3. RELAZIONI Dalla diagnosi come descrizione alla diagnosi come strumento di riflessione e comunicazione A. Massi Il paziente è il miglior collega che abbiamo W. Bion La diagnosi è una formulazione dinamica che orienta il terapeuta nel complesso lavoro di “dare significato” alle esperienze, alle relazioni, alla storia e ai sintomi del paziente. Esiste da sempre una accesa controversia tra l’uso della diagnosi a scopi descrittivi e l’uso della diagnosi a scopi clinici, tra il tentativo di classificare e quello di dare significato. Noi analisti transazionali sappiamo bene che il paziente non è l’oggetto passivo di un attivo intervento del terapeuta, paziente e terapeuta sono piuttosto compagni di viaggio e la diagnosi delinea la mappa di questo viaggio, funge cioè da guida dell’impostazione globale del trattamento. In questo intervento mi soffermerò su due questioni che ritengo importanti nella formulazione della diagnosi: il processo di integrazione degli aspetti oggettivi con quelli soggettivi e la partecipazione attiva del paziente nel processo di valutazione, in linea con la filosofia dell’okness. Collaborare con il paziente sul tema della sua diagnosi costituisce la premessa per una buona alleanza diagnostica che a sua volta pone le basi per strutturare una sana alleanza terapeutica. Diagnosi tra oggettività e soggettività Se facciamo riferimento all’etimologia del termine, lo scopo della diagnosi risulta chiaro: diagnosi sta per “processo attraverso il quale (dia) cerchiamo di conoscere (gnosis)” sia il funzionamento psichico di un soggetto sia la denominazione, basata su una terminologia condivisa dalla comunità scientifica, che attribuiamo a tale funzionamento. Si parla di processo perché diagnosticare un disturbo psichico non significa attribuire in maniera frettolosa un ‘etichetta’, ma avviare un percorso strutturato, spesso poco prevedibile, che dia senso alla relazione clinica e configuri il trattamento terapeutico. 1 Questa chiarezza non va però di pari passo con la modalità che utilizziamo per elaborare una diagnosi, modalità che risulta spesso controversa ed allusiva. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association, che rappresenta il sistema tassonomico categoriale più diffuso nella pratica clinica, nella ricerca e nell’insegnamento, reputa i criteri operazionali, espressi in termini di comportamenti manifesti e sintomi, necessari e sufficienti a identificare la condizione patologica specifica del paziente o a concludere che uno specifico paziente non presenta alcuna patologia. Tale procedura diagnostica ha avuto certi vantaggi tra cui quello di rendere omogeneo il linguaggio tra clinici e ricercatori di formazione diversa e consente una migliore comunicazione tra di loro. Il tentativi fatti nella IV edizione rivisitata del DSM di ottenere una tassonomia dei disturbi psichiatrici utilizzabili sia nell’ambito della ricerca che in quello clinico presenta problemi intrinseci e insolubili. Le persone e le patologie sono molto più complesse e stratificate di quelle che la psichiatria descrittiva e la psicologia potranno mai evidenziare. Per quanto riguarda il modello categoriale della diagnosi dei disturbi di personalità, possiamo rilevare alcuni problemi posti spesso in evidenza: - I confini tra i diversi disturbi di personalità sono labili. - Il grado di comorbilità tra disturbi è troppo elevato. - Non viene tenuto in conto che la maggior parte dei pazienti con disturbi della personalità presenta un profilo misto di disfunzioni di gravità diversa che implicano difficoltà e danni di entità varia. - Il DSM dice molto poco sia delle risorse del paziente che delle situazioni in cui i tratti patologici vengono attivati. Nel presentare i suoi criteri, inoltre, il DSM non considera fondamentale l’esperienza soggettiva del paziente, soprattutto il significato che il paziente attribuisce alla sua sofferenza, alla sua sintomatologia, il significato del disturbo in relazione al suo contesto di vita, passato e presente, il vissuto della sua relazione con il terapeuta. Una diagnostica descrittiva-oggettivante si concentra esclusivamente sull’univocità del significato di comportamenti simili: si assume implicitamente che comportamenti apparentemente simili sottendano i medesimi significati. Il rapporto tra comportamento osservabile e processi interni non è però lineare e univoco: un attacco di panico assume significati diversi in un contesto di personalità fobico-evitante rispetto ad una personalità narcisistica. Il terapeuta, ogni volta che deve affrontare una valutazione diagnostica, si trova di fronte ad una importante tensione: quella di riscontrare delle somiglianze tra il soggetto in esame e altri soggetti (prospettiva nomotetica) e quella di riconoscere l’unicità e la peculiarità, cioè le caratteristiche che differenziano il soggetto dalle altre persone (prospettiva idiografica). Entrambe le prospettive sono essenziali ai fini di un buon trattamento, perché escludere il polo idiografico significherebbe considerare una persona alla stregua di un oggetto inanimato, mentre se escludiamo la dimensione nomotetica escludiamo anche l’approccio scientifico, ovvero tutte quelle attività cognitive quali l’osservazione, l’inferenza, la categorizzazione, che sono il fondamento di qualsiasi scienza. Non si può dunque prescindere dalla classificazione prevalente, l’intervento professionale deve essere chiaro, fondato scientificamente, condiviso e trasmettibile in modo da facilitare la comunicazione tra i diversi professionisti del settore ma, allo stesso tempo, è necessario tener presente i significati soggettivi nel processo diagnostico. 2 Ogni processo diagnostico si deve necessariamente confrontare con la scoperta-costruzione del significato che i sintomi assumono per il soggetto che li manifesta, un significato che deriva dalla storia del paziente; in altre parole, se vogliamo comprendere i sintomi, è necessario conoscere qualcosa della persona che li ospita (Westen, 2009). Non si parla più quindi di valutazione diagnostica del soggetto ma di valutazione diagnostica per il soggetto, in questo senso il rapporto con il paziente è diretto e chiaro e richiede un coinvolgimento attivo del paziente nel processo diagnostico. La diagnosi diviene, in tal modo, parte integrante del trattamento. La diagnosi in Analisi Transazionale In AT la diagnosi è il risultato di osservazioni, interazioni, ragionamenti capaci di organizzare in un quadro organico il complesso intreccio di sintomi, segni, tratti della personalità e potenzialità di un individuo. Berne, parlando del suo approccio al trattamento, afferma: A tal proposito, potresti sentir parlare del temuto modello medico della psicoterapia che spaventa le persone, procurando loro incubi. Io penso che si tratti di un buon modello, che sotto alcuni aspetti funziona molto bene; se stai cercando di curare la testa delle persone, penso che tu debba utilizzare il modello medico (Berne E., 1971). Berne non specifica il significato dell’espressione “modello medico” ma spesso associa questa espressione all’utilizzo costante della diagnosi come guida del trattamento. Egli ci invita a raccogliere i dati provenienti dall’ascolto del paziente per giungere alla loro sistematizzazione in ipotesi coerenti e verificabili sui meccanismi che stanno alla base dei disturbi. Il terapeuta, fin dal primo contatto telefonico, costruirà ipotesi per una prima diagnosi clinica presuntiva, per una diagnosi degli Stati dell’Io, del copione, per il riconoscimento delle dinamiche transferali e così via, ipotesi che dovranno essere costantemente confermate durante il percorso relazionale con il paziente. Ogni colloquio che il terapeuta affronta con il suo paziente è una forma incompleta di attività diagnostica. Nei suoi scritti Berne accenna frequentemente all’utilità della diagnosi ai fini di una migliore pianificazione del trattamento (Berne E., 1961) opponendosi nel contempo a qualsiasi etichetta che potesse in qualche modo stigmatizzare il paziente. A questo proposito ci invita ad escludere dal nostro vocabolario le parole “Infantile” e “immaturo”: ... un comportamento può essere “immaturo”, ma un individuo (fatta eccezione, forse, per un difetto di sviluppo organico) non può esserlo. (...) Secondo l’esperienza dell’autore non soltanto tutti i nevrotici, ma anche coloro che soffrono di disturbi mentali, come gli schizofrenici cronici e gli psicopatici “immaturi” possiedono un Adulto completamente formato. Il problema non consiste nel fatto che tali individui “siano” immaturi, ma nel fatto che è difficile trovare il modo di “innestare il loro Adulto” (Berne E., 1961, p. 45 trad. it. p. 47). Da queste parole si rintraccia il profondo rispetto di Berne nei confronti della persona nella sua totalità, al di là delle sue patologie, il suo scopo sembra essere quello di valorizzare la diagnosi come forma di conoscenza dell’altro. Egli ci invita a tener presente, nell’osservazione del paziente, non solo i suoi elementi meno energizzati1, ma anche i suoi punti di forza che sottostanno al sintomo e i processi interpersonali 3 (analisi delle transazioni e dei giochi). La diagnosi in AT non è una semplice attribuzione di un’etichetta nosografica ma un’entità complessa che tiene conto di molteplici dimensioni consce e inconsce, esplicite e implicite, sane e patologiche, diviene un processo dinamico che si dispiega nel tempo (assessment2), che è alla base della relazione terapeutica e la influenza direttamente. Uno strumento molto utile nella diagnosi transazionale è quello elaborato da Ware (1983) e Joines (1988) relativo alle porte terapeutiche3. Si tratta di un metodo diagnostico che, abbinato agli adattamenti della personalità, focalizza la sua attenzione non solo sugli aspetti negativi della persona, ma anche su quegli positivi e considera importanti, ai fini della diagnosi, gli elementi di ordine interpersonale e sociale. Gli adattamenti della personalità mirano a presentare una visione ampliata e bilanciata dell’individuo e prevedono una seria attenzione verso gli aspetti interpersonali. Questo fa sì che si crei un sistema diagnostico orientato più all’operatività che alla creazione di categorie interpretative. A mio avviso questo modello si configura come punto di intersezione tra conoscenze nomotetiche e idiografiche, ci consente una conoscenza oggettiva, orientata a costrutti generalizzabili ma ci offre l’opportunità di non perdere di vista la soggettività del paziente. Ci consente inoltre una valutazione funzionale, cioè una valutazione di come l’individuo tende a funzionare su un piano cognitivo, emotivo e comportamentale in presenza di determinate condizioni rilevanti per l’adattamento psicologico e sociale. 1 A questo proposito Berne afferma che non esiste un “Io debole” ma solo “Io poco energizzati” (Berne, 1966). 2 Il temine “assessment” si riferisce ad un momento di valutazione preliminare e corrisponde ad “un’analisi funzionale delle abilità, delle competenze e dei prerequisiti che il soggetto possiede ad un dato momento del suo sviluppo e all’interno di un preciso contesto di stimolazioni, finalizzata non ad un giudizio e ad un inquadramento nosografico ma alla determinazione di obiettivi educativi e, se del caso riabilitativi” (Goldstein, 1990). 3 Ware e Joines hanno elaborato un sistema di riferimento che rappresenta i tre livelli attraverso i quali le persone possono essere contattate: cognitivo, emotivo, comportamentale. A seconda dei diversi tipi di personalità, ciascuno ha sviluppato maggiormente un livello rispetto agli altri, Ware definisce questo livello “porta aperta” ed è a questa area che il terapeuta si può appoggiare per creare un’alleanza. Una volta che il contatto è ben stabilito con la prima area di contatto, il terapeuta può dirigersi verso la seconda area, la “porta bersaglio”, è l’area che il paziente ha bisogno di integrare affinché la terapia possa produrre un vero cambiamento. La terza area di contatto è la “porta trappola”, è l’area nella quale la persona ha maggiori difese e conseguentemente è quella nella quale è facile rimanere bloccati, se ci si indirizza troppo presto. È anche l’area nella quale si potranno vedere i cambiamenti maggiori alla fine della terapia. La sequenza delle tre porte è diversa a seconda dei diversi adattamenti di personalità. Per quanto riguarda il modello degli adattamenti di personalità possiamo dire che si tratta di sei adattamenti fondamentali, classificati da Ware e Joines in collaborazione con altri autori, che gli individui sviluppano come risultato del loro patrimonio genetico e delle loro esperienze interpersonali. 4 Comunicare la diagnosi al paziente L’Analisi Transazionale possiede dunque strumenti molto efficaci per la diagnosi e la pianificazione del trattamento e, come abbiamo accennato sopra, il paziente viene incluso nel processo terapeutico in qualità di interlocutore a tutti gli effetti, in linea con l’invito di Berne a incoraggiare nel paziente le aree di sanità e di riflessione. Ascoltare, sentire e descrivere in collaborazione con lui, cercare di cogliere un senso seppur provvisorio da comportamenti che, a prima vista, possono sembrare strani, rappresenta un percorso importante che ci conduce a ritornare come in un cerchio su di un tema, riprendendolo ogni volta, con ulteriori possibilità di scoprire sempre qualcosa di più. Diviene utile a questo scopo rendere partecipe il paziente della diagnosi che il terapeuta ha ipotizzato. Potremmo parlare di alleanza diagnostica (Dazzi, 2009) oltre che di alleanza terapeutica. L’inevitabile continuità tra i processi diagnostico e terapeutico rende il costrutto dell’alleanza una variabile che possiamo includere in quella concezione di ampio respiro che, dall’alleanza diagnostica, conduce all’alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002). Si tratta di verificare quanto sia possibile, per il paziente e per il terapeuta, avere una consensualità su alcuni aspetti relativi al funzionamento e alla sofferenza del paziente, che permetta ad entrambi di condividere lo scopo del trattamento. Spesso l’alleanza diagnostica non si stabilisce immediatamente ma è progressiva, a volte succede che si stabilisce al primo appuntamento, altre volte sono necessarie diverse sedute. Il lavoro diagnostico avviene dunque in una sospensione di giudizio4 con una processualità a cui partecipa anche il paziente, in quanto chiamato anche lui a fare il suo lavoro. Come è possibile comunicare una diagnosi in modo da rendere costruttivo ai fini della terapia questo momento di reciprocità soprattutto se si ha a che fare con un paziente che presenta un disturbo di personalità? Nella mia esperienza clinica ho imparato che è importante, nel comunicare la diagnosi, stimolare il paziente a riflettere su di sé e sul mio punto di vista, partendo dal presupposto che la mia rappresenta un’ipotesi diagnostica che dovrà essere confermata dal successivo materiale clinico. Il paziente apprezza il clinico che evita ogni forma di arroganza terapeutica e dimostra il proprio interesse considerando diverse possibilità. La richiesta 4 Il vero problema non è tanto la raccolta di informazioni diverse tramite metodi diversi, soprattutto se si tratta di condurre operazioni di valutazione, quanto la tendenza che tutti abbiamo di confermare i nostri primi giudizi e di far convergere le informazioni in nostro possesso verso una coerenza a volte forzata. La strada per contrastare tutto questo, come molti psicoterapeuti hanno a più riprese messo in evidenza, è quella di sospendere il giudizio fintanto che la raccolta di informazioni non possa essere ritenuta conclusa. 5 della diagnosi spesso parte proprio dal paziente e coincide soprattutto con il suo bisogno di sentirsi definito, descritto come parte di un “gruppo” più o meno omogeneo e distinguibile di persone con determinate caratteristiche di personalità. Quante volte abbiamo ascoltato i nostri clienti porci domande relative al loro disagio: Che cosa ho? Che idea si è fatto di me Qual è il mio problema? Qual è la diagnosi che fa al caso mio? È doveroso rispondere chiaramente a questi quesiti, senza omettere particolari e senza usare termini svalutanti, come ci suggerisce Berne, quali “anormale”, “deviante”, “patologico”. Sarebbe auspicabile, a mio avviso, condividere, fin dalle prime sedute, la valutazione con il soggetto in questione. Anche se non crediamo nella validità dei sistemi diagnostici categoriali è probabile che qualcun altro abbia già fatto una diagnosi al paziente, ad esempio un altro psicoterapeuta o uno psichiatra, in questo caso diviene ancora più urgente confrontarci con lui sul tema della diagnosi così da attivare fin dall’inizio un rapporto basato sulla correttezza e sulla definizione chiara dei termini che verranno utilizzati nel corso del trattamento. Quando comunichiamo la diagnosi è opportuno verificare regolarmente che il paziente stia comprendendo quello che gli diciamo. Il punto non è dire al paziente quello che sappiamo per dimostrargli la nostra competenza ma di stimolare una riflessione. Il terapeuta deve mantenersi semplice chiaro nelle sue affermazioni, la comunicazione terapeutica viene vista come funzionante sempre a un doppio livello. A livello sociale o esplicito il terapeuta lavora con la collaborazione dello Stato dell’Io Adulto del paziente, a un livello ulteriore o implicito giungerà a comunicare con lo Stato dell’Io Bambino, pertanto è fondamentale l’utilizzo di un linguaggio accessibile. La precisione e la chiarezza dei concetti aiutano terapeuta e paziente a riconoscere ciò che sta accadendo e a capire come è possibile correggere gli atteggiamenti disfunzionali (Novellino, 1998). Come diverse ricerche hanno evidenziato (Holm-Denoma et al., 2008) una restituzione, quando fatta con modalità attenta e costruttiva, tende ad incrementare le emozioni positive del soggetto e a dare una maggiore fiducia nel trattamento. È possibile ipotizzare e le ricerche lo confermano, che l’uso di un approccio collaborativo, che incoraggi il paziente a vedersi come un partecipante attivo del processo terapeutico, e una modalità empatica di comunicazione, abbiano un’influenza positiva sul prosieguo della relazione e sul benessere del paziente. Si potrebbe iniziare con una comunicazione sulla diagnosi in modo delicato chiedendo al paziente che tipo di persona pensa di essere. - Come si descriverebbe come persona? - Cosa la rende un individuo? - Come la descriverebbe una terza persona? - Che tipo di persona è nelle relazioni più strette? - Quali sono le sue migliori qualità? Una volta comunicata la diagnosi, è importante cercare di contattare i sentimenti che il paziente prova mentre pensa e parla di sé come “portatore di una diagnosi”. In alcune persone questo può suscitare uno stato di ansia, in altre invece può costituire un sollievo sapere che ciò che era accaduto loro per anni era ascrivibile ad una sintomatologia riconosciuta dai professionisti della salute mentale. Il terapeuta deve mantenere un atteggiamento attento, sensibile e talvolta rassicurante, ma soprattutto, deve saper riconoscere la persona che sta dietro il disturbo e lavorare con lei, non con i suoi sintomi, così da sviluppare una relazione basata sul rispetto, la fiducia e la collaborazione. 6 Bibliografia Allen, J. R. (1978). Guide to psychiatry, Medical Examination Publishing Co. Inc. Transactional Analysis Journal, 23 (4) 216-234. Barron, J. W. (2005). Dare un senso alla diagnosi. Milano: Raffaello Cortina. Berne. (1966). Principi di terapia di gruppo. Roma: Astrolabio. Berne E. (1961). Analisi transazionale - un sistema di psichiatria sociale e individuale. Roma: Astrolabio. Berne E. (1971). 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