LA TUTELA DELLA FAUNA SELVATICA CAPITOLO PRIMO LA FAUNA SELVATICA SOMMARIO: Capitolo primo. La fauna selvatica. – 1. In generale. – 2. La fauna nazionale. – 2.1. La cattività. – 3. Regime giuridico. – Capitolo secondo. Profili penalistici. - 1. I delitti venatorii. – 2. Le contravvenzioni. – 3. La tutela penale commerciale. – 4. Error, ignorantia, onus probandi. – Capitolo terzo. Aspetti civili. - 1. La responsabilità civile in generale. – 2. Danno alla fauna. – 2.1. Fauna selvatica e ambiente. – 2.2. Legittimazione attiva e criteri di quantificazione del danno. – 2.3. Il danno alla fauna selvatica quale danno all’ambiente. – 2.3.1. Danno all’esemplare e danno alla fauna. Coincidenza. – 2.3.2. La risarcibilità del danno all’ambiente. – 2.3.2.1. Il danno da reato ambientale. – 2.3.2.2. Gli interessi diffusi. – 2.3.2.3. Il danno non patrimoniale. – 2.3.2.4. Profili di risarcibilità del danno ambientale non derivante da reato. – 2.3.2.5. Criteri di quantificazione del danno ambientale. La restitutio in integrum. – 3. I danni cagionati dalla fauna selvatica. – 3.1. I soggetti obbligati al risarcimento. – 3.2. I privati titolari del potere-dovere di gestione della fauna selvatica. 1. In generale. Legislazione c.c. 842, 923 – l. caccia – r.d. 5.6.1939 n. 1016 – l. 11.2.1992 n. 157. Le strategie legislative di tutela della sopravvivenza della fauna selvatica muovono, tradizionalmente, dall’individuazione di specifiche specie animali sottratte, in tutto o in parte, al libero esercizio dell’attività venatoria. Il primo testo legislativo in uso in età repubblicana – ma promulgato in precedenza –, il r.d. 5.6.1939, n. 1016, testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e l’esercizio della caccia, individuava quale oggetto dei diversi regimi di tutela ivi previsti la “selvaggina”, distinta in selvaggina ordinaria, selvaggina stanziale protetta e selvaggina assolutamente protetta (artt. 1, 2, 3, 38). La categorizzazione dei tre tipi di selvaggina procedeva attraverso la pedissequa indicazione di ciascuna specie animale legislativamente ricompresa sotto l’uno o l’altro genere. Per ciascuna categoria di selvaggina erano previste speciali restrizioni all’esercizio dell’attività venatoria, caccia e uccellagione, tutelate da sanzioni penali. Eccezioni erano previste per le bandite, le zone di ripopolamento e cattura, le riserve (artt. 43 – 67 bis). Le modalità di caccia ed uccellagione subivano ulteriori limitazioni finalizzate a non ledere gli interessi di privati imprenditori, a non turbare il possesso dei fondi da parte dei proprietari, a non porre in pericolo la pubblica incolumità e l’ordinato svolgimento della vita lavorativa (artt. 16 – 42). Fino all’emanazione della l. caccia, nel 1977, l’imposizione di limitazioni di natura pubblicistica all’esercizio dell’attività venatoria nei confronti delle specie animali protette fu l’unico reale strumento di tutela della fauna selvatica. Tutti gli animali selvatici restavano, per quanto non previsto dalla normativa vincolistica, proprietà privata del proprietario del fondo oppure di colui che, nel rispetto della vigente legislazione in materia di caccia, se ne fosse impossessato. Tale 1 impossessamento determinava l’occupazione dell’animale e pertanto – essendo l’occupazione un mezzo di acquisto a titolo originario della proprietà – la costituzione in capo all’occupante della proprietà della selvaggina legittimamente catturata (artt. 842 e 923 c.c.). La promulgazione della l. caccia determinò una rivoluzione copernicana nel concetto di tutela statuale della fauna selvatica, con la costituzione ope legis, in capo alla Repubblica, del diritto di proprietà sulla fauna selvatica esistente sul territorio nazionale. La conseguenza immediata fu la configurazione del delitto di furto venatorio, commesso da chiunque, esercitando attività venatoria al di fuori dei limiti di legge, si impossessasse al fine di trarne profitto di esemplari di fauna selvatica, sottraendoli al proprietario – la Repubblica – che li deteneva (Cass. 7310/91, Cass. 10780/90, Cass. 9526/90, Cass. 8182/90, Cass. 11947/89, Cass. 4772/89, Cass. 313/89, Cass. 20/89, e molte altre precedenti e conformi). L’intera materia è stata riordinata dalla vigente l. 11.2.1992 n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio. La l. 11.2.1992, n. 157 qualifica come fauna selvatica oggetto della tutela legislativa (art. 2) le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale. Sottopone a speciale protezione alcune specie di animali pedissequamente elencate nonché tutte le altre specie animali che vengano – anche successivamente – qualificate da direttive comunitarie, convenzioni internazionali o apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri come minacciate di estinzione. Esclude dalla tutela le talpe, i ratti, i topi propriamente detti e le arvicole. La tipologia di specie animali individuata dal Legislatore per la sottoposizione a tutela evidenzia l’intento legislativo di sviluppare un regime vincolistico di “doppio binario”, che preveda un regime di tutela sia per la fauna selvatica nazionale non a rischio di estinzione sia, ma con maggiore rigore sanzionatorio, un regime di tutela per la fauna selvatica nazionale a rischio di estinzione. L’utilizzo, da parte del Legislatore, dell’aggettivo “altre” per indicare alla lett. c) dell’art. 2 le specie a rischio di estinzione indicate da fonti esterne al dettato legislativo consente di ritenere senza alcun dubbio che nell’intenzione legislativa debbano ritenersi qualificate come minacciate da estinzione – e per questo soggette a speciale tutela sotto il profilo sanzionatorio – anche le specie elencate nelle lett. a) – mammiferi – e b) – uccelli – del medesimo art. 2. Al fine di individuare con certezza l’oggetto della tutela è pertanto necessario comprendere quale esatto significato ermeneutico vada attribuito all’espressione “specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale” adottata dall’art. 2 come descrizione della fauna oggetto di tutela. 2 2. La fauna nazionale. Legislazione l. 11.2.1992 n. 157 2; 17. Prima questione ermeneutica che si pone all’attenzione dell’interprete è costituita dall’individuazione del concetto giuridico di relazione di stabile o temporanea vita in libertà delle specie animali sul territorio dello Stato. La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha percorso due linee ermeneutiche, dapprima oscillando e poi attestandosi, in data più recente, su una interpretazione letterale e restrittiva. Presupposto imprescindibile della tutela accordata dalla legge n. 157 del 1992 alla fauna selvatica e' il requisito della nazionalita', cioe' la sua relazione naturale con il territorio italiano, per effetto della quale la specie animale diventa patrimonio indisponibile dello Stato italiano e bene ambientale della comunita' nazionale. Ne consegue che non gode di tale tutela, ma, se del caso, di quella accordata dalla convenzione di Washington del 3 marzo 1973, la fauna introdotta nel territorio dello Stato per la via commerciale dell’importazione. (Cass. 17.8.1993, n. 1013, MCP, riv. 194477). La Suprema Corte privilegia dunque, ai fini dell’applicazione della tutela, il carattere della naturale relazione della fauna protetta con il territorio della Repubblica, escludendo ogni esemplare che, pur introdotto nel territorio medesimo, sia in relazione con il territorio di altri Stati. L'oggetto sostanziale della tutela della legge 11 febbraio 1992 n. 157 non e' la sola fauna selvatica vivente in stato di materiale liberta' nel territorio nazionale, ma la fauna selvatica in generale ovunque esistente, onde il divieto di commercializzazione della fauna selvatica in violazione della citata legge - divieto sanzionato dall'art. 30 lett. l) stessa legge - si riferisce in via generale ed assoluta alla fauna selvatica che riceve protezione giuridica in Italia, a prescindere dalla provenienza. Ed invero, il riferimento alla tutela, limitata alla fauna esistente sul territorio nazionale, contenuto nell'art. 2, prima parte, di detta legge, va inteso quale ordinaria affermazione della possibilita' di legittimita' degli atti di apprensione (caccia), non potendosi tali atti di regolamentazione estendere alla fauna vivente all'estero, sulla quale lo Stato non puo' vantare il "dominium". (Cass. 8.3.1994, n. 534, MCP, riv. 196808). La tesi giurisprudenziale maggiormente estensiva tende a riconoscere tutela alla fauna selvatica comunque vivente in istato di naturale libertà sul territorio della Repubblica, indipendentemente dalla provenienza e dall’originaria relazione naturale con territori esteri. La fauna selvatica oggetto di tutela da parte della legge n. 157 del 1992, purche' appartenente al patrimonio dello Stato, e' costituita esclusivamente da quelle specie di animali (mammiferi e uccelli) delle quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale liberta' nel territorio nazionale, e cio' fino a quando tale vincolo permanga, perche', cessato questo, non si rende ulteriormente esercitabile il dominio, per essere la cosa uscita dalla sfera di appartenenza dello Stato stesso. Ne consegue che il divieto di commercializzazione o di detenzione a fini di commercio previsto dall'art. 21 lett. bb) - della citata legge n. 157 del 1992 si riferisce esclusivamente 3 agli uccelli, loro parti o prodotti, cacciati o catturati nel territorio nazionale e non anche a quelli importati dall'estero. (Cass. 28.12.1994, n. 25, MCP, riv. 199390). L’evoluzione giurisprudenziale sottolinea la centralità, per l’applicazione della tutela, non solo della relazione della fauna con il territorio, ma anche, sotto il profilo strettamente giuridico, della attualità del vincolo territoriale medesimo, che costituisce il motivo di sussistenza del dominium statale che consente allo Stato di esercitare la tutela in parola. La fauna selvatica protetta dalla legge 11 febbraio 1992 n. 157, purche' appartenente al patrimonio dello Stato, e' solo quella appartenente a specie delle quali esistono popolazioni viventi, anche a carattere temporaneo, in stato di naturale liberta' sul territorio nazionale. Ne consegue che il divieto di commercializzazione o detenzione a fini di commercio, previsto dall'art.21 lett.bb) della legge 157/1992, si riferisce esclusivamente ad animali prodotti, cacciati o catturati nel territorio nazionale, e non anche a quelli importati dall’estero. (Cass. 5.2.1998, n. 3932, MCP, riv. 209826). L’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità è frutto di interpretazione senz’altro letterale e restrittiva del dettato normativo, conformemente alla previsione posta dall’art. 12 c.c. Deve pertanto ritenersi che la disciplina positiva vada ricostruita nel senso dell’esclusione dalla tutela legislativa della l. 11.2.1992, n. 157 delle specie animali importate dall’estero e non liberamente viventi nel territorio italiano. Tuttavia anche l’orientamentamento minoritario appare meritevole di particolare attenzione nell’ottica di una moderna interpretazione del testo normativo vigente. Ed in effetti, non può non sottolinearsi come l’ampia intenzione legislativa, contenuta nell’art. 2, di attribuire tutela statuale anche a specie animali indicate da fonti di diritto internazionale – le convenzioni internazionali a cui espressamente rinvia il Legislatore –, e pertanto a specie anche non etologicamente connesse con il patrimonio faunistico nazionale, purché in via di estinzione, riveli un anelito legislativo di ampio respiro, inteso alla tutela della fauna selvatica piuttosto come patrimonio della comunità mondiale temporaneamente vivente nel territorio della Repubblica, che come connotato faunistico del patrimonio immobile, animale e vegetale, della Repubblica e connotato dell’identità nazionale. In tal senso depongono alcune considerazioni circa il dettato dell’art. 2. Nell’introdurre l’elencazione delle specie protette perché minacciate da estinzione il testo normativo recita “sono particolarmente protette, anche sotto il profilo sanzionatorio, le seguenti specie”. Il fatto che le specie elencate alle successive lett. a) e b) costituiscano parte del patrimonio faunistico nazionale, in quanto viventi in libertà nel territorio italiano, ha di fatto reso sinora superflua la discussione giuridica circa la necessità di coordinamento ermeneutico con la successiva lett. c). Se infatti si intende interpretare restrittivamente il dettato normativo, deve prendersi atto che le specie animali indicate alle lett. a), b) e c) sono “particolarmente protette”, godono cioè di maggiore tutela rispetto a quella “generale” attribuita alle specie non in via di estinzione. Ma 4 nessun dato normativo positivo – se non il mero fatto della pedissequa elencazione – esclude la necessità, anche per queste specie, del requisito, che appunto ha natura “generale”, dell’appartenenza a popolazioni viventi liberamente sul territorio nazionale. Ciò significa che, restrittivamente interpretando la norma, le specie indicate alle lett. a), b) e c) intanto sono soggette a tutela in quanto comunque appartenenti a popolazioni viventi in istato di libertà sul territorio nazionale. Aderendo a tale ricostruzione, si ridurrebbe per via ermeneutica l’àmbito oggettivo della tutela posta dalla lett. c) la quale, riferendosi espressamente a specie animali individuate da convenzioni internazionali, dovrebbe ricomprendere anche specie animali esistenti, ad esempio, solo nel lontano oriente o nell’Africa profonda; tali specie, pure contemplate da convenzioni internazionali verrebbero escluse dalla tutela nel territorio nazionale italiano perché non appartenenti a popolazioni viventi in istato di naturale libertà su di esso. Interpretando invece la norma in senso maggiormente ampio, potrebbe ritenersi che il Legislatore abbia inteso, con la predisposizione della doppia tutela, prevedere che siano sottoposte a protezione tutte le specie animali, in generale, viventi in istato di libertà nel territorio nazionale, ed inoltre, indipendentemente dallo stato e dal territorio, le specie faunistiche indicate alle lett. a), b), e c). In tal senso potrebbe interpretarsi una sentenza della Suprema Corte, che affronta incidentalmente la questione. Il concetto di fauna selvatica e' riferito dalla legge 11 febbraio 1992, n.157 alle "specie", intese come categorie generali, di mammiferi ed uccelli, dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente, in stato di naturale liberta', sul territorio nazionale. Oggetto di "particolare" protezione, ai sensi dell'art.2, seconda parte, della citata Legge n.157 del 1992, sono alcune specie di mammiferi ed uccelli, espressamente indicate, nonche' tutte le altre specie di mammiferi "minacciate di estinzione" in base alla normativa comunitaria ed internazionale specificamente richiamata: per queste categorie esiste un divieto assoluto ed incondizionato di abbattimento, cattura e detenzione ex art. 30 lett. B) stessa legge, senza che possa essere eccepita la provenienza da allevamento. (Cass. 22.7.1997, n. 7159, MCP, riv. 208961). A supporto di tale orientamento esegetico soccorre un argomento logico. Vero è che le specie in via di estinzione vanno specialmente protette, ma è pur vero che la tutela della fauna selvatica non in via di estinzione è la prima strategia a disposizione dell’uomo per evitare che il rischio di estinzione giunga ad interessare specie ancora fiorenti e diffuse. Se pertanto il Legislatore ha inteso travalicare gli àmbiti nazionali nell’individuazione delle specie da tutelare dal rischio di estinzione, potrebbe non esser peregrino ritenere che anche altre specie faunistiche, non etologicamente connesse con il territorio nazionale ma in esso nondimeno viventi in istato di libertà a séguito di introduzione per opera dell’uomo, possano ritenersi oggetto di tutela. 5 2.1. La cattività. Legislazione l. 11.2.1992 n. 157 2; 17. Ulteriore questione ermeneutica si pone circa il significato dello stato di naturale libertà delle popolazioni animali che il testo legislativo pone come presupposto della tutela. E’ necessario, in altri termini, comprendere se la nascita e/o la detenzione in istato di cattività dell’esemplare costituisca elemento idoneo ad escludere la medesima dalla tutela legislativa, per carenza del requisito dello status libertatis. Sul punto la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha posto un insegnamento ancora insuperato. I volatili di allevamento devono essere ricompresi nella nozione di fauna selvatica ove risultino appartenere ad una delle specie protette dalla legge-quadro 11 febbraio 1992 n. 157. In base all'art. 2 della legge, letto in coordinamento con le altre disposizioni contenute nella legge, la qualita' di fauna selvatica non viene persa per il fatto che l'esemplare sia nato o cresciuto in allevamento quando esso appartenga ad una specie vivente in stato di libertà nel territorio nazionale. (Cass. 12.12.1995, n. 12217, MCP, riv. 203914). Lo stato di cattività non esclude la relazione di naturale vita della popolazione faunistica, di cui fa parte l’esemplare, sul territorio nazionale in istato di naturale libertà. La deduzione circa la destinazione alla vendita di cardellini in conseguenza della presenza di numerose gabbie, in cui siano singolarmente contenuti, non e' destituita di fondamento e si fonda su nozioni di comune esperienza, giacche' anche per gli uccellini la possibilita' di "socializzare" in un ambiente piu' ampio e' propria del collezionista, mentre il venditore e' portato a restringere lo spazio vitale, approntando singole gabbie per una vendita piu' rapida e per consentire all'acquirente di osservare le diverse gradazioni di colore dei cardellini. Inoltre questa modalita' di detenzione non e' indicativa della nascita "in cattivita'" in assenza di ulteriori riscontri, mentre l'allevamento di fauna selvatica, che rimane tale anche se nata o temporaneamente detenuta in gabbia, giacche' occorre considerare lo stato di naturale liberta' in cui essa dovrebbe vivere sul territorio dello Stato, e' sottoposto ad autorizzazione regionale ed a particolari prescrizioni dall'art. 17 legge 11 febbraio 1992, n. 157. (Cass. 6.12.1994, n. 2950, MCP, riv. 200825). Lo stato di cattività, secondo l’interpretazione della giurisprudenza, costituisce esclusivamente una modalità imposta di nascita e/o di vita dell’esemplare di fauna, che nulla modifica circa la qualificazione di esso come appartenente alla popolazione di animali vivente in istato di libertà sul territorio nazionale, come tale destinataria della tutela legislativa. Il concetto di fauna selvatica e' riferito dalla legge 11 febbraio 1992, n.157 alle "specie", intese come categorie generali, di mammiferi ed uccelli, dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente, in stato di naturale liberta', sul territorio nazionale. Oggetto di "particolare" protezione, ai sensi dell'art.2, seconda parte, della citata Legge n.157 del 1992, sono alcune specie di mammiferi ed uccelli, espressamente indicate, nonche' tutte le altre specie di mammiferi "minacciate di estinzione" in base alla normativa comunitaria ed internazionale specificamente richiamata: per queste categorie esiste un divieto assoluto ed incondizionato di abbattimento, cattura e detenzione ex art. 30 lett. B) stessa legge, senza che possa essere eccepita la provenienza da allevamento. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso con il quale l'imputato deduceva inidonea motivazione in ordine alla circostanza della provenienza da allevamento degli 6 animali e, quindi, della carenza della natura selvatica degli stessi, la S.C., pacifico che la detenzione riguardava due specie "particolarmente protette", espressamente vietata dalla legge e sanzionata penalmente, ha osservato che "Il Pretore correttamente ha ritenuto che e' punita "la semplice detenzione degli esemplari faunistici" costituiti da cigni e volpoche e, benche' non fosse richiesto dalla normativa, ha escluso con accertamento di merito la provenienza da allevamento delle specie in questione"). (Cass. 22.7.1997, n. 7159, MCP, riv. 208961). La Suprema Corte ha inteso affermare che la tutela legislativa è attribuita a tutti gli esemplari di popolazioni che, in quanto tali, vivano liberamente sul territorio nazionale. Pertanto, al fine di escludere la tutela, non è sufficiente che il singolo esemplare sia nato o cresciuto in cattività, dal momento che la condizione particolare dei singoli esemplari animali non esclude la loro appartenenza alla popolazione, la quale di per sé vive liberamente sul territorio nazionale. Solo nei limiti previsti dall’art. 17 l. 11.2.1992, n. 157, che attribuisce alle regioni il potere di autorizzare e regolamentare l’allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale ed amatoriale, è consentito il prelievo irregimentato, da parte del titolare dell’azienda agricola esercente l’allevamento, di mammiferi ed uccelli in stato di cattività con i mezzi di cui all’art. 13, ossia con i mezzi mediante i quali la caccia è consentita. Può pertanto sostenersi che l’animale di cui sia stato autorizzato l’allevamento non cessi di fare parte della fauna selvatica, ma sia oggetto di un diverso regime di tutela qualora il titolare dell’allevamento abbia agito nel pieno rispetto delle normative regionali di autorizzazione e regolamentazione emanate in applicazione dell’art. 17 l. 11.2.1992, n. 157. Altro argomento potrebbe svolgersi nel caso in cui si ravvisasse l’esistenza di specie animali le cui intere popolazioni non vivano liberamente sul territorio nazionale e non siano importate dall’estero, ma nascano e crescano, in quanto popolazioni, in cattività. Ciò avverrebbe nel caso in cui esperimenti genetici dessero luogo alla produzione, in laboratorio, di specie animali non riconducibili direttamente ad altre specie viventi liberamente sul territorio italiano o comunque viventi in territorio estero. Nei confronti di tali nuove specie animali non sarebbe applicabile la tutela legislativa per carenza del requisito della libera vita della popolazione sul territorio nazionale. La compiuta individuazione della fauna selvatica oggetto di tutela non può prescindere dall’esame delle fonti normative alle quali la lett. c) dell’art. 2 espressamente rinvia. Sono espressamente oggetto di tutela tutte le specie indicate come a rischio di estinzione da tre fonti del diritto: le direttive comunitarie; le convenzioni internazionali; apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Deve pertanto escludersi che decreti e circolari ministeriali, leggi emanate dalle regioni ordinarie, dalle regioni a statuto speciale e dalle province autonome, regolamenti locali e consuetudini possano efficacemente indicare altre specie a rischio di 7 estinzione. Deve invece attribuirsi tale efficacia ai regolamenti comunitari, notoriamente selfexecuting, ed alle leggi dello Stato. 3. Regime giuridico. Legislazione c.c. 828 – l. 11.2.1992 n. 157 1 ; 30. L’art. 1 della l. 11.2.1992, n. 157, riprendendo e confermando il principio ispiratore della l. caccia del 1977, stabilisce che “la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”. L’affermazione legislativa in capo allo Stato del diritto di proprietà sulla fauna selvatica – individuata nei sensi sopra indicati – produce alcuni effetti giuridici ben determinati, già enucleati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla l. caccia. In tema di caccia, l'affermazione "ex lege" della proprieta' dello Stato su tutta la fauna selvatica esistente sul territorio nazionale ha determinato l'attribuzione allo stesso di una signoria sui singoli capi di selvaggina, che si esprime in una disponibilita' virtuale, sufficiente a rendere concreto il suo possesso, anche se gli animali selvatici vivono allo stato di liberta' e in zone non recintate e non sottoposte a specifica vigilanza. Ne consegue che l'uccisione di un capo di selvaggina, fuori dei casi di specifica autorizzazione o di quelli in cui lo Stato, rinunziando temporaneamente ai suoi poteri, consente la caccia, viola due diversi interessi: quello di carattere socio-politico, ricollegato al mantenimento del patrimonio ambientale, appartenente all'intera collettivita', e quello di carattere strettamente giuridico, tutelato dalle norme che, nel campo del diritto civile o di quello penale, sono preposte alla tutela della proprietà e del possesso. (Cass. 8.7.1991, n. 7310, MCP, riv. 187753). Sulla base di tale ricostruzione giuridica del rapporto tra lo Stato e la fauna selvatica, fino alla promulgazione della l. 11.2.1992, n. 157 la Suprema Corte era costantemente orientata nel ritenere che lo Stato, oltre che titolare del diritto di proprietà, fosse anche possessore e detentore dei singoli animali costituenti parte della fauna selvatica, di guisa che commetteva il delitto di furto colui che, al di fuori delle ipotesi previste di legittima apprensione di animali, si impossessava – per lo più esercitando attività venatoria – di animali costituenti parte della fauna selvatica (Cass. 12089/82, Cass. 1788/83, Cass. 4189/84, Cass. 11523/85, Cass. 1732/86, Cass. 2074/88, Cass. 9526/90; ma v. contra Cass. 1849/89). L’interpretazione giuridica fino ad allora privilegiata cessò a séguito della promulgazione degli artt. 30 co. 3 e 31 co. 5 della l. 11.2.1992 n. 157, laddove si prevede che in caso di abbattimento, cattura e detenzione di esemplari appartenenti alla fauna selvatica “non si applicano gli articoli 624, 625 e 626 del codice penale”. Il Legislatore ha pertanto ritenuto, in esercizio della propria insindacabile discrezionalità di scelta politica, di limitare la sanzione penale per la condotta di impossessamento illecito di esemplari faunistici alle previsioni dell’art. 30 della l. 11.2.1992, n. 157, escludendo ex lege la configurabilità del delitto di furto in relazione a simili comportamenti. 8 Lo Stato è pertanto proprietario, possessore e detentore ope legis della fauna selvatica. Esso regola l’esercizio del proprio diritto di proprietà e del proprio possesso consentendo a determinate condizioni l’apprensione, con conseguente acquisizione di possesso e proprietà, da parte di privati di alcuni esemplari costituenti parte del patrimonio faunistico; autolimita altresì la tutela del proprio diritto di proprietà e dei propri poteri di possessore e detentore escludendo la tutela penale ordinaria apprestata dagli artt. 624, 625 e 626 c.p. per la repressione dei reati contro il patrimonio. Sotto il profilo squisitamente civilistico, è noto come l’art. 828 c.c. stabilisca che “I beni che costituiscono il patrimonio dello Stato, delle province e dei comuni sono soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non diversamente disposto, alle regole del presente codice. I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”. La destinazione del bene patrimoniale indisponibile costituito dalla fauna selvatica è del tutto originale rispetto al concetto tradizionale di “destinazione” del bene pubblico, e deve senz’altro identificarsi nella sopravvivenza della fauna medesima. E’ probabilmente l’unico caso di bene pubblico fornito di destinazione autoreferenziale diretta, nel senso che la destinazione primaria della fauna selvatica è la preservazione di sé medesima, mentre la destinazione finale, traslata, è la conservazione del bene pubblico costituito dall’ambiente naturale e dall’ecosistema quale forma di salvaguardia del diritto alla salute costituzionalmente garantito. Primo corollario di tale inquadramento normativo è che nemmeno lo Stato stesso, in esercizio dello ius utendi, fruendi ed abutendi tipico del diritto di proprietà, può disporre degli animali costituenti parte della fauna selvatica al di fuori dei limiti e dei modi posti dalla l. 11.2.1992 n. 157. Seconda conseguenza è costituita dall’impignorabilità degli esemplari faunistici. Il pignoramento di un esemplare faunistico consisterebbe nella riduzione dello stile di vita dell’animale dallo stato di libertà allo stato di cattività, così ponendone a rischio la sopravvivenza e dunque mutandone la destinazione. Non può pertanto il privato agire esecutivamente su esemplari faunistici – che possono anche assumere notevole valore venale – per il soddisfacimento di un proprio credito nei confronti dello Stato e soprattutto non può, per questa via, costituire di fatto proprie riserve di caccia private spacciandole per beni staggiti in sede di esecuzione civile. Terzo aspetto risiede nell’astratta configurabilità guiridica dell’espropriazione per pubblica utilità finalizzata alla tutela della fauna selvatica, ed al risarcimento dei danni cagionati a terzi per l’esercizio di pubblici servizi, in assenza di espropriazione, finalizzati alla tutela medesima. In materia di espropriazione per pubblica utilità relativa a beni appartenenti al patrimonio 9 indisponibile dello Stato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno posto alcuni principi fondamentali. I beni del patrimonio indisponibile dello Stato, in quanto soddisfano ad un bisogno pubblico e sono soggetti ad una disciplina pubblica in ragione della loro destinazione, possono avere rilevanza per la qualificazione pubblica dell’opera ai fini dell’espropriazione e della previsione dell’art. 46 della legge 25.6.1865 n. 2359, sulle espropriazioni per pubblica utilità, nonostante che siano soggetti anche alla disciplina di diritto privato che non implichi sottrazione alla destinazione medesima (art. 828, capoverso, cod. civ.). Deve ritenersi applicabile ad essi, come ad ogni altra opera pubblica, il principio, secondo il quale la disposizione è estesa ai casi in cui il danno permanente derivi dall’esecuzione, dal mantenimento e dall’esercizio di un’opera pubblica, compresi in tale qualificazione l’impianto e l’esercizio di un pubblico servizio, senza che vi sia stato un procedimento di espropriazione. Tutti, invero, hanno elementi di fatto che rientrano nell’ampia previsione tipica dell’art. 46; per tutti, quindi, ricorre il fondamento razionale di tale norma, cioè che per i danni particolari e permanenti, non essendo invocabile un’esigenza sociale comune a tutti, ma anzi tale esigenza essendo soddisfatta con danno del singolo, deve essere corrisposto, per principio di giustizia distributiva, l’indennizzo. Pertanto, sono risarcibili i danni causati dall’impianto e dall’esercizio di un pubblico servizio, i quali non ne siano conseguenza normale per tutti ma, eccedendo tali limiti, siano particolari per alcuni e consistano in una lesione o perdita di utilità del bene, rilevabile alla stregua della tutela giuridica dello stesso. (Cass. SS. UU. 28.4.1961, n. 976, MCC, riv. 241238). Deve pertanto ritenersi legittima l’espropriazione per pubblica utilità disposta a fini di tutela della fauna selvatica, anche al di fuori della disciplina speciale posta dall’art. 15 l. 11.2.1992, n. 157 in materia di utilizzazione dei fondi ai fini della gestione programmata della caccia. L’art. 11 co. 6 della l. 11.2.1992, n. 157 prevede che “la fauna selvatica abbattuta durante l’esercizio venatorio nel rispetto delle disposizioni della presente legge appartiene a colui che l’ha cacciata”. Il cacciatore – non abusivo – assume pertanto, in luogo dello Stato, la qualità di proprietario, possessore e detentore della fauna legittimamente cacciata. La questione giuridica circa la natura del modo di acquisto della proprietà rappresentato dal proficuo esercizio dell’attività venatoria va risolto nel senso dell’acquisto a titolo derivativo. Se infatti è vero, dall’un lato, che nessun atto di volontà dello Stato concorre a deliberare il trasferimento di proprietà dal patrimonio statale al cacciatore – dal momento che lo Stato si limita a rinunziare al proprio diritto di proprietà sull’animale cacciato legittimamente nel momento in cui sia effettivamente abbattuto ed appreso –, di guisa che apparirebbe configurabile un modo di acquisto a titolo originario, alla stregua dell’occupazione, ammessa fino al 1977, è anche vero, dall’altro lato, che non appare configurabile l’acquisto a titolo originario della proprietà di un bene appartenente, fino alla materiale apprensione, al patrimonio indisponibile dello Stato. Ne consegue che – pure nell’oggettiva incertezza giuridica della soluzione – appare preferibile la soluzione consistente nell’individuazione dell’apprensione dell’animale cacciato come attività che determina ipso facto la transizione del diritto di proprietà, ope legis, dallo Stato al cacciatore, piuttosto che la soluzione che finisce per qualificare l’atto di apprensione medesimo come unico caso di attività del privato idonea di per sé sola ad obliterare la qualità di bene pubblico all’oggetto dell’impossessamento. 10 Conseguenza della previsione normativa in esame si è che il neo-proprietario dell’animale abbattuto è colui che l’ha cacciato ed abbattuto e non già colui che per primo lo ha appreso. Ne consegue che la condotta di colui che si impossessi di un animale cacciato da una terza persona va qualificata, a tutti gli effetti giuridici, come impossessamento di bene mobile di proprietà altrui. 11 CAPITOLO SECONDO PROFILI PENALISTICI 1. I delitti venatorii. Legislazione c.p. 624; 625; 626; 628 – l. 11.2.1992, n. 157 4; 5, 30; 31 – l. 22.11.1993 n. 473. Come diffusamente argomentato in precedenza, fino alla promulgazione della l. 11.2.1992, n. 157 la Suprema Corte era costantemente orientata nel ritenere che lo Stato, ai sensi della l. caccia, oltre che titolare del diritto di proprietà, fosse anche possessore e detentore dei singoli animali costituenti parte della fauna selvatica, di guisa che commetteva il delitto di furto colui che, al di fuori delle ipotesi previste di legittima apprensione di animali, si impossessava – per lo più esercitando attività venatoria – di animali costituenti parte della fauna selvatica (Cass. 12089/82, Cass. 1788/83, Cass. 4189/84, Cass. 11523/85, Cass. 1732/86, Cass. 2074/88, Cass. 9526/90; ma v. contra Cass. 1849/89). L’interpretazione giuridica fino ad allora privilegiata cessò a séguito della promulgazione degli artt. 30 co. 3 e 31 co. 5 della l. 11.2.1992, n. 157, laddove si prevede che in caso di abbattimento, cattura e detenzione di esemplari appartenenti alla fauna selvatica “non si applicano gli articoli 624, 625 e 626 del codice penale”. Il Legislatore ha pertanto ritenuto, in esercizio della propria insindacabile discrezionalità di scelta politica, di limitare la sanzione penale per la condotta di impossessamento illecito di esemplari faunistici alle previsioni dell’art. 30 della l. 11.2.1992, n. 157, escludendo ex lege la configurabilità del delitto di furto in relazione a simili comportamenti. L’abrogazione del delitto di furto venatorio non esclude la configurabilità di altre condotte criminose – di cui ricorrano i presupposti – anche di maggiore gravità, commesse nell’esercizio dell’attività venatoria. Un esempio è fornito dalla rapina venatoria – propria o impropria – che si configura allorché l’impossessamento dell’animale sia stato posto in essere mediante violenza o minaccia, prima o dopo l’abbattimento. In tema di caccia, l'esclusione, prevista in base ad insindacabili scelte di politica legislativa dall'art. 30, comma terzo, legge 11 febbraio 1992 n. 157 (Norma per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), dell'applicabilita' delle norme relative al furto a condotte (soggettivamente ed oggettivamente), tali da comportare, prima dell'entrata in vigore della citata legge, l'applicazione di dette norme, non esercita effetto alcuno su diverse norme penali, con speciale riferimento all'art. 628 cod. pen., non potendo dubitarsi dell'intenzione del legislatore di escludere l'inapplicabilita' delle norme penali configuranti ipotesi di particolare gravita', quali , appunto, la rapina. Tale ipotesi appare configurabile non soltanto allorche' la minaccia e o la violenza siano esercitate subito dopo la cattura (sottrazione) del capo protetto, bensi' anche (rapina propria) allorche' siano esercitate per catturare il capo protetto. 12 (Cass. 23.5.1992, n. 6231, MCP, riv. 190412). Non vi è dubbio sul fatto che il cacciatore che usasse violenza nei confronti del privato o del pubblico ufficiale per impossessarsi dell’esemplare di fauna selvatica abbattuto o catturato, commetterebbe rapina (propria o impropria a seconda delle peculiarità del fatto). Non è invece, naturalmente, configurabile come rapina la violenza tipica del cacciatore che si avvale delle armi per l’esercizio dell’attività venatoria. Tale condotta, in effetti, costituisce esercizio – per quanto illegittimo – dell’attività venatoria, che deve ritenersi sanzionato dalle norme speciali poste dall’art. 30 l. 11.2.1992, n. 157. Il riconoscimento ai cacciatori della facoltà di utilizzare richiami vivi dal combinato disposto degli artt. 4 e 5 l. 11.2.1992, n. 157 ha trovato uno specifico limite estrinseco, una vera e propria norma di chiusura, nell’emanazione della l. 22.11.1993, n. 473, di modifica dell’art. 727 c.p. (maltrattamento di animali). Il novellato art. 727 c.p. prevede la punizione – con la pena dell’ammenda – di chiunque, fra l’altro, sottoponga animali a strazio o sevizie o a comportamenti e fatiche insopportabili per le loro caratteristiche. In tale ottica, è evidente che colui che eserciti l’attività venatoria mediante richiami vivi, anche se adeguatamente autorizzato, non può sottoporre i richiami a comportamenti e fatiche per loro insopportabili, dal momento che, così facendo, incorre nella violazione del precetto penale ed è soggetto alla irrogazione della conseguente pena pecuniaria. Circa il rapporto di reciproca limitazione tra la facoltà di esercitare l’attività venatoria a mezzo di richiami vivi ed il limite posto dalla norma penale circa le modalità di trattamento degli animali che fungono da richiamo, la Suprema Corte ha adottato un orientamento costante. In tema di maltrattamento di animali (art. 727 cod. pen.), l'art. 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) prevede espressamente l'esercizio venatorio con l'uso di richiami vivi, sempre che questo non costituisca ipotesi di crudelta', eccessiva fatica o ingiustificata tortura. Dopo l'entrata in vigore della legge 22 novembre 1993, n. 473, che ha modificato l'art. 727 cod. pen., l'uso di richiami vivi e' vietato anche quando e' incompatibile con la natura dell'animale, a prescindere dalla specifica sofferenza causata. Pertanto, l'uso di gabbie per i richiami, ampiamente permesso nel vigore della pregressa disciplina, e' ora consentito solo nelle ipotesi residuali, da valutare in concreto, di compatibilita' con la natura dell'animale. (Fattispecie nella quale e' stato ritenuto integrata la contravvenzione ex art. 727 cod. pen., poiche' dieci volatili, quali richiami per la caccia, erano stati tenuti in minuscole gabbie, incompatibili con la loro natura). (Cass. 16.6.1995, n. 6903, MCP, riv. 201789). Il richiamo vivo può essere legittimamente utilizzato, dunque, in quanto richiamo, purchè le modalità di utilizzo non siano intollerabili per l’animale utilizzato. Nei confronti degli animali e' consentita ogni attivita' che non rientri in uno dei divieti specificamente dettati dalla legge 11 febbraio 1992,n.157 per la "Protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio"; quest'ultima, pero', da sola non esaurisce la tutela della fauna stessa, poiche', a seguito della successiva entrata in vigore della legge 22 novembre 1993,n.473, di modifica dell'art.727 cod.pen., la sfera di garanzia si e' notevolmente ampliata attraverso l'introduzione dell'ulteriore divieto di tenere condotte che comunque possano determinare il maltrattamento dell'animale utilizzato come richiamo o della stessa preda catturata. Pertanto e' 13 configurabile il reato di cui all'art.727 citato quando nell'esercizio della caccia siano utilizzate allodole imbracate e legate con una cordicella, alla quale venga impresso uno strattone, che le faccia sollevare in volo e, poi, ricadere bruscamente perche' trattenute dal legaccio: tale comportamento integra una sevizia, poiche' la sua ripetitivita' ossessiva viene ad incidere sull'istinto naturale dell'animale stesso, dapprima dandogli la sensazione di poter assolvere alla primaria funzione del volo ed immediatamente dopo costringendolo a ricadere dolorosamente. (Cass. 20.5.1997, n. 4703, MCP, riv. 208042). La compatibilità del sistema di utilizzo del richiamo vivo con la natura dell’animale utilizzato non si limita pertanto al mero confronto tra il profilo della sussistenza dell’animale e le modalità di utilizzo, ma si estende alle condizioni di vita dell’animale, che non deve essere esposto a sofferenze fisiche di alcun genere. La legge 11 febbraio 1992, n.157 (Protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) non esaurisce la tutela della fauna in quanto i limiti alle pratiche venatorie sono posti anche dall'art.727 cod. pen., che modificato dalla legge 22 novembre 1993, n.473, ha ampliato notevolmente la sfera di tutela degli animali attraverso il divieto di condotte atte a procurare a questi ultimi strazio, sevizie o comunque detenzioni incompatibili con la loro natura. Ne consegue che le pratiche venatorie consentite sulla base della legge n. 157 del 1992 devono essere verificate, nella loro legittimita', anche alla luce dell'art. 727, come modificato dalla legge n. 473 del 1993.(Fattispecie in cui la S.C. - in applicazione del principio di cui in massima - ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 727 cod. pen., nel caso in cui un uccello sia imbracato e trattenuto con un filo che gli consenta di levarsi in volo e di ricadere in quanto strattonato dalla fune cui e' legato, pratica consentita dalla legge n. 157 del 1992). (Cass. 25.6.1999, n. 8890, MCP, riv. 214193). 2. Le contravvenzioni. Legislazione c.p. 734 – l. 11.2.1992, n. 157 30 – l. 6.12.1991, n. 394 30. La violazione delle norme poste a presidio delle modalità e dei limiti di esercizio dell’attività venatoria è sanzionata penalmente soltanto in relazioni alle ipotesi maggiormente gravi, previste dall’art. 30 l. 11.2.1992, n. 157, restando punite con sanzioni amministrative pecuniarie le altre violazioni, previste dagli artt. 31 e 32. Le condotte penalmente rilevanti sono punite con le pene dell’arresto e/o dell’ammenda, a seconda della gravità, e vanno pertanto qualificate come contravvenzioni e non già come delitti. Ne deriva, fra l’altro, che per la configurazione del reato non è necessaria la presenza del dolo in capo all’agente, che il termine massimo di prescrizione, dal quale dipende l’estinzione del reato, è di anni tre per le condotte sanzionate con la sola ammenda e di anni quattro e mesi sei per le condotte sanzionate anche o solo con la pena dell’arresto. E’ punito con l’arresto o con l’ammenda chiunque caccia in periodo di divieto generale; chiunque abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli appartenenti a specie contemplate dall’elenco previsto dall’art. 2 o esemplari di orso, stambecco, camoscio d’Abruzzo, muflone sardo; chiunque esercita la caccia nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali, nelle riserve naturali, nelle oasi di protezione, nelle zone di ripopolamento e cattura, nei parchi e giardini 14 urbani, nei terreni adibiti ad attività sportive; chiunque esercita l’uccellagione; chiunque esercita la caccia nei giorni di silenzio venatorio; chiunque esercita la caccia sparando da autoveicoli, natanti od aeromobili; chiunque pone in commercio o detiene fauna selvatica in violazione della l. 11.2.1992, n. 157; chi esercita la tassidermia senza autorizzazione o in violazione delle prescrizioni di legge. E’ punito con la sola pena dell’ammenda chiunque abbatte, cattura o detiene esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina della quale sia vietato l’abbattimento, o mammiferi o uccelli nei cui confronti la caccia non è consentita o fringillidi in numero superiore a cinque; chiunque esercita la caccia con l’ausilio di richiami vietati. Il potere attribuito alle Regioni dall’art. 182, 4, 5, 6 della l. 11.2.1992, n. 157 di predisporre il calendario venatorio e modificare per specifiche esigenze di tutela della fauna locale i periodi di tempo in cui è legittimo l’esercizio dell’attività venatoria posti dal primo comma della medesima norma refluisce sull’applicazione del precetto penale, dal momento che sanzioni penali conseguono alla violazione dei modi, limiti e divieti alla caccia posti dagli atti amministrativi regionali. Ne consegue che il procedimento amministrativo all’esito del quale viene emesso il provvedimento amministrativo in merito di regolamentazione regionale della caccia non deve essere affetto da illegittimità, pena la sua disapplicazione incidentale da parte del giudice penale. In materia di caccia, l'omissione di un parere obbligatorio quale quello dell'Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica previsto dall'art. 18 della legge 11.2.1992 n.157, rende invalido , siccome in violazione delle regole del procedimento e violazione di legge, l'atto amministrativo con cui la Regione modifica il calendario generale di caccia, che pertanto va disapplicato incidentalmente nel procedimento penale. (Fattispecie in cui e' stata esclusa la sussistenza del reato di cui all'art. 30 lett. a) della legge 11.2.1992 n.157 atteso che, dovendosi ritenere in vigore il calendario venatorio generale, la caccia nel giorno considerato era legittima). (Cass. 10.2.1999, n. 1665, MCP, riv. 212601). Ai sensi dell’art. 30 l. 6.12.1991, n. 394 è punito con la pena dell’arresto o dell’ammenda chiunque viola il regolamento del parco naturale ed in particolare chiunque cattura, uccide, danneggia o disturba le specie animali; qualsiasi privato che introduca armi, esplosivi e qualsiasi altro mezzo distruttivo o di cattura senza esservi autorizzato. Per l’individuazione di tutti i concetti normativi sui quali si fonda la configurazione della condotta penalmente rilevante, quali il concetto di fauna selvatica, di mezzi per la caccia, di uccellagione, deve tenersi conto di quanto osservato in precedenza. Per quanto attiene alla questione giuridica circa la sopravvivenza del divieto di introduzione di armi nei parchi naturali si rinvia a quanto diffusamente argomentato in precedenza, anche in relazione alle categorie soggettive attributarie della qualità di pubblico ufficiale o comunque autorizzate a portare armi. 15 Un esempio peculiare di applicazione del divieto di introduzione armi è fornito da un caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione. Destinatari del divieto, penalmente sanzionato, di introduzione di armi in area protetta sono tutti i privati, termine con il quale si e' rappresentanti della inteso non assoggettare al divieto esclusivamente i forza pubblica. (Fattispecie concernente l'introduzione di una carabina nel Parco Nazionale del Gran Sasso ad opera di guardia particolare giurata, nominata per la vigilanza volontaria venatoria nell'ambito della provincia dell'Aquila, in relazione precisato che la vigilanza circoscritta l'ordine delle all'attivita' venatoria da alla quale la S.C. ha un lato lascia impregiudicato attribuzioni istituzionali di sorveglianza all'interno dell'area protetta, e quindi l'esclusiva attribuzione di essa al corpo forestale dello Stato e, dall'altro, non costituisce titolo per accedere con le armi in tale area). (Cass. 22.5.2000, n. 5977, MCP, riv. 216012). La guardia particolare giurata nominata per la vigilanza venatoria è tuttavia qualificabile come pubblico ufficiale. Le guardie venatorie, pur non essendo agenti di polizia giudiziaria, nell'esercizio delle loro funzioni ricoprono la veste di pubblici ufficiali poiche' esercitano poteri autoritativi e certificativi nell'ambito dell'attivita' di protezione della fauna selvatica che, in quanto patrimonio indisponibile dello Stato, attiene ad un interesse pubblico della comunita' nazionale. E' illegittimo percio' ed integra gli estremi contravvenzionali di cui all'art. 651 cod. pen il rifiuto delle proprie generalita' quando queste siano richieste da una guardia venatoria nell'esercizio dei compiti di vigilanza che le sono propri. (Cass. 23.5.1997, n. 4898, MCP, riv. 207896). Ne consegue che il divieto di introdurre armi non si riferisce soltanto ai privati, ma anche ai pubblici ufficiali che non siano specificamente autorizzati – per la loro qualità (si pensi ai rappresentanti della forza pubblica) o per speciali e contingenti autorizzazioni nei casi e nei modi previsti dalla legge – a portare armi all’interno dei parchi nazionali. L’art. 30 l. 6.12.1991, n. 394 fa poi espressamente salva l’ipotesi di violazione degli artt. 733 e 734 c.p. Il primo sanziona penalmente con l’arresto o l’ammenda chiunque distrugge, deteriora o danneggia un monumento se dal fatto deriva danno al patrimonio artistico nazionale. Il secondo sanziona penalmente con l’ammenda la condotta di chiunque, mediante costruzioni, demolizioni o in qualsiasi altro modo distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’autorità. Il primo corollario di tale richiamo è l’interpretazione autentica legislativa circa la sussistenza di un concorso formale di norme incriminatrici penali tra l’art. 30 l. 6.12.1991, n. 394 e gli artt. 733 e 734 c.p. Il legislatore ha inteso precisare che colui che ponga in essere le violazioni punite dall’art. 30 risponde delle sanzioni ivi previste, ma qualora con tali condotte, od anche con condotte ulteriori di per sé sole non sanzionate dall’art. 30, ponga in essere effettiva distruzione o alterazione delle bellezze naturali, risponde anche del reato previsto e punito dall’art. 734 c.p., da 16 qualificarsi come reato formalmente concorrente ai sensi dell’art. 811 c.p. con l’art. 30 l. 6.12.1991, n. 394. La rilevanza di tale questione in relazione alla tutela penale della fauna selvatica è resa evidente dalla giurisprudenza della Suprema Corte. In tema di distruzione o deturpamento di bellezze naturali, l'art. 734 cod. pen. adotta la tecnica del rinvio formale non ricettizio ad altra fonte, che fornisce le regole di qualificazione della distruzione o deturpamento di quella specie di beni culturali costituito dai beni ambientali. Per definire il concetto di bellezza naturale non puo' farsi esclusivo riferimento alla legge 29 giugno 1939 n. 1497 che tutela i beni paesistici quale fonte di godimento estetico, ma - alla luce dei principi costituzionali (art. 9 Cost.) - va considerato il bene ambientale unitariamente considerato. Ne deriva che la tutela fornita dall'art. 734 cod. pen. ha per oggetto le menomazioni permanenti o le distruzioni dell'ambiente, in tutte le sue componenti essenziali, ivi compresa la fauna e la flora. (Cass. 6.4.1991, n. 3892, MCP, riv. 187520). Ben può ritenersi pertanto che la tutela penale della fauna selvatica proceda anche attraverso la tutela – sia ordinaria, posta dal c.p., sia speciale, posta dalla l. 6.12.1991, n. 394 – penale dell’ambiente, del quale la fauna è considerata dal legislatore parte integrante ed essenziale. 3. La tutela penale commerciale. Legislazione l. 7.2.1992 n. 150 – l. 11.2.1992 n. 157 2; 5; 21; 30 – d.l. 12.1.1993 n. 2 conv. in l. 13.3.1993 n. 59 – convenzione di Washington 3.3.1973 ratificata con l. 19.12.1975 n. 874 – reg. CEE del Consiglio 3.12.1982 n. 3626. Per l’individuazione del contenuto dei divieti e dei concetti normativi in materia di commercio di fauna selvatica si rinvia a quanto in precedenza argomentato. Chiunque violi i divieti posti dagli artt. 1 e 2 l. 7.2.1992, n. 150 in materia di esemplari è punito con la pena dell’arresto o dell’ammenda. Chiunque violi i divieti posti dagli artt. 1 e 2 l. 7.2.1992, n. 150 in materia di oggetti è punito con sanzione amministrativa pecuniaria. Chiunque viola i divieti posti dall’art. 21 l. 11.2.1992, n. 157 in materia di commercio, vendita e detenzione per la vendita, imbalsamazione e tassidermia è punito con la pena dell’arresto o dell’ammenda ai sensi dell’art. 301 lett. l) della l. 11.2.1992 n. 157, norma già commentata in precedenza. Anche la violazione del divieto vendita di uccelli di cattura utilizzabili come richiami vivi per l’attività venatoria è sanzionata ai sensi dell’art. 301 lett. l) della l. 11.2.1992 n. 157, dovendosi ricomprendere la fattispecie nel concetto di vendita proibita di fauna selvatica. 4. Error, ignorantia, onus probandi. 17 Legislazione c.p. 5, 47. La particolare varietà di specie animali oggetto dell’esercizio dell’attività venatoria e l’articolata normativa di tutela della fauna selvatica richiede di verificare l’astratta applicabilità alle condotte penalmente rilevanti previste dalla normativa medesima dei profili di non punibilità disciplinati dall’art. 47 c.p. o dell’ignoranza inevitabile della legge. La Suprema Corte ha escluso in fatto l’applicabilità dell’errore sul fatto sottolineando la necessità, per chi esercita l’attività venatoria, di apposita preparazione tecnica pregressa al rilascio della necessaria licenza. I ghiri sono fauna selvatica e specie protetta ed e' prevista una sanzione penale per la caccia agli stessi. (Nella specie la S.C., nel rigettare il ricorso nel quale si sosteneva che il ghiro non sarebbe selvaggina o fauna selvatica e apparterrebbe alla stessa famiglia dei topi e dei ratti, animali ai quali non si applica la tutela normativa, ha ritenuto insufficiente l'errore sul fatto che costituisce reato o l'ignoranza inevitabile della legge penale, essendo l'esercizio venatorio soggetto ad abilitazione conseguibile addirittura con esame su materie tra cui la legislazione venatoria e la zoologia applicata alla caccia, con prove pratiche di riconoscimento delle specie cacciabili). (Cass. 17.10.1995, n. 10352, MCP, riv. 203157). Altra peculiarità della tutela penale della fauna selvatica è costituita dall’inversione dell’onere della prova nei confronti di colui che, còlto nell’atto di detenere fauna selvatica, dichiari che essa proviene da allevamento regolarmente autorizzato. E' possibile, per il detentore di un esemplare di fauna selvatica, dimostrarne la provenienza non illegittima, con conseguente esclusione di sua responsabilita' penale; l' "onus probandi" incombe, pero', su di lui e non sull'accusa, posto che la regola generale stabilita dall'art.21, comma 1 lett. e) Legge 11 febbraio 1992, n.157 e' quella del divieto di detenzione di esemplari di fauna selvatica. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, il Pretore, pur condividendo l'orientamento innanzi indicato e propugnato dalla difesa, aveva ritenuto - sulla base delle acquisizioni processuali - non raggiunta la prova, gravante sull'imputato, che gli esemplari di uccelli particolarmente protetti (un'aquila reale e due falchi pellegrini) da lui detenuti fossero nati ed allevati in cattivita'). (Cass. 2.10.1997, n. 8877, MCP, riv. 209368). 18 CAPITOLO TERZO ASPETTI CIVILI 1. La responsabilità civile in generale. Legislazione c.c. 2043 – l. 11.2.1992, n. 157. La violazione delle norme poste a tutela della fauna selvatica è suscettibile di cagionare danni e dunque di assumere la qualità di fonte di responsabilità civile. Del pari, la gestione amministrativa degli strumenti di tutela della fauna selvatica può determinare il verificarsi di danni risarcibili. Lo studio sistematico dell’articolato atteggiarsi della responsabilità civile connessa alla normativa posta a tutela della fauna selvatica impone la suddivisione dei temi d’indagine ermeneutica in due categorie. La prima categoria può definirsi come la materia della responsabilità civile per danni cagionati alla fauna selvatica. La seconda categoria attiene alla responsabilità civile per danni cagionati dalla fauna selvatica. 2. Danno alla fauna. Legislazione c.c. 2043 – l. 11.2.1992, n. 157 2. Ogni condotta posta in violazione della normativa di tutela della fauna selvatica è astrattamente idonea a cagionare un danno alla fauna stessa. Va premesso che la violazione della normativa, di per sé stessa, non è sufficiente a ritenere che un danno sia stato cagionato. Si ponga mente all’ipotesi in cui un cacciatore eserciti l’attività venatoria nei luoghi e nei periodi in cui essa è vietata ma non riesca a centrare alcun bersaglio o addirittura non riesca nemmeno a sparare o a installare le trappole, perché tempestivamente fermato dagli addetti alla vigilanza venatoria. In tal caso, è di tutta evidenza che violazione della normativa di tutela della fauna selvatica vi è stata, ma la fauna non ha subìto alcun danno. Il concetto di danno alla fauna selvatica va pertanto limitato alle ipotesi in cui una condotta umana, posta in essere in violazione della normativa vincolistica, abbia effettivamente arrecato un danno alla fauna. 19 Il contenuto giuridico del concetto di danno alla fauna va determinato avendo riguardo alla definizione di fauna selvatica oggetto di tutela contenuta nell’art. della l. 11.2.1992, n. 157, che qualifica come tali le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in istato di naturale libertà nel territorio nazionale, nonché alcune specie di animali pedissequamente elencate ed ogni specie sottoposta a tutela, anche successivamente, da direttive comunitarie, convenzioni internazionali o decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono esclusi dalla tutela le talpe, i ratti, i topi propriamente detti e le arvicole (cfr. capitolo primo, secondo paragrafo). Prima questione esegetica che si pone all’interprete è se il danno alla fauna selvatica debba ritenersi verificato solo allorchè la condotta vietata abbia posto in serio pericolo l’esistenza di una o più specie animali oppure anche qualora sia stato ferito, ucciso o catturato un singolo animale o un gruppo di animali insuscettibile di determinare pericolo di estinzione per la specie o le specie di appartenenza. La lettura della disciplina posta dalla l. 11.2.1992, n. 157 appare deporre senz’altro per la seconda ipotesi. La normativa, come in precedenza diffusamente argomentato, istituisce sì una speciale protezione per le specie animali a rischio di estinzione, ma in nessuna disposizione appare limitare la tutela della fauna selvatica non a rischio di estinzione al divieto di porre in essere comportamenti astrattamente idonei a porre in pericolo la sopravvivenza della specie animale. La disciplina vincolistica, al contrario, tutela la fauna selvatica in via generale, vietando ogni condotta non rispettosa delle norme di tutela – anche penalmente sanzionate – anche con riferimento alla mera cattura di un singolo esemplare. Se dunque il legislatore – pur istituendo una speciale tutela, ancor più penetrante, per le specie animali a rischio di estinzione – non ha inteso statuire soglie minime di punibilità dei comportamenti umani tenuti in violazione delle norme di tutela della fauna selvatica, deve ritenersi che la ratio legis sia improntata a proteggere il complesso della fauna selvatica nazionale mediante la specifica protezione di ogni componente di essa da condotte vietate. Non può dunque ritenersi che la cattura di un singolo animale o di un gruppo di animali, posta in essere in violazione della normativa di tutela, sia consentita sol perché tale condotta non pone concretamente in pericolo la sopravvivenza delle specie animali coinvolte, dal momento che lo spirito della legge procede attraverso il concetto per cui la salvaguardia dell’insieme tutelato è garantita dalla protezione di ogni singolo appartenente all’insieme stesso. Può dunque concludersi che nell’ottica legislativa la fauna selvatica complessivamente intesa va protetta attraverso la tutela di ciascun appartenente ad essa, sicchè il ferimento, la cattura, 20 l’uccisione, il maltrattamento anche di un singolo animale, in violazione della normativa di tutela, cagiona danno alla fauna selvatica, indipendentemente dalla sussistenza o no di un pericolo per la sopravvivenza delle specie faunistiche di appartenenza. E’ necessario ora verificare se tale danno sia fonte di responsabilità civile, se sia cioè un danno risarcibile. 2.1. Fauna selvatica e ambiente. Legislazione Cost. 117 – c.c. 828 – l. 11.2.1992, n. 157 1; 2. – l. 8.7.1986, n. 349. – l. Cost. 18.10.2001, n. 3. L’esegesi circa la risarcibilità del danno alla fauna selvatica presuppone l’individuazione delle coordinate ordinamentali in cui il concetto giuridico legale di fauna selvatica si situa. Come già diffusamente argomentato in precedenza, non vi è dubbio che la fauna selvatica vada qualificata come bene patrimoniale indisponibile dello Stato, sicchè su tale scenario ermeneutico deve senz’altro indagarsi per valutare se il danno alla fauna selvatica sia fonte di responsabilità civile. Oltre tale consistenza giuridica strettamente e tradizionalmente civilistica, tuttavia, la fauna selvatica assume rilievo anche sotto il profilo del concetto integrato di ambiente in senso giuridico. Il concetto giuridico di ambiente fu elevato per la prima volta a rango legislativo dalla l. 8.7.1986, n. 349 – istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale – come complesso di condizioni ambientali conformi agli interessi della collettività ed ala qualità della vita, e la tutela di esso fu affidata al neoistituito Ministero dell’ambiente unitamente alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e alla difesa delle risorse naturali dall’inquinamento (art. 1). La portata innovativa della legge era notevole, dal momento che fino ad allora il concetto di ambiente era veicolato esclusivamente da interpretazioni giurisprudenziali, che operavano una interpretazione evolutiva e sistematica del più generico concetto di paesaggio la cui tutela è posta dall’art. 92 Cost. come compito della Repubblica, anche in relazione al diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost., latamente inteso. L’elaborazione giurisprudenziale del concetto giuridico dell’ambiente condusse rapidamente ad un concetto integrato dell’ambiente in senso giuridico. L'ambiente in senso giuridico costituisce un insieme che, pur comprendente vari beni o valori quali la flora, la fauna, il suolo, le acque ecc. - si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realta', priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento, con la legge 8 luglio 1986 n. 349, rispetto ad illeciti, la cui idoneita' lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o piu' delle dette singole 21 componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una piu' ampia accezione, dovendosi avere riguardo per la sua identificazione - non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo del danneggiato (nella specie, il Parco Nazionale d'Abruzzo, che lamentava il taglio abusivo di piante) prima e dopo l'evento lesivo, quanto alla sua idoneita', alla stregua di una valutazione sociale tipica, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilita' economiche di cui il danneggiato puo' disporre, svincolata da una concezione aritmetico-contabile. (Cass. 9.4.1992, n. 4362, MCP, riv. 476707). L’ambiente in senso giuridico trascende pertanto una mera sommatoria matematica degli aspetti che lo compongono, costituendo un insieme al tempo stesso inscindibile ed autonomo. Per “ambiente” deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protette dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltrechè unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali, veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario. (Cass. 28.10.1993, n. 9727, MCP, riv. 196168). L’ambiente è stato dunque definito dalla giurisprudenza della Suprema Corte come una entità autonoma, costituita dal complesso sinergico di una molteplicità di elementi – fauna, flora, suolo, acque, opere dell’uomo ed altro – strumentale e funzionale alla realizzazione del pieno sviluppo della persona umana. Con la l. Cost. 18.10.2001, n. 3, modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, il concetto di ambiente è stato elevato al rango costituzionale, ed ora l’art. 117 Cost. prevede, alla lettera s) del secondo comma, tra le materie ove lo Stato ha legislazione esclusiva, la tutela dell’ambiente. Il fatto che il legislatore costituzionale abbia attribuito alla tutela ambientale rango costituzionale senza meglio precisare il contenuto del concetto giuridico di ambiente lascia ritenere che debba farsi riferimento, per l’individuazione dello stesso, al concetto integrato di ambiente in senso giuridico elaborato dalla giurisprudenza della Suprema Corte sopra richiamata. Primo corollario di tale conclusione si è che la fauna selvatica – e tralaticiamente la tutela di essa – dovrebbe costituire uno degli elementi che compongono il complesso sinergico che definisce l’insieme concettuale dell’ambiente in senso giuridico. Ed allora è necessario comprendere la portata di tale nuovo assetto costituzionale anche con riferimento ai rapporti tra la potestà legislativa esclusiva regionale in materia di disciplina della caccia e la nuova potestà legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente. In proposito la Corte Costituzionale si è recentemente espressa. L’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione esprime una esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite agli interventi a livello regionale che possano pregiudicare gli equilibri ambientali. Come già affermato da questa Corte, la tutela dell’ambiente non può ritenersi propriamente una “materia”, essendo invece l’ambiente da considerarsi come un “valore” costituzionalmente protetto che non esclude la titolarità in capo alle Regioni di 22 competenze legislative su materie (governo del territorio, tutela della salute, ecc.) per le quali quel valore costituzionale assume rilievo (sentenza n. 407 del 2002). E, in funzione di quel valore, lo Stato può dettare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex art. 117 della Costituzione. Già prima della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, la protezione dell’ambiente aveva assunto una propria autonoma consistenza che, in ragione degli specifici ed unitari obiettivi perseguiti, non si esauriva né rimaneva assorbita nelle competenze di settore (sentenza n. 356 del 1994), configurandosi l’ambiente come bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va pertanto salvaguardato nella sua interezza (sentenza n. 67 del 1992). La natura di valore trasversale, idoneo ad incidere anche su materie di competenza di altri enti nella forma degli standards minimi di tutela, già ricavabile dagli artt. 9 e 32 della Costituzione, trova ora conferma nella previsione contenuta nella lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, che affida allo Stato il compito di garantire la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. (…) In questo quadro, la disciplina statale rivolta alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema può incidere sulla materia caccia, pur riservata alla potestà legislativa regionale, ove l’intervento statale sia rivolto a garantire standards minimi e uniformi di tutela della fauna, trattandosi di limiti unificanti che rispondono a esigenze riconducibili ad àmbiti riservati alla competenza esclusiva dello Stato. (…) Con specifico riferimento alla questione sottoposta all’esame di questa Corte, occorre precisare che la delimitazione temporale del prelievo venatorio disposta dall’art. 18 della legge n. 157 del 1992 è rivolta ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili e risponde all’esigenza di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema per il cui soddisfacimento l’art. 117, secondo comma, lettera s) ritiene necessario l’intervento in via esclusiva della potestà legislativa statale. Come già affermato da questa Corte nella sentenza n. 323 del 1998, vi è un “nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, nel quale deve includersi – accanto all’elencazione delle specie cacciabili – la disciplina delle modalità di caccia, nei limiti in cui prevede misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili. Al novero di tali misure va ascritta la disciplina che, anche in funzione di adeguamento agli obblighi comunitari, delimita il periodo venatorio”. (…) La disciplina statale che prevede come termine per l’attività venatoria il 31 gennaio si inserisce, dunque, in un contesto normativo comunitario e internazionale rivolto alla tutela della fauna migratoria che si propone di garantire ilsistema ecologico nel suo complesso. La suddetta disciplina risponde senz’altro a quelle esigenze di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema demandate allo Stato e si propone come standard di tutela uniforme che deve essere rispettato nell’intero territorio nazionale, ivi compreso quello delle Regioni a statuto speciale. (…) (Corte Cost. 20.12.2002, n. 536). La Corte Costituzionale – che con la sentenza la cui motivazione è stata testé citata ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge regionale della Sardegna 7.2.2002, n. 5 (modifica dell’art. 49 della legge regionale 29.7.1988, n. 23, “norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna”, concernente il periodo di caccia) che prevedeva l’estensione del periodo venatorio oltre il 31 gennaio previsto dall’art. 18 l. 11.2.1992, n. 157 – ha pertanto ribadito alcuni concetti fondamentali. L’ambiente è un valore costituzionalmente protetto, inerente alla tutela dell’ecosistema ma da esso distinto. La tutela dell’ecosistema e più in generale del valore costituzionale costituito dall’ambiente procede anche attraverso la tutela della fauna selvatica e si riferisce anche ad interventi minimi, che nonostante tale loro caratteristica sono comunque idonei, per la speciale delicatezza del bene giuridico protetto, a compromettere l’integrità dell’ecosistema e dell’ambiente nel suo complesso. In tale ottica, deve dunque percorrersi ermeneuticamente anche la verificazione della configurabilità di un danno alla fauna selvatica che si traduca in un danno all’ambiente. 23 Due sono, dunque, gli àmbiti esegetici di ricerca. Il primo dei due percorsi d’indagine esegetica muove nell’àmbito della valutazione della risarcibilità del danno arrecato alla fauna selvatica in sé stessa, quale bene patrimoniale indisponibile dello Stato. Deve accertarsi se il danno arrecato alla fauna selvatica – secondo il concetto di danno alla fauna sopra enucleato – da una condotta umana tenuta in violazione della normativa di tutela obblighi il responsabile al risarcimento del danno. Ai sensi dell’art. 8281 c.c. i beni patrimoniali indisponibili – categoria alla quale appartiene la fauna selvatica – sono soggetti in generale alle disposizioni del codice civile per la parte in cui non siano oggetto di specifiche disposizioni. Ne consegue che gli artt. 2043 e seguenti c.c. sono senz’altro applicabili, in linea di principio, anche in relazione ai beni patrimoniali indisponibili, e dunque alla fauna selvatica. Tanto premesso, deve osservarsi come l’art. 2043 c.c. stabilisca che qualsiasi fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Correlativamente, l’art. 2059 c.c. prevede che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Nel caso che occupa, non vi è dubbio che la fauna selvatica costituisce, per definizione di legge, un bene patrimoniale di proprietà dello Stato, sicchè ogni danno ad essa arrecato in violazione della normativa di tutela va qualificato come danno patrimoniale ingiusto, come tale senz’altro idoneo, secondo i princìpi generali della responsabilità civile, a costituire per il responsabile fonte di obbligazione per responsabilità aquiliana, e dunque fonte di obbligo al risarcimento del danno. La giurisprudenza di legittimità è allo stato attestata su posizioni analoghe. Per il caso di abbattimento di animale selvatico nella regione trentino-Alto adige, senza il prescritto permesso della competente sezione locale della federazione italiana della caccia, deve riconoscersi a detta federazione la legittimazione ad agire, contro l'autore dell'infrazione, per il risarcimento del danno, indipendentemente dall'appartenenza di detto animale allo stato, considerando che la federazione medesima, in qualita' di concessionaria "ex lege" della gestione dei territori di quella regione istituiti in riserva di caccia (legge regionale 7 settembre 1964 n. 30), e' titolare dei poteri e delle facolta' del concedente, e quindi e' abilitata ad agire per il ristoro del pregiudizio subito dal concedente medesimo, e che, inoltre, in relazione ai suoi specifici compiti di tutela ed incremento del patrimonio faunistico (d.P.G.R. 13 agosto 1965 n. 129, e successive modificazioni), puo' ricevere anche in proprio un danno patrimoniale, per effetto dell'indicata infrazione. (Cass. 28.10.1988, n. 5856, MCP, riv. 460364). Il concessionario è a questi fini equiparato, secondo l’esegesi proposta, al concedente. Ove la federazione italiana della caccia, quale concessionaria "ex lege" dei territori delle province di trento e bolzano istituiti in riserve di diritto, proponga azione risarcitoria contro il responsabile dell'illecito abbattimento di un selvatico, la sussistenza del danno, in misura almeno pari all'esborso occorrente per sopperire a tale perdita (e da liquidarsi in concreto anche con l'ausilio dei parametri indennitari fissati dalle apposite norme regionali), e' da ritenersi "in re ipsa", in considerazione 24 dell'obbligo di detta concessionaria di ripristinare la consistenza del patrimonio faunistico gestito, anche a fronte di impoverimenti provocati da fatti illeciti, nonche' della presuntiva osservanza dei suoi doveri (fino a prova contraria) da parte di un ente operante come "longa manus" dell'amministrazione. (Cass. 16.5.1990, n. 4269, MCP, riv. 467222). 2.2. Legittimazione attiva e criteri di quantificazione del danno. Legislazione c.c. 1123; 1126; 1127; 2043; 2056; 2058 – l. 11.2.1992, n. 157 7. La giurisprudenza da ultimo citata evidenzia come la legittimazione attiva per l’azione di risarcimento del danno alla fauna selvatica in sé considerata appartenga, ordinariamente, senz’altro allo Stato in quanto proprietario del bene danneggiato, ma vada riconosciuta anche alle sezioni locali della federazione italiana della caccia, quale quella di trento e bolzano, che siano concessionarie dei territori di caccia. Nessun altro soggetto è titolare di legittimazione attiva a proporre l’azione di risarcimento del danno alla fauna selvatica in sé considerata. Diversa è la questione attinente alla quantificazione del danno. Un primo criterio di quantificazione è, naturalmente, il riferimento a parametri legislativi, ove sussistenti. Laddove una legge regionale stabilisca l’entità del risarcimento del danno dovuto nel caso in cui uno o più esemplari di fauna selvatica vengano abbattuti, nulla quaestio, essendo evidentemente applicabile il criterio legale. Nel caso in cui non sussista un criterio legale, deve ricorrersi al criterio posto dall’art. 2056 c.c., e dunque al combinato disposto degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. Nel caso di danno cagionato alla fauna selvatica, è evidentemente applicabile esclusivamente il criterio posto dall’art. 1226 c.c., sicchè l’entità del danno va liquidata equitativamente. Nel caso in cui la Federazione Italiana della Caccia, quale concessionaria "ex lege" dei territori delle province di Trento e Bolzano istituiti in riserva di diritto, proponga azione risarcitoria contro il responsabile dell'illecito abbattimento di un selvatico, la sussistenza del danno, in misura almeno pari all'esborso occorrente per sopperire alla perdita derivante dall'illecito, e' da ritenersi in "re ipsa", in considerazione dell'obbligo di detta concessionaria di ripristinare la consistenza del patrimonio faunistico gestito; tale danno va liquidato a prescindere dalla prova di specifici pagamenti per il reinserimento nella riserva di animale dello stesso tipo e la liquidazione va effettuata anche in via equitativa a norma dell'art. 1226 cod. civ. potendo il giudice di merito utilizzare a tal fine, come parametro di riferimento anche l'entita' degli indennizzi fissati dall'art. 7 del Decreto Presidente Giunta Regionale 13 agosto 1965 n. 129 (aggiornati con D.P.G.R. 3 dicembre 1979). (Cass. 26.5.1992, n. 6289, MCP, riv. 47382). Nella liquidazione equitativa, la giurisprudenza sottolinea come vada tenuta presente la circostanza per cui la federazione italiana della caccia è tenuta a reintegrare la consistenza del 25 patrimonio faunistico, sicchè la quantificazione deve tenere conto delle spese necessarie per la reintegrazione medesima. Tale orientamento è senz’altro suscettibile di applicazione ben più vasta. Come dianzi argomentato, ai sensi dell’art. 7 l. 11.2.1992, n. 157 lo Stato ha il compito di vigilare sull’operato dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica, che a sua volta ha la funzione di gestire la sopravvivenza e la conservazione della fauna selvatica. Ne consegue che, anche al di fuori di specifici rapporti concessori tra lo Stato e alcune sezioni della federazione nazionale della caccia, lo Stato ha il compito – mediante la vigilanza sull’operato dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica – di garantire la conservazione e la sopravvivenza della fauna, di guisa che deve ritenersi che il danno arrecato alla fauna selvatica vada quantificato tenendo conto della necessità di fare fronte a tutti gli esborsi necessari per la conservazione e la sopravvivenza faunistica in parola. Una simile impostazione rende evidente che la quantificazione del danno può variare sensibilmente non soltanto in relazione alla quantità degli animali feriti, catturati o abbattuti, ma anche e soprattutto in relazione alla specie di essi, al luogo ed al periodo dell’anno in cui l’attività illecita viene posta in essere. La circostanza per cui al risarcimento dei danni in parola presiedono i generali princìpi posti dagli artt. 2043 e seguenti c.c. consente di ritenere che il danneggiato – lo Stato o il concessionario – possa anche agire richiedendo il risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c. Tale forma di risarcimento, come è noto, può venire accordata esclusivamente se naturalisticamente possibile, e salvo il potere del giudice di denegarla qualora risulti eccessivamente onerosa per il debitore. Il risarcimento in forma specifica si pone quale forma di recepimento, da parte del codice civile italiano, della restitutio in integrum, tecnica riparatoria consistente nella integrale obliterazione dalla realtà del danno e degli effetti di esso mediante l’integrale restituzione in pristino dello status quo antecedente alla determinazione del danno. Ne consegue che qualora l’esemplare di fauna selvatica sia stato non già ucciso ma solo catturato e/o ferito, il danneggiato può richiedere la restituzione dell’esemplare medesimo e/o la corresponsione di tutte le spese necessarie per provvedere alle cure necessarie ed al successivo reinserimento nell’ecosistema. In tale ipotesi, per verificare che il risarcimento in forma specifica non sia eccessivamente oneroso per il debitore rispetto al risarcimento per equivalente, il giudice dovrà fare riferimento alla quantificazione del danno astrattamente calcolabile per consentire al danneggiato di provvedere per 26 altra via – diversa dalla cura dell’animale ferito – alla reintegrazione del patrimonio faunistico violato dall’evento illecito dannoso. In proposito, è bene precisare che il potere del giudice di denegare il risarcimento in forma specifica qualora questo si riveli eccessivamente oneroso per il debitore resta un potere e non già un dovere. La norma infatti non prevede che il giudice dispone né che deve disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente in caso di eccessiva onerosità del risarcimento in forma specifica, ma si limita a stabilire che il giudice può disporre in tal senso. Ne consegue che il giudice, laddove ravvisi l’eccessiva onerosità, resta titolare del potere di accordare o denegare il risarcimento in forma specifica, avuto riguardo alle circostanze concrete del fatto, alla gravità della condotta e del danno arrecato, al comportamento anche processuale delle parti. 2.3. Il danno alla fauna selvatica quale danno all’ambiente. Legislazione Cost. 117 – c.c. 2043 – l. 11.2.1992, n. 157 1; 2. – l. 8.7.1986, n. 349. – l. Cost. 18.10.2001, n. 3. Come sopra argomentato, la fauna selvatica va qualificata come uno degli elementi costitutivi dell’insieme che configura il concetto integrato di ambiente in senso giuridico, valore costituzionalmente protetto. L’ambiente, in tale accezione, costituisce una entità ontologicamente autonoma rispetto al complesso degli elementi che ne compongono l’insieme. Ne consegue che l’ambiente in senso giuridico non deve intendersi come una mera sommatoria di elementi, ma come una sinergia di aspetti, dotato di propria autonomia in quanto complessivamente dotato di una sorta di valore aggiunto rispetto all’insieme che lo compone e che in esso si fonde e si riduce ad unità. La tutela della fauna selvatica, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 20.12.2002 n. 536, si inscrive nella tutela dell’ecosistema, direttamente connessa alla tutela del valore costituzionale della tutela dell’ambiente, nei cui confronti anche interventi di scarsa entità intrinseca possono e devono ritenersi idonei a cagionare un significativo detrimento del bene giuridico protetto. Nell’àmbito di tali coordinate ordinamentali, è agevole sostenere dunque che il danno arrecato alla fauna selvatica assuma rilievo – oltre che, come sopra argomentato, in ordine alla fauna di per sé considerata – anche nell’ottica della causazione di un danno all’ambiente. La nozione legale di danno ambientale, come è noto, è contenuta nell’art. 18 l. 8.7.1986, n. 349, a norma del quale “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, 27 alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Se dunque la fauna selvatica costituisce uno degli elementi costitutivi dell’ecosistema e del complesso concetto di ambiente in senso giuridico, il danno alla fauna selvatica deve logicamente ritenersi idoneo, in astratto, a refluire sull’ambiente, traducendosi di fatto in un danno cagionato anche all’ambiente naturale costituzionalmente tutelato. Una tale petizione di principio – che peraltro appare assolutamente coerente con il dettato costituzionale come esplicitato dalla Corte Costituzionale e deriva dall’analisi comparata della normativa vigente – va naturalmente sottoposta all’analisi esegetica onde saggiarne la reale portata giuridica concreta. Se infatti sotto il profilo logico-giuridico deve ritenersi corretta la configurabilità del danno all’ambiente a sèguito del danno cagionato alla fauna selvatica, deve verificarsi quali siano i limiti di una simile affermazione, ed in particolare a quali condizioni il danno alla fauna selvatica in quanto tale possa ritenersi di per sé produttivo di danno anche per l’ambiente. Altro, è agevole sostenere, è il danno alla fauna selvatica costituito dal genocidio di una intera specie animale (si immagini la condotta di colui che abbatta tutti o quasi gli esemplari viventi di muflone sardo), dal quale con ogni evidenza deriva una significativa alterazione dell’ecosistema – dovuta all’obliterazione di una intera popolazione – e correlativamente un vulnus all’integrità dell’ambiente giuridicamente inteso, ed altro è l’abbattimento di un singolo esemplare appartenente di una specie non a rischio di estinzione eseguito con mezzi non consentiti o in periodi di silenzio venatorio o al di fuori dei luoghi consentiti. La macroscopica differenza tra le due condotte, e tra l’entità delle due diverse tipologie di danno arrecato alla fauna selvatica, rende evidente la necessità di accertare quali siano le condizioni, le soglie giuridiche varcate le quali il danno alla fauna estende i propri effetti al danno all’ambiente. Dal punto di vista giuridico-concettuale, il fatto che l’ambiente – come già argomentato – costituisca un valore complessivo che racchiude in sé ma supera nell’insieme, acquisendo una propria autonomia, gli elementi e gli aspetti che lo compongono, consente di sostenere, in punto di logica, che dunque il danno ad un elemento costitutivo – come la fauna selvatica – non possa ritenersi in sé e per sé autonomamente, necessariamente ed automaticamente coincidente con la causazione di un danno all’ambiente nel suo complesso. Nel momento in cui si assume che l’ambiente costituisca un valore complessivo che trascende la mera sommatoria degli elementi che lo compongono, appare logicamente fondata l’asserzione per 28 cui il danno all’elemento costitutivo non implichi necessariamente il danno per il valore complessivo. 2.3.1. Danno all’esemplare e danno alla fauna. Coincidenza. Legislazione Cost. 117 – c.c. 2043 – l. 11.2.1992, n. 157 1; 2. – l. 8.7.1986, n. 349. – l. Cost. 18.10.2001, n. 3. Aderendo ad una simile impostazione, dovrebbe ritenersi che il danno alla fauna selvatica debba ritenersi produttivo anche di danno all’ambiente esclusivamente nei casi in cui esso sia di tale entità da refluire effettivamente sull’ambiente nel suo complesso, determinandone in concreto una variazione in negativo, una diminuzione, un deterioramento. In tema di smaltimento di rifiuti, la tutela dell'interesse diffuso all'ambiente fa capo all'ente territoriale, preposto al controllo ed alla gestione nel settore ecologico. L'azione di risarcimento del danno puo' essere promossa soltanto quando sussista un pregiudizio concreto alla qualita' della vita della collettivita', sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente. Non danno luogo a risarcimento – di regola - violazioni meramente formali. La stessa lesione dell'immagine dell'ente, il quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente. In tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente. (Cass. 25.5.1992, n. 6297, MCP, riv. 190778) La verificazione dell’effettiva produzione di un danno all’ambiente dovrebbe, per questa via, essere rimessa all’accertamento giurisdizionale eseguito caso per caso, mediante l’osservazione anche tecnica delle conseguenze sull’ambiente del danno arrecato alla fauna selvatica, dal momento che non sussiste alcun canone legislativo o regolamentare al quale possa farsi riferimento come parametro per l’individuazione della soglia oltre la quale il danno alla fauna implica danno all’ambiente. L’analisi della disciplina positiva, anche alla luce della motivazone della sentenza della Corte Costituzionale n. 536 del 20.12.2002 che, in quanto tale, non può ritenersi alla stregua di una intepretazione giurisprudenziale ma deve considerarsi alla pari di un dettato legislativo, può condurre l’interprete a conclusioni differenti. Si è osservato in precedenza, nel definire il concetto di danno alla fauna selvatica, che l’abbattimento, il ferimento o la cattura illegali, anche di un solo esemplare, anche non appartenente a specie in via di estinzione, di fauna selvatica costituisce danno alla fauna selvatica nel suo 29 complesso, dal momento che il legislatore ha voluto individuare regole minime di tutela della fauna selvatica la cui violazione è sanzionata – anche penalmente – proprio perché ogni condotta tenuta in violazione di tali regole costituisce di per sé, indipendentemente dalla gravità della violazione, un comportamento di per sé idoneo a porre in pericolo la sopravvivenza della fauna selvatica. Il concetto giuridico di condotta posta in violazione della normativa di tutela della fauna selvatica coincide pertanto perfettamente con il concetto di danno arrecato alla fauna selvatica nel suo complesso, indipendentemente dalla gravità della violazione, perché le regole normative di cautela costituiscono la soglia minima di garanzia della sopravvivenza della fauna medesima, sicchè ogni violazione è di per sé sola giuridicamente automaticamente idonea a porre in pericolo la sopravvivenza medesima, cagionando un danno alla fauna selvatica nel suo complesso. In tale ottica si muove anche la citata sentenza della Corte Costituzionale, laddove precisa che la tutela dell’ambiente costituzionalmente attribuita allo Stato si traduce, con riferimento alla tutela della fauna selvatica, nella predisposizione proprio di standards minimi di tutela, di guisa che deve ritenersi che anche a giudizio della Corte Costituzionale ogni condotta tenuta in violazione di tali soglie minime si traduce in un danno per la fauna selvatica nel suo complesso. Deve pertanto ritenersi che non trovino diritto di cittadinanza giuridica nel nostro ordinamento diversi tipi di danno alla fauna selvatica, ma sussistano esclusivamente danni di diversa natura – suscettibili di dare luogo a responsabilità patrimoniale di varia entità secondo i criteri di quantificazione sopra indicati – arrecati alla fauna selvatica, ma sempre alla fauna selvatica nel suo complesso. Non può dunque configurarsi il danno all’esemplare come concetto giuridico distinto dal danno alla fauna, dovendo ritenersi configurabile esclusivamente il danno alla fauna nel suo complesso, che può consistere nel danno al singolo esemplare, all’intera popolazione, al gruppo di esemplari, e ad ogni altro caso di violazione della normativa vincolistica. Una simile conclusione rende necessario riconsiderare, alla luce dunque del dato normativo positivo, l’asserzione sopra offerta circa la necessità di individuare, caso per caso, soglie concrete di sconfinamento del danno alla fauna in danno all’ambiente. Pur prendendo le mosse dal medesimo concetto integrato di ambiente in senso giuridico, qualificando dunque l’ambiente come un complesso di aspetti autonomo rispetto ai propri elementi costitutivi, deve riconoscersi che laddove si accolga la concezione unitaria del danno alla fauna testé proposta come dato normativo positivo, viene posta in dubbio la configurabilità di una distinzione tra il danno alla fauna ambientalmente irrilevante ed il danno alla fauna produttivo di danno ambientale. Se il concetto giuridico positivo, ricavato dalla normativa vigente, di danno alla fauna esclude la configurabilità di un danno al singolo esemplare distino dal danno alla fauna, e riconosce 30 esclusivamente la sussistenza del danno alla fauna ogni qual volta sia violata la normativa di tutela, appare complesso ricostruire giuridicamente la sussistenza di un danno alla fauna ambientalmente irrilevante distinto da un danno alla fauna che produca danno ambientale. Il perno logico della distinzione concettuale tra danno alla fauna ambientalmente irrilevante e danno alla fauna ambientalmente dannoso risiede nel presupposto che sussistano condotte dannose che, per la loro levità, danneggino la fauna in modo sì insignificante da non refluire sull’ecosistema e sull’ambiente nel suo complesso. Di conseguenza, nel momento in cui si esclude la configurabilità di diverse tipologie di danno a seconda della gravità della condotta illecita, e si dichiara ope legis che qualsiasi comportamento tenuto in violazione della normativa di tutela costituisce ipso facto danno alla fauna selvatica nel suo complesso, deve concludersi che ogni condotta dannosa reca danno all’intera fauna selvatica, e pertanto compromette, pone in pericolo, l’intero ecosistema, vuoi in concreto, vuoi per fictio legis ispirata a tecnica legislativa di profilassi preventiva. Partendo da questi diversi presupposti, deve verificarsi se sia possibile, in tale differente quadro normativo e giuridico-concettuale di riferimento, ritenere comunque giuridicamente sussistente la distinzione tra danno alla fauna ambientalmente irrilevante e danno alla fauna ambientalmente dannoso. In senso favorevole alla configurabilità della distinzione, e dunque in definitiva alla configurabilità del danno alla fauna ambientalmente irrilevante, milita l’osservazione per cui l’autonomia dell’ambiente in senso giuridico rispetto agli elementi che lo costituiscono impone comunque, anche di fronte alla causazione di un danno all’integrità complessiva di uno degli elementi costitutivi, la verificazione caso per caso della refluenza effettiva sull’ambiente del danno in parola. Tuttavia l’analisi del concreto atteggiarsi della disciplina positiva che si ricava dall’adesione a tale orientamento pone in risalto una evidente aporìa. Non è infatti dato comprendere, in concreto, quali criteri dovrebbero presiedere all’accertamento caso per caso della sussistenza di un danno all’ambiente. Se infatti si assume che l’ambiente è valore e concetto talmente autonomo dagli elementi che lo costituiscono da potere restare illeso anche in presenza di compromissione dell’integrità di uno degli elementi costitutivi, è difficilmente individuabile un complesso di criteri, un quadro parametrico al quale fare riferimento per verificare, in concreto, se il danno alla fauna selvatica nel suo complesso abbia cagionato danno all’ambiente nel suo complesso. Per questa via, in assenza di criteri di valutazione – anche ricavati dalla comune esperienza, ma comunque oggettivi ed attendibili, che in tale ottica non appaiono sussistere – circa la 31 sussistenza del danno all’ambiente nel suo complesso si procede in direzione della produzione di due effetti nell’applicazione concreta della normativa vincolistica. In primo luogo, così opinando il concetto di ambiente in senso giuridico rischia di diventare, in concreto, del tutto impalpabile, indefinito, diafano, fino a scomparire. Se infatti è vero che l’ambiente è autonomo rispetto agli elementi che lo costituiscono, ritenere che possa ritenersi non danneggiato dalla compromissione dell’integrità complessiva di uno o più degli elementi medesimi coincide con lo svuotamento del contenuto del concetto di ambiente. In secondo luogo, tale orientamento finisce per lasciare alla discrezionalità del giudice uno spazio sì vasto che, in assenza di oggettivi criteri di riferimento, finisce per sconfinare nell’arbitrio, sì da rimettere sostanzialmente alla valutazione del giudice l’individuazione stessa del contenuto del concetto di ambiente in senso giuridico. Entrambe le prospettive applicative appaiono contrastanti con il dettato costituzionale, e pertanto appaiono da scartare. In senso contrario alla configurabilità della distinzione tra danno alla fauna ambientalmente irrilevante e danno alla fauna ambientalmente dannoso, e dunque in definitiva in senso contrario alla configurabilità del danno alla fauna ambientalmente irrilevante, assumono rilievo diverse osservazioni. In primo luogo, rileva il fatto che le conseguenze concrete del primo orientamento siano, come testé argomentato, contrastanti con il dettato costituzionale, sicchè l’impianto teorico, condivisibile o no che sia sotto il profilo dogmatico, appare incompatibile con il complesso del sistema ordinamentale. In secondo luogo, deve osservarsi come, una volta accertato che in virtù del dato normativo positivo il danno alla fauna è sempre cagionato alla fauna nel suo complesso, non sembra revocabile in dubbio che ogni condotta dannosa per la fauna compromette l’integrità stessa di un elemento costitutivo del complesso concettuale di ambiente. A tali condizioni, sembra potersi escludere, in punto di logica, che l’ambiente possa non essere danneggiato nel suo complesso dal danno alla fauna selvatica. In tale ottica depone senz’altro la motivazione, più volte richiamata, della sentenza della Corte Costituzionale n. 536 del 20.12.2002. Così ricostruito il dato normativo e tratteggiate le coordinate ordinamentali di riferimento, pare potersi concludere affermando che ogni condotta posta in essere in violazione della normativa di tutela della fauna selvatica cagiona di per sé stessa, oltre che un danno alla fauna selvatica nel suo complesso, anche al valore costituzionalmente protetto dell’ambiente in senso giuridico. 32 In concreto, del resto, non può non osservarsi come effettivamente l’equilibrio dell’ecosistema sia così delicato, nella società industriale dell’età atomica, da doversi effettivamente ritenere danneggiato e seriamente compromesso da qualsivoglia attività di aggressione alla fauna selvatica che non sia strettamente rispettosa delle regole minime di tutela imposte dalla legge – peraltro spesso non ingenerose nei confronti dei cacciatori. L’interpretazione offerta, pertanto, oltre che strettamente agganciata al dato normativo positivo ordinario e costituzionale, coglie senz’altro lo spirito della legge e l’obiettivo della tutela costituzionale dell’ambiente. Ai fini della esistenza di un danno ambientale, la legge 8 luglio 1986, n. 349 contempla anche l'ipotesi della semplice alterazione in una delle componenti ambientali, sicuramente riscontrabile nel caso di immissione in un corpo ricettore di inquinanti chimici oltre la soglia ritenuta pericolosa dalla legge, tale da giustificare addirittura la sanzione penale. (Nella specie la S.C. ha osservato che per i ripetuti scarichi, alcuni contenenti perfino mercurio, un danno ambientale era stato accertato e giustamente ne erano stati considerati destinatari lo Stato e gli Enti territoriali). (Cass. 19.1.1994, n. 439, MCP, riv. 197042) 2.3.2. La risarcibilità dei danni all’ambiente. Legislazione c.c. 2043 – l. 8.7.1986, n. 349 18. La tematica del danno all’ambiente presenta numerose sfaccettature, che potranno essere affrontate solo per la parte che attiene all’oggetto di questo breve contributo. Ai sensi del citato art. 18 l. 8.7.1986, n. 349, il danno all’ambiente obbliga l’autore del fatto a risarcire il danno. La norma precisa, tuttavia, come titolare del diritto al risarcimento siano esclusivamente lo Stato e “gli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo”. La nozione legale di danno ambientale risarcibile individua tassativamente anche i destinatari del risarcimento, così lasciando intendere che il contenuto patrimoniale del diritto all’ambiente sia aspetto correlato esclusivamente allo stanziamento da parte dello Stato e degli enti territoriali dei fondi necessari alla preservazione dell’ambiente medesimo, sicchè ogni danno all’ambiente è risarcibile perché impone l’esborso da parte dello Stato e degli enti territoriali per il ripristino delle condizioni ambientali alterate dall’atto illecito. L’elaborazione giurisprudenziale, costituzionalmente orientata, della tematica del danno all’ambiente, ha individuato una nozione di danno ambientale maggiormente estesa sotto il profilo del contenuto del danno. Il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale all’ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale all’ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali). 33 (Cass. 19.1.1994, n. 439, MCP, riv. 197044). L’individuazione del danno all’ambiente come lesione del diritto all’ambiente di ogni uomo nonché quale lesione del diritto all’ambiente delle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi non comporta, di per sé sola, il riconoscimento della generale risarcibilità di tali danni. La limitazione legale della risarcibilità del danno ambientale allo Stato ed agli enti territoriali, prevista dall’art. 18 l. 8.7.1986, n. 349, impone di verificare la risarcibilità del danno al diritto personale e diffuso all’ambiente secondo i canoni ordinari del risarcimento del danno, previsti dagli artt. 2043 e seguenti del codice civile. 2.3.2.1. Il danno da reato ambientale. Legislazione Cost. 2; 32. – c.c. 2043; 2059. – l. 8.7.1986, n. 349 10; 18. Muovendo dal presupposto per cui il danno arrecato al diritto all’ambiente dei singoli e delle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi abbia contenuto non patrimoniale – dal momento che la funzione di preservazione e ripristino del bene pubblico costituzionalmente protetto costituito dall’ambiente è rimessa allo Stato ed agli enti territoriali, nelle rispettive sfere di competenza – dovrebbe concludersi che la risarcibilità del danno al diritto singolare e collettivo all’ambiente vada vagliata alla stregua dei principi civilistici che presiedono alla disciplina del risarcimento del danno non patrimoniale. La risarcibilità del danno morale soggettivo a sèguito di disastro ambientale colposo è condizionata alla menomazione dell’integrità psico-fisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale. (Cass. 24.5.1997, n. 4631, MCC, riv. ). E’ noto, in proposito, che l’art. 2059 c.c. consente il risarcimento del danno non patrimoniale esclusivamente nei casi determinati dalla legge. Comune interpretazione di tale principio è che il danno non patrimoniale sia tra l’altro certamente conseguente alla condotta, lesiva di un diritto, che costituisca reato. L’orientamento, ormai pietrificato, non trova pronunzie difformi nemmeno in data recente. Il danno patrimoniale, che per il combinato disposto degli artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen., e' risarcibile nel caso in cui derivi da un fatto illecito costituente reato e consistente in un turbamento ingiusto dello stato d'animo o in uno squilibrio o riduzione delle capacita' intellettive della vittima, comprende anche le sofferenze fisiche e morali da questa sopportate in stato di incoscienza. (Cass. 24.5.2001, n. 7075, MCC, riv. 546937). E’ certamente risarcibile pertanto la lesione del diritto non patrimoniale all’ambiente allorchè la condotta lesiva costituisca reato. 34 Tale conclusione è pacifica in giurisprudenza per quanto attiene al diritto al risarcimento del danno a favore delle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi. In tema di legittimazione degli enti e delle associazioni ecologistiche a costituirsi parte civile, deve ritenersi che quando l'interesse diffuso alla tutela dell'ambiente non e' astrattamente connotato, ma si concretizza in una determinata realta' storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, diventando la ragione e, percio', elemento costitutivo di esso, e' ammissibile la costituzione di parte civile di tale ente, sempre che dal reato sia derivata una lesione di un diritto soggettivo inerente allo scopo specifico perseguito. Pertanto e', "in primis", configurabile, in capo alle associazioni ecologistiche, la titolarita' di un diritto soggettivo e di un danno risarcibile, individuabile nella salubrita' dell'ambiente, sempre che una articolazione territoriale colleghi le associazioni medesime ai beni lesi, sicche' esse sono legittimate all'azione "aquiliana" per la difesa del proprio diritto soggettivo alla tutela dell'interesse collettivo alla salubrita' dell'ambiente; e', inoltre, ipotizzabile la lesione del diritto della personalita' dell'ente e la conseguente facolta' delle associazioni di protezione ambientale di agire per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all'offesa, diretta ed immediata, dello "scopo sociale", che costituisce la finalita' propria del sodalizio. ( Nella specie la S.C. ha ritenuto che l'associazione Lega ambiente ( ente esponenziale della comunita' in cui trovasi il bene collettivo oggetto di lesione ed avente a scopo la salvaguardia degli interessi lesi dal reato ) era legittimata a costituirsi parte civile, ai sensi degli artt. 185 cod.pen. e 74 cod.proc.pen., sia per la tutela del diritto collettivo all'ambiente salubre sia per la protezione del diritto della personalita' in conseguenza del discredito derivante alla propria sfera funzionale dalla condotta illecita ). (Cass. 26.9.1996, n. 8699, MCP, riv. 209096). Se dunque si conviene con la giurisprudenza di legittimità sopra citata nell’affermazione – che peraltro appare strettamente rispettosa del dettato costituzionale, vieppiù alla luce della novella del 2001 – per cui l’ambiente è un momento di sviluppo della persona umana e dunque, ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost., è diritto soggettivo fondamentale di ciasuna persona umana il diritto all’integrità dell’ambiente, deve riconoscersi tale diritto ad ogni singola persona. Ne consegue che qualora il diritto all’ambiente della singola persona venga leso da una condotta costituente reato, essa singola persona ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. Sarà poi compito del giudice, caso per caso, evitare eccessi e speculazioni da parte della persona che si assume danneggiata. Il danno ambientale non consiste solo in una “compromissione dell’ambiente” in violazione delle leggi ambientali, ma anche contestualmente in una “offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale”. Pertanto, proprio perché nel danno ambientale è inscindibile l’offesa ai valori naturali e culturali e la contestuale lesione dei valori umani e sociali di ogni persona, la legittimazione processuale non spetta solo ai soggetti pubblici, come Stato, Regione, Province, Comuni, Enti autonomi, Parchi Nazionali ecc. (in nome dell’ambiente come interesse pubblico) ma anche alla persona singola od associata (in nome dell’ambiente come diritto soggettivo fondamentale di ogni uomo): le associazioni di protezione dell’ambiente, ivi comprese quelle a carattere locale non riconosciute esx art. 13 della legge 8 luglio 1986 n. 349, possono intervenire nel processo e costituirsi parti civili, in quanto abbiano dato prova di continuità della loro azione, aderenza al territorio, rilevanza del loro contributo, ma soprattutto perché formazioni sociali nelle quali si svolge dinamicamente la personalità di ogni uomo, titolare del diritto umano all’ambiente. (Cass. 19.11.1996, n. 9837, MCP, riv. 206473). 35 2.3.2.2. Gli interessi diffusi. Legislazione Cost. 2; 32. – c.c. 2043; 2059. – l. 8.7.1986, n. 349 10; 18. Alla conferma della condivisibilità di tale conclusione concorrono, del resto, altre osservazioni. In primo luogo, va osservato come le formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi vengano ritenute titolari del diritto al risarcimento del danno al proprio diritto all’ambiente non già in quanto enti riconosciuti, ma esclusivamente in quanto formazioni rappresentative di un complesso di interessi personali coincidenti e convergenti nella volontà di tutela di un medesimo bene, che è l’ambiente. L’argomento è del resto testuale. Mentre gli artt. 10 e 18 l. 8.7.1986, n. 349, attribuiscono il potere di intervento in giudizio e di ricorso giurisdizionale amministrativo esclusivamente alle associazioni rappresentative di interessi diffusi che siano riconosciute con apposito decreto del ministro dell’ambiente, la giurisprudenza riconosce il diritto al risarcimento del danno a tutte le formazioni sociali, indipendentemente da qualsivoglia riconoscimento, che rappresentino effettivamente (e cioè con una storia di positiva attività di attenzione e tutela dell’interesse protetto) un interesse diffuso condiviso da tutti i partecipanti alla formazione sociale medesima. In tale ottica, appare di tutta evidenza – come peraltro riconosciuto dalla giurisprudenza citata – che la formazione sociale non ripete la propria legittimazione attiva da un atto autoritativo o da una disposizione di legge, ma esclusivamente dal fatto che il diritto all’ambiente è personale e ciascuna delle persone che partecipano alla formazione sociale ne è titolare ed ha diritto di tutelarlo in giudizio. La formazione sociale, dunque, trae il proprio diritto al risarcimento del danno al diritto non patrimoniale all’ambiente non dalla qualità di formazione sociale in sé e per sé, ma dal diritto di tutti i partecipanti alla formazione alla tutela del proprio diritto personale, privato e singolare, riconosciuto dagli artt. 2 e 32 Cost. Nel quadro di tali coordinate ermeneutiche, appare di tutta evidenza che laddove il diritto della formazione sociale – riconosciuto esplicitamente in giurisprudenza – al risarcimento del danno in parola trae origine dal diritto personale dei singoli partecipanti, deve a fortiori ritenersi risarcibile il danno arrecato al diritto personale del singolo individuo, anche al di fuori della partecipazione di lui ad alcuna formazione sociale rappresentativa di interessi diffusi. In secondo luogo, l’osservazione della realtà effettuale consente di ritenere ingiustificato il riconoscimento del diritto al risarcimento in oggetto esclusivamente alle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi e non anche ai singoli titolari del diritto all’ambiente. 36 Dall’un lato, è agevole osservare come le formazioni sociali, proprio in quanto formazioni spontanee ed eventuali, non necessariamente sussistono in ciascuna porzione del territorio dello Stato, ed anche ove sussistenti non necessariamente tutelano tutte le porzioni con la medesima attenzione ed il medesimo scrupolo. Ne consegue che sarebbe del tutto ingiustificato che, ad esempio, per l’inesistenza o l’inattività di una formazione sociale locale rappresentativa di interesse diffuso, il pastore dell’Aspromonte o del Gennargentu debba assistere impotente allo scempio dell’ecosistema del proprio ambiente di vita, senza potere ottenere il risarcimento del proprio diritto all’integrità dell’ambiente naturale. Una simile conclusione, oltre che evidentemente incompatibile con il dettato costituzionale e con l’interpretazione che di esso offre la giurisprudenza di legittimità, finirebbe per attribuire alle formazioni sociali spontanee rappresentative di interessi diffusi una sorta di diritto di privativa decisamente non previsto per legge, almeno a questi fini. Dall’altro lato, non può non osservarsi come il danno non patrimoniale, e dunque il danno morale, possa essere e sia normalmente cagionato senz’altro, al privato, dalla commissione di fatti penalmente rilevanti che cagionino danno all’ambiente. Si pensi, ad esempio, alla persona che tragga sfogo alle proprie ansie e riposo alle proprie fatiche, o ispirazione per le proprie creazioni artistiche, da consuete lunghe passeggiate presso una riserva naturale orientata, e che dopo avere goduto per anni di un simile ristoro si trovi improvvisamente, a metà strada, la riserva rovinata dallo sversamento abusivo di tonnellate di rifiuti maleodoranti, il ruscello inquinato da scarichi abusivi di residui chimici, la flora contaminata dalla abusiva liberazione in atmosfera di sostanze pesticide. Non appare revocabile in dubbio che il diritto personale all’ambiente fosse sussistente, effettivo, goduto, attinente allo sviluppo della persona umana ed alla sua salute fisica e mentale, e sia stato gravemente compromesso e danneggiato dalla condotta illecita costituente reato. Non si vede dunque per quale motivo non dovrebbe venire risarcito. 2.3.2.3. Il danno non patrimoniale. Legislazione Cost. 2; 32. – c.c. 2043; 2059. – l. 8.7.1986, n. 349 10; 18. Parte della giurisprudenza ha poi riconosciuto la sussistenza di un danno non patrimoniale risarcibile anche in capo allo Stato ed agli enti territoriali quali enti esponenziali degli interessi delle comunità che rappresentano. Sussiste la legittimazione del comune, quale ente esponenziale degli interessi collettivi della comunita', a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto reati urbanistici. (Cass. 12.6.1982, n. 5882, MCP, riv. 154209) 37 Laddove il reato leda l’interesse della comunità alla tutela del territorio, ritiene la giurisprudenza citata che l’ente territoriale, quale esponente degli interessi dei consociati, sia titolare del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato dal reato medesimo. Il Comune puo' essere considerato danneggiato dal delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, in quanto tale reato certamente cagiona un pregiudizio, di carattere patrimoniale e non, almeno all'immagine della citta' ed allo sviluppo del turismo e delle attivita' produttive di essa, con conseguente lesione di interessi propri, giuridicamente tutelati, dell'ente che della collettivita' danneggiata ha la rappresentanza. (Cass. 24.7.1992, n. 8381, MCP, riv. 191448) La ritenuta risarcibilità di tale danno non patrimoniale pone diversi problemi. In primo luogo, dovrebbe accertarsi se tale danno rientri tra i danni risarcibili nei confronti dello Stato e degli enti territoriali ai sensi dell’art. 18 l. 8.7.1986, n. 349. Dall’un lato, l’argomento testuale sembrerebbe includere tali danni, dal momento che nessuna distinzione è operata tra il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale, limitandosi la norma ad imporre il risarcimento del danno ambientale a favore dello Stato e degli enti territoriali. D’altro canto, lo spirito della disposizione appare – come opinato dalla giurisprudenza sopra citata – fondato sul rilievo per cui lo Stato e gli enti territoriali subiscono un danno patrimoniale dal danno ambientale a cagione dell’obbligo, cui sono tenuti per legge, di ripristinare l’ambiente naturale alterato, stanziando i relativi fondi. In secondo luogo, ed in diretta connessione con le precedenti osservazioni, si pone un problema di parità di trattamento. Se infatti dovesse riconoscersi allo stato il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale indipendentemente dalla penale rilevanza della condotta lesiva, si istituirebbe una indebita disparità di trattamento tra il danno non patrimoniale per lesione del diritto all’ambiente dello Stato e degli enti territoriali quali enti rappresentativi degli interessi dei singoli – sempre risarcibile – e il danno non patrimoniale per lesione del diritto all’ambiente dei singoli e delle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi – risarcibile esclusivamente ai sensi dell’art. 2059 c.c., quando la condotta lesiva sia penalmente rilevante. Una simile disparità di trattamento, del tutto ingiustificata, appare costituzionalmente illegittima, sicchè deve scartarsi l’interpretazione giuridica che la sottende. E’ poi interessante notare, in limine, come potrebbero agire per il risarcimento del danno, contemporaneamente, l’ente territoriale, una formazione sociale rappresentativa di interessi diffusi locale ed una rilevante quantità di persone residenti nel territorio, uti singuli; in tal caso, sarebbe interessante verificare la soluzione giurisprudenziale, che dovrebbe tenere conto del fatto che il risarcimento del danno, riconosciuto uti singuli ai soggetti individualmente aventi diritto, dovrebbe proporzionalmente ridurre il diritto al risarcimento delle formazioni sociali e degli enti territoriali che quegli stessi interessi, autonomamente azionati in giudizio, pretendono di tutelare e dai quali 38 ripetono la propria legittimazione processuale ed il proprio diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale per lesione del diritto all’ambiente, in definitiva, può essere riconosciuto anche allo Stato ed agli enti territoriali, ma esclusivamente ai sensi dell’art. 2059 c.c. 2.3.2.4. Profili di risarcibilità del danno ambientale non derivante da reato. Legislazione c.c. 2043. – l. 8.7.1986, n. 349 18. Si è accennato, in precedenza, alla qualificazione del diritto all’ambiente come diritto avente contenuto non patrimoniale, sicchè il danno arrecato a tale diritto dovrebbe ritenersi un danno non patrimoniale, come tale ricadente sotto l’imperio dell’art. 2059 c.c. e dunque risarcibile esclusivamente qualora la condotta lesiva sia penalmente rilevante. Laddove il contenuto patrimoniale del diritto, e dunque la patrimonialità del danno, venga intesa in senso tradizionale, deve riconoscersi che la lesione del diritto personale e collettivo all’ambiente vada ricompresa nella categoria del danno non patrimoniale, limitandosi il riconoscimento legale della patrimonialità del danno ambientale esclusivamente al danno arrecato allo Stato ed agli enti territoriali secondo la previsione dell’art. 18 l. 8.7.1986, n. 349. Per accertare la condivisibilità di una tale premessa, appare necessario verificare se il diritto personale e collettivo all’ambiente sia effettivamente ontologicamente privo di contenuto patrimoniale. L’osservazione della realtà consente di notare diversi esempi in cui al danno all’ambiente si correla concretamente un danno a contenuto patrimoniale. Si pensi ad esempio all’ipotesi dell’artista (un pittore, un poeta) che si veda privare dell’ambiente naturale dal quale durante tutta la vita ha tratto ispirazione (la mente corre, del resto, al sentiero sulla collina di Heidelberg ove Hegel elaborò interamente il proprio pensiero filosofico, fino alla creazione dell’appercezione trascendentale, l’io penso); al caso del titolare di un’impresa agrituristica o di un lido balneare che perda gran parte della affezionata clientela a causa di un grave dànno cagionato all’ambiente naturale del sito, che attirava i turisti; al soggetto che abbia acquistato un immobile nell’unico sito naturale in cui il figlio, malato di mente, trovi riposo alle proprie crisi, e se lo veda alterare; e molti altri casi, che la realtà, più ancora che la fantasia, offre all’esame. Muovendo dal presupposto per cui in tali casi la condotta lesiva non costituisca reato (circostanza non solo senz’altro possibile, vista la vasta tipologia di danni all’ambiente e la tassativa e meno vasta tipologia di condotte incriminate – di recente peraltro sensibilmente ridotta, in particolare in tema di smaltimento di rifiuti – ma anche necessaria alla trattazione, perché altrimenti 39 non vi è dubbio circa la risarcibilità del danno ai sensi dell’art. 2059 c.c.), appare evidente la diretta ed immediata refluenza negativa del danno ambientale sul patrimonio del soggetto privato. E’ noto, in proposito, come la giurisprudenza, pronunziandosi in materia di danno biologico, abbia individuato e separato il concetto di danno-evento dal concetto di danno-conseguenza, distinguendo il regime risarcitorio dell’uno e dell’altro. In relazione alla distinzione tra il danno alla salute, inteso come menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé considerata, e il danno derivante dal medesimo evento lesivo che incide, riducendo la capacità lavorativa, sulla produzione di reddito, non è censurabile la decisione del giudice di merito che in relazione alla invalidità permanente conseguente all’infortunio determini l’entità del pregiudizio complessivamente riguardante l’integrità fisica del soggetto, distinguendo poi in tale ambito, ai fini della liquidazione, il profilo che attiene direttamente alla capacità reddituale (al quale va riferita la copertura dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro) e il danno che risulta indipendente da tali riflessi sulla sfera patrimoniale; per questo secondo aspetto è necessario tuttavia uno specifico accertamento in ordine alle conseguenze dell’evento lesivo sulla sfera non patrimoniale di estrinsecazione dei valori personali vitali. (Cass. 2.3.1999, n. 1751, GCM, 1999, 472). Il danno-evento, costituito dalla lesione del diritto della persona, ha natura non patrimoniale e deve quantificarsi avendo riguardo alla gravità della lesione dei beni della vita del danneggiato; il danno-conseguenza, costituito dalla diminuzione della sfera patrimoniale del danneggiato, segue gli ordinari criteri di liquidazione. Nella liquidazione del danno patrimoniale alla persona il giudice deve accertare in base alle prove fornite dall’attore danneggiato ed avvalendosi anche delle presunzioni semplici per il danno da invalidità permanente (che si proietta nel futuro) in quale misura la menomazione fisica o psichica abbia inciso sulla capacità di svolgimento della capacità lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità di guadagno (e quindi di produrre ricchezza). Ne deriva che il danno patrimoniale alla persona può essere liquidato soltanto quando si accerti, anche a mezzo di presunzioni semplici, che il singolo soggetto danneggiato, che agisce per il risarcimento per effetto del fatto lesivo alla sua integrità psico-fisica, subirà una perdita della sua specifica capacità futura di guadagno. (Cass. 3.5.1999, n. 4385, GCM, 1999, 996). La perdita della futura capacità di guadagno è l’aspetto fondamentale che viene in rilievo in materia di quantificazione del danno-conseguenza. La riduzione della cosiddetta capacità lavorativa specifica non costituisce danno in sé (danno-evento), ma rappresenta invece una causa del dano da riduzione di reddito (danno-conseguenza). Pertanto, una volta provata la riduzione della capacità di lavoro, non può ritenersi automaticamente e meccanicisticamente provata l’esistenza di un danno patrimoniale, ove il danneggiato non dimostri concretamente, anche per mezzo di presunzioni semplici, l’esistenza di una conseguente riduzione della capacità di guadagno. (Cass. 21.4.1999, n. 3961, GCM, 1999, 897). E’ agevolmente istituibile un parallelo tra la distinzione danno-evento/danno-conseguenza in relazione al danno biologico ed in relazione al danno all’ambiente. Il risarcimento del danno biologico tende a risarcire la violazione del diritto soggettivo individuale costituzionalmente tutelato alla salute (art. 32 Cost.); il risarcimento del danno ambientale tende a risarcire la violazione del diritto soggettivo individuale costituzionalmente tutelato all’integrità dell’ambiente (artt. 9, 32 e 1172 lett. s) Cost.). 40 Il danno biologico in quanto tale costituisce danno-evento a contenuto non patrimoniale ed è risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., mentre la riduzione della capacità di produrre reddito conseguente al danno biologico costituisce danno-conseguenza ed è risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.; il danno all’ambiente in quanto tale costituisce danno-evento a contenuto non patrimoniale ed è risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., mentre ogni danno emergente o lucro cessante immediatamente conseguente al danno all’ambiente costituisce danno-conseguenza ed è risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. In tale ottica, deve ritenersi che le ipotesi sopra esemplificativamente proposte in materia di refluenza patrimoniale del danno all’ambiente vadano qualificate, in accordo con la giurisprudenza prevalente, non già come ipotesi di danno all’ambiente a contenuto patrimoniale, ma come ipotesi di danno patrimoniale conseguente al danno ambientale. Ne consegue che, pur restando la lesione del diritto soggettivo individuale all’ambiente in quanto tale priva di contenuto patrimoniale e dunque risarcibile esclusivamente ai sensi dell’art. 2059 c.c., ogni riflesso patrimoniale negativo sulla sfera giuridica del singolo direttamente derivante dal danno ambientale, anche non costituente reato, è autonomamente risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. Diversa questione, che eccede i limiti del presente contributo e meriterebbe trattazione autonoma, è l’attualità della disciplina dell’art. 2059 c.c., che impedisce il risarcimento per la lesione non costituente reato di diritti costituzionalmente garantiti – in un sistema ove sono risarcite, indipendentemente dalla rilevanza penale della condotta, ormai numerosissime ipotesi, sempre in aumento, di interessi privati non costituzionalmente considerati – sol perché non ne riconosce un contenuto patrimoniale immediatamente apprezzabile. Come se la lesione – penalmente irrilevante, ma pur sempre lesione – di un diritto della persona, di un bene della vita così rilevante per l’essere umano da essere garantito dalla Costituzione possa ritenersi immeritevole di risarcimento sol perché la sua lesione non determina una diminuzione delle mere potenzialità reddituali del soggetto leso. Si tratta di una impostazione ideologica decisamente da riconsiderare nell’ottica dell’assetto costituzionale e ordinario della disciplina del risarcimento del danno alle soglie del terzo millennio. 2.3.2.5. Criteri di quantificazione del danno ambientale. La restitutio in integrum. Legislazione c.c. 1223; 1226; 2043; 2058; 2059. – l. 8.7.1986, n. 349 18. – l. 28.2.1985 n. 47 7. – l. 2.2.1974 n. 64 23. – d.p.r. 6.6.2001 n. 380 31. – d.l. 29.10.1999 n. 490 163. – d.l. 5.2.1997 n. 22 51; 51 bis. – l. 6.12.1991 n. 394 30. – d.l. 11.5.1999 n. 152 58. Una volta accertato che il danno alla fauna selvatica costituisce danno all’ambiente, e che tale danno è risarcibile autonomamente nei confronti dello Stato e degli enti territoriali in forza dell’art. 41 18 l. 8.7.1986, n. 349 ed è altresì risarcibile nei confronti dei singoli e delle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi, direttamente qualora consegua a condotta penalmente rilevante, solo in quanto sussista eventuale danno-conseguenza negli altri casi, mette conto soffermarsi brevemente sui criteri di quantificazione del danno medesimo. Per quanto riguarda lo Stato e gli enti territoriali, il fatto che il risarcimento del danno sia loro riconosciuto per legge principalmente in quanto tenuti a ripristinare l’ambiente naturale alterato dalla illecita violazione consente di ritenere che il danno vada quantificato con riferimento al complesso delle spese necessarie per il ripristino medesimo, da valutarsi tecnicamente caso per caso dal giudice e dai suoi ausiliari. Una simile conclusione deve tuttavia essere coordinata con altre norme vigenti in materia. L’art. 188 della l. 8.7.1986, n. 349 prevede che il giudice che riconosca il convenuto responsabile di danno ambientale, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile. La l. 28.2.1985 n. 47 – norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie – prevede, all’ultimo comma dell’art. 7, che “per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 17, lettera b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, come modificato dal successivo articolo 20 della presente legge, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita”. La l. 2.2.1974 n. 64 – provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche – prevede, all’ultimo comma dell’art.23, che “con il decreto o con la sentenza di condanna il pretore ordina la demolizione delle opereo delle parti di essecostruitein difformità alle norme della presente legge o dei decreti interministeriali di cui agli articoli 1 e 3, ovvero impartisce le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse, fissando il relativo termine”. Il DPR 6.6.2001 n. 380 – testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – prevede, all’ultimo comma dell’art. 31, che “per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita”, ed inoltre, all’art. 983, che “con il decreto o con la sentenza di condanna il giudice ordina la demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità alle norme del presente capo o dei decreti interministeriali di cui agli articoli 52 e 83, ovvero impartisce le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse, fissando il relativo termine”. 42 Il Decreto Legislativo 29.10.1999 n. 490 – testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997 n. 352 – prevede, al secondo comma dell’art. 163, che “con la sentenza di condanna viene ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato”. Il Decreto Legislativo 5.2.1997 n. 22 – attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio – prevede, al terzo comma dell’art. 51, che “alla sentenza di condanna o alla decisione emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale consegue la confisca dell’area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell’autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi”, ed al primo comma dell’art. 51 bis, che “chiunque cagiona l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento previsto dall’articolo 17, comma 2, è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno e con l’ammenda da euro 2.582 a euro 25.822 se non provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all’articolo 17”. La legge 6.12.1991 n. 394 – legge quadro sulle aree protette – prevede, al terzo comma dell’art. 30, che “in caso di violazioni costituenti ipotesi di reati perseguiti ai sensi degli artt. 733 e 734 c.p. può essere disposto dal giudice o, in caso di flagranza, per evitare l’aggravamento o la continuazione del reato, dagli addetti alla sorveglianza dell’area protetta, il sequestro di quanto adoperato per commettere gli illeciti ad essi relativi. Il responsabile è tenuto a provvedere alla riduzione in pristino dell’area danneggiata, ove possibile, e comunque è tenuto al risarcimento del danno”. Il Decreto Legislativo 11.5.1999 n. 152 – disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole – prevede, al primo comma dell’art. 58, che “chi con il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero deriva il pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22”. La previsione legislativa dell’obbligatorietà della condanna al ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile impone di verificare quale sia il limite del criterio di quantificazione del danno sopra indicato. 43 Se infatti si è sostenuto che la quantificazione del danno in favore dello Stato e degli enti territoriali va effettuata tenendo conto delle spese necessarie per il ripristino dell’ambiente, è evidente che laddove sia prevista la condanna del responsabile al ripristino a proprie spese, la condanna del medesimo responsabile anche al danno secondo il predetto criterio sfocerebbe in una indebita duplicazione del risarcimento. Deve dunque ritenersi che il criterio di quantificazione del danno nei confronti dello Stato e degli enti territoriali sia, in presenza di condanna al ripristino a spese del responsabile, da rinvenirsi negli ordinari criteri posti dagli artt. 1223 e 1226 c.c. Pertanto, laddove lo Stato o l’ente territoriale danneggiato possa provare di avere subìto un danno diverso da quello derivante dal mero obbligo di ripristino, quale ad esempio la sopravvenuta impossibilità di situare un centro per disabili o una riserva o un centro di ricerca nel sito ambientalmente rilevante, o il danno a strutture già esistenti, la quantificazione del danno avverrà secondo i criteri del danno emergente e del lucro cessante. Altrimenti, dovrà procedersi alla liquidazione secondo equità. Con riferimento al danno arrecato al diritto individuale all’ambiente dei singoli soggetti e delle formazioni sociali rappresentative di interessi diffusi, il discorso assume una duplice veste. Il danno patrimoniale – il danno-conseguenza sopra commentato – va risarcito secondo i medesimi criteri posti dagli artt. 1223 e 1226 c.c. Il danno non patrimoniale – ove risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. – va invece risarcito tenendo conto, mediante indagine da eseguirsi nel caso concreto, delle effettive sofferenze, dei reali patimenti sofferti dal singolo o dal gruppo di soggetti in conseguenza del danno all’ambiente, e pertanto in via equitativa. Il giudice dovrà dare conto, nella motivazione della sentenza, dei criteri adottati e dovrà procedere ad una quantificazione che non si riduca ad un simulacro di risarcimento ma costituisca una effettiva equa riparazione del danno subìto. In tale ipotesi, deve riconoscersi come i criteri di liquidazione equitativa del danno debbano ricollegarsi strettamente alla tematica del riflesso sulla persona umana dell’equilibrio ambientale. Come sopra esemplificato, l’equilibrio ambientale rappresenta per la persona umana – in diversa misura – un centro di riposo per le proprie ansie, di ispirazione per la propria sensibilità artistica, di ripristino delle proprie capacità compromesse dal periodo lavorativo, di ricongiungimento con i propri affetti. Si pensi all’ipotesi della persona che riconosca in un certo ambiente naturale le tracce della propria infanzia, che un determinato sito sia l’unico sistema al mondo che gli permetta di rientrare in contatto con il proprio passato di ricordare i propri genitori, i propri affetti del passato, i propri momenti di crescita. 44 Si tratta di momenti spiccatamente significativi per lo sviluppo, la crescita e l’equilibrio della persona umana, sicchè nella valutazione equitativa del danno vanno tenuti in gran conto. E’ evidente che l’alterazione definitiva o abbisognevole di lungo tempo per il ripristino dell’ambiente naturale cagiona la perdita definitiva o quasi totale di questa forma di godimento dell’ecosistema che contribuisce in misura notevole allo sviluppo della personalità umana, sicchè la quantificazione del danno in via equitativa, per non sfociare in un mero simulacro di riparazione, deve consistere nell’attribuzione al danneggiato di quanto necessario per ritrovare aliunde lo stesso genere di godimento. Dovranno pertanto ricomprendersi nella quantificazione del danno le spese necessarie per accedere ad altro ambiente naturale analogo o per attingere in altro modo le medesime forme di sviluppo della persona. In caso di condanna al ripristino dell’ambiente a spese del responsabile, appare inapplicabile l’art. 2058 c.c., dal momento che il risarcimento in forma specifica, coincidente con il ripristino dello status quo ante, viene autonomamente ordinato dal giudice. Qualora invece si versi in ipotesi in cui la condotta non ricada in alcuno degli àmbiti normativi che contemplano il dovere del giudice di ordinare con la sentenza di condanna il ripristino medesimo, deve ritenersi che il danneggiato nel proprio diritto all’ambiente possa legittimamente richiedere al giudice di pronunziare il risarcimento in forma specifica, costituito dal ripristino dell’ambiente naturale, a cura e spese del responsabile. In tale ipotesi, il giudice potrà denegare il risarcimento in forma specifica esclusivamente ove lo ritenga eccessivamente oneroso per il debitore rispetto al risarcimento per equivalente. 3. I danni cagionati dalla fauna selvatica. Legislazione c.c. 2043; 2052 – l. 11.2.1992, n. 157. La fauna selvatica, consistendo in popolazioni di animali in istato di naturale libertà, può in talune ipotesi arrecare danni patrimoniali. L’ipotesi tipica e maggiormente ricorrente di danni cagionati dalla fauna selvatica consiste nel danno ai terreni ed alle colture, di proprietà di privati, causati dal passaggio o dalla sosta di animali selvatici sugli stessi. Ricorre inoltre il caso in cui gli animali arrechino danni ai veicoli in transito. La realtà offre poi altri esempi meno frequenti. Che si tratti di danni patrimoniali, risarcibili ai sensi degli artt. 2043 e seguenti del codice civile non appare revocabile in dubbio, dal momento che il diritto assoluto di proprietà sui terreni e sulle eventuali colture ha contenuto indiscutibilmente patrimoniale. 45 3.1. I soggetti obbligati al risarcimento. Legislazione c.c. 2043; 2052 – l. 11.2.1992, n. 157. Deve pertanto preliminarmente verificarsi l’identità dei soggetti titolari dell’obbligo del risarcimento, titolari della legittimazione passiva rispetto all’azione di risarcimento del danno. Poiche' a norma degli artt. 5, 6, e 15 della legge 27 dicembre 1977 n. 968 le regioni esercitano le funzioni amministrative in materia di caccia, predispongono piani annuali o pluriennali che prevedano, tra l'altro, oasi di protezione destinate al rifugio, alla riproduzione, ed alla sosta della fauna selvatica, nonche', provvedono alla gestione sociale del territorio, passivamente legittimata rispetto all'azione di risarcimento dei danni derivanti a terzi dalla violazione delle norme relative alla istituzione delle oasi di protezione della fauna selvatica, e' la regione, anche se abbia delegato i relativi poteri alla provincia, in quanto delega non fa venir meno la titolarita' di tali poteri e deve essere esercitata nell'ambito delle direttive dell'ente delegante. (Cass. 1.8.1991, n. 8470, MCC, riv. 473354). La Regione assume dunque anche la titolarità dell’obbligo in quanto effettiva titolare del potere-dovere di gestione. Sebbene la fauna selvatica rientri nel patrimonio indisponibile dello Stato, la legge 11 febbraio 1992 n. 157 affida alle Regioni i poteri di gestione, tutela e controllo di essa. Ne consegue che la Regione, in quanto obbligata ad adottare tutte le misure idonee ad evitare che la fauna selvatica arrechi danni a terzi, e' responsabile ex art. 2043 cod. civ. dei danni cagionati da un animale selvatico ai veicoli in circolazione. (Cass. 13.12.1999, n. 13956, MCC, riv. 532111). E’ agevole notare come la Suprema Corte privilegi, rispetto alla proprietà della fauna selvatica nel suo complesso – che come in precedenza argomentato costituisce bene patrimoniale indisponibile di proprietà dello Stato –, il profilo concessorio, osservando come una volta delegata alla Regione la gestione della fauna sia quest’ultima, e non più lo Stato proprietario, a rispondere dei danni da essa arrecati a terzi. L’orientamento della Suprema Corte appare istituire una deroga al generale principio che informa la disciplina degli artt. 2048, 2049, 2054 e 2055 c.c., in virtù del quale dovrebbe ritenersi che lo Stato, proprietario della fauna, e la Regione, concessionario della gestione, rispondano in solido dei danni arrecati a terzi dalla fauna medesima, salvo il diritto dello Stato, che abbia pagato o il cui patrimonio sia stato comunque escusso dal creditore, al regresso nei confronti della Regione inadempiente. La questione assume tuttavia scarso rilievo pratico, dal momento che la Regione, al pari dello Stato, è normalmente un debitore solvibile. 3.2. I privati titolari del potere-dovere di gestione della fauna selvatica. Legislazione c.c. 2043; 2052 – l. 11.2.1992, n. 157. 46 L’orientamento in parola assume poi rilevanza in relazione a terzi occasionalmente titolari del potere-dovere di gestione di gruppi di esemplari di fauna selvatica. In tema di responsabilita' civile, il titolare di un'azienda faunistica venatoria nella regione Umbria non e' tenuto al risarcimento dei danni causati alle colture in atto all'interno del territorio dell'azienda dalla presenza di selvaggina - nella specie cinghiali - non immessavi dallo stesso, ma autonomamente presente sul territorio, essendo il concessionario dell'azienda tenuto, in base al sistema normativo ricavabile dagli artt. 2, 8, 15 e 25 della legge regionale dell'Umbria 2 luglio 1986 n. 21, a rispondere per i danni arrecati dalla selvaggina oggetto della concessione e non da quella estranea, giacche' solo sul proliferare della prima egli mantiene specifiche possibilita' di intervento. (Cass. 28.3.1997, n. 2809, MCC, riv. 503395). Il titolare dell’azienda faunistico-venatoria, deve intendersi dalla lettura a contrariis del principio posto dalla giurisprudenza, è invece responsabile dei danni arrecati a terzi dalla fauna oggetto della concessione. Anche in tal caso, pertanto, la soluzione privilegiata dalla Suprema Corte non è già quella della solidarietà passiva, ma bensì della responsabilità esclusiva del titolare dell’azienda faunistica per la fauna concessagli in gestione. Il concetto, che costituisce il fil rouge che pervade l’orientamento giurisprudenziale in discorso, secondo il quale la responsabilità per i danni cagionati dalla fauna selvatica grava sul soggetto che ne sia il formale gestore, ha posto il dubbio circa la norma applicabile al risarcimento del danno, dal momento che l’art. 2052 c.c. prevede la responsabilità del proprietario o dell’usuario dell’animale per i danni da questo cagionati, anche in caso di smarrimento o fuga di esso, salvo il caso fortuito. La giurisprudenza ha negato la condivisibilità di una simile ricostruzione. Il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della legge 27 dicembre 1977 n. 968 appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non e' risarcibile in base alla presunzione stabilita nell'art. 2052 cod. civ., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilita' extracontrattuale di cui all'art. 2043 cod. civ., anche in tema di onere della prova. (Cass. 15.3.1996, n. 2192, MCC, riv. 496375). Il fulcro della questione risiede nella oggettiva materiale impossibilità per il proprietario della fauna selvatica di gestirla e controllarla alla stregua di un animale in custodia. Il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della legge 27 dicembre 1977 n. 968 appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non e' risarcibile in base alla presunzione stabilita nell'art. 2052 cod. civ., inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di liberta' e' incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione, ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilita' extracontrattuale di cui all'art. 2043 cod. civ., anche in tema di onere della prova. (Cass. 14.2.2000, n. 1638, MCC, riv. 533850). 47 La Suprema Corte ha ancora una volta eseguito un distinguo nei confronti della pubblica amministrazione rispetto alle generali categorie giuridiche che presiedono al risarcimento dei danni, osservando come, per il peculiare stato di libertà che contraddistingue per definizione la fauna selvatica, nessun obbligo di custodia può ritenersi sussistente a carico della pubblica amministrazione, sicchè non trova applicazione la disciplina di cui all’art. 2052 c.c. La pubblica amministrazione, in tale materia, ha una posizione di fatto singolare. Il proprietario pubblico della fauna selvatica non risponde dei danni da essa arrecati in solido con il gestore. Il gestore-concessionario pubblico, a sua volta, non risponde in solido con colui al quale abbia affidato la gestione di alcuni gruppi o categorie di esemplari. Tutti questi soggetti, comunque, non rispondono ai sensi della generali disciplina del danno cagionato da animali dal momento che, pur essendone rispettivamente proprietari e gestori, non ne hanno l’obbligo di custodia. E’ evidente che l’orientamento giurisprudenziale si spiega avendo riguardo alla necessità di tutelare la fauna selvatica – ascrivendone la proprietà allo Stato e la gestione alla Regione e, quatenus opus, agli altri enti territoriali – senza per ciò determinare, per converso, l’insorgere di conseguenze eccessivamente negative nei confronti della pubblica amministrazione proprietaria e addetta alla gestione della fauna medesima. Vero è, d’altronde, che in concreto la naturale libertà che deve contraddistinguere la fauna selvatica è concettualmente incompatibile con l’obbligo di custodirne gli esemplari, sicchè appare condivisibile la responsabilità patrimoniale correlata al mero obbligo di buona gestione della fauna nel suo complesso da parte del soggetto, pubblico o privato, che di tale obbligo sia formalmente investito. Si è poi lungamente dibattuto in giurisprudenza circa la natura di diritto o di interesse legittimo della posizione soggettiva del titolare del fondo danneggiato dalla fauna selvatica. Nella disciplina dei Parchi nazionali (nella specie, quella del Parco d'Abruzzo, di cui alla legge n. 1511 del 1923 ed al relativo regolamento di cui al Regio Decreto n. 2124 del 1923, estesa al Parco dei Monti Sibillini con legge n. 67 del 1988), avente, tra l'altro, la funzione di migliorare e tutelare la fauna, costituendo il territorio dei parchi a riserva di caccia e di pesca, la posizione del proprietario di un fondo incluso in detto territorio, per i danni che riceva dal moltiplicarsi degli animali selvatici non suscettibili di abbattimento, non ha natura di diritto soggettivo e non e', quindi, tutelabile con azione risarcitoria davanti al giudice ordinario, con la conseguenza che le controversie aventi ad oggetto la compensabilita' (non risarcibilita') dell'indicato pregiudizio rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo. (Cass. SS.UU. 23.11.1995, n. 12106, MCC, riv. 494770). Diversa impostazione ermeneutica ha seguito altra giurisprudenza. La qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo delle posizioni giuridiche configurabili a favore degli interessati relativamente ai ristori conseguibili per i pregiudizi arrecati dalla fauna selvatica alle colture agricole non e' automaticamente correlata alla ubicazione - all'esterno o all'interno delle zone di protezione - dei fondi danneggiati, e deve invece attribuirsi essenziale rilievo al concreto atteggiarsi della disciplina positiva. In applicazione di tale criterio, deve riconoscersi la natura di diritto soggettivo - comportante la giurisdizione del giudice ordinario - alla 48 pretesa al risarcimento dei danni provocati alle coltivazioni dalla fauna selvatica nell'ambito del Parco lombardo della Valle del Ticino, fondata sull'art. 15 della "legge - quadro" sulle aree protette n. 394 del 1991, che prevede, senza margini di discrezionalita', l'obbligo dell'ente parco di indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del parco nel termine di novanta giorni dal loro verificarsi; ne' portata diversa e' attribuibile all'art. 22, comma sesto, della legge regionale della Lombardia n. 33 del 1980 (norme di attuazione del piano territoriale di coordinamento del parco del Ticino), che, nel disciplinare l'aspetto di finanza pubblica (prevedendo finanziamenti regionali), ribadisce l'obbligo del Consorzio di risarcire i danni arrecati dalla selvaggina alle colture all'interno della fascia di silenzio venatorio. (Cass. SS.UU. 30.12.1998, n. 12901, MCC, riv. 521975). Così pure si è ritenuto in materia di indennizzo concesso da leggi regionali. L'art. 5, primo comma, della legge regionale del Piemonte 24 Aprile 1985, n. 46, novellando l'art. 6 della precedente legge regionale 4 Giugno 1975, n. 43 - il quale prevedeva che le leggi istitutive dei parchi e delle riserve naturali avrebbero fissato "la misura e le modalita' degli indennizzi ai proprietari delle aree soggette a vincolo" - ha lasciato alle predette leggi solo la disciplina del procedimento amministrativo di liquidazione delle indennita' , ed ha individuato direttamente il parametro di tale liquidazione, per tutti i vincoli imposti, nel ristoro dell'effettivo danno subito. Ne consegue che il diritto soggettivo dei proprietari dei terreni inclusi nella riserva, all'indennizzo e', alla stregua della nuova disciplina, immediatamente azionabile (a differenza che nel regime previgente, nel cui vigore esso era condizionato alla determinazione dei parametri di ristoro), restando solamente da accertare se, per effetto dei predetti vincoli, il fondo incluso, con riguardo alle utilita' da esso ritratte o ragionevolmente ritrattabili, abbia effettivamente subito un decremento del valore venale che aveva precedentemente alla inclusione nella riserva, e di quale entita'. (Cass. SS.UU. 7.4.1999, n. 3346, MCC, riv. 525001). Ma anche tale orientamento è suscettibile di diverse letture. In applicazione della legge Regione Puglia 15 giugno 1994, n. 20, attuativa della legge statale 11 febbraio 1992, n. 157, e dell'art. 49 legge Regione Puglia 27 febbraio 1984 (richiamato dalla legge n. 20 del 1994) - il quale tra l'altro dispone che ciascuna provincia istituisce un fondo al fine di indennizzare i conduttori di aziende agricole che ne facciano richiesta documentata, e che il consiglio regionale regolamenta l'utilizzazione ed il funzionamento dei fondi stessi -, le erogazioni in favore dei proprietari dei fondi danneggiati dalla fauna selvatica costituiscono "indennizzo" e non "risarcimento del danno". Pertanto la posizione del proprietario che fa valere l'esistenza di un danno ha consistenza di interesse legittimo, con la conseguente giurisdizione sulla controversia del giudice amministrativo. (Cass. SS.UU. 10.8.2000, n. 559, MCC, riv. 539389). Indipendentemente dalla individuazione della maggiore o minore condivisibilità dell’uno o dell’altro orientamento (il fatto che il regolamento di giurisdizione sia rimesso per legge alle Sezioni Unite della Suprema Corte determina la conseguenza per cui tutte le sentenze che si occupano della qualificazione della posizione soggetti azionata in giudizio come diritto soggettivo od interesse legittimo sono tutte pronunziate dalle Sezioni Unite, di guisa che è complesso individuare un criterio di prevalenza, se non ricorrendo alla maggiore frequenza e prossimità cronologica dell’uno o dell’altro orientamento), la questione dovrebbe ritenersi superata dalla pronunzia, nel 1999, della sentenza n. 500 delle Sezioni Unite della Suprema Corte. La normativa sulla responsabilita' aquiliana ex art. 2043 cod. civ. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato "non iure", il danno, cioe', inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato dall'art. 2043 cod. civ., non e' possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela: spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di 49 comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensita', l'ordinamento appresta tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione. Ne consegue che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, puo' essere fonte di responsabilita' aquiliana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell'attivita' illegittima della P.A., l'interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. (Cass. SS.UU. 22.7.1999, n. 500, MCC, riv. 530553). La Suprema Corte ha pertanto precisato, in una sentenza che coscientemente e deliberatamente (come leggesi nella motivazione, non pedissequamente qui trascrivibile) opera una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto al precedente orientamento delle Sezioni Unite, che nel moderno assetto della disciplina del risarcimento del danno, laddove il riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo non è più fondato sulla tipologia della posizione giuridica soggettiva attivata, ma sulla materia del contendere, non può più trovare cittadinanza alcun dubbio circa la risarcibilità dell’interesse legittimo o di altro interesse non qualificabile come diritto soggettivo ma ciononostante riconosciuto come rilevante e tutelato dall’ordinamento. La Suprema Corte ha dunque statuito, con motivazione tanto più apprezzabile e convincente in quanto articolata e congrua rispetto ai motivi del mutamento di orientamento in relazione alle diffuse argomentazioni della dottrina ed alla situazione di fatto della legislazione in materia di risarcimento delle varie tipologie di anno offerte dall’esame della realtà e tutelate dall’ordinamento, che la lesione di qualsivoglia interesse, purchè riconosciuto e tutelato dall’ordinamento – circostanza in ordine alla quale il giudice ha il dovere di eseguire approfondita e puntuale indagine caso per caso –, è suscettibile di dare luogo ad un danno ingiusto, in quanto non iure, contrario al diritto oggettivo, indipendentemente dalla qualificazione soggettiva che la posizione soggettiva violata dalla condotta dannosa assuma. In tale ottica, perde significato il dibattito circa la natura di diritto soggettivo od interesse legittimo dell’interesse del proprietario del fondo danneggiato dalla fauna selvatica ad ottenere il risarcimento del danno. Altra e diversa questione, naturalmente, si pone nel caso in cui il proprietario del fondo agisca non già per ottenere il risarcimento del danno, ma bensì per richiedere un indennizzo previsto dalla legge, nel qual caso è di tutta evidenza che l’azione non va qualificata come azione di risarcimento danni ma come domanda rivolta alla pubblica amministrazione per il riconoscimento di un emolumento previsto per legge, nel qual caso si verte senz’altro in tema di interesse legittimo, ma non di lesione dell’interesse legittimo medesimo, di guisa che la vicenda è del tutto estranea alla materia del risarcimento del danno. 50 In relazione alla quantificazione del danno cagionato dalla fauna selvatica, sono applicabili ordinariamente le norme che presiedono alla disciplina civilistica del risarcimento del danno. 51