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Indagine sul mito, «purga» a due
voci
Al LAC di Lugano una nuova, convincente prova di Carmelo Rifici, mentre al Teatro
San Materno di Ascona Tiziana Arnaboldi porta avanti il suo importante progetto di
danza
/ 28.11.2016
di Giorgio Thoeni
Poter disporre di un testo teatrale ricco di letture trasversali, frammentate e quasi cinematografiche
con frequenti cambi di registro e altro ancora, avere a disposizione dei bravi interpreti è una vera e
propria manna per un regista. Soprattutto quando il tutto rientra nella logica di un progetto
visionario sul mito in una dimensione drammaturgica ampia e moderna.
È il caso di Purgatorio dell’autore cileno Ariel Dorfman nella bella traduzione di Alessandra Serra,
un’opera che si allinea alla visione editoriale di Carmelo Rifici accanto alle prossime produzioni
stagionali di LuganoInScena, da Elektra con la regia di Andrea Novicov a Ifigenia diretta dallo stesso
Rifici. Dopo il recente debutto all’Arena del Sole di Bologna (è una coproduzione LAC e ERT),
Purgatorio è approdato a Lugano per due applauditissime serate sul palco principale del suo nuovo
polo culturale.
È un testo che racconta di indelebili ferite che riemergono nella memoria subliminale in un dialogo
incalzante, alla ricerca dell’identità perduta di Medea e Giasone: una sorta di indagine sugli
spaventosi assassinii della donna-madre-moglie. Una riscrittura complessa del mito che viene
ripercorso con passo deciso, inquisitorio, sospeso nel tempo, dove i ruoli dei sopravvissuti sono
confrontati a un incubo da cui «purgarsi»: in un tragico inconscio che muove i protagonisti a
riconoscersi ora in vittima ora in carnefice. Mentre le responsabilità di un orrendo delitto si celano
nella paura della diversità, nell’emarginazione, nella violenza, nell’impossibilità di una
riconciliazione.
Carmelo Rifici dirige con efficacia e mano ferma la prova di una superlativa Laura Marinoni in scena
con l’ottimo Danilo Negrelli. I due attori catturano la platea nel dinamico meccanismo di
ribaltamento, sottilmente psicoanalitico, in cui le soluzioni del regista trovano ideale complicità negli
strumenti da lui scelti per l’allestimento. Dal video di Roberto Mucchiut con i piccoli Edoardo Chiodi
e Michelangelo Colella (le vittime innocenti) ai «clin d’oeil» operistici con le musiche di Zeno
Gabaglio, dalle scene e i costumi di Annelisa Zaccheria al disegno luci di Matteo Crespi.
L’erba buona del San Materno
Il pregio del progetto messo in atto da Tiziana Arnaboldi per riposizionare il Teatro San Materno
nella geografia della danza contemporanea consiste in due percorsi. Il primo caratterizza il
cartellone con spettacoli che raccontano il dialogo fra le arti: confronti dall’esito costruttivo e
visionario in cui la coreografia trova ascolto negli ambiti più disparati. Il secondo, intrigante, è
quello della scoperta e della messa in valore di giovani talenti. In questo l’Arnaboldi ha trovato un
vivace bacino di novità sia nella sua compagnia di giovani sia attingendo ai neo diplomati di Verscio.
Un ulteriore dialogo proficuo, questa volta tra formazione e aspettative.
Prova ne è lo spettacolo La mauvaise herbe che Faustino Blanchut ha recentemente messo in scena
sul palcoscenico Bauhaus dopo un periodo residenziale nello storico teatro asconese. Una carriera
appena agli inizi quella di Faustino, che si è però già fatto notare in diverse occasioni, dalle
produzioni della Arnaboldi a Sogni di un’altra vita, l’open air estivo al Monte Verità. A dare il «la» è
stata la tesi-spettacolo con cui lo scorso anno l’artista ha conseguito, col massimo dei voti, il
Bachelor in Physical Theatre all’Accademia Dimitri, realizzando la trasposizione di Alamut. La
fortezza, romanzo dello scrittore sloveno Vladimir Bartol che racconta la storia siriana di Hasan Ibn
al-Sabbah (1034-1124), capo della setta ismaelita degli «Hashashins» (gli assassini).
La brillante prova di fine corso ha ricevuto premi dal Percento culturale per il «Concorso per giovani
talenti di teatro di movimento» e dal «TalenThesis» della SUPSI. Un robusto trampolino per lanciare
un promettente artista che abbiamo visto in scena accompagnato dal padre, Pierre Blanchut,
rinomato musicista specializzato in musica orientale, in uno spettacolo in cui all’universo creativo di
Faustino si sono affacciati temi complessi come la fede, il fanatismo, la manipolazione, il destino.
Temi intrisi di attualità e immaginati in una dimensione narrativa insolita, un giardino dove si
incontrano piante, insetti come metafora di umanità e riflessioni profonde, dove umorismo e
grottesco diventano parola e movimento per l’intelligente presenza scenica di Faustino Blanchut.
Affaire à suivre: è proprio il caso di dirlo.
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