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SCIENZE DELLE FINANZE
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Capitolo I
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L’ATTIVITÀ FINANZIARIA ED I SUOI CARATTERI
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1.
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La Scienza delle Finanze
Natura della scienza delle finanze
1.
2.
3.
4.
Aspetti dottrinali
Lo Stato ed il Mercato
Esigenze e limiti dell’intervento pubblico
Finanza funzionale, congiunturale e gli stabilizzatori
1.
2.
3.
3.
Ragioni dell’anteposizione delle spese alle entrate
Nozione e classificazioni delle Spese Pubbliche
Esigenza di attuare “spese produttive”
Limiti alla applicazioni delle spese
1.
2.
3.
4.
5.
Nozione e classificazioni
Le entrate originarie
Le imprese pubbliche
Le entrate derivate o tributarie
Le entrate straordinarie con riguardo al debito pubblico
1.
2.
3.
Definizione ed elementi
I presupposti e la base imponibile
Classificazione delle imposte
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Capitolo II
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L’INTERVENTO PUBBLICO IN ECONOMIA: DIFETTI E LIMITI
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Capitolo III
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LE SPESE PUBBLICHE
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Capitolo IV
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LE ENTRATE PUBBLICHE
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Capitolo V
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L’IMPOSTA
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Capitolo VI
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PRINCIPI CHE REGOLANO L’APPLICAZIONE DELL’IMPOSTA
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3.
4.
5.
6.
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I principi giuridici
I principi amministrativi
La certezza attraverso l’accertamento
L’anagrafe tributaria e il codice fiscale
La riscossione comoda ed economica
Le sanzioni fiscali e il contenzioso
Capitolo VII
GLI EFFETTI DELL'IMPOSIZIONE
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1.
2.
3.
4.
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Introduzione e cenni ad alcuni effetti primari quali evasione, elusione e rimozione
La traslazione e l'incidenza dell'imposta
L'ammortamento dell'imposta
La diffusione
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Capitolo I
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L’ATTIVITÀ FINANZIARIA ED I SUOI CARATTERI
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1.
La Scienza delle Finanze
L’economia è la scienza orientata al soddisfacimento dei bisogni. Nel concetto di economia
c’è il rapporto tra sacrificio e beneficio. Questo è abbastanza facile perché ognuno di noi sa di che
cosa ha bisogno e quanto e fino a che punto è disposto a sacrificarsi per ottenere il bene necessario a
soddisfarlo.
In microeconomia ognuno di noi fa i conti con se stesso ed il risultato della valutazione che si
effettua e chiaro: stabilire la misura del sacrificio e quella dell’utilità è semplice ed altrettanto semplice è la scelta..
Le cose si complicano quando dalla micro si passa alla macro, alla Politica economica e alla
Scienza delle Finanze. Ci si trova di fronte ad una situazione generalizzata; si valuta il problema del
soddisfacimento dei bisogni da un punto di vista collettivo. La possibilità di rapportare il sacrificio
“certo” con il possibile soddisfacimento del bisogno e quindi il conseguimento dell’utilità, soprattutto con la sua misura, è più difficile. Ad esempio ciò che paghiamo per le forze dell’ordine, le
quali sono impegnate per evitare che coloro che si vogliono comportare in maniera diversa dalle
regole agiscano contro gli altri, posso dire, come singolo, che corrisponde all’utilità che esse mi
danno? Certamente no! Eppure devo contribuire al loro mantenimento. Come faccio a dire che le
forze dell’ordine sono utili? Sono in grado di stabilire l’utilità che con la loro presenza le forze dell’ordine mi rendono? Se supponiamo che l’1% del mio reddito contribuisce al loro mantenimento,
sono in grado di misurare l’utilità che da questo 1% che mi viene prelevato, io ottengo? Certamente
no.
Altro esempio: il costo per lo Stato cioè il costo sostenuto dalla collettività per uno studente
universitario, e quindi pagato da ogni contribuente, è altissimo in quanto la parte a carico dello studente è molto bassa. Tutto ciò è giusto? E un problema da non facile soluzione. Di fatto scelte se ne
fanno; sono scelte di politica economica, ma non sempre risultano essere le più giuste e, in ogni
caso, non condivise dai contribuenti alla stessa maniera.
Queste considerazioni preliminari risultano necessarie per entrare nell’idea di Scienza delle
Finanze. È una scienza che sta tra l’Economia, cioè una scienza strettamente utilitaristica a livello
personale, e la Politica Economica attraverso la quale vengono effettuate le spese pubbliche sulla
base delle scelte fatte dal Governo.
Gli indirizzi di Politica Economica si concretizzano anche attraverso la Scienza delle Finanze
la quale preleva risorse dai cittadini e la impiega secondo le scelte pubbliche fatte dalla classe dirigente.
Da qui l’esigenza di una definizione della materia che, nel corso degli ultimi decenni, è stata
anche indicata (Johansen) è stata anche indicata con il nome di “Economia Pubblica” ed anche di
“Economia finanziaria”. Trattasi di una materia scientifica che nasce, verso la metà del secolo XIX
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(J. S. Mill), quali facendosi in maniera distinta dall’economia politica alla quale era rimasta collegata sino ad allora.
Trattasi di una scienza che studia l’attività che lo Stato e gli altri enti pubblici svolgono attraverso un duplice ordine di operazioni: innanzitutto procurarsi i mezzi con dei prelievi effettuati nei
confronti dei privati; successivamente impegnare questi mezzi per fornire i servizi ritenuti più idonei al soddisfacimento dei bisogni pubblici.
Va subito osservato che l’attività finanziaria pubblica, come si cercherà meglio di precisare
successivamente, si svolge al di fuori del marcato, in base ad un processo del tutto particolare, basato sulle scelte fatte dalla classe dirigente.
Al pari dell’Economia Politica, anche la Scienza delle Finanze è una scienza empirica, vale a
dire che si rifà alla realtà, cioè ai fatti ed agli avvenimenti, cercando di interpretarli e, per quanto
possibile, prevederli e giudicarli. Proprio per questo la “Scienza delle Finanze non può definirsi
come “scienza esatta”, dovendosi essa adattare, sia per quanto riguarda i prelievi che l’utilizzo delle
somme prelevate, a situazioni contingenti, sia positive che negative, che possono scaturire sia da
eventi naturali che da altre situazioni congiunturali favorevoli o sfavorevoli che siano.
Così, ad esempio, il bilancio di uno Stato può subire variazioni, anche di rilevo e magari anche per più anni, in conseguenza di una catastrofe quali un terremoto, un alluvione o altri avvenimenti simili.
Ma la Scienza delle Finanze non è una scienza esatta anche perché non persegue le finalità di
una conoscenza globale di un determinato fenomeno e dei suoi effetti. Essa considera infatti soltanto l’aspetto economico, e non i riflessi sociali, politici, o di altra natura, come invece fa la politica
economica, la quale attua i suoi interventi anche in funzione di una maggiore equità e, quindi, di
una ri-distribuzione della ricchezza a favore delle categorie più svantaggiate.
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2.
Natura della scienza delle finanze
Per comprendere la natura della Scienza delle finanze bisogna rifarsi agli stessi principi che
regolano l’economia politica e cioè al fatto che ogni individuo, pur avendo a disposizione una quantità di mezzi limitati, avverte una molteplicità di bisogni e, conseguentemente, mira all’ottenimento
ed alla disponibilità delle maggiori quantità possibili di beni e servizi. Tuttavia mentre in ordine ai
bisogni individuali ognuno di noi provvede direttamente, per quanto concerne quelli che vengono
avvertiti in quanto facenti parte di una comunità, e quindi detti collettivi, la valutazione è fatta dallo
Stato e dagli altri enti pubblici preposti al loro soddisfacimento.
Mentre, però, l’economia studia, per ogni individuo o gruppo singolarmente considerati, le
forme per il conseguimento della massima utilità, la Scienza delle Finanze esamina gli strumenti
anche coercitivi, per il conseguimento del massimo di utilità con riferimento alla collettività.
Come è stato osservato (Cosciani), in queste situazioni, i singoli si trovano di fronte ad una
“scelta forzata”, cioè fatta, per loro conto, dall’ente pubblico preposto il quale, attraverso il bilancio,
effettua la scelta dei bisogni da soddisfare, pagando i servizi atti a soddisfare detti bisogni con il
prelievo prima e la spesa poi.
La Scienza delle finanze distingue i bisogni pubblici e quindi anche i servizi ad essi corrispondenti in generali e speciali, a seconda che siano destinati a tutta la collettività (es. l’attività della polizia) o ad una parte di essa (es. l’insegnamento universitario, la spedizione di una lettera, le
ferrovie etc.). Tuttavia, anche nei confronti di questi ultimi, interviene con una valutazione collettiva ritenendoli, almeno in parte, con finalità di carattere generale perché, anche se sono considerati
dal singolo come mezzi per soddisfare un bisogno personale, tuttavia, vengono valutati in funzione
del costo e del relativo vantaggio che essi arrecano alla collettività considerata nel suo insieme.
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Le scelte per fornire i servizi, per stabilire se questi ultimi debbano risultare tra quelli generali
oppure fra gli speciali sono fatte da coloro che hanno responsabilità di Governo in un determinato
momento e sono dette scelte di “Politica Economica” che, però non sono mai del tutto obbiettive.
Ogni scelta infatti risulta quanto mai complessa ed è condizionata da influenze di vario genere, non
solo economiche, ma anche politiche, sociali ed internazionali.
L’attività della Scienza delle Finanze risulta quindi composita e deve quindi essere considerata
in un contesto ampio e non rigido, proprio perché coinvolge aspetti tecnico-economici, giuridico politici e sociali.
Al pari dell’Economia Politica, anche la nostra materia opera nel senso di giungere, per quanto possibile, ad una valutazione generale delle esigenze, cercando:
• da un lato di soddisfare una marea di bisogni avvertiti dai membri di una collettività
• dall’altro di procurarsi le entrate necessarie per soddisfarli.
Per quanto possibile, le due attività dovrebbero coincidere, almeno da un punto di vista teorico.
Tutto ciò però avviene sulla base delle ipotesi di entrata che in sede di bilancio preventivo si
effettuano. Quando vi sono scostamenti tra le entrate, che magari non raggiungono i livelli previsti,
o per maggiori uscite (per esempio in caso di calamità naturali) si deve ricorrere a prestiti che però
appesantiscono il bilancio dello Stato negli anni successivi.
La Scienza delle Finanze ha rapporti con molte altre discipline quali la sociologia, la politica
economica, la statistica etc.
La maggiore attinenza sussiste però con l’Economia Politica e col Diritto tributario.
Con l’Economia, (sia micro che macro) in quanto l’economia, di cui la Scienza delle Finanze
o Economia Pubblica, è una parte dell’Economia Politica, una sua componente. I bisogni dell’individuo infatti possono esserlo o in quanto, da questi avvertiti come singolo, oppure in quanto membro di una collettività. Nel primo caso il soddisfacimento del bisogno viene effettuato direttamente
dal soggetto sulla base di una valutazione economica individuale; nel secondo al contrario, il servizio lo fornisce l’ente pubblico preposto, seguendo però un criterio politico che non sempre il singolo comprende e che, talora addirittura può anche non condividere.
Il grado di divergenza tra le decisioni dell’ente pubblico nella scelta di un servizio e quella che
avrebbe invece desiderato il privato, deriva da fattori istituzionali e da scelte politiche effettuate,
spesso, a vantaggio di quella che, in un dato momento, risulta la classe dominante.
Da ciò deriva una forma di “sostituzione coattiva” di scelte nel senso che il prelievo fatto dall’ente pubblico di una parte della ricchezza del privato, determina, da parte di quest’ultimo, la rinuncia al soddisfacimento di una parte dei suoi bisogni. Questo darà luogo, per alcuni, che fanno
parte della classe dominante, ad avere una maggiore utilità di quella che avrebbero avuto senza il
servizio pubblico; per altri, non rientranti in detta classe, al conseguimento di una utilità inferiore di
quella di cui avrebbe potuto disporre senza il prelievo. Si potrà così affermare che, nel primo caso
l’intervento pubblico ha determinato una rendita positiva mentre nel secondo caso ha dato luogo a
una rendita negativa.
Tale valutazione non può però essere effettuata in maniera rigida in quanto, attraverso lo svolgimento dell’attività finanziaria, non si tende soltanto al soddisfacimento al bisogno del singolo
come membro di una collettività, ma anche al conseguimento di risultati di più ampia portata quali:
• Una più razionale e costante evoluzione dello sviluppo economico;
• Una più equa distribuzione della ricchezza;
• Un equilibrio di conti con l’estero attraverso il controllo della bilancia commerciale e
di quella dei pagamenti.
Con interventi frutto di una preventiva valutazione dei costi e dei benefici, si tende così al
conseguimento di una situazione economica che va sotto il nome di “economia del benessere” e che
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dovrebbe costituire la premessa per l’”ottimo paretiano” cioè un sistema efficiente al punto di essere
stato in grado di sfruttare tutti i possibili strumenti atti a creare utilità; con la conseguenza, quindi,
della impossibilità di aumentare il benessere, anche di un solo individuo, senza determinare una pari
diminuzione nei confronti di un altro. Naturalmente trattasi di una valutazione valida solo teoricamente dal momento che, come si vedrà nel corso del programma, in genere non è possibile stabilire
il rapporto tra il sacrificio che lo Stato impone al singolo, con il prelievo di una parte della sua ricchezza, e l’utilità che lo stesso ottiene da un servizio pubblico. L’intervento pubblico nella vita dei
membri di una collettività è comunque rilevantissimo in quanto gli enti che forniscono servizi debbono, prima di tutto, procurarsi i mezzi economici necessari allo svolgimento delle loro attività.
L’oggetto del nostro studio riguarda proprio tale duplice attività che si articola nell’ambito
della “Scienza delle Finanze”, che studia gli aspetti prettamente economici dell’intervento pubblico,
e del “Diritto Finanziario” che si occupa del diritto in positivo italiano e dei singoli tributi attraverso
i quali vengono realizzati i prelievi.
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Capitolo II
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L’INTERVENTO PUBBLICO IN ECONOMIA: DIFETTI E LIMITI
1.
Aspetti dottrinali
Lo Stato e gli altri enti pubblici sono chiamati, in forza dei loro caratteri istituzionali, a fornire
ai cittadini i beni ed i servizi di cui hanno bisogno.
La Scienza delle Finanze, da un lato studia il prelievo di ricchezza nei confronti dei cittadini,
dall’altro la destinazione di tale ricchezza al soddisfacimento di quei bisogni che l’individuo avverte
non tanto come singolo, quanto invece come membro di una collettività. Fine essenziale di tale intervento pubblico nella vita economica è quello di fornire uno stato di benessere a tutti i membri di
una determinata collettività.
Perché tale fine possa essere conseguito, è però necessaria l’esistenza di alcuni presupposti
che, tuttavia, molto spesso non sono riscontrabili nella realtà quali come osserva Pareto:
• Un sistema economico basato su un regime di concorrenza perfetta e di un generalizzato ed uniforme sistema informativo;
• La presenza di “rendimenti di scala”, rendimenti cioè che scaturiscono delle possibilità di fornire lo stesso servizio ad un numero molto alto di soggetti;
• La mancanza di beni pubblici.
In particolare questi ultimi esistono in maniera rilevante con la funzione essenziale di soddisfare direttamente le esigenze di membri della collettività. Si pensi alle strade, alle scuole, ai boschi
alle spiagge ecc.
Anche la mancanza di uniformità nell’accedere alle informazioni, influenza negativamente la
fruizione anche perché non tutti i membri di una collettività hanno accesso ad esse alla stessa maniera, anche nei casi in cui gli enti pubblici si organizzano per fornire fonti di informazione alternativa a quelle di mercato.
Gli studiosi hanno affrontato l’argomento dell’intervento dello Stato nell’economia, ma le
conclusioni alle quali sono giunti risultano notevolmente eterogenee e spesso discordanti.
Tra le principali ne vanno ricordate alcune riconducibili alle seguenti teorie:
1.Teorie volontaristiche
2.Teorie politico - sociologiche
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3.Teorie delle “scelte pubbliche”
A)TEORIE VOLONTARISTICHE
Consideriamo l’attività finanziaria dello Stato e degli altri enti pubblici come una normale attività di scambio in cui assumono rilevanza sia i costi di un servizio che l’utilità che da esso ne trae
il singolo.
I principali cultori di tali teorie furono il Sax, il De Viti De Marco, il Wicksell.
Il primo, vissuto, al pari del De Vito De Marco, a cavallo fra l’ottocento e il novecento, parte
dalla constatazione che, anche se lo Stato esercita un potere coattivo nei confronti dei cittadini, tuttavia è indubbio che gli stessi traggono un beneficio dai servizi che esso rende e che pertanto, può
parlarsi di un “libero scambio”. E allora si chiede fino a che punto lo Stato possa effettuare dei prelievi dalle tasche dei contribuenti. La risposta che egli fornisce presta il fianco a delle critiche in
quanto afferma che l’individuo destinerà al soddisfacimento dei suoi bisogni, siano essi individuali
che collettivi, una parte della sua ricchezza tale che le diverse utilità marginali dei beni e servizi che
egli ha a disposizione, siano cioè essi individuali o collettivi, risultino uguali.
In termini più semplici, l’equilibrio si raggiunge quando l’utilità marginale dei beni e dei servizi pubblici coincide con quella dei privati ed, inoltre, con la penosità marginale del prelievo.
Così ad esempio, siano dieci le dosi di ricchezza di cui un individuo abbia la disponibilità, lo
Stato potrà prelevarne, per il soddisfacimento dei bisogni collettivi, un numero tale che l’utilità
marginale ponderata dell’ultima dose prelevata fornisca al contribuente, una utilità pari a quella che
egli ottiene dall’ultima dose della ricchezza che rimane a sua disposizione dopo aver subito il prelievo.
In altre parole, se un individuo dispone di dieci dosi di ricchezza, è evidente che l’utilità di
ognuna di esse risulterà diversa da quella delle altre; inoltre l’ultima dose avrà una utilità inferiore
alla penultima; questa avrà una utilità inferiore alla terz’ultima e così via come mostra la tabella
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Dosi
1
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5
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7
8
9
10
Utilità
60
57
51
42
33
21
12
8
5
2
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Ebbene, afferma il Sax, lo Stato potrà prelevare tante dosi, in numero determinabile teoricamente, ma che, per ogni dose prelevata, riesca a fornire una utilità superiore a quella che il soggetto
avrebbe se la ricchezza rimanesse nelle sue mani. Così se lo Stato sarà in grado di fornire una utilità, per le dosi 8, 9 e 10, superiore, rispettivamente, ad 8, a 5, ed a 2, può prelevare le ultime 3 dosi.
Come si può ben comprendere, questa teoria presenta un lato debole in quanto, mentre è facilissimo stabilire l’utilità di una dose di ricchezza impegnata direttamente, dal momento che il privato sa cosa vuole non lo è altrettanto o addirittura non lo è affatto, fissarla per un servizio pubblico,
fornito a tutti e non chiesto al singolo.
Come posso stabilire l’utilità di un ospedale se non né ho il bisogno? Eppure devo contribuire
con il prelievo che lo Stato effettua sulla mia ricchezza, al suo mantenimento. Discorso analogo
vale per una scuola, una strada, l’attività delle forze dell’ordine ecc.
Proprio per tale ragione, il De Viti De Marco il quale, parte dalla constatazione che non può
farsi una distinzione netta frà bisogni individuali e collettivi, anche perché i secondi sono spesso
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complementari ai primi. Il bisogno di una strada viene avvertito in funzione della disponibilità di
un’auto, oppure dell’esigenza di andare da un posto all’altro. Per questo egli afferma che i bisogni
pubblici variano non soltanto da uno Stato all’altro, ma anche nel tempo, nel senso che i bisogni
pubblici tendono ad aumentare, proprio perché complementari ai privati. Tenendo conto di questa
premessa, egli giunge alla conclusione che in uno Stato assoluto non è possibile parlare di “scambio
volontario” in quanto il benessere dei singoli viene subordinato a quello della classe dirigente. In
uno stato democratico, al contrario, risultando essere la competizione fra le varie classi sociali,
quella che riesce ad imporsi alle altre per giungere così al potere, non potrà operare con criteri assolutistici, ma potrà gestire il potere governando “sotto il sindacato continuo della collettività”. Ne
consegue che, pur non potendosi ignorare l’aspetto coattivo del prelievo, tuttavia cerca di evidenziare l’aspetto volontaristico, almeno parziale, della richiesta dei servizi da parte dei singoli.
L’economista svedese K. Wicksell, vissuto anche lui a cavallo tra l’ottocento ed il novecento,
riprendendo la tesi, premesso che a suo avviso, se lasciato libero di scegliere, il primato non accetterebbe di finanziare le spese per i servizi pubblici, aggiunge che ci sono situazioni di “free rider”,
cioè casi in cui si beneficia di un servizio, (esercito, polizia, scuola) o di un bene collettivo (spiaggia, bosco etc.) senza pagare alcun corrispettivo. Ogni categoria di utenti, pertanto, cercherà di sostenere il più basso aumentare di spese per ottenere i servizi pubblici, mentre, nel contempo, si preoccuperà di massimizzare i vantaggi. In altri termini ognuno applicherà, anche nel settore pubblico,
per quanto in suo potere, il principio del tornaconto basato sul “massimo rendimento con il minimo
sforzo”.
Anche nelle teorie volontaristiche più evolute (Bowen) tuttavia, appare di tutta evidenza che
l’attività dello Stato e degli altri enti pubblici si basa sulla coercibilità (es. tu hai una cosa e mi paghi, tu hai uno stipendio e io te ne prelevo una parte). A fronte di un prelievo certo e imposto, sta la
fornitura di servizi che il cittadino non sempre chiede (es. la scuola), ed anche nei casi in cui li richiede (es. il servizio di polizia) non può certo determinarne il vantaggio finché non ne avvertirà il
bisogno (es. in caso di furto). Ma c’è anche un’altra considerazione che evidenzia i limiti delle teorie volontaristiche: la mancanza di conoscenza del costo e dell’utilità dell’attività finanziaria, con la
conseguenza che non può essere determinato il rapporto tra il sacrificio sostenuto e l’utilità che da
esso consegue.
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B)TEORIE POLITICO-SOCIOLOGICHE
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L’attività ed i fenomeni finanziari sono stati esaminati anche da un punto di vista politico e
sociale. Sotto tale aspetto si è data maggiore rilevanza alla coattività rispetto alla volontarietà, evidenziata nelle pagine precedenti. Base fondamentale di tali teorie è la natura dello Stato che è concepito come un soggetto staccato dagli individui e superiore ad essi.
I sostenitori di tali teorie, infatti, escludono la possibilità di poter parlare di volontarietà nello
svolgimento di attività in cui vengono perseguite non tanto gli interessi dei singoli come tali, ma
quello di una collettività di individui. Da tali attività qualcuno potrebbe avere addirittura un danno
(es. L’esproprio di un appezzamento di terreno per costruire una scuola, una fabbrica o una piazza
può tornare utile alla collettività, ma spesso arreca un danno al proprietario espropriato).
E siccome il costante miglioramento delle condizioni di vita fa sorgere sempre nuovi bisogni
da parte dei membri di una collettività, lo Stato e gli altri enti pubblici sono chiamati ad attuare
sempre nuovi interventi economici i quali richiedono dei prelievi dalle tasche dei privati, prelievi
generalmente coattivi.
Tutto ciò, a detta dei principali sostenitori di tali teorie quali il Mosca, il Pareto e il Cosciani,
dà luogo a dei contrasti tra i governanti ed i governati. In altre parole, da un lato c’è lo Stato che
impone le sue leggi e dall’altra, i cittadini che devono sottostare a tutti i comandi e quindi anche ai
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prelievi fatti nei loro confronti. Siccome però lo Stato agisce attraverso i suoi organi istituzionali
che governano (Parlamento, governo, ecc.), il contrasto avviene tra questi –classe dominante- ed il
popolo –classe dominata o governata. In altre parole si determina una situazione di costrizione che
scaturisce dai primi (governanti) e si ripercuote sui secondi (governati), che la subiscono. In particolare il Puviani estremizza il concetto affermando che la classe dominante, rappresentata dai governanti, attua delle operazioni attraverso le quali cerca di rafforzare la sua posizione di comando
dando però l’impressione ai governati di operare a loro favore (“illusione finanziaria”).
Risultando quindi la coattività il carattere fondamentale dell’attività dello Stato e degli altri
enti pubblici, i fautori di tali teorie sostengono che, in tale campo, non hanno rilevanza i concetti di
domanda, offerta e prezzo, che invece sono alla base delle ecomomie di mercato.
Le entrate pubbliche, si afferma (Mosca) sono regolate non da una legge economica, ma politica; anche se, per le spese,valgono i principi economici delle utilità marginali, che regolano l’attività privata. Tuttavia la posizione preminente dello Stato si concretizza attraverso la funzione del potere politico che è quella di coartare le tendenze individuali e di limitare le scelte private con i prelievi pubblici (Cornigliani).
In questo gruppo possono farsi rientrare anche le teorie socialiste in quanto, alla base di esse,
vi è sempre la coazione, anche se questa vale soltanto per la classe capitalista che detiene il potere;
questa opera a favore delle imprese agendo in maniera da sfruttare i lavoratori in genere ed i salariati in particolare.
Volendo giungere a delle conclusioni in questa breve rassegna, si deve riconoscere un maggior
fondamento alle tesi politico- sociologiche rispetto alle volontaristiche.
Se si pensa che i bilanci degli Stati prevedono ogni anno lo stanziamento di miliardi per settori
quali l’istruzione, la sanità, la difesa ecc., si può concludere osservando che, in effetti, il discorso di
“illusione finanziaria” ha un suo fondamento anche nelle democrazie moderne in quanto il popolo
non è in grado di valutare se l’utilità dei servizi generali che lo Stato rende sia adeguata ai sacrifici
che gli vengono imposti con il prelievo fiscale che viene esercitato coattivamente nei loro confronti.
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C)TEORIA DELLE “SCELTE PUBBLICHE”
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Un’impostazione intermedia fra i due gruppi di teorie sopra illustrati è quella che si è andata
sviluppando negli USA nella seconda metà del secolo scorso. Secondo i criteri sui quali si basa tale
concezione, si ravvisa una distinzione netta fra l’attività degli enti pubblici e quella dei privati. Tuttavia, si osserva ,che anche i soggetti pubblici agiscono come operatori economici, al pari dei privati. La loro attività, però, -ed è questa la differenza con le teorie precedenti- non è posta sullo stesso
piano di quella dei privati, ma ad un livello superiore e vincolante nei confronti dell’attività di questi ultimi. Infatti i privati potranno effettuare le loro spese entro i limiti di quanto rimane loro dopo
aver soddisfatto i pagamenti coattivi che richiedono loro sia lo Stato che gli enti pubblici minori.
Le conclusioni alle quali giungono coloro (J.Buchanan) che fanno capo a tale gruppo sono che
tutti gli enti pubblici, sia centrali che locali, operano al pari di un qualsiasi soggetto economico. Ne
consegue che, al momento della scelta dei propri candidati, ogni elettore cercherà di sfruttare le
proprie scelte politiche, dando il voto a coloro che forniranno garanzie sulla scelta di un determinato indirizzo economico anziché di un altro. La struttura statale che così si forma è di carattere monopolistico e cerca di massimizzare il gettito delle imposte (Brennan).
Tale concezione, secondo la quale gli enti pubblici operano essenzialmente per massimizzare
il consenso alla propria leadership, e quindi mantenerla in vita il più a lungo possibile, si avvicina,
indubbiamente, ad uno degli aspetti che caratterizzano la vita economico-politica attuale. Pur riconoscendo alla tesi una sua originalità, tuttavia non può affermarsi la sua validità in maniera assoluta.
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Non sembra infatti possibile ripudiare completamente la visione che dello Stato aveva dato Keynes
e secondo la quale lo Stato stesso, unitamente agli altri enti pubblici, tende a massimizzare il benessere della collettività nel suo insieme, sia pure talora privilegiando alcuni singoli o gruppi. Tuttavia
la realtà ci dice che non sempre ciò avviene. Possiamo infatti toccare con mano che uomini politici
investiti di funzioni pubbliche sia di governo che dell’opposizione e che operano in campo statale,
regionale e del parastato si attribuiscono compensi e privilegi al di sopra della media degli altri cittadini.
Se ne deve concludere che ogni teoria, accanto ad alcuni aspetti positivi, ne contiene altri che
non appaiono del tutto condivisibili.
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2.
Lo Stato ed il Mercato
Il mercato è dato dall’insieme delle domande e delle offerte, e delle conseguenti transazioni,
di un determinato bene, in un’area geografica, in un determinato momento.
L’area geografica non è sempre la stessa: vi sono infatti alcuni mercati amplissimi (es. il mercato dell’oro), altri molto più limitati (es. quello degli ortaggi).
Quando si parla di economie di mercato, ci si riferisce ad un sistema liberista, in cui gli scambi avvengono spontaneamente e determinano così il prezzo, sulla base della domanda e dell’offerta
di un dato bene. Si sostiene che il mercato, con i suoi automatismi provvede a tutto senza alcuna
necessità di interventi correttivi da parte dello Stato o di chi sia a ciò delegato dallo Stato stesso. Ma
questo non è vero, o almeno non è vero in modo assoluto.
Sia chiaro: la concorrenza di mercato è uno strumento insostituibile per la determinazione dei
costi e dei prezzi. senza il mercato (vedi la pianificazione sovietica) un sistema economico diventa
anti -economico. Ciò detto il Mercato non è un meccanismo salvatutto.
Il caso del petrolio è esemplare. Oggi come oggi il petrolio fornisce il 70% dell’energia totale
dei trasporti. Domanda: benzina e diesel, derivati del petrolio, sono sostituibili? La risposta è: in
non piccola misura, si. Sono sostituibili con l’etanolo ed equivalenti derivati da piante zuccherine
(anche barbabietola, girasole, mais); prodotti che hanno l’ulteriore pregio di essere “puliti”. Però a
tutt’oggi il solo Paese che produce olio combustibile e benzina da vegetali è il Brasile. altrove niente. Niente perché il mercato decreta così, perché ai prezzi di ieri il petrolio costava meno. Ma ai
prezzi di oggi e , ancora peggio, di domani? A questo effetto il mercato ci lascia pericolosamente
terra. Il guaio e che il mercato “vede corto”, che non ha progettualità. Il che lo rende inidoneo e
controproducente, nel fronteggiare il futuro.
Il mercato ha anche altri limiti ma, restando al tema, l’idea di affidare le nostre speranze a
un’analisi (di mercato) di costi – benefici è davvero peregrina. Perché il mercato non calcola e non
sa calcolare il danno ecologico. Se abbatto alberi, il mercato contabilizza soltanto il costo di tagliarli, non il danno prodotto dall’abbattimento delle foreste. Se surriscaldiamo l’atmosfera, il mercato
registra, tutto giulivo, solo un boom di condizionatori d’aria. Per questo rispetto, Dio ci liberi dal
Mercato. Il nostro pianeta non sarà salvato “a costo di mercato”; dovrà essere salvato costi quel che
costi.
Da qui l’esigenza di un intervento, insostituibile, anche se diversificato, da tempo a tempo e
da luogo a luogo, da parte dello Stato.
Il ruolo dello Stato, in qualsiasi sistema economico risulta fondamentale al fine di garantire il
conseguimento di due fini essenziali:
1.favorire le condizioni che consentono lo stabilirsi di un mercato di libera
concorrenza che consenta il raggiungimento di un più alto grado di efficienza;
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2.affermare degli interventi sistematici attraverso i quali realizzare una redistribuzione della ricchezza in maniera da consentire un miglioramento delle condizioni
di vita delle classi più povere, diminuendo così il divario di benessere fra le varie
classi siciali facilitando così una situazione di pace collettiva.
3.
Esigenze e limiti dell’intervento pubblico
Da quanto sopra indicato, consegue che lo Stato e gli altri enti pubblici assolvono ad una molteplicità di funzioni attraverso le quali garantire la pace sociale garantendo o comunque operando
per il benessere della collettività che amministrano.
Queste funzioni sono state (Cosciani) ricondotte a tre gruppi fondamentali e la loro
attivazione favorisce il conseguimento di un risultato positivo che va sotto il nome di “Economia
del benessere” (es difesa):
1.Offerta di beni e sevizi sia in maniera generalizzata a tutti che in modo limitato a coloro che ne fanno richiesta (es. università, servizio postale, assistenza medica, ecc.);
2.effettuare degli interventi regolatori dell’attività delle imprese private in maniera che queste forniscano i beni ed i servizi necessari alla collettività, ma con tutte
le garanzie necessarie fissate dalla legge;
3.realizzare degli interventi atti a garantire la realizzazione di una redistribuzione del reddito (es. attraverso l’assegnazione di borse di studio) e della ricchezza
(es. concedendo contributi a fondo perduto per chi avrà un’attività imprenditoriale in
determinate zone).
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Con l’espressione “economia del benessere” (A.Pigan) ci si riferisce a quel filone della teoria
economica che ha per oggetto la valutazione della desiderabilità sociale di situazioni economiche,
anche diverse, e magari alternative l’una all’altra. Naturalmente, per giungere a questo, è necessario richiamarsi a criteri generali in base ai quali sia possibile giungere a stabilire se una determinata
situazione economica è preferibile ad un altra ai funi del conseguimento del benessere collettivo.
L’”economia del benessere” risulta essere quindi, uno strumento di misura: consente infatti di
confrontare i risultati che si conseguono sul mercato lasciando assoluta libertà di azione alle imprese private, oppure limitare tale libertà con l’intervento dello Stato attraverso quelle tre forme sopra
indicate.
Questo non significa però che l’intervento dello Stato rappresenta un “toccasana” per il conseguimento del benessere sociale. Ci sono infatti dei settori, o delle situazioni, nelle quali non solo
l’intervento dello Stato non arreca benefici, ma potrebbe essere fonte di effetti negativi a causa dei
suoi fallimenti.
Ciò non far venir meno però l’elemento base dal quale abbiamo preso le mosse e cioè che,
muovendo da un punto di vista teorico, l’intervento dello Stato dovrebbe garantire il conseguimento
di un livello ottimale di benessere attraverso un intervento che preveda:
efficienza nella produzione delle risorse;
equità nella distribuzione della stessa fra i membri della collettività.
Ma anche il mercato da solo non è in grado di realizzare gli obiettivi di efficienza, ma non è
detto che lo Stato vi riesca e ciò per due gruppi di ragioni:
perché gli interventi attuati nello Stato e dagli altri enti pubblici per il conseguimento
dei fini che si propone (es. maggiorazioni d’imposte, esenzioni, distribuzione di sussidi, ecc.)
possono dar luogo a delle variazioni delle scelte degli operatori, e conseguentemente determinare delle distorsioni nel mercato;
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perché molto spesso gli enti pubblici realizzano le attività alle quali sono preposti,
con criteri di scarsa economicità. L’inefficienza della pubblica amministrazione rispetto alla
privata, è un dato riscontrato, anche se in misura diversa, in tutti gli stati.
È stato però rilevato (Cosciani) che non esiste alcuna imposta, ad eccezione di quella fissa,
che risulti non distorsiva rispetto a qualunque scelta degli operatori. In pratica, quindi, lo Stato si
trova ad applicare imposte e a fornire sussidi, che hanno effetti “distorsivi” sul mercato.
Ne consegue che, pur risultando necessario l’intervento dello Stato al fine di evitare, o quantomeno contenere, effetti negativi del mercato, tuttavia anche tali interventi danno luogo in linea di
massima a conseguenze di carattere negativo non sempre prevedibili. Pertanto la decisione sull’opportunità di lasciare ampiamente libero il mercato, oppure di effettuare su di esso degli interventi
più o meno rilevanti, non può essere fissata a priori e in maniera teorica, ma potrà essere realizzata
tenendo conto di volta in volta, della situazione strutturale e delle circostanze contingenti dell’economia. Rimane in ogni caso fondamentale la presenza dello Stato nell’economia perché malgrado
gli effetti non ottimali che talora da essi possono derivare, tuttavia ancor più negative potrebbero
risultare le conseguenze di un mercato lasciato a se stesso.
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4.
Finanza funzionale, congiunturale e gli stabilizzatori
Richiamando le conclusioni alle quali si è giunti nelle pagine che precedono, si parte dalla
constatazione che il mercato non è in grado di garantire una permanente situazione di equilibrio fra
la domanda e l’offerta, sia di lavoro che di beni e servizi; pertanto necessita l’intervento dello Stato
il quale garantisca un bilanciamento dei cicli economici, attraverso i quali consentire la piena occupazione e l’incremento del reddito nazionale (Keynes).
L’attività finanziaria dello Stato, quindi non deve essere intesa limitatamente al prelievo di
ricchezza dalle economie private per disporre così dei mezzi necessari a fornire i servizi, ma costituire fonte per l’attuazione di un piano più ampio e complesso nel quale fare entrare sia la programmazione economica che gli interventi più idonei per attuare la redistribuzione della ricchezza.
In tale attività lo Stato opera nella veste di imprenditore in quanto, con i suoi interventi stimola o
limita la produzione del Reddito nazionale e tende ad influenzare indirizzi produttivi e la redistribuzione dei beni.
In tale contesto rientra il discorso di “finanza funzionale” attraverso la quale lo Stato cerca di
fornire la ricchezza ed i servizi in maniera tale che tutti i cittadini abbiano la possibilità di goderne
nella misura meno difforme possibile, l’uno rispetto all’altro. Così nel momento in cui lo Stato intendesse applicare un’imposta del 10%, tenderà ad applicarla a parità di ricchezza, a tutti nella stessa maniera. Ma siccome la ricchezza si presenta notevolmente diversa, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, dovrà tener conto di tali differenze per procedere all’applicazione dei tributi.
Infatti anche se due soggetti hanno lo stesso redito, la fonte di esso può risultare diversa (es. il lavoro, il terreno, le case, le imprese, ecc.) e, pertanto, non può essere soggetto alla medesima imposta
chi dispone di un reddito di lavoro rispetto a chi, invece, ottiene il reddito dai propri capitali. Per tali
ragioni vengono sempre effettuate discriminazioni qualitative, oltre che quantitative della ricchezza.
Con la “finanza funzionale” lo Stato attua una pluralità di interventi, non solo di carattere impositivo, ma anche a favore dell’occupazione della manodopera.
Infatti maggior occupazione significa maggiori redditi, e maggiori redditi danno maggiori imposte allo Stato mentre, per contro, diminuiranno gli oneri che debbono essere pagati per i sussidi di
disoccupazione.
Di non minore rilievo risulta essere l’argomento della “finanza congiunturale” detta anche
“finanza compensatoria”. L’economia infatti non ha un andamento costante ma registra momenti di
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espansione e periodi di depressione che danno vita, congiuntamente, ai “cicli economici”. Sono
questi dei periodi di durata fra i cinque e i dieci anni, caratterizzati da quattro fasi:
stabilizzazione in basso,espansione, stabilizzazione ad alto livello, recessione.
Lo Stato non può essere soltanto spettatore dei momenti in cui la produzione può risultare non
in linea rispetto alla domanda, con la conseguenza che potrebbe determinarsi un movimento inflazionistico.
Pertanto nelle fasi di espansione lo Stato cerca di frenare l’economia con due tipi di interventi:
1.limiterà al massimo i lavori pubblici perché l’occupazione è già molto sviluppata
nell’ambito delle imprese private;
2.cercherà di ridurre o eliminare le agevolazioni alle imprese per contenere l’espansione dell’economia al fine di evitare l’innescarsi di meccanismi inflattivi (aumentando i tassi
di interesse e diminuendo le agevolazioni fiscali).
C’è un terzo mezzo attraverso cui la politica congiunturale limita i rischi di inflazione: l’introduzione di nuove imposte.
Al contrario in una fase di recessione gli interventi si manifesteranno in senso inverso ai precedenti con:
la realizzazione di opere pubbliche. Proprio perché la situazione congiunturale sfavorevole è in fase recessiva, lo Stato tende a sostituirsi alle imprese private;
delle facilitazioni alle imprese per stimolare la produzione;
con l’introdurre facilitazioni fiscali quali ad esempio per l’acquisto della prima
casa;
con interventi nel versante del credito: abbassando i tassi di interesse e di sconto e
con facilitazioni nei confronti di settori più in crisi.
La politica economica in genere, e quella fiscale in particolare, seguendo l’impostazione keynesiana, dovrebbe determinare la realizzazione di lavori pubblici nei periodi di crisi dell’economia,
cui dovrebbero far seguito interventi deflazionistici nei periodi di eccesso di espansione. Sviluppando tale concetto, era stato anche affermato che un aumento della spesa pubblica, compensato da
un aumento delle entrate fiscali,può dar luogo ad uno sviluppo del sistema economico in uno Stato
(Haavelmo).
Secondo tali concezioni, pertanto, si attivano automaticamente degli stabilizzatori connessi
proprio agli interventi che lo Stato pone in essere per attuare le politiche sia espansive che deflazionistiche.
La politica dello “stop and go” è infatti quella attraverso la quale lo Stato influenza il mercato,
con prelievi quando è in espansione, in maniera che il mercato rallenti la sua crescita, o con investimenti pubblici quando è in depressione, in modo da stimolarne la ripresa.
Anche tale impostazione, tuttavia, non è immune da critiche in quanto gli “stabilizzatori” se
da un lato possono contribuire a rendere meno traumatiche le oscillazioni del mercato, dall’altro
possono anche dar luogo ad effetti recessivi, specie nei casi di piena occupazione e quando si procede all’applicazione di imposte sul reddito fortemente progressive. Su tali ipotesi infatti gli imprenditori non saranno stimolati ad intraprendere nuove attività, oppure ad ampliare quelle già in
essere, considerando la pressione fiscale troppo alta a fronte del rischio al quale vanno incontro.
Non esiste quindi una regola assoluta alla quale rifarsi, proprio perchè l’economia, ed anche la
finanza pubblica, non sono scienze esatte, ma caratterizzate da un insieme di elementi, sia strutturali
che contingenti che, di volta in volta, richiedono una specificità degli interventi pubblici.
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Capitolo III
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LE SPESE PUBBLICHE
1.
Ragioni dell’anteposizione delle spese alle entrate
A prima vista, potrebbe apparire strano introdurre il discorso sulle spese pubbliche prima di
avere affrontato il tema delle entrate e della loro disponibilità. Ognuno di noi infatti, quando deve
affrontare una spesa, fa dei conti in ordine alle sue disponibilità sia presenti che future. Così, ad
esempio se intendo acquistare con un mutuo una casa di abitazione, dovrò non soltanto disporre di
un certo ammontare di denaro con cui pagare l’acconto del prezzo, ma fare il calcolo delle entrate
degli anni futuri in maniera da conoscere, preventivamente, la somma di cui, in ogni anno futuro,
dovrò avere la disponibilità al fine di poter estinguere il mio debito. Altro esempio è costituito dalle
maggiori spese che vengono sostenute in occasione del Natale dal momento che, in tale periodo, si
dispone di una entrata particolare costituita dalla tredicesima mensilità.
I criteri ai quali si rifà lo Stato e gli altri Enti pubblici non seguono però lo stesso metodo del
privato. Quest’ultimo, come si è cercato di indicare sopra, opera sulla base del denaro di cui ha, oppure avrà in futuro, la disponibilità.
Al contrario gli enti pubblici, siccome devono far fronte ad una molteplicità di di servizi primari a favore della collettività che amministrano ( si pensi alle strade, ai servizi sanitari, alle scuole,
alla giustizia ecc…), debbono predisporre l’elenco di tali servizi e determinare il loro costo.
Sulla base degli importi di spesa che otterranno dalla somma dei costi dei servizi che sono di
loro spettanza, stabiliranno l’ammontare delle entrate di cui hanno bisogno e, conseguentemente,
fisseranno le forme di prelievi fiscali da effettuare e le modalità attraverso le quali porle in essere.
In pratica la determinazione e l’attuazione delle entrate pubbliche non è così semplice e lineare.
Quello che è certo è che esiste una certa relazione tra le spese e le entrate (Micheli) nel senso
che tali seconde sono in funzione delle prime le quali rappresentano il punto di partenza, l’avvio
della determinazione delle seconde.
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2.
Nozione e classificazioni delle Spese Pubbliche
Spese pubblica è qualsiasi forma di distribuzione di ricchezza (di regola il denaro) che lo Stato
e gli altri enti pubblici effettuano per soddisfare i bisogni di una collettività.
Tale distribuzione di ricchezza avviene, di norma, attraverso la fornitura di servizi ritenuti necessari a soddisfare le richieste della collettività stessa.
Può però verificarsi che l’ente pubblico fornisca direttamente una somma di denaro a dei cittadini che siano in possesso dei requisiti indicati dalla legge (es. un contributo per l’acquisto della
prima casa, oppure per avviare un’attività economica).
Come già osservato in precedenza, tuttavia, le spese pubbliche tendono non soltanto a fornire i
servizi, ma anche a consentire un costante flusso di reddito per tutti e, soprattutto, a migliorare il
benessere generale attraverso una migliore distribuzione della ricchezza a favore delle classi meno
abbienti. L’esempio sopra riportato di contributi per l’acquisto della prima casa a favore di persone
in possesso di determinati requisiti, ne costituisce una riprova.
Le spese pubbliche, tuttavia, debbono essere effettuate nel rispetto delle regole fondamentali,
quali un rapporto di uguaglianza fra la spesa di un servizio e l’utilità di questo per la collettività e,
soprattutto, la scelta di fornire quei servizi che, in relazione al costo, siano in grado di offrire la
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maggiore utilità alla collettività alla quale sono diretti. Questo vale in particolare durante questo periodo in cui si assiste ad uno sviluppo rilevante della spesa pubblica.
Le spese publiche infatti non sono rigide, ma variano nel tempo tendendo a coprire una gamma di bisogni sempre più vasta. Ad esempio un tempo l’istruzione non costituiva un servizio pubblico ma veniva impartita da precettori privati; non esistevano le autostrade, in quanto non c’erano
le automobili e , di conseguenza, nemmeno i vigili a regolare il traffico.
Tenendo conto del fatto che le condizioni di vita tendono ad un costante miglioramento e che,
pertanto, ognuno di noi dispone di beni individuali in quantità sempre maggiore, richiede, conseguentemente, sempre più servizi pubblici per poter trarre vantaggio dai suoi beni privati.
Così ad esempio, disponendo di televisore e frigo, abbiamo bisogno dell’energia elettrica necessaria per poterli utilizzare. Si può quindi affermare che le spese pubbliche aumentano sia in relazione alle maggiori richieste dei privati, sia per l’esigenza della pubblica amministrazione di dotarsi
di strumenti adeguati a quelli attivati nel settore privato.
Le spese possono essere individuate in relazione al modo attraverso il quale si estrinsecano ed
alle forme di attuazione ; possiamo così classificarle in vari modi e precisamente:
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a)in relazione al vincolo che le prevede si hanno spese obbligatorie o facoltative, a seconda che siano previste espressamente dalla legge, che quindi le impone all’ente pubblico;
oppure siano lasciate alla discrezionalità dell’ente che può attuarle oppure no.
b)in relazione alle finalità che si intendono conseguire con la spesa si può effettuare
una distinzione a seconda che siano spese pubbliche propriamente dette , cioè destinate alla
prestazione di servizi, oppure spese di esercizio , cioè spese per procurarsi le entrate. Così ad
esempio le spese sostenute per pagare gli stipendi agli impiegati degli uffici delle imposte
sono spese di esercizio in quanto non soddisfano direttamente alcun bisogno pubblico, pur
essendo necessaria la loro attività per procurare le entrate.
c)in relazione alla loro ripetibilità le spese possono essere ordinarie quando si rinnovano in ogni esercizio finanziario, come quelle per mantenere in attività il Parlamento, e
straordinarie quando invece si verificano soltanto a fronte di particolari situazioni, come ad
esempio un terremoto o qualsiasi altra calamità.
d)in relazione alla destinazione economica si distinguono le spese correnti , sostenute
per la fornitura di servizi, da quelle in conto capitale, dette anche spese di investimento perchè destinate a creare altri beni (ad es. la costruzione di un’autostrada).
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Naturalmente possono essere effettuate anche altre classificazioni della spesa pubblica, ma
risultano di minore importanza e quindi non appare necessario approfondire l’argomento.
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3.
Esigenza di attuare “spese produttive”
Per gli enti pubblici chiamati a fornire i servizi si pongono le stesse esigenze che valgono per i
privati: che l’utilità fornita con il servizio risulti superiore al sacrificio sostenuto da coloro che sono
sottoposti al prelievo per ottenere il servizio. Naturalmente, come già si è visto in precedenza, per
l’ente pubblico la soluzione risulta molto più difficile in quanto non è possibile stabilire aprioristicamente l’utilità che un servizio pubblico potrà arrecare al singolo cittadino. Proprio per questo,
evitando una misurazione che sarebbe necessariamente approssimativa e che per qualche individuo
singolarmente considerato potrebbe dar luogo ad una valutazione negativa, si ritiene più giusto stabilire il principio che le spese pubbliche siano in grado di produrre utilità alla collettività considerata nel suo insieme.
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Una utilità sia di carattere economico, nel senso chela spesa crei effettivamente nuovi beni (es.
la costruzione di una scuola), sia di ordine finanziario, nel senso che l’effettuazione della spesa e la
conseguente realizzazione di un nuovo bene, crei dei vantaggi indiretti a favore di soggetti terzi
(es. la realizzazione di una scuola di ingegneria meccanica vicino ad una fabbrica di macchine). Quando ciò non avviene si dice che la spesa è improduttiva, o scarsamente produttiva.
Va tuttavia precisato che non tutte le spese dello Stato sono necessariamente produttive economicamente; lo Stato le effettua in considerazione di altri elementi di carattere sia sociale che politico. Così ad esempio, mandare i propri soldati sotto l’egida dell’ONU, in varie parti del mondo al
fine di garantire – o di ristabilire – la pace, non rappresenta senz’altro una attività da cui ci si attende un ritorno economico. Viene ugualmente attuato sia per contribuire al mantenimento della pace,
sia per far apprezzare l’immagine dell’Italia nel mondo. Così pure, l’assistenza che viene fornita
agli emigranti clandestini che sbarcano in Italia, non è fatta per finalità economiche, ma soltanto per
ragioni di pura umanità. Lo Stato infatti regola la sua attività tenendo presente il benessere economico della popolazione, ma senza ignorare altri elementi di carattere etico, sociale e politico che ,
magari, possono talora risultare anche in contrasto con quello.
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4.
Limiti alla applicazioni delle spese
Anche se i bisogni che i membri di una collettività chiedono di soddisfare risultano sempre di
più, tuttavia le spese pubbliche non possono essere illimitate, ma la loro attuazione deve necessariamente rifarsi alle disponibilità economiche ed alle relative entrate.
Ma il concetto di “limiti” può essere inteso anche in maniera più ampia, vale a dire con riferimento alla destinazione della spesa pubblica ed alla utilità che da questa può derivare alla collettività. La spesa infatti non può essere effettuata al di sopra del limite oltre il quale le somme sborsate
per una data spesa potrebbero fornire una utilità inferiore a quella che si sarebbero potute ottenere
impiegandole, diversamente, in spese alternative di maggiore utilità. Ad esempio, nel caso in cui la
spesa pubblica si rivolgesse al finanziamento di attività private, ne potrebbe derivare un aumento
della produttività ma, nel contempo, una maggiore circolazione della moneta potrebbe provocare
degli effetti inflazionistici sul mercato, con conseguenze negative sul potere d’acquisto della moneta e quindi sulle economie delle famiglie.
In ogni caso non appare possibile predeterminare il limite massimo entro il quale risulta economicamente utile e produttiva l’effettuaizone di spese pubbliche e questo perchè gli effetti economici che da queste possono scaturire risultano talmente ampi ed eterogenei che sfuggono a qualsiasi
forma di misurabilità. Misurabilità che può essere effettuata soltanto “ a posteriori” quando si sono
già registrati degli effetti negativi sull’intero sistema economico o su alcune parti di esso.
Un altro limite da prendere in considerazione in ordine alle spese pubbliche riguarda, particolarmente, quelle di carattere generale, vale a dire quelle che,teoricamente, sono fornite a vantaggio
di tutti i membri di una determinata collettività. Ebbene, tali spese generali anche se teoricamente
sono fornite a vantaggio di tutti, tornano a vantaggio solo di alcune categorie, oppure alcune categorie se ne avvantaggiano in misura notevolmente superiore ad altre. Teoricamente ciò dovrebbe avvenire con quelle spese a favore di categorie che, trovandosi in condizioni meno abbienti, necessitano di facilitazioni derivanti dall’intervento pubblico, attraverso il quale sia possibile giungere ad
una più equa distribuzione della ricchezza. Al riguardo però, considerando che la destinazione della
spesa è fatta dalla classe dirigente, questa terrà conto non tanto di possibili forme di ridistribuzione
del reddito a favore delle classi meno abbienti, quanto invece di facilitare le condizioni di vita di
coloro che forniscono, con il voto, il potere alla classe dirigente stessa.
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Se ne conclude che le problematiche in ordine ai limiti delle spese pubbliche risultano quanto
mai complesse e, di fatto, soprattutto quelle generali, non hanno la possibilità di garantire una più
giusta ripartizione della ricchezza e dei servizi pubblici.
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Capitolo IV
LE ENTRATE PUBBLICHE
5.
Nozione e classificazioni
Dopo aver premesso che lo Stato prima determina le spese (necessarie per fornire i servizi) e
poi si occupa delle entrate (necessarie a coprire il costo di tali servizi), possiamo definire le entrate
pubbliche come il complesso di mezzi monetari che affluiscono allo Stato e agli altri enti pubblici
per far fronte alle esigenze dell’attività finanziaria.
Esistono varie forme e specie di entrata che possiamo ricondurre ai seguenti gruppi:
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♦ ENTRATE ORIGINARIE o PATRIMONIALI
Il cui flusso di ricchezza scaturisce dai beni di cui lo Stato è proprietario, al pari di altri enti
pubblici (es. le spiaggie date in concessione o i ricavi che scaturiscono dalla vendita del taglio dei
boschi). Tuttavia la gran parte dei beni pubblici non danno entrate, ma forniscono direttamente un
servizio (una strada, una scuola, un ospedale ecc.).
Rientrano tra le entrate originarie i prezzi dei beni e servizi forniti da aziende pubbliche.
In questi casi lo Stato produce beni e servizi al pari di un privato, ma fissa il prezzo tenendo
conto delle esigenze sociali, specie di alcune categorie come ad esempio studenti e lavoratori che,
sui trasporti ferroviari, godono di riduzione di prezzo. In tal caso, tuttavia, ci si trova di fronte ad un
prezzo politico, come si preciserà successivamente.
Non va dimenticata l’attività svolta dagli enti pubblici per gestire tutti i beni di cui sono proprietari e dai quali traggono un reddito. Tali entrate influiscono, però, in misura modesta sulle entrate totali.
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Di rilevanza maggiore, per l’ampio gettito che garantiscono e per la vasta gamma delle forme
di prelievo, sono le :
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♦ ENTRATE DERIVATE o TRIBUTARIE
Tali entrate derivano dalla capacità impositiva dello Stato, che la esercita sia in maniera diretta che per mezzo di altri enti pubblici. Tale capacità si traduce in vari modi di prelievo. In questa
classificazione rientrano tutti i tributi.
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Quella appena accennata rappresenta la distinzione di maggior rilievo tra tutte le entrate pubbliche. Ma possono essere fatte altre classificazioni, quali:
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- sotto l’aspetto contabile si distinguono le entrate ordinarie dalle entrate straordinarie
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Le prime sono quelle che si rinnovano regolarmente per ogni esercizio finanziario (es.
l’IRPEF), le seconde sono quelle che ricorrono saltuariamente in relazione ad esigenze di
bilancio come, ad esempio, un’imposta straordinaria per far fronte ad eventi eccezionali;
- sotto l’aspetto della natura giuridica si possono avere entrate di diritto privato, quelle che lo Stato percepisce come un qualsiasi operatore privato (es. la vendita o la locazione
di un immobile di proprietà dello Stato), ed entrate di diritto pubblico quelle che lo Stato
introita in forza della potestà che esercita nei confronti di coloro che dispongono di un reddito nell’ambito del suo territorio.
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6.
Le entrate originarie
Per poter sviluppare tale argomento è necessario individuare quali sono le fonti delle possibili entrate originarie. Esse vengono ricondotte a tre e precisamente:
a)i beni pubblici demaniali
b)i beni pubblici patrimoniali
c)le imprese pubbliche
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Attraverso ognuna di queste tre fonti lo Stato e gli altri enti pubblici si procurano beni e forniscono anche servizi alla collettività, a seconda della natura dei beni stessi, come si desume dall’analisi che viene effettuata:
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a)Beni demaniali sono quelli che per natura, o per disposizione di legge, sono destinati a soddisfare direttamente i bisogni collettivi e, per tale motivo, sono sottoposti a particolari vincoli come, ad esempio, le ferrovie. Sono generalmente beni immobili e comprendono il
:
- demanio marittimo , cioè le spiagge del mare;
- demanio idrico, vale a dire le acque interne quali fiumi e laghi;
- demanio militare, comprendente le caserme, porti ed aeroporti;
- demanio stradale e ferroviario ;
- demanio storico, artistico e culturale nel quale rientrano musei ecc…
Proprio per le finalità che perseguono, tali beni sono inalienabili e inusucapibili nel senso che
il diritto di proprietà pubblica su di essi, da parte dello Stato che ne è titolare, è imprescrittibile.
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b)Beni patrimoniali sono quelli che, pur essendo diretti a soddisfare un interesse collettivo, possono appartenere anche ad enti pubblici diversi dallo Stato e si distinguono in
“disponibili” e “indisponibili”:
- disponibili sono quei beni che non sono veri e propri beni pubblici, ma beni in proprietà, dai quali l’ente ottiene un reddito, e che può alienare senza alcun problema;
- indisponibili sono quei beni che risultano destinati a fornire una utilità pubblica e
non possono essere sottratti a tale destinazione, se non con una disposizione di legge. Come
i beni demaniali, non sono espropriabili se non per destinarli ad una maggiore utilità pubbli!19
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ca; sono però usucapabili, purchè non ne venga alterata la loro destinazione al pubblico servizio. Essi comprendono :
- le foreste, che fanno parte del patrimonio delle regioni ;
- le miniere, le cave e le torbiere;
- le acque minerali e termali;
- i beni militari e culturali non rientranti in quelli demaniali quali ad esempio le armi;
- tutti i fabbricati destinati ad uffici pubblici.
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7.
Le imprese pubbliche
La regola generale è che i bisogni individuali vengono soddisfatti nell’ambito dell’economia
di mercato. Quest’ultimo non è sempre in grado di funzionare in maniera efficiente per la produzione di determinati beni che presentano caratteristiche di indivisibilità.
Esistono anche molti servizi che, pur essendo divisibili (ad es. la fornitura di acqua e gas), tuttavia, senza l’intervento dell’ente pubblico non potrebbe essere assicurata una posizione di ottimizzazione collettiva. In questi casi, l’ente pubblico preposto ritiene utile sottrarre i beni alle leggi di
mercato, pur senza fornirli gratuitamente. Così si afferma che (Cosciani) se è desiderabile che la
fornitura dell’acqua e del gas, in una città, sia sottratta all’economia di mercato al fine di evitare che
un’offerta monopolistica sfrutti in maniera eccessiva il consumatore, non lo è di meno non fornire a
tutti il servizio gratuito perché darebbe inevitabilmente luogo a degli sprechi.
La realizzazione di un’azienda pubblica, tuttavia, spesso non consegue le finalità che si era
preposta in quanto le imprese pubbliche non hanno incentivi per minimizzare i costi in funzione dei
ricavi, ma anche perché non hanno problemi di concorrenza e, soprattutto, non rischiano il fallimento come invece avviene per un’azienda privata in quanto lo Stato interviene per coprire i loro bisogni economici. I consumatori da parte loro, non possono abbandonare il mercato ed i servizi offerti
perché, in genere, i servizi pubblici non sono sostituibili (es. la fornitura di acqua, i trasporti pubblici, le ferrovie ecc…).
L’impresa pubblica, cioè quella il cui capitale è stato conferito, in tutto o in parte, dallo Stato o
da un altro ente pubblico, e che persegue finalità pubbliche (Parravicini) nasce per un insieme di
ragioni:
- evitare frodi, come avviene per la garanzia sui metalli preziosi;
- evitare monopoli privati su beni necessari quali acqua, raccolta rifiuti, trasporti urbani ecc..., perché sarebbero troppo onerosi;
- garantire determinati servizi essenziali anche a quelle piccole comunità che, altrimenti, verrebbero discriminate (l’ufficio postale in un paesino di montagna).
L’impresa pubblica può essere gestita direttamente dallo Stao sottoforma di ente autonomo,
oppure in maniera indiretta attraverso la costituzione di un ente pubblico economico, ma gestito con
una regolamentazione di diritto privato (es. l’ANAS, l’azienda nazionale autonoma delle strade),
oppure costituendo una società ad azionariato pubblico, ma con regole identiche a quelle delle società commerciali (es. Alitalia).
Vi sono crescenti motivi, negli stati contemporanei, di interventi atti a stimolare o aiutare determinate attività produttive, motivi che non sono soltanto di ordine economico, ma anche sociale.
Tende comunque a prevalere il sistema della partecipazione statale al capitale di imprese societarie.
Sorgono così le “imprese miste” che hanno registrato un notevole sviluppo non solo a livello statale,
ma anche di enti locali.
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Esistono tuttavia, ancora oggi, esempi di impresa la cui titolarità è ricondotta esclusivamente
allo Stato, come le Poste e le Ferrovie, le quali, pur essendo aziende autonome, sono di proprietà
dello Stato e su di esso ricadono gli effetti della loro gestione.
A livello locale hanno assunto un’importanza sempre maggiore le aziende municipalizzate
relative a forniture di acqua, gas, trasporti urbani ecc.
Una attenzione particolare merita l’esame dei prezzi e delle tariffe alle quali le imprese pubbliche debbano vendere i loro servizi. La risposta è che non si può avere una soluzione univoca in
quanto, come è stato osservato (Cosciani), ci si può indirizzare verso varie soluzioni:
- Tariffa fissata in coincidenza tra costo e ricavo marginale con, di conseguenza, un
vantaggio notevole ( profitto del monopolista).
- Tariffa fissata al costo medio con, quindi, un profitto normale.
- Tariffe differenziate, fornendo cioè il servizio sottocosto ad alcune categorie e al di
sopra ad altre -come avviene nel caso di trasporti ferroviari- in modo da pareggiare il bilancio.
Per quanto concerne l’Italia in particolare, si rileva una notevolissima distribuzione di imprese
pubbliche, sia a livello statale che di enti territoriali locali. Nel corso degli ultimi anni si è registrata
una notevole evoluzione nei criteri di gestione: mentre infatti fino ad un recente passato non veniva
considerata che in maniera marginale l’economicità della fornitura dei servizi, attualmente a tale
aspetto viene dedicata particolare attenzione. Lo Stato, infatti, non è più in grado di andare a ricoprire, con propri interventi, tutti i disavanzi che andavano maturando nell’ambito delle imprese
pubbliche. Attualmente, pertanto, la politica seguita è quella dei bilanci tendenzialmente in pareggio
magari ricorrendo all’applicazione di tariffe differenziate tenendo conto della qualifica dell’utente
(es. studenti per i prezzi dei trasporti) oppure considerando l’orario d’impiego della fornitura del
servizio (es. l’impiego della forza motrice per lavatrici e simili in particolari orari o nei giorni festivi nei quali l’impiego della stessa per usi industriali è più limitata).
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8.
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Le entrate derivate o tributarie
La gran parte delle entrate, attraverso le quali gli Stati forniscono alla propria collettività i servizi di cui questa necessità, sono di carattere tributario, vale a dire prelevate in forza del potere di
imperio di cui uno Stato dispone a titolo originario e che, almeno in parte, attribuisce agli enti locali, i quali, pertanto, esercitano lo stesso potere in quanto delegato.
Siccome i bisogni che una collettività avverte sono molteplici, anche le entrate tributarie risultano essere in gran numero e pertanto sorge l’esigenza di collegarle fra di loro, al fine di evitare sovrapposizioni ed eccesso di aggravio nei confronti di alcune categorie a vantaggio di altre, pur nel
rispetto di differenziazioni oggettive. Lo Stato infatti ripartisce l’onere dei servizi pubblici fra le
varie classi sociali nella maniera che la classe politica al potere in quel momento ritiene la più giusta, con la conseguenza di aumentare il potere di acquisto a favore di alcuni e diminuirlo nei confronti di altri.
L’insieme dei tributi esistenti in uno Stato in un dato momento ed i criteri attraverso i quali
questi vengono applicati, dà vita ad un “sistema tributario”.
Il sistema tributario, tuttavia, non costituisce mai una struttura statica in quanto la situazione
economica e sociale di un paese è assoggettata a continue variazioni, sia per ragioni interne che per
eventi internazionali. Proprio per questo, il sistema è sottoposto a variazioni ed aggiustamenti attraverso i quali renderlo rispondente alle esigenze sociali. Se infatti non vi fosse un rapporto di correlazione fra i vari tributi non si potrebbe parlare di sistema tributario proprio per la mancanza di collegamenti e di razionalizzazione.
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Alla costituzione di un sistema tributario contribuiscono varie forme di entrate che vengono
appresso esaminate con l’indicazione delle caratteristiche che le contraddistinguono.
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A – Prezzo privato, quasi privato, pubblico
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Trattasi delle entrate che affluiscono alle casse dell’ente pubblico attraverso un’attività economica che è caratterizzata dagli stessi criteri che spingono l’azione dell’imprenditore privato.
Nel caso di prezzo privato l’ente pubblico che produce il servizio, lo cede ad un prezzo liberamente contrattato che copra i costi e che garantisca anche il conseguimento del profitto. Così, ad
esempio, la vendita di un immobile non più destinato a finalità pubbliche, segue criteri privatistici
alla stessa maniera della locazione dell’immobile stesso.
Il prezzo quasi privato presenta, da un lato, caratteristiche analoghe a quelle indicate sopra
ma, nel contempo, consente all’ente pubblico che fornisce il servizio, anche il conseguimento di
finalità pubbliche, come ad esempio evitare il sorgere di forme monopolistiche private che porterebbero ad un aumento del prezzo.
Il prezzo pubblico infine è quello che, pur tendendo al pareggio del bilancio, tuttavia consegue
tale risultato con una diversificazione del prezzo di vendita del servizio, facendo così pagare un
prezzo più alto ai più abbienti e minore agli altri. Un esempio in tal senso è rappresentato dal trasporto ferroviario dove il servizio è fornito in forme diverse in maniera da consentirne l’accesso al
più alto numero di persone. Coloro che pagano il biglietto ad un prezzo inferiore al costo, traggono
un vantaggio perché godono di un servizio il cui costo è maggiore. Quelli che, al contrario, pagano
il biglietto ad un prezzo superiore al costo, sono assoggettati ad un prelievo impositivo che si aggiunge e si cumula al prezzo del biglietto, pur non essendo essi in grado di distinguere fra le due
componenti.
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B – La tassa
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E’ definita come il corrispettivo, inferiore al costo di produzione del servizio liberatamene richiesto, che viene corrisposto all’ente che lo fornisce, dall’utente di un servizio speciale.
Le caratteristiche della tassa sono pertanto ravvisabili nei seguenti elementi:
- un prezzo pagato inferiore al costo di produzione, con la conseguenza che una parte
del prezzo rimane a carico della collettività;
- è individuabile il soggetto a favore del quale il servizio è prestato dal momento che
trattasi di un servizio direttamente richiesto dal beneficiario;
- la tassa infine è una controprestazione volontaria, nel senso che un soggetto accetta
liberamente di pagarla in cambio di un servizio al quale attribuisce una utilità superiore a
quella del sacrificio che sostiene.
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Un esempio che fornisce una chiara immagine dell’istituto della tassa è costituito dalla tassa
universitaria il cui ammontare, anche se ritenuto oneroso dallo studente che lo paga, risulta però trascurabile di fronte alla spesa complessiva che lo Stato deve sostenere per il mantenimento delle
università.
Una considerazione particolare, al riguardo, è costituita dalla misura nella quale l’ente pubblico determina l’ammontare della tassa. Trattasi di un criterio squisitamente politico nel senso che la
misura della tassa viene determinata con riferimento ai vantaggi che,secondo chi governa, derivano
alla collettività da una parte ed al singolo dall’altra.
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Ed è proprio con riferimento a tali vantaggi di ambedue i destinatari, collettività e singolo, che
chi fornisce il servizio determina la misura della tassa e, conseguentemente, stabilisce l’ammontare
dell’onere che va invece ad gravare sulla collettività sottoforma di imposta che integra la tassa.
In ogni tipo di tassa sono presenti un soggetto attivo, costituito dall’ente che fornisce il servizio; un soggetto passivo individuabile in chi chiede il servizio, un oggetto che è rappresentato dal
servizio offerto.
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Le tasse vengono classificate in riferimento al servizio ad esse connesso.
Si hanno così tasse industriali, amministrative e giudiziarie.
- tasse industriali sono quelle a cui sottostanno tutti coloro che impiegano strumenti di
peso e di misurazione in quanto lo Stato vuole garantire gli utenti che si tratta di apparecchi coretti. Rientrano in questa categoria anche coloro che producono oggetti in oro e in argento, sui
quali lo Stato appone un marchio a garanzia del loro grado di purezza;
- tasse giudiziarie, il cui pagamento viene richiesto a coloro che chiedono al giudice di
risolvere una controversia sia civile che penale o amministrativa. Sono criticate ma lo Stato le fa
pagare per diminuire la litigiosità giudiziaria.
- tasse amministrative sono tutte quelle che riguardano la documentazione dell’esistenza
di una qualsiasi situazione giuridica: certificati di nascita, morte, matrimoni, certificati scolastici, patenti di guida, porto d’armi, occupazione di suolo pubblico ect.. Sono certamente le più
diffuse ed il loro pagamento è meno sentito delle precedenti in quanto si pagano nel momento
stesso in cui si richiede il servizio (es. il passaporto).
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C – Il contributo
E’ un tributo particolare, in quanto è un prelievo che presenta i caratteri sia dell’imposta che
della tassa:
dell’imposta essendo coattivo perché riguarda un servizio indivisibile, sia pure parzialmente;
della tassa per la parte divisibile del servizio.
Possiamo quindi affermare che è un prelievo di ricchezza imposto a coloro che traggono individualmente un vantaggio specifico da opere o servizi pubblici di utilità generale.
La similarità con la tassa sta appunto nel far gravare una parte del costo del servizio o dell’opera pubblica su coloro che se ne avvantaggiano in modo particolare;
quella con l’imposta è che non esiste una domanda individuale in quanto l’opera o il servizio
vengono effettuati dall’ente pubblico di propria iniziativa e a beneficio di tutta la collettività, anche
se il vantaggio di alcuni risulta maggiore. Ad esempio se il Comune della nostra città costruisse viali con marciapiedi e alberi sostenendo così spese pari ad un certo importo, ci si domanda da chi tali
opere dovranno essere pagate. Certamente da tutti gli abitanti; tuttavia coloro che vivono lungo il
viale, poiché sono coloro che più direttamente ne traggono vantaggio, dovranno pagare un qualcosa
in più. Tale ammontare rappresenta, appunto, il contributo.
Concludendo diciamo che il contibuto è un prelievo coattivo per un servizio parzialmente divisibile.
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D – L’imposta (rinvio)
Fra tutti i tributi previsti, l’imposta costituisce quello di maggior rilievo sia per quanto concerne le tipologie di prelievo che per il gettito che procura alle casse dello Stato e degli altri enti
pubblici.
Per questo se ne rinvia la trattazione al capitolo successivo.
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9.
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Le entrate straordinarie con riguardo al debito pubblico
Si sono già individuate la natura e le ragioni delle entrate straordinarie, alle quali lo Stato ricorre per esigenze straordinarie ed impreviste della collettività.
Un tempo lo Stato costituiva delle fonti straordinarie di entrata nella vendita di beni patrimoniali, nella istituzione di tributi straordinari, nell’emissione di carta moneta ed anche ricorrendo, se
esisteva, al tesoro di guerra, un accantonamento appositamente predisposto per tali eventi.
Attualmente il ricorso alle entrate straordinarie è molto più frequente che nel passato, proprio
per gli obblighi che vengono agli Stati, da parte dell’Unione europea, di garantire il pareggio di bilancio.
Tuttavia dato il livello particolarmente elevato della pressione tributaria esistente in tutti gli
Stati, le entrate straordinarie si attuano, specificatamente, ricorrendo all’emissione di carta moneta
ed ai prestiti pubblici, al punto che alcuni studiosi, con riferimento a tali due forme di entrata, non
parlano più di entrate straordinarie, ma le considerano dei mezzi ordinari di finanza pubblica e
strumenti di politica economica.
L’emissione di carta moneta non può essere attuata senza regole in quanto deve sussistere un
equilibrio
tra il volume dei beni scambiati e la quantità di carta moneta circolante. Non rispettando tale
principio si andrebbe incontro ad un processo inflazionistico che risulterebbe dannoso sia per il sistema economico nel suo insieme, sia per i singoli, con particolare riferimento a percettori di un
reddito fisso, e quindi non adeguabile all’inflazione che si registra.
Attualmente il controllo della liquidità monetaria, al fine di mantenerla adeguaa al volume dei
beni scambiati, è attuato con la determinazione, da parte della Banca Centrale Europea, del tasso del
“pronti contro termine”, che varia intorno ai valori del 2 %.
Il canale di maggiore rilievo di entrata straordinaria risulta comunque essere il debito pubblico
e trova la sua ragione di essere non soltanto nel bisogno dello Stato, ma anche nella incapacità, da
parte dei piccoli risparmiatori, di far fruttare i loro risparmi per cui il cederli allo Stato, verso il quale nutrono fiducia, rappresenta per loro quasi un buon affare, dal momento che, con un impiego diverso, ne trarrebbero un minor guadagno.
I prestiti pubblici esistono attraverso una molteplicità di forme e varie possono essere le modalità di emissione. Nell’ambito del debito pubblico italiano, tuttavia, attualmente risultano i più
diffusi due tipi di prestito, i quali assolvono a due finalità diverse e precisamente:
- BOT ( Buoni Ordinari del Tesoro ) con i quali lo Stato fa fronte a temporanee deficienze di cassa e che, pertanto hanno una durata inferiore ad un anno;
- BTP ( Buoni del Tesoro Patrimoniali ) e CCT ( Certificati di Credito del Tesoro )
con i quali lo Stato copre i deficit di bilancio e che, pertanto, hanno una durata di molti anni.
La differenza fra i due tipi è che i BTP sono a tasso fisso ed i CCT a tasso variabile.
Per quanto riguarda i B.T.P. può verificarsi che il tasso d’interesse al quale il prestito è stato emesso possa diventare col tempo troppo oneroso in quanto i tassi di interesse, sul mercato,
possono diminuire rispetto a quelli esistenti al momento dell’emissione.
In queste situazioni lo Stato ha convenienza a diminuire gli interessi che deve pagare e
può raggiungere tale risultato in due modi:
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1)ricorrendo alla riduzione dell’interesse corrisposto (conversione) che può avvenire sia in forma volontaria ( lo Stato dice al suo creditore: o accetti il ribasso o ti
rimborso la somma) che forzosa ( lo Stato riduce l’interesse senza interpellare il risparmiatore);
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2)introducendo un’imposta sugli interessi pagati (conversione forzosa) in forza
della quale i risparmiatori si vedono ridurre gli interessi che percepivano precedentemente.
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Capitolo V
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L’IMPOSTA
1.
Definizione ed elementi
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Fra tutti i tributi che concorrono alla formazione delle entrate dello Stato l'imposta è senz'altro
il più importante, sia per l'ampiezza della sua applicazione sia per l'apporto, in valori assoluti, alle
entrate pubbliche.
L'imposta si definisce come il tributo che un ente pubblico ha il diritto di esigere, in forza del
suo potere di imperio sia originario (Stato), sia derivato (altri enti pubblici), nei modi fissati dalla
legge, per fornire quei servizi che per loro natura non sono ne individualizzabili nè divisibili ed
inoltre per coprire quella parte del costo dei servizi divisibili non interamente coperti dalla tassa e
dal contributo. (Giannini).
Quando si parla di imposta si fa riferimento al "presupposto di imposta" che è il fatto, l'atto o
la situazione a cui la legge ricollega l'applicabilità del tributo. La sua individuazione è molto importante poiché permette di stabilire la certezza del diritto, e, in base a ciò, si deve stabilire la "capacità
contributiva" del soggetto, ovvero la sua possibilità economica di contribuire alla spesa pubblica.
La persona nei cui confronti si realizza il presupposto di imposta viene individuata con il termine di "contribuente".
Il verificarsi del presupposto previsto dalla legge segna il momento in cui si instaura il rapporto giuridico di imposta. Nella struttura di questo rapporto si ravvisano alcuni elementi essenziali che
sono sempre presenti in ogni tipo di imposta:
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• il soggetto attivo: che è lo Stato o altro ente pubblico, a ciò delegato dallo Stato in
forza del suo potere sovrano, cui spetta il diritto di accertare, riscuotere e incassare
l'imposta sulla base di un'apposita legge.
• Il soggetto passivo: colui su cui grava l'obbligo di pagare l'imposta e che normalmente è il contribuente. A volte per rendere più agevole l'accertamento e più sicura la
riscossione, la legge considera soggetto passivo un altro soggetto, cioè il sostituto
d'imposta, il quale è giuridicamente tenuto al pagamento del tributo con il diritto di
prelevare la somma dal contribuente. Di solito è presente quando il privato possiede
beni o dispone di reddito soggetto a prelievo fiscale (es. datore di lavoro sul salario del
lavoratore). La legge prevede anche la figura della responsabile di imposta vale a dire
un soggetto chiamato a pagare in forza della sua veste giuridica nella stipula di un atto
(es. il notaio, quando stimola un contratto di compravendita tra due parti è obbligato a
registrare l'atto presso l'ufficio del registro ed è lui responsabile del versamento).
Quando si parla di soggetto passivo non si devono confondere le figure di soggetto
percosso ovvero colui che è chiamato ad eseguire pagamento dell'imposta ma non
sempre ne sopporta il peso direttamente, peso che scarica su di un terzo che sostiene di
fatto il pagamento, il quale prende il nome di soggetto inciso e che, di norma, è il consumatore finale. Lo Stato riconosce come soggetti percossi coloro che giuridicamente
rispondono del pagamento, come un importatore di caffè, detti anche contribuenti di
diritto; mentre i soggetti incisi (es. chi beve il caffè, perché nel prezzo è incluso anche
l’ammontare dell’imposta), vengono anche detti contribuenti di fatto. A volte tali due
figure possono coincidere.
• L’oggetto è il bene a cui l’imposta si applica e si commisura. L’oggetto è sempre la
ricchezza che può essere effettiva (se effettivamente esistente) o apparente se esistono
degli elementi che consentono al fisco di ipotizzare la sua esistenza (es. compro un’auto). La ricchezza viene però generalmente colpita nella sua capacità reddituale e non in
quella patrimoniale (capitale), infatti se l’imposta intaccasse il capitale, questo a poco
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a poco verrebbe meno con la conseguenza che non esisterebbe più nemmeno la fonte
del reddito.
• La base imponibile: ovvero il valore monetario dell’oggetto dell’imposta espresso in
termini quantitativi, secondo i criteri stabiliti dalla legge. La sua entità subisce l’influenza delle variazioni del potere di acquisto della moneta, ad esempio nei periodi di
inflazione essa aumenta poiché si esprime in termini di moneta svalutata; pertanto nell’ipotesi che non aumenti il reddito nominale, il prelievo fiscale diventa troppo oneroso.
• La fonte: cioè il bene da cui si traggono i mezzi per il pagamento dell’imposta. In
molti casi l’oggetto e la fonte coincidono (es. l’IRPEF sullo stipendio viene pagato con
una trattenuta sullo stesso).
• L’aliquota: cioè il rapporto, espresso in percentuale, dell’imposta da pagare commisurata alla base imponibile. Possiamo avere diversi tipi di aliquote:
♦ aliquota progressiva quando cresce in misura superiore al crescere della ricchezza;
♦ aliquota regressiva quando è decrescente(nella realtà non trova una concreta
applicazione);
♦ aliquota proporzionale quando la percentuale rimane fissa, ma non in senso di
prelievo fisso, ma di prelievo che tiene conto della ricchezza disponibile, così un’aliquota del 10% colpisce con 10 un reddito di 100 e con 20 un reddito di 200.
Maggior rilievo si attribuisce all’imposta progressiva, in cui l’aliquota aumenta con l’aumentare della base imponibile, cioè della ricchezza colpita di cui si dimostra di avere disponibilità.
Si ritiene che sia la più giusta in quanto maggiore è la ricchezza di cui un soggetto dispone,
maggiore è la sua capacità contributiva; tuttavia se fosse applicata senza nessun limite si arriverebbe ad un prelievo del 100% del reddito prodotto e ciò costituirebbe (da un punto di vista teorico) al
fatto che più si produce più si deve una remora alla produzione. Tutto ciò si riverserebbe negativamente sul sistema economico, poiché se non si produce non si crea ricchezza, viene meno l’occupazione e lo sviluppo dell’intero paese. Per questo l’imposta progressiva, pur essendo la più giusta,
generalmente viene applicata con aliquota al disotto del 50% del totale della ricchezza colpita.
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In relazione alle forme di applicazione si può vedere una:
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•
imposta progressiva continua (fino ad un massimo predeterminato
dallo Stato): è il sistema più complesso, si basa su una formula matematica, per cui
all’aumentare del reddito scatta un’aliquota più elevata, però sempre entro il limite,
Massimo che varia in relazione ai criteri fissati dalla legge. Nella realtà è poco utilizzata poiché comporta dei calcoli per ogni variazione, anche di un solo euro.
•
imposta progressiva per classi: i redditi vengono suddivisi in classi
secondo il loro ammontare. A quelli compresi nella prima classe viene applicata
un’aliquota più bassa e poi, via. Ad ogni successiva classe, vengono applicate le
aliquote superiori. L’aliquota varia quindi a scatti, nel passaggio cioè da una classe
all’altra, mentre rimane costante per tutti i redditi compresi entro la medesima classe. Tale sistema è oramai abbandonato, in quanto penalizza i redditi che superano
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di poco il limite della classe inferiore, i quali vengono a subire un prelievo ingiusto
perché, pagata l’imposta, potrebbero rimanere con un reddito inferiore a chi ha
prodotto meno di loro.
•
imposta progressiva a scaglioni: è il metodo più diffuso, presente
anche nel nostro sistema. La base imponibile viene divisa in tante parti (scaglioni)
a ognuna delle quali corrisponde una diversa aliquota; anche qui l’aliquota varia a
scatti nel passaggio da uno scaglione all’altro mentre rimane costante per la parte di
imponibile che è compresa nello stesso scaglione: l’aliquota superiore non si applica però a tutta la base imponibile, ma soltanto a quella parte che eccede lo scaglione inferiore.
•
imposta progressiva per detrazione iniziale: era un sistema che veniva usato in passato. Qui l’aliquota è fissa, però la base imponibile non si calcola
sull’intera entità, ma al netto di una somma prestabilita che è esente. Siccome
l’ammontare di tale detrazione iniziale è fissa, essa incide in percentuale tanto minore quanto più elevato è l’imponibile: cioè chi ha un reddito tanto alto paga
l’imposta su quasi l’intero ammontare, mentre chi ha un reddito molto basso la
paga soltanto su una parte minima o se coincide con la detrazione stessa non paga
nulla.
2.
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I presupposti e la base imponibile
Individuata l’imposta, con i suoi elementi ed i caratteri che la contraddistinguono, si rileva che
l’imposta scaturisce dall’esistenza di certi presupposti, vale a dire di tutti quei fatti e quelle situazioni in presenza dei quali operano elementi che fanno scattare l’applicazione del tributo (Micheli).
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Richiama, tale indicazione, il concetto giuridico di atti e fatti. Ciò vale anche per i presupposti
del tributo che possono ricondursi a tali due categorie. La distinzione dei primi dai secondi è individuabile nel fatto che mentre i primi scaturiscono dalla volontà delle persone, i secondi derivano invece da una situazione che sussiste nella realtà, a prescindere dalla volontà del titolare. Così può
definirsi come un atto presupposto dell’imposta l’acquisto di un qualsiasi bene sul quale grava
l’imposta, tra i fatti invece rientra l’essere titolare di un bene che non risulti esente dall’applicazione
del tributo qual è, ad esempio, la posizione del proprietario di una casa o di un terreno.
Ma sia nel caso di atto che di fatto giuridicamente rilevante ai fini della nascita del tributo,
questo sorge soltanto quando siano presenti gli elementi necessari al sorgere del debito d’imposta e
precisamente:
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•
un elemento materiale, costituito dal fatto che sussista una operazione che la legge prevede come fonte per la nascita di un obbligo tributario:
•
un elemento spaziale, nel senso che l’operazione gravata da imposta
avvenga sul territorio indicato dalla legge. Ad esempio un tributo regionale applicabile con aliquote variabili, al momento dell’applicazione, l’aliquota istituita potrà
valere soltanto per il territorio della regione che l’applica e non anche per le altre:
•
un elemento oggettivo che può essere sia il compimento di una determinata operazione che il trascorrere di un periodo prestabilito di tempo. Ad
esempio l’acquisto di una casa fa sorgere l’obbligo di pagare l’imposta di registro:
il trascorrere di un anno solare fa sorgere, per chi dispone di redditi di fare la denuncia di pagare l’IRPEF;
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•
infine un elemento personale, vale a dire che l’operazione alla quale
il tributo fa riferimento deve essere riferita al soggetto che è chiamato ad effettuare
il pagamento del tributo. Valgono, al riguardo, le eccezioni del sostituto e del responsabile d’imposta i quali sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di pagare,
tuttavia il carico del tributo grava sempre sul soggetto al quale fa riferimento la titolarità del bene colpito.
3.
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Classificazione delle imposte
I parametri sui quali si basa la commisurazione del prelievo fiscale possono essere di vario
tipo quali:
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•
il patrimonio, cioè la ricchezza che fa capo ad un soggetto;
•
il reddito, cioè la ricchezza prodotta nell’unità di tempo (generalmente un anno, come avviene per l’IRPEF);
•
la spesa, cioè gli acquisti fatti;
•
qualsiasi altro atto previsto dalla legge come imponibile.
Con riferimento a tali parametri e da elementi indicati nel paragrafo precedente, possono essere effettuate diverse classificazioni dell’imposta come appresso indicate:
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1)
Reali o personali – con riferimento alla parola latina da cui derivano (res = cosa),
si dicono reali quelle imposte che colpiscono la ricchezza per se stessa, vale a dire senza alcun riferimento al soggetto al quale quella ricchezza appartiene. Ad esempio, quando esisteva l’imposta sui fabbricati in maniera indipendente dall’IRPEF, due case uguali, poste nella
stessa località, pagavano la stessa imposta, anche se una apparteneva ad un miliardario e
l’altra ad un operaio. Le imposte personali, al contrario, sono quelle che, pur colpendo dei
beni, si applicano alle persone, vale a dire che tengono conto delle condizioni personali e
familiari in cui un soggetto si trova. Queste ultime risultano più giuste ma non sempre è possibile applicarle. Infatti nella compravendita di un bene si tiene conto del bene comprato,
non delle condizioni economiche di chi fa l’acquisto.
2)
Dirette o indirette – le dirette sono quelle imposte che colpiscono la ricchezza effettivamente esistente come, ad esempio, la casa, lo stipendio ecc. mentre le indirette sono
quelle imposte che colpiscono la ricchezza nel momento in cui, manifestandosi, rivela l’esistenza di una capacità contributiva da parte del soggetto che ne è titolare. E ciò anche se,
nella realtà, la situazione è diversa da come appare. Ad esempio, l’acquisto di un’automobile
viene colpito con l’Iva in base al valore dell’auto. Ma se la macchina viene acquistata a rate,
il soggetto è colpito dall’Iva sulla ricchezza che non ha, ma che appare soltanto. Per questo
si dice che le imposte dirette sono più giuste rispetto alle indirette, ma queste ultime coesistono perché, se ci fossero soltanto le prime, le aliquote sarebbero molto più alte. Inoltre le
imposte dirette sono applicate con diretto riferimento al soggetto interessato e quindi possono essere applicate col criterio della progressività, cosa che -al contrario- non si può applicare per le indirette le quali non tengono in alcun conto le condizioni personali o familiari del
soggetto colpito. In compenso, mentre le imposte dirette fanno sentire il loro notevole peso,
anche dal punto di vista psicologico (si pensi a quando dobbiamo pagare l’IRPEG e l’ICI),
quelle indirette risultano meno gravose, sempre sotto l’aspetto mentale, perché il loro paga!29
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mento viene effettuato nel momento in cui decidiamo di comperare un determinato bene, sia
esso
il
caffè,
la
benzina,
un
vestito
ecc..
Come fonte di entrata finanziaria, le imposte indirette presentano maggiore elasticità, in
quanto il loro gettito aumenta automaticamente non appena un maggior benessere fa incrementare consumi e intensificare gli affari. Come strumento di politica economica, dirette e
indirette, hanno entrambe importanza, ma la loro efficacia si manifesta in modo diverso e
può corrispondere a obiettivi diversi. Le imposte indirette hanno effetti più immediati e possono influenzare in tempi brevissimi le scelte dei consumatori e il movimento degli affari. In
genere provocano un rialzo dei prezzi e una contrazione dei consumi; se si applicano a beni
di largo consumo possono generare spinte inflazionistiche. Le imposte dirette invece decurtano il reddito dei privati e quindi riducono la loro capacità di acquisto; se la loro pressione
diventa eccessiva possono costituire un disincentivo all’attività produttiva e al risparmio.
Oltre alla distinzione sopra fatta, le imposte e si classificano con riferimento al modo in cui si
presentano, in base al:
!
!
3)
•
•
Tempo:
Imposte ordinarie (che si rinnovano in ogni esercizio finanziario),
Imposte straordinarie (non trovano riscontro in tutti gli anni finanziari).
4) Ricchezza:
•
Imposta sul patrimonio (come ICI, che indirettamente colpisce il reddito, ma che è
commisurata al patrimonio),
•
Imposta sul reddito (es. sullo stipendio).
!
5) Estensione territorio:
•
Imposte erariali (applicate dallo Stato su tutto il territorio nazionale),
•
imposta locali (viste come un prelievo che tende a soddisfare i bisogni della collettività a livello locale). Le amministrazioni locali fissano un criterio di prelievo che ritengono
più opportuno (es. nel caso del biglietto dell’autobus), determinato attraverso valutazioni specifiche che variano da luogo il luogo. Tale differenziazione dovrebbe essere il risultato della
valutazione contributiva delle diverse zone del paese, che però dipende da vari elementi. In
passato ciò era molto semplice da calcolare, poiché lo Stato periodicamente effettuava delle
pianificazioni, eliminando così i debiti locali. Oggi ciò non avviene più e pertanto i bilanci
degli enti locali dovrebbero chiudere in pareggio, il cui controllo spetta ad appositi revisori.
Ciò perché sono state attribuite maggiori responsabilità agli enti che affiancano l’opera dello
Stato.
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6) Proporzionali o progressive che risultano essere, come accennato in precedenza, ad
aliquota fissa le prime e ad aliquota variabile le seconde, le quali ultime, pertanto, tengono in
considerazione la ricchezza colpita non soltanto in relazione alla sua natura, ma anche al suo
ammontare.
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7) Commisurate al patrimonio o al reddito a secondo che tengano conto del valore
patrimoniale dei beni o del prodotto annuo che da detto patrimonio scaturisce. Ad esempio
l’IRPEF è un’imposta commisurata al reddito complessivo di un soggetto su base annua. Al
contrario, l’acquisto di una casa è colpito dall’applicazione di un’imposta sul patrimonio (va!30
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lore della cassa) soltanto al momento dell’acquisto; successivamente la stessa casa sarà soggetta al pagamento di altre imposte, ogni anno, ma commisurate al reddito.
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8) Sulla spesa o sul consumo, può assumere varie forme e può essere generale, se colpisce tutti i beni oppure speciale quando ne colpisce soltanto alcuni. L’imposta generale, a sua
volta, può essere applicata in vari modi quali:
•
Plurifase cumulativa, come era la vecchia imposta generale sull’entrata (IGE);
•
Monofase, quando colpisce beni solo ad un certo stadio;
•
Plurifase sul valore aggiunto, così come l’attuale Iva, nel senso che colpisce il bene
ad ogni passaggio ma non su tutto il suo valore, come avveniva con l’IGE, ma soltanto sul
nuovo valore, che si aggiunge al precedente.
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Capitolo VI
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PRINCIPI CHE REGOLANO L’APPLICAZIONE DELL’IMPOSTA
1.
I principi giuridici
Lo Stato, come ente sovrano, ha il potere di decidere in base a quali criteri l’onere complessivo delle imposte debba essere ripartito fra i componenti della collettività. Se in passato, talora
l’imposizione poteva risultare arbitraria, in quanto il potere dello Stato era assoluto, oggi i criteri
adottati devono risultare coerenti con i principi fondamentali, previsti costituzionalmente, ovvero
secondo il principio di eguaglianza ed il principio di solidarietà sociale. Sulla base di tali principi la
dottrina ha elaborato i concetti di “universalità o generalità”e di “uniformità o uguaglianza”.
Questi concetti vengono tradizionalmente chiamati principi giuridici delle imposte perché è ad essi
che il legislatore deve attenersi nell’istituire e disciplinare i tributi.
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• Il principio di generalità / universalità, implica che tutti i membri della collettività devono
essere assoggettati alle imposte, perché tutti godono dei benefici che lo Stato fornisce con la sua
attività, tenendo sempre conto della capacità contributiva di ogni singolo soggetto. Tale principio
ammette però delle eccezioni, sia di carattere oggettivo che soggettivo.
L’eccezione di tipo oggettivo è accordata in maniera permanente, in conseguenza a certi requisiti,quella di tipo soggettivo invece, è accordata in maniera temporanea in considerazione dei
presupposti previsti dalla legge.
Per poter ben comprendere tale concetto procediamo con degli esempi: gli ambasciatori ed i
diplomatici stranieri non pagano le imposte nel paese in cui si trovano, in quanto sono assoggettati
al prelievo in quello proprio, che poi è quello che corrisponde loro gli stipendi. Tale regola permette
loro di non essere assoggettati al pagamento dell’imposta due volte. Un altro tipo di eccezione è
quella che si applica alle zone “extraterritoriali” vale a dire alcune parti in cui lo Stato rinuncia ad
esercitare la sua sovranità: es. la sede di un’ambasciata. Altro esempio è quello delle “zone franche”
cioè delle zone nelle quali e dalle quali lo Stato consente di importare e riesportare merci senza pagare le imposte. Queste zone si trovano in particolare nelle zone portuali dove, appunto, le merci
importate possono essere lavorate per poi essere riesportate. Un esempio tipico, al riguardo è quello
dell’importazione del petrolio greggio e della esportazione della benzina.
Altra eccezione al principio della “generalità dell’imposta” è la cosiddetta “eccezione dei redditi minimi” nel senso che coloro che dispongono di un reddito annuo al di sotto del limite fissato
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dalla legge, non sono tenuti al pagamento dell’imposizione diretta (in Italia l’IRPEF), anche se sono
assoggettati a quella indiretta ogni qualvolta effettuano un acquisto di beni.
!
• Il principio di uguaglianza / uniformità indica che le imposte devono essere distribuite in
modo equo, che cioè tenga conto della situazione economica di ogni contribuente; tutti cioè devono pagare in modo uguale poiché tutti siamo uguali, sia pure nel rispetto delle diversità. In Italia
tale principio è richiamato dall’art. 3 della Cost., il quale prevede che tutte le persone hanno pari
dignità sociale e sono uguali di fronte la legge.
Ad una uguaglianza numerica di prelievo di ricchezza, non sempre, però, corrisponde una
uguaglianza di sacrificio, quindi ciò implica che non si può stabilire un principio di regola assoluto,
poiché le condizioni di reddito variano. In merito sono state formulate delle teorie le quali, tuttavia,
presentano dei lati deboli e non sono pienamente soddisfacenti. Le principali risultano essere le seguenti:
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⇒ Teoria del sacrificio uguale: il sacrificio che il contribuente sostiene è rappresentato
dalla perdita dell’utilità che egli avrebbe avuto se lo Stato non l’avesse privato di una parte
della sua ricchezza attraverso il pagamento delle imposte. La teoria sostiene che può parlarsi
di sacrificio uguale quando ogni contribuente perde la stessa quantità di utilità.
Dato che il principio di utilità è decrescente, questo effetto si ha mediante l’applicazione di
imposte fortemente progressive. Ciò però non può essere pienamente attuato sia perché l’utilità
è determinata soggettivamente, sia soprattutto perché delle imposte fortemente progressive impedirebbero gli investimenti e quindi lo sviluppo.
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⇒ Teoria del sacrificio proporzionale: il sacrificio si pone in relazione con la ricchezza del contribuente. L’imposta è equa -dice la teoria - quando il prelievo ha per tutti la stessa
incidenza e ciò avviene quando l’utilità della somma prelevata rispetto a quella della ricchezza
posseduta determini nei contribuenti un sacrificio nella stessa proporzione. Anche qui, però,
trattandosi di “utilità”, cioè un valore soggettivo, non è possibile fissare un limite se non in
modo approssimativo.
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⇒ Teoria del sacrificio minimo per la collettività: in questo caso non si considera più
il sacrificio individuale del contribuente ma l’utilità sacrificata a livello collettivo, la quale
deve essere la minore possibile. Ciò vuol dire che non si può togliere nemmeno una lira a chi
possiede un reddito basso se prima non si è prelevata tutta l’eccedenza dei redditi più alti. Anche questa teoria non è attuabile in quanto spingerebbe i ricchi, i soli colpiti, a non produrre.
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In base all’analisi sopra elencata ci si può rendere conto che tali teorie non risolvono in modo
adeguato il problema della distribuzione del carico tributario e quindi alcuni studiosi hanno ritenuto
opportuno ricorrere ad un’impostazione teoricamente più accettabile, ovvero al concetto di capacità
contributiva, considerata individualmente e tenendo conto di tutte le circostanze concretamente
accertabili che su questa possono influire. Il Sax che ha formulato la teoria, sostiene che lo Stato
può effettuare da un soggetto un prelievo, supponiamo di alcune delle ultime dosi di ricchezza a
condizione che gli restituisca un’utilità, in servizi, maggiore di quella appunto prelevata. Tuttavia,
anche se da un punto di vista teorico ciò appare giusto, in pratica stabilire l’utilità che il contribuente attribuisce ai servizi che lo Stato gli rende con la ricchezza prelevata è pressoché impossibile e
pertanto, anche quest’ultima formulazione, teoricamente valida, non ha una grande rilevanza pratica. La soluzione al tutto è il ricorso da parte degli Stati in generale, alla discriminazione della ric!32
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chezza, la quale consiste nel distinguere il tipo di ricchezza, sia dal punto di vista quantitativo che
qualitativo.
La discriminazione quantitativa implica che i redditi più elevati vengano colpiti da aliquote
più alte, perché rivelano una maggiore capacità contributiva; implica anche che vengano esentati
dall’imposizione i possessori di redditi molto bassi, appena al limite della sussistenza, i quali sono
privi di capacità contributiva.
La discriminazione qualitativa invece implica un trattamento differenziato a seconda della
fonte da cui deriva il reddito; si ritiene infatti che, a parità di ammontare, la capacità contributiva sia
maggiore per i redditi patrimoniali e minore per i redditi derivanti da puro lavoro. Questo perché i
redditi di lavoro si ottengono con un sacrificio personale e dispendio di energie, ed inoltre sono più
incerti dei redditi patrimoniali in quanto possono venir a mancare, o quanto meno diminuire, sia a
causa di malattie che per la disoccupazione.
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2.
I principi amministrativi
Per poter introdurre il concetto di principi amministrativi è opportuno fare un breve cenno alla
situazione del passato, quando ancora la Scienza delle Finanze non era ancora una scienza autonoma, ma che per motivi di studio rientrava nell’ambito dell’economia in generale.
A. Smith, nel 1776 con la pubblicazione del volume intitolato “Sulla natura e sulla causa della
ricchezza delle nazioni”, non soltanto fissò la nascita dell’economia moderna e la distinzione dell’attività finanziaria da quella economica in senso stretto, ma inviduò anche i criteri attraverso i
quali l’attività finanziaria avrebbe dovuto svolgersi e che sono i seguenti:
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a)la generalità (attualmente classificata come principio giuridico);
b)la certezza;
c)la comodità;
d)la economicità.
3.
La certezza attraverso l’accertamento
Il principio della certezza sta ad indicare che l’imposta deve essere certa e non
arbitraria,vuol dire che l’imposta deve colpire la ricchezza esistente effettivamente o potenzialmente. Il tempo del pagamento, il modo di pagare, la somma dovuta, dovrebbero essere tutti chiari e
semplici per il contribuente e per qualsiasi altra persona.
L’”accertamento” è il procedimento attraverso il quale si tende a stabilire l’effettiva esistenza
di una ricchezza in modo da poterla colpire nella maniera prevista dalla legge, (forma impositiva).
Consiste cioè in una serie di fasi amministrative dirette alla determinazione del soggetto passivo e
dell’oggetto d’imposta.
L’accertamento può essere di due specie:
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•
accertamento indiziario: quando ci si basa su degli indizi, fatti di presunzione o di
deduzione; si passa da un fatto ignoto ad uno noto, ci si basa cioè sull’indizio della capacità
contributiva. Oggi risulta superato ed è usato come complementare all’altro, quello inquisitivo. Esempi di questo tipo di accertamento sono legati a situazioni del passato, come il focati!33
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co: imposta che si pagava sui focolari; il testatico: imposta pagata in base al numero delle persone di una famiglia ecc..
•
accertamento inquisitivo: quando si fa riferimento a fatti concreti, ci si basa cioè sull’elemento oggettivo della capacità contributiva ed è quello attualmente seguito. A sua volta
questo si distingue in:
▪
accertamento d’ufficio
▪
accertamento mediante denuncia verificata.
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L’accertamento procede per quattro fasi:
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•
•
•
•
individuazione dell’oggetto imponibile e di chi ne è il soggetto cioè contribuente;
determinazione della base imponibile;
tassazione;
liquidazione ed esigibilità dell’imposta.
Nel primo caso è l’impiegato fiscale stesso che provvede direttamente a individuare l’esistenza della materia imponibile e ad effettuare le operazioni tecniche di stima o misurazione per determinarne l’entità. Un esempio tipico è l’accertamento catastale delle rendite fondiarie che permette di stabilire le caratteristiche, sia di fabbricati che di terreni, per poterli poi classificare nelle categorie specifiche. Tale accertamento è utilizzato limitatamente ai beni immobili.
Il più diffuso, oggi, è l’accertamento effettuato mediante denuncia verificata. Con tale sistema
il contribuente è obbligato a denunciare la materia imponibile, presentando una dichiarazione con le
modalità e le forme previste dalla legge, ed è soggetto a responsabilità in caso di omissione, o di
dichiarazione incompleta e non veritiera.
Agli uffici fiscali è riservato il potere di controllare l’esattezza e la verità della denuncia, e di
rettificarne eventualmente il contenuto, mediante cioè l’accertamento in rettifica; qualora invece il
contribuente ometta di presentare la denuncia, si procede all’accertamento d’ufficio. Entrambi questi due ultimi accertamenti tendono a ricostruire in modo analitico l’imponibile effettivo.
Avvenuta la determinazione dell’imponibile, segue la seconda fase dell’azione di accertamento, cioè la tassazione, la quale consiste nella determinazione del debito d’imposta che il contribuente deve pagare in base all’ammontare dell’imponibile e all’aliquota, o sistema di aliquote, fissate
dalla legge d’imposta. In tal modo l’imposta viene liquidata. Non si debbono però confondere i due
concetti, quello di tassazione e quello di liquidazione. Questa è una conseguenza del processo di
quella, per cui la liquidazione è il punto d’arrivo del procedimento di tassazione.
L’imposta viene liquidata attraverso le forme previste dalla legge. Un metodo diffuso è quello
del “ruolo”, cioè un metodo collettivo che procede, mediante l’iscrizione al ruolo, dei singoli debiti
di una determinata imposta e la pubblicazione del medesimo. Il “ruolo”, cioè l’elenco, costituisce
un atto di pubblicità della liquidazione, perfezionando così l’accertamento delle imposte dirette.
Attualmente però il contribuente accerta e liquida da solo l’imposta, così come avviene sia per
l’IRPEF che per l’ICI.
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4.
L’anagrafe tributaria e il codice fiscale
L’anagrafe tributaria, sorta in Italia nel 1973, con la riforma fiscale, raccoglie e ordina, a livello nazionale, i dati e le notizie risultanti dalle denunce e dalle dichiarazioni presentate agli Uffici
dell’Amministrazione finanziaria ed dagli accertamenti fatti direttamente dagli stessi uffici.
Tutti i dati raccolti dall’anagrafe sono comunicati agli organi fiscali che hanno il compito di
effettuare gli accertamenti ed i controlli in ordine all’applicazione dei vari tributi.
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All’anagrafe tributaria sono iscritte non soltanto le persone fisiche e quelle giuridiche, ma anche le società, le associazioni e qualsiasi altra forma di organizzazione di persone e/o di beni avente
rilevanza giuridica.
La individuazione dei vari soggetti avviene attraverso il “Codice Fiscale” che è un numero
attribuito dagli “Uffici delle Entrate” dietro richiesta degli interessati oppure dei genitori per quanto
concerne i minori.
Il numero di codice fiscale deve essere indicato in vari atti quali: fatture emesse ai sensi delle
norme concernenti l’imposta sul valore aggiunto (Iva); atti da registrare a termine fisso (tranne
quelli degli organi giurisdizionali) relativamente ai destinatari degli effetti giuridici immediati dell’atto; comunicazioni allo schedario dei titoli azionari relativamente ai soggetti da cui provengono e
agli altri soggetti in esse indicati; dichiarazioni e denunce presentate ad Uffici dipendenti dal Ministero delle finanze o ad Uffici tributari delle Regioni, Provincie e Comuni; ecc..
L’anagrafe tributaria dovrebbe assolvere al compito di rendere più facile l’accertamento dei
redditi, rendendo più rigorosa la lotta all’evasione attraverso un costante collegamento fra tutti gli
organi fiscali nazionali che possono fare ricorso al “cervello elettronico” di cui l’anagrafe è fornita.
I risultati conseguiti sino ad oggi, tuttavia, risultano modesti.
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5.
La riscossione comoda ed economica
La riscossione delle imposte è soggetta a delle regole che dovrebbero consentire, senza troppi
sprechi, di incassare il denaro versato dai contribuenti.
La riscossione varia a seconda che riguardi le imposte dirette o quelle indirette.
Le imposte dirette sui redditi sono riscosse mediante:
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•
•
ritenuta diretta;
versamenti dal contribuente alle esattorie, alle banche e agli uffici postali;
iscrizione nei ruoli.
Sono pagate per ritenuta diretta le imposte sugli stipendi, salari, pensioni ed assegni corrisposti dallo Stato.
La riscossione mediante versamenti alle esattorie, banche ed uffici postali, riguarda, in principale modo: gli acconti dovuti per l’imposta sul reddito delle persone fisiche; l’imposta sul reddito
delle persone giuridiche dovute in base alla dichiarazione annuale; l’ ICI.
Le riscossioni mediante “ruoli” vengono fatte per le imposte per le quali non è previsto il versamento o la trattenuta effettuati direttamente. Esistono vari tipi di ruoli. Il pagamento delle imposte
iscritte nei ruoli avviene a rate, e ciò al fine di rendere meno pesante l’onere del pagamento. Decorso il termine utile per il pagamento, il contribuente che non ha pagato in tutto o in parte la data
d’imposta è obbligato a corrispondere sulla somma non pagata l’indennità di mora: del 2% del debito se il pagamento è eseguito entro tre giorni successivi alla scadenza, e del 6% se il pagamento è
effettuato oltre detto termine.
Per la riscossione delle imposte non pagate nei modi e nei termini stabiliti, l’esattore procede
alla espropriazione forzata in virtù del ruolo, previa notificazione dell’avviso di mora. La procedura
si svolge secondo una sua particolare disciplina, che qui non interessa approfondire. All’esattore
compete un aggio, cioè una percentuale nelle somme che riscuote per conto dell’ente pubblico.
Per le imposte indirette esistono varie forme di riscossione in relazione alle caratteristiche del
tributo ed all’ammontare degli importi (es. IVA mensile, trimestrale, annuale).
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Il criterio di comodità sta ad indicare che l’imposta dovrebbe essere fatta pagare nel momento in cui il contribuente senta il minor disagio possibile. Questo principio corrisponde all’esigenza
di un equo contemperamento fra l’interesse collettivo e i diritti del singolo. La forma migliore attraverso la quale si cerca di far ciò è rappresentata dalla rateizzazione del pagamento.
Quando ancora non c’era l’Irpef l’imposta si pagava in sei rate bimestrali a mesi pari alterni
entro il decimo giorno con una dilazione aggiuntiva massima di altri otto, agli uffici dell’esattoria;
dopo di che, entro il venticinque dello stesso mese, si provvedeva al versamento conseguente all’esattoria per poi attendere la fine dello stesso e versare il tutto presso la Banca d’Italia. La comodità
dunque, dopo aver introdotto l’Irpef, fa fu quella che il pagamento avveniva solo a maggio in sede
di dichiarazione dei redditi. Tale sistema, a seguito di contestazioni specie da parte dei lavoratori
dipendenti, ha subito delle modificazioni, comportando così dei cambiamenti. Attualmente si procede con acconto a maggio, uno a novembre ed una terza rata, a saldo, insieme all’acconto del
maggio successivo.
Accanto a quello della comodità, tuttavia, Smith indicò anche quello della economicità che
indica che ogni imposta deve essere congegnata in modo tale da sottrarre dalle tasche del contribuente una somma che tenda ad avvicinarsi a quella utilizzata per soddisfare i bisogni pubblici. Ciò
è un richiamo contro l’inefficienza e gli sprechi di risorse nella gestione amministrativa delle entrate, ed è al tempo stesso un richiamo all’attenzione verso gli effetti negativi che l’imposizione può
determinare sul risparmio, sugli investimenti e sulla produzione. Tale principio presuppone quindi
che la differenza tra ciò che il contribuente paga e tra ciò che lo Stato utilizza deve essere modesto.
L’imposta si può considerare economica quando il divario fra i due importi sia minimo, altrimenti
può risultare non conveniente nemmeno istituirla. Inoltre, tra l’aumento dell’aliquota di una imposta
già esistente e l’istituzione di una nuova imposta, la prima ipotesi potrebbe risultare la migliore –
entro certi limiti – perché il contribuente già la conosce. L’introduzione di una nuova imposta, infatti, anche se sostanzialmente giusta, produce nell’animo dei contribuenti una forma di repulsione,
spingendoli a reagire per evitare il pagamento.
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6.
Le sanzioni fiscali e il contenzioso
Le sanzioni fiscali possono essere definite come il complesso di punizioni previste dalla legge
per coloro che commettono atti contrari al comportamento obbligatorio previsto dalle norme tributarie. La violazione delle leggi fiscali non riguarda soltanto l’adempimento dell’obbligazione tributaria; riguarda anche una serie di altre formalità e di altri obblighi che rientrano nel rapporto giuridico d’imposta.
La frode fiscale è nota col nome di contrabbando quando concerne l’occultamento totale
della merce imponibile, mentre negli altri casi si tratta, detto genericamente, di alterazione di elementi per far figurare un minor reddito tassabile o minore materia imponibile.
Le leggi che fissano le sanzioni fiscali scaturiscono dalla rilevazione di un atto illecito compiuto da un soggetto, ad esempio il mancato pagamento di un’imposta. L’atto illecito può avere sia
una natura penale che civile, e, a seconda che si registri l’uno oppure l’altro, ne derivano sanzioni
dell’uno o dell’altro tipo.
Le sanzioni penali sono la conseguenza di un reato e si distinguono in: reclusione e multa
oppure arresto e ammenda.
Le sanzioni civili hanno solo un effetto civile e danno luogo al pagamento di una pena pecuniaria, generalmente fissata entro un minimo ed un massimo; oppure alla applicazione di una soprattassa di un importo fisso, pari all’ammontare del tributo, oppure ad un suo multiplo o sottomultiplo.
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Le leggi tributarie contengono norme atte ad offrire ai contribuenti le dovute garanzie contro
abusi o errori da parte dei gli agenti del fisco, sia in sede di accertamento che in sede di discussione.
Esistono infatti appositi organi chiamati a decidere sul modo di interpretare le leggi fiscali, sul
modo di reintegrare nei loro diritti coloro che siano stati lesi e sulle penalità per coloro che abbiano
contravvenuto alle prescrizioni della legge, quando il disaccordo nella determinazione dell’imponibile non possa essere appianato in sede di accertamento nei normali rapporti tra amministrazione
finanziaria e contribuente.
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Le controversie che possono nascere per l’accertamento dei tributi sono di due specie;
•
di estimazione, circa la valutazione dell’ammontare dell’oggetto imponibile (questioni di fatto, che sono casi più frequenti nella pratica fiscale);
•
di tassabilità(o legittimità), circa l’interpretazione e l’applicazione delle leggi fiscali
(questioni di diritto, in relazione alla determinata natura o qualità di dati oggetti di ricchezza o
di atti che si compiono intorno ad essa).
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In Italia, per risolvere le controversie, esistono appositi organi, detti “Commissioni tributarie”,
sia livello provinciale che regionale che operano come giudici di primo e di secondo grado
(appello). In terzo grado, solo per questioni di illegittimità, si può ricorrere alla Suprema Corte di
Cassazione.
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Capitolo VII
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GLI EFFETTI DELL'IMPOSIZIONE
1.
zione
Introduzione e cenni ad alcuni effetti primari quali evasione, elusione e rimo-
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L'introduzione di un'imposta dà luogo ad un insieme di effetti che vanno sotto il nome di "incidenza dell'imposta".
L'incidenza si considera pertanto, come l'impatto che il prelievo fiscale determina sui prezzi,
sui profitti, sulla distribuzione del reddito e conseguentemente sul comportamento dell'individuo
inciso dall'imposta (Brosio).
L'incidenza può essere presa in considerazione in relazione a vari elementi che alla stessa fanno riferimento quali:
- il periodo di tempo della durata dell'incidenza;
- l'impiego (se produttivo o di consumo) che l'ente pubblico effettua con la ricchezza che ha
prelevato;
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- gli strumenti utilizzati per il conseguimento di un equilibrio socialmente più giusto e frutto
di una più equa redistribuzione della ricchezza .
Indubbiamente l'introduzione di un'imposta produce anche dei gli effetti psicologici al punto
che gli studiosi si dividono in due categorie e cioè da un lato coloro che sostengono che l'introduzione di un'imposta costituisce uno stimolo all'incremento dell'attività produttiva(Wagner), dall'altro,
al contrario quelli che invece la ritengono un freno allo sviluppo produttivo (Barone,Fasiani).
In ordine ad un esame pratico del problema appena accennato può dirsi che se il contribuente
colpito ritiene, attraverso un incremento della sua attività produttiva, di poter superare il gravame
impositivo, potranno verificarsi gli effetti previsti dai sostenitori della prima tesi. Qualora, al contrario, lo stesso contribuente non veda sbocchi di recupero, risulterà più fondata la seconda.
In ogni caso, sempre con riferimento a quanto sopra indicato, può dirsi che gli effetti immediati derivanti dall'introduzione di un'imposta risultano essere: l'evasione, la rimozione e l'elusione e
magari anche la fuga dei capitali verso paesi più tolleranti dal punto di vista del prelievo fiscale.
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L'evasione è la situazione che si verifica quando il contribuente, colpito da un'imposta, affronta il rischio derivante dal non pagarla, oppure di pagarla soltanto in parte con la conseguenza
che può aversi un'evasione totale o parziale. Quello dell'evasione, comunque, costituisce un atteggiamento illegittimo e quindi perseguibile sia con sanzioni economiche sia, nei casi più gravi, anche
con la reclusione. Tuttavia, quanto più le imposte risultino gravose, tanto maggiore risulterà lo stimolo che avverte il contribuente ad evadere con i rischi connessi. Nessuno infatti è stimolato ad
correre dei rischi se il sacrificio che deve sostenere non risulta troppo pesante, in quanto incide in
maniera limitata sulla sua economia; al contrario, se l'imposta risulta eccessivamente pesante, lo
stimolo ad evadere aumenta, con la conseguenza che le entrate fiscali, anziché aumentare, rischiano
di diminuire. L'evasione porta ad una inefficienza nell'allocazione delle risorse e ad una dispersione
dello sviluppo. Tale tipo di comportamento determina delle conseguenze di tipo:
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-giuridico = illecito;
-sociale = violazione dei doveri di solidarietà;
-economico = distorsione dell'equa distribuzione del carico fiscale.
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La rimozione trova il suo fondamento nel fatto che il contribuente colpito, cerca di conservare, malgrado l'introduzione dell'imposta, lo stesso reddito di cui disponeva prima. L'imposta risulterebbe quindi rimossa attraverso la produzione di un maggior reddito. Naturalmente il soggetto colpito perseguirà tale risultato soltanto nel caso in cui intraveda la possibilità di produrre effettivamente un maggiore reddito, in misura tale da compensare l'ammontare dell'imposta. In caso contrario, nemmeno ci prova.
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L'elusione è un altro metodo attraverso il quale il contribuente cerca di evitare il pagamento
dell'imposta, ma in una maniera completamente diversa dalla precedente: facendo cioè venir meno
le condizioni per le quali avrebbe dovuto pagare l'imposta. Effettua così l'elusione colui che, all'aumento del prezzo delle sigarette, smette di fumare, oppure fuma di meno attuando così un'elusione
che può essere totale o parziale. Mentre la rimozione va considerata positivamente in quanto costituisce uno stimolo alla produzione e quindi determina un miglioramento economico generale, l'elusione, al contrario, dà luogo ad una contrazione dei consumi e conseguentemente, della produzione,
con conseguenti effetti negativi sia per l'occupazione che per l'economia nazionale in generale. Può
quindi affermarsi che rimozione ed elusione rappresentano due fenomeni contrastanti e con effetti
del tutto opposti. Il verificarsi dell'uno o dell'altro, tuttavia, è connesso alle possibilità, riscontrabili
sul mercato, di riuscire a rimuovere oppure no. Nell'ipotesi in cui l'imposta superi certi limiti e di!38
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venti quindi troppo gravosa il contribuente è indotto all'elusione, quando non addirittura all'evasione.
Altro effetto dell'introduzione di un'imposta o dell'aumento della sua aliquota, è il trasferimento dei capitali all'estero, cioè verso paesi dove è possibile sfuggire al fisco oppure essere colpiti in
maniera meno gravosa. Ciò può avvenire sia creando società di capitali all'estero, sia trasferendo la
sede della società, sia portando direttamente i capitali presso banche estere. La fuga di capitali all'estero costituisce un grave danno per un paese in quanto lo priva della possibilità di effettuare degli
investimenti, con gravi ripercussioni su tutta l'economia del paese stesso.
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2. La traslazione e l'incidenza dell'imposta
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Dicesì traslazione dell'imposta il processo economico per cui il contribuente, giovandosi di
una situazione di privilegio, tende a trasferire su un altro contribuente, in tutto o in parte, il tributo
pagato (Pantaleoni). A differenza di quanto avviene con l'evasione, quindi, la traslazione non produce alcun effetto nei confronti dell'economia di uno Stato il quale incasserà quanto previsto. Tuttavia,
mentre in alcuni casi è lo Stato stesso che prevede la traslazione (es. l'importatore di caffè paga il
dazio doganale che, dopo vari passaggi, va a colpire il consumatore finale), in altri ciò si verifica in
maniera autonoma (es. l'introduzione di un'imposta sui fabbricati può dà luogo ad un aumento del
canone di locazione). La traslazione, pertanto, da luogo alla formazione di due categorie di contribuenti: il contribuente di diritto , detto anche percosso, che è sempre uno solo e cioè colui che è
chiamato a pagamento dell'imposta in forza di quanto stabilito dalla legge; il contribuente di fatto,
detto anche inciso, che è colui che sostiene effettivamente il peso dell'imposta. I contribuenti incisi
possono essere anche più di uno, nei casi in cui la traslazione dell'imposta avvenga parzialmente, un
poco all'uno, un poco ad altri fra coloro che sono interessati ai vari passaggi del bene colpito.
Perché possa essere realizzata la traslazione si risiedono delle condizioni preliminari e cioè:
- che il bene colpito dall'imposta deve essere destinato allo scambio e quindi uscire dalla sfera
giuridica del soggetto percosso;
- che il prezzo del bene colpito dall'imposta possa essere aumentato.
La traslazione avviene, generalmente, in avanti, vale a dire col trasferimento dal soggetto percosso (produttore, importatore ecc.) a quello/i inciso/i che vengono dopo di lui nella filiera produttiva; e quindi con un aumento del prezzo. In alcuni casi, tuttavia, si può avere anche una traslazione
all'indietro (dal consumatore al produttore) con una diminuzione della domanda del bene o con una
riduzione del prezzo di acquisto; oppure laterale quando un bene colpito da imposta viene meno richiesto a favore di un altro affine a quello colpito (es. nell’ipotesi di un’imposta sul vino, diminuisce il consumo di questo ed aumenta quello della birra). La traslazione è quindi fondata sui rapporti
di scambio e variazione dei prezzi, ma dipende anche dal regime di mercato esistente per il bene
colpito, mercato che può essere di concorrenza o di monopolio, da come è applicata l'imposta (e
cioè se in maniera generale o speciale), dall'elasticità della domanda e dell'offerta del bene. Così
un'imposta generale proprio perché colpisce tutti i beni con la stessa aliquota non può essere traslata
in quanto non stimola il trasferimento di capitali da un settore produttivo ad un altro in quanto non
se ne trarrebbe alcuna convenienza. Un'imposta speciale, invece, può spingere chi opera in un settore colpito da un'imposta, a spostare i suoi capitali in un altro che non è colpito e, pertanto, consente
la traslazione. Ugualmente si registrano delle differenze a seconda che il bene sul quale viene applicata l'imposta sia a domanda rigida oppure a domanda elastica.
Infatti, nel primo caso, anche se il prezzo del bene, a causa dell'introduzione dell'imposta, aumenta, questo sarà acquistato ugualmente, proprio perché è a domanda rigida (es. l'acquisto di casse
funebri); a conclusioni diverse si giunge invece nella seconda ipotesi in quanto molti consumatori o
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rinunciano completamente a quel bene, oppure si rivolgono verso prodotti similari non colpiti da
imposta. Come si vede, pertanto, molto differenti fra di loro risultano le varie situazioni con la conseguenza che l'imposta potrà, oppure no, essere traslata, oppure la sua traslazione sarà soltanto parziale. Ma considerazioni molto più complesse scaturiscono, in ordine alla traslazione, se si fa riferimento al regime di mercato del bene colpito. Si esamina, pertanto, l'ipotesi che l'imposta venga
introdotta su di un bene in regime di concorrenza oppure in regime di monopolio.
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A)La traslazione in concorrenza
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Si affronta, in termini generali, il tema della concorrenza senza scendere nel dettaglio dei vari
tipi che la caratterizzano anche perché, ai fini dello studio della traslazione non riveste alcuna rilevanza che si tratti di concorrenza perfetta o imperfetta. In regime di concorrenza, quindi, la traslazione risulta possibile se ci troviamo di fronte ad un'imposta speciale in quanto, con un'imposta generale, come già osservato, non risulta di nessuna convenienza lo spostamento di capitali da un settore produttivo ad un altro. Anche nel caso ci si trovi di fronte all'imposta speciale, non sempre la
possibilità di attuare la traslazione viene conseguita alla stessa maniera. Influenzano infatti il movimento traslativo un insieme di fattori quali:
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-l’elasticità della domanda,come si è cercato di spiegare proprio sopra;
-la mobilità dei capitali, che risulta tanto più difficile quanto più grande sia la dimensione dell'impresa colpita da imposta. In tal caso, infatti, l'impresa, a fronte dei grossi investimenti effettuati,
troverà delle difficoltà a disinvestire cioè a trasferire i propri capitali in un altro settore. Pertanto,
pur essendo possibile, la traslazione è difficile;
-l'andamento dei costi di produzione che possono essere crescenti, costanti o decrescenti e,
proprio perché tali, possono dare luogo, con l'introduzione dell'imposta, ad effetti diversi che si
concretizzano in una traslazione totale o parziale dell'imposta stessa. La regola generale però, in
regime di concorrenza, siccome il prezzo viene determinato dall'incontro della domanda con l'offerta, è che le imprese, non avendo potere, debbono adattarsi alla legge di mercato. In tale regime,
l'introduzione di un'imposta, rappresentando un ulteriore elemento di costo, fa sì che le imprese
marginali siano costrette ad abbandonare il mercato perché l'introduzione dell'imposta, se non si
riesce a spostare i capitali in altri settori, le fa diventare extra marginali. Se ne conclude che spesso
l'ipotesi di trasferimento in altre attività non gravate dall'imposta speciale, da parte delle imprese
marginali, è soprattutto teorica perché la traslazione agisce in breve tempo mentre nella gran parte
delle industrie la messa in liquidazione dell'attività ed il reinvestimento in altre richiede molto tempo.
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B)La traslazione il regime di monopolio
Se si considera l'effetto dell'introduzione di un'imposta in regime di monopolio, le situazioni
che vengono a determinarsi sono diverse. Premesso che per monopolio s'intende quella forma di
mercato in cui l'intera quantità di un determinato bene o servizio viene offerta o domandata esclusivamente da un'unica impresa, il monopolista può determinare alternativamente , o il prezzo del prodotto oppure la quantità da commerciare lasciando quindi in tale ultima ipotesi, che il prezzo si adegui alla quantità trattata.
Anche se la posizione dell'imprenditore monopolista risulta essere migliore rispetto a quella di
colui che opera in concorrenza, proprio perché il monopolista può fissare, attraverso vari tentativi,
quello che è il punto di massimo guadagno (punto di Cournot), nell'ipotesi in cui venga introdotta
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un'imposta, le sue condizioni risultano molto più deboli proprio perché solo raramente egli si trova
in grado di trasferire l'imposta applicata sul bene che tratta. Questo perché egli fissa quel prezzo
che, in confronto ad una determinata quantità di merce da lui prodotta ad un costo determinato, gli
dia il massimo vantaggio economico, cioè il maggiore guadagno netto. Più precisamente il monopolista produce quella quantità di prodotto in corrispondenza della quale il costo marginale è uguale al
ricavo marginale (condizione di massimo profitto).
Nel caso dell'introduzione di una nuova imposta, si considera che il monopolista produca già a
quel certo prezzo, che è appunto quello che gli lascia il massimo guadagno netto. E perciò, se al
monopolista sopravviene un'imposta sul profitto dell'impresa, che può egli fare? Essendo, per ciò
che si è detto, il prezzo antecedente all'imposta quello determinato dalla domanda cui corrisponde
già il guadagno netto massimo, non può ora elevare tale prezzo, perché è chiaro che, se ciò gli fosse
consentito, lo avrebbe fatto già prima. Infatti una elevazione qualsiasi di prezzo non può che restringere la domanda e ricondurre il monopolista a quel punto di minore beneficio, dal quale prima
aveva stimato conveniente scostarsi. Soltanto in situazioni particolari si può verificare la possibilità
di trasferire l'imposta, come appresso viene specificato.
La possibilità di traslare dipende dal tipo di imposta , vale a dire dalle modalità attraverso le
quali l'imposta è applicata. Si possono così avere i seguenti casi:
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⇒ Imposta fissa, cioè determinata secondo un ammontare fisso, vale a dire un'imposta il
cui ammontare non varia né in relazione al numero delle dosi vendute ne all' ammontare di
profitto che l' imprenditore consegue. In tal caso ,tenendo conto che il monopolista ha già conseguito il punto di massimo guadagno (punto di Cournot), essendo l'imposta fissa, qualunque
sia il profitto che egli consegue, non troverà conveniente spostarsi da quel punto, con la conseguenza che, pertanto, l'imposta non potrà essere traslata, ma rimarrà a suo carico.
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⇒ Imposta proporzionale al profitto, cioè applicata con un'aliquota fissa al profitto conseguito (es. nella misura del 15%), non consente spostamenti dal livello in cui il monopolista
si trovava prima dell'introduzione dell'imposta. Diminuendo infatti la quantità prodotta, diminuirebbe il suo reddito. È vero che pagherebbe il 15% in meno di imposta, ma perderebbe il
restante 85% di reddito sulla quantità che ha rinunciato a produrre, con la conseguenza di subire una diminuzione globale di reddito superiore a quella che avrebbe col solo pagamento
dell'imposta. Anche in tal caso, quindi, l'imposta non può essere traslata.
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⇒ Imposta proporzionale alla quantità venduta è quella che si applica sul numero di
dosi vendute di un certo bene. Nel momento dell'introduzione di un'imposta, il monopolista
può trovare conveniente diminuire il numero delle dosi prodotte e vendute. In tal caso infatti,
diminuendo l'offerta del bene, ne consegue un aumento del prezzo. Il monopolista, quindi, da
un lato guadagnerà di più su ogni dose prodotta e venduta, dall'altro sosterrà un minor peso
per il pagamento delle imposte che gli consentiranno di recuperare, almeno in parte, l'ammontare dell'imposta pagata. Questa possibilità è maggiore nel caso in cui la produzione avvenga
a costi decrescenti in quanto, diminuendo il numero delle dosi prodotte, diminuisce anche il
costo unitario medio.
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⇒ Imposta progressiva sul profitto è quella che aumenta in misura più che proporzionale rispetto al profitto. Anche in questo caso, analogamente al precedente, il monopolista può
trovare conveniente diminuire il numero delle dosi prodotte. Da ciò deriverebbe infatti, una
diminuzione dell'offerta con il conseguente aumento del prezzo di vendita che può consentire
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un parziale recupero dell'imposta applicata.
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2.
L'ammortamento dell'imposta
Consiste nella diminuzione del valore di un bene, generalmente immobile (terreni e fabbricati,
ma anche imprese) sul quale viene applicata un'imposta che colpisce il reddito di un capitale durevolmente investito. La perdita di valore è pari alla capitalizzazione del tributo al saggio di interesse
corrente. La decurtazione del valore capitale si verifica al momento della vendita del bene, successivamente alla introduzione dell'imposta, in base al saggio corrente d’ interesse. Deve inoltre trattarsi di una imposta speciale(Steve) perché se la variazione derivasse da una imposta generale sui redditi, diminuirebbe il reddito medio di tutti gli investimenti e la generalizzazione dell'imposta eviterebbe il fenomeno dell'ammortamento in quanto non esisterebbe la possibilità di investimenti alternativi in beni o attività diversi. Risultando, di fatto, tutti i beni colpiti, l'imposta farà diminuire il
valore di tutti i capitali. A ben considerare l'ammortamento consiste in una traslazione all’ indietro,
nel senso che il peso dell'imposta va a ricadere nei confronti di colui che era titolare del bene nel
momento in cui l'imposta è stata introdotta e ciò perché egli si trova nella impossibilità di trasferire
l'imposta nei confronti dei successivi acquirenti del bene. Procediamo con un esempio: se, supponiamo, un fabbricato dia un reddito pari a euro 200.000 e che il tasso di rendimento di investimento
sul mercato, ovvero il tasso medio di interesse, nello stesso momento sia del 5%, la formula di capitalizzazione sarà:
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200.000 x 100
-------------------- = 4.000.000 (valore del bene)
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Tale situazione la si può considerare statica. Se a questo punto interviene lo Stato istituendo
un'imposta sul reddito, ad esempio nella misura del 10%, ne deriverà un reddito netto pari al €
(200.000 - 20.000) = 180.000. Considerando che tale importo diviene il rendimento effettivo del
bene, si avrà una nuova determinazione del valore dello stesso e cioè:
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180.000 x 100
------------------- =3.600.000
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. Le condizioni affinché ciò avvenga sono:
- il soggetto non deve aver trasferito l'imposta;
- il tasso di interesse deve rimanere invariato, poiché se diminuisce nella stessa misura dell'ammontare dell'imposta introdotta, il valore del bene rimane invariato.
Considerazione opportuna però è che, se il tasso ufficiale di interesse e scende di molto cioè in
misura superiore alla percentuale dell'imposta applicata, il valore del bene non può diminuire poiché i compratori troveranno conveniente investire in quel settore medesimo comprando così al valore antemposta e magari anche superiore. In base agli esempi numerici sopra indicati nel caso in cui
il soggetto si trovi nella necessità di disporre di contanti e quindi deve vendere il bene, sempre considerando le sue condizioni sopra indicate, venderà al prezzo indicato nella seconda impostazione
cioè a 3.600.000. Colui invece che lo acquisterà pagandolo tale somma otterrà un reddito netto pari
a euro 180.000
(cioè 200.000 -20.000 di imposta) che gli consente di avere un rendimento del 5%, con la con!42
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seguenza che egli non avverte il peso dell'imposta perché, anche se è lui che la paga, sia in veste di
contribuente di diritto che di fatto, dopo aver effettuato il pagamento gli rimane quel 5% di reddito
netto che corrisponde a quanto -in quel momento- rendono gli investimenti sul mercato.
Siccome, però, il fenomeno dell'ammortamento è subordinato a numerose condizioni restrittive quali l' intrasferibilità dell'imposta, la sua generalità, che si verifichi la vendita del bene, che il
saggio di interesse resti immutato, la sua rilevanza pratica è limitata nel tempo. Anche se temporaneo, tuttavia gli effetti che produce sono tali da determinare turbative, anche di rilievo, in campo
economico.
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3.
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La diffusione
L’ introduzione di un'imposta non limita i suoi effetti quelli sin qui indicati, ma va oltre, diffondendosi a macchia d'olio. Si pensi ad uno stagno nel quale venga gettato un sasso. Si formeranno, intorno al punto di caduta, tanti cerchi concentrici che risulteranno sempre più tenui, ma nel
contempo sempre più ampi. Ad un certo punto questi anelli saranno molti e si intersecheranno tanto
da creare un movimento su tutta la superficie. Considerazioni analoghe possono farsi per quanto
concerne l'introduzione di un'imposta la quale non limita i suoi effetti al settore colpito, ma si propaga in tutto il mercato, con una rete di effetti che si ripercuotono su tutti i settori economici.
Possiamo così definire la diffusione come il fenomeno per cui l'introduzione di un'imposta in
un settore economico, determina degli effetti prima nei confronti di quelli più vicini e poi negli altri,
determinando così un nuovo equilibrio come conseguenza di una variazione sia dei consumi che
dell'offerta e dei prezzi. Trattasi quindi di un fenomeno i cui effetti si diffondono molto più ampiamente di quanto avviene con la traslazione e le altre conseguenze derivanti dall'introduzione di
un'imposta. Ad esempio se il soggetto inciso è un produttore, questi, a sua volta cercherà di traslare
il peso impositivo aumentando il prezzo dei prodotti che mette in vendita. Si verificherà così una
diminuzione della domanda con una conseguente contrazione della produzione. Questo fatto si ripercorrerà sui fattori produttivi impiegati i quali, a loro volta, subiranno una contrazione, cui farà
seguito una diminuzione del prezzo, come effetto della diminuzione della domanda. Poiché la traslazione e l'ulteriore diffusione non si verificano generalmente che per una parte dell'ammontare
dell'imposta, avviene che questa si ripartisce come gravame tra i contribuenti di diritto, tra quelli
incisi e poi si diffonde sul mercato su oggetti che direttamente non hanno a che fare con l'imposta in
questione, in quanto non colpiti direttamente da questa. Dall'analisi del fenomeno della diffusione
delle imposte consegue l'osservazione che tutti gli oneri fiscali, complessivamente e distintamente,
finiscono col gravare su tutti i contribuenti, considerati nella totalità di coloro che sono chiamati a
versare direttamente il tributo al fisco e di coloro che, pur senza versare imposte direttamente al fisco, tuttavia sostengono indirettamente il peso impositivo derivante dall'aumento del prezzo del
bene acquistato. Può quindi concludersi rilevando che, l'introduzione di un'imposta determina una
rete di effetti di carattere economico. E' dal momento in cui l'imposta diventa un elemento economico del mercato, essa si inserisce in una serie sempre più ampia di azioni e di reazioni, ossia di
iniziali squilibri che si ricompongono in nuovi equilibri (Morselli). Il tutto in un continuo divenire
perché il sistema economico si presenta in un continuo divenire al quale si adegua il sistema fiscale.
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