Investigazioni scientifiche, verità processuale ed etica degli esperti

Opinioni
Processo penale
Mezzi di ricerca della prova
Investigazioni scientifiche,
verità processuale
ed etica degli esperti
di Sergio Lorusso
“I fili scarlatti del delitto si aggrovigliano nella matassa incolore della vita”, afferma Sherlock Holmes, il primo e più celebre degli investigatori nati dalla penna di uno scrittore. Cos’è cambiato in poco più di un secolo nel campo delle investigazioni scientifiche? Qual è la loro rilevanza probatoria nell’economia del processo
penale? In che misura hanno inciso sulla qualità del sapere giuridico processuale?
Il metodo investigativo, a fronte dell’indiscusso progresso tecnico-scientifico, non sembra essere stato stravolto nei suoi pilastri essenziali, la scienza al servizio del processo non comporta di per sé il raggiungimento
di risultati infallibili ma, tutt’al più, di certezze provvisorie: lo scienziato forense, come tutti gli scienziati, non
è ‘onnipotente’e le sue conclusioni devono comunque passare al vaglio dell’autorità giudiziaria, secondo le
consuete regole legislative.
Fondamentale, nell’esame della scena del crimine, è che l’individuazione, la repertazione, l’assicurazione e
la custodia delle tracce del reato avvenga seguendo protocolli adeguati e condivisi, e che l’intervento degli
esperti obbedisca ad un’etica processuale in grado di assicurare risultati affidabili sotto il profilo cognitivo,
resistenti alle insidie della junk science. Resta valida, a tre secoli di distanza, l’affermazione di John Locke
secondo cui “tutti gli uomini sono soggetti all’errore: e molti uomini ne sono, in molti aspetti, esposti alla
tentazione, per passione o per interesse”.
Nessuna preclusione, insomma, nei confronti dell’utilizzo della scienza nel processo penale, a patto che non
se ne enfatizzi la portata e che venga adoperata con estrema cautela, senza indulgere in ‘pigrizie investigative’e tenendo conto delle evidenti lacune e contraddizioni normative che richiederebbero una riconsiderazione complessiva dello scenario legislativo al fine di delineare una compiuta disciplina di settore, in linea
con le più avanzate esperienze giuridiche di civil law e di common law in materia.
Tra fiction e realtà
Sempre più spesso la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti - sia ai fini dell’accertamento della
condotta materiale e dell’evento che allo scopo di
individuare l’autore del reato, attraverso un criminal
profiling verosimile - è legata a doppio filo ai risultati delle investigazioni scientifiche, al frutto cioè di
una serie di attività compiute per lo più sul luogo e
nell’immediatezza del fatto (nell’ambito del c.d. ‘sopralluogo’) - il cui stringato referente normativo è
costituito essenzialmente dagli artt. 348 e 354 c.p.p.
- e, in seconda battuta, ai sensi degli artt. 359, 359bis e 360 c.p.p.
Si tratta di atti e operazioni svolti - per ricorrere ad
un’espressione più efficace e al passo coi tempi - ‘sulla scena del crimine’dagli organi inquirenti e della
polizia giudiziaria, talvolta con l’ausilio determinante di periti e consulenti tecnici che si avvalgono ora
di strumenti tecnico-scientifici affermati e consoli-
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dati, ora di metodiche nuove e non ancora avallate
dalla comunità scientifica internazionale. Il loro apporto risulta sovente decisivo per la soluzione di casi giudiziari a prima vista inestricabili e dimostra come sia fondamentale individuare, repertare, assicurare e custodire le tracce del reato seguendo protocolli adeguati e condivisi per poterle poi analizzare
correttamente e, quindi, utilizzarle in chiave probatoria nel processo.
Al tempo stesso, però, tutto ciò non deve alimentare facili entusiasmi che rischiano di oscurare alcune
ineludibili linee portanti del processo penale, e del
procedimento probatorio in particolare: ci troviamo, sempre e comunque, di fronte a ‘certezze provvisorie’che necessitano di un appropriato vaglio giudiziario nel rispetto delle regole legali probatorie e
decisorie dettate dal legislatore. Com’è stato incisivamente osservato di recente da un’antropologa forense, “i media, la fiction, la cronaca offrono oggi
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un’immagine idealizzata della scienza, e il suo metodo viene spesso visto dalla gente comune come infallibile”; le scienze forensi - in particolare - sono caricate di aspettative che “spesso superano le loro reali potenzialità” e “l’equivoco che attribuisce a queste
discipline … una sorta di ‘onnipotenza’può nuocere
davvero non solo agli ‘scienziati forensi’stessi, ma alla giustizia e alle vittime”: il vero volto delle investigazioni forensi,insomma, è ben lontano “dalle versioni patinate che ne danno alcune fiction o dall’immagine completamente falsata che emerge dai casi
di cronaca e dai salotti televisivi” (1).
Mettendo da parte le prevedibili suggestioni letterarie derivanti dalla narrativa (basti pensare a Patricia
Cornwell e alla protagonista dei suoi romanzi, il medico legale Kay Scarpetta) e dalle fiction (l’archetipo
CSI: Crime Scene Investigation, e i suoi derivati come
RIS - Delitti imperfetti) imperanti da principio negli
Stati Uniti e ora anche nel vecchio Continente, è
allora più utile ricordare che già alla fine dell’ottocento vi era la consapevolezza del valore pregnante
di un’investigazione penale svolta, con metodo e accuratezza, avvalendosi delle potenzialità offerte dalle conoscenze tecnico-scientifiche.
Non è un caso se il primo - e certamente il più noto
- tra gli investigatori nati dalla penna di uno scrittore, destinato a una notorietà e a una longevità di
gran lunga superiore a quanto il suo stesso ideatore
avrebbe mai potuto immaginare, afferma - nel romanzo inaugurale del ciclo dedicato alle sue mirabolanti imprese investigative, ispirato più di quanto si
possa pensare alla realtà londinese del tempo - che “i
fili scarlatti del delitto si aggrovigliano nella matassa incolore della vita” (2). Sherlock Holmes riassume difatti in sé i tratti tipici dell’investigatore-scienziato che in quel periodo va emergendo e affermandosi dapprima nel Regno Unito e poi nel resto del
mondo: una figura la cui modernità - a distanza di
oltre un secolo - viene oggi ad essere ribadita con
forza, inducendo studiosi e operatori a chiedersi cosa è cambiato, con il trascorrere del tempo, nel settore delle investigazioni penali.
Dare una risposta esauriente al quesito comporta
l’osservazione del fenomeno delle investigazioni
scientifiche in una triplice prospettiva, che tenga
conto dei suoi protagonisti, delle regole (esistenti o
mancanti) e delle prassi adottate. Una prospettiva la
cui stella polare è naturalmente costituita per il giurista dal tessuto normativo, la cui trama più o meno
complessa rappresenta il reticolo entro il quale i risultati delle investigazioni acquisiscono rilevanza
processuale, ma che non per questo si esaurisce in
esso.
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Occorre difatti tener conto dei variegati - e spesso
antitetici - punti di vista dei soggetti che si muovono sulla scena del crimine al fine di individuare elementi cognitivi idonei a riprodurre il fatto (in maniera quanto più possibile fedele ai reali accadimenti) e ad individuare il colpevole, con tutte le difficoltà proprie di quella che è pur sempre, nella sostanza, un’operazione di ricostruzione storica. E occorre al contempo guardare alle regole predisposte
dal legislatore per disciplinare la materia, spesso incomplete, contraddittorie, imperfette od oscure, ed
alle prassi desumibili dai protocolli operativi adottati e riconosciuti. In nessun’altra sfera d’incidenza
della giurisdizione penale, probabilmente, il dato
concreto appare così determinante e condizionante
come nell’area delle investigazioni scientifiche, in
ragione delle caratteristiche strutturali e funzionali
che le connotano.
Progresso scientifico e sapere processuale
È alla scuola processualpenalistica milanese che va
ascritto il merito di aver portato per la prima volta
all’attenzione di studiosi e operatori del diritto in
Italia il tema della “prova penale scientifica” (3),
puntando l’obiettivo sull’esperienza nordamericana
quando ancora l’argomento sembrava a molti l’occasione tutt’al più per un semplice esercizio intellettuale, una sorta di snobismo accademico estraneo alla nostra cultura processuale e frutto - magari - di un
eccesso ingiustificato di esterofilia. Oggi l’interazione sempre più stretta tra processo penale e progresso
tecnico-scientifico è ormai acquisita, è pacificamente riconosciuta, e sta cambiando - lentamente ma altrettanto inesorabilmente - il modo stesso di condurre le indagini e di dar forma alle prove nel giudizio penale.
Occorre chiedersi, allora, se a tale mutamento corrisponda un’effettiva variazione qualitativa del sapere
giuridico processuale. In verità, ripercorrendo l’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche
applicate al processo penale nel corso di oltre un secolo, emerge come, a fronte dell’indiscusso progresso tecnico-scientifico fonte di un sensibile incremento quantitativo delle tecniche chiamate ad operare sui reperti rinvenuti sulla scena della crimine e,
Note:
(1) C. Cattaneo, Certezze provvisorie, Milano, 2010, 3.
(2) A. C. Doyle, Uno studio in rosso, London, 1887.
(3) O. Dominioni, La prova scientifica penale, Milano,2005, passim; e, ancor prima, Id., In tema di nuova prova scientifica, in
questa Rivista, 2001, 1061 s.; Id., Note sulla prova scientifica nel
sistema penale, in Riv. it. dir. proc. civ., 2002, 1333 s.
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più in generale, funzionali all’accertamento giurisdizionale, non può dirsi cambiato nei suoi tratti essenziali il metodo investigativo e, con esso, il ‘codice
genetico’del sapere processuale.
Un cammino, quello delle scienze forensi, scandito
da una molteplicità di tappe significative che ne
hanno incrementato il peso specifico rispetto al processo penale: dalla codificazione del sistema di classificazione delle impronte digitali (1896) all’istituzione da parte di Scotland Yard del Fingerprint Branch
(1901), dal riconoscimento individuale mediante
l’analisi dei solchi labiali (c.d. ‘cheiloscopia’)
(1902) all’identificazione del sangue grazie allo spettrometro di massa (1913), dall’analisi e confronto
dei proiettili al microscopio (1920) al poligrafo
trionfalmente presentato come ‘macchina della verità’(1924), dal test dinamico dei nitrati per esaminare i residui di polvere da sparo (1933) all’identificazione personale mediante esame dell’impronta vocale (1941), dal test della fosfatasi per l’identificazione personale tramite analisi del liquido seminale
(1945) allo Stub per rilevare le tracce di bario, piombo e antimonio sulle mani lasciate dall’uso di armi
da fuoco (1959), dall’utilizzo del microscopio elettronico per esaminare i residui di polvere da sparo
(1974) all’elaborazione del profilo genetico individuale mediante il metodo del DNA Fingerprinting
(1984), l’elenco è pressoché sterminato.
“Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa
resti, per quanto improbabile, deve essere la verità”
(4), dichiara con malcelata sicurezza Sherlock Holmes mentre è impegnato a risolvere uno dei suoi intricati casi in apparenza irrisolvibili, per far luce sul
quale si affida alle proprie capacità logiche e deduttive: utilizza il suo intuito, avvalendosi delle conoscenze apprese artigianalmente nel campo della
scienza e della tecnica. È, insomma, il metodo deduttivo a trionfare, e la spiegazione più logica di un
fatto è quasi sempre anche quella corretta, nonostante la sua scarsa plausibilità o prevedibilità nel
caso concreto.
L’investigatore d’oltremanica fa sua una delle caratteristiche proprie delle scienze forensi, generalmente chiamate ad occuparsi “dell’improbabile e dell’insolito” (5). È questa la loro principale differenza rispetto alle altre scienze, e tale peculiarità è - probabilmente - anche alla base del loro fascino indiscusso, tra gli addetti ai lavori come nell’opinione pubblica (6).
Dalle impronte digitali alle impronte vocali, dalla
macchina della verità fino all’impronta genetica, la
scienza e la tecnica hanno offerto nel corso degli anni un ventaglio di chances, prima ignote, a chi ha il
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potere (e il dovere) di investigare, apprendo nuovi
scenari che però possono anche indurre in errore
giudici e inquirenti se praticati impropriamente per
imperizia dell’operatore o per ‘debolezza’della tecnica adottata.
La storia del crimine e del processo penale è del resto drammaticamente ricca di errori giudiziari, taluni anche clamorosi, nati dall’utilizzo non corretto
delle conoscenze tecnico-scientifiche. Basti pensare
al lie detector - le cui origini remote sono ricondotte
addirittura alle osservazioni compiute nel III secolo
a.C. dal medico greco Erasistrato, fondatore della
scuola medica di Alessandria d’Egitto, sulle risposte
fisiologiche indotte dalle emozioni - che ha da principio conosciuto grandi fortune per poi perdere progressivamente terreno e credibilità, man mano che
l’assunto di base secondo cui rispondere falsamente
a una domanda comporterebbe una situazione di
stress nell’organismo, generando reazioni fisiologiche involontarie - quali tachicardia o sbalzi pressori
- registrabili con apposite apparecchiature, è stato
smentito da evidenze che ne hanno dimostrato il carattere semplicistico e tutt’altro che assoluto (7). In
casi come questi è la junk science, la ‘scienza-spazzatura’, a trionfare a scapito della verità dei fatti.
Molto più spesso, fortunatamente, accade esattamente l’inverso. Il corretto utilizzo nel processo delle conoscenze scientifiche e delle metodiche di individuazione, repertazione, custodia e analisi delle
tracce del reato rinvenute sulla scena del crimine
consente di ricostruire la dinamica del delitto e di
scoprirne gli autori o, viceversa, di scagionare persone ingiustamente accusate e condannate per reati
commessi da altri, talora anche a distanza di anni dai
fatti (8).
Note:
(4) A. C. Doyle, Il segno dei quattro, London, 1890.
(5) P. L. Kirk, Criminalistics, in Science, 140, 1963, 367.
(6) Cfr. A. Intini-M. Picozzi, Introduzione e breve storia delle scienze forensi, in Aa. Vv., Scienze forensi. Teoria e prassi dell’investigazione scientifica, a cura di M. Picozzi e A. Intini, Torino, 2009, 6.
(7) Tanto che nel 2002 il National Research Council - una sezione
dell’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense - ha ritenuto la sicurezza del Paese troppo importante per essere affidata
“a una macchina così ottusa” come il lie detector.
(8) Così ad esempio, negli Stati Uniti, è stato possibile individuare nel 2007 l’autore di dieci omicidi compiuti nei confronti di altrettante donne vent’anni prima grazie alla Banca dati genetici
nazionale (CODIS), nella quale il colpevole era registrato in quanto arrestato per un altro e meno grave reato, una rapina. Sul fronte opposto, basti pensare agli oltre duecentocinquanta casi - nell’arco di quasi un ventennio - di persone condannate definitivamente la cui innocenza è stata dimostrata grazie all’esame del
profilo genetico nell’ambito dell’Innocence Project.
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Arte o scienza dell’investigazione?
Sherlock Holmes, come detto, è anche uno scienziato dilettante, con competenze di chimica, anatomia,
geologia, botanica che utilizza ampiamente per risolvere i suoi casi. Ricorre all’abduzione - ritenuta “il
primo passo del ragionamento scientifico” (9) - per
verificare le ipotesi formulate. Ancora, è un profondo conoscitore dell’universo criminale della sua
città, Londra. Racchiude, dunque, in embrione i requisiti di un moderno investigatore, dell’investigatore efficiente e completo in grado di coniugare le
doti logico-analitiche con gli strumenti, sempre più
complessi e incisivi, forniti dal progresso tecnicoscientifico all’arte dell’investigazione.
Ma l’investigazione è un’arte o una scienza?
Il rapporto tra scienza e diritto “è cosa affascinante e
nel contempo insidiosa e complessa” (10), si è detto:
del resto, al rigore della conoscenza scientifica si
contrappone, spesso, la relatività delle norme giuridiche e della loro applicazione, derivante dall’ars interpretandi. E, tuttavia, sarebbe illusorio cercare nella scienza applicata al diritto quelle certezze che sovente quest’ultimo, da solo, non riesce a fornire. La
verità giudiziale, com’è noto, è pur sempre una verità relativa, condizionata dalle regole del processo,
dai suoi tempi spesso dilatati, anche se è pur sempre
una verità che esprime la tensione verso la verità
storica che si propone di ricostruire, di rievocare, per
poter soddisfare appieno la ‘domanda di giustizia’proveniente dal caso singolo. Alla (pretesa) infallibilità della scienza, insomma, si contrappone la relatività del sapere processuale.
Come lo storico, e anzi più dello storico, il giudice
non dispone di mezzi illimitati per assolvere al proprio compito. Può tener conto soltanto delle fonti
cognitive consentite dall’ordinamento, deve scartare ciò che è illecito o che è stato acquisito in violazione delle regole processuali, in primis quella ‘aurea’del contraddittorio nella formazione della prova
(cui può supplire il consenso delle parti, tra le poche
eccezioni alla regola dettata dall’art. 111 Cost.).
Non può dunque ignorare le regole di esclusione
probatoria e deve tener conto inoltre delle regole di
giudizio, che impongono il raggiungimento di un determinato standard probatorio per la decisione finale, qual è oggi lo standard dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, di matrice nordamericana (beyond a
reasonable doubt), il cui rispetto è necessario per la
condanna (art. 533, comma 1, c.p.p.).
Le scienze forensi, sebbene l’espressione venga da
taluni considerata un ossimoro (11), rappresentano
la sintesi più avanzata tra scienza e diritto che l’ordi-
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namento offre al nostro sguardo, con una pluralità di
specializzazioni in continua espansione (antropologia forense, archeologia forense, entomologia forense, odontologia forense, patologia forense, psicologia forense, psichiatria forense, tossicologia forense,
e via discorrendo), la cui ramificazione - lì dove tali
scienze sono radicate e utilizzate da più tempo - è testimoniata dalla moltiplicazione esponenziale dei
profili professionali ad esse relativi (12). Anche in
Italia, nonostante le radicate resistenze al novum
che contraddistinguono la nostra cultura (e non soltanto quella giuridica), si assiste ormai alla loro progressiva affermazione.
Ad essere in ritardo, invece, è il legislatore, se si eccettuano interventi marginali e poco organici quali
la frettolosa l. 18 marzo 2008, n. 48 (13), che va ad
incidere sulla computer forensics, e la l. 30 giugno
2009, n. 85, attuativa del Trattato di Prüm, che ha
introdotto nel corpo codicistico l’art. 359-bis c.p.p.
(prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi) e regolamentato la prova genetica istituendo la
Banca dati nazionale del DNA, ad oggi però ancora
inattuata - il Governo ha infatti lasciato trascorrere
invano i termini previsti per l’approvazione del Regolamento attuativo - anche in ragione di opinabili
scelte che hanno individuato nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, facente capo al Ministero della Giustizia, la sede del Laboratorio centrale per la Banca dati nazionale: un Dipartimento
che difetta delle competenze tecniche necessarie per
svolgere le funzioni attribuite al laboratorio, ovvero
la tipizzazione del profilo genetico mediante estrazione dal campione o reperto biologico, da trasmettere in forma digitale alla Banca dati nazionale, istituita presso il Dipartimento della pubblica sicurezza
del Ministero dell’Interno (14).
La scienza sempre più al servizio del processo, dunNote:
(9) C.S. Peirce, Collected Papers, vol. VII, Cambridge, MA, 1958,
§ 218.
(10) A. Intini-M. Picozzi, Introduzione, cit., 1.
(11) D. Kennedy, Forensic Science: Oxymoron?, in Science, 302,
2003, 1625.
(12) Cfr., in proposito, S. Echaore-McDavid-R.A. McDavid, Career Opportunities in Forensic Science, New York, 2008, passim,
che delinea un catalogo sterminato di opportunità lavorative in
materia.
(13) Definita “tutt’altro che lodevole, quanto a tecnica legislativa
e soluzioni adottate”, da L. Lupária, Premessa, in Aa.Vv., Sistema penale e criminalità informatica, a cura di L. Lupária, Milano,
2009, X.
(14) Per un primo bilancio critico sulla l. 85/2009 si veda P. Tonini, Informazioni genetiche e processo penale a un anno dalla legge, in questa Rivista, 2010, 883 s.
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que. A prima vista un grande privilegio. E, tuttavia,
anche la scienza - come si accennava - è tutt’altro
che perfetta e la sua applicazione al processo tutt’altro che automatica e produttrice di certezze. È una
geniale quanto inconsueta invenzione letteraria
quella contenuta nel racconto di Philip K. Dick che
ha ispirato il film Minority Report (2002) di Steven
Spielberg, in cui un sistema apparentemente infallibile riesce addirittura a impedire i crimini prevedendone il loro compimento, consentendo così di assicurare tempestivamente alla giustizia i potenziali autori. Anche tale congegno si dimostrerà però violabile e manipolabile dai suoi gestori, per fini tutt’altro che nobili. È solo una finzione letteraria, si potrebbe obiettare, ma di certo fa riflettere sui limiti
della conoscenza scientifica, dei quali peraltro filosofi e scienziati sono ben consapevoli da oltre mezzo
secolo (15).
Più che in una scienza perfetta, allora, l’investigazione si sostanzia in un insieme di tecniche che alla
scienza fanno ricorso, la cui applicazione richiede
‘arte’, nel senso di professionalità, competenze e rigore.
La scienza nel processo e l’etica
dell’investigazione
Uno dei punti nodali del rapporto tra scienza e processo penale, del resto, è quello del valore probatorio da attribuire alle fonti cognitive raccolte grazie
alle nuove metodiche, che appare legato alla questione - tuttora irrisolta nel nostro ordinamento e in
qualche modo pregiudiziale alla prima - della professionalità e dei criteri di scelta degli esperti: “tutti gli
uomini sono soggetti all’errore: e molti uomini ne
sono, in molti aspetti, esposti alla tentazione, per
passione o per interesse”, affermava oltre tre secoli
fa il caposcuola dell’empirismo moderno, il filosofo
britannico John Locke (1632-1704) (16).
Ecco allora porsi con forza il problema della correttezza deontologica di periti e consulenti tecnici
(17), la necessità di un’etica condivisa dell’esperto
che funga da barriera a manipolazioni, deformazioni,
omissioni e contaminazioni i cui effetti dirompenti
sono da tutti intuibili, se si considera l’oggetto del
processo penale e le sue implicazioni: la possibile
condanna di un innocente o, al contrario, l’assoluzione di un colpevole.
Una barriera invalicabile, dunque, tale da imporre
l’elaborazione e il rispetto di un’etica dell’investigazione, che - però - da sola non è sufficiente a garantire un risultato ottimale. L’errore dell’esperto, difatti, può anche essere un errore non consapevole, dovuto a imperizia, scarsa conoscenza delle tecniche
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da utilizzare, erronea applicazione delle metodologie, ricorso a protocolli operativi discutibili, non riconosciuti dalla comunità scientifica o ancora allo
stato sperimentale. Gli effetti, spesso, sono irreversibili, specie quando lo specifico esame da compiere
non è più reiterabile, ad esempio, per consumazione
del campione.
È necessario insomma predisporre le opportune cautele affinché venga impedito l’accesso nel processo
penale di strumenti pseudoscientifici, della bad
science, di quella ‘scienza-spazzatura’cui si faceva riferimento all’inizio, per evitare di alterare irrimediabilmente la ricostruzione dei fatti, favorendo, invece, l’affermazione della good science. Si tratta di un
obiettivo impegnativo ma ineludibile. E qui viene in
evidenza la colpevole disattenzione del legislatore,
che non si è preoccupato neppure di stabilire criteri
rigorosi per la scelta di periti e consulenti tecnici ovvero di quelli esperti cui è delegato l’onere di introdurre le conoscenze scientifiche nel processo - né
di organizzare e promuovere la loro formazione e di
predisporre appositi albi che ne certifichino le abilità.
Il ricorso alla scienza nel processo penale, allora, ha
una sua indubbia utilità a patto che non se ne enfatizzi la portata e che avvenga sempre con scrupolo e
capacità. E, naturalmente, che non si confonda l’affidabilità del mezzo tecnico-scientifico con la relatività del suo valore probatorio. Non va dimenticato
che il risultato dell’utilizzo delle conoscenze tecnico-scientifiche nell’esame della scena del crimine è
pur sempre, in termini processuali, un mero indizio,
da calare e contestualizzare nell’intero scenario probatorio. L’analisi correttamente eseguita di un camNote:
(15) Per un’efficace sintesi della concezione post-positivistica
della scienza, oggi ritenuta limitata, incompleta e fallibile, cfr. P.
Tonini, La prova scientifica, in AA. VV., Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. II, tomo 1, Le prove, a cura di
A. Scalfati, Torino, 2009, 88 s.
(16) Come ricordano A. Intini-M. Picozzi, Introduzione, cit., 5,
sottolineando che “senza il supporto di regole etiche condivise,
gli scienziati forensi possono trasformarsi in hired gun, armi
prezzolate al servizio delle parti”. È importante, pertanto, che gli
esperti imparino “a lavorare senza idee preconcette, senza porsi in posizione di sudditanza con il committente” (L. de Cataldo
Neuburger, Aspetti psicologici nella formazione della prova: dall’ordalia alle neuroscienze, in questa Rivista, 2010, 609).
(17) Cfr., con specifico riferimento alla computer forensics, G.
Ziccardi, Scienze forensi e tecnologie informatiche, in G. Ziccardi-L. Lupária, Investigazione penale e tecnologia informatica, Milano, 2007, 25 S.
Più in generale M. R. Damaška, Il diritto delle prove alla deriva,
ed. it., Bologna, 2003, 205, nel constatare la “progressiva adozione di modelli scientifici nell’indagine sui fatti”, evidenzia come parallelamente “cresc(a) la fiducia nelle valutazioni tecniche
degli esperti”.
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pione biologico, ad esempio, può dirci con certezza
quasi matematica che una persona è stata in un determinato luogo o che ha avuto un contatto fisico
con la vittima del reato, ma non quando e perché ciò
è accaduto.
Si tratta insomma di un tassello del più ampio puzzle in cui l’accertamento del fatto (e l’individuazione
del colpevole) si sostanzia, fatto anche di prove ‘tradizionali’, nella consapevolezza che “il solo dato
scientifico non costituisce mai la soluzione del caso”, anche quando preciso e affidabile (18). Di conseguenza, il suo ‘peso’probatorio varierà a seconda
delle specificità del caso: sarà minimo se risultano
frequentazioni abituali tra la vittima e l’accusato, di
gran lunga superiore qualora quest’ultimo affermi di
non essere mai stato nel luogo in cui sono state invece ritrovate le sue tracce biologiche. Andrà in
ogni caso ‘soppesato’alla luce dell’intero quadro probatorio, perché è ciò che il principio del libero convincimento (art. 192, comma 1, c.p.p.) richiede ed
impone.
Ma anche tale approccio non è sufficiente, perché come detto - è altrettanto importante che la repertazione delle tracce e il prelievo dei campioni avvenga con il rispetto dei protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica, seguendo le best practices, e,
naturalmente, senza manipolazioni e contraffazioni
di sorta. Altrimenti, la ‘prova scientifica’diviene ingannevole più di ogni altra prova, e le investigazioni
compiute sulla scena del crimine rischiano di trasformarsi in un boomerang per l’accusa, com’è accaduto in celebri processi. Emblematico è il caso di O.
J. Simpson, nel quale le manomissioni dei campioni
biologici prelevati dall’ex giocatore di football americano (poi divenuto una star hollywoodiana) sono
state senza dubbio determinanti - insieme ad altri errori e scorrettezze degli investigatori - per il verdetto
di assoluzione (19).
Nessuna preclusione, quindi, nei confronti della
‘prova scientifica’, nessun pregiudizio rispetto all’utilizzo della scienza nel processo penale, ma - al contempo - estrema attenzione nella sua gestione, consapevoli che il suo progressivo affermarsi sulla scena
della contesa penale è comunque un segno dei tempi, rappresenta una nuova e ulteriore tappa nel cammino del processo penale caratterizzato dal continuo
evolversi del sistema probatorio, scandito dall’affermarsi di differenti strumenti cognitivi che hanno influito sulla struttura e sulle dinamiche processuali.
Dalle prove irrazionali legate a una visione trascendente del mondo, in ragione della quale si chiede
aiuto alle forze sovrannaturali per decidere (nascono
così le ordalie e i giuramenti) alle prove legali (pre-
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determinate nella specie e nella loro efficacia dimostrativa), legate alla nascita di organi giudicanti
pubblici, che scandiscono l’affermazione della prova
dichiarativa con il trionfo della confessione, considerata la ‘prova regina’per ottenere la quale è lecito
ricorrere anche alla tortura; dal superamento delle
rigidità del sistema delle prove legali, grazie all’illuminismo che apre la strada all’intime conviction del
giudice dando spazio ad altri strumenti probatori, al
progressivo ridimensionamento della prova dichiarativa dettato proprio dal sapere scientifico applicato al processo. Dapprima con le scienze criminologiche, poi con le nuove conoscenze tecnico-scientifiche applicate alla macchina processuale, nella convinzione che le ‘scienze esatte’possano avvicinare la
verità giudiziale a quella storica. È proprio uno dei
più noti esponenti della Scuola positiva, il criminologo Enrico Ferri, che vanta del resto diritti di primogenitura nell’utilizzazione dell’espressione ‘prova
scientifica’ (20).
Quali i rischi di un tale approdo?
Intanto il concreto pericolo di una ‘deriva tecnicista’, che conduca a ritenere il processo penale - avallando un massimalismo della conoscenza scientifica,
una sorta di radicalismo del sapere scientifico che
rappresenta la negazione della sua più intima natura
- una sorta di “laboratorio scientifico, affidato ad
asettici operatori in camice bianco” (peraltro già
teorizzato in passato dalla Scuola positiva) (21), nel
quale il sapere degli esperti si sostituisce al sapere del
giudice. Verrebbero così ad essere confusi due piani
tra loro gnoseologicamente divergenti, se è vero che
il sapere processuale - a differenza del sapere scientifico, che si traduce in un semplice atto cognitivo ha una finalità ulteriore, essendo orientato a un atto
imperativo: la decisione giurisdizionale, che determina effetti rilevanti e irreversibili nella sfera individuale e rappresenta, peraltro, l’epifania di una funNote:
(18) C. Cattaneo, Certezze provvisorie, cit., 4, secondo cui “la
scienza regina delle indagini forensi non esiste, o meglio, non
dovrebbe esistere. Alla ‘corte’della Giustizia la scienza può essere paragonata a un Gran Consigliere (che talvolta può diventare anche un cortigiano, nel senso deteriore del termine)”.
V., in proposito, l’accurata analisi di R. C. Harris, Black Robes,
White Coats. The Puzzle of Judicial Policymaking and Scientific
Evidence, Piscataway, NY, 2008, passim.
(19) V., sul punto, l’ampia disamina di A.M. Dershowitz, Dubbi
ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, ed. it., Milano, 2007, passim.
(20) E. Ferri, Sociologia criminale, 5ª ed., vol. I, Torino, 1929, 348.
(21) E. Amodio, La rinascita del diritto delle prove penali. Dalla
teoria romantica della intime conviction al recupero della legalità
probatoria, in Id., Processo penale, diritto europeo e common
law: dal rito inquisitorio al giusto processo, Milano, 2003, 128.
Diritto penale e processo 11/2010
Opinioni
Processo penale
zione dello Stato. La scienza ha ad oggetto proposizioni generali da sottoporre a verifica, il processo penale singoli enunciati che riguardano lost facts da
rievocare e da ricostruire in maniera verosimile.
Un ulteriore rischio, sul piano operativo, è già tangibile nell’esperienza giudiziaria di questi ultimi anni: il diffondersi di una ‘pigrizia investigativa’, frutto
di un eccessivo e irriflessivo ricorso agli strumenti
d’indagine tecnico-scientifici, a scapito delle tradizionali metodologie investigative, sulla base di una
solo presunta - ma come detto indimostrata e indimostrabile - superiorità dei primi sulle seconde.
Da qui l’estrema cautela e il grande equilibrio necessari nell’uso prima, e nella valutazione poi, dei risultati delle investigazioni scientifiche. Da qui l’esigenza di un apparato normativo adeguato, a fronte di risposte legislative carenti e frammentarie. Il codice
1988, com’è noto, non affronta espressamente la
questione, sebbene il ricorso a siffatti strumenti fosse all’epoca già tutt’altro che residuale. Ma i tempi
evidentemente non erano ancora maturi.
Le evidenti lacune normative, solo in parte colmate
dalla lettura ‘illuminata’e per certi versi ‘coraggiosa’dell’art. 189 c.p.p. prospettata in dottrina (22), permangono immutate e costituiscono, pertanto, il vero
tallone d’Achille della materia, dimostrando come
manchi ancora una consapevolezza a livello legislativo della rilevanza e della diffusione di un fenomeno
Diritto penale e processo 11/2010
rispetto al quale le soluzioni interpretative proposte
dalla supplenza di dottrina e giurisprudenza non possono che rappresentare soluzioni provvisorie.
È dunque necessario - e improcrastinabile - riconsiderare lo scenario normativo in cui le investigazioni
scientifiche, in particolare, e la cd. ‘prova scientifica’, più in generale, sono chiamate ad operare, per
giungere a delineare una compiuta disciplina di settore. Non senza uno sguardo attento e meditato alle
esperienze di Europa e Stati Uniti, al fine di trarne
suggerimenti e utili spunti di riflessione. Perché se è
certo che il processo penale non può ormai più fare
a meno della ‘prova scientifica’, è altrettanto innegabile che nessuna persona coinvolta nel processo
penale può essere privata dei diritti sanciti con il riconoscimento costituzionale delle garanzie del ‘giusto processo’invocando l’infallibilità del metodo
scientifico quale fonte inesauribile e incontestabile
di verità.
Nota:
(22) O. Dominioni, La prova penale scientifica, cit., 207 s.
In una diversa prospettiva S. Lorusso, La prova scientifica, in Aa.
Vv., La prova penale, Trattato diretto da A. Gaito, Torino, 2008, I,
321 s.; G. Ubertis, La prova scientifica e la nottola di Minerva, in
Aa. Vv., La prova scientifica nel processo penale, a cura di de Cataldo Neuburger, Padova, 2007, 84 s.
1351
Opinioni
Processo penale
Codice della strada
Le problematiche
di accertamento sanitario
a fini di prova negli artt. 186
e 187 C.d.S. (II parte)
di Paolo Scippa
Le successive modificazioni alla disciplina dell’accertamento della positività all’assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti/psicotrope - anche alla luce della recente novella del 29 luglio 2010, n. 120 - pongono
numerosi problemi di compatibilità costituzionale e di omogeneità alle norme del Codice di procedura penale che regolano, in modo tassativo, le circostanze fattuali per le quali è possibile compiere atti sanitari invasivi sulla persona a fini di accertamento di condotte costituenti reato. L’emergenza legata agli ultimi fatti dannosi connessi alla guida sotto l’effetto di alcool o di stupefacenti ha spinto, tuttavia, il Legislatore all’emanazione di numerose disposizioni, incidenti anche nel delicato campo dell’accertamento sanitario su persona
indagata, che - a parere di chi scrive - mal si conciliano con i principi della riserva di giurisdizione storicamente
legata a questo campo, affidando in modo praticamente esclusivo alle forze di polizia, le operazioni di campionamento dei liquidi biologici a seguito di accertamento - anche presuntivo - dello stato di ebbrezza alcolica o di positività agli stupefacenti. Tali nuove disposizioni limitano fortemente non solo le stesse garanzie difensive dell’indagato ma anche le doverose potestà di controllo del Pubblico Ministero sull’attività della Polizia Giudiziaria. Le considerazioni che, di seguito, verranno esposte mirano a sottolineare i principali contrasti della normativa vigente sulla materia con i principi generali indicati dal Codice di procedura penale ed a
segnalare i rischi di una possibile “deriva” verso una degiurisdizionalizzazione a garanzia limitata, di accertamenti istruttori costituenti “prova valida” anche nel dibattimento penale.
Ambito normativo di riferimento
La completa riformulazione dei primi due periodi
del comma 7 dell’art. 186 C.d.S. operata dall’art. 4
del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, ha comportato la
reintroduzione del reato di rifiuto di sottoporsi agli
accertamenti di cui ai commi 3, 4 e 5 che, per effetto del d.l. n. 117/2007, convertito in l. 2 ottobre
2007, n. 160, era stato trasformato in illecito amministrativo.
Sotto l’egida della formulazione previgente, il rifiuto
di sottoporsi all’accertamento era punito con una
mera sanzione amministrativa compresa tra euro
2.500,00 ed euro 10.000,00, o tra euro 3.000,00 ed
euro 12.000,00 nel caso in cui la violazione fosse stata commessa a seguito di un sinistro stradale. Nelle
intenzioni del legislatore, probabilmente sottovalutando la portata del fenomeno e le conseguenze a
cui ciò avrebbe condotto, l’ingente importo della
sanzione amministrativa avrebbe dovuto costituire
un efficace deterrente, grazie al quale il conducente
1352
si sarebbe sottoposto alle necessarie verifiche per
evitare di incorrere in un notevole esborso economico.
Tuttavia, il pericolo di un amplissimo spettro di assoluta impunità, derivante dall’impossibilità per
l’accusa di acquisire un’importante prova di colpevolezza dell’indagato, e la scarsa efficacia deterrente
dimostrata dalle numerose contestazioni elevate nel
periodo di vigenza della norma, hanno indotto il legislatore ad una rapida inversione di marcia, attraverso la reintroduzione, a pochi mesi dall’intervenuta abolitio criminis, del reato di rifiuto di sottoporsi alle verifiche.
La disciplina previgente alla promulgazione della l.
29 luglio 2010, n. 120 (non mutata con le modifiche
introdotte dalla predetta normativa) stabilisce che
nei confronti di chi si rifiuta di sottoporsi all’accertamento debba applicarsi la stessa pena prevista dal
comma 2, lett. c), analogamente a quanto avverrebbe qualora fosse accertato un valore corrispondente
Diritto penale e processo 11/2010
Opinioni
Processo penale
ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro.
Il conducente sarà dunque punibile con l’ammenda
da euro 1.500 a euro 6.000, l’arresto da 6 mesi ad un
anno (1), nonché la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un
periodo da sei mesi a due anni e la confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal
comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga
a persona estranea alla violazione.
Con l’ordinanza con la quale è disposta la sospensione della patente, il Prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica secondo le disposizioni del comma 8. Se il fatto è commesso da soggetto già condannato nei due anni precedenti per il
medesimo reato è sempre disposta la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di
guida.
A seguito della novella legislativa, il reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 7, deve ritenersi integrato
al momento della manifestazione del rifiuto, indipendentemente dalle ragioni dello stesso e persino
nel caso in cui il conducente abbia ammesso di trovarsi in
stato di ebbrezza, giacché l’ammissione di responsabilità non esclude la necessità dell’esame clinico.
Secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, infatti, l’ammissione di responsabilità dell’imputato
non elimina l’interesse all’accertamento, non solo
perché è proprio il risultato dell’esame clinico ad assumere valore probatorio preminente e necessario ai
fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, ma anche perché esso rileva per la determinazione in concreto della pena da infliggere (2).
Problematiche sull’accertamento del reato
Perché il reato possa dirsi integrato, occorre che la
richiesta di accertamento da parte dei verbalizzanti
sia legittima e conforme ai criteri stabiliti dagli artt.
186 e 187 C.d.S., con particolare riferimento al rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica del soggetto sottoposto a
controllo.
A tale ultimo riguardo, delicati problemi si pongono
con riferimento al prelievo ematico coattivo o, più in
generale, alla necessità del consenso da parte del
conducente coinvolto in incidenti stradali e sottoposto alle cure mediche a seguito delle lesioni riportate.
Il problema si pone soprattutto in quanto il comma
5 dell’art. 186 C.d.S. (e art. 187) attribuisce agli organi di Polizia Stradale la possibilità di richiedere l’accertamento del tasso alcolemico/presenza di tracce di
stupefacenti da parte delle strutture sanitarie per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cu-
Diritto penale e processo 11/2010
re mediche, senza precisare se tale accertamento sia subordinato al consenso dell’interessato (3).
Il tema risulta particolarmente importante in ragione dei contrapposti interessi in gioco: da un lato vi è
la necessità di acquisire ogni elemento utile per valutare l’eventuale colpevolezza del soggetto, mentre
dall’altro vi sono principi costituzionalmente garantiti tra i quali l’inviolabilità della libertà personale e
la libertà di scegliere se sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario, previsti rispettivamente dagli
artt. 13 e 32 Cost. (4).
La novella del 29 luglio 2010, con riferimento alla
fattispecie dell’art. 187 C.d.S., se è possibile, aggrava le problematiche di compatibilità costituzionale.
Invero, il comma 2° bis del citato articolo non limita l’intervento degli organi accertatori alla sottoposizione del conducente ai cd. “test speditivi”, ovvero
accertamenti qualitativi non invasivi o a prove di
positività anche con apparecchi portatili, ma lascia
all’apprezzamento discrezionale degli organi accertatori (Polizia di Stato, Carabinieri, Polizia Municipale) anche al di fuori di casi di “positività” ai test
speditivi, la scelta (fondata sul cosiddetto “ragionevole dubbio”) di sottoporre il fermato “ad accertamenti clinico-tossicoligici e strumentali su campioni di mucosa del cavo orale” oppure in caso di indisponibilità di personale sanitario ausiliario delle forze di polizia, anche in caso di rifiuto, di sottoporre il
conducente “a prelievo per campione di liquidi biologici
ai fini dell’effettuazione degli esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope”
Tali nuove disposizioni si pongono in aperto contrasto con quanto costantemente affermato sia dalla
magistratura di merito sia di legittimità.
La giurisprudenza, infatti, è in più occasioni intervenuta in materia per precisare come il prelievo ematico possa essere effettuato in assenza di consenso dell’interessato solo nell’ambito di un protocollo medico di
pronto soccorso e quando necessario a fini sanitari (cfr.,
ex plurimis, Cass. Sez. IV, sentenza del 9 dicembre
Note:
(1) Pena aumentata nel minimo a seguito della l. 29 luglio 2010,
n. 120.
(2) Cfr. Cass., Sez. IV, 8 febbraio 2006, n. 26744.
(3) Con la novella rappresentata dalla l. 29 luglio 2010, n. 120 si
è aggiunto un ulteriore profilo costituzionalmente dubbio, ovvero l’obbligo di trasmissione tempestiva, a cura dell’organo di polizia che ha proceduto agli accertamenti, al prefetto del luogo
della commessa violazione, con conseguente duplicazione e parallellismo immediato tra l’esercizio dell’azione penale e l’inizio
del procedimento amministrativo di competenza degli organi
prefettizi.
(4) Si veda quanto già espresso da A. Bonomi, in questa Rivista
10, 1221.
1353
Opinioni
Processo penale
2008, n. 4118 (5), Sez. IV, sentenza del 4 novembre
2008, n. 10286 (6), Sez. IV, sentenza del 21 settembre 2007, n. 38537 (7), Sez. IV, sentenza del 28
aprile 2006, n. 24382 (8), Sez. IV, sentenza del 25
gennaio 2006, n. 20236 (9), Sez. IV, sentenza del 13
maggio 2005, n. 22599 (10)).
La novella del 2010, inoltre, condiziona non solo le
modalità dei prelievi “su strada” alla futura emanazione di un decreto attuativo “da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore” delle modifiche
legislative, ma esclude (posto che nel testo non vi è
traccia) di regolamentare con analogo strumento le
modalità di prelievo di “liquidi biologici” presso le
strutture sanitarie, anche quando tale prelievo non è
funzionale a necessità di cura del conducente fermato dalle forze di polizia.
La misurazione del tasso alcolemico sarà, in questi
casi, pienamente legittima e dunque utilizzabile ai
fini probatori, indipendentemente dal consenso del
soggetto sottoposto alle cure del personale sanitario.
Come puntualizzato dalle Sezioni Unite (11), le relazioni di servizio della polizia giudiziaria sono atti
irripetibili, come tali inseribili nel fascicolo per il dibattimento, qualora contengano un tipo di accertamento che non è possibile “riprodurre” nuovamente nel dibattimento attraverso l’escussione dell’operante: ciò si
verifica allorquando contengano o la descrizione di
un’attività materiale ulteriore rispetto a quella investigativa e non riproducibile ovvero la descrizione di
luoghi, cose o persone, soggetti a modificazioni. In
tali casi, la mancata allegazione dell’atto determinerebbe la perdita dell’informazione probatoria ovvero l’acquisizione di una informazione priva delle caratteristiche
di completezza, affidabilità o genuinità.
Nella fattispecie, la nozione di irripetibilità che rileva è quella che ricorre nelle ipotesi in cui l’atto attiene alla descrizione di luoghi, cose o persone, di
interesse per lo svolgimento delle indagini o per la
celebrazione del processo, che siano “suscettibili di
modificazione”. Queste caratteristiche sono ravvisabili nel caso in esame in cui la polizia giudiziaria ex
art. 354 c.p.p., commi 2 e 3, è abilitata a compiere rilievi sullo stato delle cose, dei luoghi e delle persone
nel caso di pericolo di alterazione, dispersione o modificazione.
Sulla scorta di questa pronuncia la Suprema Corte,
con riferimento agli accertamenti di cui all’art. 187
C.d.S., ha affermato che “l’attività compiuta dagli organi di polizia stradale per accertare il reato di guida in
stato di alterazione correlata all’uso di droghe, ad esclusione degli accertamenti preliminari” sarebbe da ricondursi agli atti di P.G. urgenti ed indifferibili previsti
dall’art. 354, comma 3 c.p.p. (12).
1354
Note:
(5) I risultati del prelievo ematico effettuato, secondo i normali
protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso
una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale sono utilizzabili nei confronti dell’imputato per l’accertamento
del reato di guida in stato di ebbrezza, trattandosi di elementi di
prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando
irrilevante, ai fini dell’utilizzabilità processuale, la mancanza del
consenso (In motivazione, la Corte ha precisato che solo il prelievo ematico effettuato, in assenza di consenso, non nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso - e dunque non necessario a fini sanitari - sarebbe inutilizzabile, per violazione del
principio costituzionale di inviolabilità della persona).
(6) I risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale, e non preordinato
a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per
l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di
ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato.
(7) Ai fini dell’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell’incidente stradale sono utilizzabili, nei confronti dell’imputato,
per l’accertamento del reato, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, ai fini dell’utilizzabilità processuale, la mancanza del consenso. Al contrario, il prelievo ematico effettuato, in assenza di consenso, non nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso - e dunque non necessario a fini sanitari - è inutilizzabile ex art.
191 c.p.p. per violazione del principio costituzionale che tutela
l’inviolabilità della persona (art. 13 Cost.).
(8) In Arch. Giur. della Circ. e dei Sin., 2007, 4, 378. In tema di
reato di guida in stato di ebbrezza, il certificato medico relativo
agli esami del prelievo ematico, effettuati secondo i normali protocolli medici dal pronto soccorso durante il ricovero in una struttura ospedaliera, è utilizzabile a fini probatori come documento,
e quindi non necessita di alcun deposito a beneficio della difesa
ex art. 366 c.p.p. durante le indagini preliminari e di alcuna conferma in sede testimoniale nel corso del dibattimento.
(9) In Arch. Giur. della Circ. e dei Sin., 2007, n. 3, 275. Per accertare la responsabilità del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool, è legittimo acquisire e utilizzare il certificato medico relativo all’accertato tasso di alcool nel sangue dell’interessato se e
qualora l’analisi del sangue sia stata effettuata dal personale
ospedaliero non a richiesta specifica degli agenti di polizia stradale, ma unicamente per motivi clinici e a scopo curativo delle lesioni riportate dal predetto nell’incidente stradale in cui questi
sia stato coinvolto (La Corte ha osservato che tale accertamento
“invasivo” sarebbe illegittimo e processualmente inutilizzabile a seguito della sentenza della Corte cost. n. 238 del 1996 - solo
se effettuato, in assenza del consenso dell’interessato, ad iniziativa dell’organo di polizia a fini processuali).
(10) In Arch. Giur. della Circ. e dei Sin., 2006, 3, 271. I risultati del
prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso
successive ad incidente stradale, e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato.
(11) Sent. 17 ottobre 2006, Greco.
(12) Cfr. Cass., Sez. I, sent. del 13 novembre 2007, n. 2443: in
tema di indagini preliminari, la nozione di accertamento tecnico
concerne non l’attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti
al reato (nel caso di specie, il prelievo di un campione biologico),
priva di alcun carattere di invasività, bensì soltanto il loro studio
e la loro valutazione critica. La Circolare del Ministero dell’Interno del 29 dicembre 2005, n. 300, riprendendo il citato orientamento della Suprema Corte, testualmente afferma: «Si ritiene
(segue)
Diritto penale e processo 11/2010
Opinioni
Processo penale
Tale posizione assunta dalla Suprema Corte, quasi
granitica ed insuperabile sotto il profilo della difesa,
a parere di chi scrive pone non pochi problemi di
compatibilità, non solo con la fonte primaria del diritto italiano, ma con la stessa lettera della norma citata in massima.
L’art. 354, comma 3, c.p.p. è norma chiaramente
sottoposta alla riserva di giurisdizione (13) di cui al
precedente comma 2 e, pertanto, legittima e condiziona l’autonoma azione di raccolta “istruttoria” della P.G. sulla base di due presupposti tassativi:
– se vi è pericolo che le cose, le tracce … si alterino
o si disperdano o comunque si modifichino;
– se il Pubblico Ministero non può intervenire ovvero
non ha assunto ancora la direzione delle indagini (14).
Nel caso di accertamento ematico in dipendenza di
una probabile contestazione ex art. 187 C.d.S. trova
necessaria applicazione il 3° comma, secondo inciso,
dell’art. 354 c.p.p. con conseguente richiamo diretto all’art. 349 bis c.p.p. (15): tale norma impone la
comunicazione al P.M. che deve assumere, quindi, la
direzione delle indagini, proprio quando l’attività
svolta dalla P.G. consta del “prelievo di capelli o saliva” e quando manca il consenso dell’interessato.
Tenuto conto del fatto che il richiamo operato dall’art. 354, comma 3, c.p.p. all’art. 349 bis c.p.p. fa
generico riferimento al “prelievo di materiale
biologico”, l’interpretazione sistematica del combinato-disposto tra le due norme consente, in primo luogo, di ritenere l’elencazione contenuta nell’art. 349
bis c.p.p. non esaustiva con riferimento ai tipi di prelievi e, conseguentemente, giurisdizionalizza le procedure per tutti i prelievi biologici resi necessari ai
sensi del 354 c.p.p.
Sullo sfondo di questa distinzione pare collocarsi
quell’insegnamento giurisprudenziale secondo il
quale i soli rilievi (impronte digitali, tampone a freddo
o, come nel nostro caso, prelievo di tracce di materiale
organico (16)), ancorché possano essere prodromici
all’effettuazione di accertamenti tecnici, non sono
tuttavia identificabili con essi, per cui, pur essendo
essi irripetibili, la loro effettuazione non deve avvenire nell’osservanza delle forme stabilite dall’art.
360 c.p.p., le quali sono riservate soltanto agli accertamenti veri e propri, se ed in quanto qualificati come irripetibili (17).
La suddetta distinzione fra accertamenti e rilievi
(testualmente contenuta nel comma 2 e nella prima
parte del comma 3 dell’art. 354 c.p.p.) comporta,
comunque, nella nostra materia che, mentre il prelievo del materiale biologico potrebbe lecitamente
rientrare nelle potestà operative della Polizia Giudiziaria (essendo connotato dall’urgenza di cui all’art.
Diritto penale e processo 11/2010
Note:
(continua nota 12)
inoltre che gli esami previsti dai commi 4 e 5 dell’art. 186 C.d.S.
(accertamento con etilometro, esami clinici presso le strutture
sanitarie) per controllare il tasso di alcool nel sangue, debbano ricondursi agli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili previsti dall’art. 354, comma 3, c.p.p. Anche l’attività compiuta dagli
organi di polizia stradale per accertare il reato di guida in stato di
alterazione correlata all’uso di droghe, ad esclusione degli accertamenti preliminari, è da ricondursi tra gli atti di polizia giudiziaria
urgenti ed indifferibili previsti dall’art. 354, comma 3 c.p.p.».
(13) Cfr. la relazione illustrativa al d.d.l. n. 995 recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti medici idonei ad incidere sulla libertà personale”: «La norma mira
ad attribuire alla polizia giudiziaria il potere di procedere ai prelievi coattivi di capelli e saliva, sia nei confronti dell’indagato, che
nei confronti di persona non sottoposta ad indagini (ad esempio
persona offesa, testimone), quando il pubblico ministero non
può intervenire tempestivamente, ovvero quando non ha ancora
assunto la direzione delle indagini e sempre nel rispetto del presupposto che vi debba essere pericolo che le cose, le tracce e i
luoghi indicati nel comma 1 dell’articolo 354 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino. Tuttavia, da un lato, questa disposizione non sembra aver colmato il vuoto normativo sopra illustrato. Dall’altro, avendo previsto, in ogni caso, l’intervento del giudice - sia preventivamente che in sede di convalida dell’operato del pubblico ministero - per ragioni di coerenza sistematica, sembra opportuno non consentire più alla polizia giudiziaria il prelievo coattivo di capelli o di saliva. Di qui la proposta di
abrogare l’articolo 354, comma 3 ultima parte, del codice di procedura penale, poiché esso non contempla il successivo intervento dell’autorità giudiziaria in sede di convalida dell’operato
della polizia giudiziaria. Sicché, per effetto della presente proposta di modifica, si potrebbe verificare la situazione di un intervento coattivo di urgenza della polizia giudiziaria non sottoposto
ad alcuna verifica dell’autorità giudiziaria e, viceversa, un intervento del pubblico ministero da sottoporre sempre a controllo,
preventivo o in sede di ratifica.».
(14) Come esattamente rilevato dalla Corte Costituzionale nella
già citata sent. n. 88 del 1991, «... non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare
tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione ...»;
un ruolo in definitiva “disinteressato”, tipico di chi non ha interesse nei rapporti e nelle situazioni in cui ricadono gli effetti dei
propri atti, ma ha invece l’unico scopo di garantire una tutela oggettiva dell’ordinamento giuridico; un ruolo, sì, ben marcato nella architettura della l.d. 16 febbraio 1987, n. 81 (vedi la direttiva
n. 37), ma già presente nell’assetto istituzionale se è vero, come
è vero, che già nell’Ordinamento Giudiziario approvato con r.d.
30 gennaio 1941, n. 12 è stabilito che «Il Pubblico Ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della Giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato ...” (art.
73 ORD. GIUD.) e che nella Carta Costituzionale è imposto all’Ufficio «l’obbligo di esercitare l’azione penale» (art. 112 Cost.),
obbligo posto non solo a garanzia della indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio delle funzioni che gli sono conferite,
ma anche a garanzia del principio di legalità e della uguaglianza di
tutti i cittadini di fronte alla legge penale.
(15) Ancorché tale norma sia inserita nelle procedure d’identificazione delle persone sottoposte ad indagini.
(16) Anche Galgani, Commento all’art. 10 del d.l. n. 144 del
2005, in Leg. Pen., 2005, II, 509, considera il prelievo del materiale biologico come rilievo in senso tecnico.
(17) In tal senso, v. Cass., Sez. V, 24 gennaio 2003, n. 9998, Bocchetti, in Dir. e giust., 2003, n. 14, 112; Sez. I, 10 maggio 2002,
n. 23053, Misto, in C.E.D. Cass., n. 221621; Sez. VI, 27 ottobre
1998, n. 5779, Bettio, in Arch. n. proc. pen., 1999, 376; Sez. I, 6
giugno 1997, n. 4017, Pata, in Giust. pen., 1999, III, 112; Sez. I,
3 giugno 1994, Nappi, in Giust. pen., 1995, III, 600.
1355
Opinioni
Processo penale
354, comma 2, c.p.p., per il modificarsi della concentrazione di alcool nel sangue o per la “dispersione” delle sostanze droganti a causa della metabolizzazione), al contrario, l’accertamento, ossia la disposizione con la quale si procede alla misurazione, mediante analisi, del tasso alcolemico o della presenza
di metaboliti di stupefacenti, deve essere considerata sempre prerogativa esclusiva del Pubblico Ministero.
Inoltre, al di là del vuoto riferimento al prelievo di
saliva, di capelli o di materiale biologico, non sono
state affatto esplicitate le modalità esecutive dell’acquisizione dei reperti organici, né alcun criterio selettivo delle persone legittimate a procedervi.
Non si può riconoscere al generico nulla-osta rilasciato dal Pubblico Ministero prima che la Polizia
ponga in essere il prelievo i requisiti di quel giudizio
delibativo ex post (convalida) prescritto dall’art. 13,
comma 3, Cost. (18). È noto, a quest’ultimo proposito, che i primi parametri interpretativi della disposizione di legge ordinaria sono i precetti costituzionali, e quindi è imposta una lettura costituzionalmente orientata secondo la quale l’autorizzazione
scritta del Pubblico Ministero deve necessariamente
corrispondere all’“atto motivato dell’autorità giudiziaria” (19).
Appare, inoltre, difficile evitare la rotta di collisione
con la riserva di legge di cui all’art. 13, comma 2,
Cost., avente ad oggetto “casi e modi” della privazione di libertà.
Ben poco dice l’art. 354, comma 3, citato sui casi di
prelievo coattivo (20) (in pratica la determinazione
dei casi si riduce al rinvio ai presupposti di urgenza
previsti dal comma 2 dello stesso art. 354), mentre,
quanto alle modalità del prelievo il rinvio recettizio
al comma 2 bis dell’art. 349 c.p.p. consente solo di
utilizzare il riferimento al doveroso (e pacifico) rispetto della dignità personale del soggetto sottoposto a controllo (21).
Ad ulteriore sostegno delle argomentazioni appena
svolte, la Suprema Corte ha affermato, ad esempio,
che «il prelievo di saliva, avvenuto all’insaputa dell’imputato, mediante il sequestro di un bicchierino
di caffè offerto dalla polizia giudiziaria, può essere effettuato ai sensi dell’art. 348 c.p.p. in quanto l’attività non determina alcuna incidenza sulla sfera della libertà personale dell’interessato, riguardando
materiale biologico fisicamente separato dalla persona» (22).
Note:
(18) Così Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio
secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv.
1356
it. di dir. e proc. pen., 2006, 611; cfr. anche i casi Saunders c.
Regno Unito, 29 novembre 1996, in Cass. pen., 1997, 2282;
Quinn c. Irlanda, 21 dicembre 2000 ed Heaney e Mc Guinness
c. Irlanda, 21 marzo 2001, in Cass. pen., 2002, 1151. Addirittura nella già più volte citata circolare del Ministero dell’Interno si
afferma testualmente: «La richiesta di sottoposizione ad analisi può essere avanzata direttamente, ovvero a mezzo fax, alla
direzione sanitaria del nosocomio o della struttura sanitaria
presso cui si trova il conducente sottoposto a cure mediche,
secondo le procedure e con la modulistica allegata»: tale indicazione esclude in radice qualsiasi atto dell’autorità giudiziaria,
in deroga a quanto contenuto nelle norme del codice di procedura penale.
(19) Anche Filippi, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo. Le disposizioni processuali , in questa Rivista , 2005,
1218, ritiene che l’art. 354, comma 3, ultima parte c.p.p. non rispetti né la riserva di giurisdizione (per mancanza dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria e della convalida), né la riserva di
legge (per mancata previsione dei casi e dei modi del prelievo,
nonché delle eccezionali ragioni di necessità e urgenza che impongono l’intervento della polizia giudiziaria in luogo dell’autorità giudiziaria).
(20) Cantone, Le modifiche processuali introdotte con il “decreto antiterrorismo”, in Cass. Pen., 2005, 2516, ravvisa l’illegittimità costituzionale nella parte in cui la disposizione sul prelievo
coattivo non prevede una categoria di reati per cui esso sia possibile.
(21) Cfr. Cass., Sez. IV, sent. del 12 febbraio 2009, n. 25918: «È
legittima l’attività di raccolta di tracce biologiche riferibili all’indagato eseguita dalla polizia giudiziaria senza ricorrere ad alcun
prelievo coattivo, ancorché posta in essere all’insaputa dello
stesso»; in motivazione si afferma: «Rilevava il Giudice delle
leggi che, quando il soggetto non acconsente spontaneamente
al prelievo per eseguire la perizia su tracce organiche, occorre
sottoporre l’individuo a prelievo, imponendogli una restrizione
alla sfera corporale tale da poter compromettere l’integrità fisica, la salute o la dignità. Tale specifica attività d’indagine, invasiva della sfera più intima della persona, non è stata, però, disciplinata dal legislatore con precise statuizioni, che impongano
precisi limiti e prevedano le conseguenze del rifiuto. V’è soltanto la generica disposizione dell’ultima parte dell’art. 224 c.p.p.
secondo cui il giudice “adotta tutti gli altri provvedimenti che si
rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”.
Mancando, dunque, la tipizzazione dei “casi e modi” in cui la libertà può essere compressa, questa norma è stata dichiarata
incostituzionale nella parte in cui delega alla piena discrezionalità del giudice la scelta dei criteri e dei modi d’applicazione, poiché l’art. 13 Cost. prevede, al contrario, una riserva di legge ordinaria, che deve indicare i “modi” della limitazione della libertà
personale in senso puntuale e positivo e non tramite un rinvio
alla discrezionalità del giudice, che eserciterebbe il suo potere
in assenza di criteri di riferimento normativo. Svolta tale indispensabile premessa, va, però, affermato che, fino al sopravvenire di una normativa, che applichi il dettato dell’art. 224 c.p.p.
ultima parte, è inibita l’interferenza nella sfera fisica dell’individuo, per eseguire prelievi al fine di espletare accertamenti peritali; è legittima, invece, la raccolta di qualsiasi altro elemento
probatorio, che sia espletata nell’osservanza delle norme processuali vigenti in tema di limitazione della libertà individuale,
con riferimento sia a quella personale che domiciliare, quando
venga posta in essere tramite il corretto uso del potere-dovere
di perquisizione e sequestro, anche se sia finalizzata alla raccolta delle c.d. tracce biologiche, quali capelli, sangue, cute, saliva
e sperma. Ne deriva che nella specie il provvedimento adottato
dal Pubblico Ministero con cui si disponevano tali mezzi di ricerca della prova, proprio perché specificamente previsti e disciplinati dalla legge ordinaria, è legittimo, non avendo comportato alcun’intrusione corporale vietata» (conforme Cass. Pen.,
Sez. II, sent. del 10 ottobre 2007, n. 38903).
(22) Cfr. Cass., Sez. I, sent. del 2 novembre 2005, n. 1028.
Diritto penale e processo 11/2010
Opinioni
Processo penale
In motivazione è stato precisato che: «… tale prelievo, solo prodromico all’effettuazione dell’accertamento tecnico vero e proprio e ad esso non assimilabile sotto il profilo delle garanzie difensive, è stato
invero legittimamente operato nell’ambito delle attività di indagine che la polizia giudiziaria può svolgere di sua iniziativa ai sensi dell’art. 348 c.p.p. e s.s.
e non ha avuto alcuna incidenza sulla sfera di libertà
personale dell’interessato riguardando materiale
biologico ormai dallo stesso fisicamente separato,
per cui non è pertinente il richiamo contenuto nel
ricorso alla sent. n. 238 del 1996 della Corte Costituzionale … il consenso dell’indagato non è richiesto da alcuna disposizione di legge quando, come nel
caso di specie, lo svolgimento dell’indagine non si
risolva in violazioni della libertà personale o di altri
diritti costituzionalmente garantiti» (23).
Anche da tale pronuncia appare particolarmente
evidente che, se l’attività d’indagine comporta prelievo di materiali biologici “dalla persona” e non da
cose fisicamente separate da essa, l’attività della
P.G. deve essere regolamentata secondo le norme
del codice sul combinato-disposto tra l’art. 354,
comma 3, c.p.p. e l’art. 349 bis c.p.p. e, in particolare, con l’attivazione delle garanzie difensive, e, prima di tutto, con l’informativa immediata al P.M.
che, assumendo la direzione delle indagini a fini di
accertamento, agisce come organo di giustizia e non
solo come pubblico accusatore.
La “direttiva” del Pubblico Ministero pertanto, anche nei casi che ci occupano, deve essere concepita
e va utilizzata per razionalizzare ed ottimizzare lo
sforzo investigativo della Polizia Giudiziaria in modo che il risultato conseguito sia non solo solidamente strutturato ma anche e soprattutto garantito
dal rispetto delle regole che presiedono alla raccolta
degli elementi di prova, visto che onere del Pubblico Ministero è anche quello di accertare “fatti e circostanze a favore” dell’indagato (art. 358 c.p.p.), e
quindi di agire, in definitiva, anche a tutela dei suoi
diritti.
La validità di una tale concezione discende del resto
dalla previa e piena presa di coscienza che la riforma
della procedura penale ha introdotto, da un lato, il
principio di separazione funzionale delle fasi procedimentali ed ha, dall’altro, determinato un marcato
spostamento “in avanti” del baricentro del processo
penale, da sempre individuabile nella formazione della prova, posto che essa ha voluto individuare il dibattimento come luogo tendenzialmente esclusivo
della sua assunzione, e che il Legislatore, per assicurare il rispetto di tale impostazione, ha previsto come nuovo strumento di garanzia, avverso la violazio-
Diritto penale e processo 11/2010
ne delle norme disciplinanti l’acquisizione probatoria, la totale inutilizzabilità, rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle
prove illegittimamente acquisite (24).
Un ulteriore accento che legittima l’interpretazione
finora data può trovarsi nei casi d’intersecazione di
poteri e prerogative della funzione di polizia amministrativa con quella di polizia giudiziaria.
La necessità di coordinamento tra le diverse funzioni di polizia è, del resto, così ben nota all’ordinamento da aver indotto il Legislatore ad introdurre
l’importante norma dell’art. 220 disp. att. c.p.p., con
l’evidente “attrazione” nell’ambito del procedimento
penale - dunque, della giurisdizione -, e con l’applicazione dei relativi princìpi e garanzie difensive, dei
casi in cui, anche se nel corso di un’attività accertativa di natura amministrativa emerga un indizio di
reato, l’attività debba proseguire nel rispetto delle
norme, e dunque delle regole, del codice di rito penale: «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli
atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge
penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni
del codice».
Più in generale deve ritenersi che quando le attività
di vigilanza “amministrativa” hanno per oggetto la
verifica del rispetto di norme penalmente sanzionate - ciò che, come noto, caratterizza in via generale
l’ordinamento prevenzionale del codice della strada
- la loro natura giuridica è sostanzialmente quella di
un’indagine penale, benché l’“ambito” in cui l’attività si svolge sia, in prima battuta, quello amministrativo, con tutto ciò che esso determina in punto
di osservanza di regole e di correlata stretta sottoposizione funzionale all’A.G.
Ciò implica - ed è il primo punto che ci pone a stretto contatto con il nostro tema pratico - che gli orgaNote:
(23) Cfr., inoltre, nello stesso senso Cass., Sez. I, sent. dell’11
marzo 2003, n. 28979, nella quale si chiarisce: «… Tale limitazione, però, in quanto correlata con la tutela della libertà personale,
non riguarda in alcun modo l’impiego di materiali che, legittimamente prelevati, non fanno più fisicamente parte della “persona” e non richiedono alcun intervento manipolatorio su di essa
o, comunque, limitativo della sfera di libertà del soggetto (nel caso di specie, la polizia giudiziaria si era limitata a sequestrare
tracce di saliva lasciate su un bicchiere dalla persona sottoposta
ad indagini e la Corte, nell’affermare il principio riportato, ha anche escluso che nella fattispecie in esame potesse avere rilievo
la circostanza che, al fine di acquisire reperti biologici, sia stata la
polizia ad offrire la bevanda, in quanto nessuna disposizione di
legge subordina lo svolgimento delle indagini al consenso dell’indagato, quando non si risolva in violazioni della libertà personale o di altri diritti costituzionalmente garantiti)».
(24) Cfr. l’art. 191 c.p.p.
1357
Opinioni
Processo penale
ni accertatori abbiano una rigorosa consapevolezza
del momento in cui un determinato elemento di fatto assume l’idoneità ad essere “indizio di reato”, ciò
che peraltro accade piuttosto ordinariamente nelle
contravvenzioni alla normativa prevenzionale sulla
conduzione di veicoli, accertate e verificate, di norma, proprio nelle fasi di vigilanza amministrativa di
“routine”.
Problemi interpretativi sull’acquisizione
del referto medico di pronto soccorso
Nel processo, come la pratica ormai quotidiana insegna, hanno semplicemente ingresso i risultati ematici contenuti nella documentazione medica relativa
al ricovero dell’imputato presso struttura ospedaliera in seguito ad incidente stradale occorso in occasione della commissione del reato.
La Suprema Corte (25) ha più volte ha già avuto
modo di affermare il principio di diritto secondo il
quale, ai fini dell’accertamento del reato di guida in
stato di ebbrezza alcolica, sono utilizzabili, nei confronti dell’imputato, i risultati del prelievo ematico
che sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero
presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito
dell’incidente stradale subito in occasione della
commissione del reato, trattandosi di elementi di
prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, a questi fini, la mancanza
del consenso.
Infatti, sempre secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio, i referti e certificati medici costituiscono documenti, acquisibili e comunque utilizzabili a
norma dell’art. 234 c.p.p. (26).
Schematicamente, i problemi che tali orientamenti
pongono attengono:
– alla stessa nozione di documento;
– alle modalità ed ai tempi di formazione di quest’ultimo;
– alla disciplina del segreto professionale di cui agli
artt. 200 c.p.p. e ss.
La nozione di documento ed i limiti
alla sua qualificazione come tale
I principi fondamentali che qualificano la natura di
documento nel processo penale si ancorano alla
principale distinzione tra documento quale “mezzo
di prova documentale” e documento quale “atto interno del processo (o del procedimento penale)”, dal momento che la disciplina codicistica della prova documentale di cui all’art. 234 c.p.p. è riservata solo
alle “res preesistenti” al procedimento stesso.
La relazione al codice di procedura penale del 1988,
1358
del resto, è estremamente chiara in proposito e non
può dare adito a dubbi interpretativi nel precisare
che le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati
fuori del procedimento nel quale si richiede o si dispone
che essi facciano ingresso (27).
Pertanto, solo se il prelievo ematico è strettamente ed
inscindibilmente collegato a quelle pratiche diagnostico-terapeutiche direttamente rivolte alla correzione
della manifestazione patologica acuta e se tale pratica medica è proporzionata rispetto alla patologia potremmo affermare che il risultato dell’accertamento
nasce al di fuori del procedimento.
Di converso se l’accertamento ematologico, seppure
coerente con l’esigenza clinica, sia gravato da un
non trascurabile rischio di eventi sfavorevoli, soprattutto laddove siano adottabili alternative meno
invasive anche se non parimenti efficaci, la scelta di
procedere comunque al prelievo non è evidentemente finalizzata al trattamento sanitario, bensì alla
costituzione della prova dell’illecito e, come tale,
non costituisce documento.
Analogamente, lo stesso risultato si avrà nel caso di
adozione di misure terapeutiche rivolte alla prevenzione di patologie solo possibilmente o probabilmente associate alla manifestazione principale.
La nozione di documento ed i limiti
alla sua qualificazione come tale
in dipendenza del momento
della sua formazione
Dalle considerazioni sopra svolte non si può che essere in disaccordo con l’escamotage elaborato da cerNote:
(25) Oltre alle sentenze già citate nelle note 73-78 e nel testo sopra, vedasi Cass.., Sez. IV, sent. 12 giugno 2003, n. 37442, secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di guida in stato di
ebbrezza alcoolica, sono utilizzabili, nei confronti dell’imputato, i
risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i
normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero
presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell’incidente stradale subito in occasione della commissione del reato, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica (cartella clinica, reperti di laboratorio) e restando irrilevante, a questi fini, la mancanza del consenso (nel ricorso,
l’imputato, aveva anche dedotto la violazione degli artt. 186
C.d.S. e 379 Reg. C.d.S., in relazione alle modalità di accertamento dello stato di ebbrezza alcoolica, per il mancato ricorso all’analisi dell’aria alveolare espirata).
(26) Cfr. Cass., Sez. IV, del 16 gennaio 1998, n. 2270; Cass., Sez.
I, del 12 gennaio 1998, n. 3259; Cass., IV, del 19 dicembre 2005,
n. 6008.
(27) Cfr. Squassoni, sub art. 234, in Chiavario (a cura di), Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, 646;
Siracusano, La prova, in Manuale di diritto processuale penale,
Milano, 1990, 438; relazione al progetto preliminare, in Le Relazioni, 452.
Diritto penale e processo 11/2010
Opinioni
Processo penale
ta giurisprudenza per la quale «la polizia stradale non
fa una richiesta di prelievo, ma richiede di eseguire
un accertamento su un reperto già prelevato a fini sanitari, in relazione al quale ormai non si pone più
una questione di libertà personale. La richiesta della
polizia stradale non comporta, in effetti, una distinta
ed ulteriore limitazione della libertà personale».
L’ulteriore accertamento “a richiesta della P.G.” strumentalizza direttamente a fini procedimentali penali il prelievo legittimato originariamente da pratiche
diagnostico-terapeutiche e, quindi, l’ulteriore richiesta d’analisi integra un atto proprio della polizia
giudiziaria, compiuto attraverso un suo ausiliario (o
presunto tale), ai sensi dell’art. 348, comma 4,
c.p.p., ma al di fuori delle forme previste dall’art. 13
Cost. Pertanto tale escamotage è affatto diverso dall’ipotesi legittimata nella sentenza della Cass., Sez.
I, del 2 novembre 2005, n. 1028, tenuto conto che la
“separazione” del liquido biologico dal soggetto è
avvenuta per fini diversi di quelli relativi alla prova e
l’ulteriore analisi è frutto di una disposizione di accertamento (e non un rilievo) resa dalla P.G., già all’interno del procedimento penale.
Inoltre, la collocazione all’interno o all’esterno del
procedimento deve essere valutata con riguardo al
momento in cui si assume la qualità di indagato o
“indagabile”.
La qualità di indagato non può essere stabilita dal
giudice in via presuntiva, in quanto essa va desunta
dall’iscrizione nell’apposito registro a seguito di specifica iniziativa posta in essere dal pubblico ministero (ex art. 335 c.p.p.) o da un fatto investigativo che
qualifichi di per sé il soggetto come persona sottoposta ad
indagini (28).
La sola esecuzione di un rilievo per opera della P.G.
costituisce immediatamente un “fatto investigativo”
che investe il soggetto passivo del rilevo della qualità d’indagato, con consequenziale apertura del procedimento penale a suo carico.
L’estensione dell’assunzione della qualità di “persona
sottoposta alle indagini” a colui che si trova coinvolto
in un “fatto investigativo” viene definita, da illustre
dottrina (29), «una finzione giuridica operata da una
lex favoris dettata dall’esigenza di ricondurre tutte le situazioni soggettive utili per l’imputato, in particolare
quella facente capo al diritto di difesa, a chi a rigor di termini imputato non è ancora, ma potrebbe divenirlo in
prosieguo».
Tale fictio juris, ai nostri fini, determina un passaggio
di rilevante conseguenza giuridica: la richiesta di “rilievo”, l’esecuzione dello stesso e la consegna alla
P.G. del risultato (con tutti i dubbi interpretativi
precedentemente espressi) colloca il “rilievo” stesso
Diritto penale e processo 11/2010
in fase endoprocedimentale e, pertanto, in netto
contrasto logico-giuridico con la nozione di “documento” che ha esclusive caratteristiche di pre-formazione al procedimento stesso.
La nozione di documento ed i limiti
del segreto professionale
L’inutilizzabilità del referto medico attestante il tasso di alcolemia dell’imputato o la presenza di tracce
metabolizzate di sostanze stupefacenti o psicotrope,
può trovare ragione anche nel fatto che l’acquisizione dello stesso, per mezzo della P.G., si verifica in dispregio delle forme e dei modi previsti dall’art. 256
c.p.p., che conferisce una forma privilegiata di tutela ai documenti contenenti informazioni sanitarie di
carattere personale, di natura riservata e coperte dal
segreto professionale, le quali possono essere acquisite solo dall’Autorità giudiziaria mediante provvedimento di richiesta di esibizione.
Non condivisibile, in primo luogo è l’affermazione
che «le disposizioni relative alla tutela del segreto
professionale sono poste a garanzia della libertà del
professionista, del dovere dello stesso alla prestazione della propria opera e di quello necessariamente
complementare della riservatezza, di tal che determinano una posizione di garanzia in capo allo stesso
professionista e non già una forma di tutela privilegiata degli atti dallo stesso compiuti nell’esercizio
dell’attività professionale» (30).
Tale opinione risulta contraddetta, in primo luogo,
da una precedente sentenza della Suprema Corte
che condiziona espressamente la necessità di ricorrere alle procedure di cui all’art. 256 c.p.p. «(in presenza) di formale opposizione del segreto…professionale
alla richiesta di documentazione» (31).
Pertanto la scelta (libera) di opporre il segreto professionale, per il sanitario, è correttamente collegata
a garanzia della libertà del professionista, al dovere
dello stesso alla prestazione della propria opera e a
quello necessariamente complementare della riservatezza ma non ad esclusiva tutela del professionista
bensì alla funzione di cura, soccorso ed attività medica da lui svolta nei confronti di un soggetto, a prescindere dalla natura del fatto che lo ha portato a
sottoporsi alle cure mediche.
Note:
(28) Cfr. Cass., Sez. I, sent. n. 24279 del 2003.
(29) Cfr. Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Diritto processuale
penale, Milano, 2006..
(30) Cfr. Cass., Sez. IV, sent. del 16 gennaio 1998, n. 2270, in Arch. della nuova proc. pen., 1998, n. 2, 221.
(31) Cfr. Cass., Sez. II, 23 aprile 1997, n. 144.
1359
Opinioni
Processo penale
La ratio della norma di cui all’art. 256 c.p.p., a parere di chi scrive, trova espressione nel rigoroso rispetto del criterio di proporzionalità tra il contenuto del
provvedimento ablativo di cui il professionista è destinatario e le esigenze di accertamento dei fatti oggetto delle indagini, evitando quanto più è possibile indiscriminati interventi invasivi nella sua sfera professionale.
Una ricerca incontrollata delle fonti di prova da
parte della sola Polizia Giudiziaria rischia di dare
luogo ad un sostanziale aggiramento del principio di
cui all’art. 200, comma 3, c.p.p. e della disciplina di
cui al successivo art. 256 c.p.p.
Le stesse norme permissive che si riferiscono alla facoltà riconosciuta al medico di astenersi dal testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale
(art. 351 c.p.p.), tanto nel processo penale quanto
nelle cause civili, rafforzano la convinzione che l’atto di apprensione materiale del risultato del “rilievo”
di P.G. non può che essere giurisdizionalizzato mediante l’intervento diretto dell’Autorità Giudiziaria,
ossia - in fase d’indagine preliminare - del Pubblico
Ministero. Si ricordi che l’astenersi dalla testimonianza costituisce un diritto ma non un obbligo del
sanitario, il quale è pertanto libero di decidere se
rendere o non rendere la deposizione, valutandone
l’opportunità secondo le circostanze e assumendone
la responsabilità. Solo l’Autorità Giudiziaria può, a
sua volta, imporre, con ordinanza, la deposizione del
medico, ma, a parte ciò, la regola deontologica
espressamente richiamata nell’art. 13 del codice
deontologico è quella di non deporre mai su argomenti coperti dal segreto professionale.
Pertanto l’assenza dell’intervento diretto dell’Autorità Giudiziaria (imposto da una fonte di legge primaria) potrebbe, paradossalmente, esporre lo stesso
sanitario a conseguenze di natura penale ed amministrativa. In particolare, se possiamo escludere, nella
fattispecie, la contestazione del reato di cui all’art.
622 c.p. (32), diversamente, più problematica è l’individuazione della cd. “giusta causa di rivelazione” che
scrimina gli altri comportamenti del sanitario tenuto al segreto professionale.
La dottrina oscilla tra due interpretazioni.
La prima considera giusta causa una formula riassuntiva attraverso la quale vengono richiamate tutte le
cause di esclusione della punibilità già previste dalla
legge, e precisamente tutte le scriminanti (ad esempio, consenso dell’avente diritto; stato di necessità;
adempimento di un dovere), le norme imperative
che fanno obbligo di rivelare (ad esempio, le denunce obbligatorie) e le norme permissive (quali, ad
esempio, il diritto di astenersi dal testimoniare).
1360
La seconda considera tautologica una tale interpretazione del concetto di giusta causa e quindi gli attribuisce una valenza più ampia consentendogli di
recepire, oltre che alle cause di esclusione della punibilità come sopra descritte, anche diversi apprezzamenti etico-sociali, che siano veramente meritevoli di tutela, alla cui stregua la rivelazione del segreto, se pur autorizzata esplicitamente dal diritto,
possa tuttavia considerarsi giusta.
In ogni caso, e qualsiasi delle due interpretazioni si
scelga di seguire, i criteri da utilizzarsi in concreto
per individuare il contenuto della giusta causa sono
essenzialmente due: il bilanciamento degli interessi
e l’adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo. Nel primo
caso tra i due o più interessi in gioco viene effettuato un bilanciamento che si risolve a favore di quello
che viene ritenuto prevalente nella coscienza etica e
sociale, giuridicamente recepita; nel secondo caso si
tiene conto dell’adeguatezza, o meno, degli strumenti a disposizione alternativi alla rivelazione del segreto e si ricorre alla rivelazione solo come extrema
ratio (33).
Fermi questi principi, l’accompagnamento “strumentale” (ovvero a fini di raccolta della prova di
reato) da parte della Polizia Giudiziaria presso una
struttura sanitaria dell’“indagato” per fatti di cui all’art. 186-187 C.d.S., in assenza di un intervento diretto dell’Autorità Giudiziaria, potrebbe, in primo
luogo, non scriminare la rivelazione del segreto d’ufficio del sanitario per “adempimento di un dovere”
ai sensi dell’art. 51 c.p. A ciò contrasterebbe la lettura, in combinato-disposto, degli artt. 124 c.p.p. e
113 disp. att. c.p.p. Invero l’art. 124, obbligando
«…gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria ... a osservare le norme di questo codice», impone a questi ultimi di riferirsi necessariamente, nella assoluta maggioranza dei casi, a quanto disposto in primis dall’art.
256 c.p.p. «(in presenza) di formale opposizione del segreto…professionale alla richiesta di documentazione»,
Note:
(32) L’art. 622 c.p. sanziona la violazione del segreto professionale, cioè del segreto appreso «in ragione del proprio stato, o ufficio, o della propria professione od arte». Si tratta di un delitto
punibile a querela della persona offesa che ha come soggetto attivo “chiunque” (e quindi anche il professionista sanitario), e che
prevede una condotta che si concretizza in una rivelazione senza
giusta causa, ovvero in un impiego a proprio, o altrui profitto, della informazione coperta dal segreto. La condotta è punita se dal
fatto può derivare nocumento.
(33) Cfr. Simeoni-Serpelloni-Crestoni-Spiniello-Montisci, Segreto
professionale e diritto alla riservatezza - Sezione di Screening
HIV - Sert 1 - ULSS 20 Verona - Centro Operaivo Aids - Ministero della Sanità - Centre of Behavioural and Forensic Toxicology Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni - Università degli Studi di Padova.
Diritto penale e processo 11/2010
Opinioni
Processo penale
in secondo luogo, come già chiarito, dall’art. 220 disp. att. e, in via assolutamente prioritaria, dal combinato-disposto tra l’art. 354, comma 3, c.p.p. e l’art.
349 bis c.p.p. con l’attivazione delle garanzie difensive, e, prima di tutto, con l’informativa immediata al
P.M. che, assumendo la direzione delle indagini a fini di accertamento, agisce (giova ribadirlo) come
organo di giustizia e non solo come pubblico accusatore.
Inoltre, l’art. 113 disp. att. pone un ulteriore limite
all’attività “autonoma” della P.G., posto che la norma legittima l’esecuzione degli atti «previsti dagli
artt. 352 e 354 commi 2° e 3… anche da agenti di
p.g.». A prescindere dall’estensione “agli agenti” di
cui alla norma, gli “accertamenti urgenti … sulle persone” di cui all’art. 354, comma 2 difficilmente, nelle fattispecie di cui agli artt. 186-187 C.d.S., possono assumere reali caratteristiche di “particolare necessità ed urgenza” da impedire, in radice, l’intervento dell’autorità giudiziaria per l’esecuzione degli incombenti istruttori e legittimare, addirittura, anche
i soli “agenti” all’esecuzione degli stessi (34).
L’analisi non superficiale dell’art. 326 c.p.p. rafforza
la funzione “servente” della P.G.; l’articolo specifica
la finalità delle indagini preliminari stabilendo che
«il PM e la PG svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni
inerenti all’esercizio dell’azione penale». Ciò significa,
ai nostri fini, che qualsiasi rilievo eseguito nel corso
delle indagini preliminari è unicamente finalizzato
ad acquisire elementi di prova così da consentire al
PM di determinarsi in merito all’esercizio dell’azione penale (accertamento) o all’archiviazione, posto
che ex art. 326, che rinvia all’art. 358, le indagini
comprendono anche gli accertamenti su fatti e sulle
circostanze in favore dell’indagato.
Contrasto tra il diritto al silenzio
e l’incriminabilità per rifiuto a sottoporsi
ad esami clinici
Nell’ottica dell’accertamento del reato in ambito
giudiziario penale, spesso si manifestano forti contrapposizioni laddove si evidenzia l’esigenza di realizzare opportune e puntuali investigazioni direttamente sulla persona dell’indagato o dell’imputato,
quando egli si trovi in posizione di soggezione rispetto all’organo giudiziario.
Abbiamo già notato come alcune interpretazioni
giurisprudenziali hanno grandemente dilatato le maglie dell’attività investigativa della polizia giudiziaria, le quali sono sostanzialmente da ricondurre a due
prospettive complementari fra loro: sotto il primo
profilo, si evidenzia che la polizia giudiziaria è affran-
Diritto penale e processo 11/2010
cata da compiti ausiliari al procedimento, sotto il secondo profilo, viene sensibilmente intensificato e reso più forte il ruolo investigativo che le appartiene,
in favor delle esigenze di difesa sociale, a scapito,
però, dell’effettività delle garanzie concernenti i diritti fondamentali enucleati dalla Costituzione; logica conseguenza è che laddove si accresce la sovranità
di indagine si accresce pesantemente la vulnerabilità
dei diritti e delle tutele previste dall’ordinamento.
Le principali problematiche ravvisate sul punto si
sono storicamente riferite alla necessità di rendere
conciliabili gli atti di indagine con il presidio di garanzia della libertà personale, nonché del diritto dell’indagato o imputato a mantenere un comportamento “non collaborativo”.
Non essendovi dubbio alcuno che egli possa vantare
il diritto, processualmente e costituzionalmente garantito, di non rendere alcuna dichiarazione, ci si è
chiesti se analogo diritto possa ritenersi operante per
ciò che concerne gli apporti di altra natura, come
quelli aventi ad oggetto direttamente la sua persona.
Parte della dottrina (35) sembrerebbe rispondere
positivamente al quesito, ritenendo che i diritti dell’accusato coinvolgono non solo quello di non rispondere alle domande formulate e, pertanto, di
non rendere propalazioni dalle quali possano affiorare eventuali responsabilità a suo carico, ma anche
quello di non offrire cose o documenti a supporto
dell’accusa. Anche per i prelevamenti di materiale biologico pertanto, si potrebbe validamente ipotizzare la necessità del consenso, e quindi dell’atteggiamento collaborativo dell’accusato, a prescindere dalla tipologia di attività effettuata (invasiva o meno) per conseguire il reperto preteso dall’autorità investigativa.
Vi è da dire, tuttavia, che, seppure l’indagato possa
decidere autonomamente se collaborare o meno all’accertamento del reato, non si potrà escludere che
una sua eventuale condotta volta a intralciare ingiustificatamente le indagini possa essere considerata
quale vero e proprio elemento indiziario che, in presenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, potrà anche concorrere a rafforzare un’eventuale pronunciamento di condanna.
Tuttavia si può comunque notare che l’indagato del
reato può divenire oggetto di accertamento nel momento in cui partecipi ad un’attività investigativa ovNote:
(34) Questa ultima interpretazione trova diretto riscontro in
Cass., Sez. VI, 20 settembre 1999.
(35) Cfr. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. it.
di dir. e proc. pen., 2006, 611; Ubertis, Attività investigativa e
prelievo di campioni biologici, in Cass. pen., 2008, 6 ss.
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Opinioni
Processo penale
vero probatoria sic et simpliciter come mera realtà fisica.
In altre parole, trattasi di ipotesi in cui la persona è
protagonista dell’attività procedimentale effettuata
da soggetti pubblici (organo inquirente o p.g.) senza
però avere una partecipazione attiva, vocale o gestuale; il corpo umano vivente diviene strumento ed
oggetto allo stesso tempo di “Beweisermittlungsverfahren” (ricerca della prova) a prescindere da qualsivoglia cooperazione, contributo dell’interessato il
quale, se non occorre una concreta sua attivazione
“corporale” per lo svolgimento dell’indagine, non ha
alcun mezzo ed anche fosse non ha facoltà alcuna di
ostacolare l’emergere di elementi di prova espunti dal
proprio organismo.
Soggetto, dunque, che diviene “oggetto di prova”
qualora l’accertamento non richieda partecipazione
attiva di esso, per cui l’imputato è titolare di una situazione giuridica soggettiva inquadrabile come soggezione, quale si identifica la condizione di colui che
di fatto subisce passivamente le conseguenze di un
legittimo atto coercitivo e, come tale, rientrante
sotto l’egida della tutela prevista dall’art. 13 Cost.
(libertà personale); a contraris, il soggetto de quo diviene “organo di prova” qualora offra spontaneamente il proprio contributo probatorio, il quale non
è coercibile, e renda dichiarazioni svolgendo un’attività inerente al concetto di autodifesa: l’imputato,
infatti, può decidere di non collaborare esercitando
il diritto al silenzio o negando il proprio consenso ad
atti condizionati ad esso, se solo si pensa in piccolo
alla perizia ematologica (36).
Il procedimento concernente l’acquisizione e la repertazione di materiale biologico si scompone in
plurime fasi, ognuna delle quali, avendo una propria
peculiarità dal punto di vista processuale, comporta
di necessità, sul piano normativo, una regolamentazione espressa e dettagliata attualmente carente soprattutto nelle tecniche acquisitive e di repertazione
utilizzate ante processum.
In tale articolato ventaglio di attività, chiara risulta
essere la necessità di elevata competenza specialistica degli operatori chiamati a svolgere le attività che
ciascuna fase richiede, come altrettanto palese è l’esigenza di un equilibrio normativo tra la necessità di
un accertamento attendibile e quella di fornire le
opportune garanzie per il soggetto passivo di investigazione scientifica.
Di fatto, la laboriosità dell’indagine ematologica si
riverbera sull’inquadramento giuridico della stessa,
in riferimento alle attività del procedimento penale
in cui si immette, ed anche, con riguardo alla legittimazione e ai poteri dei soggetti che eseguono le attività de quibus, in considerazione del leit motiv del
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tema in disamina, fondato dall’esigenza di tutele effettive dei valori fondamentali stimati dalla Costituzione ma più elasticamente da una società democratica e riguardanti l’essere umano.
A tal punto, sembra essenziale un’osservazione in
ordine alle attività di ricerca probatoria.
L’accertamento in cui si esprime l’indagine scientifica “patisce” per così dire di talune variabili che riguardano l’attività espletata, ci si riferisce sostanzialmente alla ripetibilità o irripetibilità degli atti eseguiti,
alla potenziale urgenza della stessa ed alla fase in cui
talune attività vengono disposte; sans doute sia l’attività prettamente inerente la raccolta di tutto il
materiale qualificabile come organico, sia il prelievo
di materiale biologico sul corpo umano, in particolare sull’interessato, richiedono una competenza particolarmente qualificata da parte degli addetti a tale
tipo di attività.
In tale mondo “investigativo” sembra propizio un
cauto e prudente realismo che crudamente e purtroppo privilegia - rispetto ad argomentazioni eleganti, delicate e raffinate nella ricerca, in mancanza
di regolamentazione e di adeguamento ai principi
europei sul tema, in quanto tali argomentazioni
astratte e per questo da isolare - il favor ai profili meramente tecnici che considerano ed hanno come
obbiettivo la ricerca ed acquisizione della prova.
L’intero meccanismo procedurale si muove esclusivamente in un balletto dove si alternano l’esigenza
del preventivo consenso, segno di civiltà, e la coazione autorizzata ex ante.
Se dunque non può essere disinvoltamente - in materia - trascurato che il consenso dell’interessato
non solo permette di effettuare legittimi prelievi di
materiale biologico ma, allo stato, sembra l’unica
condizione in grado di garantire con estrema certezza l’esatta riferibilità del reperto all’indagato ed oltre, la genuinità dello stesso; se ancora considerevolmente dubbia si palesa l’utilizzazione processuale dei
risultati delle operazioni di “accertamento” effettuate
dalla p.g. e non dall’Autorità Giudiziaria, dunque la
soluzione più ragionevole per assicurare in sede processuale i risultati di tale prova scientifica è il percorso obbligato della procedura dell’incidente probatorio, previo contraddittorio ex art. 189, comma 1,
c.p.p. “sulle modalità di assunzione della prova”
(c.d. prova atipica).
Nota:
(36) Sul punto v. Felicioni, Considerazioni sugli accertamenti
coattivi nel processo penale, in Ind. pen., 1999, 502.
Diritto penale e processo 11/2010