Note di lettura da David MacDougall Transcultural Cinema Princeton, Princeton University Press, 1998 Dal capitolo nono Unprevileged Camera Style (p. 203) «Le cineprese portatili con sonoro sincrono di Richard Leacock, Michel Brault e Albert Maysles furono le prime a poter essere usate come strumenti personali, dopo anni in cui il suono veniva aggiunto alle immagini in sala di montaggio o era frutto dell’uso di enormi cineprese che necessitavano di una squadra di tecnici. Dopo i primi voli di fantasia, secondo cui le cineprese potevano andare dappertutto e riprendere qualsiasi cosa, i filmmakers iniziarono sperimentare ciò che significava intendere il film come forma personale di registrazione. Esso avrebbe restituito più direttamente gli interessi e il contesto di lavoro dell’osservatore, e avrebbe impedito l’accesso a quel tipo di autorità definitiva propria dei film del passato. Esso avrebbe ricollocato il pubblico rispetto al soggetto, e ciò significava ricollocare il filmmaker in rapporto al pubblico. Il risultato fu la nozione di uno stile “unprivileged camera”: uno stile basato sull’assunzione che un film deve essere un artefatto (p. 204) dell’incontro fisico e sociale fra il filmmaker e il soggetto. Per realizzare ciò, alcuni filmmakers iniziarono rinunciare ai privilegi formali della olimpica onniscienza di narratori. Altri ne fecero una questione di principio: cioè che fosse immorale presentare la vita di gente reale con gli stessi mezzi con cui si creavano personaggi di fantasia. Le reali vite umane, semplicemente, non dovevano essere materia prima per storie o illustrazioni di concetti. A dispetto di qualsiasi documentario che potesse essere fatto su di loro, esse avevano una loro propria esistenza, e ciò esigeva che queste vite fossero trattate per ciò che effettivamente erano. Naturalmente questo fervore aveva le sue brave cecità ideologiche. Il cinema “diretto” consegnò nelle mani di singoli filmmakers un bel po’ di poteri, che diversamente sarebbe stati nelle mani sia del pubblico sia dei soggetti del film. C’era inoltre molto spazio per gli auto-inganni: come il credere che il senso degli eventi sia autoevidente nelle immagini che li rappresentano, o che il filmarli li renda per ciò stesso interessanti, o che la gente non sia condizionata molto a lungo dalla presenza della cinepresa, o che il filmare sia parificabile a un’esperienza mistica o filantropica in cui l’ambizione creativa non trova spazio. Il film etnografico rappresenta un caso speciale di documentario. Le convenzioni cinematografiche attirarono molta attenzione sia in quanto espressioni di cultura (ad esempio gli esperimenti di Worth e Adair sui Navajo), sia a causa del dibattito, suscitato da Jean Rouch, Colin Young, Jay Ruby e altri, su come il film possa fornire prove all’antropologia, Ben presto la discussione si spostò su come il film potesse diventare un mezzo dell’inchiesta etnografica. Ma la coscienza della rivoluzione stilistica in atto nel film documentario, li condusse solo in ritardo ai film etnografici, anche se due degli innovatori nel documentario erano anche etnografi, Jean Rouch e John Marshall. La maggior parte dei film venivano strutturati come una lettura, che affermava l’autorità del commentatore, non del girato. Altri, appartenenti al genere dei film educativi che prevedevano la presenza di antropologi nelle vesti di commentatori di viaggi, continuavano a usarli come attori, e non ad osservarli, e usavano tecniche di ripresa e di montaggio tipiche della fiction.»