Italo Svevo 1 Due contributi critici 1. La cultura e l’opera letteraria di Italo Svevo Svevo appartiene a un ambiente culturale molto caratteristico, quello della Trieste di fine Ottocento e dei primi decenni di questo secolo. Egli condivide con gli scrittori triestini suoi contemporanei l'eterogeneità di culture (di origine ebrea, riceve una formazione in parte tedesca e in parte italiana), e la vivacità degli interessi filosofici e scientifici (hanno influenza su di lui: la filosofia di Schopenhauer; l'evoluzionismo di Darwin; soprattutto, negli ultimi vent'anni della sua vita, la psicoanalisi). La personalità di Svevo come letterato presenta però aspetti spiccatamente originali, irriducibili a qualsiasi caratterizzazione d'ambiente. Innanzi tutto, egli è costretto a esercitare la letteratura come attività secondaria, distinta dal suo effettivo lavoro (è dapprima impiegato in banca, poi nella fabbrica di vernici del suocero), e pubblica le sue opere sotto pseudonimo (il suo vero nome era Ettore Schmitz). In secondo luogo, e in parte grazie a questa forzata marginalità, Svevo sviluppa una visione personale del mestiere di scrittore, tale da mantenerlo in una posizione di distanza rispetto ai dibattiti ideologici e letterari dell'epoca. L'aspetto più caratteristico della figura di Svevo è il suo particolare rapporto con la scrittura, che è insieme di diffidenza e di intensa partecipazione, di compromissione («non sono colui che visse, ma colui che descrisse», egli fa dichiarare al protagonista del suo maggior romanzo, La coscienza di Zeno) e di conflitto. Alcuni critici hanno periodizzato questa complessità di rapporti distinguendo tre fasi nell'attività letteraria di Svevo. Vi sarebbe un primo Svevo, che utilizza forme relativamente tradizionali di narrazione, ha effettive ambizioni letterarie, e concepisce la scrittura come un mezzo per ricomporre i conflitti vissuti (è la fase dei romanzi Una vita e Senilità, e di altre prove narrative e teatrali); un secondo Svevo, ormai cinicamente distaccato nei confronti della letteratura e tendente alla sperimentazione, ad utilizzare la scrittura stessa come materia narrativa (è il periodo della Coscienza di Zeno); un terzo Svevo, che ritrova la fiducia nella letteratura, ma che è ormai incontenibilmente incline alla frammentarietà e al non finito. Ma in ciascuna delle tre «fasi» così distinte domina il problema della soggettività: scopo principale della scrittura per Svevo continua a essere l'approfondimento e l'esteriorizzazione dei vissuti di coscienza. Possiamo verificare questa tendenza esaminando i tre romanzi da lui portati a compimento: Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno. Le vicende di cui trattano si svolgono quasi interamente nella vita interiore dei rispettivi protagonisti. Nei primi due romanzi, la struttura è ancora formalmente assimilabile alla tradizione del naturalismo, anche se l'introspezione psicologica operata da Svevo sui protagonisti pone entrambi i romanzi al di fuori di quella tradizione. Emerge una visione della coscienza caratterizzata dalla dissociazione tra soggetto in stato contemplativo e soggetto vivente; entrambi i protagonisti infatti si rivelano incapaci di lottare, rinunciatari, pessimisti, e in alcuni casi vili; entrambi hanno ambizioni letterarie, e per entrambi la letteratura costituisce una forma di compensazione all'inettitudine che li affligge. Ma è nella Coscienza di Zeno, e in parte grazie all'incontro con la psicoanalisi, che egli giunge ad approfondire la propria visione della soggettività, e a trasformare la dissociazione tra scrittura e vita, tra contemplazione e azione, in struttura narrativa. La situazione di partenza (il protagonista che racconta il proprio passato, spinto dalla richiesta del dottor S., che impone questo esercizio come pratica preparatoria alle sedute psicoanalitiche) già introduce una complessità strutturale che era estranea ai romanzi precedenti. L’impostazione naturalistica è qui dissolta dalla stessa natura della vicenda, che pur poggiando apparentemente su un unico personaggio, in realtà sin dall’inizio ne implica lo sdoppiamento (è il dottor S. l’effettivo protagonista, dal momento che guida e impone le confessioni a Zeno? oppure Zeno stesso, il quale può liberamente mentire al dottor S.?). In ciò Svevo conduce a un alto livello di sperimentazione artistica l'esperienza della crisi della soggettività vissuta dagli scrittori suoi contemporanei, e al tempo stesso rivela la propria appartenenza al gusto e alle tendenze della modernità. In virtù di questo meccanismo strutturale del tutto nuovo, La coscienza di Zeno è stata oggetto di letture e interpretazioni molto diverse. Possiamo esaminarne le più esemplari inquadrandole in quattro spunti problematici offerti dal romanzo: l'identità del protagonista-narratore; la tematica del rapporto tra malattia e salute 1 Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (Trieste 1861 – Motta di Livenza, Treviso, 1928). mentale; le particolari tecniche narrative adottate da Svevo; le due possibili letture del romanzo, che può essere visto come un'autobiografia, o come un romanzo analitico. Circa la caratterizzazione del personaggio di Zeno, possiamo riferirci al ritratto che di lui diede Svevo stesso, in uno scritto del 1928: lo contraddistingue una fatale inconsistenza della volontà, non dissimile da quella sofferta dai due protagonisti di Una vita e di Senilità; ma qui il fallimento è assunto in forma pienamente consapevole, e con una lucidità che supera ormai del tutto la tragedia per attestarsi sulla comicità e sull'ironia. La scissione tra volere e potere, «l'inettitudine consapevole» tematizzata da Svevo stesso, è in senso proprio la malattia di Zeno, il motivo per cui egli si sottopone all'analisi, e il motivo per cui scrive. Si tratta di un'assenza di certezze, tale da far sì che i desideri del protagonista, incerti sin dalla loro prima formulazione, non trovino la forza necessaria per conseguire una qualsiasi realizzazione. Di fronte a questa radicale «inettitudine» la moglie di Zeno, Augusta, che crede in Dio ed è guidata da una tranquilla e persuasa sicurezza circa il senso e la congruenza del reale, figura come un sorprendente caso di integrità psichica. Ma l'ipotesi di vita autentica, sana, naturale, ventilata nel personaggio della moglie di Zeno nasconde in realtà il «congelamento» e la repressione operati dalla moralità borghese: anche l'eventualità della salute psichica è dunque solo il risultato di una profonda falsificazione e di un autoinganno. Quanto alla tecnica narrativa adottata nel romanzo, occorre ricordare alcuni dati principali: il distacco ironico o umoristico, che accentua il sospetto di falsificazione, di non-verità, degli argomenti narrati; la narrazione in prima persona, per la quale non si può propriamente parlare di «monologo interiore», dal momento che la riflessione di Zeno muove già segnata da una destinazione esterna, ovvero in funzione della lettura che di essa farà il dottor S.; la perturbazione del tempo, che nelle parole di Zeno non è rievocato (come avveniva nella Recherche proustiana, cui il romanzo è stato spesso assimilato), ma piuttosto dissolto e assorbito dal presente. In ultimo, il ruolo della psicoanalisi nel romanzo ha dato luogo a numerose discussioni critiche, e, soprattutto, ha generato una fondamentale divergenza di letture. La coscienza di Zeno è in apparenza un'opera appartenente al genere codificato dell'autobiografia; ha però anche la forma e la natura di un caso clinico, di una di quelle narrazioni che punteggiano e argomentano i libri di psicoanalisi. A seconda che si dia risalto al primo o al secondo aspetto, l'interpretazione del romanzo muta, e assumono rilievo diversi elementi: nel primo caso ha maggiore importanza l'autoritratto che Zeno disegna di sé; nel secondo, il livello «metatestuale» della situazione psicoanalitica; nel primo caso il contenuto delle vicende narrate è la vita di Zeno; nel secondo, la sua malattia. Secondo Mario Lavagetto, uno dei critici che hanno più approfonditamente studiato i debiti contratti da Svevo nei confronti della psicoanalisi, La coscienza di Zeno è il frutto dell'inganno intentato da un paziente bugiardo (Zeno stesso) ai danni dello psicoanalista. Ma la versione falsa della propria storia fornita da Zeno «incespica», le contraddizioni si moltiplicano, e l'inganno fallisce: ciò significa che il «se stesso» di cui Zeno racconta si ribella al proprio narratore, e ne svela le segrete intenzioni di autogiustificazione e occultamento. da Remo Ceserani e Lidia De Federicis, Il materiale e l’immaginario, vol. V La società industriale avanzata, ed. Loescher, 1986 2. La coscienza di Zeno La coscienza di Zeno e la scoperta di Svevo. Pochi mesi dopo la fine della guerra (intorno al febbraio 1919), Svevo cominciò a lavorare al nuovo romanzo La coscienza di Zeno, che terminò, tra varie interruzioni dovute soprattutto a viaggi, prima della fine del 1922. Anche questo nuovo romanzo fu accolto all'inizio da una quasi totale indifferenza; fu essenziale l'intervento di James Joyce, che invitò Svevo a inviarne una copia ad alcuni critici e scrittori come Valéry Larbaud (1881-1957), Benjamin Crémieux (1888-1944), Thomas S. Eliot (1888-1965), Ford Madox Ford (1873-1939); e nel gennaio 1925 Svevo riceveva una lettera di elogio di Larbaud, che si impegnava per la diffusione francese del romanzo. Attraverso vari incontri e progetti, si arrivò casi al fascicolo della rivista «Le Navire d'argent» del febbraio 1926, che ospitava un saggio di Crémieux su Svevo e traduzioni del primo capitolo della Coscienza di Zeno e di passi di Senilità, e all'uscita, nel 1927, di una traduzione francese di Zeno, presso l'editore Gallimard. Ma intanto la «scoperta» di Svevo si era svolta per strada autonoma anche in Italia, grazie alla curiosità e all'intelligenza del giovane Eugenio Montale, che pubblicò sull'ultimo fascicolo del 1925 della rivista «L'esame» un Omaggio a ltalo Svevo. Alla fine di febbraio 1926 Svevo incontrò Montale a Milano, legandosi a lui con sincera amicizia. Sulla spinta dell'articolo montaliano, la conoscenza di Svevo si diffuse presso la più intelligente e moderna cultura italiana del tempo: quelli che meglio riconobbero e sentirono vicino l'orizzonte della narrativa sveviana furono gli scrittori legati alla rivista «Solaria», su cui apparve il racconto Una burla riuscita nel febbraio 1928 (nello stesso periodo in cui Svevo fece una visita a Firenze agli amici solariani) e che alla morte dell' autore gli dedicò un intero fascicolo. La struttura del romanzo. La coscienza di Zeno, a differenza dei due romanzi precedenti, si svolge in prima persona: esso non si presenta come narrazione di una vicenda particolare, ma come un'autobiografia aperta, in cui non si segue un disegno organico, ma si aprono squarci su diverse situazioni e occasioni della vita del protagonista. Si tratta di un personaggio fittizio, Zeno Cosìni, che non coincide direttamente con l'autore (anche se ne riproduce qualche carattere): è un ricco triestino che, per liberarsi da una nevrosi che si manifesta nei rapporti con se stesso e con gli altri, e che si riconosce innanzitutto nell'impossibilità di liberarsi dal vizio del fumo e nel continuo fallimento dei propositi di fumare 1'«ultima sigaretta», si è sottoposto, ormai in età abbastanza avanzata, a una cura psicoanalitica e ha ricevuto dal dottor S. l'incarico di ripercorrere per iscritto il proprio passato, in funzione della cura. Ma questa ricostruzione del passato si compie per salti, in maniera non organica, senza un punto di vista risolutivo che riesca a spiegarlo e a interpretarlo; si interrompe a un certo punto, come interrotta risulta la cura psicoanalitica, per l'insofferenza del paziente nei confronti del medico e del suo metodo. Svevo finge che l'iniziativa di pubblicare il romanzo si debba allo stesso dottor S., che intende così vendicarsi del tiro giocatogli dal «malato», il quale, grazie a un'interpretazione adeguata di quelle memorie, avrebbe potuto avvicinarsi alla guarigione. Il testo si compone di otto capitoli di diversa misura: due brevissimi all'inizio, una Prefazione, in cui il dottore presenta la sua decisione di pubblicare quelle memorie, e un Preambolo, in cui lo stesso Zeno ritorna al periodo della sua infanzia e afferma l'impossibilità di recuperarla; seguono poi due capitoli di media misura, Il fumo, dedicato agli infiniti artifici e sotterfugi che il personaggio mette in atto per evitare di abbandonare le sigarette, e La morte di mio padre, che risale indietro alla sua giovinezza, alla difficoltà dei rapporti col padre e a un gesto di questi, in punto di morte, che viene visto come una «punizione» nei suoi confronti. Vengono poi capitoli molto ampi: La storia del mio matrimonio, incentrato sulle vicende che hanno portato Zeno a frequentare la famiglia Malfenti e le quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta, Anna; sul suo amore per la bellissima Ada, dalla quale ripiega verso Alberta, finendo dirottato, quasi automaticamente e senza nemmeno rendersene conto, verso la meno affascinante Augusta, che però si rivela come la moglie ideale, dotata di quella concretezza borghese e di quella «salute» di cui egli soffre la mancanza; La moglie e l'amante, in cui Zeno, marito felice, ripercorre le tappe del rapporto clandestino, segreto e tortuoso, che lo lega a Carla, una giovane donna di origine popolare, che aspira a divenire cantante, rapporto che egli vive con senso di colpa e nel continuo desiderio di troncarlo; Storia di un'associazione commerciale, che segue le difficoltà di Zeno nel mondo degli affari, e illumina il complicato rapporto che egli intrattiene con il marito di Ada, Guido Speier, la cui abilità e la cui apparente fortuna è come ribaltata da un fallimento che lo porta al suicidio. Più breve è l'ultimo capitolo, Psico-analisi, in cui si abbandona la narrazione del passato (che riguardava grosso modo il mondo triestino degli anni Novanta del secolo precedente), dando spazio a una forma di scrittura diaristica, con tre brani datati tra il maggio 1915 e il marzo 1916: qui il protagonista annuncia la sua decisione di abbandonare la cura, svolge varie critiche alla psicoanalisi, parla della sua improvvisa scoperta della realtà della guerra, sostiene di essere guarito dalla malattia grazie a una serie di successi commerciali, ottenuti proprio per effetto della situazione bellica. Con questo diario finale il romanzo si conclude quasi uscendo da se stesso e smentendosi, spezzando il proprio percorso narrativo, che del resto nei precedenti capitoli si era sviluppato in modo obliquo, con continue fratture e riprese. Il personaggio di Zeno. Tutto il discorso di Zeno si sviluppa in un'oscillazione continua tra malattia e salute, tra narrazione e riflessione, tra coscienza e inganno, tra bisogno degli altri e difficoltà di instaurare con loro un rapporto, tra desiderio e aridità sentimentale. Zeno è alla ricerca di un equilibrio che gli sfugge continuamente e che egli stesso sa di non poter conquistare. Egli è trascinato da una forza che lo costringe a compiere tortuosi percorsi: giunge così al matrimonio con Augusta dopo aver cercato di conquistare Ada e Alberta, ha bisogno della moglie per amare l'amante e dell'amante per amare la moglie, vive il suo rapporto con Guido come riflesso ambiguo del rapporto impossibile con Ada, ecc. Eternamente irresoluto, ha bisogno, per ogni azione e per ogni decisione, di riferimenti e di stimoli esterni: e in ciò somiglia ai due protagonisti dei precedenti romanzi di Svevo, da cui però lo allontana un distacco umoristico da se stesso, dalle proprie vicende, dallo stesso mondo che gli sta attorno; invischiato nella sua psicologia quanto mai varia, eterogenea, confusa e frantumata, Zeno ne segue tutte le pieghe, con una volontà di scavarla fino in fondo, ma nello stesso tempo impegnato a sfuggirvi, ad affermarne la futilità, a trasformarla in gesti e scatti di amabile e disinvolta leggerezza. Egli è del tutto immerso in un mondo borghese, di cui il suo racconto ci presenta concretissime forme e figure, personaggi chiusi in valori sicuri, in certezze quotidiane, in abitudini e regole di vita: ma in quel mondo egli si sente a disagio, in uno stato di perpetua inferiorità, che gli impedisce sempre di comportarsi come si dovrebbe, di fare le mosse giuste, di commisurare sforzi e risultati. Questa inferiorità sembra derivare da due opposte motivazioni: da una parte la sua disponibilità ai richiami del desiderio, a immagini e promesse inafferrabili di felicità, ai profumi e alle seduzioni della bellezza (in primo luogo quella femminile), dall'altra il suo eccesso di «coscienza», l'ostinazione con cui egli ama smascherare gli inganni che ciascuno costruisce per proteggere i propri desideri. Nell'ottica di Zeno, i valori su cui si regge la vita borghese non sono altro che inganni e schermi che danno una vernice di rispettabilità e un'apparenza di equilibrio alle pulsioni e ai desideri più vari, allo squilibrio che è al fondo stesso dell'esistere dell’uomo, alla sua incorreggibile animalità. Egli si ostina a elaborare molteplici strategie per sottrarsi a quei valori, pur continuando a rispettarli, per condurre una vita borghese senza parteciparvi intimamente. Ma in questo suo comportamento è nascosta una contraddizione insuperabile: la sua stessa coscienza è invischiata in più sottili autoinganni, mentre gli stessi desideri che egli insegue si sottraggono sempre alla presa, anzi lo portano paradossalmente fuori tiro, lo trascinano per strade tortuose e riconfermano i suoi limiti (così prima il desiderio di Ada lo conduce ad Augusta, poi il rapporto con l'amante Carla lo riconduce alla moglie e ai valori familiari). A ogni passo egli scopre l'imprevedibilità della vita, la sfasatura tra i programmi, l'idea che ciascuno ha di sé, e ciò che effettivamente accade. Nel corso di un dialogo con Guido, una casuale associazione di parole lo porta a coniare una ironica definizione in cui si può riassumere tutto il senso delle vicende del romanzo: «La vita non è né brutta né bella, ma è originale!»; tutto il vivere si risolve in un'«enorme costruzione priva di scopo», in qualche cosa di «bizzarro» e di strano, che fa concludere «che forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene». Ma, a differenza di Alfonso Nitti e di Emilio Brentani, Zeno non è uno sconfitto: egli sa di non poter essere un personaggio serio, anzi scopre che ogni serietà nasconde inganni e illusioni, inciampa sulle cose e sulle persone come un personaggio comico, si abbandona all'imprevedibile, si immerge fino in fondo nelle sproporzioni dei comportamenti individuali e sociali, conserva un impassibile sorriso perfino nella sofferenza e nelle situazioni più drammatiche, viene aggredito e deriso come una marionetta; ma curiosamente cade sempre in piedi, vede, con sua stessa sorpresa, risolversi la sua inferiorità, la sua difficoltà di vivere, in una serie di successi, che culminano nei successi commerciali che gli toccano in coincidenza con i tragici eventi della guerra. Sembra insomma che egli riesca a passare quasi intatto in mezzo a un mondo da cui si sente schiacciato e da cui vorrebbe fuggire, che si trovi a trionfare miracolosamente sui meccanismi di una «vita» che pure non è fatta per lui: in tutto ciò somiglia proprio a un clown o a una delle figure del comico cinematografico, che proprio negli anni del dopoguerra trovava le sue più grandi manifestazioni (è lo stesso autore, nel Profilo autobiografico, autore che il suo personaggio «rasenta quasi una caricatura» e a ricordare che «il Crémieux lo metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa nelle cose»). Questa sua fragilità comica, che è presente in tutto il romanzo e trasforma la narrazione in un percorso sempre fratturato e sospeso, dai movimenti obliqui e verso direzioni molteplici, è un segno di potenza e di fascinazione: Zeno si afferma proprio mostrando i suoi limiti, la propria insufficienza, riconoscendo entro di sé la marginalità e la casualità dei comportamenti, dei programmi, dei desideri degli uomini. La sua è forse la più simpatica, cordiale e civile, tra le figure che la letteratura ha saputo opporre ai miti distruttivi e alle illusioni ideologiche di questo secolo. L'io, la nevrosi, il tempo. Zeno sfugge a ogni soluzione definitiva, si nasconde e si sottrae continuamente a se stesso e al lettore, compie una serie di sotterfugi per ridursi al minimo, non vuole né può essere un eroe modello, un'immagine assoluta, ma solo il protagonista di un'esperienza singolare, come singolare è l'esperienza di ogni uomo. Con lui la malattia si configura come la sola autentica possibilità di essere dell'io: il personaggio moderno si impone come «malato», rinunciando a tutte le pretese eroiche dei personaggi tradizionali. Il narrare, nel momento stesso in cui ruota attorno a una coscienza individuale, come una inchiesta che l'io compie su di sé, si risolve così in una riduzione dell'io, in una rivelazione del suo perpetuo squilibrio, della sua mancanza di centro della sua sostanza evanescente, aleatoria, casuale. La psicoanalisi si rivela strumento essenziale per la costruzione di questo personaggio «malato», per la rivelazione di questo squilibrio che costituisce l'io; non soltanto le memorie di Zeno vengono presentate come frutto di una cura psicoanalitica interrotta e divulgate da un medico, ma in molti momenti del suo racconto si sente l'effetto dello sguardo del tutto nuovo che Freud aveva portato sulle tensioni nascoste in ogni atto psichico; alla psicoanalisi si può ricollegare l'ottica con cui vengono rappresentati i comportamenti irregolari di Zeno e gli stessi modi in cui egli scopre sintomi di irregolarità sotto l'apparente normalità degli altri personaggi. E la presenza di Freud si sente particolarmente nella rappresentazione dei sogni del protagonista, nella sua abitudine ai motti di spirito, nel suo continuo incorrere in lapsus ed equivoci. Nei termini della psicoanalisi, è la nevrosi, con le sue molteplici manifestazioni, la malattia che domina il mondo di Zeno. Ma sarebbe sbagliato (come pure si è più volte cercato di fare) definire in modo clinico più preciso la natura della nevrosi di Zeno: accumulando «verità e bugie», avviluppandosi nella sua malattia e continuando comunque a ricercare la guarigione, Zeno non ci presenta un «caso»specifico di nevrosi, ma una immagine più ampia della condizione nevrotica dell'uomo contemporaneo. Nel suo sottrarsi alla cura e nella critica ironica e sarcastica della psicoanalisi che compie nell'ultimo capitolo del romanzo, egli indica d'altra parte che la psicoanalisi vale per lui soprattutto come modo di conoscenza, come rivelazione delle complicazioni su cui si costruisce l'esperienza umana, come strumento narrativo e interpretativo, «avventura psichica» che assomiglia per certi versi allo spiritismo, non certo come metodo di cura universalmente valido, toccasana per tutti i mali. La nevrosi dell'individuo è anche la nevrosi della civiltà e della cultura; la guarigione non esiste, esistono solo equilibri provvisori che nascono dalla coscienza dell'inevitabilità della malattia. E Zeno cerca immagini della malattia universale anche al di fuori dell'orizzonte della psicoanalisi: memorabile l'attenzione che egli riserva al morbo di Basedow (da cui a un certo punto viene deformata la bellezza di Ada), che gli appare come una rivelazione delle «radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all' altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia, che sembrerebbe un esaurimento ed è invece di poltronaggine». Così anche il rapporto tra vitalità e inerzia si risolve in un rapporto tra malattie, mentre il «giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta». La malattia diventa insomma strumento fondamentale di conoscenza; e in questo essa si intreccia, fino a identificarvisi, con la scrittura e la letteratura: scrivere è anche cercare le ragioni segrete della malattia, usare la malattia come forza critica, che rivela le contraddizioni della realtà, l'inganno che si nasconde sotto le apparenze sociali; ma nello stesso tempo la scrittura è invenzione, artificio, sistema di inganni che allontanano da una conoscenza autentica. Lo stesso linguaggio è falsificazione: ogni «confessione» sincera è impossibile per iscritto (e per Zeno, abituato a parlare triestino, lo scrivere in italiano non può essere altro che falso e menzognero). Questa tendenza alla falsificazione, questo inevitabile immergersi dell'uomo in un gioco interminabile di inganni e di autoinganni, anche se offre molta materia di lavoro alla psicoanalisi, rende però impossibile il raggiungimento di una verità ultima dell'io, confermando l'inutilità della cura. La narrazione di frammenti della propria esistenza, lo scavo del proprio io imposto dall'analista, si confrontano necessariamente con il tempo: La coscienza di Zeno è anche un'opera sul tempo, una sottile indagine sul rapporto tra tempo della scrittura (e della cura) e tempo della vita, tra il flusso del presente (in cui la coscienza interroga se stessa e i propri ricordi) e il flusso dell'esistenza trascorsa e perduta. È la stessa cura psicoanalitica a imporre un recupero del tempo, un ritorno all'infanzia, a situazioni e a traumi originari, un riassorbimento di tutto il vissuto nella coscienza del presente, una continua attenzione ai ricordi e ai sogni. Ma Zeno, impegnato com'è a ricordare e a raccontare, si accorge che non è possibile nessun rapporto sicuro e lineare con il tempo: da una parte il tempo si ripete e si riavvolge su di sé («il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna»); dall' altra il suo ritornare lo trasforma in qualcosa di diverso da ciò che era, ne lascia solo frantumi eterogenei, lo muove e lo deforma. I ricordi diventano sempre un'altra cosa, creano nuove realtà che non è possibile identificare con quelle originarie; la coscienza si muove solo allontanandosi da sé. A differenza di quello che accade in Proust, per Svevo non è possibile nessuna salvezza nella memoria, nessun recupero del tempo perduto. Il tempo narrativo del romanzo si costruisce attraverso continue sfasature, con movimenti in tutte le direzioni, come mostra la stessa struttura dei capitoli, lo stesso disporsi degli eventi secondo un ordine tematico e non cronologico, lo stesso perdersi e frantumarsi della narrazione e il suo definitivo risolversi in diario. Nell'ultimo capitolo l'abbandono della cura si collega all'esibizione della distanza che separa il protagonista, ormai vecchio, dalle sue «avventure» precedentemente narrate: la scrittura si accanisce a mostrare come la cura fosse basata sull'insincerità, arriva a mettere in dubbio fino in fondo la verità della narrazione, e il lettore è costretto a dubitare perfino della verità di questo diario finale. E' certo comunque che la frattura su cui La coscienza si chiude è segnata fortemente dall'incombenza della guerra: questa si pone anche come segno simbolico dell'uscita da un'epoca, della rottura di un mondo compatto quale era stato, al di là dei suoi precari equilibri, quello del giovane Zeno, della nuova minaccia di distruzione che incombe sul mondo borghese. Raggiunto improvvisamente da una guerra che fino all'ultimo egli aveva creduto lontana, Zeno si accorge che la sua malattia e il gioco dei suoi desideri gli hanno fatto ignorare la realtà («Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme»). Ma, grazie a un imprevedibile e ambiguo rivolgimento, Zeno sembra ottenere la guarigione proprio da questa distruzione, dai fortunati affari che la guerra gli permette di fare. Questa guarigione lo riconduce però - dal punto di vista sicuro di chi riesce a salvarsi nella catastrofe universale - ad allargare lo sguardo alla malattia che ha colpito l'intera civiltà umana: le ultime battute del romanzo mostrano come sia lo stesso accumulo di oggetti e di «ordigni», che rende l'uomo più civile e lo allontana dalla natura, ad accrescere la sua malattia, a comunicarla all'intero pianeta («La vita attuale è inquinata alle radici»). Come ha rivelato la guerra, lo sviluppo dei mezzi industriali e il dominio sulla natura si rovesciano in distruzione e morte: e il romanzo si chiude proiettando il suo movimento nel tempo verso un futuro minaccioso, dilatando la malattia di Zeno verso l'ipotesi di una distruzione della terra, per effetto di un esplosivo creato dalla malattia degli uomini: «Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». La forza conoscitiva di questo grande romanzo si appoggia su un inconfondibile intreccio di leggerezza e profondità, su una struttura che riesce fino in fondo a essere inafferrabile, su un ininterrotto sottrarsi alle attese, alle sicurezze e alle verità definite che il lettore potrebbe credere di identificarvi. Per raggiungere un simile risultato, Svevo non ha bisogno di una particolare cura stilistica; anche quei momenti in cui il suo italiano può sembrare addirittura scorretto o comunque lontano da ogni equilibrio formale, da ogni tonalità «musicale», hanno l'essenziale funzione di sostenere gli intoppi, gli inciampi, le deviazioni, i giochi imprevedibili del suo personaggio. Lo stile della sua prosa sta in realtà proprio nella sua disinvoltura, negli scatti e nelle fratture giocose della sua sintassi, nel modo con cui essa interroga e mette in questione se stessa, in cui scompone e ricompone i propri piani (significativi sono a questo proposito gli echi interni, le corrispondenze e le ripetizioni di parole e di frasi). Si direbbe che Svevo sappia costruire un linguaggio dotato di spontanea carica comica e ironica, lavorando sui toni e sulle misure sintattiche, e rifuggendo da ogni elemento espressionistico, da ogni ipotesi di deformazione stilistica. da Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, ed Einaudi, 1991