche dagli accordi tra
amministrazione e privati, al fine di ricercare la massima coerenza e condivisione sugli stessi. Ne è derivato un
rafforzamento della tenuta giuridica dell’istituto.
109
Il precedente comma 1 dell’art. 18 così disponeva: «Gli enti locali possono concludere accordi con i privati per
assumere nella pianificazione proposte di progetti ed iniziative di rilevante interesse per la comunità locale, al fine di
determinare talune previsioni del contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale ed urbanistica».
110
Il richiamo è in particolare ai commi 2, 4 e 5 dell’art. 11. Quest’ultimo a ben vedere «costituisce un vero fuor
d’opera, perché si occupa di un profilo che esula dalla competenza legislativa regionale», così G. SCIULLO, Accordi e
conferenze di servizi nella legge sul governo del territorio dell’Emilia Romagna, in Lexitalia.it.
111
Gli accordi possono attenere solo a quei contenuti del piano che sono definiti discrezionalmente
dall’amministrazione, non potendo essere strumento per derogare a previsioni legislative ovvero alla pianificazione
sovraordinata vigente.
112
Così la Circolare illustrativa dei Titoli I e II della L.r. 6/2009, del 12 maggio 2010, PG/2010/23900, che aggancia la
natura di istituto di partecipazione al procedimento di pianificazione alla previsione di cui all’art. 11 comma 1, L.
241/1990, secondo cui l’amministrazione può concludere accordi con gli interessati «in accoglimento di osservazioni e
proposte presentate a norma dell’art. 10»
113
E previsti dall’art. A-26 della L.r. 20 del 2000.
28
principio di parità di trattamento degli operatori implica la necessità di attivare procedure
concorsuali, ogniqualvolta l’amministrazione intenda addivenire alla conclusione di un accordo114.
Resta, invece, da chiarire quale possa essere la portata applicativa degli altri principi, posto che ai
sensi del comma 3, l’accordo «costituisce parte integrante dello strumento cui accede ed è soggetto
alle medesime forme di pubblicità e di partecipazione». Sorge il dubbio, quindi, se l’accordo debba
essere oggetto di forme di pubblicità e partecipazione distinte ed ulteriori, rispetto a quelle previste
per il procedimento di pianificazione, ed invero non precisate nella norma115.
Il comma 2 impone l’obbligo di motivazione del ricorso allo strumento negoziale, attraverso
l’indicazione, in particolare, delle «ragioni di rilevante interesse pubblico» che lo giustificano.
Ma ciò che attrae maggiormente la nostra attenzione è il riformato comma 3. La norma prevede,
innanzitutto, che «la stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo
esecutivo dell’ente». La previsione, in ossequio ai su richiamati principi di imparzialità e
trasparenza, si pone evidentemente in linea con la necessità di adeguare la disciplina regionale sugli
accordi al nuovo comma 4bis dell’art. 11, introdotto dalla l. 15 del 2005116.
Competente è, dunque, la Giunta comunale, in quanto è l’organo che svolge le funzioni di
iniziativa e di impulso nel campo urbanistico e che può, di conseguenza, impegnarsi vero i terzi117.
In secondo luogo, la norma dispone che «l’accordo è subordinato alla condizione sospensiva
del recepimento dei suoi contenuti nella delibera di adozione dello strumento di pianificazione cui
accede e della conferma delle sue previsioni nel piano approvato».
La legge di riforma ha voluto precisare ciò che emergeva, a livello unicamente interpretativo, nella
precedente formulazione118, chiarendo così anche la natura preliminare “in senso stretto”
dell’accordo. La sola sottoscrizione dell’accordo non può, dunque, impegnare definitivamente
l’amministrazione comunale ad assumere nello strumento urbanistico da approvarsi, quel
determinato assetto concordato con il privato. Le scelte urbanistiche sono, infatti, l’esito di un
complesso procedimento che vede lo svolgimento di fasi di concertazione istituzionale; l’intervento
qualificato di diversi enti pubblici e la partecipazione del pubblico attraverso la presentazione di
osservazioni. Un accordo preliminare che, prima dell’adozione del piano, già ne ipoteca i contenuti,
finisce per rendere inutili tali rapporti collaborativi e risulta in totale contrasto con i principi che
informano il procedimento di pianificazione. L’unico effetto vincolante che, perciò, discende dalla
stipulazione dell’accordo, consiste per la Giunta comunale, nell’impegno nei confronti del privato
sottoscrittore, a proporre ed a promuovere la conclusione dell’iter approvativo del piano con i
114
La già citata circolare illustrativa, però, esonera le amministrazioni comunali dal dover ricorrere sempre alle
procedure concorsuali. Infatti i Comuni possono valutare discrezionalmente le rilevanti ragioni d’interesse pubblico che
sottendono alla proposta progettuale d’intervento del privato, anche avanzando nella negoziazione, proposte, soluzioni
e ulteriori esigenze di interesse pubblico. Quindi, la circolare, fornisce le caratteristiche della proposta di intervento
che richiedono o meno il ricorso alla gara, demandando alle amministrazioni stesse il compito di verificarne, di volta in
volta, la sussistenza.
115
Così G. SCIULLO, Accordi e conferenze di servizi nella legge sul governo del territorio dell’Emilia Romagna, op. cit.
116
Non mancano critiche a tale previsione. Cfr. G. SCIULLO, Accordi e conferenze di servizi nella legge sul governo del
territorio dell’Emilia Romagna, op. cit., secondo cui la determinazione dell’organo esecutivo «appesantisce inutilmente
il procedimento perché l’accordo è destinato a riflettersi sul piano territoriale ed urbanistico a sua volta oggetto di un
atto di natura deliberativa della Giunta (proposta di piano da sottoporre al Consiglio ai fini dell’adozione)»
117
E’ al Consiglio Comunale che, invece, spetta l’adozione e l’approvazione del piano urbanistico, a norma dell’art. 42
comma 2 lett. b) del D. Lgs. 267/2000, e pertanto solo un atto fondamentale di questo organo può impegnare l’intero
ente locale.
118
«L'accordo è recepito con la delibera di adozione dello strumento ed è condizionato alla conferma delle sue
previsioni nel piano approvato».
29
contenuti concordati; e per il privato, l’obbligo nei confronti dell’amministrazione di adempiere agli
impegni assunti con l’accordo, ove sia approvato l’assetto urbanistico concordato.
L’efficacia dell’accordo, in sé e per sé considerato, resta, quindi, subordinata alla condizione
che il Consiglio Comunale, nella sua piena autonomia, recepisca i suoi contenuti e nel piano
adottato e in quello approvato. Qualora si realizzi tale condizione, l’accordo acquista efficacia a
decorrere dalla data di sottoscrizione, nel caso contrario resterà privo di effetti. E’ bene precisare
che in tale ultimo caso, il Consiglio è tenuto a motivare in maniera specifica, indicando le ragioni
per le quali abbia inteso disattendere quel contenuto pianificatorio sul quale si sono espressi
favorevolmente il Sindaco, all’atto della sottoscrizione, e la Giunta con la deliberazione preliminare
sopra richiamata.
7.2. Le altre esperienze regionali: l’art. 6 della L.r. 11 del 2004 del Veneto e l’art. 11 della
L.r. 11 del 2005 dell’Umbria.
Le disposizioni sugli accordi “a monte” della L.r. 23 aprile 2004, n. 11 del Veneto si pongono a
ruota di quelli contenuti nella L.r. 20 del 2000 dell’Emilia Romagna. Senza peccare di eccessiva
originalità, il legislatore veneto ha riprodotto in modo pressoché identico, l’art. 18, nella sua
formulazione originaria. Nella norma, perciò, si palesano, le incertezze e le lacune, che il legislatore
emiliano-romagnolo ha cercato di superare e di colmare con l’intervento del 2009.
L’art. 6, dunque, riconosce la possibilità per tutti gli enti territoriali – Regioni, Province e
Comuni – di stipulare accordi con soggetti privati «per assumere nella pianificazione proposte di
progetti o di iniziative di rilevante interesse pubblico», disponendo, ulteriormente, che tali accordi
sono finalizzati alla «determinazione di alcune previsioni del contenuto discrezionale degli atti di
pianificazione territoriale ed urbanistica, nel rispetto della legislazione e della pianificazione
sovraordinata, senza pregiudizio dei diritti dei terzi». Una volta che si sia proceduto
all’approvazione dello strumento di pianficazione, essi costituiscono «parte integrante» dello stesso
e sono soggetti «alle medesime forme di pubblicità e di partecipazione». E’ previsto per quanto non
espressamente disciplinato, il rinvio all’art. 11, commi 2 e seguenti, L. 7 agosto 1990, n. 241.
Come emerge, anche il legislatore veneto fa dipendere da una specifica condicio iuris
l’ammissibilità degli accordi: essi devono essere finalizzati alla realizzazione di progetti o di
iniziative private di «rilevante interesse pubblico». Così come per l’Emilia Romagna, anche qui,
dunque, il legislatore regionale sceglie di limitare gli accordi alle sole ipotesi in cui la
determinazione concordata delle prescrizioni urbanistiche possa rendere concretamente realizzabili
progetti o iniziative private, connotate dalla rispondenza ad un rilevante interesse pubblico. Proprio
questa connessione è, del resto, la ragione dell’eccezione ai principi dell’azione pianificatoria da
parte dei legislatori regionali, e deve, perciò, essere intesa come assoluta indispensabilità
dell’accordo per la realizzabilità dell’opera.
Il comma 3 dell’art. 6 dispone che: «l’accordo è recepito con il provvedimento di adozione
dello strumento di pianificazione ed è condizionato alla conferma delle sue previsioni nel piano
approvato». La norma sancisce quella condizione sospensiva di efficacia dell’accordo già vista, con
l’unica differenza che nell’art. 18 essa ormai risulta expressis verbis, a seguito della specificazione
compiuta dalla novella del 2009, mentre nell’art. 6 è necessario ricavarla ancora per via
interpretativa.
30
Ad ogni modo, dalla disposizione deriva che il diritto all’indennizzo per il privato non si configura
qualora le prescrizioni, contenute nell’accordo e recepite con la deliberazione di adozione, non
siano riconfermate dalla deliberazione di approvazione. I presupposti indicati dal comma 4 dell’art.
11 della LPA potranno verificarsi solo successivamente a quest’ultima e solo qualora, appunto,
l’accordo sia definitivamente approvato. Ne deriva, in primo luogo, che il recepimento dell’accordo
comporta per l’amministrazione un obbligo di motivazione in sede di approvazione dello strumento
urbanistico cui l’accordo accede; ed in secondo luogo, che la delibera di adozione recepente
l’accordo non sia immediatamente lesiva né possa essere immediatamente impugnata da chi vi
abbia interesse, in quanto l’accordo diviene efficace solo con la delibera di approvazione. E’ solo in
quest’ultimo momento che si configura la lesività dell’accordo, e la sua impugnabilità – in via
autonoma – dovrà comportare altresì l’impugnazione della delibera di adozione quale atto
presupposto119.
Con lo strumento della condizione sospensiva dell’efficacia dell’accordo in sede di adozione del
piano, e con la conseguente possibilità per l’Amministrazione di stracciarlo in occasione della
successiva approvazione, anche il legislatore veneto, dunque, ha inteso salvaguardare la funzione
urbanistica nella sua dimensione tradizionale, recuperandone l’indisponibilità e la non
negoziabilità, almeno nel suo momento più importante.
Come è evidente le differenze nella disciplina degli accordi tra le due Regioni si riducono a ben
poca cosa. Manca nell’art. 6 il richiamo all’obbligo di motivazione della scelta di pianificazione, là
dove definita con l’accordo. Nella norma emiliana si faceva e si fa riferimento a proposte di progetti
e iniziative di «rilevante interesse per la comunità locale», mentre in quella veneta le stesse devono
essere «di rilevante interesse pubblico». Il portato giuridico non è del tutto identico. L’art. 18
sembra, infatti, postulare che l’unico interesse pubblico giustificativo dell’accordo sia quello
pubblico rilevante per la comunità locale e non quello generale. Per parte sua, l’art. 6 ammette il
ricorso agli accordi a tutti gli enti territoriali; l’art. 18 circoscrive tale possibilità alla Provincia e ai
Comuni, con esclusione, quindi della Regione.
Sennonché, una nota di merito per la legislazione urbanistica veneta va senz’altro riferita
all’attenzione che questa ha riservato ai soggetti portatori di interessi diffusi. Sarà molto più
probabile, infatti, che un’associazione possa addivenire ad un accordo con più frequenza in Veneto
piuttosto che in Emilia Romagna, ove il legislatore sembra orientato soprattutto verso i proprietari e
gli operatori economici del settore. Infatti, le «associazioni economiche e sociali portatrici di
rilevanti interessi sul territorio e di interessi diffusi» e dei «gestori di servizi pubblici e di uso
pubblico», sono ammessi «a concorrere alla definizione degli obiettivi e delle scelte strategiche
individuate dagli strumenti di pianificazione», durante la fase concertativa prevista dall’art. 5
comma 2, da collocarsi nella sottofase istruttoria del procedimento pianificatorio120. Per tali soggetti
è, allora, ipotizzabile che l’accordo possa costituire il risultato di una più pregnante partecipazione
nel procedimento.
L’ultima Regione che si è cimentata nel fornire una disciplina degli accordi “a monte” è
l’Umbria, con la L.r. 22 febbraio 2005, n. 11.
119
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 495
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 492; così anche M. BREGANZE, La nuova
pianificazione urbanistico-territoriale in Veneto e gli accordi con i privati, in Riv. Giur. Urb., 1-2, 2005, pag. 210 e
segg.
120
31
Dispone l’art. 12: «I soggetti privati singoli o associati, durante le fasi di deposito e pubblicazione
del PRG, parte operativa, possono partecipare alla sua definizione e a quelle delle relative
varianti, proponendo i piani attuativi di cui all’articolo 20 e seguenti o i programmi urbanistici di
cui all’articolo 28, con i contenuti richiesti per detti piani o programmi, accompagnati da atti
d’obbligo unilaterali relativi agli impegni anche economici dei proponenti in materia di
infrastrutture, di dotazioni territoriali e funzionali minime. Qualora il comune accolga in sede di
esame delle osservazioni tali proposte, il loro contenuto si intende adottato anche come piano
attuativo o programma urbanistico, fatto salvo quanto previsto all’articolo 24, comma 11.
Per quanto non disciplinato dalla presente legge trovano applicazione le disposizioni di cui
all’articolo 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241, ed è comunque fatto salvo quanto stabilito dalle
disposizioni in materia di procedure concorsuali di evidenza pubblica».
E’, però, di immediata percezione che la norma non disciplini un’ipotesi di accordo quale quello
fin qui esaminato, ma, al contrario, si limita a delineare una fattispecie caratterizzata, da un lato,
dalla proposta del privato relativa alla realizzazione di uno strumento attuativo, e, dall’altro, da una
semplificazione procedimentale in virtù della quale l’adozione del PRG ha la valenza anche di
provvedimento di adozione del piano attuativo o del programma urbanistico. Si tratta, perciò, né più
né meno di un’ipotesi di iniziativa privata finalizzata alla realizzazione degli strumenti urbanistici
attuativi. In questa prospettiva, perciò, il richiamo dell’art. 11 sembra essere giustificato più sul
piano dell’analogia legis che non su quello dell’identità di fattispecie121.
Allo stato attuale, può dirsi, perciò, che due soltanto sono le Regioni che hanno legiferato
effettivamente sugli accordi “a monte” delle prescrizioni di piano tra P.A. e privati, segno questo
che l’emersione dal limbo della prassi per i nostri sarà ancora tarda a venire.
8. Considerazioni conclusive.
Ciò che si è voluto appurare in queste pagine è che nell’ordinamento giuridico della Pubblica
Amministrazione, ha ormai da tempo vigenza il principio di consensualità. Sin da quando i Maestri
dell’800 si adoperarono per la costruzione dello statuto speciale della Pubblica Amministrazione,
negare l’esistenza del consenso nel modus agendi amministrativo costituiva, infatti, un rifiuto netto
della realtà esistente. Guardare al mondo con “gli occhiali deformati del giurista” infatti, spesso può
condurre ad un’analisi acritica del sistema delle cose, dei fatti e delle relazioni umane che, poi, sono
le uniche a fondare il Diritto.
L’art. 11 della L. 241 del 1990 ha dato, così, cogenza normativa ad un processo storico, culturale e
quindi ancora pregiuridico, che attraversava da più di due secoli la conformazione classica della
Pubblica Amministrazione, sancendo nel mondo delle relazioni giuridiche il modulo della
codecisione pubblico-privata dell’esercizio del potere pubblico.
Con gli accordi amministrativi si è, pertanto, avuto l’ingresso nell’ordinamento di una forma alta e
qualificata di partecipazione del cittadino alle decisioni sull’esercizio del potere, alle valutazioni
circa la migliore soddisfazione dell’interesse pubblico; ché del resto potere amministrativo altro non
è che il decidere ed il disporre sulla base di una doverosa valutazione degli interessi dei cittadini. E
come esercitarlo al meglio senza il loro diretto coinvolgimento? Gli accordi amministrativi
realizzano, dunque, concretamente e fattivamente quella «compenetrazione tra Stato e cittadino»
121
G. PAGLIARI, Gli accordi amministrativi tra P.A. e Privati, op. cit., pag. 498.
32
che è davvero fondativa di uno Stato democratico; si insinuano nel principio di autorità e fanno
venir meno le contrapposizioni gerarchizzanti tra Cittadino e Pubblica Amministrazione.
E tutto ciò è ancora più vero se si considera quali effetti gli accordi amministrativi hanno
prodotto nell’ambito di loro maggiore e più frequente applicazione, il governo del territorio, dove è
custodito il nocciolo duro del potere pubblico, il potere di conformazione dei suoli e della proprietà
privata. Come si è potuto constatare, nella più recente legislazione urbanistica regionale sono
emersi i c.d. accordi “a monte”. Ebbene, è proprio con questo nuovo istituto che può dirsi portato a
maturazione il processo di trasformazione in senso moderno e democratico della P.A.
E’, dunque, guardando al governo del territorio, che si può sostenere con certezza e senza
riserve che nel nostro ordinamento davvero si sta compiendo il progressivo declino di una Pubblica
Amministrazione, intesa in senso tradizionale, che fonda la sua consistenza sul principio di autorità
e sulla pressoché esclusiva configurazione dei rapporti in termini di supremazia-subordinazione.
La vis attractiva dell’art. 11, per effetto della quale si è ritenuto di poter ricondurre tutte le
ipotesi di convenzioni urbanistiche all’istituto dell’accordo amministrativo, sta ad indicare una ed
una cosa soltanto. E cioè, che quest’ultimo, inteso come contratto di diritto pubblico, è l’unica veste
giuridica possibile, la più giusta e confacente, per inquadrare il fenomeno in atto.
Collocando l’accordo entro una fattispecie integralmente pubblicistica, si esclude, infatti, ogni
rischio che il luogo giuridico di esercizio consensuale del potere amministrativo – il che è già una
conquista eccezionale – possa avere connotazioni tali da svilire il potere medesimo.
Non sono condivisibili, infatti, le argomentazioni a sostegno della tesi sul contratto ad oggetto
pubblico.
L’accordo resta pur sempre il punto di convergenza di poteri e facoltà eterogenee; autonomia
negoziale e potere discrezionale coincidono nella comune regolamentazione degli interessi, ed é
proprio l’identità del precetto a rendere possibile che il consenso sia reso nell’esercizio di potestà
diverse. Nell’accordo non vi è il bilanciamento di forze contrattuali, né si realizza la parità
contrattuale tra i soggetti. Anzi, la P.A. è sempre in posizione di supremazia, così come è per
l’interesse pubblico. E’ inconcepibile, del resto, ridurre quest’ultimo al rango di mero motivo
presupposto del contratto, l’interesse pubblico è causa dell’accordo.
Non può, perciò, ritenersi convincente l’assunto per cui, tolto l’oggetto, l’accordo è pur sempre
un contratto di diritto privato. Gli accordi amministrativi restano atti bilaterali, in un certo qual
modo negoziali, ma non propriamente contrattuali.
Questa considerazione ci porta a rigettare anche la più specifica configurazione di contratto a
prestazioni corrispettive. Non si può ridurre il tutto ad uno sterile do ut des: il Comune si impegna
ad una variazione della disciplina urbanistica e, a fronte dell’approvazione di questa, il privato si
obbliga a versare denaro o realizzare opere. Il vantaggio economico-patrimoniale del Comune non è
elemento essenziale dell’accordo, al più può essere un fattore ulteriore e rafforzativo
dell’opportunità amministrativa. Non si può ricorrere all’accordo urbanistico per il solo fatto che, in
tal modo, il privato contraente si obbliga a versare una somma rilevante o a costruire un impianto
pubblicistico. Con un simile accordo, infatti, si contrattualizzerebbe l’interesse pubblico urbanistico,
trovando soddisfazione unicamente l’interesse del privato, in virtù della sua capacità economica, in
contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di imparzialità della P.A. (art.
97 Cost.).
33
Di qui la decisa convinzione che sia preferibile una connotazione integralmente pubblicistica
per gli accordi amministrativi. Quale che sia la modalità di esercizio del potere, questo abbisogna
pur sempre di saldi sostegni e delle rigide regole dell’azione amministrativa.
Il potere non può rimanere svilito nel libero gioco delle forze contrattuali. Non è ammissibile il
mercimonio dell’interesse pubblico. L’accordo, in una parola, non può prescindere dalla disciplina
del potere amministrativo.
Nessuna mistica del consenso, dunque. Ed infatti, ancorché l’accordo ha la capacità di spostare
la Pubblica Amministrazione verso più consapevoli posizioni democratiche, propende anch’esso
verso un orizzonte ricco di insidie.
Non può nascondersi, infatti, che emergono implicazioni alquanto problematiche in relazione a
precise garanzie costituzionali e diritti fondamentali. E ciò è tanto più vero per quelle fattispecie
nuove, che è invalso chiamare accordi “a monte”, ove l’iniziativa del privato incide sullo stesso
procedimento di formazione delle prescrizioni urbanistiche.
Costituisce, ormai, da lungo tempo ius receptum nella giurisprudenza, che la garanzia
costituzionale della proprietà (art. 42 Cost.), non potendo essere scissa dalla sua funzione sociale,
non implica alcuna aspettativa edificatoria originariamente tutelata attraverso le previsioni dei piani
urbanistici aventi effetti conformativi o, altrimenti detto, non assicura alla proprietà alcun contenuto
minimo essenziale.
Inserendo questo principio nella prospettiva dell’accordo, può apparire plausibile che la
previsione di inedificabilità o, l’attribuzione di una destinazione non soddisfacente, sia proprio
l’evento che il privato, formulando la proposta di accordo, intenda scongiurare, accollandosi
impegni più gravosi di quelli ordinari, anche solo per eliminare o ridurre, in concreto, il margine di
discrezionalità che attiene alla decisione sul riconoscimento della vocazione edificatoria o meno
della sua proprietà.
In tal modo lo ius aedificandi non risulta più essere un attributo originario del diritto di proprietà,
secondo la ricostruzione ancora molto in auge nella dottrina e nella giurisprudenza anche
costituzionale, ma la semplice remunerazione di maggiori o più gravose prestazioni (di interesse
pubblico) che il privato sia disposto a rendere.
Appare, insomma, evidente il rischio che con l’accordo il soggetto privato si trovi nella
condizione di non disporre più di poteri e facoltà espressive di posizioni soggettive originarie, ma
piuttosto di acquisizione di un diritto a titolo derivativo, dipendente dalla consistenza delle
prestazioni dedotte nel vincolo consensuale.
Il modo per salvaguardare il privato, per tutelare il diritto costituzionalmente garantito della
proprietà privata, per porre al riparo l’accordo dallo sviamento di potere, per preservare lo stesso
territorio, inteso quale bene appartenente alla collettività, potrebbe essere quello di apporre criteri di
misurazione delle obbligazioni assunte nell’accordo, in termini di giusto rapporto e di
appropriatezza delle attività rese.
Il richiamo testé compiuto al territorio, apre il discorso ad una ulteriore questione problematica.
Il connubio consensuale tra scelte di piano ed interessi economici, rischia di sacrificare, infatti,
la tutela dell’ambiente e del paesaggio (art. 9 Cost.), valori primari ed irrinunciabili, che non
possono e non devono essere lasciati alla mercé dei meccanismi distorsivi del mercato.
L’urbanistica consensuale non deve essere tutta a favore dell’efficienza economica, col rischio che
rimangano compresse la tutela dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile e la giustizia sociale.
L’ambiente è un bene indisponibile, perché è per l’uomo presente e futuro.
34
Nella graduatoria degli interessi pubblici che coinvolgono l’uso del territorio, quelli afferenti
alla tutela del patrimonio storico ed artistico, del paesaggio e dell’ambiente devono assumere
sempre carattere prevalente rispetto ad ogni altro interesse. Non può ammettersi, dunque, che questi
divengano nella pianificazione consensuale oggetto di valutazione ponderata, in concorso con altri
interessi pubblici secondari e privati implicati, rivestendo, eventualmente nella fattispecie concreta,
anche un ruolo recessivo.
Essi, al contrario, costituiscono un valore primario – come riconosciuto del resto da consistente
giurisprudenza e dallo stesso legislatore – e non possono, pertanto, essere elisi e declassati entro una
valutazione ponderata con altri interessi. La tutela dell’ambiente deve essere intesa come una vera
“invariante” cogente della pianificazione territoriale, e, dunque, essa deve porsi come limite
stringente della discrezionalità amministrativa, orientata alla conclusione di accordi urbanistici.
Tutto ciò implica una considerazione più complessa del rapporto tra economia, ambiente e
società.
Come noto, lo status di cittadinanza nella visione costituzionale, se prevede da un lato il
godimento di un certo numero di diritti civili, politici e sociali, consiste, dall’altro, anche in un
insieme di doveri e responsabilità nei confronti dello Stato. In una visione ideale più completa, il
cittadino si preoccupa del buon funzionamento delle istituzioni politiche; sente di doversi
impegnare in prima persona, assumendosi i doveri legati al suo specifico ruolo sociale.
Ma un cittadino che vive in aree culturalmente, socialmente, economicamente e ambientalmente
degradate, spesso non è neppure in grado di esercitare i suoi diritti civili e politici. E se l’esercizio
dei diritti fondamentali non è garantito, non è pensabile neppure l’assunzione di doveri e
responsabilità civiche.
Un cittadino “diminuito”, quindi, è un cittadino la cui partecipazione democratica è a rischio.
Una società florida, grazie ad un raggiunto equilibrio dei fattori economici, sociali ed ambientali è,
dunque, la precondizione perché il cittadino possa interessarsi al funzionamento delle istituzioni
pubbliche, rendendosi parte attiva nel piano della cosa pubblica.
Il passaggio logico successivo consiste nel notare come tutto ciò inauguri un vero e proprio
circolo virtuoso: se si superano condizioni economiche disagiate, scarse garanzie del welfare, se si
mantiene l’ambiente salubre, al riparo dai pericoli dell’inquinamento, il cittadino vive bene, è
predisposto all’esercizio dei propri doveri e partecipa. L’anello mancante sta nel constatare come la
partecipazione del cittadino è determinante ed essenziale per lo stesso successo degli obiettivi
propri delle politiche di sviluppo.
Questa idea partecipativa è suscettibile di applicazione particolarmente fertile proprio nel settore
delle funzioni pubbliche di pianificazione, ove il fine dell’ordinato sviluppo del territorio può
realizzarsi al meglio se i privati possono portare la loro conoscenza ed esperienza sulle specificità
locali. E ciò perché l’urbanistica tocca direttamente ed in misura sostanziale molte questioni, delle
quali il cittadino ha più immediata e diretta percezione.
In definitiva, la partecipazione dei cittadini può produrre una migliore consapevolezza
ambientale ed un uso più equilibrato del territorio e delle sue risorse. Ed il cerchio così si chiude.
E’ chiaro quindi il passo qualitativo da compiersi.
Già di per sé gli accordi urbanistici possono rappresentare una forma di partecipazione del
privato, tuttavia, qui possono prevalere con più facilità e frequenza interessi particolari ed egoistici
del singolo, sì da far venir meno gli effetti positivi della partecipazione democratica.
35
Ed allora, proprio per evitare il rischio di tali conseguenze distorsive, sarebbe auspicabile
introdurre negli accordi (e non solo) il rispetto di requisiti di carattere generale, come, appunto, il
coinvolgimento di tutta la cittadinanza. In questo modo la partecipazione si trasforma in verifica
preventiva da parte della popolazione.
L’urbanistica consensuale non può risolversi, in altre parole, nell’abbraccio del mercato con le
scelte assunte come pubbliche dall’amministrazione locale, ma richiede momenti di controllo sui
termini dello scambio, da parte della cittadinanza. Una legittima e lecita codeterminazione
pubblico-privata delle scelte urbanistiche è possibile solo se assume in sé il criterio del
procedimento altamente partecipato, non riconducibile alla mera fase delle osservazioni del piano
adottato, ma riferibile piuttosto ad istituti come referendum, udienze pubbliche ed inchieste
pubbliche.
Sarà, così, possibile verificare quali opere di urbanizzazione secondaria siano davvero
necessarie, corrispondendo a specifiche esigenze della comunità, ed al contempo quali obblighi, in
termini per lo più di volumi edificatori, invece, l’amministrazione si è disposta ad assumere. In tal
modo vengono soddisfatte anche esigenze di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa.
In una riflessione di più ampio respiro, allora, viene da dire che la L. 241 del 1990 – in
particolare a seguito delle modifiche apportate dalla L. 15 del 2005 – benché abbia sancito il
passaggio da una “cittadinanza politica” ad una “cittadinanza amministrativa”, costituisce uno
strumento di democrazia ancora da rafforzare.
L’esigenza avvertita è quella, innanzitutto, di una modifica dell’art. 13, al fine di enucleare una
disciplina generale della partecipazione anche per quanto riguarda i procedimenti amministrativi
diretti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione. Sarebbe auspicabile, inoltre, un ritorno alle previsioni sui c.d. procedimenti di
massa, elise tout court dal Consiglio di Stato in sede consultiva, e sottratti così dalle norme generali
previste dalla 241.
Con particolare riferimento, poi, al principio di consensualità, non sarebbe del tutto sconcertante
la riapertura di un dibattito sui c.d. accordi normativi tra P.A. e privato, «aventi ad oggetto
l’esercizio di potestà amministrativa e le corrispettive prestazioni di persone fisiche al fine di
raggiungere obiettivi di interesse pubblico», che non approdarono, al tempo, neppure alla stesura
finale del disegno di legge. Ed invece, proprio lo schema di questi moduli consensuali potrebbe
essere il più confacente alle ipotesi di codeterminazione pubblico-privata dei contenuti dei piani
urbanistici e territoriali.
Nessuna soluzione originale, dunque, ma un ritorno al disegno di legge prospettato dalla
Commissione Nigro, ed amputato dal Governo. Allora, probabilmente, i tempi non erano maturi.
Possono iniziare ad esserlo adesso.
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