Opinioni Processo penale Mezzi di ricerca della prova Investigazioni scientifiche, verità processuale ed etica degli esperti di Sergio Lorusso “I fili scarlatti del delitto si aggrovigliano nella matassa incolore della vita”, afferma Sherlock Holmes, il primo e più celebre degli investigatori nati dalla penna di uno scrittore. Cos’è cambiato in poco più di un secolo nel campo delle investigazioni scientifiche? Qual è la loro rilevanza probatoria nell’economia del processo penale? In che misura hanno inciso sulla qualità del sapere giuridico processuale? Il metodo investigativo, a fronte dell’indiscusso progresso tecnico-scientifico, non sembra essere stato stravolto nei suoi pilastri essenziali, la scienza al servizio del processo non comporta di per sé il raggiungimento di risultati infallibili ma, tutt’al più, di certezze provvisorie: lo scienziato forense, come tutti gli scienziati, non è ‘onnipotente’e le sue conclusioni devono comunque passare al vaglio dell’autorità giudiziaria, secondo le consuete regole legislative. Fondamentale, nell’esame della scena del crimine, è che l’individuazione, la repertazione, l’assicurazione e la custodia delle tracce del reato avvenga seguendo protocolli adeguati e condivisi, e che l’intervento degli esperti obbedisca ad un’etica processuale in grado di assicurare risultati affidabili sotto il profilo cognitivo, resistenti alle insidie della junk science. Resta valida, a tre secoli di distanza, l’affermazione di John Locke secondo cui “tutti gli uomini sono soggetti all’errore: e molti uomini ne sono, in molti aspetti, esposti alla tentazione, per passione o per interesse”. Nessuna preclusione, insomma, nei confronti dell’utilizzo della scienza nel processo penale, a patto che non se ne enfatizzi la portata e che venga adoperata con estrema cautela, senza indulgere in ‘pigrizie investigative’e tenendo conto delle evidenti lacune e contraddizioni normative che richiederebbero una riconsiderazione complessiva dello scenario legislativo al fine di delineare una compiuta disciplina di settore, in linea con le più avanzate esperienze giuridiche di civil law e di common law in materia. Tra fiction e realtà Sempre più spesso la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti - sia ai fini dell’accertamento della condotta materiale e dell’evento che allo scopo di individuare l’autore del reato, attraverso un criminal profiling verosimile - è legata a doppio filo ai risultati delle investigazioni scientifiche, al frutto cioè di una serie di attività compiute per lo più sul luogo e nell’immediatezza del fatto (nell’ambito del c.d. ‘sopralluogo’) - il cui stringato referente normativo è costituito essenzialmente dagli artt. 348 e 354 c.p.p. - e, in seconda battuta, ai sensi degli artt. 359, 359bis e 360 c.p.p. Si tratta di atti e operazioni svolti - per ricorrere ad un’espressione più efficace e al passo coi tempi - ‘sulla scena del crimine’dagli organi inquirenti e della polizia giudiziaria, talvolta con l’ausilio determinante di periti e consulenti tecnici che si avvalgono ora di strumenti tecnico-scientifici affermati e consoli- Diritto penale e processo 11/2010 dati, ora di metodiche nuove e non ancora avallate dalla comunità scientifica internazionale. Il loro apporto risulta sovente decisivo per la soluzione di casi giudiziari a prima vista inestricabili e dimostra come sia fondamentale individuare, repertare, assicurare e custodire le tracce del reato seguendo protocolli adeguati e condivisi per poterle poi analizzare correttamente e, quindi, utilizzarle in chiave probatoria nel processo. Al tempo stesso, però, tutto ciò non deve alimentare facili entusiasmi che rischiano di oscurare alcune ineludibili linee portanti del processo penale, e del procedimento probatorio in particolare: ci troviamo, sempre e comunque, di fronte a ‘certezze provvisorie’che necessitano di un appropriato vaglio giudiziario nel rispetto delle regole legali probatorie e decisorie dettate dal legislatore. Com’è stato incisivamente osservato di recente da un’antropologa forense, “i media, la fiction, la cronaca offrono oggi 1345 Opinioni Processo penale un’immagine idealizzata della scienza, e il suo metodo viene spesso visto dalla gente comune come infallibile”; le scienze forensi - in particolare - sono caricate di aspettative che “spesso superano le loro reali potenzialità” e “l’equivoco che attribuisce a queste discipline … una sorta di ‘onnipotenza’può nuocere davvero non solo agli ‘scienziati forensi’stessi, ma alla giustizia e alle vittime”: il vero volto delle investigazioni forensi,insomma, è ben lontano “dalle versioni patinate che ne danno alcune fiction o dall’immagine completamente falsata che emerge dai casi di cronaca e dai salotti televisivi” (1). Mettendo da parte le prevedibili suggestioni letterarie derivanti dalla narrativa (basti pensare a Patricia Cornwell e alla protagonista dei suoi romanzi, il medico legale Kay Scarpetta) e dalle fiction (l’archetipo CSI: Crime Scene Investigation, e i suoi derivati come RIS - Delitti imperfetti) imperanti da principio negli Stati Uniti e ora anche nel vecchio Continente, è allora più utile ricordare che già alla fine dell’ottocento vi era la consapevolezza del valore pregnante di un’investigazione penale svolta, con metodo e accuratezza, avvalendosi delle potenzialità offerte dalle conoscenze tecnico-scientifiche. Non è un caso se il primo - e certamente il più noto - tra gli investigatori nati dalla penna di uno scrittore, destinato a una notorietà e a una longevità di gran lunga superiore a quanto il suo stesso ideatore avrebbe mai potuto immaginare, afferma - nel romanzo inaugurale del ciclo dedicato alle sue mirabolanti imprese investigative, ispirato più di quanto si possa pensare alla realtà londinese del tempo - che “i fili scarlatti del delitto si aggrovigliano nella matassa incolore della vita” (2). Sherlock Holmes riassume difatti in sé i tratti tipici dell’investigatore-scienziato che in quel periodo va emergendo e affermandosi dapprima nel Regno Unito e poi nel resto del mondo: una figura la cui modernità - a distanza di oltre un secolo - viene oggi ad essere ribadita con forza, inducendo studiosi e operatori a chiedersi cosa è cambiato, con il trascorrere del tempo, nel settore delle investigazioni penali. Dare una risposta esauriente al quesito comporta l’osservazione del fenomeno delle investigazioni scientifiche in una triplice prospettiva, che tenga conto dei suoi protagonisti, delle regole (esistenti o mancanti) e delle prassi adottate. Una prospettiva la cui stella polare è naturalmente costituita per il giurista dal tessuto normativo, la cui trama più o meno complessa rappresenta il reticolo entro il quale i risultati delle investigazioni acquisiscono rilevanza processuale, ma che non per questo si esaurisce in esso. 1346 Occorre difatti tener conto dei variegati - e spesso antitetici - punti di vista dei soggetti che si muovono sulla scena del crimine al fine di individuare elementi cognitivi idonei a riprodurre il fatto (in maniera quanto più possibile fedele ai reali accadimenti) e ad individuare il colpevole, con tutte le difficoltà proprie di quella che è pur sempre, nella sostanza, un’operazione di ricostruzione storica. E occorre al contempo guardare alle regole predisposte dal legislatore per disciplinare la materia, spesso incomplete, contraddittorie, imperfette od oscure, ed alle prassi desumibili dai protocolli operativi adottati e riconosciuti. In nessun’altra sfera d’incidenza della giurisdizione penale, probabilmente, il dato concreto appare così determinante e condizionante come nell’area delle investigazioni scientifiche, in ragione delle caratteristiche strutturali e funzionali che le connotano. Progresso scientifico e sapere processuale È alla scuola processualpenalistica milanese che va ascritto il merito di aver portato per la prima volta all’attenzione di studiosi e operatori del diritto in Italia il tema della “prova penale scientifica” (3), puntando l’obiettivo sull’esperienza nordamericana quando ancora l’argomento sembrava a molti l’occasione tutt’al più per un semplice esercizio intellettuale, una sorta di snobismo accademico estraneo alla nostra cultura processuale e frutto - magari - di un eccesso ingiustificato di esterofilia. Oggi l’interazione sempre più stretta tra processo penale e progresso tecnico-scientifico è ormai acquisita, è pacificamente riconosciuta, e sta cambiando - lentamente ma altrettanto inesorabilmente - il modo stesso di condurre le indagini e di dar forma alle prove nel giudizio penale. Occorre chiedersi, allora, se a tale mutamento corrisponda un’effettiva variazione qualitativa del sapere giuridico processuale. In verità, ripercorrendo l’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche applicate al processo penale nel corso di oltre un secolo, emerge come, a fronte dell’indiscusso progresso tecnico-scientifico fonte di un sensibile incremento quantitativo delle tecniche chiamate ad operare sui reperti rinvenuti sulla scena della crimine e, Note: (1) C. Cattaneo, Certezze provvisorie, Milano, 2010, 3. (2) A. C. Doyle, Uno studio in rosso, London, 1887. (3) O. Dominioni, La prova scientifica penale, Milano,2005, passim; e, ancor prima, Id., In tema di nuova prova scientifica, in questa Rivista, 2001, 1061 s.; Id., Note sulla prova scientifica nel sistema penale, in Riv. it. dir. proc. civ., 2002, 1333 s. Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale più in generale, funzionali all’accertamento giurisdizionale, non può dirsi cambiato nei suoi tratti essenziali il metodo investigativo e, con esso, il ‘codice genetico’del sapere processuale. Un cammino, quello delle scienze forensi, scandito da una molteplicità di tappe significative che ne hanno incrementato il peso specifico rispetto al processo penale: dalla codificazione del sistema di classificazione delle impronte digitali (1896) all’istituzione da parte di Scotland Yard del Fingerprint Branch (1901), dal riconoscimento individuale mediante l’analisi dei solchi labiali (c.d. ‘cheiloscopia’) (1902) all’identificazione del sangue grazie allo spettrometro di massa (1913), dall’analisi e confronto dei proiettili al microscopio (1920) al poligrafo trionfalmente presentato come ‘macchina della verità’(1924), dal test dinamico dei nitrati per esaminare i residui di polvere da sparo (1933) all’identificazione personale mediante esame dell’impronta vocale (1941), dal test della fosfatasi per l’identificazione personale tramite analisi del liquido seminale (1945) allo Stub per rilevare le tracce di bario, piombo e antimonio sulle mani lasciate dall’uso di armi da fuoco (1959), dall’utilizzo del microscopio elettronico per esaminare i residui di polvere da sparo (1974) all’elaborazione del profilo genetico individuale mediante il metodo del DNA Fingerprinting (1984), l’elenco è pressoché sterminato. “Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità” (4), dichiara con malcelata sicurezza Sherlock Holmes mentre è impegnato a risolvere uno dei suoi intricati casi in apparenza irrisolvibili, per far luce sul quale si affida alle proprie capacità logiche e deduttive: utilizza il suo intuito, avvalendosi delle conoscenze apprese artigianalmente nel campo della scienza e della tecnica. È, insomma, il metodo deduttivo a trionfare, e la spiegazione più logica di un fatto è quasi sempre anche quella corretta, nonostante la sua scarsa plausibilità o prevedibilità nel caso concreto. L’investigatore d’oltremanica fa sua una delle caratteristiche proprie delle scienze forensi, generalmente chiamate ad occuparsi “dell’improbabile e dell’insolito” (5). È questa la loro principale differenza rispetto alle altre scienze, e tale peculiarità è - probabilmente - anche alla base del loro fascino indiscusso, tra gli addetti ai lavori come nell’opinione pubblica (6). Dalle impronte digitali alle impronte vocali, dalla macchina della verità fino all’impronta genetica, la scienza e la tecnica hanno offerto nel corso degli anni un ventaglio di chances, prima ignote, a chi ha il Diritto penale e processo 11/2010 potere (e il dovere) di investigare, apprendo nuovi scenari che però possono anche indurre in errore giudici e inquirenti se praticati impropriamente per imperizia dell’operatore o per ‘debolezza’della tecnica adottata. La storia del crimine e del processo penale è del resto drammaticamente ricca di errori giudiziari, taluni anche clamorosi, nati dall’utilizzo non corretto delle conoscenze tecnico-scientifiche. Basti pensare al lie detector - le cui origini remote sono ricondotte addirittura alle osservazioni compiute nel III secolo a.C. dal medico greco Erasistrato, fondatore della scuola medica di Alessandria d’Egitto, sulle risposte fisiologiche indotte dalle emozioni - che ha da principio conosciuto grandi fortune per poi perdere progressivamente terreno e credibilità, man mano che l’assunto di base secondo cui rispondere falsamente a una domanda comporterebbe una situazione di stress nell’organismo, generando reazioni fisiologiche involontarie - quali tachicardia o sbalzi pressori - registrabili con apposite apparecchiature, è stato smentito da evidenze che ne hanno dimostrato il carattere semplicistico e tutt’altro che assoluto (7). In casi come questi è la junk science, la ‘scienza-spazzatura’, a trionfare a scapito della verità dei fatti. Molto più spesso, fortunatamente, accade esattamente l’inverso. Il corretto utilizzo nel processo delle conoscenze scientifiche e delle metodiche di individuazione, repertazione, custodia e analisi delle tracce del reato rinvenute sulla scena del crimine consente di ricostruire la dinamica del delitto e di scoprirne gli autori o, viceversa, di scagionare persone ingiustamente accusate e condannate per reati commessi da altri, talora anche a distanza di anni dai fatti (8). Note: (4) A. C. Doyle, Il segno dei quattro, London, 1890. (5) P. L. Kirk, Criminalistics, in Science, 140, 1963, 367. (6) Cfr. A. Intini-M. Picozzi, Introduzione e breve storia delle scienze forensi, in Aa. Vv., Scienze forensi. Teoria e prassi dell’investigazione scientifica, a cura di M. Picozzi e A. Intini, Torino, 2009, 6. (7) Tanto che nel 2002 il National Research Council - una sezione dell’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense - ha ritenuto la sicurezza del Paese troppo importante per essere affidata “a una macchina così ottusa” come il lie detector. (8) Così ad esempio, negli Stati Uniti, è stato possibile individuare nel 2007 l’autore di dieci omicidi compiuti nei confronti di altrettante donne vent’anni prima grazie alla Banca dati genetici nazionale (CODIS), nella quale il colpevole era registrato in quanto arrestato per un altro e meno grave reato, una rapina. Sul fronte opposto, basti pensare agli oltre duecentocinquanta casi - nell’arco di quasi un ventennio - di persone condannate definitivamente la cui innocenza è stata dimostrata grazie all’esame del profilo genetico nell’ambito dell’Innocence Project. 1347 Opinioni Processo penale Arte o scienza dell’investigazione? Sherlock Holmes, come detto, è anche uno scienziato dilettante, con competenze di chimica, anatomia, geologia, botanica che utilizza ampiamente per risolvere i suoi casi. Ricorre all’abduzione - ritenuta “il primo passo del ragionamento scientifico” (9) - per verificare le ipotesi formulate. Ancora, è un profondo conoscitore dell’universo criminale della sua città, Londra. Racchiude, dunque, in embrione i requisiti di un moderno investigatore, dell’investigatore efficiente e completo in grado di coniugare le doti logico-analitiche con gli strumenti, sempre più complessi e incisivi, forniti dal progresso tecnicoscientifico all’arte dell’investigazione. Ma l’investigazione è un’arte o una scienza? Il rapporto tra scienza e diritto “è cosa affascinante e nel contempo insidiosa e complessa” (10), si è detto: del resto, al rigore della conoscenza scientifica si contrappone, spesso, la relatività delle norme giuridiche e della loro applicazione, derivante dall’ars interpretandi. E, tuttavia, sarebbe illusorio cercare nella scienza applicata al diritto quelle certezze che sovente quest’ultimo, da solo, non riesce a fornire. La verità giudiziale, com’è noto, è pur sempre una verità relativa, condizionata dalle regole del processo, dai suoi tempi spesso dilatati, anche se è pur sempre una verità che esprime la tensione verso la verità storica che si propone di ricostruire, di rievocare, per poter soddisfare appieno la ‘domanda di giustizia’proveniente dal caso singolo. Alla (pretesa) infallibilità della scienza, insomma, si contrappone la relatività del sapere processuale. Come lo storico, e anzi più dello storico, il giudice non dispone di mezzi illimitati per assolvere al proprio compito. Può tener conto soltanto delle fonti cognitive consentite dall’ordinamento, deve scartare ciò che è illecito o che è stato acquisito in violazione delle regole processuali, in primis quella ‘aurea’del contraddittorio nella formazione della prova (cui può supplire il consenso delle parti, tra le poche eccezioni alla regola dettata dall’art. 111 Cost.). Non può dunque ignorare le regole di esclusione probatoria e deve tener conto inoltre delle regole di giudizio, che impongono il raggiungimento di un determinato standard probatorio per la decisione finale, qual è oggi lo standard dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, di matrice nordamericana (beyond a reasonable doubt), il cui rispetto è necessario per la condanna (art. 533, comma 1, c.p.p.). Le scienze forensi, sebbene l’espressione venga da taluni considerata un ossimoro (11), rappresentano la sintesi più avanzata tra scienza e diritto che l’ordi- 1348 namento offre al nostro sguardo, con una pluralità di specializzazioni in continua espansione (antropologia forense, archeologia forense, entomologia forense, odontologia forense, patologia forense, psicologia forense, psichiatria forense, tossicologia forense, e via discorrendo), la cui ramificazione - lì dove tali scienze sono radicate e utilizzate da più tempo - è testimoniata dalla moltiplicazione esponenziale dei profili professionali ad esse relativi (12). Anche in Italia, nonostante le radicate resistenze al novum che contraddistinguono la nostra cultura (e non soltanto quella giuridica), si assiste ormai alla loro progressiva affermazione. Ad essere in ritardo, invece, è il legislatore, se si eccettuano interventi marginali e poco organici quali la frettolosa l. 18 marzo 2008, n. 48 (13), che va ad incidere sulla computer forensics, e la l. 30 giugno 2009, n. 85, attuativa del Trattato di Prüm, che ha introdotto nel corpo codicistico l’art. 359-bis c.p.p. (prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi) e regolamentato la prova genetica istituendo la Banca dati nazionale del DNA, ad oggi però ancora inattuata - il Governo ha infatti lasciato trascorrere invano i termini previsti per l’approvazione del Regolamento attuativo - anche in ragione di opinabili scelte che hanno individuato nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, facente capo al Ministero della Giustizia, la sede del Laboratorio centrale per la Banca dati nazionale: un Dipartimento che difetta delle competenze tecniche necessarie per svolgere le funzioni attribuite al laboratorio, ovvero la tipizzazione del profilo genetico mediante estrazione dal campione o reperto biologico, da trasmettere in forma digitale alla Banca dati nazionale, istituita presso il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno (14). La scienza sempre più al servizio del processo, dunNote: (9) C.S. Peirce, Collected Papers, vol. VII, Cambridge, MA, 1958, § 218. (10) A. Intini-M. Picozzi, Introduzione, cit., 1. (11) D. Kennedy, Forensic Science: Oxymoron?, in Science, 302, 2003, 1625. (12) Cfr., in proposito, S. Echaore-McDavid-R.A. McDavid, Career Opportunities in Forensic Science, New York, 2008, passim, che delinea un catalogo sterminato di opportunità lavorative in materia. (13) Definita “tutt’altro che lodevole, quanto a tecnica legislativa e soluzioni adottate”, da L. Lupária, Premessa, in Aa.Vv., Sistema penale e criminalità informatica, a cura di L. Lupária, Milano, 2009, X. (14) Per un primo bilancio critico sulla l. 85/2009 si veda P. Tonini, Informazioni genetiche e processo penale a un anno dalla legge, in questa Rivista, 2010, 883 s. Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale que. A prima vista un grande privilegio. E, tuttavia, anche la scienza - come si accennava - è tutt’altro che perfetta e la sua applicazione al processo tutt’altro che automatica e produttrice di certezze. È una geniale quanto inconsueta invenzione letteraria quella contenuta nel racconto di Philip K. Dick che ha ispirato il film Minority Report (2002) di Steven Spielberg, in cui un sistema apparentemente infallibile riesce addirittura a impedire i crimini prevedendone il loro compimento, consentendo così di assicurare tempestivamente alla giustizia i potenziali autori. Anche tale congegno si dimostrerà però violabile e manipolabile dai suoi gestori, per fini tutt’altro che nobili. È solo una finzione letteraria, si potrebbe obiettare, ma di certo fa riflettere sui limiti della conoscenza scientifica, dei quali peraltro filosofi e scienziati sono ben consapevoli da oltre mezzo secolo (15). Più che in una scienza perfetta, allora, l’investigazione si sostanzia in un insieme di tecniche che alla scienza fanno ricorso, la cui applicazione richiede ‘arte’, nel senso di professionalità, competenze e rigore. La scienza nel processo e l’etica dell’investigazione Uno dei punti nodali del rapporto tra scienza e processo penale, del resto, è quello del valore probatorio da attribuire alle fonti cognitive raccolte grazie alle nuove metodiche, che appare legato alla questione - tuttora irrisolta nel nostro ordinamento e in qualche modo pregiudiziale alla prima - della professionalità e dei criteri di scelta degli esperti: “tutti gli uomini sono soggetti all’errore: e molti uomini ne sono, in molti aspetti, esposti alla tentazione, per passione o per interesse”, affermava oltre tre secoli fa il caposcuola dell’empirismo moderno, il filosofo britannico John Locke (1632-1704) (16). Ecco allora porsi con forza il problema della correttezza deontologica di periti e consulenti tecnici (17), la necessità di un’etica condivisa dell’esperto che funga da barriera a manipolazioni, deformazioni, omissioni e contaminazioni i cui effetti dirompenti sono da tutti intuibili, se si considera l’oggetto del processo penale e le sue implicazioni: la possibile condanna di un innocente o, al contrario, l’assoluzione di un colpevole. Una barriera invalicabile, dunque, tale da imporre l’elaborazione e il rispetto di un’etica dell’investigazione, che - però - da sola non è sufficiente a garantire un risultato ottimale. L’errore dell’esperto, difatti, può anche essere un errore non consapevole, dovuto a imperizia, scarsa conoscenza delle tecniche Diritto penale e processo 11/2010 da utilizzare, erronea applicazione delle metodologie, ricorso a protocolli operativi discutibili, non riconosciuti dalla comunità scientifica o ancora allo stato sperimentale. Gli effetti, spesso, sono irreversibili, specie quando lo specifico esame da compiere non è più reiterabile, ad esempio, per consumazione del campione. È necessario insomma predisporre le opportune cautele affinché venga impedito l’accesso nel processo penale di strumenti pseudoscientifici, della bad science, di quella ‘scienza-spazzatura’cui si faceva riferimento all’inizio, per evitare di alterare irrimediabilmente la ricostruzione dei fatti, favorendo, invece, l’affermazione della good science. Si tratta di un obiettivo impegnativo ma ineludibile. E qui viene in evidenza la colpevole disattenzione del legislatore, che non si è preoccupato neppure di stabilire criteri rigorosi per la scelta di periti e consulenti tecnici ovvero di quelli esperti cui è delegato l’onere di introdurre le conoscenze scientifiche nel processo - né di organizzare e promuovere la loro formazione e di predisporre appositi albi che ne certifichino le abilità. Il ricorso alla scienza nel processo penale, allora, ha una sua indubbia utilità a patto che non se ne enfatizzi la portata e che avvenga sempre con scrupolo e capacità. E, naturalmente, che non si confonda l’affidabilità del mezzo tecnico-scientifico con la relatività del suo valore probatorio. Non va dimenticato che il risultato dell’utilizzo delle conoscenze tecnico-scientifiche nell’esame della scena del crimine è pur sempre, in termini processuali, un mero indizio, da calare e contestualizzare nell’intero scenario probatorio. L’analisi correttamente eseguita di un camNote: (15) Per un’efficace sintesi della concezione post-positivistica della scienza, oggi ritenuta limitata, incompleta e fallibile, cfr. P. Tonini, La prova scientifica, in AA. VV., Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. II, tomo 1, Le prove, a cura di A. Scalfati, Torino, 2009, 88 s. (16) Come ricordano A. Intini-M. Picozzi, Introduzione, cit., 5, sottolineando che “senza il supporto di regole etiche condivise, gli scienziati forensi possono trasformarsi in hired gun, armi prezzolate al servizio delle parti”. È importante, pertanto, che gli esperti imparino “a lavorare senza idee preconcette, senza porsi in posizione di sudditanza con il committente” (L. de Cataldo Neuburger, Aspetti psicologici nella formazione della prova: dall’ordalia alle neuroscienze, in questa Rivista, 2010, 609). (17) Cfr., con specifico riferimento alla computer forensics, G. Ziccardi, Scienze forensi e tecnologie informatiche, in G. Ziccardi-L. Lupária, Investigazione penale e tecnologia informatica, Milano, 2007, 25 S. Più in generale M. R. Damaška, Il diritto delle prove alla deriva, ed. it., Bologna, 2003, 205, nel constatare la “progressiva adozione di modelli scientifici nell’indagine sui fatti”, evidenzia come parallelamente “cresc(a) la fiducia nelle valutazioni tecniche degli esperti”. 1349 Opinioni Processo penale pione biologico, ad esempio, può dirci con certezza quasi matematica che una persona è stata in un determinato luogo o che ha avuto un contatto fisico con la vittima del reato, ma non quando e perché ciò è accaduto. Si tratta insomma di un tassello del più ampio puzzle in cui l’accertamento del fatto (e l’individuazione del colpevole) si sostanzia, fatto anche di prove ‘tradizionali’, nella consapevolezza che “il solo dato scientifico non costituisce mai la soluzione del caso”, anche quando preciso e affidabile (18). Di conseguenza, il suo ‘peso’probatorio varierà a seconda delle specificità del caso: sarà minimo se risultano frequentazioni abituali tra la vittima e l’accusato, di gran lunga superiore qualora quest’ultimo affermi di non essere mai stato nel luogo in cui sono state invece ritrovate le sue tracce biologiche. Andrà in ogni caso ‘soppesato’alla luce dell’intero quadro probatorio, perché è ciò che il principio del libero convincimento (art. 192, comma 1, c.p.p.) richiede ed impone. Ma anche tale approccio non è sufficiente, perché come detto - è altrettanto importante che la repertazione delle tracce e il prelievo dei campioni avvenga con il rispetto dei protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica, seguendo le best practices, e, naturalmente, senza manipolazioni e contraffazioni di sorta. Altrimenti, la ‘prova scientifica’diviene ingannevole più di ogni altra prova, e le investigazioni compiute sulla scena del crimine rischiano di trasformarsi in un boomerang per l’accusa, com’è accaduto in celebri processi. Emblematico è il caso di O. J. Simpson, nel quale le manomissioni dei campioni biologici prelevati dall’ex giocatore di football americano (poi divenuto una star hollywoodiana) sono state senza dubbio determinanti - insieme ad altri errori e scorrettezze degli investigatori - per il verdetto di assoluzione (19). Nessuna preclusione, quindi, nei confronti della ‘prova scientifica’, nessun pregiudizio rispetto all’utilizzo della scienza nel processo penale, ma - al contempo - estrema attenzione nella sua gestione, consapevoli che il suo progressivo affermarsi sulla scena della contesa penale è comunque un segno dei tempi, rappresenta una nuova e ulteriore tappa nel cammino del processo penale caratterizzato dal continuo evolversi del sistema probatorio, scandito dall’affermarsi di differenti strumenti cognitivi che hanno influito sulla struttura e sulle dinamiche processuali. Dalle prove irrazionali legate a una visione trascendente del mondo, in ragione della quale si chiede aiuto alle forze sovrannaturali per decidere (nascono così le ordalie e i giuramenti) alle prove legali (pre- 1350 determinate nella specie e nella loro efficacia dimostrativa), legate alla nascita di organi giudicanti pubblici, che scandiscono l’affermazione della prova dichiarativa con il trionfo della confessione, considerata la ‘prova regina’per ottenere la quale è lecito ricorrere anche alla tortura; dal superamento delle rigidità del sistema delle prove legali, grazie all’illuminismo che apre la strada all’intime conviction del giudice dando spazio ad altri strumenti probatori, al progressivo ridimensionamento della prova dichiarativa dettato proprio dal sapere scientifico applicato al processo. Dapprima con le scienze criminologiche, poi con le nuove conoscenze tecnico-scientifiche applicate alla macchina processuale, nella convinzione che le ‘scienze esatte’possano avvicinare la verità giudiziale a quella storica. È proprio uno dei più noti esponenti della Scuola positiva, il criminologo Enrico Ferri, che vanta del resto diritti di primogenitura nell’utilizzazione dell’espressione ‘prova scientifica’ (20). Quali i rischi di un tale approdo? Intanto il concreto pericolo di una ‘deriva tecnicista’, che conduca a ritenere il processo penale - avallando un massimalismo della conoscenza scientifica, una sorta di radicalismo del sapere scientifico che rappresenta la negazione della sua più intima natura - una sorta di “laboratorio scientifico, affidato ad asettici operatori in camice bianco” (peraltro già teorizzato in passato dalla Scuola positiva) (21), nel quale il sapere degli esperti si sostituisce al sapere del giudice. Verrebbero così ad essere confusi due piani tra loro gnoseologicamente divergenti, se è vero che il sapere processuale - a differenza del sapere scientifico, che si traduce in un semplice atto cognitivo ha una finalità ulteriore, essendo orientato a un atto imperativo: la decisione giurisdizionale, che determina effetti rilevanti e irreversibili nella sfera individuale e rappresenta, peraltro, l’epifania di una funNote: (18) C. Cattaneo, Certezze provvisorie, cit., 4, secondo cui “la scienza regina delle indagini forensi non esiste, o meglio, non dovrebbe esistere. Alla ‘corte’della Giustizia la scienza può essere paragonata a un Gran Consigliere (che talvolta può diventare anche un cortigiano, nel senso deteriore del termine)”. V., in proposito, l’accurata analisi di R. C. Harris, Black Robes, White Coats. The Puzzle of Judicial Policymaking and Scientific Evidence, Piscataway, NY, 2008, passim. (19) V., sul punto, l’ampia disamina di A.M. Dershowitz, Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, ed. it., Milano, 2007, passim. (20) E. Ferri, Sociologia criminale, 5ª ed., vol. I, Torino, 1929, 348. (21) E. Amodio, La rinascita del diritto delle prove penali. Dalla teoria romantica della intime conviction al recupero della legalità probatoria, in Id., Processo penale, diritto europeo e common law: dal rito inquisitorio al giusto processo, Milano, 2003, 128. Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale zione dello Stato. La scienza ha ad oggetto proposizioni generali da sottoporre a verifica, il processo penale singoli enunciati che riguardano lost facts da rievocare e da ricostruire in maniera verosimile. Un ulteriore rischio, sul piano operativo, è già tangibile nell’esperienza giudiziaria di questi ultimi anni: il diffondersi di una ‘pigrizia investigativa’, frutto di un eccessivo e irriflessivo ricorso agli strumenti d’indagine tecnico-scientifici, a scapito delle tradizionali metodologie investigative, sulla base di una solo presunta - ma come detto indimostrata e indimostrabile - superiorità dei primi sulle seconde. Da qui l’estrema cautela e il grande equilibrio necessari nell’uso prima, e nella valutazione poi, dei risultati delle investigazioni scientifiche. Da qui l’esigenza di un apparato normativo adeguato, a fronte di risposte legislative carenti e frammentarie. Il codice 1988, com’è noto, non affronta espressamente la questione, sebbene il ricorso a siffatti strumenti fosse all’epoca già tutt’altro che residuale. Ma i tempi evidentemente non erano ancora maturi. Le evidenti lacune normative, solo in parte colmate dalla lettura ‘illuminata’e per certi versi ‘coraggiosa’dell’art. 189 c.p.p. prospettata in dottrina (22), permangono immutate e costituiscono, pertanto, il vero tallone d’Achille della materia, dimostrando come manchi ancora una consapevolezza a livello legislativo della rilevanza e della diffusione di un fenomeno Diritto penale e processo 11/2010 rispetto al quale le soluzioni interpretative proposte dalla supplenza di dottrina e giurisprudenza non possono che rappresentare soluzioni provvisorie. È dunque necessario - e improcrastinabile - riconsiderare lo scenario normativo in cui le investigazioni scientifiche, in particolare, e la cd. ‘prova scientifica’, più in generale, sono chiamate ad operare, per giungere a delineare una compiuta disciplina di settore. Non senza uno sguardo attento e meditato alle esperienze di Europa e Stati Uniti, al fine di trarne suggerimenti e utili spunti di riflessione. Perché se è certo che il processo penale non può ormai più fare a meno della ‘prova scientifica’, è altrettanto innegabile che nessuna persona coinvolta nel processo penale può essere privata dei diritti sanciti con il riconoscimento costituzionale delle garanzie del ‘giusto processo’invocando l’infallibilità del metodo scientifico quale fonte inesauribile e incontestabile di verità. Nota: (22) O. Dominioni, La prova penale scientifica, cit., 207 s. In una diversa prospettiva S. Lorusso, La prova scientifica, in Aa. Vv., La prova penale, Trattato diretto da A. Gaito, Torino, 2008, I, 321 s.; G. Ubertis, La prova scientifica e la nottola di Minerva, in Aa. Vv., La prova scientifica nel processo penale, a cura di de Cataldo Neuburger, Padova, 2007, 84 s. 1351 Opinioni Processo penale Codice della strada Le problematiche di accertamento sanitario a fini di prova negli artt. 186 e 187 C.d.S. (II parte) di Paolo Scippa Le successive modificazioni alla disciplina dell’accertamento della positività all’assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti/psicotrope - anche alla luce della recente novella del 29 luglio 2010, n. 120 - pongono numerosi problemi di compatibilità costituzionale e di omogeneità alle norme del Codice di procedura penale che regolano, in modo tassativo, le circostanze fattuali per le quali è possibile compiere atti sanitari invasivi sulla persona a fini di accertamento di condotte costituenti reato. L’emergenza legata agli ultimi fatti dannosi connessi alla guida sotto l’effetto di alcool o di stupefacenti ha spinto, tuttavia, il Legislatore all’emanazione di numerose disposizioni, incidenti anche nel delicato campo dell’accertamento sanitario su persona indagata, che - a parere di chi scrive - mal si conciliano con i principi della riserva di giurisdizione storicamente legata a questo campo, affidando in modo praticamente esclusivo alle forze di polizia, le operazioni di campionamento dei liquidi biologici a seguito di accertamento - anche presuntivo - dello stato di ebbrezza alcolica o di positività agli stupefacenti. Tali nuove disposizioni limitano fortemente non solo le stesse garanzie difensive dell’indagato ma anche le doverose potestà di controllo del Pubblico Ministero sull’attività della Polizia Giudiziaria. Le considerazioni che, di seguito, verranno esposte mirano a sottolineare i principali contrasti della normativa vigente sulla materia con i principi generali indicati dal Codice di procedura penale ed a segnalare i rischi di una possibile “deriva” verso una degiurisdizionalizzazione a garanzia limitata, di accertamenti istruttori costituenti “prova valida” anche nel dibattimento penale. Ambito normativo di riferimento La completa riformulazione dei primi due periodi del comma 7 dell’art. 186 C.d.S. operata dall’art. 4 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, ha comportato la reintroduzione del reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti di cui ai commi 3, 4 e 5 che, per effetto del d.l. n. 117/2007, convertito in l. 2 ottobre 2007, n. 160, era stato trasformato in illecito amministrativo. Sotto l’egida della formulazione previgente, il rifiuto di sottoporsi all’accertamento era punito con una mera sanzione amministrativa compresa tra euro 2.500,00 ed euro 10.000,00, o tra euro 3.000,00 ed euro 12.000,00 nel caso in cui la violazione fosse stata commessa a seguito di un sinistro stradale. Nelle intenzioni del legislatore, probabilmente sottovalutando la portata del fenomeno e le conseguenze a cui ciò avrebbe condotto, l’ingente importo della sanzione amministrativa avrebbe dovuto costituire un efficace deterrente, grazie al quale il conducente 1352 si sarebbe sottoposto alle necessarie verifiche per evitare di incorrere in un notevole esborso economico. Tuttavia, il pericolo di un amplissimo spettro di assoluta impunità, derivante dall’impossibilità per l’accusa di acquisire un’importante prova di colpevolezza dell’indagato, e la scarsa efficacia deterrente dimostrata dalle numerose contestazioni elevate nel periodo di vigenza della norma, hanno indotto il legislatore ad una rapida inversione di marcia, attraverso la reintroduzione, a pochi mesi dall’intervenuta abolitio criminis, del reato di rifiuto di sottoporsi alle verifiche. La disciplina previgente alla promulgazione della l. 29 luglio 2010, n. 120 (non mutata con le modifiche introdotte dalla predetta normativa) stabilisce che nei confronti di chi si rifiuta di sottoporsi all’accertamento debba applicarsi la stessa pena prevista dal comma 2, lett. c), analogamente a quanto avverrebbe qualora fosse accertato un valore corrispondente Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro. Il conducente sarà dunque punibile con l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000, l’arresto da 6 mesi ad un anno (1), nonché la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e la confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione. Con l’ordinanza con la quale è disposta la sospensione della patente, il Prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica secondo le disposizioni del comma 8. Se il fatto è commesso da soggetto già condannato nei due anni precedenti per il medesimo reato è sempre disposta la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida. A seguito della novella legislativa, il reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 7, deve ritenersi integrato al momento della manifestazione del rifiuto, indipendentemente dalle ragioni dello stesso e persino nel caso in cui il conducente abbia ammesso di trovarsi in stato di ebbrezza, giacché l’ammissione di responsabilità non esclude la necessità dell’esame clinico. Secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, infatti, l’ammissione di responsabilità dell’imputato non elimina l’interesse all’accertamento, non solo perché è proprio il risultato dell’esame clinico ad assumere valore probatorio preminente e necessario ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, ma anche perché esso rileva per la determinazione in concreto della pena da infliggere (2). Problematiche sull’accertamento del reato Perché il reato possa dirsi integrato, occorre che la richiesta di accertamento da parte dei verbalizzanti sia legittima e conforme ai criteri stabiliti dagli artt. 186 e 187 C.d.S., con particolare riferimento al rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica del soggetto sottoposto a controllo. A tale ultimo riguardo, delicati problemi si pongono con riferimento al prelievo ematico coattivo o, più in generale, alla necessità del consenso da parte del conducente coinvolto in incidenti stradali e sottoposto alle cure mediche a seguito delle lesioni riportate. Il problema si pone soprattutto in quanto il comma 5 dell’art. 186 C.d.S. (e art. 187) attribuisce agli organi di Polizia Stradale la possibilità di richiedere l’accertamento del tasso alcolemico/presenza di tracce di stupefacenti da parte delle strutture sanitarie per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cu- Diritto penale e processo 11/2010 re mediche, senza precisare se tale accertamento sia subordinato al consenso dell’interessato (3). Il tema risulta particolarmente importante in ragione dei contrapposti interessi in gioco: da un lato vi è la necessità di acquisire ogni elemento utile per valutare l’eventuale colpevolezza del soggetto, mentre dall’altro vi sono principi costituzionalmente garantiti tra i quali l’inviolabilità della libertà personale e la libertà di scegliere se sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario, previsti rispettivamente dagli artt. 13 e 32 Cost. (4). La novella del 29 luglio 2010, con riferimento alla fattispecie dell’art. 187 C.d.S., se è possibile, aggrava le problematiche di compatibilità costituzionale. Invero, il comma 2° bis del citato articolo non limita l’intervento degli organi accertatori alla sottoposizione del conducente ai cd. “test speditivi”, ovvero accertamenti qualitativi non invasivi o a prove di positività anche con apparecchi portatili, ma lascia all’apprezzamento discrezionale degli organi accertatori (Polizia di Stato, Carabinieri, Polizia Municipale) anche al di fuori di casi di “positività” ai test speditivi, la scelta (fondata sul cosiddetto “ragionevole dubbio”) di sottoporre il fermato “ad accertamenti clinico-tossicoligici e strumentali su campioni di mucosa del cavo orale” oppure in caso di indisponibilità di personale sanitario ausiliario delle forze di polizia, anche in caso di rifiuto, di sottoporre il conducente “a prelievo per campione di liquidi biologici ai fini dell’effettuazione degli esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope” Tali nuove disposizioni si pongono in aperto contrasto con quanto costantemente affermato sia dalla magistratura di merito sia di legittimità. La giurisprudenza, infatti, è in più occasioni intervenuta in materia per precisare come il prelievo ematico possa essere effettuato in assenza di consenso dell’interessato solo nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso e quando necessario a fini sanitari (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. IV, sentenza del 9 dicembre Note: (1) Pena aumentata nel minimo a seguito della l. 29 luglio 2010, n. 120. (2) Cfr. Cass., Sez. IV, 8 febbraio 2006, n. 26744. (3) Con la novella rappresentata dalla l. 29 luglio 2010, n. 120 si è aggiunto un ulteriore profilo costituzionalmente dubbio, ovvero l’obbligo di trasmissione tempestiva, a cura dell’organo di polizia che ha proceduto agli accertamenti, al prefetto del luogo della commessa violazione, con conseguente duplicazione e parallellismo immediato tra l’esercizio dell’azione penale e l’inizio del procedimento amministrativo di competenza degli organi prefettizi. (4) Si veda quanto già espresso da A. Bonomi, in questa Rivista 10, 1221. 1353 Opinioni Processo penale 2008, n. 4118 (5), Sez. IV, sentenza del 4 novembre 2008, n. 10286 (6), Sez. IV, sentenza del 21 settembre 2007, n. 38537 (7), Sez. IV, sentenza del 28 aprile 2006, n. 24382 (8), Sez. IV, sentenza del 25 gennaio 2006, n. 20236 (9), Sez. IV, sentenza del 13 maggio 2005, n. 22599 (10)). La novella del 2010, inoltre, condiziona non solo le modalità dei prelievi “su strada” alla futura emanazione di un decreto attuativo “da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore” delle modifiche legislative, ma esclude (posto che nel testo non vi è traccia) di regolamentare con analogo strumento le modalità di prelievo di “liquidi biologici” presso le strutture sanitarie, anche quando tale prelievo non è funzionale a necessità di cura del conducente fermato dalle forze di polizia. La misurazione del tasso alcolemico sarà, in questi casi, pienamente legittima e dunque utilizzabile ai fini probatori, indipendentemente dal consenso del soggetto sottoposto alle cure del personale sanitario. Come puntualizzato dalle Sezioni Unite (11), le relazioni di servizio della polizia giudiziaria sono atti irripetibili, come tali inseribili nel fascicolo per il dibattimento, qualora contengano un tipo di accertamento che non è possibile “riprodurre” nuovamente nel dibattimento attraverso l’escussione dell’operante: ciò si verifica allorquando contengano o la descrizione di un’attività materiale ulteriore rispetto a quella investigativa e non riproducibile ovvero la descrizione di luoghi, cose o persone, soggetti a modificazioni. In tali casi, la mancata allegazione dell’atto determinerebbe la perdita dell’informazione probatoria ovvero l’acquisizione di una informazione priva delle caratteristiche di completezza, affidabilità o genuinità. Nella fattispecie, la nozione di irripetibilità che rileva è quella che ricorre nelle ipotesi in cui l’atto attiene alla descrizione di luoghi, cose o persone, di interesse per lo svolgimento delle indagini o per la celebrazione del processo, che siano “suscettibili di modificazione”. Queste caratteristiche sono ravvisabili nel caso in esame in cui la polizia giudiziaria ex art. 354 c.p.p., commi 2 e 3, è abilitata a compiere rilievi sullo stato delle cose, dei luoghi e delle persone nel caso di pericolo di alterazione, dispersione o modificazione. Sulla scorta di questa pronuncia la Suprema Corte, con riferimento agli accertamenti di cui all’art. 187 C.d.S., ha affermato che “l’attività compiuta dagli organi di polizia stradale per accertare il reato di guida in stato di alterazione correlata all’uso di droghe, ad esclusione degli accertamenti preliminari” sarebbe da ricondursi agli atti di P.G. urgenti ed indifferibili previsti dall’art. 354, comma 3 c.p.p. (12). 1354 Note: (5) I risultati del prelievo ematico effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale sono utilizzabili nei confronti dell’imputato per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, ai fini dell’utilizzabilità processuale, la mancanza del consenso (In motivazione, la Corte ha precisato che solo il prelievo ematico effettuato, in assenza di consenso, non nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso - e dunque non necessario a fini sanitari - sarebbe inutilizzabile, per violazione del principio costituzionale di inviolabilità della persona). (6) I risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale, e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato. (7) Ai fini dell’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell’incidente stradale sono utilizzabili, nei confronti dell’imputato, per l’accertamento del reato, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, ai fini dell’utilizzabilità processuale, la mancanza del consenso. Al contrario, il prelievo ematico effettuato, in assenza di consenso, non nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso - e dunque non necessario a fini sanitari - è inutilizzabile ex art. 191 c.p.p. per violazione del principio costituzionale che tutela l’inviolabilità della persona (art. 13 Cost.). (8) In Arch. Giur. della Circ. e dei Sin., 2007, 4, 378. In tema di reato di guida in stato di ebbrezza, il certificato medico relativo agli esami del prelievo ematico, effettuati secondo i normali protocolli medici dal pronto soccorso durante il ricovero in una struttura ospedaliera, è utilizzabile a fini probatori come documento, e quindi non necessita di alcun deposito a beneficio della difesa ex art. 366 c.p.p. durante le indagini preliminari e di alcuna conferma in sede testimoniale nel corso del dibattimento. (9) In Arch. Giur. della Circ. e dei Sin., 2007, n. 3, 275. Per accertare la responsabilità del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool, è legittimo acquisire e utilizzare il certificato medico relativo all’accertato tasso di alcool nel sangue dell’interessato se e qualora l’analisi del sangue sia stata effettuata dal personale ospedaliero non a richiesta specifica degli agenti di polizia stradale, ma unicamente per motivi clinici e a scopo curativo delle lesioni riportate dal predetto nell’incidente stradale in cui questi sia stato coinvolto (La Corte ha osservato che tale accertamento “invasivo” sarebbe illegittimo e processualmente inutilizzabile a seguito della sentenza della Corte cost. n. 238 del 1996 - solo se effettuato, in assenza del consenso dell’interessato, ad iniziativa dell’organo di polizia a fini processuali). (10) In Arch. Giur. della Circ. e dei Sin., 2006, 3, 271. I risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale, e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato. (11) Sent. 17 ottobre 2006, Greco. (12) Cfr. Cass., Sez. I, sent. del 13 novembre 2007, n. 2443: in tema di indagini preliminari, la nozione di accertamento tecnico concerne non l’attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti al reato (nel caso di specie, il prelievo di un campione biologico), priva di alcun carattere di invasività, bensì soltanto il loro studio e la loro valutazione critica. La Circolare del Ministero dell’Interno del 29 dicembre 2005, n. 300, riprendendo il citato orientamento della Suprema Corte, testualmente afferma: «Si ritiene (segue) Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale Tale posizione assunta dalla Suprema Corte, quasi granitica ed insuperabile sotto il profilo della difesa, a parere di chi scrive pone non pochi problemi di compatibilità, non solo con la fonte primaria del diritto italiano, ma con la stessa lettera della norma citata in massima. L’art. 354, comma 3, c.p.p. è norma chiaramente sottoposta alla riserva di giurisdizione (13) di cui al precedente comma 2 e, pertanto, legittima e condiziona l’autonoma azione di raccolta “istruttoria” della P.G. sulla base di due presupposti tassativi: – se vi è pericolo che le cose, le tracce … si alterino o si disperdano o comunque si modifichino; – se il Pubblico Ministero non può intervenire ovvero non ha assunto ancora la direzione delle indagini (14). Nel caso di accertamento ematico in dipendenza di una probabile contestazione ex art. 187 C.d.S. trova necessaria applicazione il 3° comma, secondo inciso, dell’art. 354 c.p.p. con conseguente richiamo diretto all’art. 349 bis c.p.p. (15): tale norma impone la comunicazione al P.M. che deve assumere, quindi, la direzione delle indagini, proprio quando l’attività svolta dalla P.G. consta del “prelievo di capelli o saliva” e quando manca il consenso dell’interessato. Tenuto conto del fatto che il richiamo operato dall’art. 354, comma 3, c.p.p. all’art. 349 bis c.p.p. fa generico riferimento al “prelievo di materiale biologico”, l’interpretazione sistematica del combinato-disposto tra le due norme consente, in primo luogo, di ritenere l’elencazione contenuta nell’art. 349 bis c.p.p. non esaustiva con riferimento ai tipi di prelievi e, conseguentemente, giurisdizionalizza le procedure per tutti i prelievi biologici resi necessari ai sensi del 354 c.p.p. Sullo sfondo di questa distinzione pare collocarsi quell’insegnamento giurisprudenziale secondo il quale i soli rilievi (impronte digitali, tampone a freddo o, come nel nostro caso, prelievo di tracce di materiale organico (16)), ancorché possano essere prodromici all’effettuazione di accertamenti tecnici, non sono tuttavia identificabili con essi, per cui, pur essendo essi irripetibili, la loro effettuazione non deve avvenire nell’osservanza delle forme stabilite dall’art. 360 c.p.p., le quali sono riservate soltanto agli accertamenti veri e propri, se ed in quanto qualificati come irripetibili (17). La suddetta distinzione fra accertamenti e rilievi (testualmente contenuta nel comma 2 e nella prima parte del comma 3 dell’art. 354 c.p.p.) comporta, comunque, nella nostra materia che, mentre il prelievo del materiale biologico potrebbe lecitamente rientrare nelle potestà operative della Polizia Giudiziaria (essendo connotato dall’urgenza di cui all’art. Diritto penale e processo 11/2010 Note: (continua nota 12) inoltre che gli esami previsti dai commi 4 e 5 dell’art. 186 C.d.S. (accertamento con etilometro, esami clinici presso le strutture sanitarie) per controllare il tasso di alcool nel sangue, debbano ricondursi agli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili previsti dall’art. 354, comma 3, c.p.p. Anche l’attività compiuta dagli organi di polizia stradale per accertare il reato di guida in stato di alterazione correlata all’uso di droghe, ad esclusione degli accertamenti preliminari, è da ricondursi tra gli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili previsti dall’art. 354, comma 3 c.p.p.». (13) Cfr. la relazione illustrativa al d.d.l. n. 995 recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti medici idonei ad incidere sulla libertà personale”: «La norma mira ad attribuire alla polizia giudiziaria il potere di procedere ai prelievi coattivi di capelli e saliva, sia nei confronti dell’indagato, che nei confronti di persona non sottoposta ad indagini (ad esempio persona offesa, testimone), quando il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente, ovvero quando non ha ancora assunto la direzione delle indagini e sempre nel rispetto del presupposto che vi debba essere pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 dell’articolo 354 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino. Tuttavia, da un lato, questa disposizione non sembra aver colmato il vuoto normativo sopra illustrato. Dall’altro, avendo previsto, in ogni caso, l’intervento del giudice - sia preventivamente che in sede di convalida dell’operato del pubblico ministero - per ragioni di coerenza sistematica, sembra opportuno non consentire più alla polizia giudiziaria il prelievo coattivo di capelli o di saliva. Di qui la proposta di abrogare l’articolo 354, comma 3 ultima parte, del codice di procedura penale, poiché esso non contempla il successivo intervento dell’autorità giudiziaria in sede di convalida dell’operato della polizia giudiziaria. Sicché, per effetto della presente proposta di modifica, si potrebbe verificare la situazione di un intervento coattivo di urgenza della polizia giudiziaria non sottoposto ad alcuna verifica dell’autorità giudiziaria e, viceversa, un intervento del pubblico ministero da sottoporre sempre a controllo, preventivo o in sede di ratifica.». (14) Come esattamente rilevato dalla Corte Costituzionale nella già citata sent. n. 88 del 1991, «... non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione ...»; un ruolo in definitiva “disinteressato”, tipico di chi non ha interesse nei rapporti e nelle situazioni in cui ricadono gli effetti dei propri atti, ma ha invece l’unico scopo di garantire una tutela oggettiva dell’ordinamento giuridico; un ruolo, sì, ben marcato nella architettura della l.d. 16 febbraio 1987, n. 81 (vedi la direttiva n. 37), ma già presente nell’assetto istituzionale se è vero, come è vero, che già nell’Ordinamento Giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 è stabilito che «Il Pubblico Ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della Giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato ...” (art. 73 ORD. GIUD.) e che nella Carta Costituzionale è imposto all’Ufficio «l’obbligo di esercitare l’azione penale» (art. 112 Cost.), obbligo posto non solo a garanzia della indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio delle funzioni che gli sono conferite, ma anche a garanzia del principio di legalità e della uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge penale. (15) Ancorché tale norma sia inserita nelle procedure d’identificazione delle persone sottoposte ad indagini. (16) Anche Galgani, Commento all’art. 10 del d.l. n. 144 del 2005, in Leg. Pen., 2005, II, 509, considera il prelievo del materiale biologico come rilievo in senso tecnico. (17) In tal senso, v. Cass., Sez. V, 24 gennaio 2003, n. 9998, Bocchetti, in Dir. e giust., 2003, n. 14, 112; Sez. I, 10 maggio 2002, n. 23053, Misto, in C.E.D. Cass., n. 221621; Sez. VI, 27 ottobre 1998, n. 5779, Bettio, in Arch. n. proc. pen., 1999, 376; Sez. I, 6 giugno 1997, n. 4017, Pata, in Giust. pen., 1999, III, 112; Sez. I, 3 giugno 1994, Nappi, in Giust. pen., 1995, III, 600. 1355 Opinioni Processo penale 354, comma 2, c.p.p., per il modificarsi della concentrazione di alcool nel sangue o per la “dispersione” delle sostanze droganti a causa della metabolizzazione), al contrario, l’accertamento, ossia la disposizione con la quale si procede alla misurazione, mediante analisi, del tasso alcolemico o della presenza di metaboliti di stupefacenti, deve essere considerata sempre prerogativa esclusiva del Pubblico Ministero. Inoltre, al di là del vuoto riferimento al prelievo di saliva, di capelli o di materiale biologico, non sono state affatto esplicitate le modalità esecutive dell’acquisizione dei reperti organici, né alcun criterio selettivo delle persone legittimate a procedervi. Non si può riconoscere al generico nulla-osta rilasciato dal Pubblico Ministero prima che la Polizia ponga in essere il prelievo i requisiti di quel giudizio delibativo ex post (convalida) prescritto dall’art. 13, comma 3, Cost. (18). È noto, a quest’ultimo proposito, che i primi parametri interpretativi della disposizione di legge ordinaria sono i precetti costituzionali, e quindi è imposta una lettura costituzionalmente orientata secondo la quale l’autorizzazione scritta del Pubblico Ministero deve necessariamente corrispondere all’“atto motivato dell’autorità giudiziaria” (19). Appare, inoltre, difficile evitare la rotta di collisione con la riserva di legge di cui all’art. 13, comma 2, Cost., avente ad oggetto “casi e modi” della privazione di libertà. Ben poco dice l’art. 354, comma 3, citato sui casi di prelievo coattivo (20) (in pratica la determinazione dei casi si riduce al rinvio ai presupposti di urgenza previsti dal comma 2 dello stesso art. 354), mentre, quanto alle modalità del prelievo il rinvio recettizio al comma 2 bis dell’art. 349 c.p.p. consente solo di utilizzare il riferimento al doveroso (e pacifico) rispetto della dignità personale del soggetto sottoposto a controllo (21). Ad ulteriore sostegno delle argomentazioni appena svolte, la Suprema Corte ha affermato, ad esempio, che «il prelievo di saliva, avvenuto all’insaputa dell’imputato, mediante il sequestro di un bicchierino di caffè offerto dalla polizia giudiziaria, può essere effettuato ai sensi dell’art. 348 c.p.p. in quanto l’attività non determina alcuna incidenza sulla sfera della libertà personale dell’interessato, riguardando materiale biologico fisicamente separato dalla persona» (22). Note: (18) Così Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. 1356 it. di dir. e proc. pen., 2006, 611; cfr. anche i casi Saunders c. Regno Unito, 29 novembre 1996, in Cass. pen., 1997, 2282; Quinn c. Irlanda, 21 dicembre 2000 ed Heaney e Mc Guinness c. Irlanda, 21 marzo 2001, in Cass. pen., 2002, 1151. Addirittura nella già più volte citata circolare del Ministero dell’Interno si afferma testualmente: «La richiesta di sottoposizione ad analisi può essere avanzata direttamente, ovvero a mezzo fax, alla direzione sanitaria del nosocomio o della struttura sanitaria presso cui si trova il conducente sottoposto a cure mediche, secondo le procedure e con la modulistica allegata»: tale indicazione esclude in radice qualsiasi atto dell’autorità giudiziaria, in deroga a quanto contenuto nelle norme del codice di procedura penale. (19) Anche Filippi, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo. Le disposizioni processuali , in questa Rivista , 2005, 1218, ritiene che l’art. 354, comma 3, ultima parte c.p.p. non rispetti né la riserva di giurisdizione (per mancanza dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria e della convalida), né la riserva di legge (per mancata previsione dei casi e dei modi del prelievo, nonché delle eccezionali ragioni di necessità e urgenza che impongono l’intervento della polizia giudiziaria in luogo dell’autorità giudiziaria). (20) Cantone, Le modifiche processuali introdotte con il “decreto antiterrorismo”, in Cass. Pen., 2005, 2516, ravvisa l’illegittimità costituzionale nella parte in cui la disposizione sul prelievo coattivo non prevede una categoria di reati per cui esso sia possibile. (21) Cfr. Cass., Sez. IV, sent. del 12 febbraio 2009, n. 25918: «È legittima l’attività di raccolta di tracce biologiche riferibili all’indagato eseguita dalla polizia giudiziaria senza ricorrere ad alcun prelievo coattivo, ancorché posta in essere all’insaputa dello stesso»; in motivazione si afferma: «Rilevava il Giudice delle leggi che, quando il soggetto non acconsente spontaneamente al prelievo per eseguire la perizia su tracce organiche, occorre sottoporre l’individuo a prelievo, imponendogli una restrizione alla sfera corporale tale da poter compromettere l’integrità fisica, la salute o la dignità. Tale specifica attività d’indagine, invasiva della sfera più intima della persona, non è stata, però, disciplinata dal legislatore con precise statuizioni, che impongano precisi limiti e prevedano le conseguenze del rifiuto. V’è soltanto la generica disposizione dell’ultima parte dell’art. 224 c.p.p. secondo cui il giudice “adotta tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”. Mancando, dunque, la tipizzazione dei “casi e modi” in cui la libertà può essere compressa, questa norma è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui delega alla piena discrezionalità del giudice la scelta dei criteri e dei modi d’applicazione, poiché l’art. 13 Cost. prevede, al contrario, una riserva di legge ordinaria, che deve indicare i “modi” della limitazione della libertà personale in senso puntuale e positivo e non tramite un rinvio alla discrezionalità del giudice, che eserciterebbe il suo potere in assenza di criteri di riferimento normativo. Svolta tale indispensabile premessa, va, però, affermato che, fino al sopravvenire di una normativa, che applichi il dettato dell’art. 224 c.p.p. ultima parte, è inibita l’interferenza nella sfera fisica dell’individuo, per eseguire prelievi al fine di espletare accertamenti peritali; è legittima, invece, la raccolta di qualsiasi altro elemento probatorio, che sia espletata nell’osservanza delle norme processuali vigenti in tema di limitazione della libertà individuale, con riferimento sia a quella personale che domiciliare, quando venga posta in essere tramite il corretto uso del potere-dovere di perquisizione e sequestro, anche se sia finalizzata alla raccolta delle c.d. tracce biologiche, quali capelli, sangue, cute, saliva e sperma. Ne deriva che nella specie il provvedimento adottato dal Pubblico Ministero con cui si disponevano tali mezzi di ricerca della prova, proprio perché specificamente previsti e disciplinati dalla legge ordinaria, è legittimo, non avendo comportato alcun’intrusione corporale vietata» (conforme Cass. Pen., Sez. II, sent. del 10 ottobre 2007, n. 38903). (22) Cfr. Cass., Sez. I, sent. del 2 novembre 2005, n. 1028. Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale In motivazione è stato precisato che: «… tale prelievo, solo prodromico all’effettuazione dell’accertamento tecnico vero e proprio e ad esso non assimilabile sotto il profilo delle garanzie difensive, è stato invero legittimamente operato nell’ambito delle attività di indagine che la polizia giudiziaria può svolgere di sua iniziativa ai sensi dell’art. 348 c.p.p. e s.s. e non ha avuto alcuna incidenza sulla sfera di libertà personale dell’interessato riguardando materiale biologico ormai dallo stesso fisicamente separato, per cui non è pertinente il richiamo contenuto nel ricorso alla sent. n. 238 del 1996 della Corte Costituzionale … il consenso dell’indagato non è richiesto da alcuna disposizione di legge quando, come nel caso di specie, lo svolgimento dell’indagine non si risolva in violazioni della libertà personale o di altri diritti costituzionalmente garantiti» (23). Anche da tale pronuncia appare particolarmente evidente che, se l’attività d’indagine comporta prelievo di materiali biologici “dalla persona” e non da cose fisicamente separate da essa, l’attività della P.G. deve essere regolamentata secondo le norme del codice sul combinato-disposto tra l’art. 354, comma 3, c.p.p. e l’art. 349 bis c.p.p. e, in particolare, con l’attivazione delle garanzie difensive, e, prima di tutto, con l’informativa immediata al P.M. che, assumendo la direzione delle indagini a fini di accertamento, agisce come organo di giustizia e non solo come pubblico accusatore. La “direttiva” del Pubblico Ministero pertanto, anche nei casi che ci occupano, deve essere concepita e va utilizzata per razionalizzare ed ottimizzare lo sforzo investigativo della Polizia Giudiziaria in modo che il risultato conseguito sia non solo solidamente strutturato ma anche e soprattutto garantito dal rispetto delle regole che presiedono alla raccolta degli elementi di prova, visto che onere del Pubblico Ministero è anche quello di accertare “fatti e circostanze a favore” dell’indagato (art. 358 c.p.p.), e quindi di agire, in definitiva, anche a tutela dei suoi diritti. La validità di una tale concezione discende del resto dalla previa e piena presa di coscienza che la riforma della procedura penale ha introdotto, da un lato, il principio di separazione funzionale delle fasi procedimentali ed ha, dall’altro, determinato un marcato spostamento “in avanti” del baricentro del processo penale, da sempre individuabile nella formazione della prova, posto che essa ha voluto individuare il dibattimento come luogo tendenzialmente esclusivo della sua assunzione, e che il Legislatore, per assicurare il rispetto di tale impostazione, ha previsto come nuovo strumento di garanzia, avverso la violazio- Diritto penale e processo 11/2010 ne delle norme disciplinanti l’acquisizione probatoria, la totale inutilizzabilità, rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove illegittimamente acquisite (24). Un ulteriore accento che legittima l’interpretazione finora data può trovarsi nei casi d’intersecazione di poteri e prerogative della funzione di polizia amministrativa con quella di polizia giudiziaria. La necessità di coordinamento tra le diverse funzioni di polizia è, del resto, così ben nota all’ordinamento da aver indotto il Legislatore ad introdurre l’importante norma dell’art. 220 disp. att. c.p.p., con l’evidente “attrazione” nell’ambito del procedimento penale - dunque, della giurisdizione -, e con l’applicazione dei relativi princìpi e garanzie difensive, dei casi in cui, anche se nel corso di un’attività accertativa di natura amministrativa emerga un indizio di reato, l’attività debba proseguire nel rispetto delle norme, e dunque delle regole, del codice di rito penale: «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice». Più in generale deve ritenersi che quando le attività di vigilanza “amministrativa” hanno per oggetto la verifica del rispetto di norme penalmente sanzionate - ciò che, come noto, caratterizza in via generale l’ordinamento prevenzionale del codice della strada - la loro natura giuridica è sostanzialmente quella di un’indagine penale, benché l’“ambito” in cui l’attività si svolge sia, in prima battuta, quello amministrativo, con tutto ciò che esso determina in punto di osservanza di regole e di correlata stretta sottoposizione funzionale all’A.G. Ciò implica - ed è il primo punto che ci pone a stretto contatto con il nostro tema pratico - che gli orgaNote: (23) Cfr., inoltre, nello stesso senso Cass., Sez. I, sent. dell’11 marzo 2003, n. 28979, nella quale si chiarisce: «… Tale limitazione, però, in quanto correlata con la tutela della libertà personale, non riguarda in alcun modo l’impiego di materiali che, legittimamente prelevati, non fanno più fisicamente parte della “persona” e non richiedono alcun intervento manipolatorio su di essa o, comunque, limitativo della sfera di libertà del soggetto (nel caso di specie, la polizia giudiziaria si era limitata a sequestrare tracce di saliva lasciate su un bicchiere dalla persona sottoposta ad indagini e la Corte, nell’affermare il principio riportato, ha anche escluso che nella fattispecie in esame potesse avere rilievo la circostanza che, al fine di acquisire reperti biologici, sia stata la polizia ad offrire la bevanda, in quanto nessuna disposizione di legge subordina lo svolgimento delle indagini al consenso dell’indagato, quando non si risolva in violazioni della libertà personale o di altri diritti costituzionalmente garantiti)». (24) Cfr. l’art. 191 c.p.p. 1357 Opinioni Processo penale ni accertatori abbiano una rigorosa consapevolezza del momento in cui un determinato elemento di fatto assume l’idoneità ad essere “indizio di reato”, ciò che peraltro accade piuttosto ordinariamente nelle contravvenzioni alla normativa prevenzionale sulla conduzione di veicoli, accertate e verificate, di norma, proprio nelle fasi di vigilanza amministrativa di “routine”. Problemi interpretativi sull’acquisizione del referto medico di pronto soccorso Nel processo, come la pratica ormai quotidiana insegna, hanno semplicemente ingresso i risultati ematici contenuti nella documentazione medica relativa al ricovero dell’imputato presso struttura ospedaliera in seguito ad incidente stradale occorso in occasione della commissione del reato. La Suprema Corte (25) ha più volte ha già avuto modo di affermare il principio di diritto secondo il quale, ai fini dell’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica, sono utilizzabili, nei confronti dell’imputato, i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell’incidente stradale subito in occasione della commissione del reato, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, a questi fini, la mancanza del consenso. Infatti, sempre secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio, i referti e certificati medici costituiscono documenti, acquisibili e comunque utilizzabili a norma dell’art. 234 c.p.p. (26). Schematicamente, i problemi che tali orientamenti pongono attengono: – alla stessa nozione di documento; – alle modalità ed ai tempi di formazione di quest’ultimo; – alla disciplina del segreto professionale di cui agli artt. 200 c.p.p. e ss. La nozione di documento ed i limiti alla sua qualificazione come tale I principi fondamentali che qualificano la natura di documento nel processo penale si ancorano alla principale distinzione tra documento quale “mezzo di prova documentale” e documento quale “atto interno del processo (o del procedimento penale)”, dal momento che la disciplina codicistica della prova documentale di cui all’art. 234 c.p.p. è riservata solo alle “res preesistenti” al procedimento stesso. La relazione al codice di procedura penale del 1988, 1358 del resto, è estremamente chiara in proposito e non può dare adito a dubbi interpretativi nel precisare che le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del procedimento nel quale si richiede o si dispone che essi facciano ingresso (27). Pertanto, solo se il prelievo ematico è strettamente ed inscindibilmente collegato a quelle pratiche diagnostico-terapeutiche direttamente rivolte alla correzione della manifestazione patologica acuta e se tale pratica medica è proporzionata rispetto alla patologia potremmo affermare che il risultato dell’accertamento nasce al di fuori del procedimento. Di converso se l’accertamento ematologico, seppure coerente con l’esigenza clinica, sia gravato da un non trascurabile rischio di eventi sfavorevoli, soprattutto laddove siano adottabili alternative meno invasive anche se non parimenti efficaci, la scelta di procedere comunque al prelievo non è evidentemente finalizzata al trattamento sanitario, bensì alla costituzione della prova dell’illecito e, come tale, non costituisce documento. Analogamente, lo stesso risultato si avrà nel caso di adozione di misure terapeutiche rivolte alla prevenzione di patologie solo possibilmente o probabilmente associate alla manifestazione principale. La nozione di documento ed i limiti alla sua qualificazione come tale in dipendenza del momento della sua formazione Dalle considerazioni sopra svolte non si può che essere in disaccordo con l’escamotage elaborato da cerNote: (25) Oltre alle sentenze già citate nelle note 73-78 e nel testo sopra, vedasi Cass.., Sez. IV, sent. 12 giugno 2003, n. 37442, secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza alcoolica, sono utilizzabili, nei confronti dell’imputato, i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell’incidente stradale subito in occasione della commissione del reato, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica (cartella clinica, reperti di laboratorio) e restando irrilevante, a questi fini, la mancanza del consenso (nel ricorso, l’imputato, aveva anche dedotto la violazione degli artt. 186 C.d.S. e 379 Reg. C.d.S., in relazione alle modalità di accertamento dello stato di ebbrezza alcoolica, per il mancato ricorso all’analisi dell’aria alveolare espirata). (26) Cfr. Cass., Sez. IV, del 16 gennaio 1998, n. 2270; Cass., Sez. I, del 12 gennaio 1998, n. 3259; Cass., IV, del 19 dicembre 2005, n. 6008. (27) Cfr. Squassoni, sub art. 234, in Chiavario (a cura di), Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, 646; Siracusano, La prova, in Manuale di diritto processuale penale, Milano, 1990, 438; relazione al progetto preliminare, in Le Relazioni, 452. Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale ta giurisprudenza per la quale «la polizia stradale non fa una richiesta di prelievo, ma richiede di eseguire un accertamento su un reperto già prelevato a fini sanitari, in relazione al quale ormai non si pone più una questione di libertà personale. La richiesta della polizia stradale non comporta, in effetti, una distinta ed ulteriore limitazione della libertà personale». L’ulteriore accertamento “a richiesta della P.G.” strumentalizza direttamente a fini procedimentali penali il prelievo legittimato originariamente da pratiche diagnostico-terapeutiche e, quindi, l’ulteriore richiesta d’analisi integra un atto proprio della polizia giudiziaria, compiuto attraverso un suo ausiliario (o presunto tale), ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p., ma al di fuori delle forme previste dall’art. 13 Cost. Pertanto tale escamotage è affatto diverso dall’ipotesi legittimata nella sentenza della Cass., Sez. I, del 2 novembre 2005, n. 1028, tenuto conto che la “separazione” del liquido biologico dal soggetto è avvenuta per fini diversi di quelli relativi alla prova e l’ulteriore analisi è frutto di una disposizione di accertamento (e non un rilievo) resa dalla P.G., già all’interno del procedimento penale. Inoltre, la collocazione all’interno o all’esterno del procedimento deve essere valutata con riguardo al momento in cui si assume la qualità di indagato o “indagabile”. La qualità di indagato non può essere stabilita dal giudice in via presuntiva, in quanto essa va desunta dall’iscrizione nell’apposito registro a seguito di specifica iniziativa posta in essere dal pubblico ministero (ex art. 335 c.p.p.) o da un fatto investigativo che qualifichi di per sé il soggetto come persona sottoposta ad indagini (28). La sola esecuzione di un rilievo per opera della P.G. costituisce immediatamente un “fatto investigativo” che investe il soggetto passivo del rilevo della qualità d’indagato, con consequenziale apertura del procedimento penale a suo carico. L’estensione dell’assunzione della qualità di “persona sottoposta alle indagini” a colui che si trova coinvolto in un “fatto investigativo” viene definita, da illustre dottrina (29), «una finzione giuridica operata da una lex favoris dettata dall’esigenza di ricondurre tutte le situazioni soggettive utili per l’imputato, in particolare quella facente capo al diritto di difesa, a chi a rigor di termini imputato non è ancora, ma potrebbe divenirlo in prosieguo». Tale fictio juris, ai nostri fini, determina un passaggio di rilevante conseguenza giuridica: la richiesta di “rilievo”, l’esecuzione dello stesso e la consegna alla P.G. del risultato (con tutti i dubbi interpretativi precedentemente espressi) colloca il “rilievo” stesso Diritto penale e processo 11/2010 in fase endoprocedimentale e, pertanto, in netto contrasto logico-giuridico con la nozione di “documento” che ha esclusive caratteristiche di pre-formazione al procedimento stesso. La nozione di documento ed i limiti del segreto professionale L’inutilizzabilità del referto medico attestante il tasso di alcolemia dell’imputato o la presenza di tracce metabolizzate di sostanze stupefacenti o psicotrope, può trovare ragione anche nel fatto che l’acquisizione dello stesso, per mezzo della P.G., si verifica in dispregio delle forme e dei modi previsti dall’art. 256 c.p.p., che conferisce una forma privilegiata di tutela ai documenti contenenti informazioni sanitarie di carattere personale, di natura riservata e coperte dal segreto professionale, le quali possono essere acquisite solo dall’Autorità giudiziaria mediante provvedimento di richiesta di esibizione. Non condivisibile, in primo luogo è l’affermazione che «le disposizioni relative alla tutela del segreto professionale sono poste a garanzia della libertà del professionista, del dovere dello stesso alla prestazione della propria opera e di quello necessariamente complementare della riservatezza, di tal che determinano una posizione di garanzia in capo allo stesso professionista e non già una forma di tutela privilegiata degli atti dallo stesso compiuti nell’esercizio dell’attività professionale» (30). Tale opinione risulta contraddetta, in primo luogo, da una precedente sentenza della Suprema Corte che condiziona espressamente la necessità di ricorrere alle procedure di cui all’art. 256 c.p.p. «(in presenza) di formale opposizione del segreto…professionale alla richiesta di documentazione» (31). Pertanto la scelta (libera) di opporre il segreto professionale, per il sanitario, è correttamente collegata a garanzia della libertà del professionista, al dovere dello stesso alla prestazione della propria opera e a quello necessariamente complementare della riservatezza ma non ad esclusiva tutela del professionista bensì alla funzione di cura, soccorso ed attività medica da lui svolta nei confronti di un soggetto, a prescindere dalla natura del fatto che lo ha portato a sottoporsi alle cure mediche. Note: (28) Cfr. Cass., Sez. I, sent. n. 24279 del 2003. (29) Cfr. Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Diritto processuale penale, Milano, 2006.. (30) Cfr. Cass., Sez. IV, sent. del 16 gennaio 1998, n. 2270, in Arch. della nuova proc. pen., 1998, n. 2, 221. (31) Cfr. Cass., Sez. II, 23 aprile 1997, n. 144. 1359 Opinioni Processo penale La ratio della norma di cui all’art. 256 c.p.p., a parere di chi scrive, trova espressione nel rigoroso rispetto del criterio di proporzionalità tra il contenuto del provvedimento ablativo di cui il professionista è destinatario e le esigenze di accertamento dei fatti oggetto delle indagini, evitando quanto più è possibile indiscriminati interventi invasivi nella sua sfera professionale. Una ricerca incontrollata delle fonti di prova da parte della sola Polizia Giudiziaria rischia di dare luogo ad un sostanziale aggiramento del principio di cui all’art. 200, comma 3, c.p.p. e della disciplina di cui al successivo art. 256 c.p.p. Le stesse norme permissive che si riferiscono alla facoltà riconosciuta al medico di astenersi dal testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale (art. 351 c.p.p.), tanto nel processo penale quanto nelle cause civili, rafforzano la convinzione che l’atto di apprensione materiale del risultato del “rilievo” di P.G. non può che essere giurisdizionalizzato mediante l’intervento diretto dell’Autorità Giudiziaria, ossia - in fase d’indagine preliminare - del Pubblico Ministero. Si ricordi che l’astenersi dalla testimonianza costituisce un diritto ma non un obbligo del sanitario, il quale è pertanto libero di decidere se rendere o non rendere la deposizione, valutandone l’opportunità secondo le circostanze e assumendone la responsabilità. Solo l’Autorità Giudiziaria può, a sua volta, imporre, con ordinanza, la deposizione del medico, ma, a parte ciò, la regola deontologica espressamente richiamata nell’art. 13 del codice deontologico è quella di non deporre mai su argomenti coperti dal segreto professionale. Pertanto l’assenza dell’intervento diretto dell’Autorità Giudiziaria (imposto da una fonte di legge primaria) potrebbe, paradossalmente, esporre lo stesso sanitario a conseguenze di natura penale ed amministrativa. In particolare, se possiamo escludere, nella fattispecie, la contestazione del reato di cui all’art. 622 c.p. (32), diversamente, più problematica è l’individuazione della cd. “giusta causa di rivelazione” che scrimina gli altri comportamenti del sanitario tenuto al segreto professionale. La dottrina oscilla tra due interpretazioni. La prima considera giusta causa una formula riassuntiva attraverso la quale vengono richiamate tutte le cause di esclusione della punibilità già previste dalla legge, e precisamente tutte le scriminanti (ad esempio, consenso dell’avente diritto; stato di necessità; adempimento di un dovere), le norme imperative che fanno obbligo di rivelare (ad esempio, le denunce obbligatorie) e le norme permissive (quali, ad esempio, il diritto di astenersi dal testimoniare). 1360 La seconda considera tautologica una tale interpretazione del concetto di giusta causa e quindi gli attribuisce una valenza più ampia consentendogli di recepire, oltre che alle cause di esclusione della punibilità come sopra descritte, anche diversi apprezzamenti etico-sociali, che siano veramente meritevoli di tutela, alla cui stregua la rivelazione del segreto, se pur autorizzata esplicitamente dal diritto, possa tuttavia considerarsi giusta. In ogni caso, e qualsiasi delle due interpretazioni si scelga di seguire, i criteri da utilizzarsi in concreto per individuare il contenuto della giusta causa sono essenzialmente due: il bilanciamento degli interessi e l’adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo. Nel primo caso tra i due o più interessi in gioco viene effettuato un bilanciamento che si risolve a favore di quello che viene ritenuto prevalente nella coscienza etica e sociale, giuridicamente recepita; nel secondo caso si tiene conto dell’adeguatezza, o meno, degli strumenti a disposizione alternativi alla rivelazione del segreto e si ricorre alla rivelazione solo come extrema ratio (33). Fermi questi principi, l’accompagnamento “strumentale” (ovvero a fini di raccolta della prova di reato) da parte della Polizia Giudiziaria presso una struttura sanitaria dell’“indagato” per fatti di cui all’art. 186-187 C.d.S., in assenza di un intervento diretto dell’Autorità Giudiziaria, potrebbe, in primo luogo, non scriminare la rivelazione del segreto d’ufficio del sanitario per “adempimento di un dovere” ai sensi dell’art. 51 c.p. A ciò contrasterebbe la lettura, in combinato-disposto, degli artt. 124 c.p.p. e 113 disp. att. c.p.p. Invero l’art. 124, obbligando «…gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria ... a osservare le norme di questo codice», impone a questi ultimi di riferirsi necessariamente, nella assoluta maggioranza dei casi, a quanto disposto in primis dall’art. 256 c.p.p. «(in presenza) di formale opposizione del segreto…professionale alla richiesta di documentazione», Note: (32) L’art. 622 c.p. sanziona la violazione del segreto professionale, cioè del segreto appreso «in ragione del proprio stato, o ufficio, o della propria professione od arte». Si tratta di un delitto punibile a querela della persona offesa che ha come soggetto attivo “chiunque” (e quindi anche il professionista sanitario), e che prevede una condotta che si concretizza in una rivelazione senza giusta causa, ovvero in un impiego a proprio, o altrui profitto, della informazione coperta dal segreto. La condotta è punita se dal fatto può derivare nocumento. (33) Cfr. Simeoni-Serpelloni-Crestoni-Spiniello-Montisci, Segreto professionale e diritto alla riservatezza - Sezione di Screening HIV - Sert 1 - ULSS 20 Verona - Centro Operaivo Aids - Ministero della Sanità - Centre of Behavioural and Forensic Toxicology Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni - Università degli Studi di Padova. Diritto penale e processo 11/2010 Opinioni Processo penale in secondo luogo, come già chiarito, dall’art. 220 disp. att. e, in via assolutamente prioritaria, dal combinato-disposto tra l’art. 354, comma 3, c.p.p. e l’art. 349 bis c.p.p. con l’attivazione delle garanzie difensive, e, prima di tutto, con l’informativa immediata al P.M. che, assumendo la direzione delle indagini a fini di accertamento, agisce (giova ribadirlo) come organo di giustizia e non solo come pubblico accusatore. Inoltre, l’art. 113 disp. att. pone un ulteriore limite all’attività “autonoma” della P.G., posto che la norma legittima l’esecuzione degli atti «previsti dagli artt. 352 e 354 commi 2° e 3… anche da agenti di p.g.». A prescindere dall’estensione “agli agenti” di cui alla norma, gli “accertamenti urgenti … sulle persone” di cui all’art. 354, comma 2 difficilmente, nelle fattispecie di cui agli artt. 186-187 C.d.S., possono assumere reali caratteristiche di “particolare necessità ed urgenza” da impedire, in radice, l’intervento dell’autorità giudiziaria per l’esecuzione degli incombenti istruttori e legittimare, addirittura, anche i soli “agenti” all’esecuzione degli stessi (34). L’analisi non superficiale dell’art. 326 c.p.p. rafforza la funzione “servente” della P.G.; l’articolo specifica la finalità delle indagini preliminari stabilendo che «il PM e la PG svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale». Ciò significa, ai nostri fini, che qualsiasi rilievo eseguito nel corso delle indagini preliminari è unicamente finalizzato ad acquisire elementi di prova così da consentire al PM di determinarsi in merito all’esercizio dell’azione penale (accertamento) o all’archiviazione, posto che ex art. 326, che rinvia all’art. 358, le indagini comprendono anche gli accertamenti su fatti e sulle circostanze in favore dell’indagato. Contrasto tra il diritto al silenzio e l’incriminabilità per rifiuto a sottoporsi ad esami clinici Nell’ottica dell’accertamento del reato in ambito giudiziario penale, spesso si manifestano forti contrapposizioni laddove si evidenzia l’esigenza di realizzare opportune e puntuali investigazioni direttamente sulla persona dell’indagato o dell’imputato, quando egli si trovi in posizione di soggezione rispetto all’organo giudiziario. Abbiamo già notato come alcune interpretazioni giurisprudenziali hanno grandemente dilatato le maglie dell’attività investigativa della polizia giudiziaria, le quali sono sostanzialmente da ricondurre a due prospettive complementari fra loro: sotto il primo profilo, si evidenzia che la polizia giudiziaria è affran- Diritto penale e processo 11/2010 cata da compiti ausiliari al procedimento, sotto il secondo profilo, viene sensibilmente intensificato e reso più forte il ruolo investigativo che le appartiene, in favor delle esigenze di difesa sociale, a scapito, però, dell’effettività delle garanzie concernenti i diritti fondamentali enucleati dalla Costituzione; logica conseguenza è che laddove si accresce la sovranità di indagine si accresce pesantemente la vulnerabilità dei diritti e delle tutele previste dall’ordinamento. Le principali problematiche ravvisate sul punto si sono storicamente riferite alla necessità di rendere conciliabili gli atti di indagine con il presidio di garanzia della libertà personale, nonché del diritto dell’indagato o imputato a mantenere un comportamento “non collaborativo”. Non essendovi dubbio alcuno che egli possa vantare il diritto, processualmente e costituzionalmente garantito, di non rendere alcuna dichiarazione, ci si è chiesti se analogo diritto possa ritenersi operante per ciò che concerne gli apporti di altra natura, come quelli aventi ad oggetto direttamente la sua persona. Parte della dottrina (35) sembrerebbe rispondere positivamente al quesito, ritenendo che i diritti dell’accusato coinvolgono non solo quello di non rispondere alle domande formulate e, pertanto, di non rendere propalazioni dalle quali possano affiorare eventuali responsabilità a suo carico, ma anche quello di non offrire cose o documenti a supporto dell’accusa. Anche per i prelevamenti di materiale biologico pertanto, si potrebbe validamente ipotizzare la necessità del consenso, e quindi dell’atteggiamento collaborativo dell’accusato, a prescindere dalla tipologia di attività effettuata (invasiva o meno) per conseguire il reperto preteso dall’autorità investigativa. Vi è da dire, tuttavia, che, seppure l’indagato possa decidere autonomamente se collaborare o meno all’accertamento del reato, non si potrà escludere che una sua eventuale condotta volta a intralciare ingiustificatamente le indagini possa essere considerata quale vero e proprio elemento indiziario che, in presenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, potrà anche concorrere a rafforzare un’eventuale pronunciamento di condanna. Tuttavia si può comunque notare che l’indagato del reato può divenire oggetto di accertamento nel momento in cui partecipi ad un’attività investigativa ovNote: (34) Questa ultima interpretazione trova diretto riscontro in Cass., Sez. VI, 20 settembre 1999. (35) Cfr. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2006, 611; Ubertis, Attività investigativa e prelievo di campioni biologici, in Cass. pen., 2008, 6 ss. 1361 Opinioni Processo penale vero probatoria sic et simpliciter come mera realtà fisica. In altre parole, trattasi di ipotesi in cui la persona è protagonista dell’attività procedimentale effettuata da soggetti pubblici (organo inquirente o p.g.) senza però avere una partecipazione attiva, vocale o gestuale; il corpo umano vivente diviene strumento ed oggetto allo stesso tempo di “Beweisermittlungsverfahren” (ricerca della prova) a prescindere da qualsivoglia cooperazione, contributo dell’interessato il quale, se non occorre una concreta sua attivazione “corporale” per lo svolgimento dell’indagine, non ha alcun mezzo ed anche fosse non ha facoltà alcuna di ostacolare l’emergere di elementi di prova espunti dal proprio organismo. Soggetto, dunque, che diviene “oggetto di prova” qualora l’accertamento non richieda partecipazione attiva di esso, per cui l’imputato è titolare di una situazione giuridica soggettiva inquadrabile come soggezione, quale si identifica la condizione di colui che di fatto subisce passivamente le conseguenze di un legittimo atto coercitivo e, come tale, rientrante sotto l’egida della tutela prevista dall’art. 13 Cost. (libertà personale); a contraris, il soggetto de quo diviene “organo di prova” qualora offra spontaneamente il proprio contributo probatorio, il quale non è coercibile, e renda dichiarazioni svolgendo un’attività inerente al concetto di autodifesa: l’imputato, infatti, può decidere di non collaborare esercitando il diritto al silenzio o negando il proprio consenso ad atti condizionati ad esso, se solo si pensa in piccolo alla perizia ematologica (36). Il procedimento concernente l’acquisizione e la repertazione di materiale biologico si scompone in plurime fasi, ognuna delle quali, avendo una propria peculiarità dal punto di vista processuale, comporta di necessità, sul piano normativo, una regolamentazione espressa e dettagliata attualmente carente soprattutto nelle tecniche acquisitive e di repertazione utilizzate ante processum. In tale articolato ventaglio di attività, chiara risulta essere la necessità di elevata competenza specialistica degli operatori chiamati a svolgere le attività che ciascuna fase richiede, come altrettanto palese è l’esigenza di un equilibrio normativo tra la necessità di un accertamento attendibile e quella di fornire le opportune garanzie per il soggetto passivo di investigazione scientifica. Di fatto, la laboriosità dell’indagine ematologica si riverbera sull’inquadramento giuridico della stessa, in riferimento alle attività del procedimento penale in cui si immette, ed anche, con riguardo alla legittimazione e ai poteri dei soggetti che eseguono le attività de quibus, in considerazione del leit motiv del 1362 tema in disamina, fondato dall’esigenza di tutele effettive dei valori fondamentali stimati dalla Costituzione ma più elasticamente da una società democratica e riguardanti l’essere umano. A tal punto, sembra essenziale un’osservazione in ordine alle attività di ricerca probatoria. L’accertamento in cui si esprime l’indagine scientifica “patisce” per così dire di talune variabili che riguardano l’attività espletata, ci si riferisce sostanzialmente alla ripetibilità o irripetibilità degli atti eseguiti, alla potenziale urgenza della stessa ed alla fase in cui talune attività vengono disposte; sans doute sia l’attività prettamente inerente la raccolta di tutto il materiale qualificabile come organico, sia il prelievo di materiale biologico sul corpo umano, in particolare sull’interessato, richiedono una competenza particolarmente qualificata da parte degli addetti a tale tipo di attività. In tale mondo “investigativo” sembra propizio un cauto e prudente realismo che crudamente e purtroppo privilegia - rispetto ad argomentazioni eleganti, delicate e raffinate nella ricerca, in mancanza di regolamentazione e di adeguamento ai principi europei sul tema, in quanto tali argomentazioni astratte e per questo da isolare - il favor ai profili meramente tecnici che considerano ed hanno come obbiettivo la ricerca ed acquisizione della prova. L’intero meccanismo procedurale si muove esclusivamente in un balletto dove si alternano l’esigenza del preventivo consenso, segno di civiltà, e la coazione autorizzata ex ante. Se dunque non può essere disinvoltamente - in materia - trascurato che il consenso dell’interessato non solo permette di effettuare legittimi prelievi di materiale biologico ma, allo stato, sembra l’unica condizione in grado di garantire con estrema certezza l’esatta riferibilità del reperto all’indagato ed oltre, la genuinità dello stesso; se ancora considerevolmente dubbia si palesa l’utilizzazione processuale dei risultati delle operazioni di “accertamento” effettuate dalla p.g. e non dall’Autorità Giudiziaria, dunque la soluzione più ragionevole per assicurare in sede processuale i risultati di tale prova scientifica è il percorso obbligato della procedura dell’incidente probatorio, previo contraddittorio ex art. 189, comma 1, c.p.p. “sulle modalità di assunzione della prova” (c.d. prova atipica). Nota: (36) Sul punto v. Felicioni, Considerazioni sugli accertamenti coattivi nel processo penale, in Ind. pen., 1999, 502. Diritto penale e processo 11/2010