FATTORI COMPORTAMENALI
NELLE SITUAZIONI DI PERICOLO E DI EVACUAZIONE
Autori
Luca Pietrantoni, Alberto Dionigi
Università degli Studi di Bologna
INTRODUZIONE
I media spesso riportano di disastri di varia entità e genere in cui il numero delle vittime è notevole,
soprattutto perché la maggioranza delle persone coinvolte non ha attuato una strategia di sopravvivenza
adeguata, oppure non lo ha fatto in tempo ottimale. Infatti, in una fase di immediata emergenza, il
tempo disponibile per produrre un risposta di qualsiasi tipo è spesso limitato, e sono pochi coloro in
grado di attuare un comportamento protettivo ed efficace. Se da una parte è noto che alcune variabili
strutturali (e non modificabili) quali genere, età ed abilità fisiche, sono maggiormente associate alla
possibilità di sopravvivenza (il numero di sopravvissuti è inferiore fra le donne, gli anziani, i bambini, i
disabili), resta tuttavia decisivo in tale situazioni il fattore psicologico (potenzialmente modificabile),
intendendo ad esempio con questo le modalità di pensiero, le reazioni emotive, le abilità
comportamentali. Potremmo dire “tutti sono potenziali vittime, non tutti sono potenziali
sopravvissuti”.
Un aspetto fondamentale per aumentare la quota di sopravvissuti in condizioni di emergenza è quello
di fornire informazioni, sia prima che durante la situazione di crisi. Fino a non molti anni fa, il “piano di
emergenza” era considerato uno strumento da prevedere esclusivamente per quelle attività che
presentavano un altissimo rischio, mentre dal 1994 il concetto generale di “piano di emergenza” ha
subìto una serie di evoluzioni, allargandone il campo di applicazione e contemplando nella sua
esposizione anche i compiti da ottemperare da parte del datore di lavoro, dello staff lavorativo e dai
soggetti interessati. In qualsiasi luogo pubblico è ora presente, in ogni stanza, una piantina
dell’edificio, in cui viene evidenziata la posizione in cui ci si trova e il percorso per giungere all’uscita di
emergenza più vicina; sono altresì presenti le azioni e le procedure comportamentali che le varie
persone devono attuare in situazione di pericolo.
Tuttavia gli studi hanno messo in evidenza una pluralità di fattori che regolano l’efficacia di una
evacuazione. Ne possiamo distinguere quattro: i fattori configurazionali, ambientali, procedurali e
comportamentali.
 I fattori configurazionali sono quelli riguardanti la struttura architettonica dell’edificio ( o del
mezzo– aereo, nave, ecc.) , quali il numero delle uscite di emergenza, la loro ripartizione, il
percorso per giungerci, ecc...
 Per fattori ambientali si includono i probabili effetti debilitanti sulle persone da parte di calore,
gas tossici, fiamme e l’influenza di questi fattori sulla velocità di sgombero e di individuazione
delle uscite (ad es. la ridotta visibilità);
 I fattori procedurali rappresentano le conoscenze apprese dalle persone attraverso la segnaletica
d’emergenza e le informazioni fornite dal personale preposto In questo caso, la chiarezza del
messaggio e la presenza di una leadership che impartisca direttive è fondamentale per la
sopravvivenza degli attori.
 I fattori comportamentali corrispondono alle diverse condotte tenute dalle persone in emergenza: le
loro risposte iniziali, le loro decisioni, le interazioni sociali, le relazioni fra i membri del gruppo.
Come si nota dalla figura, i quattro fattori interagiscono tra loro regolando l’efficacia di un’evacuazione:
I fattori configurazionali e ambientali sono tra loro interconnessi ed entrambi influenzano sia le
procedure che i comportamenti umani. Anche i fattori procedurali e quelli comportamentali sono tra
loro in interazione: una procedura può guidare l’esecuzione di una sequenza di azioni, ma anche alcuni
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comportamenti di un individuo potrebbero dare indicazioni sulle procedure da selezionare ed
eventualmente da modificare.
FIGURA 1.
I FATTORI CHE INFLUENZANO L’EVACUAZIONE
FATTORI
CONFIGURAZIONAL
I
FATTORI
COMPORTAMENTALI
FATTORI
AMBIENTALI
FATTORI
PROCEDURALI
La collocazione centrale dei fattori comportamentali rispecchia la loro importanza e rilevanza : infatti
anche in condizioni ottimali, quali un congruo numero di uscite di emergenze, ben evidenziate, senza
problemi di visibilità, un comportamento erroneo di un individuo o di un piccolo gruppo può rendere
vano anche le migliori progettazioni architettoniche.
I fattori comportamentali sono spesso trascurati ma decisivi ed è per questo saranno oggetto di questo
contributo. Gli ergonomi e gli ingegneri spesso danno per scontato che gli esseri umani si comportino
in modo proattivo e individualistico nelle situazioni di pericolo.
Una branca della psicologia dell’emergenza si occupa proprio di comprendere i processi decisionali e le
scelte comportamentali nelle situazioni di pericolo e di analizzare la complessa interazione tra mente,
mezzi e probabilità di sopravvivenza. Ciò ha rilevanti implicazioni operative poiché da questi studi
possono scaturire indicazioni volte ad aumentare i comportamenti di sicurezza e protezione.
I COMPORTAMENTI
EMERGENZA
E
LE
REAZIONI
UMANE
NELLE
SITUAZIONI
DI
Poiché una situazione di emergenza non riguarda mai un singolo individuo bensì un numero cospicuo
di persone, sono stati svolti diversi studi per capire come queste si comportino per sopravvivere ad
una minaccia. Testimonianze di superstiti, “case study” e ricerche su campo in simulazioni hanno
evidenziato la forte eterogeneità delle risposte individuali. Secondo Leach (2004) nelle situazioni di
pericolo, la risposta degli individui può essere classificata in tre grandi gruppi.
Il primo gruppo, che comprende il 10-15% di persone coinvolte in disastri, rimane relativamente calmo.
Queste persone sono capaci di organizzare i pensieri rapidamente, mantenere intatta la consapevolezza
delle situazioni e le capacità di giudizio e ragionamento, sono capaci di valutare la situazione, fare un
piano di azione e metterlo in pratica.
Il secondo gruppo, composto da circa il 75% di persone, comprende coloro che rispondono in maniera
sconcertata e confusa, mostrando un ragionamento compromesso e un rallentamento del pensiero. Il
loro comportamento è guidato da processi quasi automatici.
Il terzo e ultimo gruppo (10-15%) tende a mostrare un alto grado di comportamenti controproducenti
che aumentano il rischio di morte, come quello del pianto incontrollato, di confusione globale, urla e
ansia paralizzante.
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È in queste due ultime categorie di comportamenti che troviamo il maggior numero di vittime. È da
notare che i tratti di personalità di ciascuno sono scarsamente predittive delle risposte in tali
condizioni: persone solitamente molto decise e razionali potrebbero comportarsi in questi scenari
anomali in modo confuso e disorganizzato.
Più in specifico, è emerso che le reazioni e i comportamenti nelle situazioni di pericolo possono essere
le più disparate. Ne possiamo identificare nove che includono stati emotivi, cognitivi e fisiologici:
1. Comportamenti ansiosi: le persone sono in preda all’ansia, urlano, piangono e diventano
incapaci anche di azioni semplici come aprire una porta;
2. Comportamenti di fuga disorganizzata: le persone tendono a correre, fuggendo in qualsiasi
direzione, anche se non è quella giusta;
3. Comportamenti di coesione sociale: le persone si riuniscono fra loro e si “sentono un
gruppo” (es., “sulla stessa barca”);
4. Attaccamento ai beni familiari: le persone prima di evacuare cercano di recuperare gli oggetti
personali che hanno un valore economico ed affettivo;
5. Comportamenti altruistici: le persone tendono ad aiutare altre persone in difficoltà,
esponendosi loro stessi ad un pericolo vitale;
6. Comportamenti di “congelamento”: alcune persone rimangono cognitivamente paralizzate e
incapaci a muoversi;
7. Comportamenti di panico: si tratta di comportamenti distruttivi, irrazionali e asociali quali il
lottare con altre persone.
8. Disorientamento situazionale: le persone percepiscono uno stato di incredulità e di
astrazione della situazione;
9. Disorientamento fisiologico: nella situazione di scarsa visibilità (es., causata dal fumo
scaturito dall’incendio) le persone faticano a trovare le vie d’uscita e si intossicano con i gas
inspirati;
In una prospettiva stadiale, Dyregrov, Solomon e Bassoe (2000) hanno descritto ciò che loro chiamano
un “sistema di mobilitazione delle risorse mentali” per assicurare la sopravvivenza nelle situazioni di
pericolo. Parallelamente all’attivazione fisiologica la mente cerca rapidamente le informazioni
immagazzinate per prendere delle decisioni sulle azioni da svolgere. Questo processo può essere
suddiviso in sei fasi specifiche ognuna con una proprie peculiarità (vedi Figura 2). Nella prima fase, si
comprende di esser in pericolo e si è spaventati dalla situazione. Poi ci si rende conto di essere
vulnerabili; si può essere sopraffatti dal panico e sentirsi estremamente deboli. Nella fase terza, si
capisce che per riuscire a sopravvivere bisogna agire; si passa da un focus interno di vulnerabilità e uno
esterno di pericolo. In una fase successiva, il pericolo è visto come un problema da risolvere, tenendo
conto delle proprie abilità per fronteggiarlo; consapevolmente o istintivamente si elabora un piano di
azione pronto per essere attuato; si diventa più calmi e controllati. Nella fase quinta, è il momento
dell’azione, in cui si mette in atto ciò che consapevolmente o istintivamente è stato progettato; la mente
è chiara e focalizzata sul compito e, in tal modo, esprime fiducia e controllo. Infine, una volta scampati
al pericolo, si torna con la mente alla situazione tragica a cui si è sopravvissuti; le persone che
rimangono per lungo tempo in questa fase potrebbero avere problemi successivi di equilibrio
psicologico (i cosiddetti “pensieri intrusivi” e lo sviluppo del Disturbo Acuto da Stress e il Disturbo da
Stress Post-traumatico). È da tenere presente che durante una situazione di emergenza le persone
possono rimanere bloccate in una di queste fasi specifiche, oppure continuare a slittare avanti e indietro
ripetutamente fra due o più di esse.
Per capire meglio le varie fasi può essere utile un esempio. Marco è nella sala da pranzo dell’hotel in cui
alloggia. Ad un certo punto nota i cuochi scappare dalla cucina urlando “Via! Via! Ha preso fuoco la
cucina!” (1). Marco, dopo un attimo di perplessità essendosi reso conto del rischio personale (2),
comincia a scappare, insieme a tutte le altre persone presenti (3,4,5). Ad un certo punto si accorge della
presenza di un corpo a terra; è una lavapiatti rimasta ferita nell’esplosione delle bombole di gas: tutti le
sono passati vicino, ma nessuno ha fatto nulla per aiutarla. Ora Marco torna a prestarle soccorso:
cercando di portarla via a peso ma una fiammata investe i due (2). Luca pensa ora solo alla propria
3
incolumità, lascia la donna e comincia a fuggire (4, 5). Non presta più attenzione alla donna, pensa solo
a mettersi in salvo. Quando sente le urla di dolore della donna pensa che anch’egli poteva trovarsi nella
medesima situazione. Ora Marco, sgomento in un angolo, pensa al rischio che ha appena passato (6).
FIGURA 2.
MOBILITAZIONE DELLE RISORSE MENTALI NELLE SITUAZIONI DI PERICOLO
(ESEMPIO DI MARCO)
1.
Percezione del
pericolo
imminente
2.
Vulnerabilità
personale
3.
Focalizzazione sul
pericolo esterno
4.
Pianificazione di
un’azione
5.
Azione
(automatica o
consapevole)
6.
Rievocazione
del pericolo
“FIGHT” , “FLIGHT” O “FREEZE” ?
Dalle testimonianze dei sopravvissuti e dalle documentazioni delle situazioni di emergenza passate si è
appreso che molto spesso il numero dei morti è stato considerevolmente maggiore di quello atteso se
fossero state prese iniziative per la fuga. Tale conseguenza non è ascrivibile a caratteristiche
architettoniche degli edifici, bensì a fattori puramente comportamentali. Perché allora un numero così
elevato di vittime?
4
I modelli teorici classici hanno messo in evidenza che, di fronte alle minaccia di vita, gli esseri umani (e
gli animali) affrontano la situazione attraverso due tipi di azioni: il fronteggiamento o l’evitamento, un
binomio definito “combatto o fuggi” (“fight or flight”). Dalle più recenti indagini è emerso che in
realtà, i processi cognitivi ed emotivi che seguono la percezione di un pericolo, possono essere spiegati
in una visione non solo dualistica: secondo Leach (2004), ci sarebbe una terza possibilità: il fenomeno
che egli ha definito “freezing”, riferendosi con esso al totale o parziale congelamento dei movimenti da
parte della persona in pericolo, dovuto ad un meccanismo di difesa attuato dal cervello in condizioni
estreme. Non sono, infatti, infrequenti nell’esperienza dei soccorritori i casi in cui hanno cercato di
aiutare alcune persone guidandoli fuori dalla situazione di pericolo, urlando loro di muoversi e fuggire
ma questi non hanno reagito e sono stati immobili.
Leach (2005) spiega che la risposta del “freezing” e l’iniziale paralisi cognitiva in condizioni di minaccia
è generata da una disfunzione del Sistema Attenzionale di Supervisione (SAS) - un meccanismo
cognitivo che interviene quando la selezione di routine d’azione non è sufficiente: ad esempio, quando i
compiti richiedono una presa di decisione e una pianificazione, o quando si tratta di adattarsi ad una
situazione pericolosa o nuova (una situazione di emergenza, appunto).
I comportamenti di “freezing” potrebbero tuttavia rappresentare risposte ancestrali che in altri scenari
sarebbero state adattive. In una prospettiva etologica, il congelamento dei movimenti sarebbe un
automatismo che aumenta le probabilità di sopravvivenza in caso di attacco; questa reazione è, infatti,
tipica degli animali i quali si fingono morti per evitare di essere sbranati dai predatori, che solitamente
non divorano le carogne.
Tra i professionisti che operano in scenari a rischio (es., militari, vigili del fuoco), le esercitazioni e le
simulazioni sono importanti in quanto consentono di produrre schemi comportamentali automatici per
prevenire la paralisi cognitiva. Prendiamo l’esempio di un pilota di un elicottero che precipita in mare
aperto. Se non esiste nessun comportamento pre-appreso, e il SAS è incapace di generarne uno nuovo,
allora si potrà avere l’elicitazione di risposte inappropriate, con comportamenti irrazionali e stereotipati,
oppure il risultato sarà di non ottenere alcuna risposta e la conseguente paralisi cognitiva. Una
precedente esperienza di training ( in questo caso il corso “underwater escape” in cui si impara come
riuscire ad emergere dalla cabina immersa nell’acqua) risulterà decisiva: il pilota attuerà la risposta di
salvataggio in maniera corretta e automatica, bypassando il percorso SAS.
Altre teorizzazioni in ambito psicologico hanno tentato di spiegare i comportamenti “ipo-attivi”, i
ritardi e rallentamenti delle persone e dei gruppi durante una situazione di pericolo. Da una parte le
persone tenderebbero a considerare i segnali di pericolo dati da una iniziale situazione di emergenza
come una normale variabile della routine quotidiana. E’ il cosiddetto “normalcy bias” (distorsione di
normalità): gli indicatori o avvertimenti iniziali di un pericolo sono trascurati o assimilati ad esperienze
normali; in questa fase iniziale, le persone interpretano malamente i segni di pericolo e rispondono
continuando le attività routinarie.
Dall’altra, ambiguità e pluralità di messaggi spesso ritardano sul comportamento di evacuazione.
Risultati sperimentali hanno dimostrato che informazioni ambigue o eccessive circa un rischio o
pericolo favoriscono la suggestionabilità nella folla, in tal modo si accorcia il tempo per realizzare nuove
opinioni ma si dilata quello per prendere decisioni.
La presa di decisione in gruppo può essere poi costosa in termini di tempo. In gruppo grande ci sono
maggiori variazioni e una maggioranza di opinioni e quindi di strategie possibilmente attuabili. I gruppi,
variano nella quantità di risorse attivabili da essi: paradossalmente, maggiori sono le risorse attuabili dal
gruppo, sarà necessario un maggior tempo per decidere quali utilizzare.
NON SOLO PANICO
La spiegazione del termine “panico” ha subito diverse modificazioni nel corso degli anni: un’obsoleta
concezione di panico assumeva che le persone in situazioni d’emergenza perdessero la loro umanità e
si trasformassero in animali in preda alla paura. Negli anni ‘50 Quarantelli (1957) ha proposto la
concettualizzazione di panico come un comportamento a-sociale: le persone non si trasformano in
5
animali, bensì cercano di soddisfare i propri bisogni, non prestando interesse a quelli delle altre persone.
Questa idea è stata poi rivista negli ’80 e ’90 quando viene teorizzato che le persone in preda al panico,
non si trasformano in animali e non abbandonano i loro impegni ad altri ma continuino a rimanere
anche in situazioni di estremo pericolo degli attori sociali in un contesto sociale, spesso legati a figure
sociali importanti per le quali possono rischiare la propria vita.
Inoltre, fino a poco tempo fa una folla in fuga veniva considerata come un liquido in uscita da un
contenitore, che sfruttava ugualmente tutte le aperture per evadere. Quindi maggiore è il numero
delle uscite più velocemente il “contenitore” veniva vuotato. Ma questo modello “idraulico” non
funziona: oltre all’ingegneria, bisogna includere conoscenze che derivano dallo studio dei
comportamenti umani in psicologia e nelle scienze sociali. La folla è fatta di persone che non si
comportano nello stesso modo. La folla non è un fluido ma è fatta persone che pensano,
interagiscono, prendono decisioni, hanno preferenze di movimento, cadono e ostacolano altri. Le
persone possono avere comportamenti gregari o individualistici nella ricerca di un uscita.
Pensiamo ad una situazione familiare, come l’uscita da una sala cinematografica o da un teatro,
attraverso le uscite di emergenza: anche in una situazione di normalità, quindi senza la presenza di
eventi critici, il deflusso risulta notevolmente influenzato delle differenze nei comportamenti individuali
e delle modalità di interazione tra le persone. Immaginiamo ora la stessa situazione, che durante
un’evacuazione di emergenza: a questi fattori viene aggiunto anche quello di “arousal emotivo”.
Gli studi sui comportamenti collettivi nelle situazioni di evacuazione hanno messo in evidenza che
le persone si muovono o tentano di muoversi più velocemente del normale, iniziano a spingersi e
l’interazione diventa solo fisica, in tal modo il passaggio per il collo di bottiglia diventa scoordinato
e alle uscite si formano strutture ad arco. Per tale ragione si può verificare un effetto chiamato
“faster is slower”: più le persone si dirigono velocemente verso l’uscita, più vanno lente perché
accalcandosi e spingendosi, a volte perfino calpestandosi. In aggiunta, la fuga può essere
maggiormente rallentata dalle persone che cadono o che si feriscono (che diventano a tutti gli effetti
nuovi ostacoli). In alcuni casi, l’interazione fisica può causare una pressione pericolosa capace di
sfondare barriere o muri. Come si può vedere in figura 3, nell’evacuazione da una stanza con due
uscite e una minaccia alle spalle ( fuoco) vi può essere una tendenza a comportamenti gregari e a
fare ciò che fanno gli altri: in tal modo le uscite alternative possono essere trascurate o non usate in
modo efficiente.
FIGURA 3.
COMPORTAMENTI GREGARI E SOTTOUTILIZZO DELLE DUE USCITE DI SICUREZZA IN
CASO DI INCENDIO
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Lo studio dei fattori psicosociali sul comportamento di evacuazione ha comprovato che le
manifestazioni di panico sono relativamente rare. Secondo Mileti e Peek (2005) dell’Università del
Colorado, affinché si produca il fenomeno di panico è necessario che si verifichino 4 condizioni:
1. Le persone devono trovarsi in uno spazio confinato, come una sala cinematografica.
2. Le persone devono avere la convinzione che se non fuggono in un tempo breve, moriranno.
3. Questo spazio confinato deve essere dotato di una o più vie di fuga (ad es., in un sottomarino
intrappolato sul fondo di un oceano, le persone possono provare angoscia e paura ma non
panico)
4. Deve essere chiaro il fatto che non ci sia abbastanza tempo per tutti di scappare
Solo quando si verificano tutti questi 4 fattori, si avranno fenomeni di panico.
In conclusione, le persone non sono “isolate” ma intraprendono azioni auto-protettive o altruistiche
inserite in un contesto socio-ambientale che incoraggia o scoraggia una determinata sequenza
comportamentale. L’espressione inglese “milling” (girovagare come un mulino) indica l’interazione
sociale nelle prime fasi di allarme. Gli individui verificano e cercano una conferma con le altre persone
(amici, colleghi, familiari) della gravità del messaggio o dell’ avvertimento che hanno ricevuto; solo
quando la rete sociale conferma la validità dell’avviso, iniziano a eseguire azioni protettive. Basti pensare
a come reagiremmo se sentissimo l’allarme antincendio mentre siamo nel nostro ufficio: prima di tutto
inizieremmo a girare chiedendo ai colleghi cosa pensano di fare o aspetteremmo il nostro capo che ci
confermi il pericolo e ci dica di lasciare l’edificio. Secondo gli studi del NIST (National Institute of
Standards and Technology) che ha ricostruito il comportamento di evacuazione dalle Twin Towers l’11
Settembre 2001, è stato stimato che il 70% delle persone nel WTC che sopravissero a quel disastro,
prima di fuggire, parlarono fra loro sul da farsi e sul cosa stesse succedendo.
In questa prospettiva, occorre tenere presente vari fattori in un gruppo di persone coinvolte in un
incidente il tipo di caratteristiche dei membri (quali l’età, agilità, genere,presenza di disabili o feriti), la
densità del gruppo ( caratteristiche delle persone come la loro corporatura, che quelle architettoniche
della stanza in cui ci si trova), le relazioni tra i membri del gruppo ( la concezione di status, di ruolo, di
leadership e altri puramente culturali come il linguaggio, le tradizioni, le norme) e il contesto il cui
avviene l’emergenza.
Le persone e i gruppi non sono in preda a pura istintualità o al contrario governate da perfetta
razionalità, che non sono sole e non sono neanche una massa uniforme. Non bisogna quindi
dimenticare che gli individui coinvolti in situazioni di emergenza di qualsiasi tipo, possono essere
protagonisti efficaci, possono diventare cooperativi e mostrare capacità di leadership spontanea e si
possono attivare sentimenti di solidarietà sociale ed azioni di mutua assistenza come esito di un
processo intenzionale di altruismo ad altre persone.
Bibliografia
DYREGROV A., SOLOMON R., BASSOE F.C. (2000), MENTAL MOBILIZATION PROCESSES IN CRITICAL
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LEACH J. (2004), WHY PEOPLE “FREEZE” IN A EMERGENCY: TEMPORAL AND COGNITIVE CONSTRAINTS ON
SURVIVAL RESPONSES. “AVIATION, SPACE AND ENVIRONMENTAL MEDICINE”, 75, 539-542.
LEACH J. (2005), COGNITIVE PARALYSIS IN A EMERGENCY: THE ROLE OF THE SUPERVISORY ATTENTIONAL
SYSTEM, “AVIATION, SPACE AND ENVIRONMENTAL MEDICINE”, 76, 134-136.
MILETI, D. S. E PEEK L. (2005) “THE SOCIAL CONSTRUCTION OF SAFETY: CONSIDERING
THE IMPORTANCE OF COMMUNICATING RISK INFORMATION.” VOLUME ON EARTHQUAKE DISASTERS,
EDITED BY E. ROVAI AND C. M. RODRIGUE. NEW YORK: ROUTLEDGE.
QUARANTELLI E (1957) THE BEHAVIOR OF PANIC PARTICIPANTS. SOCIOLOGY AND SOCIAL RESEARCH
41: 187-194.
A CURA Di
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Luca Pietrantoni ([email protected]) è Ricercatore dell’Università di Bologna dove si occupa
di comportamenti umani nelle situazioni difficili e degli aspetti psicologici negli operatori delle
emergenze. È docente di Psicologia dell’emergenza e degli eventi critici presso la Facoltà di Psicologia.
Alberto Dionigi ([email protected]) è Dottore in psicologia clinica e di comunità, laureato
presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Bologna. Si occupa di fattori di psicologia
dell’emergenza.
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