SCIENZE NATURALI E TEOLOGIA: METODOLOGIE A CONFRONTO

SCIENZE NATURALI E TEOLOGIA: METODOLOGIE A CONFRONTO
1. MODI DI CONCEPIRE IL RAPPORTO TRA SCIENZE NATURALI E TEOLOGIA
Innanzitutto a volte si parla di “religione”, altre volte di “fede”, altre volte di “teologia”: è una
brutta abitudine, perché sono realtà diverse, ma a volte si può anche fare.
Guardiamo ora dei modelli di questo rapporto, non perché siano i migliori, ma per carburare un po’,
per prepararci ad affrontare il problema.
IAN BARBOUR (in Ways of relating science and theology)
L’autore guarda al variegato panorama dei rapporti tra teologi e scienziati e li cataloga in 4 modi.
Conflitto
Modalità a cui si rifanno dal lato delle scienze il neopositivismo e il materialismo e dal lato della
teologia il fondamentalismo. I sostenitori di entrambe sono in fondo d’accordo su un punto: i dogmi
e le principali teorie scientifiche si trovano in uno stato di conflitto profondo.
La tesi centrale del positivismo logico è che “ogni proposizione non riconducibile a prove
empiriche, né a verità logiche, non ha alcun senso/significato” e le proposizioni della teologia sono
tali! A questo gruppo appartengono anche le posizioni scientifiche che negano l’esistenza di realtà
trascendenti o l’interazione tra realtà sperimentabili e trascendenti. Un buon esempio di questa
posizione sono le teorie socio-biologiche di Wilson e la mega-teorie evoluzionista di R. Dawkins,
per cui tutto serve solo per la sopravvivenza della specie umana e del suo patrimonio genetico.
Il presupposto metodologico di coloro che sostengono queste posizioni, è che i metodi delle scienze
naturali sono i soli e gli unici che danno risultati e garantiscono la verità.
Sul versante teologico (e non solo cristiano), si collocano i seguaci del letteralismo, che leggono in
modo comprensivo la i testi sacri, pensando che essi comprendano anche le verità sul mondo e
sull’uomo, facendosi così, nel caso della Bibbia, sostenitori del creazionismo letterale/biblistico.
Il presupposto metodologico dei fondamentalisti è una certa concezione dell’inerranza delle
Scritture, quando essa è relativa principalmente alle verità salvifiche!
Il conflitto che si viene a formare, per Barbour è frutto di una educazione frammentata. Gli
scienziati sostenitori di questo approccio infatti spesso non studiano né storia, né filosofia delle
scienze, materie queste, che aiuterebbero a smorzare una eccessiva fiducia nel metodo empirico che
spesso è pilotato da pressioni sociali o economiche. I credenti invece che sostengono certe
posizioni, sono spesso ignoranti di scienze naturali e quindi è facile che tirino conclusioni azzardate.
Indipendenza
Proprio per risolvere la situazione di conflitto ecco alcuni autori che propongono una separazione
dei campi, per evitare conflitti ed ingerenze, in particolare:
- Nel metodo. Caso questo paventato soprattutto dai protestanti neo-ortodossi, di cui il
rappresentante di spicco è K. Barth. La conoscenza di Dio è infatti possibile solo per
l’automanifestazione di Dio in Gesù Cristo ed accolta nella fede; questo perché Dio è
totalmente trascendente ed inaccessibile all’uomo. La teologia è così fondata solo sulla fede
ed il campo della fede è la storia, l’economia salvifica. Lui vede invece le scienze naturali
indagare la natura tramite le osservazioni e la ragione. Detto questo Barth non è un
letteralista, semplicemente per lui non ha senso cercare Dio al di fuori della Rivelazione.
Di questo filone fanno parte anche i teologi esistenzialisti, di cui il rappresentante di spicco è
R. Bultmann, che sottolineano come il coinvolgimento interessato e personale sia
fondamentale per conoscere una realtà. Così nel campo teologico la verità appare nel
conoscere interpersonale, non basta essere dei meri osservatori: l’incontro che si deve
attuare è del tipo “io-tu” e non “io-esso”. Così le formulazioni teologiche riguardano la
trasformazione umana, non basta dare ad esse un mero assenso intellettuale.
- Nei linguaggi. Filone questo in cui si trovano gli esponenti della filosofia analitica e i
discepoli dei “giochi linguistici” di L. Wittgenstein. Il linguaggio delle scienze sperimentali
serve così per spiegare e sintetizzare i dati sperimentati, mentre il linguaggio religioso
propone invece un certo tipo di vita, dei principi morali, una spiegazione di Dio, degli
orientamenti per la preghiera ed il culto ecc. Ciò spiega la distanza tra i due campi. Lindbeck
ad es. distingue tre impostazioni:
A. Dottrine come proposizioni e rivelate soprannaturalmente;
B. Dottrine come diverse espressioni simboliche di un’unica esperienza interiore e
quindi tutte le religioni hanno in fondo un nucleo comune espresso in diversi
linguaggi (la B. per un cattolico può avere senso solo se integrata con la A.);
C. Dottrine come regole di discussione e di interazione sociale, perché l’esperienza
individuale è già plasmata socialmente e culturalmente dal gruppo in cui si nasce e
per ciò serve a ben poco partire dall’esperienza individuale. Qualsiasi esperienza è
strutturata dal linguaggio e perciò l’esperienza stessa di Dio non si potrà mai
afferrare totalmente, dunque non ha senso parlare di una religione vera ed universale,
perché sono tutte condizionate storicamente e culturalmente attraverso il linguaggio.
Il linguaggio religioso non ha dunque accesso alla verità, ma serve solo per
mantenere e regolare l’interazione sociale nella società, dunque non ha senso il
conflitto con il linguaggio delle scienze naturali.
Lindbeck opta per l’ultima soluzione, che però non è storicamente vera, è paradossalmente
a-storica, perché le tre religioni del libro, affermano che c’è una verità che si sta
comunicando e ciò è quello che ad es. i martiri testimoniano. Riguardo invece ad A. e B. la
storia mostra che non sono così separate, ma che ci sono campi di intersezione.
Dialogo
Le scienze naturali si sono sviluppate in tutte le culture, ma il fatto che nel mondo occidentale, ciò
si avvenuto più dinamicamente e velocemente dà a pensare e si vede come in fondo il cristianesimo
stesso abbia facilitato tutto ciò. Una ragione potrebbe essere la demitologizzazione (Barboura parla
di desacralizzazione) della natura, riconoscendo che essa non è Dio e non ha poteri divini, anzi è
realtà ontologicamente sotto l’essere umano, perché creazione di Dio e quindi anche manipolabile.
Manipolazione che oggi ha oltrepassato certi limiti e così alla Chiesa tocca ora bilanciare questa
tendenza esagerata. A ben guardare dunque, lunga è stata l’interazione tra scienza e fede, basta
guardare la lunga lista di scienziati cristiani, e anche solo questo dato serve a smontare il mito
dell’inconciliabilità di questi due mondi. Detto questo cercare oggi un dialogo tra i due campi è
difficile, vediamo dei tentativi:
 K. Rahner parla di conoscenza dell’Assoluto insita in ogni atto scientifico. Nel conoscere
infatti, c’è sempre, nascosto, un desiderio vero dell’assoluto, altro modo per dire il
tomistico desiderium naturale videndi deum. Per conoscere un oggetto concreto bisogna
infatti essere coscienti della sua limitatezza e vuol dire che riesco a concepire anche
l’illimitatezza e la totalità dell’essere che ne sono lo sfondo, tensione possibile all’intelletto
sotto l’influsso della grazia. Alcuni, come Krauser, ponendosi in questa scia arrivano
addirittura a dire che ogni scienza e filosofia è religione, perché ogni ricerca ha presupposti
assoluti, che non si mettono in dubbio. È vero, però la religione non è solo un insieme di
affermazioni, ma anche una certa pratica di vita.
 D. Tracy parla della positività delle “situazioni limite”, in cui la scienza [ma si potrebbe
dire anche la teologia, vedi il passato!] si rende conto dei suoi limiti (es. Hiroshima). Più
che di scienze è poi meglio parlare di scienziati.
 T. Kuhn, nel suo “Strutture delle Rivoluzioni Scientifiche”, parla di parallelismi
metodologici, dicendo che molti elementi psicologici e sociologici intervengono nella
ricerca scientifica, formando ad es. un paradigma istituzionale che plasma il modo di fare
scienze. All’arrivo di un’anomali, essa viene per un po’ accettata e poi il paradigma deve
cambiare e lo scienziato è chiamato ad una conversione non tanto da fattori razionali,
quanto più estetici, psicologici e funzionali.
Integrazione
Questo tipo di approccio si basa sul contenuto delle teorie scientifiche. Ad es. si possono ricostruire
dottrine cristiane nei termini delle scienze naturali (è più difficile vedere il caso inverso [anche se
Morandini nel suo libro mostra l’influsso di certe idee teologiche sulle sue scoperte]), come ad es.
Ratzinger in “Introduzione al Cristianesimo”, oppure cercare una sintesi teologica usando concetti e
categorie delle scienze naturali, come ha fatto Theillard de Chardin con il concetto di evoluzione.
M. STENMARK
Il suo pensiero è più complicato e sottile, ma vale la pena vederlo.
Egli critica il pensiero di Barbour, perché non tiene conto delle dimensioni in gioco nel problema e
perché le categorie che usa, danno una classificazione di valore, mentre lui ne vuole cercare una più
logica. Egli propone così quattro dimensioni del problema, ammonendo il lettore che passando
alla dimensione successiva non ci si deve mai scordare della precedente, tenerne sempre conto:
 Sociale, che è anche la più importante. Scienze naturali e religione si distinguino qui
attraverso una collezione di pratiche sociali, compiute in collaborazione da varie persone,
dentro un preciso ambito culturale e storico.
o Popper però direbbe «Ok, ciò va bene per la situazione di fatto, ma come “dovrebbe
essere”? È importante la visione ideale per apportare una crescita al rapporto tra le
due». Tener conto che l’approccio di Stenmark è molto sociologico/storico e che ciò
entra decisamente in attrito con quelli idealistico/normativi.
 Teleologica, perché ogni pratica possiede dei fini di natura epistemologica o pratica,
individuale o collettiva, manifesta o latente.
 Epistemologica o metodologica. Le scienze e la religione usano diversi mezzi per procedere
e così è bene guardare i diversi tipi di razionalità in campo, distinguendo tra: razionalità (sua
natura), norme e principi (suoi criteri), diversità di idee su rilevanza e applicabilità di queste
norme (sua portata o dominio), diversi tipi di evidenza (le ragioni della razionalità). Ecco
quindi la domanda: quale razionalità? E a che porzione di realtà si può applicare?
 Teorica o contenutistica. Confronto tra le credenze, le storie, le teorie*.
Egli parla così inizialmente di tre modi di concepire il rapporto tra scienze naturali e teologia:
 Indipendenza, i due mondi sono separati.
 Contatto, i due mondi sono un po’ sovrapposti, c’è intersezione tra loro. È il caso più
comune. Ad es. ci possono essere gli stessi fini epistemologici, dunque più o meno i metodi
sono gli stessi, ma c’è diversità di fini e il loro contenuto.
 Monista, i due mondi sono totalmente sovrapposti. Caso presente, ma difficile, perché vuol
dire che scienza e religione trattano lo stesso problema arrivando però a risposte diverse. Ad
es. Entrambe cercano la verità (unione di fine dunque), ma per quanto riguarda i contenuti
teorici arrivano a risultati diversi.
Questi tre modi non esauriscono però le possibilità e sono statici e così ne ha aggiunti altri due:
 Espansionismo scientifico completo, per cui la scienza riuscirà a comprendere tutte le
funzioni della religione e ancora di più. In questa direzione va ad es. la socio-biologia di
Wilson, per cui la scienza spiegherà tutto, pure la religione e quindi anche la teologia; ora
non è così, ma in futuro sarà così.
 Espansionismo religioso completo, per cui la religione riuscirà a comprendere tutte le
funzioni della scienza e ancora di più. In questa direzione va ad es. il lavoro di R. Clauser,
per cui ogni scienza riconosce un Assoluto e quindi è più o meno una religione o meglio è
religiosa di natura e questo suo aspetto a breve emergerà. Ciò avviene soprattutto con la
matematica (vedi ad es. i pitagorici, la kabbala ecc.).
* A questo punto si può aggiungere un Post Scriptum. Nelle teorie infatti si deve mostrare anche i
casi in cui c’è conflitto, compatibilità, tensione, armonia.
o Di conflitti e tensioni si parla di solito nel livello d’indipendenza, anche se nella concezione
cattolica i conflitti possono essere solo temporali, mai reali, perché la Verità è una.
o Di compatibilità (non contraddizione) e armonia si parla invece di solito nel livello di
contatto. Per dirla alla Barbour, la prima è in fondo la posizione di Barth, mentre la seconda
è quella di chi cerca di instaurare un dialogo o un’integrazione.
Un buon esercizio sarebbe prendere un autore ed analizzarlo con il modello di Stenmark. Vediamo:
 Innanzitutto si dovrebbe stabilire quale modo propone. Mettiamo il caso che sia Contatto.
 In seconda battuta bisognerebbe capire su quale dimensione propone quest’impostazione?
sulla teleologia? sul metodo? sulla teoria? ecc. Mettiamo il caso che sia la Teleologia.
 Essendo il piano teleologico ci si deve dunque interrogare sul fine, ma quale fine l’autore
prende in considerazione? Epistemologico? Pratico? Esistenziale? Soteriologico? Qui va
chiarito anche il tipo di evidenza, e dunque il criterio di razionalità, che ha in testa l’autore.
 Infine bisogna mettere in luce il contatto sui contenuti e dicendo se c’è compatibilità o
armonia tra di essi. Ad es. nel caso dell’intelligence design per mostrare le tensioni in corso,
ma anche le non contraddizioni, è importante distinguere tra finalità fisica e metafisica.
Infatti il problema della lettura dei dati e della loro interpolazione è sul primo piano, anche
se riceve influssi dal secondo: perché usare sempre una retta e non invece una funzione più
stramba che colleghi magari anche meglio i punti?
A questo punto Stenmark riprende la dimensione sociale e va ancora più a fondo, passando ad
individuare quattro fasi della scienza:
1. Formulazione dei problemi. È quella in cui si scegli dove indirizzare gli sforzi della ricerca,
come investire soldi e tempo: qui l’influsso della religione è un fatto. Perché ci sono alcuni
progetti a cui le istituzioni religiose sono più sensibili, mentre quelle marxiste, femministe
ecc. lo saranno più ad altri. E uno magari ha i suoi orientamenti, ma spesso se i soldi sono
più da un lato, anche lui andrà in quello! Così in questo senso l’orientamento è un fatto,
perché già nei presupposti l’ideologia (in senso di weltanshaung) influisce sulla ricerca. A.
Platinga, un teologo calvinista, dice così che esiste una “scienza cristiana” che pone i suoi
fini e ciò va inteso in questa fase. Il tenere conto dei presupposti di fatto è molto importante.
2. Sviluppo. Si identifica il campo di ricerca e si stabiliscono metodi adeguati per creare
ipotesi. Spesso anche queste sono guidate dall’ideologia e anche la religione è importante,
anche se non è più la fonte. Da ovunque vengano, l’importante è che siano buone e che
spieghino i dati.
3. Giustificazione. Essa va fatta non citando un libro o altre idee, ma scientificamente, secondo
i canoni della comunità scientifica. Ad es. in fisica devo provare la mia teoria o ipotesi con
un esperimento. Qui l’ideologia, la religione ecc. (in fondo va tenuto conto anche
dell’economia) non entrano in gioco in teoria, anche se ad es. per quanto riguarda la biologia
il terreno è più minato, vedasi il caso se fare o no gli esperimenti sugli embrioni.
4. Applicazione. Guardando ad ogm, bomba atomica, alterazioni biologiche ecc. si capisce
come qui ideologia, religioni ecc. entrino ed entrino prepotentemente. Molto importante per
J. Ratzinger, in dialogo con Habermas, è quindi il rapporto tra ragione e religione, perché la
seconda senza la prima, manca dell’istanza critica necessaria a purificarla dalle storture che
prender, ma la prima senza la seconda degenera in un’assenza di limiti, legata ad una perdita
di valori che è tipica della ragione scientifica abituata a puntare sulla quantitas più che sulla
qualitas, sulla ragione calcolatrice/utilitaristica più che su quella riflessiva.
2. IL CONCETTO DI SCIENZA: EPISTEMOLOGIE A CONFRONTO
AVVERTIMENTI
Sempre importante è il monito di H. Rolston III, epistemologo americano, per cui «Ogni religione
che si sposa con la scienza odierna, domani diventerà vedova … ma la religione che divorzia dalla
scienza di oggi non lascerà nessuna prole domani … Il problema assomiglia a quello di una specie
biologica che deve adattarsi ad un ambiente cangiante … il più adatto sopravvive». La teologia deve
così adattarsi al mondo dell’intelligenza scientifica, ma solo fino ad un certo punto «per mantenere
la sua integrità autonoma e la sua robustezza».
Fino ad ora il nostro approccio è stato solo logico-sociologico, per farsi più teologico è necessario
soffermarci ora su questioni metodologiche, per poi chiedersi così quanto esista di continuità
metodologica tra teologia cristiana e scienze naturali; anzi, andando più nello specifico, tra teologia
cattolica e fisica, matematica e biologia. Stiamo sul metodo più che sui contenuti un po’ perché
sono linguaggi diversi e un po’ perché le teorie scientifiche cambiano velocemente, mentre la
teologia cattolica cambia più lentamente. Fondarsi sulle teorie scientifiche è così fondarsi sulla
sabbia. Questo non chiude a delle possibilità di contatto contenutistico, ma ci vuole molta
attenzione. Ad es. prima di Humani Generis, per molti teologi il monogenismo era de fide, rivelato,
ma questo documento non ha preso posizione su questo delicato argomento, così negli anni ’60-’70
ci sono stati tanti tentativi di elaborare una dottrina dell’evoluzione che tenesse conto del p.o e così,
de facto, l’evoluzione ha avuto un influsso sull’antropologia teologica. Se però la teologia si adatta
troppo velocemente, come alcuni hanno fatto nel caso trattato, rischia di perdere rilevanza.
Per riflettere sulle due metodologie dobbiamo però subito chiarire il termine di scientificità,
problema che è delicato e quindi occhio a delimitazioni troppo stringenti. Le scienze naturali infatti,
per il senso comune, sono viste come le scienze per eccellenza e gli scienziati sono gli esperti per
antonomasia, i sommi sacerdoti della società contemporanea. Lentamente sono però anche emerse
le cosiddette scienze umane (storia, sociologia ecc.) e così nella seconda metà del XX secolo hanno
portato alla cosiddetta svolta antropologica.
IL POSITIVISMO LOGICO
Questo approccio, il cui centro propulsore era la scuola di Vienna, mostra molto bene
l’atteggiamento che tende a ridurre tutto al pensiero formale, che cerca un criterio per stabilire se
una proposizione qualsiasi ha significato o no.
I pensatori di questa corrente dissero così che qualsiasi proposizione aveva senso se si poteva
ridurre a proposizioni scientifiche elementari, altrimenti erano tautologie: in questo modo tutte le
proposizioni riconducibili alla matematica e alla logica hanno senso, le altre no. Le proposizioni
delle religioni così non sono false, ma semplicemente non hanno alcun significato. Questo filone è
però una reazione alla metafisica, e quindi anche alla teologia, post-kantiana1 e post-hegeliana che
ricorreva spesso a concetti trascendentali, appoggiandosi su di una teleologia che parlava di forze
vitali, volontà di trascendere ecc. Contro questa inflazione si scagliano i positivisti vietando il
ricorso a concetti extra-empirici. Il loro resta comunque un modello ipotetico-deduttivo
Il concetto di scientificità di questo modo di affrontare la scienza, si basa su ipotesi ed esperimento
in fieri: uno scienziato propone un’ipotesi sulla base di osservazioni ovunque ripetibili (predizione)
→ inferenza, previsione di nuovi fatti sperimentali (osservazione) → giustificazione o
corroborazione/falsificazione, che conferma o smentisce la predizione e conferma o no l’ipotesi
(verificazione). La teoria è così riformulata, resa più esatta, per poi riavviare il metodo.
Ma come si verifica una teoria scientifica? Come preferirne una ad un’altra? Guardando
l’adeguatezza tra predizione e fatti sperimentabili, secondo lo schem “if … then …” o della
“verificazione ingenua”. Certo la teoria, se “vera”, sarà tale nella mia posizione, per verificare se
funzionasse ovunque, bisognerebbe girare tutto lo spazio-tempo: è il problema dell’induzione, cioè
di quel processo che a partire dai casi particolari, porta a teorie generali.
Così Lakatos dirà che questo primo metodo si basa su di un concetto di giustificazione
“giustificazionista”, perché si basa sul mito della prova e dice che una teoria è meglio di un’altra in
base a come risponde alla realtà. Man mano però esso sfocerà nel neo-giustificazionismo, che al
posto di prova arriverà a parlare di corroborazione: qualsiasi ipotesi scientifica rimane tale,
l’esperimento scientifico può solo confermarla, ma non farne una certezza assoluta. In questa
visione è richiesta la specificità dell’evidenza e la probabilità della teoria.
IL FALSIFICAZIONISMO POPPERIANO
Popper ha reagito, mostrando che non esiste una teoria di probabilità che sia più di ciò. Con questo
break ecco dunque che arrivò la crisi metodologica e per evitare lo scetticismo ecco il
falsificazionismo, che più che guardare alle prove per giustificare, guarda a quelle che falsificano:
non esiste un modo strettamente logico/probabilistico per passare dai particolari alle teorie generali
e così ecco emergere il problema dell’induzione e dell’impossibilità di basare una teoria scientifica
su casi particolari, perché le teorie non sono da essi “fatte vere”, verificate, ma solo falsificate.
1
Anche se Kant a dire il vero fu colui che per primo cercò una via media tra il polo empirista e quello trascendentale.
Ogni induzione infatti pensa di essere un’osservazione neutrale, oggettiva, applicando il famoso
“caricamento teorico dell’osservazione” di matrice kantiana/wittgensteniana. Gli strumenti
sperimentali però ci rendono dei dati, alla luce della teoria secondo cui l’attrezzatura è stata
costruita e le osservazioni sono così già filtrate, escludenti una parte e la lettura che poi di esse si fa
è legata alla teoria che fonda lo strumento. L’esempio classico è quello di Galileo che con le
osservazioni fatte con il suo cannocchiale disse che sole e luna non erano globi di cristallo.
Cos’erano però le sue osservazioni? Dipendevano dall’accuratezza e dalla teoria ottica del
cannocchiale, teoria appunto criticata dai suoi avversari, ricordandosi che nel ‘600 l’ottica era agli
inizi. Lakatos dunque fa notare come non le osservazioni si opposero alla teoria, ma le osservazioni
interpretate secondo una precisa teoria ottica che si scontrava contro le osservazioni degli
aristotelici che interpretavano secondo la loro teoria.
Egli critica così giustamente i positivisti che vogliono ridurre tutto a proposizione atomiche di
contenuti empirici o formali, perché così eliminano una grande parte delle proposizioni della
scienza, ritenute non significative proprio perché non sono riducibili a ciò, non universali, solo
pseudo-proposizioni. E li critica perché mostra come questo principio riduzionista non sia una
proposizione genuina, ma perché essa stessa non è riducibile ad un proposizione atomica empirica o
formale e così non si auto-soddisfa. Egli porta così ad un indebolire le esigenze e a parlare più che
di verificabilità, di parziale deducibilità che emerge proprio dall’analisi del modus tollens dell’opera
di Aristotele e così scrisse nel suo “Logica della scoperta scientifica”: «Una forma logica del
sistema scientifico deve essere capace di essere selezionata attraverso testi empirici nel senso
negativo: deve essere possibile per ogni sistema scientifico che sia rifiutato per l’esperimento».
Per lui da T segue O (predizione), se il dato dice non O, allora deduco non T. Il metodo è detto
metodo tollens, perché toglie la premessa maggiore.
In questo metodo c’è però un’asimmetria radicale tra le osservazioni positive e quelle negative,
perché le ultime sono più potenti ed una teoria scientifica è tanto più buona quanto più offre
possibilità di essere falsificata.
La scienza deve così preferire teorie aperte a possibili falsificazioni, sopravvissute a più
falsificazioni, perché vuol dire che è buona. Un’affermazione non controllabile (occhio dunque a
“La scienza dice”, ma informarsi su Chi, Cosa e Come), non falsificabile, crea società chiuse.
Un’altra conseguenza è che le teorie scientifiche più che di un corpo di conoscenze, sono fondate su
delle ipotesi corroborate, che hanno resistito a falsificazioni sperimentali, sono le ipotesi che sono
sopravvissute ad una sorta di “evoluzione della specie”, in cui sono scomparse le meno resistenti.
Per Popper dunque, se una teoria non è falsificabile non è scienza.
Anche qui però l’esigenza di necessità logica è troppo forte e così oggi si preferisce parlare di
plausibilità o probabilità più o meno grande di una certa affermazione generale. Fino ad ora
comunque esiste un algoritmo probabilista che faccia una teoria più probabile. Praticamente poi
certe cose (dopo tanti esperimenti buoni) sono ritenute quasi costanti, teorie vere, certe moralmente
anche se non logicamente (vedasi i lavori Rescher e Bernstein). D. Hume era solito dire: «Alla
scrivania sono scettico, ma quando esco non posso esserlo».
Secondo un suo biografo Popper avrebbe ereditato tutto ciò da Einstein, e dunque il suo sistema
ereditata molto dal metodo fisico, assumendo da lui questo atteggiamento scientifico contrario a
quello dogmatico e pseudo-scientifico, perché non cerca conferme nelll’esperimento.
Perciò Popper ha un buon approccio riequilibratore, ma esige troppo. Non tutte le ipotesi infatti
cadono sotto questo criterio. Lui poi è l’ipostatizzazione del fatto che è più facile criticare e trovare
delle lacune nei sistemi, che proporne uno. E poi il suo stesso sistema ha molte lacune e così ecco
che da lui nasceranno altri modelli di programma scientifico. Per criticare poi la ricostruzione
scientifica, serve un’accurata indagine storica per vedere come il proprio modello si adegua alla
ricerca in concreto e così si vedrebbe subito il modello di Popper, se preso rigidamente, avrebbe
eliminato non poche teorie poi rivelatesi buone (come ha mostrato Kuhn); se una teoria infatti non
spiega bene alcune cose, ma ne spiega altre non va comunque buttata, potrebbe ritornare utile. Ad
esempio la gravitazione di Newton sembrò essere subito falsificata dalle prime osservazioni sulla
luna; i risultati raggiunti da Keplero poi sono il frutto di passi non proprio popperiani!
CRITICHE LOGICHE AL FALSIFICAZIONISMO
Una teoria T spesso e volentieri è l’unione di varie teorie: t1, t2, t3 ecc. Quando questa T predice
un’osservazione che viene falsificata, quale delle sottoproposizioni sarà falsa? Forse una? Forse
due? Forse tutte? E come saperlo? Il criterio della falsificabilità è dunque tutt’altro che netto!
Se poi si considera anche l’influsso degli strumenti A, formulando l’ipotesi ausiliare per cui “gli
strumenti sono liberi da influssi o condizionamenti” le cose si complicano ancor di più.
Se si va a vedere poi nella pratica come vengono formulate le teorie, quando T è falsificata si
cercano di formulare un’ipotesi ausiliare i1 per cercare di salvaguardare una formulazione nucleare
della teoria. E così si otterrà una teoria riveduta T1=T+i1, essa farà delle previsioni sperimentali, e
qualora queste fossero falsificate si formulerebbe un’altra ipotesi i2, che porterebbe a T2=T1+i2 …
Ad esempio l’orbita di Urano era irregolare rispetto alle altre e la teoria di Newton (T) non riusciva
a spiegarne il perché, ma non per questo fu gettata! Si propose invece (i1) l’esistenza di un altro
pianeta e quando fu trovato Nettuno, ciò confermò immediatamente questa ipotesi e corroborò
maggiormente la teoria di Newton. Per quanto riguardò invece il problema di una perturbazione nel
movimento di Mercurio si fecero varie ipotesi aggiuntive, ognuna delle quali portò anche a nuove
ricerche sperimentali e nuove acquisizioni dati, ma nessuna riuscì a soddisfare i dati: il problema fu
risolto solo con la formulazione della relatività generale.
Se dunque la falsificabilità è un principio ingenuo, dall’altra non si possono aggiungere ipotesi
all’infinito per salvare una teoria, perché ad un certo punto essa non sarà più presa sul serio dalla
comunità scientifica o dai finanziatori, anche se questi ultimi sono fattori tutt’altro che logici!
Va poi notato che tra le ipotesi aggiuntive sono di tipo esplicito, ma ne esistono molte altre di
livello implicito che guidano la ricerca e tra queste alcune sono anche di carattere metafisico.
Queste implicite, fisiche e metafisiche, spesso e volentieri vengono scoperte man mano. Inoltre la
stessa teoria di Popper, e lui stesso lo disse, può essere falsificata e qualora subisse serie
falsificazioni, prima di buttarla si tacconerebbe con una, due, tre ecc. ipotesi ausiliarie!
CRITICHE SOCIOLOGICO-STORICHE AL FALSIFICAZIONISMO
TOMAHS KUHN E “LE STRUTTURE DELLE RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE”
Egli distingue lo sviluppo delle scienze naturali tappe:
1. Fase pre-paradigmatica. È un periodo in cui, tra le varie scuole, non c’è il consenso
sull’oggetto, sul metodo, sui procedimenti ecc. Con il tempo emerge però, visti i suoi
successi sperimentali, un paradigma dominante.
2. Fase paradigmatica. Essa è quella che guida la scienza normale. Il paradigma, grazie anche
alle continue conferme scientifiche, va infatti facendosi sempre più determinato e preciso,
fornendo così un modello di problemi e di soluzioni accettate da coloro che lavorano in un
certo campo di ricerca e venendo insegnato alle nuove generazioni. Con il tempo però si
scoprono delle discrepanze nel paradigma, difficoltà che però all’inizio non vengono viste
come falsificazioni, ma come rompicapi da risolvere o come anomalie del sistema, che
cercano di essere risolte tacconando il paradigma.
3. Fase di crisi (che sa un po’ di 1). La situazione cambia, quando entra in gioco un altro
possibile paradigma, entrata in gioco che è resa possibile anche dal fatto che risultati
sperimentali non spiegati nel primo (o addirittura neanche visti, perché per Kuhn i paradigmi
influiscono in modo tale sugli scienziati, che a volte li rendono quasi incapaci di percepire
l’importanza di un risultato negativo), vengono spiegati da questo e così esperimenti minori,
possono diventare improvvisamente cruciali. Inizia quindi una battaglia, in cui non giocano
unicamente i criteri logici o sperimentali per decidere tra i due (soprattutto questo concetto
ha suscitate le ire di popperiani e filo-popperiani contro Kuhn), ma forte peso ce l’hanno
anche valori quali accuratezza della teoria, sua consistenza, portata, semplicità, fecondità e
fruttuosità. La vittoria di una teoria sull’altra è dunque sì dovuta a fattori oggettivi, ma anche
soggettivi, è sì legata a ragioni, ma non unicamente o decisivamente ad esse. Il tipo di
argomentazione che caratterizza questo periodo è quello della  aristotelica, della
ragione pratica e quindi è molto importante la capacità di persuasione di una teoria.
4. Fase del paradigma dominante (che sa un po’ di 2).
Molto importante in questo processo è il ruolo della comunità scientifica. Le critiche più
consistenti sono legate al concetto di “scienza normale” e alla sua a-criticità, perché se il paradigma
decide tutto, come si deve concepire un cambio di paradigma? È legato al caso o ad una qualche
ispirazione? Se non si fa attenzione si cade nel relativismo! Per i popperiani è infatti sempre
possibile che la mente umana si distacchi da sé stessa e dai suoi condizionamenti, per criticarsi.
Kuhn ha poi parlato di incommensurabilità dei paradigmi, perché due paradigmi non hanno nulla
a che fare tra di loro, sono un po’ come la gestalt switch, come quelle immagini che vengono
sempre viste in un modo, ma se si focalizza l’attenzione su un punto ne può venire fuori un’altra!
Ma oggi si è più propensi a dire che il nuovo paradigma sa spiegare anche l’altro. Per Kuhn poi il
passaggio da un paradigma all’altro, non è frutto solo della logica, ma anche della deliberazione,
non è infatti principalmente la sillogistica che decide, ma la dialettica.
Per lui gli elementi che caratterizzano lo sviluppo delle scienze sono:
1) Il ruolo importante dei valori nella scelta tra teorie.
2) La funzione dogmatica del paradigma, durante il periodo di “scienza normale”.
3) La sottodeterminazione empirica delle teorie, perché solo le osservazioni sperimentali non
sono sufficienti per scegliere, visto che il paradigma stesso porta a scegliere quali sono gli
esperimenti più importanti e quali meno.
4) Per entrare nel nuovo paradigma ci vuole una conversione, vista l’incommensurabilità che
caratterizza i paradigmi e la conseguente discontinuità radicale tra essi.
5) Il ruolo della comunità scientifica, perché «tali gruppi debbono essere considerati come le
unità che producono conoscenza scientifica». Sorge qui il problema di come
istituzionalizzarle, affinché giovani brillanti possano venire ascoltati.
La posizione di Kuhn permette di dire qualcosa sul rapporto tra scientificità ed ermeneutica:
a. Nel XIX secolo l’idea di scienza come riferimento ai fatti, aveva molto influito anche su
altre discipline e così si sviluppò un positivismo storico (che influì per altro anche
sull’esegesi protestante), a cui si opposero però energicamente ad es. Diltey e
Shleiermacher, ricordando la differenza tra scienze esatte e le altre, scienze naturali e
scienze dello spirito, perché per queste seconde serve una ragione storico-ermeneutica, che
tenga conto del coinvolgimento esistenziale del soggetto: se le scienze dello spirito erano
interessate a comprendere, quelle naturali a spiegare! Comprensione che però è sempre
condizionata storicamente e nel caso della storia in maniera doppia, perché ci si basa su dei
documenti che, in quanto tali, sono già interpretazione dei fatti. La distinzione tra scienze
della natura e scienze dello spirito sembra, sempre più, non essere così nitida.
b. Essi parlano infatti di una distinzione tra spiegazione e comprensione, ma è così netta?
c. La sotto determinazione della scelta tra teorie scientifiche, non sembra essere unicamente
una questione di esperienza e di logica.
d. Il paradigma può così essere visto come orizzonte di pre-comprensione ed il circolo
ermeneutico può così funzionare anche qui e quindi può darsi che il programma
sperimentale, le teorie e le opinioni di vari scienziati possano far modificare ad uno
scienziato il suo paradigma. A tal proposito, va detto che Kuhn, verso gli anni ’70, smette di
parlare di paradigma, preferendogli il termine di “matrici-lessici disciplinari”.
Va detto che se le scienze vengono studiate molto nel loro aspetto epistemologico, sociologico,
psicologico e storico, poco si è fatto sull’esistenziale, sul ricercatore in sé.
A questo punto è bene vedere le critiche mosse a Kuhn:
 Il carattere vago della definizione di paradigma.
 Poco o niente è detto su come si cambia il paradigma. La scuola critica di Francoforte dice
che siamo sempre in grado di criticare i nostri presupposti, mentre Popper sottolinea più la
razionalità di questo passaggio.
 Irrazionalismo e indole critica della scienza normale, perché lui sembra spesso dire che il
paradigma emerge più da fattori irrazionali, tra cui ci sono anche il potere e l’economia. Lui
ha risposto a questa accusa, dicendo che anche i suoi accusatori guardano alla storia e poi
egli vede alcune rivoluzioni come universali e altre come legate a gruppi isolati.
 Relativismo, perché per lui cosa sia la scienza e quali siano i suoi criteri, lo decidono le
varie comunità scientifiche, non esistono criteri universalmente accessibili.
I. LAKATOS E “I PROGRAMMI DI RICERCA”
Popper e Kuhn, riconosce i problemi posti da Kuhn e cerca di rafforzare Popper, ma critica
entrambe e propone la “protezione della teoria nucleare”, che non è solo una possibilità, ma uno
stato di fatto: del vizio denunciato da Popper egli ne fa una virtù. Qualsiasi programma di ricerca
non va così scartato presto e nella storia si vede spesso che, se una teoria fosse stata abbandonata
prematuramente, non ci sarebbe stato lo sviluppo delle scienze a cui si è assistito! Egli propone così
più che un paradigma, il programma di ricerca, che è un insieme di teorie (ti) e dati sperimentali, e
tra le teorie ce ne è una (T1, il nucleo), che ha un’importanza centrale. Le varie ti, formano così una
cintura protettiva e sono esse che vanno modificate dopo le scoperte e falsificazioni varie. In tutto
ciò c’è così un po’ di convenzionalismo, perché si ammette che ogni scienza è impregnata di teoria
ed in fondo un po’ di verità c’è in tutto ciò. Ad es. per capire le osservazioni, le attrezzature devono
tradurre il fenomeno in numero e quindi proprio gli strumenti possono essere carichi di una “colpa”
sperimentale, perché a volte la traduzione del fenomeno in numero non è giusta o comunque è
selettiva, ma quasi mai si mette in dubbio la veracità e la bontà degli strumenti!
La comunità scientifica ad un certo punto decide se una teoria è ben corroborata e decide di non
ammettere eventuali falsificazioni o anomalie: essa è così resa immune ai risultati sperimentali.
Decisione questa, che non viene presa palesemente, ma in modo inconscio e che porta a vedere le
varie osservazioni non spiegabili, non come falsificazioni, ma come anomalie da superare e tutto
l’apparato tecnico per rilevare misurazioni non è messo in discussione. Al problema dell’induzione,
perché ogni teoria scientifica può essere logicamente falsificata, egli risponde dunque accettando un
po’ di convenzionalismo, senza eliminare le decisioni che identificano le osservazioni, ma per fare
scienza ci sono cose che non si possono mettere in questione.
Lakatos propone poi un interazione non a due, osservazione e teoria, ma a tre, osservazione e due
teorie (una anziana e una giovane). La scienza poi può avviare programmi di ricerca progressivi e
regressivi e sono del primo tipo se:
 Qualsiasi nuova versione conserva il contenuto non falsificato del suo predecessore …
 … predice nuove osservazioni inaspettate …
 … alcune di queste sono corroborate.
È importante poi la distinzione che egli fa tra scienza matura e immatura. Molti programmi di
ricerca possono infatti essere progressivi, ma quelli maturi danno suggerimenti e procedure per
cambiamenti necessari: è l’euristica positiva, che dà suggerimenti e regole per modificare una
teoria. Nella scienza più immatura invece, questi cambi sono indovinati. L’euristica negativa dice
così come non cambiare la teoria negativa, quella positiva, che esiste solo nelle scienze naturali,
come assicurare una progressività nei campi di ricerca. Va però anche notato che una scienza
immatura spesso è anche un po’ degenerativa, proprio perché poco sviluppata
In merito poi al problema della demarcazione tra ciò che è scienza e no, Lakatos dice che c’è
scienza laddove le ipotesi ausiliarie sono modificate per aumentare il contenuto empirico e la scelta
tra i vari programmi di ricerca si fa guardando a quali offrono nuove corroborazioni.
Resta il problema di come si passi dalla teoria all’osservazione e viceversa.
3. RECEZIONE DEL CONCETTO DI SCIENZA IN TEOLOGIA
I. BARBOUR
L’autore cerca di recepire questi modelli per leggere la teologia e così egli vede le religioni come
diversi paradigmi, o programmi di ricerca, che possiedono un insieme di “osservazioni” o
esperimenti carichi di interpretazioni teoriche ed anche certi approcci alla vita e alla relazione con la
divinità, trasmessi attraverso “casi esemplari”, quali ad es. i fondatori e i santi. Quattro sono gli
elementi che caratterizzano dunque scienze e religione: osservazioni, teorie/modelli,
tradizioni/programmi di ricerca e casi esemplari. Se spesso nelle teorie scientifiche le ipotesi
metafisiche sono implicite, nel caso religiose sono spesso esplicite.
La possibilità di usare queste modellizzazioni viene dall’enfasi posta sulla comunità degli scienziati
da Kuhn e da Lakatos, che rendono il loro approccio aperto ad implicazioni religiose. Non sono
infatti gli scienziati individuali che stabiliscono i paradigmi e la loro dominanza, come non sono i
credenti individuali che stabiliscono una prassi religiosa; esistono certo geni e santi, che sono
importanti per i paradigmi, ma non sono loro che stabiliscono una dottrina.
Analogie tra religioni e scienze
Nel cristianesimo ad es., torniamo sempre all’approccio al dato esemplare, contenuto nelle Scritture: quello di Gesù e della prima comunità. Nelle scienze naturali si guarda invece ciò che si è fatto
reinterpretandolo alla luce di nuove acquisizioni, nessuno parte da zero; ad es. Einstein è arrivato
alla relatività, grazie alla reinterpratazione in situazione fisica della matematica di Riemann.
L’equivalente religioso delle osservazioni per Barbour sono gli eventi religiosi visti come parte di
una Rivelazione. Ora per gli epistemologi gli esperimenti non sono mai puri in sé, ma solo se
inseriti in un paradigma o a confronto con ipotesi ausiliarie; spesso poi per interpolare i risultati si
segue il criterio di “semplicità e fattibilità”. I dati religiosi sono anch’essi carichi di concetti e di
teorie ad es. le teorie raccolte nei Vangeli sono riletture teologiche, degli eventi della vita di Gesù,
alla luce della sua Risurrezione e del suo significato universale; i primi discepoli infatti hanno
vissuto un’esperienza e per teoretizzarla che possono fare se non parlare con ciò che hanno tra le
mani (fatti e parole di vita di Gesù, concetti giudaici, cultura greca ecc.) e proprio questo tentativo è
il punto di partenza di uno sviluppo dottrinale, vincolato a quella prima sintesi da loro operata. La
Chiesa infatti legge la Scrittura nella luce della matrice di queste “teorie”, la Tradizione, ed ogni
cristiano è chiamato a rileggere la propria esperienza in questo modo.
Come Kuhn parla di dogmaticità della scienza normale, Lakatos parla di teoria nucleare, entrambi
impermeabili a esperimenti che la falsificano, che possono essere considerati come anomalie. Così
per Barbour le religioni possono essere viste come comunità religiose che aderiscono ad un
paradigma o ad un nucleo e che perdura nonostante anomalie varie, perché le varie teologie o
riflessioni sulla rivelazione, non risolvono ad es. il problema del male e della sofferenza, che
rimangono anche per i credenti, problema che più che sull’intelligenza della fede in quanto tale,
grava sulla sua comprensione, sul suo senso; in quest’ottica il problema del male e della sofferenza,
è un’anomalia che si tollera, perché sul livello esistenziale non tutto è chiaro. E si faccia ben
attenzione che una gradazione tra esperimenti c’è tanto nella religione quanto nelle scienze! La
differenza tra il “dato” Cristo e gli esperimenti scientifici è che esso è unico e irripetibile fino alla
fine dei tempi e certo in sé ha uno spessore metafisico diverso, ma non è detto che basti la
Risurrezione ha provare qualcosa, se manca lo Spirito non possiamo capire: Barbour non si
sofferma sulla natura del dato, ma sui meccanismi nel soggetto, ha un approccio socio-ermeneutico.
Così Barbour fa notare come tanto nella religione quanto nelle scienze esista l’esperimento cruciale
e si potrebbe parlare di somiglianza anche per i criteri di valutazione tra quali paradigmi scegliere: il
cristianesimo ha valorizzato la coerenza intellettuale tra le dottrine e certe prassi, certi tipi di
buddhismo invece mostrano una semplicità totale ecc. Guardando alle differenze però:
A. Elementi dei paradigmi PIÙ evidenti nel caso della religione
1. Influsso dell’interpretazione sui “dati”
2. La resistenza contro le falsificazioni comprensive
3. L’assenza di regole fisse per fare una scelta tra paradigmi
B. Elementi dei paradigmi MENO evidenti nel caso della religione
1. La presenza di “dati” comuni su cui c’è consenso tra i sostenitori di paradigmi rivali
2. L’effetto cumulativo di evidenze contro un paradigma
3. L’esistenza di criteri di valutazione che sono indipendenti dal paradigma
Su quest’ultimo punto interessante è il caso della “verità”, perché per il cristianesimo è vero ciò che
nella Parola Dio ci rivela, ciò che dice è vero e così c’è un’opzione per il Logos. Altre religiosità
invece fanno appello ad es. a concetti come “felicità” o altro.
Critiche a Barbour
L’associazione paradigmi con religione è alquanto complicata, perché il primo sottende una
comunità scientifica precisa (fisica, biologica ecc.) e nel caso delle religioni quale sarebbe,
l’umanità?! Di solito però è la comunità che opta per un paradigma piuttosto che un altro e ciò non
sembra avvenga nel caso dell’umanità. In una comunità scientifica, pur nella differenza dei
paradigmi, il concetto di verità è molto legato al “se funziona o no” ed è forte anelito all’unità del
sapere, dell’idea di fondo, ma nel caso delle religioni quale sarebbe? Insomma questa associazione
tra religione e paradigma porta più problemi che altro, meglio applicarla all’interno di una religione.
Detto ciò continuiamo a vedere il pensiero di Barbour.
Il cristianesimo come “paradigma”
Esso infatti in questo senso è caratterizzato dai seguenti elementi:
 Insieme di “osservazioni” (Vangelo, storia della chiesa, liturgia, vita dei santi ecc.) già
interpretate alla luce di una “teoria” di salvezza
 Approccio all’esistenza modellato sul “caso esemplare” e paradigmatico, che è la vitamorte-risurrezione di Cristo e la vita della sua prima comunità, vista come compimento della
storia del popolo di Israele. A questo caso esemplare che è anche l’esperimento cruciale non
c’è accesso immediato, ma mediato dalla Scrittura, che in gran parte ne è già
un’interpretazione e che proprio per questo va letta nella Tradizione.
 Insieme di teorie (dogmi e teologie) resistenti alle falsificazioni
 Scuole teologiche rivali, modelli rivali o complementari di vivere il cristianesimo
 Insieme di valori per scegliere tra “teorie rivali”: una certa continuità con i dogmi precedenti
e una interna coerenza intellettuale
 Una comunità, la Chiesa, che applica questi valori e prende decisioni su ciò che conta come
“osservazione” o come esperienza autentica e che sceglie le teorie giuste, non solo in merito
alle dottrine, ma anche alla vita in generale. E come esistono infatti nella scienza dei
presupposti non negoziabili (es. la natura è indagabile) che non appartengono al nucleo, o al
paradigma, ma al “fare scienza”, così i dogmi appartengono a questo tipo di elementi,
perché non appartengono ad un nucleo che può comunque cambiare prima o poi! Certo nella
loro formulazione qualcosa di cangiante c’è, ma anche qualcosa che difficilmente cambia!
Solo che se le scienze tengono questi presupposti impliciti, la Chiesa li esplicita!
Detto ciò il Cristianesimo può essere un paradigma (soprattutto visto l’impatto religioso e culturale
che ha avuto sulla vita occidentale per duemila anni) o le varie realizzazioni possono essere viste
come tali, in entrambi i casi la dissimilitudini sono maggiori!
Per quanto riguarda la certezza della fede, una volta era vista come estrinseca, perché legata
all’autorità di Colui che si rivelava, ora si cerca approccio più integrale, tanto che più che di
certezza si parla di fermezza, che coinvolge tutta la persona e non solo la sua parte intellettuale.
Questo tema è strettamente legato a quello della credibilità della Rivelazione.
J. POLKINGHORNE
Nel 1998 esce il libro dell’autore Believe in god in a age of science, in cui si presenta il Parallelo
tra lo sviluppo della cristologia e quello della meccanica quantistica. Egli imposta il discorso
similmente a Kuhn, perché parla di tappe storiche, ma non usa il termine “paradigma”, perché non
condivide l’idea della loro incommensurabilità.
Così presenta inizialmente lo sviluppo della meccanica quantistica:
1. La luce inizialmente era vista solo come onda, ma nel 1905 Einstein, in seguito
all’esperimento fotoelettrico, introduce l’idea di una natura particellare della luce e questo
porta allo scompiglio generale. In più la progressiva scoperta della formazione atomica
cozzava con il fatto che, per la teoria classica un atomo così composto doveva implodere! →
Dunque nuovi risultati sperimentali e nuove ipotesi conducono a revisioni dei concetti
classici e a problemi muovi, anche se le soluzioni classiche per il momento continuano a
mantenere il loro valore, non vengono scartate.
2. Bohr proverà a tenere conto di tutto ciò organizzando il suo modello di atomo, che è un
compromesso tra fisica classica e nascente fisica quantistica. → Perciò segue un periodo di
confusione in cui nuove e vecchie idee si trovano insieme in una teoria irrisolta.
3. Negli anni ’20 nasce poi la teoria quantistica del campo, elemento che si può attribuire tanto
alla particella, quanto all’onda. → Emerge dunque una nuova teoria, che vede le teorie
classiche come limiti.
4. Questa teoria lascia però aperti problemi, e ne apre altri, ancora oggi discussi. Permane così
uno sforzo continuo per risolvere i problemi irrisolti.
5. Usando la teoria ci si accorge di nuove implicazioni profonde (quali ad es. l’antimateria e
l’entaglement) che hanno anche ripercussioni in altri campi del sapere.
Egli passa poi a guardare lo sviluppo della cristologia. In questo scorrere mette in luce i parallelismi
con lo sviluppo della meccanica quantistica. Polkinghorne è molto interessato a mettere in luce il
problema dualità/unità e al come pensare insieme, elementi che difficilmente ci stanno:
1. L’esperienza di Gesù e della sua Pasqua, porta i discepoli ad una revisione dei concetti
tradizionali del giudaismo e soprattutto quello di messianicità. Le primitive formulazioni di
fede saltano così gli schemi classici del giudaismo, cercando però anche di rileggerli,
similmente a quanto è avvenuto per la natura particellare e ondulatoria della luce.
2. Segue un periodo di confusione, che coincide con quello in cui si vanno formando i libri del
Nuovo Testamento e in cui i discepoli sperimentano sempre più la forza vivificante della
Pasqua di Gesù. L’unicità di Dio si confronta così con l’inadeguatezza di un parlare di Gesù
solo come uomo, tanto che gli si applica il termine Kyrios, usato solo per Dio. Ciò che
succede è simile al tentativo di Bohr di tenere insieme meccanica classica e quantistica.
3. Emerge una nuova “teoria”, che va fissandosi grazie ai grandi concili cristologici, che non a
caso vanno di pari passo con quelli trinitari. Certo Polkinghorne qui fa un salto di almeno
duecento anni! Questi concili realizzano una nuova sintesi cristologica perndendo dai vari
“modelli” in circolazione, che rimangono però tutti parziali: gli stessi concili più che
articolare una teoria, si limitano a dire gli errori da rifiutare.
4. Per queste ragioni lo sforzo teologico continua fino ad oggi ed il mistero dell’unità tra il
divino e l’umano produce nuove riflessioni. Questo punto è decisamente più endemico in
teologia che non in fisica. La Chiesa non ha infatti accesso ad esperimenti ripetibili per poter
corroborare le sue teologie, può solo leggere e rileggere in modo riflesso e situato le fonti a
sua disposizione, deve continuamente tornare ai dati già interpretati nella Scrittura. Il
Cristianesimo è così fortemente critico, perché a partire da questi dai può criticare
continuamente le varie interpretazioni che continuamente nascono.
5. Le teorie che vanno sviluppandosi gettano luce su altre questioni dell’esistenza umana,
come ad esempio il mistero del male e della sofferenza, perché se Dio vi si immerge, può
aiutare, per lo meno, a portarne il peso.
Interessante è poi guardare ai protagonisti implicati in questi sviluppi: nel primo sono i fisici e la
comunità scientifica nel suo insieme; nel secondo sono sì i teologi e la comunità teologica, ma
anche tutta la Chiesa (cf DV 8), tutta la comunità cristiana. Anche per questo ultimo punto, il
paragone è utile, ma ci sono forti differenze.
N. MURPHY
L’autore, battista, opera la recezione “spinta” del modello di Lakatos, “spinta” perché per lui il
modo di fare teologia segue esattamente quello di fare scienza; la sua è un’impostazione radicale:
 Il nucleo teorico della teologia egli lo vede nella dottrina centrale della comprensione di Dio
e dei suoi rapporti con il creato, che nel caso del cristianesimo coincide con la dottrina della
Trinità e tutte le realtà lette alla luce di questa e in rapporto a lei (più o meno come fa
Agostino). A seconda delle teologie poi, ci sono delle aggiunte: “Dio come Dio degli
oppressi” per i liberazonisti, “Sola grazia” per Lutero, “Sovranità di Dio” per i riformati ecc.
 Le ipotesi ausiliarie lui le vede nelle dottrine sulla persona e l’opera di Cristo, sulla natura e
la missione della Chiesa ecc.
 I dati egli li vede nelle Sacre Scritture, nella storia della Chiesa e nelle esperienze religiose.
Questi possono essere intesi come dati, nel momento in cui si intende dati in senso largo, nel
senso di dati e teorie, che vanno sempre di pari passo, soprattutto negli esperimenti cruciali!
Il significato del dato dipende infatti da una interpretazione pre-esistente, interpretazione che
nel caso cristiano è una conoscenza legata ad una forma di vita, ad una prassi.
Egli tratta a lungo, in particolare, il caso delle esperienze religiose (es. Santa Caterina da Siena), per
vedere come possano essere usate in teologia. Esse infatti non possono essere usate
immediatamente come esperienza intersoggettiva ed allora indica due criteri per verificarne
l’autenticità, per strutturare una teoria del discernimento spirituale:
 Coerenza, accordo cioè tra l’esperienza e la Rivelazione/Tradizione, con certi presupposti
teorici, come in ogni esperimento scientifico.
 Frutti, riguardano in questo caso la vita della persona ed in particolare se si manifesta in lei
una carità straordinaria, che mostra come Dio stesso confermi ciò. Indicatori come gioia,
umiltà ecc. sono infatti rischiosi, perché potrebbero essere anche frutto umano.
Egli vede questa teoria articolata su questi due criteri, legata alla teoria della strumentazione nelle
scienze. Nel caso della misurazione di un fenomeno fisico infatti, noi usiamo uno strumento di
misurazione che offra dei dati, strumento che funziona secondo precise modalità. Nel caso della
teologia i dati sono le affermazioni di una persona ed i frutti della sua vita, dati che sono legati a dei
fenomeni misurabili, che in questo caso sarebbero le esperienze spirituali, e la “teoria di
funzionamento”, la teologia che se ne evince, ciò che permette questo passaggio.
Le critiche mosse a questa impostazione sono state in particolare due:
o Guillets fa notare come la fede, fondamento epistemico, sia un rapporto personale con Dio
che si autodona e dunque non sono adeguati questi discorsi, bisogna usare un’epistemologia
interpersonale, in cui si tenga conto del coinvolgimento del conoscente.
o Si critica l’eccessiva razionalità, l’eccessivo ricorso all’evidenza, che già nel campo delle
scienze funziona più o meno, ma in quello della fede salta proprio! È infatti importante
anche l’estetica, il ricorso alla persuasione: quando una teoria appare bella, allora stimola in
noi curiosità, la voglia di conoscere.
4. SCIENTIFICITÁ DELLA TEOLOGIA
Seckler fa notare come la teologia possa essere intesa in un senso ampio, generale, primordiale, in
cui si mette in connessione Dio (teo) ed il linguaggio (logia), perciò in questo caso anche la
predicazione è teologia. C’è però un senso più stretto, quello della teologia accademica, che fa
ampio ricorso di un metodo, ma che tratta anch’essa di tutto, perché se ha Dio come oggetto
formale, tratta anche di tutte le realtà create sub ratione Dei, nel loro rapporto con Dio.
Teologia come scienza nel Medioevo
Questa teologia accademica nasce a partire da Boezio, che influenza la scuola di Chartres, facendole
recepire le categorie aristoteliche. Questo spostamento da una teologia in senso ampio ad una in
senso più stretto, avviene parallelamente alle sedi in cui si coltiva la teologia: dai monasteri alle
città in cui si trovano dapprima le scuole cattedrali e poi le università. Nicola di Amiens cerca così
di produrre un sistema teologico secondo un sistema euclideo, tentativo criticato, ma che aiuta
l’entrata del concetto di scienza in teologia; entrata che ha due conseguenze: 1) necessità di
assimilare una ragione autonoma rispetto alla fede, perché nelle scuole/università nascenti ci sono
molte materie in cui non si trovano dati di fede; 2) necessità di assicurare uno statuto
epistemologico alla teologia. Conseguenze che sono ancora attuali!
Due sono gli approcci alla scientificizzazione della teologia:
 Anselmiano, dell’intellectus fidei, per cui la fede è il punto di partenza della teologia, ma la
ragione, sotto la sua spinta, si espande fino a raggiungere una certa comprensione delle
verità di fede.

Tomista (della Summa, perché nelle Sentenze anche lui era anselmiano!), per cui la ragione
in quanto tale non ha un potere penetrante, ma solo di deduzione da altre verità. Concetto,
questo, tipico della scienza aristotelica, per cui da premesse si giunge a delle conclusioni, e
la ragione serve solo per arrivare dalle une alle altre. Nel caso della teologia le premesse
sono le verità di fede che sono accettate in base all’autorità di Dio che le comunica.
In entrambe i caso si vede dunque, come il concetto di scienza modifichi il modo di fare teologia,
anche perché nel primo caso lo schema usato è quello platonico!
[Ho saltato una lezione, in cui si è ripercorso la scientificità della teologia, riprendo da Pannenberg]
Teologia come scienza in Pannenberg
Pannenberg, molto rahnerianemente, dice che Dio non può essere l’oggetto di nessuna scienza, ma è
compreso con ogni oggetto/esperienza, come anticipazione di senso, però ciò vuol dire che questo
futuro/senso totale, siccome è storico, non è ancora compiuto e quindi c’è un aspetto ipotetico. I
dogmi di ogni religione hanno così questa natura ipotetica e certo la totalità di senso è data in Gesù,
ma essa si mostrerà pienamente alla fine dei tempi, ciò significa ipotetico, provvisorio.
Il problema di questo approccio è quasi tutti i credenti, non credono in modo ipotetico, perciò ok
una certa ipoteticità nella formulazione dei dogmi, perché la lingua/cultura è condizionata, ma
dall’altra qualcosa di vero ci deve essere, altrimenti si cade nel relativismo/provvisorietà. E nel
trattare il condizionamento ci vuole un processo storico di discernimento.
Pannenberg poi propone di paragonare le religioni del mondo, per vedere quale ha fornito la totalità
di senso più adeguata per comprendere il proprio mondo, ma come stabilire una criteriologia?
Pannenberg insomma ha cercato di de-assolutizzare Hegel, di renderlo più storico-ermeneutico, ma
che poi ci sia riuscito è un altro conto!
Tirando le fila
La difficoltà con le concezioni non-dogmatiche ci fa pensare al coinvolgimento del soggetto nel
teologare, se io vivo un rapporto personale/intimo, ma questo coinvolgimento non ha la natura di un
ipotesi, perché il coinvolgimento richiede fiducia e nel caso di Dio è difficile dire come questa
sfiducia da parte sua possa esserci, visto che Lui è fedele all’Alleanza, con Lui non ci sono appigli
per smettere di fidarsi.
Riguardo alla mediazione linguistica, il discorso va approfondito migliorato. La svolta ermeneutica
ha cercato di mostrare il coinvolgimento del soggetto con il suo oggetto e le condizioni delle
espressioni, perché coinvolgendomi mi coinvolgo con un certa comprensione, e proprio per questo
dunque, è importante riflettere sulle scienze umane o dello spirito.
5. SCIENZE DELLO SPIRITO (O UMANE) E NATURALI, A CONFRONTO
Come mai scienze e teologia si possono avvicinare dunque? A causa dell’ermeneutica, perché:
- È quasi tutta uscita dal contesto cristiano (Shleiermacher, Diltey ecc.)
- Ha influenzato molti processi teologici.
- Dopo il concetto di paradigma di Kuhn, molti hanno visto le scienze naturali, come scienze
ermeneutiche.
Scienze e teologia sono dunque nello stesso orizzonte dell’ermeneutica?
ESEGESI
ERMENEUTICA FILOSOFICA
B
A
?
C
TEOLOGIA
SCIENZE UMANE
?
SCIENZE NATURALI
?
Distinzione scienze umane e scienze naturali
La distinzione tra scienze umane e scienze naturali venne postulata da J.S.Mill, distinzione che si
basa in fondo sul dualismo cartesiano res cogitans res extensa, che a lui arrivò però mediato da
Kant, per cui le scienze naturali studiano i caratteri materiali e le umane il resto.
Hegel introdurrà il concetto di spirito assoluto, che porta tutto a vedere come espressione di questo
spirito che cerca la sua autocoscienza.
Dilthey dice che l’individuo ha con sé, in coscienza, un’unità di vita che racchiude la vita umana in
pienezza ed ogni esperienza ed attività culturale è espressione di questa vita. Le scienze dello spirito
portano così alla ricerca globale ed è per questo che possiamo capire i testi del passato, a causa di
questa vitalità presente in ogni uomo di ogni epoca e di ogni cultura.
Dilthey legge poi Husserl, che critica l’approccio psicologico perché elimina l’intersoggettività, e
così integra la sua posizione vitalista, una realtà storico/sociale che portiamo con noi. Certo sul
come relazionare vitalità interiore con quest’ultima non dice niente ed è questo il problema!
Discussione sullo schemino in figura
L’ermeneutica è un tipo di metodologia delle scienze umane (A).
Vista l’impostazione di Kuhn, essa interagisce con le scienze naturali (C), perché la ragione in atto
non è mai neutrale, ma condizionata: certo l’immersione in un paradigma richiede fedeltà ad esso,
perché tanto esso non è chiuso, ma tende da se stesso ad aprirsi. Le stesse misurazioni
presuppongono altre teorie tecniche e così ogni dato sperimentale ha una pre-comprensione, una
presupposizione, che spesso è di ordine metafisico. Ecco perché si possono vedere le scienze
naturali come forma di vita; Wittgenstein infatti mostra come un linguaggio lo si sa usare solo
quando si assorbe una certa mentalità, quando se ne ha la pratica, imparare una lingua non significa
infatti imparare delle regole, ma immergersi in una prassi, come dice Feyerabend, che porta ad
imitare per essere creativi. Non a caso Feyerabend paragona le scienze naturali all’arte!
Dopo il Vaticano II l’approccio ermeneutico è entrato anche in teologia (B) ed ha portato ad un
approccio meno dogmatico, apodittico e più questionante, meno basato su di una filosofia
universale, come avevano invece fatto i manualisti. Oggi c’è più interesse per la concreta situazione
storica, culturale e linguistica e questo anche per i grandi concetti metafisici. Più che determinarli
infatti è più facile dire che cosa non è e gli stessi dogmi sono così. Bisogna poi ricordarsi di come
una verità non sia solo cognitiva, ma anche legata ad una forma di vita, tanto che spesso, quando si
arriva a dire “non credo” si è già abbandonata una prassi.
CONCLUSIONI
È importante che per il rapporto tra teologia e scienze naturali ci si ricordi che ogni scienza:
 presuppone una comunità che la porta;
 contiene un certo grado di dogmatismo
 rimane nella cornice della propria scienza, alcune cose ed affermazioni non sono cioè viste
come appartenenti ad essa.